Ma quale indulto, i fatti smentiscono le suggestioni giustizialiste di Ardita di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 aprile 2024 Le critiche del magistrato, in commissione Giustizia, alla proposta di legge sulla liberazione anticipata sono sconfessate dagli effetti del decreto Cancellieri per decongestionare le carceri dopo la sentenza Torreggiani. Sentito in audizione presso la commissione Giustizia, per volere del Movimento Cinquestelle il magistrato Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Catania, ha affermato sostanzialmente due questioni in merito alla proposta di legge sulla liberazione anticipata: si tratta di un provvedimento finalizzato a lanciare dei messaggi ai detenuti potenti (poi - grazie alla domanda posta da Roberto Giachetti, il promotore della legge - ha dovuto precisare che non si riferiva a messaggi verso i mafiosi) e che soprattutto è una norma che di fatto regala la libertà a chi si è macchiato di reati con pena elevata. Anche se, nel contempo, ammette che si tratta di reati dove le pene sono esagerate e che mettono in imbarazzo i giudici nell’erogarle. Secondo Ardita, questo provvedimento sarebbe un vero e proprio indulto, quindi un regalo da parte dello Stato e che butterebbe a mare il lavoro dei tribunali e che si assumerebbe il rischio di reati che, statisticamente, sarebbero stati commessi dopo provvedimenti di tipo indultorio. In realtà, le parole di Ardita non sono nuove. Quando, a seguito della sentenza Torreggiani, il governo è stato costretto a rimediare attraverso anche l’istituzione della libertà anticipata speciale (il decreto Cancellieri), lo stesso Ardita disse testualmente: “Si parla di un indulto mascherato, è peggio. L’indulto opera in maniera generalizzata, uguale per tutti. Invece, con il meccanismo previsto dal decreto- legge, lo sconto cresce con il crescere della pena e, non essendovi sbarramento, vi è la possibilità di far uscire i soggetti più pericolosi sul piano criminale”. Oggi, rinnova le stesse obiezioni. Quindi abbiamo un precedente. Il decreto Cancellieri è stato devastante? Ha creato allarme sicurezza? Lo Stato ha ceduto chissà a quale potente detenuto? La risposta è no. Ma prima bisogna premettere che è assolutamente falso paragonarlo a un indulto. Non è corretto fare questo paragone. L’indulto è una misura di clemenza rivolta a tutti, a prescindere dal comportamento tenuto da parte del detenuto. La liberazione anticipata (sia normale che speciale) è uno strumento collegato alla verifica delle modalità con le quali il detenuto si è comportato durante il periodo di detenzione e nel caso in cui abbia effettivamente dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione. Paragoni del genere sono, quindi, fuorvianti. Si tratta di un regalo, o un cedimento dello Stato? Forse ci dimentichiamo che per uno Stato di Diritto, la proposta di legge presentata da Roberto Giachetti di Italia Viva, è innanzitutto una sorta di imperativo morale, in considerazione delle condizioni irrispettose della dignità umana nelle quali il sovraffollamento costringe migliaia di detenuti nei nostri istituti penitenziari, dove abbiamo raggiunto un numero esorbitante di suicidi in pochissimi mesi. Tale proposta è anche un obbligo costituzionale: gli articoli 2 e 27 della Costituzione impongono la tutela inderogabile della dignità dell’uomo, anche quando privato della libertà personale. Per finire si tratta di un atto politicamente necessario per la condizione che altrimenti il nostro Paese verrebbe ad assumere sul piano internazionale; ed è un atto quanto mai opportuno anche dal punto di vista economico, in considerazione dei costi che altrimenti si dovrebbero affrontare. Forse Ardita non è al corrente che a causa del sovraffollamento persistente da tempo, diversi detenuti hanno ottenuto dei risarcimenti. Sono soldi dei contribuenti a causa di uno Stato che non riesce a garantire i requisiti minimi. Del resto, che la mancanza di uno spazio vitale all’interno della cella sia una situazione in grado di determinare un pregiudizio grave e attuale ai diritti del detenuto è riconosciuto non solo da una cospicua giurisprudenza della Corte europea, ma anche dalla nostra Corte costituzionale. Vediamo gli effetti del decreto Cancellieri. Se nel 2013, alla data della sentenza Torreggiani, le persone detenute superavano le 62mila unità (62.536), negli anni successivi si è andati verso un progressivo decongestionamento degli Istituti: 53.623 nel 2014 e 52.164 nel 2015. Nel 2016 tuttavia questo trend si è modificato con un leggero aumento delle presenze. A dicembre 2015, infatti, era scaduta la misura temporanea della liberazione anticipata speciale che aveva aumentato per cinque anni lo sconto di pena concesso ai detenuti che partecipano all’opera di rieducazione, facendolo passare da 45 giorni ogni sei mesi di pena espiata a 75 giorni. In quel quinquennio risulta che ci sia stato un aumento dei reati a causa dello strumento deflattivo? Basterebbe prendere i dati Istat relativi al biennio 2014- 2015. Il quadro nazionale è chiaro. Leggiamolo: “Se negli ultimi anni molti reati di tipo predatorio hanno visto aumentare il loro numero, così come i corrispettivi tassi sulla popolazione, nel 2015 si osservano segnali di flessione per molti dei reati considerati. È il caso dei furti in abitazione, degli scippi, dei borseggi e dei furti nei negozi, così come delle rapine in abitazione e in strada. Anche altre tipologie di delitti mostrano un trend in diminuzione: è il caso degli omicidi e dei tentati omicidi, delle rapine in banca o dei furti di veicoli, delle violenze sessuali denunciate”. Quindi, rispetto agli anni dove i detenuti dovevano stare rinchiusi, senza se e senza ma, nelle carceri con spazi da allevamento intensivo, con l’introduzione della liberazione anticipata speciale, i reati contro la pubblica amministrazione e contro la persona, erano in diminuzione. Riassumiamo. Il provvedimento proposto da Giachetti non è un indulto, non fa uscire in maniera indiscriminata tutti, non favorisce i più forti e soprattutto non mette a rischio la sicurezza. Fortunatamente Ardita, ha dovuto precisare, su sollecitazione del deputato di Italia Viva, che il provvedimento non è un messaggio ai mafiosi, perché non ne ha le prove. Ma aggiunto che “la storia dei rapporti tra il mondo pubblico e quello della popolazione detenuta è fatta anche di messaggi di questo genere, di rassicurazione, quindi non sono cose campate per aria”. Anche questo non è vero. Non è stata varata nel passato alcuna legge volta a riassicurare i boss detenuti. Sono solo suggestioni, all’epoca utili per corroborare tesi giudiziarie sconfessate dalle sentenze definitive. Basti pensare al non rinnovo del 41 bis nei confronti di circa 300 soggetti, di cui poco meno di una decina erano mafiosi (tra l’altro di basso rango): decisione presa dall’allora ministro della giustizia Conso, a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale. Se non l’avesse fatto, il 41 bis sarebbe caduto. La Consulta disse che era costituzionale, ma solo se applicato caso per caso e non in maniera generalizzata. I fatti sono questi. Le dietrologie, invece, molto spesso sono funzionali a uno Stato di Polizia. Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, tra i promotori del provvedimento, ha commentato duramente: “Ciò che sorprende di Ardita - nella sua deriva giustizialista versione “cinquestellina” degli ultimi anni - è che a lui non gliene frega niente di uno Stato Criminale che tiene in ostaggio decine di migliaia di detenuti in condizioni “disumane e degradanti”, per lui si fottano i detenuti e se si suicidano in un numero mai visto, chissenefrega. Se a delinquere è lo Stato, va tutto bene. Se lo Stato si comporta come un delinquente professionale (definizione di Marco Pannella) Ardita non ha niente da dire”. Ostellari: “Ma noi diciamo: i cittadini chiedono anche più sicurezza” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 18 aprile 2024 “Il numero delle denunce non è il solo indicatore affidabile”, dichiara Andrea Ostellari, Sottosegretario leghista alla Giustizia, commentando le statistiche del ministero dell’Interno, confluite in un recente rapporto dell’Eurispes, che descrivono un loro calo pari a circa il 24 percento nell’ultimo decennio. “Abbiamo 61.000 detenuti e 120.000 soggetti in misura alternativa. Una cifra spropositata che dimostra anzitutto e al di là del numero delle denunce, che le condanne, e quindi i reati effettivi, sono esponenzialmente aumentati”. Sottosegretario Ostellari, non concorda sul fatto che i delitti siano in diminuzione in maniera costante da tempo e che quindi l’Italia si possa definire un Paese sostanzialmente “sicuro”? Le denunce costituiscono il primo atto di un procedimento, a volte per iniziativa di parte, cioè del soggetto offeso, altre volte per iniziativa d’ufficio. Questo procedimento può portare anche ad archiviazioni e assoluzioni. Non necessariamente a condanne. Dire allora che i delitti sono diminuiti perché sono diminuite le denunce di reato è, di per sé, scorretto, perché una denuncia non fa un reo. Tranne che nelle conclusioni dei giustizialisti più radicali o nelle dittature. E poi non sempre le persone che sono rimaste vittime di un reato, pensiamo ad esempio di un piccolo furto, vanno a fare denuncia alla polizia o ai carabinieri... Infatti. Quello è un altro tema da considerare. Colgo l’occasione di questa intervista per invitare tutti cittadini in caso subiscano un reato a denunciarlo. Bisogna avere fiducia nello Stato e nel sistema giustizia. In estrema sintesi, non è proprio possibile fare un rapporto fra il numero delle denunce e il sovraffollamento carcerario? Guardi, il mio ragionamento a proposito del sovraffollamento (dovuto alla moltiplicazione dei crimini, ndr) penso sia chiaro e si riferisce al numero dei condannati dal 2012 ad oggi. Allora il nostro sistema dell’esecuzione penale pativa un grave problema di sovraffollamento, con più di 65.000 persone recluse e meno di 30.000 in regime di misura alternativa. In quel periodo, ricordiamo, il nostro Paese venne anche condannato dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo con la nota sentenza Torreggiani... Infatti. Dopo dodici anni le carceri rischiano adesso di avvicinarsi agli stessi livelli di allora, con una media di circa 61.000 detenuti nelle ultime settimane. A questi vanno aggiunti circa 120.000 soggetti in misura alternativa. Una cifra spropositata rispetto a quella del 2012, che dimostra anzitutto e al di là del numero delle denunce, che le condanne, e quindi i reati effettivi, sono esponenzialmente aumentati. Quindi, anche se le denunce, come dice il ministero dell’Interno, diminuiscono, i detenuti sono in carcere perché i reati sono aumentati? Questo è il dato. Non è solo un tema di percezione, dobbiamo fare i conti con la realtà. Quindi facciamoli. Quando si discute di come risolvere il sovraffollamento dei penitenziari non si può considerare solo il numero dei reclusi. Va fatto un ragionamento di sistema. Cosa ha in mente di fare al riguardo il governo? Il nostro Paese sta investendo molto sulle misure alternative, ma ciò non basta perché, come abbiamo visto, sono aumentati i condannati. Come uscirne? Ci dovrà pur essere una soluzione... Creando strutture esterne che garantiscano davvero percorsi rieducativi per chi ha già dimostrato una buona condotta o compiuto un reato meno grave, e che, se inserito nella società dopo un valido trattamento, non tornerà a delinquere, interrompendo quella crescita di delitti che è evidente dall’analisi dei dati. Ha pensato a qualche istituto nuovo in chiave deflattiva? Penso si possano immaginare delle comunità educanti territoriali, riconosciute e inserite in un albo nazionale, che garantiscano il rispetto di un programma di recupero serio, senza sconti di pena, da svolgersi in questo nuovo contesto. C’è però un fatto su cui non si può non riflettere. Da anni, tutti i governi, di ogni colore, si muovono per creare sempre nuove fattispecie di reato. Ma non solo. Si aumentano, e di molto, le pene per quelli già esistenti. Con le prevedibili conseguenze dal punto di vista dell’inevitabile crescita della popolazione detenuta. Non sarebbe il caso, dunque, di pensare ad una seria ed efficace depenalizzazione? L’abuso d’ufficio lo stiamo cancellando, come pure stiamo rimodulando le pene previste per altri reati e introducendo una disciplina più garantista. È pur vero, tuttavia, che gli italiani ci hanno votato anche per avere più sicurezza. I vostri elettori non capirebbero? Depenalizzare per scarcerare chi ha compiuto reati o cancellare delle fattispecie solo per combattere il sovraffollamento degli istituti sarebbe come tradire il mandato ricevuto. È costato 28 milioni (nel 2023) risarcire gli innocenti in cella di Angela Stella L’Unità, 18 aprile 2024 Primo in classifica il distretto di Reggio Calabria con oltre 8 milioni sborsati. Sette in totale le azioni disciplinari verso le toghe, tutte ancora in corso. I dati della relazione al Parlamento su misure cautelari e ingiusta detenzione. Pubblicata con due mesi e mezzo di ritardo rispetto al 31 gennaio la Relazione al Parlamento relativa alla “Misure Cautelari Personali e Riparazione per Ingiusta Detenzione” riferita all’anno 2023. Nel 2015 fu un emendamento dell’onorevole di Azione Enrico Costa ad introdurre il monitoraggio parlamentare anche sul ricorso alla custodia cautelare. Va sottolineato che come sempre non tutti gli uffici giudiziari hanno inviato i dati richiesti: “La percentuale di risposta dei Tribunali (sezioni GIP e sezioni dibattimentali) interessati al monitoraggio è stata dell’89%”. Ma vediamo ai dati. Custodia cautelare: sono stati messi a confronto i dati dal 2018 al 2023. Se nel 2018 le misure cautelari emesse in carcere erano state 31970 ed erano gradualmente diminuite fino al 2021 arrivando a 24126, notiamo un leggero rialzo nell’ultimo biennio: 24654 nel 2022 e 24746 nel 2023. “Le misure cautelari custodiali (carcere - arresti domiciliari - luogo cura) costituiscono quasi il 57% di tutte le misure emesse, mentre quelle non custodiali (le restanti) ne costituiscono circa il 43%; una misura cautelare coercitiva su tre emesse è quella carceraria (32%), mentre una misura cautelare coercitiva su quattro è quella degli arresti domiciliari (25%)”. Inoltre i 3/4 circa di tutte le misure cautelari previste dall’ordinamento vengano emessi dalle sezioni GIP, mentre solo il restante 1/4 venga emesso dalle sezioni Dibattimentali. Il GIP utilizza la misura carceraria con elevata frequenza (34,3%), che risulta quasi doppia rispetto a quella utilizzata dal giudice dibattimentale (18,4%). Sempre in riferimento all’anno 2023 per il Tribunale di Napoli la custodia cautelare in carcere raggiunge livelli particolarmente elevati (51,1%), rappresentando di gran lunga lo strumento più utilizzato, insieme, a seguire, agli arresti domiciliari senza braccialetto (25,6%). Ingiuste detenzioni: la serie storica del numero dei procedimenti sopravvenuti negli anni 2018-2023 mostra una sostanziale stabilità, ad eccezione forse dell’anno 2020 per il quale si registra il valore più contenuto. Nel 2023 si sono definiti 1120 procedimenti per ingiusta detenzione e le ordinanze di pagamento sono state 619. Nel 2022 furono le ordinanze furono 539. Pertanto assistiamo ad un leggero aumento. La percentuale di accoglimento nello scorso anno è del 48,5%, quella di rigetto del 45,2%. Tra il 2018 e il 2023 il 72,2% delle domande sono state accolte a seguito di sentenza di assoluzione, proscioglimento, archiviazione, quindi per accertata estraneità della persona ai fatti contestati. Mentre per illegittimità delle ordinanze di custodia cautelare, secondo l’articolo 314 cpp, la percentuale è vicina al 28%. Entità economica della riparazione per ingiusta detenzione: i dati sono quelli del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Nel 2023 lo Stato ha speso 27.844.794 milioni di euro. Nel 2022 erano stati 27.378.085. Quindi si registra un piccolo aumento. Il distretto dove vengono sborsati più indennizzi è quello di Reggio Calabria con 8.019.396, seguito da Palermo con 3.845.580, e da Roma con 2.626.240. I procedimenti disciplinari: nell’anno 2023 sono state promosse sette azioni disciplinari di cui quattro dal PG presso la Cassazione e tre dal Ministro della Giustizia. Sono tuttavia tutte ancora in corso, quindi non si possono conoscere gli esiti. I commenti: “A tutti quegli esponenti della maggioranza che si lamentano che il magistrato che sbaglia non paga mai, consiglierei di leggere la relazione del Ministero della Giustizia sulle misure cautelari e sull’ingiusta detenzione da cui emerge la totale l’inerzia in via Arenula”. Così Enrico Costa, deputato di Azione, che ha aggiunto: “Emerge un quadro sconfortante: dal 2018 al 2023 sono state risarcite dallo Stato ben 4.368 persone ingiustamente arrestate, per una somma complessiva di 193.547.821. Ma paga solo lo Stato perché di fronte a questi numeri, dal 2017 al 2023 sono state avviate 87 azioni disciplinari con il seguente esito: 44 non doversi procedere, 27 assoluzioni, 8 censure, 1 ammonimento, 7 ancora in corso. I magistrati non pagano mai sul piano disciplinare. Cosa ha fatto questo Governo? Di azioni disciplinari su casi di ingiusta detenzione ne sono state avviate dal Ministero della Giustizia 1 (una) nel 2022 e 3 (tre) nel 2023 (anni in cui complessivamente si sono pagati oltre 50 milioni di euro di riparazioni per ingiusta detenzione). Praticamente nulla per un Governo sedicente garantista, se pensiamo che Bonafede ne aveva avviate 22 nel 2019 e 19 nel 2020. Anche questa - conclude Costa - è una conseguenza di aver messo il Ministero della Giustizia nelle mani dei magistrati fuori ruolo”. Secondo i giornalisti Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, fondatori dell’Associazione Errorigiudiziari.com, “per avere una prima idea di quanti sono gli errori giudiziari in Italia vale la pena di mettere insieme sia le vittime di ingiusta detenzione sia quelle di errori giudiziari in senso stretto. Dal 1991 al 31 dicembre 2023 i casi sono stati 31.397: in media, poco più di 951 l’anno (nota bene: in questo totale manca il dato complessivo degli errori giudiziari del 2023). Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 960 milioni 781 mila euro e spiccioli, per una media di poco inferiore ai 29 milioni e 114 mila euro l’anno (e anche in questo caso, non è disponibile il dato complessivo per la spesa in risarcimenti da errori giudiziari del 2023)”. Ingiusta detenzione, in 30 anni quasi un miliardo in risarcimenti di Valentina Stella Il Dubbio, 18 aprile 2024 Con una media di circa mille casi l’anno, la relazione del ministro Nordio conferma il trend degli errori giudiziari in Italia. Ma nessuna toga viene punita. La sintesi politica non poteva non farla il responsabile giustizia di Azione, Enrico Costa: “A tutti quegli esponenti della maggioranza che si lamentano che il magistrato che sbaglia non paga mai, consiglierei di leggere la relazione del Ministero della Giustizia sulle misure cautelari e sull’ingiusta detenzione da cui emerge la totale l’inerzia in via Arenula”. È solo la prima parte di un commento molto critico del parlamentare sulla Relazione al Parlamento relativa alla “Misure Cautelari Personali e Riparazione per Ingiusta Detenzione” riferita all’anno 2023. Nel 2015 fu proprio un emendamento dell’onorevole Costa ad introdurre il monitoraggio parlamentare anche sul ricorso alla custodia cautelare. Il documento sarebbe dovuto arrivare il 31 gennaio ma come sempre giunge in ritardo: di solito a maggio, quest’anno un po’ prima. Ma cosa dice ancora Costa? “Emerge un quadro sconfortante: dal 2018 al 2023 sono state risarcite dallo Stato ben 4.368 persone ingiustamente arrestate, per una somma complessiva di 193.547.821. Ma paga solo lo Stato perché di fronte a questi numeri, dal 2017 al 2023 sono state avviate 87 azioni disciplinari con il seguente esito: 44 non doversi procedere, 27 assoluzioni, 8 censure, 1 ammonimento, 7 ancora in corso. I magistrati non pagano mai sul piano disciplinare. Cosa ha fatto questo Governo? Di azioni disciplinari su casi di ingiusta detenzione ne sono state avviate dal Ministero della Giustizia 1 (una) nel 2022 e 3 (tre) nel 2023 (anni in cui complessivamente si sono pagati oltre 50 milioni di euro di riparazioni per ingiusta detenzione). Praticamente nulla per un Governo sedicente garantista, se pensiamo che Bonafede ne aveva avviate 22 nel 2019 e 19 nel 2020. Anche questa - conclude Costa - è una conseguenza di aver messo il Ministero della Giustizia nelle mani dei magistrati fuori ruolo”. Ma ora addentriamoci nei numeri nudi e puri. Va sottolineato che come sempre non tutti gli uffici giudiziari hanno inviato i dati richiesti: “La percentuale di risposta dei Tribunali (sezioni GIP e sezioni dibattimentali) interessati al monitoraggio è stata dell’89%”. Custodia cautelare: sono stati messi a confronto i dati dal 2018 al 2023. Se nel 2018 le misure cautelari emesse in carcere erano state 31970 ed erano gradualmente diminuite fino al 2021 arrivando a 24126, notiamo un leggero rialzo nell’ultimo biennio: 24654 nel 2022 e 24746 nel 2023. “Le misure cautelari custodiali (carcere - arresti domiciliari - luogo cura) costituiscono quasi il 57% di tutte le misure emesse, mentre quelle non custodiali (le restanti) ne costituiscono circa il 43%; una misura cautelare coercitiva su tre emesse è quella carceraria (32%), mentre una misura cautelare coercitiva su quattro è quella degli arresti domiciliari (25%)”. Inoltre i 3/4 circa di tutte le misure cautelari previste dall’ordinamento vengano emessi dalle sezioni GIP, mentre solo il restante 1/4 venga emesso dalle sezioni Dibattimentali. Il GIP utilizza la misura carceraria con elevata frequenza (34,3%), che risulta quasi doppia rispetto a quella utilizzata dal giudice dibattimentale (18,4%). Sempre in riferimento all’anno 2023 per il Tribunale di Napoli la custodia cautelare in carcere raggiunge livelli particolarmente elevati (51,1%), rappresentando di gran lunga lo strumento più utilizzato, insieme, a seguire, agli arresti domiciliari senza braccialetto (25,6%). Ingiuste detenzioni: la serie storica del numero dei procedimenti sopravvenuti negli anni 2018-2023 mostra una sostanziale stabilità, ad eccezione forse dell’anno 2020 per il quale si registra il valore più contenuto. Nel 2023 si sono definiti 1120 procedimenti per ingiusta detenzione e le ordinanze di pagamento sono state 619. Nel 2022 furono le ordinanze furono 539. Pertanto assistiamo ad un leggero aumento. La percentuale di accoglimento nello scorso anno è del 48,5%, quella di rigetto del 45,2%. Tra il 2018 e il 2023 il 72,2% delle domande sono state accolte a seguito di sentenza di assoluzione, proscioglimento, archiviazione, quindi per accertata estraneità della persona ai fatti contestati. Mentre per illegittimità delle ordinanze di custodia cautelare, secondo l’articolo 314 cpp, la percentuale è vicina al 28%. Entità economica della riparazione per ingiusta detenzione. I dati sono quelli del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Nel 2023 lo Stato ha speso 27.844.794 milioni di euro. Nel 2022 erano stati 27.378.085. Quindi si registra un piccolo aumento. Il distretto dove vengono sborsati più indennizzi è quello di Reggio Calabria con 8.019.396, seguito da Palermo con 3.845.580, e da Roma con 2.626.240. I procedimenti disciplinari Nell’anno 2023 sono state promosse sette azioni disciplinari di cui quattro dal PG presso la Cassazione e tre dal Ministro della Giustizia. Sono tuttavia tutte ancora in corso, quindi non si possono conoscere gli esiti. Altri commenti Secondo i giornalisti Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, fondatori dell’Associazione Errorigiudiziari.com, “per avere una prima idea di quanti sono gli errori giudiziari in Italia vale la pena di mettere insieme sia le vittime di ingiusta detenzione sia quelle di errori giudiziari in senso stretto. Dal 1991 al 31 dicembre 2023 i casi sono stati 31.397: in media, poco più di 951 l’anno (nota bene: in questo totale manca il dato complessivo degli errori giudiziari del 2023). Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 960 milioni 781 mila euro e spiccioli, per una media di poco inferiore ai 29 milioni e 114 mila euro l’anno (e anche in questo caso, non è disponibile il dato complessivo per la spesa in risarcimenti da errori giudiziari del 2023)”. A proposito di carcere segnaliamo che ieri non vi è stata più in Commissione Giustizia della Camera l’audizione del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale in merito alla proposta del deputato di Italia Viva Giachetti sulla liberazione anticipata speciale. Questo perché tutti i lavori delle Commissioni sono stati rinviati a data da destinarsi per l’ostruzionismo in Aula sul dl Pnrr. Questo potrebbe ritardare l’approdo in Aula della norma, previsto per il 29 aprile. In nome del diritto penale liberale e del giusto processo di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 18 aprile 2024 Non è difficile delineare - per sommi capi, s’intende - quali idee di giustizia penale debbano entrare necessariamente nel bagaglio di una “lobby riformista” quale ambisce ad essere Il Riformista. Diritto penale liberale e giusto processo, ecco la traccia sicura della risposta a quella domanda. Qualche anno fa, l’Unione delle Camere Penali ha raccolto studiosi insigni del diritto penale sostanziale e del diritto processuale, per definire con rigore scientifico il perimetro ed i contenuti di quei due principi. Ne nacque il “Manifesto del Diritto penale liberale e del giusto processo”, ora tradotto in tre lingue e dibattuto in diverse università europee, oltre che in quelle italiane: una lettura che mi permetto di consigliare vivamente. Un Paese che voglia dirsi liberale concepisce il diritto penale come un insieme di regole volte a limitare la potestà punitiva dello Stato, non ad armarla; e questo semplicemente perché considera la libertà dell’individuo il diritto fondativo del nostro patto sociale. Dunque, lo strumento repressivo penale, ovviamente indispensabile per lo svolgimento ordinato della vita sociale, deve essere concepito come un’arma da utilizzare con la massima parsimonia. L’idea invece drammaticamente prevalente nella nostra società, e coltivata trasversalmente a destra come a sinistra degli schieramenti politici, è che ogni condotta riprovevole meriti ed esiga la sanzione penale, dunque la privazione della libertà personale. Di qui la moltiplicazione iperbolica delle norme incriminatrici, delle fattispecie di reato le più fantasiose, nonché l’inarrestabile deriva simbolica delle norme penali, introdotte senza freni per lanciare messaggi securitari o comunque ideologici all’opinione pubblica. Una lobby liberale e riformista è chiamata a combattere questa deriva rovinosa, che oltretutto finisce per strangolare l’efficacia della risposta punitiva. Ed è di matrice illuministica e liberale l’idea della certezza della pena, che i riformisti devono rivendicare contro la sua sgrammaticata declinazione, purtroppo rumorosamente e largamente diffusa, di certezza del carcere; nonché l’idea che la esecuzione della pena abbia come obiettivi prioritari la tutela della dignità della persona ed il recupero sociale del condannato, piuttosto che la creazione di una discarica sociale, fabbrica di disperazione ma soprattutto di recidiva criminale. Quanto al processo penale, la sua concezione liberale è ben scolpita nell’art. 111 della Costituzione, che fissa solennemente principi ben lontani dall’essere applicati in concreto nella quotidianità dell’amministrazione della giustizia. E questo a partire dall’assetto ordinamentale della magistratura, dove la carriera unica che accomuna pubblici ministeri e giudici mal si attaglia alla struttura accusatoria del processo scolpita in Costituzione: giudice terzo, equidistante dalle parti chiamate a scontrarsi ad armi pari. Dal giorno successivo alla riforma epocale del compianto Giuliano Vassalli, la natura accusatoria del processo è avversata dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, perché è proprio l’idea della parità tra accusa e difesa che non è digerita da una magistratura fortemente connotata da una immanente cultura inquisitoria. E negli anni il legislatore ha progressivamente inserito, anche da ultimo, continue contaminazioni di natura inquisitoria in ossequio alla costante pressione della giurisprudenza e della iniziativa politica della magistratura associata. Ecco allora che la difesa ed anzi il recupero di quel modello processuale non può che essere un obiettivo prioritario del riformismo italiano. Così come deve esserlo il contrasto deciso alla ormai incontenibile espansione delle misure di polizia (interdittive antimafia e misure di prevenzione patrimoniale in primo luogo) che stanno diventando, ogni giorno di più, strumento privilegiato di repressione penale dei fenomeni criminali, reali o presunti. Fenomeno questo insidiosissimo, perché sanziona senza bisogno di prove, servendosi del solo sospetto e del generico giudizio di pericolosità del destinatario di quelle devastanti misure. Infine, il tema della informazione giudiziaria, che merita - come infatti accade in questo numero - una trattazione autonoma, per la cruciale rilevanza civile e sociale della questione. C’è da rimboccarsi le maniche, dunque, per i riformisti di questo Paese: una sfida durissima ed affascinante, che occorre affrontare con determinazione e grande passione civile. Stato di gogna, sul banco degli imputati c’è la giustizia etica di Tiziana Maiolo Il Riformista, 18 aprile 2024 L’abbiamo visto anche ieri, in un’inchiesta che riguardava la Sicilia. E prima ancora in Puglia e poi in Piemonte. Le immagini che ci rimandano le tv hanno una volta il timbro dei carabinieri, un’altra quello della guardia di finanza. Sono sempre le stesse, auto che corrono a sirene spiegate, “malviventi” che escono dai “covi” con i polsi in manette. Il blitz è servito per il voyeurismo collettivo. Poi la voce del cronista dice che dalle carte dell’inchiesta “spunta” il nome del politico. Non importa che sia indagato, ma quando lo è, provvede il procuratore nella conferenza stampa a spiegare, attorniato dalle alte uniformi dei diversi corpi dello Stato, che esiste una “zona grigia” che mette in contatto le mafie e le varie organizzazioni criminali con il mondo della società civile. Il politico è la cerniera. La gogna è sicura. La faccia sporca del processo mediatico. Ma che cosa vuol dire esattamente il fatto che il nome “spunta” dalle carte dell’inchiesta? Significa prima di tutto che qualcuno, il giornalista, detiene, spesso illecitamente, gli atti di un’inchiesta giudiziaria che è ancora agli inizi e in cui le persone indagate sono innocenti, come dice l’articolo 27 della Costituzione. Ma vuol dire anche che quelle carte qualcuno le ha diffuse. Per esempio coloro che sono i custodi naturali dei documenti, come la polizia giudiziaria e il pubblico ministero. Ma in che modo quel nome è sbucato fuori? Dall’abitudine, ormai consolidata, di allegare all’ordinanza di custodia cautelare stilata dal gip un bel pacchetto di intercettazioni. Il nome “spunta” come un fiorellino di prato, e una volta che è colto non c’è più niente da fare, non lo si può riattaccare. Ormai è sulla bocca di tutti. Ed è sempre pubblicità negativa. Indimenticabile quel che accadde tempo fa in Liguria, in un’inchiesta in cui, forse per rendere la notizia delle indagini più appetibile e succulenta al voyeurismo dell’opinione pubblica, si parlava di “festini”, “escort” e droghe varie. E a uno di questi incontri piccanti avrebbe partecipato, secondo una testimonianza, anche un politico locale. Estraneo all’inchiesta, come sarà appurato nei giorni seguenti. Quel signore aveva anche la fortuna di avere un “alibi”. Non necessario poiché non era indagato. Ma un giudice si era preso la libertà di inserire il suo nome nelle carte, poi qualcuno le aveva diffuse e altri avevano pubblicato il suo nome, nonostante le smentite del malcapitato. E il sospetto resterà. Benvenuti nel processo-spettacolo. In cui esistono solo colpevoli non ancora scoperti e cittadini in attesa di giudizio già trascinati sul palcoscenico delle tricoteuses, che sferruzzano nella grande aula del tribunale del popolo. Per il quale il processo è una sorta di ente inutile. E davanti a ogni sentenza di assoluzione, ma anche di condanna che sia inferiore alle aspettative, è pronto a gridare che è una vergogna e che non è stata fatta giustizia e infine che tizio è stato “ucciso due volte”. E si capisce che la sentenza sgradita è considerata più grave dello stesso delitto. Ma non c’è solo desiderio di punizione esemplare. C’è il bisogno di trasformare l’inchiesta giudiziaria in dispensatrice di disapprovazione morale. Così il binomio colpevole-innocente si va trasformando in puro-impuro. Il magistrato diventa colui che dà giudizi morali sui comportamenti. Si fa sacerdote supremo. E poi sociologo e storiografo. Un caso clamoroso è capitato nei due anni in cui l’Italia e il mondo intero si sono trovati a dover affrontare un nemico insidioso e sconosciuto che si chiamava covid-19. I morti, le bare esposte in tv, l’angoscia hanno travolto un po’ tutti. E ancora oggi, con i processi finiti nel nulla cui erano destinati, un’assurda volontà vendicativa insegue, anche in senso fisico, l’incolpevole ex ministro della salute Roberto Speranza per le strade di Roma al grido di “assassino”. Mai come in quei giorni del covid il processo si è fatto spettacolo e gogna politica. E mai come in quell’occasione, soprattutto nella città di Bergamo, particolarmente colpita dall’epidemia, si è assistito alla nascita di comitati di parenti assurti alla dignità di soggetti politici. I morti sono diventati “vittime”, e poi da vittime a “eroi”. Tutti coloro, dal premier al ministro, fino al presidente della regione, all’assessore e agli stessi medici, che non li hanno saputi salvare, sono colpevoli. Nei palazzi di giustizia si è anche trovato il reato, epidemia colposa. Cioè un reato impossibile, perché quello dell’untore non può essere che un ruolo attivo e doloso. Ma un contagio è avvenuto in quei giorni, perché la società etica si è a un certo punto trasferita in tribunale. Quasi come se l’ossessiva ricerca della “verità”, che non è comunque il compito del giudice, dovesse portare alla scoperta di violazioni di un qualche codice morale. E la contaminazione etica ha finito per coinvolgere lo stesso procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani, che non solo ha raccolto il grido di dolore che si era trasformato in bisogno di punire da parte del tribunale del popolo, ma ha allargato il fine dell’indagine a scopi indebiti. Il procuratore infatti dichiarerà ripetutamente di sentire la necessità di “dare una risposta” ai cittadini. Come se fosse suo compito. E si spingerà fino a dare una singolare rassicurazione: “Il materiale raccolto servirà non solo per le valutazioni di carattere giudiziario, ma anche scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubblica, sociologiche, amministrative”. Se questa dichiarazione, sicuramente ingenua ma anche sintomo di una cultura, dovesse essere estesa e generalizzata ad altre inchieste, se ne dovrebbe dedurre che non sempre si aprono fascicoli per cercare i responsabili dei reati. Ma anche che a volte i reati li si va a cercare. E che l’intervento punitivo può diventare totale, se viene esteso a ogni comportamento, a ogni settore della vita sociale e individuale. Esiste un rischio ancora maggiore in quel fenomeno che viene definito come la ricerca del “tipo d’autore”. Per cui, una volta individuata la caratteristica del potenziale colpevole, mafioso, terrorista, ma anche politico o sindaco, si va alla ricerca dei possibili reati a suo carico. Quando non ci sono, e in politica è spesso così. Ma lo si saprà troppo tardi. In un vecchio racconto di Friedrich Dürrenmatt, “La Panne”, ricordato anche ieri mattina sulla Stampa da Mattia Feltri, un viandante con l’auto in panne si ritrova a essere ospitato da un giudice in pensione che, in compagnia di altri tre amici come lui ormai a riposo, un pm, un avvocato e un boia, gli propone un gioco crudele che consisterà nel ricercare e poi trovare una qualche colpa nella sua specchiata vita. Il viandante finirà con l’impiccarsi. Uno specchio tragico ma molto attuale di quel che accade, quando si muore di ingiustizia come Enzo Tortora. Ma che potrebbe accadere se mettessimo sul piatto della bilancia anche il prezzo della gogna, la faccia sporca del processo mediatico e della giustizia etica. Quel seggio vuoto alla Consulta tradisce la Costituzione di Andrea Pugiotto L’Unità, 18 aprile 2024 Dopo 5 mesi, ancora manca il giudice che deve subentrare all’ex presidente Sciarra. Dietro questo ritardo del Parlamento la logica dello spoils system e la tentazione della maggioranza di fare “en plein” eleggendo tra qualche mese non uno ma ben quattro giudici. Una frode alla Carta che va denunciata e respinta. 1. La Corte costituzionale “è composta di 15 giudici”: così dispone la Costituzione. Alla scadenza del mandato, il giudice cessa dalla carica e dall’esercizio delle funzioni e, perciò, va sostituito “entro un mese”: così dispone la legge. Evidentemente, per il Parlamento, Costituzione e legge non sono vincolanti. Nel disinteresse generale, è da cinque mesi che a Palazzo della Consulta manca un giudice, non avendo le Camere riunite ancora provveduto a eleggere chi subentrerà all’ex Presidente Silvana Sciarra, giunta al termine del suo mandato il 12 novembre 2023. Andati a vuoto i primi due scrutini (l’8 e il 29 novembre scorsi), il Parlamento in seduta comune si riunirà il prossimo 23 aprile: sarà fumata nera (scommettiamo?). Questa vacatio non è un’innocua sgrammaticatura costituzionale. Nell’immediato, ha sottostimate ricadute negative sulle dinamiche interne alla Consulta. In prospettiva, rivela un’allarmante concezione proprietaria dei posti presso la Corte costituzionale. 2. Ogni giorno che passa - e ne sono già trascorsi più di centocinquanta - l’inerzia delle Camere dilata una violazione costituzionale già in atto. Altera, squilibrandolo, l’assetto del collegio che la Costituzione ha voluto paritario tra le sue differenti componenti: 5 giudici di elezione parlamentare, 5 di nomina presidenziale, 5 eletti dalle giurisdizioni superiori. Sul piano funzionale, l’assenza (anche solo) di un giudice non è a costo zero. Enfatizza, esponendolo oltremisura, il ruolo del Presidente della Corte il cui voto - in caso di parità - determina la decisione del collegio: evenienza più probabile, se i giudici sono 14. Incide negativamente sulla risposta di giustizia costituzionale di una Corte privata, per mesi, dell’apporto di un suo membro. È questo il sottotesto dell’invito, garbato ma urgente, formulato dal Presidente Barbera, “affinché le Camere, ormai esaurite le prime due votazioni, provvedano nel più breve tempo a questo adempimento” (così nella sua conferenza stampa del 18 marzo scorso). 3. Ghiotta e suadente, serpeggia invece in Parlamento la tentazione di tergiversare per ulteriori mesi, fino al 20 dicembre 2024, quando terminerà il mandato di altri tre giudici costituzionali (Augusto Barbera, Franco Modugno, Giulio Prosperetti), tutti di elezione parlamentare. Questa logica “a pacchetto” non è nuova. Fu inaugurata il 16 dicembre 2015 dagli schieramenti parlamentari di allora (centro-sinistra, M5S, centro-destra), eleggendo contestualmente la terna. Nel replicarla, l’attuale maggioranza di governo insegue il non celato obiettivo di attrarre a sé tutte (o quasi) le quattro candidature. Abaco alla mano, infatti, ai suoi 350 parlamentari bastano solo altri 10 voti per raggiungere il quorum richiesto dopo il terzo scrutinio (360, pari ai tre quinti dei componenti l’assemblea). A tal fine sarà sufficiente, al momento del voto, il non disinteressato soccorso di una decina di deputati e senatori “volenterosi”. Se tale strategia avrà successo, non è dato sapere. Una cosa è certa: la sua logica “a pacchetto” è in frode alla Costituzione. E come tale andrebbe denunciata e respinta. Vediamo perché. 4. La logica costituzionale che governa l’elezione dei 5 giudici di estrazione parlamentare è cristallina. Il collegio elettorale è un organo (il Parlamento in seduta comune) che, diversamente dalle sedi della rappresentanza politica (Camera e Senato), non può condizionare il soggetto eletto. Gli elevati quorum richiesti precludono alla maggioranza parlamentare del momento di imporre il “suo” candidato. Lo scrutinio è segreto ad impedire una designazione dall’esterno, assicurando il formarsi in Parlamento di un consenso non solo formale. A evitarne la politicizzazione, le candidature non si ufficializzano né si discutono in aula. Né la Costituzione prevede per la Consulta una composizione che rispecchi la proporzione dei vari gruppi parlamentari. Il senso complessivo è chiaro: nessuna forza politica è proprietaria o comproprietaria della carica di giudice costituzionale. Collocarne la scelta entro pratiche di spoil system è quanto di più lontano ci sia dalla trama costituzionale. A innervare tale trama, semmai, è il principio di leale collaborazione del Parlamento verso la Corte costituzionale. Solo all’interno di questa logica fiduciaria si giustifica l’esclusione del regime di prorogatio per il giudice cessato dalla carica e il termine di un solo mese per la sua sostituzione: è l’inderogabilità dell’adempimento costituzionale a imporre alle Camere riunite di provvedere tempestivamente. 5. Su tutto questo, la logica “a pacchetto” passa sopra come uno schiacciasassi. Perché svuota l’autentica ratio delle maggioranze qualificate - richieste a garanzia di singole scelte condivise - trasformandole in un ostacolo da superare. Ieri attraverso una spartizione, dove ciascuno ha eletto il proprio giudice. Domani, magari, con il colpo di mano di una scelta tutta interna all’area governativa. In questo modo un adempimento costituzionale, impellente e non derogabile, viene subordinato alle alchimie delle forze politiche. Costi quel che costi. Infatti, la logica “a pacchetto” mette in conto - incautamente - un arco temporale futuro, ma certo, in cui il collegio sarà composto solo da 11 giudici effettivi: cifra borderline, sotto la quale l’organo entrerebbe in arresto cardiaco, non essendo più legittimato - per legge - a svolgere le proprie funzioni. In ogni caso, si costringerà la Consulta, comunque e anticipatamente, a lavorare a ranghi ridottissimi. I tre giudici prossimi alla scadenza, infatti, non potranno partecipare a udienze e camere di consiglio riguardanti cause che saranno decise dopo il termine del loro mandato. 6. Sorprende, perciò, l’indifferenza istituzionale che circonda l’ingiustificato ritardo parlamentare. È vero che si tratta di un remake. Vacanze anche più lunghe si sono registrare in passato per sostituire i giudici Casavola e Spagnoli (undici mesi), Caianiello (quasi venti mesi), Guizzi e Mirabelli (oltre diciassette mesi), Vaccarella (poco meno di diciotto mesi). Tutti di estrazione parlamentare. Allora, però, non si registrò una generalizzata acquiescenza. I Presidenti della Repubblica Segni (16 settembre 1963), Cossiga (7 novembre 1991), Ciampi (26 febbraio 2002) esercitarono la prerogativa del messaggio alle Camere, pur di richiamarle al tempestivo reintegro del plenum della Corte; Giorgio Napolitano lo fece con un apposito comunicato (3 ottobre 2008). In passato (era il 9 ottobre 2008), in appoggio a un drammatico sciopero della sete di Marco Pannella, non mancò neppure un appello firmato da 506 parlamentari (più della maggioranza assoluta del collegio elettorale) che chiedeva la convocazione del Parlamento in seduta comune, “fino al formarsi delle decisioni necessarie”. 7. Come tutti i reati in flagranza, l’attuale e persistente violazione della Costituzione va interrotta, senza indugiare oltre. Come? La soluzione è suggerita da Giuseppe Guarino, in un saggio del 1954: è sul Presidente della Camera, in qualità di Presidente del collegio elettorale, che grava l’obbligo di “convocare il Parlamento riunito e di far ripetere ininterrottamente gli scrutini senza sospenderli e senza porre termine alla seduta fino a quando non si sia prodotta la maggioranza richiesta”. Un “conclave”, dunque. la sua dinamica costringerebbe, gioco forza, a un accordo parlamentare. Il suo prolungarsi aprirebbe spazi per un’autonoma determinazione di deputati e senatori (com’è accaduto nell’ultima elezione per il Quirinale). Il suo esito positivo verrebbe agevolato dall’individuazione di una rosa di candidature di provata esperienza, professionalità e indipendenza, in luogo di un unico nominativo (deciso dove? da chi? sulla base di quali criteri?). È forse necessario ricordare, al Presidente Fontana, che “non è la Costituzione che deve piegarsi alla volontà contingente dei gruppi politici, ma sono questi che devono sottostare al sovrano dettato della Carta fondamentale”? Graziano Mesina, il super bandito in carcere a 82 anni. “Fategli una perizia psichiatrica” di Ferruccio Pinotti Corriere della Sera, 18 aprile 2024 Gli avvocati: ha bisogno di lasciare il carcere. Ventidue evasioni alle spalle, in contatto con l’editore Giangiacomo Feltrinelli che voleva convincerlo a fare della Sardegna una nuova Cuba, aveva ricevuto la grazia dal presidente Ciampi. Una delle sue legali: “Ricoverato a Opera, ma ha varie patologi e bisogno di misure alternative”. Il Tribunale di sorveglianza di Milano ha disposto una perizia psichiatrica sulle condizioni di salute di Graziano Mesina, 82 anni dopo una nuova richiesta di scarcerazione sollecitata dalle due avvocate dell’ex primula rossa, Beatrice Goddi e Maria Luisa Vernier, secondo le quali l’anziano detenuto nel carcere di Opera presenterebbe “un decadimento neuro cognitivo e neuropsichiatrico, che potrebbe essere il principio di un problema di demenza senile”. La perizia è stata affidata al professore all’Università degli Studi di Milano Stefano Zago e al dottor Lorenzo Lorusso direttore del reparto di Neurologia di Merate. La notizia è stata confermata al Corriere della Sera dalla avvocatessa Vernier. I carabinieri di Nuoro avrebbero già vagliato con i familiari la disponibilità ad accoglierlo nella loro casa di Orgosolo. Non è la prima richiesta di scarcerazione presentata negli ultimi due anni e mezzo di detenzione di Mesina: nel marzo 2023 il tribunale di sorveglianza di Sassari aveva rigettato una prima istanza avanzata dalle due avvocatesse per le precarie condizioni di salute di Mesina. L’ex primula rossa era stato catturato nel dicembre del 2021 a Desulo dopo un anno e mezzo di latitanza. Si era dato alla macchia il 2 luglio 2020 poco prima che i carabinieri bussassero nella sua casa di Orgosolo per notificargli la sentenza definitiva della Cassazione a 30 anni di carcere (poi ricalcolati in 24) per associazione a delinquere. Nel luglio del 2022 era stato trasferito dal carcere nuorese di Badu e Carros, dove era rinchiuso a seguito della cattura, al carcere di Opera. La sua legale: “Incompatibile col carcere e non pericoloso” - L’avvocatessa Vernier spiega al Corriere: “Abbiamo chiesto la misura alternativa il 14 settembre, Mesina soffre di varie patologie, è ricoverato al centro clinico di Opera, ma quando uno sta male da dieci anni bisogna penare a misure alternative al carcere, anche perché non è una persona pericolosa, è a suo modo una figura romantica, che nel corso della sua vita si è affidato a persone sbagliate, ma che ha aiutato tantissime persone”. Una vita da ribelle sin da piccolo - Mesina, noto anche con lo pseudonimo di Gratzianeddu, classe ‘42, nativo di Orgosolo, è il più famoso esponente del banditismo sardo del dopo dopoguerra. È conosciuto per le numerose evasioni (ventidue, di cui dieci riuscite) e per il suo ruolo di mediatore nel sequestro dei Farouk Kassam. Fino al suo arresto, avvenuto il 18 dicembre 2021 a Desulo, è stato inserito nella lista dei latitanti di massima pericolosità. Penultimo di undici figli, sei fratelli e cinque sorelle, del pastore orgolese Pasquale Mesina e di Caterina Pinna. In quarta elementare, racconta Mesina nella sua autobiografia, prese a pietrate il maestro e dovette lasciare la scuola per andare in campagna come servo pastore, come già i fratelli. Mesina subisce il primo arresto nel 1956 all’età di 14 anni per perdono giudiziale, secondo Mesina stesso invece fu condannato a cinque anni con due anni di perdono giudiziale. Nel maggio del 1960 venne arrestato nuovamente per aver sparato in luogo pubblico. Portato nella caserma dei carabinieri, riuscì a evadere dopo aver forzato la porta della camera di sicurezza. Dopo una breve latitanza sulle montagne intorno a Orgosolo si costituì per le insistenze della famiglia e del suo avvocato. Venne condannato a sei mesi di reclusione per l’evasione a cui si aggiunse un mese per il possesso della pistola e portato nelcarcere di Nuoro. Nel luglio dello stesso anno, mentre Mesina era ancora in carcere, viene rapito e poi ucciso Pietrino Crasta, commerciante di Berchidda. Una lettera anonima alla Questura segnalò che in località Lenardeddu, ove si trovava un terreno per il pascolo preso in affitto dai fratelli di Graziano Mesina, si sarebbe potuto trovare il cadavere di Crasta. L’11 luglio il cadavere vi viene effettivamente trovato. I fratelli di Graziano Mesina (Giovanni, Pietro e Nicola) e alcuni vicini di pascolo vengono arrestati come responsabili del delitto. Il fratello Antonio, invece, riuscì a darsi latitante, e raccolse nel frattempo elementi probanti l’innocenza sua e dei fratelli. Nel gennaio del 1961 Graziano Mesina venne scarcerato. Il 24 dicembre dello stesso anno, in un bar di Orgosolo, il pastore Luigi Mereu, zio di uno degli accusatori dei Mesina nella vicenda Crasta, venne colpito da alcuni colpi di pistola e ferito gravemente. Secondo i Mesina, Mereu avrebbe cercato di “incastrarli” nella vicenda. Per il fatto venne accusato e arrestato Graziano Mesina, poi condannato a sedici anni di reclusione; l’interessato si proclama innocente, dichiarando che non c’erano prove. Venne rinchiuso nel carcere Nuoro e fu inviato al Tribunale di Sassari per rispondere di un tentato omicidio ai danni di un vicino di pascolo, vicenda avvenuta tempo prima nelle campagne di Ozieri. Durante il trasferimento per il conseguente processo, riuscì a liberarsi dalle manette. Alla stazione di Macomer, saltò dal treno e scappò, ma fu catturato poco dopo da alcuni ferrovieri. Il 6 settembre riuscì a evadere dopo essersi fatto ricoverare nell’ospedale San Francesco di Nuoro, scavalcando il davanzale di una finestra e calandosi lungo un tubo dell’acqua nel quale rimase nascosto per tre giorni. Rimase in montagna latitante per tre mesi. Alla fine del mese di ottobre, il fratello Giovanni detto “Dannargiu” venne ucciso, e il suo corpo viene messo in segno di sfregio accanto a quello del suo acerrimo nemico Salvatore Mattu, anche lui assassinato. Mesina, nel tentativo di vendicare il fratello, la notte del 13 novembre 1962 entrò in un bar, e secondo quanto dichiarato dall’avvocato sparò e uccise a colpi di mitra Andrea Muscau che secondo lui era responsabile della morte del fratello ma che in realtà non lo era. Venne nuovamente arrestato e condannato per omicidio a 24 anni di reclusione. Nel gennaio del 1963 tenta l’evasione dal carcere di Nuoro, poi viene trasferito nel carcere di Alghero e quindi a Porto Azzurro. Venne trasferito a Volterra dove si finse pazzo e riuscì a essere ricoverato in un manicomoio criminale. Trasferito a Sassari per un processo tentò di aprire un buco nel pavimento del treno, ma non riuscì a fuggire. L’11 settembre del 1966, mentre scontava la reclusione nel carcere San Sebastiano, riuscì a compiere una delle sue più famose evasioni. Insieme al compagno di prigionia Miguel Atienza (si scoprirà in seguito che il vero nome è Miguel Alberto Asencio Prados Ponte), un giovane spagnolo disertore della Legione Straniera, riuscirono a fuggire scalando il muro del carcere alto 7 metri e gettandosi sotto nella centrale via Roma di Sassari. Una volta fuori dal carcere si fecero portare da un taxi a Ozieri, dando inizio alla lunga attività criminale della coppia. Nella zona di Golfo Aranci rapirono il proprietario terriero Paolo Mossa. Successivamente Mossa venne liberato dopo la promessa che avrebbe pagato il riscatto. L’11 maggio 1967, a Nuoro, travestiti da poliziotti, finsero un blocco stradale e rapirono Peppino Capelli, un grosso commerciante di carni. L’ostaggio venne rilasciato dopo che la famiglia versò come riscatto 18 milioni di lire. Alla coppia furono attribuiti molti sequestri: Campus, Petretto, Moralis, Canetto, Papandrea. Il 18 giugno 1967 Mesina e Atienza vennero intercettati dalle forze dell’ordine che li circondarono nelle colline di Osposidda, sotto Orgosolo. Durante lo scontro Atienza uccise due agenti ma venne ferito a morte. Mesina venne assolto dalle accuse per la morte dei due agenti. Altre versioni riportano che gli agenti si uccisero a vicenda. Il dialogo con Feltrinelli per fare della Sardegna la nuova Cuba - Nel 1968, quattro anni prima di morire, Giangiacomo Feltrinelli si recò in Sardegna secondo i documenti scoperti dalla Commissione Stragii nel 1996, per prendere contatto con gli ambienti della sinistra e dell’indipendentismo sardo. Nel maggio 1976 il fratello Nicola fu ucciso in località “Funtana Bona”: i sicari lo fecero scendere dal camion nel quale viaggiava con due operai forestali e lo uccisero a fucilate. Nonostante le sue richieste, viene negato a Mesina la possibilità di rientrare in Sardegna per i funerali. Il 20 agosto dello stesso anno, Mesina riuscì a fuggire insieme con un gruppo di detenuti, dal carcere di massima sicurezza di Lecce. Proseguì la latitanza fra varie città, poi torna in carcere a Porto Azzurro. Nel 1985 ottenne un permesso di tre giorni, per tre ore al giorno per rivedere la madre a Orgosolo. Il 12 aprile ottenne un permesso di dodici ore per far visita al fratello nel Vercellese. Allo scadere delle dodici ore non fece ritorno nel carcere e aggiunse a Milano Valeria Fusè, una ragazza che aveva iniziato a scrivergli nel carcere di Novara. I due si rifugiarono in un appartamento di Vigevano. Il 18 aprile nell’appartamento dove si nascondevano fecero irruzione i carabinieri che arrestarono entrambi. Trasferito nel carcere di massima sicurezza di Novara, venne condannato a ulteriori sei mesi di reclusione, mentre la Fusè venne assolta. L’incontro con Indro Montanelli - Il 19 ottobre 1992 Mesina ottenne la libertà condizionale, e dopo 29 anni di carcere si stabilì a San Marzanotto, una frazione di Asti. Durante la sua permanenza ad Asti, Mesina incontrò Indro Montanelli, interessato alla vita del più famoso bandito sardo. Montanelli offrì sostegno a Mesina, ventilando la possibilità di scrivere un libro sulle molteplici evasioni che avevano avuto come protagonista Gratzianeddu. La mediazione per il rapimento del piccolo Farouk Kassam - Nel 1992, durante la vicenda del sequestro del piccolo Farouk Kassam, Graziano Mesina interviene in Sardegna durante uno dei suoi permessi, con la funzione di mediatore, nel tentativo di trattare la liberazione con il gruppo di banditi sardi responsabili del sequestro del bimbo rapito a Porto Cervo il 15 gennaio e liberato a luglio. Le circostanze della liberazione non sono mai state del tutto chiarite. Alla versione della polizia e del governo, che ha sempre negato che fosse stato pagato un riscatto, si contrappone quella di Mesina ribadita in alcune interviste, secondo cui la polizia pagò circa un miliardo di lire per il rilascio dell’ostaggio, aiutando la famiglia del bambino a soddisfare le richieste dei rapitori. Il 4 agosto 1993 il tribunale di sorveglianza revoca la concessione della libertà condizionale dopo il ritrovamento di un Kalašnikov e altre armi da guerra nel caseggiato astigiano di Mesina, arrestato insieme ad altre due persone. Mesina, sospettato di progettare un nuovo sequestro di persona, viene nuovamente incarcerato a Voghera per scontare la pena all’ergastolo. In relazione a questi nuovi procedimenti giudiziari, Mesina ha sempre sostenuto la tesi del complotto contro di lui da parte dei servizi segreti, a causa del suo coinvolgimento nel sequestro Kassam. Nel 2001 il tribunale di Asti respinse la richiesta di scarcerazione presentata dai difensori di Mesina. Il bandito sardo è stato un caso particolare nella storia giuridica italiana, avendo ricevuto la condanna all’ergastolo a causa di tre diverse condanne rispettivamente di 24, 8 e 6 anni di carcere, in applicazione della legge che prevede il cumulo delle pene per reati differenti. Nel luglio del 2003 chiede ufficialmente la grazia dando mandato al suo avvocato di rivolgersi al Presidente della Repubblica. La grazia del presidente Ciampi - Il 25 novembre 2004, dopo la grazia concessagli dall’allora Presidente della Repubblica Ciampi su impulso del Ministro della giustizia Roberto Castelli, Mesina lascia il carcere di Voghera per fare ritorno da uomo libero nella sua Orgosolo. Complessivamente Mesina ha trascorso 40 anni in carcere. Dopo la liberazione, Mesina, tornato nella natia Orgosolo, ha intrapreso la carriera di guida turistica, accompagnando i turisti nell’esplorazione dei luoghi più impervi della zona, spesso teatro delle sue latitanze e delle rocambolesche fughe, come per esempio sul Supramonte. Insieme ad altri due soci, nel 2007 ha aperto un’agenzia di viaggi a Ponte San Nicolò, in provincia di Padova. Il 10 giugno 2013 viene arrestato per traffico di droga, addebito che ha sempre negato. come confermato dai suoi avvocati. Le nuove accuse e la cattura - Nel giugno 2013, a 71 anni, viene arrestato a Orgosolo. Secondo gli inquirenti, con la sua banda stava progettando un sequestro di persona: aveva già fatto un sopralluogo e fornito dettagli precisi sull’ostaggio ai suoi sodali, così come è emerso dalle intercettazioni. Inoltre è ritenuto dai magistrati della DDA di Cagliari capo di una potente organizzazione dedita a traffico di stupefacenti, furti e rapine. Dovrà rispondere peraltro di associazione per delinquere. Il 12 dicembre 2016 viene condannato a 30 anni di reclusione dal tribunale di Cagliari, che dispone altresì la revoca del provvedimento di grazia. Il 7 giugno 2019 viene tuttavia scarcerato per decorrenza dei termini. La Cassazione rigetta il ricorso del legale, ma il 2 luglio 2020, i Carabinieri recatisi presso l’abitazione dell’uomo per notificare la sentenza e ricondurlo in carcere non trovano nessuno. Mesina, a 78 anni, è nuovamente latitante. A inizio febbraio 2021 viene inserito dal Ministero dell’Interno nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità. Nella notte tra il 17 e il 18 dicembre 2021, durante un’azione coordinata del ROS e del GIS dei Carabinieri, viene trovato in un’abitazione di Desulo e ricondotto nel carcere di Badu ‘e Carros. Nel giugno 2022 viene trasferito nel carcere di Opera. Ora le sue avvocatesse si battono per l’adozione di misure alternative. Como. Suicida in carcere il detenuto palestinese che era scappato dall’ospedale San Paolo Il Giorno, 18 aprile 2024 Nazim Mordjane, 32 anni, ha inalato il gas di una bomboletta da campeggio. È morto in carcere a Como, inalando il gas di una bomboletta da campeggio il detenuto che, il 21 settembre dello scorso anno era evaso dall’ospedale San Paolo lanciandosi da una finestra e provocando il grave ferimento di un agente di polizia che tentava di bloccarlo. A darne notizia è il sindacato penitenziario Uilpa, che precisa che “con ogni probabilità” si è suicidato. Nazim Mordjane, palestinese di 32 anni, era evaso il 21 settembre dello scorso anno dall’ospedale San Paolo di Milano lanciandosi da una finestra al secondo piano. Nel tentativo di bloccarlo un agente cadde battendo la testa e venne ricoverato in gravi condizioni. Il corpo senza vita del giovane è stato ritrovato ieri sera in cella poco dopo le 21. A quanto si è saputo, aveva già tentato altre volte di togliersi la vita. “Tutto ciò è l’emblema dello stato drammatico delle carceri, frutto di politiche inadeguate, miopi, incompetenti dei governi che si sono succeduti negli ultimi 25 anni” è il commento di Gennarino De Fazio, segretario di Uilpa. Roma. I garanti Anastasìa e Calderone a Regina Coeli leggono i nomi dei detenuti morti nel 2024 Ristretti Orizzonti, 18 aprile 2024 Mobilitazione della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali in tutta Italia. Anastasìa: “Servono risposte urgenti, ha detto il mese scorso il presidente della Repubblica, e noi oggi con lui. “Oggi, a Roma, anticipando l’appuntamento di domani della Conferenza dei garanti territoriali e una analoga iniziativa della Camera penale di Roma, abbiamo letto i nomi dei morti in carcere e di carcere del 2024, compresi quelli di quattro poliziotti che si sono tolti la vita. Servono risposte urgenti, ha detto il mese scorso il presidente della Repubblica, e noi oggi con lui”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, al termine della manifestazione che si è svolta oggi a Roma davanti al carcere di regina Coeli. “Trenta suicidi in tre mesi e più di 61mila detenuti - prosegue Anastasìa -Nel Lazio abbiamo un sovraffollamento del 142%, 6731 detenuti per 4742 posti: 2000 in eccesso. A Regina Coeli, oggi, c’erano 1150 detenuti per 628 posti, praticamente il doppio. Va bene la promozione del lavoro per i detenuti di cui si è discusso ieri al Cnel, ma se i numeri non cambiano, il lavoro sarà un premio per pochi”. Oltre al Garante Anastasìa, hanno partecipato alla lettura dei nomi la Garante di Roma Capitale, Valentina Calderone, Bruno Mellano, Garante della Regione Piemonte e Coordinatore dei Garanti regionali, il Garante del Comune di Udine, Franco Corleone, don Lucio Boldrin, cappellano di Rebibbia nuovo complesso e coordinatore regionale dei cappellani, Denise Amerini e Giovanni Alfonsi della Cgil, il coordinatore regionale della Uil Polizia penitenziaria, Davide Riggi, e il presidente della Camera penale di Roma, Gaetano Scalise. Quest’ultimo ha annunciato un’analoga manifestazione di avvocati in toga, convocati per domani, sempre davanti a Regina Coeli. All’iniziativa romana hanno aderito: A buon diritto; Antigone Lazio; A Roma insieme; Camera penale di Roma; Cgil Nazionale, Cgil Roma e Lazio; Cittadinanzattiva; Comunità di Sant’Egidio; Coordinamento regionale dei Cappellani penitenziari; Pid Onlus; Società della Ragione; Uil penitenziaria; Vic Caritas. Cagliari. “Troppi detenuti con problemi di dipendenza o disturbi psichiatrici” di Luigi Alfonso vita.it, 18 aprile 2024 Al flash mob anche la Garante. Concordi i pareri di Irene Testa e dei responsabili di alcune delle principali realtà dell’Isola: occorrono nuove comunità per le misure alternative al carcere. Così le persone possono essere recuperate e lo Stato risparmia. Giovedì 18 aprile alle 11, di fronte al tribunale di Cagliari, si è tenuto un flash mob per richiamare l’attenzione dei cittadini e soprattutto della classe politica sul sistema carcerario sardo. Vi prenderanno parte la Garante regionale delle persone private della libertà della Sardegna, Irene Testa, i rappresentanti della Camera penale, dell’associazione “Socialismo diritti e riforme” e di altre realtà del Terzo settore che si occupano di questa tematica. “Nell’Isola non è tanto grave il problema della popolazione in stato di detenzione (parliamo di circa 2.100 detenuti, ndr), quanto la percentuale di malati psichiatrici e tossicodipendenti”, spiega Testa. “Nel rapporto che presenterò a breve farò presente che è vero che siamo nel tetto massimo previsto dal ministero per la nostra regione, tuttavia siamo arrivati al limite e, in alcune strutture (per esempio le Case circondariali di Uta e Bancali), c’è sovraffollamento. Questo sta moltiplicando i casi di suicidi, a volte evitati d’un soffio, da parte di persone con gravi disagi. Sono necessarie misure straordinarie per fermare questo stillicidio di vite umane. Dobbiamo garantire a tutti la dignità e i diritti fondamentali”. “I malati psichiatrici e i tossicodipendenti sono troppi e non dovrebbero stare in carcere, bensì in strutture alternative che in Sardegna non ci sono”, prosegue Testa. “Nella mia periodica visita nel carcere di Uta (Cagliari, ndr) nei giorni scorsi ho trovato l’inferno: un detenuto urinava in cella e beveva la sua stessa urina, riempiva le pareti di escrementi, si affettava le braccia. Un altro ancora viene tenuto in isolamento da mesi ma è stato sottoposto a Tso, vista la sua condizione di disagio psichiatrico. Addirittura, in alcune sezioni si fa fatica ad entrare per via dello stato di agitazione di alcuni detenuti. Persone malate che, come più volte ho denunciato, non dovrebbero stare lì. Ogni giorno assistiamo alle denunce della polizia penitenziaria, che si ritrova a spegnere incendi e salvare vite dai numerosissimi tentativi di suicidio. Lo scorso anno, solo a Uta, i casi sono stati 46, per un totale di 96 in tutta l’Isola. Ho parlato con tre ragazzi che sono stati salvati in extremis, tutti avevano un passato di tossicodipendenza alle spalle. Ragazzi fragili che non possono essere trattati all’interno di una cella chiusa. Ragazzi incompatibili col regime carcerario”. La garante Testa fa poi notare che “la metà circa dei 2.100 detenuti presenti in Sardegna proviene dalla penisola: molti di loro sono in regime di alta sicurezza. Sorvolo sul fatto che le leggi vigenti parlano di una distanza massima di 200 km dalla propria abitazione al luogo di detenzione, tuttavia ci sono carenze di personale che non sono state risolte. Faccio l’esempio del carcere di Uta, dove al momento c’è un solo psichiatra”. Una situazione esplosiva, denunciata da anni da chi si occupa di soluzioni alternative alla detenzione. È il caso di don Ettore Cannavera, fondatore della comunità “La Collina” di Serdiana che proprio questo pomeriggio riceve una visita informale della neo presidente della Regione, Alessandra Todde. “Il carcere risponde all’aspetto punitivo che c’è in ciascuno di noi”, commenta Cannavera. “Quando discuto di questi argomenti, addirittura con persone di grande cultura ma di poca sensibilità umana, mi sento dire: “Hanno commesso un reato, vanno puniti”. Ma la nostra Costituzione non dice questo. Chi ha commesso un reato ha diritto di essere rieducato e aiutato a superare quell’aspetto negativo. Anche lui, come tutti noi, ha la tendenza umana e psicologica al rispetto dell’altro. Non possiamo tenere conto soltanto del reato che ha fatto, ma dobbiamo chiederci perché lo ha fatto. La carenza è istituzionale: l’aspetto pedagogico ed educativo nei confronti di queste persone, che secondo la legge sono finite giustamente in carcere, viene a mancare. In quel luogo rinforziamo la loro tendenza negativa: scontata la pena, 70 ex detenuti su 100 ricommettono il reato. Quindi la punizione in sé non è educativa, cioè non risponde alla nostra Costituzione ma solo al nostro istinto forcaiolo. Alcune persone che sono venute a visitare la nostra comunità e l’hanno trovata bella, accogliente, mi hanno detto: “Troppo comodo farci venire persone che hanno commesso un reato”. Invece è proprio la bellezza e la serenità di questi luoghi, oltre a un percorso di relazione umana, che ci permette di rieducarne la maggior parte. In trent’anni di esperienza posso dire che i risultati sono positivi: su 150 ospiti passati da noi, solo tre sono rientrati in carcere. Alcuni giovani che hanno commesso un omicidio sono diventati miei fidati collaboratori”. “La situazione dei tossicodipendenti in carcere è sempre molto problematica, sia per quanto riguarda la condizione degli stessi detenuti, sia per quanto concerne la situazione che il loro disagio crea nella complessiva convivenza in carcere con gli altri detenuti e con il personale penitenziario”, commenta Padre Salvatore Morittu, fondatore dell’associazione “Mondo X-Sardegna”. “Oggettivamente, i bisogni che hanno i tossicodipendenti in carcere sono gli stessi che li spingono a venire in comunità, vale a dire una ristrutturazione della propria persona. La tossicodipendenza è un grave disagio esistenziale e il carcere non è un luogo adatto per dare risposte ai bisogni di queste persone che vogliono recuperarsi. Parliamo di persone che hanno una dipendenza dalle droghe e non una ludopatia, dunque hanno bisogno di fare percorsi alternativi in strutture adeguate. Occorre uno sforzo eccezionale da parte dei Serd e delle comunità: non solo gli operatori devono essere messi in grado di lavorare, ma si devono creare le condizioni affinché ci sia un numero adeguato di comunità in grado di accogliere le persone attualmente in carcere. Questa progettualità deve essere varata dalla Regione Sardegna, dunque guardo con fiducia all’impegno del nuovo assessore alla Sanità e politiche sociali con il coinvolgimento delle realtà del territorio”. C’è poi un problema decisamente più complesso, che riguarda i tossicodipendenti in doppia diagnosi. “È indispensabile creare comunità residenziali per la doppia diagnosi, che nell’Isola sono poche e non adeguatamente investite di attenzione dalla classe politica, anche per quanto riguarda il supporto finanziario. Non solo: ci sono diagnosi che richiedono un trattamento farmacologico molto forte e altre che vanno più sul versante della rieducazione. Ecco perché è essenziale avere comunità diversificate, in modo da dare risposte più adeguate ai bisogni reali. So che è difficile risolvere il problema nel suo complesso, ma di certo si può arrivare a migliorare la vita di tante persone”. “Un detenuto costa allo Stato 560 euro al giorno, mentre per una persona seguita in comunità è prevista una retta di 80-100 euro, ferma alle tariffe di 12 anni e che ovviamente va aggiornata. Basterebbero questi due dati per capire quale sarebbe il risparmio per lo Stato. Senza contare l’aspetto più importante: quello umano e sociale”. La presidente del Coordinamento delle comunità terapeutiche sarde, Giovanna Grillo, è molto pragmatica ma conosce a fondo la materia e quindi aggiunge: “In Italia non c’è la cultura della giustizia riparativa, prevale l’aspetto punitivo. Si pensa che il tossicodipendente, in fondo, è uno che se le va a cercare ed è giusto punirlo. Sia chiaro: è evidente che niente e nessuno può esimerli dalla responsabilità di ciò che hanno fatto. Ma proprio per questo bisogna lavorare affinché capiscano il perché della pena inflitta e ciò che hanno combinato, oltre all’aspetto riparatorio verso la società e verso le vittime della loro condotta. Questa è la vera fatica del lavorare all’interno del sistema carcerario”. Giovanna Grillo ricorda poi che c’è una norma, “la legge n. 309/1990 sulle misure alternative alla detenzione per le persone che hanno problemi di dipendenza: è un provvedimento legislativo vecchio ma, per molti aspetti, ancora valido. La realtà dei fatti però si scontra con un budget superato, inadeguato e non in linea con i tempi. Così accade che magari il magistrato è favorevole alla pena alternativa ma non ci sono comunità in numero sufficiente per far fronte a questa esigenza, e quelle che ci sono tutte a pieno regime. Il privato accreditato, invece, ha occupato il 70 per cento dei posti letto. Qual è la differenza? Mentre una persona anziana che entra in una Rsa può contare sull’intervento del Comune di residenza o della propria famiglia, che vanno a colmare la differenza della retta sanitaria, per il tossicodipendente questa possibilità praticamente non esiste perché né lui, né la famiglia può permettersi una spesa del genere se non in casi rari. Vi è poi un altro aspetto per niente trascurabile: buona parte dei detenuti che stanno in carcere ha disturbi della personalità o comunque patologie psichiatriche gravi. In una comunità tradizionale non è possibile inserire troppi pazienti con disturbo antisociale di personalità, perché sarebbero ingestibili. Salterebbero gli equilibri necessari per lavorare serenamente con ciascun ospite. Se lo Stato e la Regione decideranno di cambiare rotta e investire su questo tipo di strutture, ne trarrà beneficio l’intera collettività”. Cosenza. “Questo carcere è una pena di morte” di Roberto Le Pera* Il Dubbio, 18 aprile 2024 Il sistema penitenziario è divenuto oramai una sorta di circo, non di circuito, in cui, però, non esistono trampolieri e pagliacci, ma soltanto gabbie che trattengono esseri umani che, con cadenza settimanale, si arrendono alla vita; si suicidano nelle gabbie. Un ordinamento penitenziario che consente o soltanto tollera, ritenendolo legale e legittimo, un sistema penitenziario, quello delle carceri italiane, che, negli ultimi venti anni, ha generato, mediamente, un suicidio ogni settimana può ritenersi distante dalla pena di morte? Il pensiero della pena di morte è solo apparentemente distante dal nostro stato di diritto; riflettiamo: oramai siamo indifferenti rispetto alle continue morti nelle carceri italiane. E allora, siamo certi di non essere pronti ad accettare l’idea di un carcere incostituzionale, di un carcere tortura, di un carcere che è pena di morte? Sia chiaro: lo Stato ha certamente il diritto e il dovere di differenziare i regimi detentivi in ragione della gravità dei reati commessi dal detenuto e dalla ritenuta, accertata, sua pericolosità (anche se più di qualche riserva residua sulla compatibilità tra regimi “duri” e presunzione di non colpevolezza). Ma questo elementare principio di sicurezza non ha nulla a che fare con le regole odiose, violente, non di rado irragionevolmente sadiche che connotano taluni regimi penitenziari e che le rendono vicini alla tortura. Il fallimento dell’articolo 27 comma 3 della Costituzione è il fallimento di una intera società, perché se di carcere si continua a morire vuol dire che il carcere è tortura; che il carcere è pena di morte. Il sistema penitenziario è divenuto oramai una sorta di circo, non di circuito, in cui, però, non esistono trampolieri e pagliacci, ma soltanto gabbie che trattengono esseri umani che, con cadenza settimanale, si arrendono alla vita; si suicidano nelle gabbie. La silenziosa strage del nostro sistema carcerario, di cui sempre meno si parla e di cui nulla o poco si vede, perché ciò che non appare non esiste. Ecco il senso delle manifestazioni su questo tema. Per generare sensibilità sulla 31ª vittima che, in questo 2024, porta a 1761 le morti per suicidio nelle carceri italiane negli ultimi trent’anni, senza dimenticare le ulteriori 2910 morti carcere per altre cause, tra cui malattie, omicidi e cause da ancora da accertare. Insomma, possiamo e dobbiamo affermare che, con 4660 morti in carcere negli ultimi trent’anni, il nostro sistema penitenziario non è solo fatto di celle ma di camere mortuarie. Cosa fare? Abbiamo il dovere di costringere democraticamente le istituzioni il mondo politico ad ammettere che il carcere, come oggi divenuto, costituisce la deriva dei diritti umani nonché ad ammettere, anzi a confessare, che l’articolo 27 della costituzione è, allo stato, un modo di dire, di apparire, utile soltanto a calmierare e calmare le coscienze dinanzi all’oltraggio di decessi per suicidi nelle nostre carceri. Solo in questo modo potremmo rifuggire da un approccio connotato da grave ignoranza costituzionale rispetto alla funzione della pena declinata nella costituzione. Occorre che le Istituzioni si rivolgano all’uomo e non al delitto. È giunto il momento in cui lo Stato di diritto, primo tra tutti, deve ammettere che il carcere, così divenuto, è tortura. Che questo carcere è incostituzionale. Perché questo carcere è pena di morte. *Presidente della Camera Penale di Cosenza Padova. Il Garante dei detenuti: “Il carcere non può più essere una discarica sociale” di Ivan Grozny Compasso padovaoggi.it, 18 aprile 2024 Antonio Bincoletto: “Le persone che si suicidano, col loro gesto mostrano di non aver trovato nel carcere speranza, opportunità di recupero e cura, ma anche di non sopportare la fatica del ritorno nel mondo fuori. Tante erano persone giovani e vicine alla fine della pena”. Per denunciare questa situazione e richiedere un’energica iniziativa che affronti l’emergenza e, più in generale, il problema delle carceri in Italia, la Conferenza Nazionale dei Garanti Territoriali indice una giornata di sensibilizzazione per il 18 aprile, invitando tutti i garanti ad intraprendere iniziative nel proprio ambito e a leggere alle ore 12 i nomi delle persone che hanno posto fine alla loro vita in carcere. Il Garante di Padova, Antonio Bincoletto, parteciperà nell’auditorium della Casa di Reclusione Due palazzi ad un incontro con studenti, docenti, volontari e detenuti previsto nell’ambito del progetto scuola/carcere (“A scuola di libertà”) organizzato dall’Associazione “Granello di senape”. Intorno alle ore 12 verrà data lettura del comunicato della Conferenza Nazionale dei Garanti Territoriali e dell’elenco dei nomi delle persone che sono morte per suicidio dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane. “La situazione delle carceri italiane negli ultimi mesi sta peggiorando. Dall’inizio del 2024 fra i reclusi vi sono già stati più di 30 suicidi accertati, oltre a diverse morti per altre cause, in molti casi ancora da accertare. Il tasso dei suicidi fra le persone detenute è ormai 20 volte superiore rispetto a quello delle persone libere, e anche fra il personale della polizia penitenziaria il tasso suicidiario (4 casi finora nel 2024) è molto più alto rispetto a quello di altre categorie di lavoratori. Nell’intero 2023 il numero di morti autoinflitte nel carcere era stato di 65 fra i detenuti; nel 2024, dopo tre mesi, abbiamo raggiunto quasi la metà di quella cifra e, se il fenomeno procedesse a tale ritmo, si rischierebbe di raddoppiare il numero di suicidi rispetto all’anno precedente. Perché accade? Possiamo considerarlo un fatto endemico e inevitabile?”, si domanda Antonio Bincoletto. “I nostri Istituti penitenziari sono sempre più affollati: abbiamo superato di oltre il 20% la capienza regolare e ci stiamo riavvicinando alla situazione che nel 2013 portò la Corte Europea dei Diritti Umani a condannare il nostro Paese per le condizioni detentive riservate alle persone recluse. Il personale a tutti i livelli è al di sotto dell’organico previsto e necessario; per questo agenti, amministrazione, educatori, psicologi, mediatori, operatori sanitari, magistrati di sorveglianza e cancellieri si trovano spesso in affanno nel gestire la quotidianità, e ciò comporta sofferenza aggiuntiva anzitutto per chi è recluso e difficoltà nel realizzare percorsi trattamentali virtuosi e di recupero attraverso lo studio, il lavoro, le altre attività che l’ampia rete di volontariato nonostante tutto continua ad offrire. Se poi guardiamo alla composizione sociale della popolazione carceraria vedremo che per un 30% circa si tratta di persone con dipendenze da sostanze, per un altro 30% circa di persone con nazionalità straniera, in molti casi con problemi sanitari e psichiatrici e in stato di indigenza. Carcere come “discarica sociale” dunque, in carenza di politiche assistenziali preventive ed efficaci nel territorio”. Il garante, in merito al Due Palazzi, dice: “Va detto inoltre che, dopo un’iniziale apertura alle telefonate quotidiane e alle videochiamate avvenuta nel periodo della pandemia, si è tornati in molti casi al regime precedente (10 minuti alla settimana) e molte sezioni che prima erano state “aperte” (con possibilità di spostarsi dalle celle nei corridoi e nelle sale comuni) ora si trovano ad essere richiuse e chi non svolge attività si trascorre buona parte della giornata isolato nella propria cella”, puntualizza. “In un quadro di questo tipo si può facilmente capire come e perché una persona possa giungere alla scelta estrema, specie se lasciata in condizione di inerzia e priva di adeguati supporti, con la prospettiva di ritrovarsi, una volta fuori, al punto di partenza se non peggio. Le persone che si suicidano, col loro gesto mostrano di non aver trovato nel carcere speranza, opportunità di recupero e cura, ma anche di non sopportare la fatica del ritorno nel mondo fuori. Tante erano persone giovani e vicine alla fine della pena”. Torino. “Si fermino i suicidi in cella”, incontro alle Nuove di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 18 aprile 2024 Nel 2024 sono già 31 i suicidi registrati nelle carceri della Penisola, tra cui 3 agenti penitenziari: un dato preoccupante se teniamo conto che nel 2023 i detenuti che si sono tolti la vita sono stati 57, ma siano solo ad aprile. Tra gli ultimi suicidi, poche settimane fa, un malato psichiatrico ristretto nella Casa circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno” che non doveva stare in carcere ma in una Rems, le residenze per detenuti psichiatrici (dove le liste d’attesa sono chilometriche). Una situazione, punta dell’icerberg dell’allarmante disagio nelle nostre carceri sovraffollate, che non è più ammissibile come ha più volte sottolineato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ancora recentemente ricevendo la Polizia Penitenziaria il 18 marzo definendo i suicidi uno “stillicidio intollerabile”. E poi rivolgendosi ai Garanti delle persone private della libertà personale, al Parlamento e al ministro di Giustizia, il Presidente ha detto: “Sui suicidi in carcere servono interventi urgenti”. E per rispondere all’appello di Mattarella, la Conferenza nazionale dei Garanti ha organizzato per la giornata del 18 aprile, un momento di riflessione sui suicidi e sulle morti in carcere, che coinvolge tutte le autorità garanti territoriali, le associazioni e gli organismi che si occupano di detenzione con iniziative e manifestazioni nelle città italiane. A Torino, la garante del Comune Monica Cristina Gallo, insieme alla garante di Alessandria Alice Bonivardo, promuovono alle 11 presso un luogo simbolo, il Museo del carcere “Le Nuove” in via Borsellino 3 (Saletta De Muro), un incontro “per ricordare le persone detenute morte per suicidio, malattia ed altre cause ancora da accertare e gli agenti di polizia penitenziaria che quest’anno si sono tolti la vita, per non dimenticare le loro storie e il dramma delle loro famiglie” spiega Monica Cristina Gallo. Nel corso della manifestazione viene letto un appello della Conferenza nazionale dei Garanti rivolto al ministero della Giustizia, all’Amministrazione Penitenziaria, ai membri di Camera e Senato e alla società civile, ad un mese esatto dall’appello i Sergio Mattarella. Numerose le associazioni che aderiscono all’iniziativa tra cui il nostro giornale, la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri Onlus, l’Associazione Antigone, “Nessuno Tocchi Caino”. L’Arcivescovo Repole in carcere - Ma non tutto è buio dietro le sbarre: il periodo della detenzione può essere l’occasione per ripensare alla propria vita e riscoprire la fede che si era affievolita per strada. Come è accaduto a tre ristretti della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno che, nella mattinata di sabato scorso nella cappella del penitenziario, hanno ricevuto il sacramento della Confermazione dall’Arcivescovo mons. Repole, durante la Messa nella cappella celebrata per un gruppo di reclusi a cui ha partecipato anche il direttore Elena Lombardi Vallauri. I tre cresimandi, preparati dai catechisti che collaborano con i cappellani, sono due giovani che hanno scelto come padrini i compagni di cella e una donna che ha voluto come madrina la sua catechista suor Rose Watoske, cottolenghina. Parole di speranza e misericordia quelle dell’Arcivescovo nell’omelia della Messa pasquale: l’amore di Dio e il suo progetto di amore è per tutti e ciascuno, non è frenato dagli sbagli del passato; sbagli che tutti ma proprio tutti possiamo commettere. Volti commossi al termine della Messa in un clima di festa che si spera possa contagiare anche chi è rimasto in cella. Aosta. Suicidi in carcere, intervenire con la massima urgenza di Elena Giovinazzo aostaoggi.it, 18 aprile 2024 La Garante valdostana: a Brissogne 10 tentativi sventati, serve rafforzare prevenzione e rieducazione. La Conferenza nazionale dei Garanti dei detenuti lancia un appello sulla necessità di intervenire “con la massima urgenza” per prevenire i suicidi in carcere, sia dei ristretti che degli agenti di polizia penitenziaria. Solo quest’anno, i Garanti segnalano già trentuno casi di suicidio in tutta Italia. In Valle d’Aosta, la Garante Adele Squillaci spiega che non ci sono stati casi, però si registrano dieci tentativi. A questi vanno aggiunti 976 “eventi critici” tra aggressioni, minacce, danneggiamenti, violazioni di norme penali. Per la Garante dei detenuti della Valle d’Aosta, occorre “continuare anche a Brissogne, da un lato, a prevenire atti di autolesionismo o ideazioni suicidarie con l’instancabile opera della Direzione carceraria, degli educatori, della Polizia penitenziaria, del personale medico e paramedico, dall’altro, a realizzare attività mirate alla rieducazione, con l’apporto, sempre presente, anche dell’Associazione valdostana volontariato carcerario, degli operatori della Caritas, delle cooperative sociali, del cappellano e degli altri ministri di culto”. Serve poi proseguire e rafforzare il reinserimento della persona che torna in libertà con percorsi formativi e lavorativi interni ed esterni all’istituto penitenziario. “Dalla Direzione carceraria, dall’Ufficio esecuzione penale esterna, dall’Associazione valdostana volontariato carcerario e dai vari soggetti che operano in favore dei ristretti - segnala ancora l’Ufficio della Garante - sono emerse più volte la difficoltà, la solitudine e l’abbandono di cui risentono non solo il detenuto, ma anche chi esce dal carcere, spesso senza una famiglia, una casa e un lavoro, possibili cause di recidiva. La Garante rammenta che, in questo momento, l’Amministrazione penitenziaria e l’Istituto di Brissogne risultano carenti di personale, soprattutto nel settore contabile, amministrativo ed educativo”. In questo contesto “non solo il personale dell’Istituto, ma anche tutti coloro che si relazionano con i ristretti (sanitari, docenti, avvocati, volontari, ministri di culto, garanti territoriali…) devono convergere nel rilevare “eventi sentinella” cogliendo per tempo segnali importanti e significativi, evitando così una sconfitta complessiva per la società che si traduce, purtroppo, nella perdita di una vita umana”. Ascoli Piceno. Detenuto suicida, i legali si oppongono all’archiviazione Corriere della Sera, 18 aprile 2024 La vittima era bresciana, ma in carcere ad Ascoli Piceno: aveva più volte scritto alla Procura lamentando le sue precarie condizioni di salute. Gli avvocati: il direttore pro tempore della prigione non era nemmeno iscritto nel registro degli indagati. Ieri mattina, mercoledì 17 aprile, al tribunale di Ascoli Piceno si è celebrata l’udienza a seguito delle opposizioni alla richiesta di archiviazione del procedimento relativo al suicidio di Roberto Franzè, detenuto impiccatosi nel carcere di Ascoli l’8 dicembre 2021. Franzè 45 anni era residente a Brescia ed era in carcere, all’epoca, su ordinanza di custodia cautelare firmata dal GIP bresciano nell’ambito di un’inchiesta su usura ed estorsione. Era stato un suicidio annunciato da lettere che il detenuto scrisse alla procura di Brescia nelle quali riferì delle condizioni gravi di salute nelle quali si trovava. “C’è qualcosa che non quadra nella richiesta di archiviazione del procedimento per il suicidio di Roberto Franzè” spiegano gli avvocati Anna Marinelli e Gianbattista Scalvi, difensore dei parenti dell’uomo che hanno eccepito che la procura della Repubblica di Ascoli Piceno ha chiesto l’archiviazione nei confronti del direttore pro-tempore del carcere in cui era detenuto Franzè senza che lo stesso neppure risultasse formalmente iscritto nel registro degli indagati. Il giudice rilevata questa anomalia non ha potuto che rinviare l’udienza al 5 giugno chiedendo chiarimenti alla Procura di Ascoli. “Questo episodio apparentemente marginale - spiegano gli avvocati Scalvi e Marinelli - getta un segnale d’allarme sul contrasto che esiste tra la segnalazione del dramma dei suicidi in carcere e l’attenzione che viene in concreto portata quando si apre un procedimento finalizzato alla verifica dell’eventuali responsabilità che possono non aver impedito il suicidio”. “Non ce la faccio più” scriveva - Per i legali, “come spesso accade si tratta di verificare se i protocolli di prevenzione dei suicidi vengono nel concreto applicati soprattutto negli istituti nei quali si verificano ripetuti episodi”. Cuneo. Nelle Rems non c’è posto, Sacha rimane in carcere di Zaira Mureddu La Stampa, 18 aprile 2024 Ha ucciso il padre e un amico, era incapace di intendere. A inizio marzo, a sette mesi dal duplice omicidio commesso da Sacha Chang a Montaldo Mondovì, il giudice Daniela Rita Tornesi del tribunale di Cuneo ha giudicato il ragazzo incapace di intendere al momento del fatto, accogliendo la richiesta formulata dal difensore del giovane, l’avvocato monregalese Luca Borsarelli, sulla scorta della perizia formulata dallo psichiatra Franco Freilone. Il 16 agosto scorso Sacha Chang, 22 anni, ospite a Montaldo Mondovì di Lambertus Ter Horst ha ferito a morte quest’ultimo dopo aver ucciso con la stessa arma, un coltello da cucina, suo padre, Chain Fa Chang. Horst, medico olandese, è stato soccorso dai vicini di casa che hanno visto Sacha fuggire nei boschi. È arrivato l’elisoccorso, ma Horst è morto prima del trasporto in ospedale. Chang, anche lui olandese che di professione era maestro, è stato trovato morto in casa poco dopo. Erano le 16 del pomeriggio. Il ragazzo per quasi 48 ore ha eluso le ricerche condotte a tappeto dai carabinieri in tutta la vallata. Più che una caccia all’uomo è stata una missione di soccorso di un ragazzo per il quale, nonostante non vi fossero documentazioni cliniche, era chiaro un grave disturbo psichiatrico. È stato trovato all’alba del secondo giorno di ricerche. Era esausto, nudo e scalzo, ferito durante la folle corsa nei boschi e addormentato fuori di una piccola chiesa nel cuore di un bosco privato di castagni. Medicato all’ospedale di Mondovì è stato trasferito prima al carcere di Cuneo poi al reparto psichiatrico delle Molinette, quindi al carcere delle Vallette di Torino. È rimasto a lungo in silenzio. L’unica persona con la quale parlava è la madre, che al legale della prima ora ha affiancato l’avvocato olandese Robert Malewicz, che si sta occupando dei contatti con la Regione Piemonte e l’ambasciata olandese per il ritorno in patria del ragazzo. Intanto è stata riconosciuta l’incapacità di intendere e volere al momento dei fatti. La procura di Cuneo non si è opposta. È stato quindi deciso il trasferito in una Rems, residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza perché Sacha è ancora ritenuto socialmente pericoloso. Non c’è però posto in una Rems e così è ancora in carcere. Anche l’affidamento ad una Rems è una misura cautelare applicata dal Gip in attesa che il pubblico ministero decida di esercitare l’azione penale, e nel caso di Sacha è probabile che sia non luogo a procedere. “Bisogna aspettare - dice Borsarelli - ma la via del ritorno in Olanda probabilmente è la più adatta a contemperare l’esigenza di tutela della collettività con quelle della salute dell’indagato”. Bolzano. Scabbia in carcere, pronto il piano per fermare i contagi di Chiara Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 18 aprile 2024 Il piano dell’Asl: un trattamento farmacologico ai detenuti per interrompere la catena del contagio. “La misura più idonea è il trattamento farmacologico. Cercheremo di fare un intervento massivo, su tutto il gruppo dei detenuti, per interrompere la catena dei contagi. Non in termini di una vaccinazione: il farmaco uccide l’acaro sulla pelle e ne impedisce la replicazione, una sorta di sterilizzazione che però ha una durata di pochi giorni. Se dopo si torna in contatto con l’acaro, si ricomincia daccapo. Per questo la prima linea da presidiare è quella dell’igiene”. È Pierpaolo Bertoli, referente per le attività sanitarie in carcere, a descrivere il protocollo elaborato per fronteggiare i contagi di scabbia in via Dante. Protocollo che è stato elaborato dall’Azienda sanitaria (Asl) insieme ai responsabili della struttura e e che verrà messo in pratica, con ogni probabilità, all’inizio della prossima settimana. “Stiamo aspettando di avere a disposizione i farmaci - spiega Bertoli - che non sono di facile reperimento, in questi volumi. Parliamo di oltre 100 detenuti, con la possibilità di ampliare l’offerta anche agli agenti di polizia penitenziaria, anche se per loro il riferimento non è l’Asl ma il medico del lavoro”. Di contagi, finora, ce ne sono stati sei (cinque tra i detenuti, uno tra gli agenti), con tre ricoveri in ospedale. Ma il numero potrebbe aumentare, considerato che il periodo d’incubazione, per chi ha avuto contatti stretti con i contagiati, “può durare anche diverse settimane”. Il trattamento farmacologico dovrebbe riuscire a eradicare l’infezione ma, come spiega il responsabile dell’Asl, “se non si risolve il problema alla base è difficile venirne a capo. La scabbia si trasmette attraverso materassi, lenzuola e asciugamani: serve una gestione molto attenta che, in una struttura con le caratteristiche di quella di via Dante, è abbastanza complicata”. E questo perché la struttura è sovraffollata (attualmente i detenuti sono 108 su 88 posti), con solo un vano docce per sezione. Il progetto per un nuovo carcere da 200 posti ci sarebbe, l’area anche (in zona Agruzzo, espropriata per una spesa da 14 milioni), l’impresa vincitrice della gara (con base d’asta da 64 milioni) pure: quel che manca è il via libera ai lavori. Al pressing del presidente della Provincia Arno Kompatscher, che martedì aveva annunciato l’invio di una lettera a Roma (“continueremo a dirlo in tutte le sedi, anche alzando la voce”), si unisce ora quello di Christian Bianchi, assessore alle Opere pubbliche che ha chiesto un incontro con il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari: “La situazione è estremamente grave e urgente. È imperativo garantire una struttura adeguata”. Carinola (Ce). Terra Felix e Coldiretti insieme per una nuova vita ai detenuti grazie all’agricoltura casertanews.it, 18 aprile 2024 È stato dato il via ufficiale alle attività agricole della Casa di reclusione attraverso il trapianto delle colture estive. Si sono aperte questa mattina, mercoledì 17 aprile, le attività del progetto Crea - coltivare responsabilità ed alternative in agricoltura. Si tratta di un importante lavoro destinato al reinserimento sociale dei detenuti, coordinato dalla cooperativa sociale Terra Felix, con il supporto di Coldiretti Caserta insieme al Provveditorato regionale della Campania. Oggi è iniziata la semina nel tenimento agricolo della Casa di reclusione di Carinola, con la partecipazione del presidente di Coldiretti Caserta, Enrico Amico, del direttore dell’istituto penitenziario, Carlo Brunetti, di Francesco Pascale della cooperativa Terra Felix, di Bartolo Aiezza dell’azienda Naturiamo e di Stefano Mancini per la cooperativa La Strada. È stato dato il via ufficiale alle attività agricole della Casa di reclusione attraverso il trapianto delle colture estive che saranno poi gestite dai detenuti. “Siamo molto contenti di dare una mano in queste attività di inclusione”, ha commentato Enrico Amico, presidente della Federazione di Caserta della Coldiretti. “Il reinserimento delle persone detenute - ha continuato Amico - è un principio sancito dalla Costituzione ed è l’obiettivo massimo di ogni decisione che porta alla reclusione della persona. Far parte di progetti simili ci inorgoglisce.” Padova. Premio “Gattamelata 2024” alla direttrice di Ristretti Orizzonti, Ornella Favero rovigo.news, 18 aprile 2024 Sono la presidente di “Granello di Senape Padova Odv”, Ornella Favero, l’associazione “Il Tarassaco” Odv di Rovigo, la campagna di comunicazione “Molte lingue per dire no alla violenza sulle donne” del Centro Veneto Progetti Donna - associazione Padova Donne (ex aequo) e l’azienda Cardinal di Padova quattro dei sei candidati vincitori al premio Gattamelata di quest’anno, nato 18 anni fa per valorizzare la promozione della cultura e della pratica del volontariato e della solidarietà. A selezionarli, su oltre 40 candidature pervenute, il consiglio direttivo del Csv di Padova e Rovigo, ente ideatore e promotore del premio. Oltre a loro, sono stati scelti anche Unhcr Italia (Agenzia Onu per i rifugiati) per le istituzioni e Tim (agenzia Havas Milan) con “La parità non può aspettare” per la nuova categoria dedicata alla campagna di comunicazione più efficace. Le premiazioni, condotte dalla giornalista Micaela Faggiani, si sono svolte in sala Rossini al Caffè Pedrocchi di Padova nel corso di una cerimonia iniziata alle ore 18 di martedì 16 aprile che ha permesso di sottolineare l’alto valore dell’impegno e dell’attivismo civico sotto molteplici forme. A premiare Favero è stato Luca Marcon, presidente del Csv di Padova e Rovigo, che ha ricordato il prestigio del premio; a premiare Il Tarassaco Silvana Bortolami, presidente dell’Organismo territoriale di controllo (Otc); a premiare Cardinal Marco Bussolotto, responsabile di ambiente, società e governance per conto dell’azienda San Marco Group; a premiare Padova Donne Chiara Tommasini, presidente di CSVnet; a premiare l’Unhcr Cristina Piva, assessora al Volontariato del Comune di Padova. Ornella Favero è nota in tutta Italia per il suo impegno pluriennale sui temi del carcere e della legalità. Giornalista, nel 1997 ha dato vita all’interno della Casa di reclusione di Padova al bimestrale “Ristretti Orizzonti”, diventato una fra le più qualificate e autorevoli riviste sui temi del carcere e del disagio sociale legato alla carcerazione. È responsabile del sito www.ristretti.org, nonché del Centro di Documentazione “Due Palazzi”. Organizza ogni anno incontri tra decine di detenuti e migliaia studenti sia in carcere, sia nelle classi. Da ottobre 2015 è Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, l’organismo maggiormente rappresentativo di enti, associazioni e gruppi impegnati in esperienze di volontariato nell’ambito della giustizia. Motivazione: per il suo continuo e costante impegno nella promozione dei più alti valori di una società che possa a pieno titolo definirsi civile; tra le tante cose ricordiamo, nel 1997, l’inizio dell’avventura della rivista Ristretti Orizzonti, realizzata nella Casa di Reclusione di Padova. Il Tarassaco Odv è un’associazione di volontariato per la salute, il sociale e l’ambiente nata nel 2019 a Pettorazza Grimani (RO) per promuovere una maggiore sensibilità ecologica, valorizzare il territorio, le tradizioni locali e le attività sociali, di comunità e culturali. Motivazione: per la passione e l’impegno a tutela della biodiversità del paesaggio e delle tradizioni locali. Nel 2021, ha avviato il Progetto Centoboschi piantando più di 5 mila alberi e arbusti su terreni sia pubblici che privati. Padova Donne Aps è un’associazione che si occupa della promozione dell’attivismo sui diritti delle donne a Padova e della sensibilizzazione contro la violenza di genere, per questo crede fermamente nei valori e nell’operato quotidiano del Centro Veneto Progetti Donna. Valorizzare il lavoro delle operatrici del nostro territorio per noi significa formare una rete di donne che lavorano in sinergia per creare una comunità che sia sempre più consapevole sui temi della violenza di genere e dei servizi per contrastarla. Inoltre, per noi è importante fare in modo che gli sforzi di chi si occupa ogni giorno di supportare le donne vengano riconosciuti il più possibile. Motivazione: per aver ideato uno strumento comunicativo, semplice e multilingue, in grado di facilitare l’accesso delle donne con cittadinanza straniera o di origine straniera al centro antiviolenza. Cardinal blockchain software house è un collettivo di oltre talenti e creativi impegnata nello sviluppo di soluzioni blockchain e Web3 per startup e imprese, esplorando le loro applicazioni in vari settori. Motivazione: per essersi distinti con impegno e dedizione nella promozione della cultura della solidarietà, della sostenibilità e dell’innovazione, si sono anche sperimentati nel volontariato aziendale diventandone ambasciatori e promuovendolo in diverse occasioni pubbliche. Gli Altri Premiati - Unhcr Italia - Agenzia ONU per i rifugiati nasce il 14 dicembre 1950 per iniziativa dell’Assemblea generale delle Nazioni unite occupandosi, nel corso degli anni, di rifugiati, sfollati, apolidi in 134 Paesi del mondo con oltre 16 mila addetto. Motivazione: per il suo impegno nel promuovere ai più alti livelli libertà e dignità umana, valori che vengono enunciati tanto nella Carta dei Valori del Volontariato quanto nel nostro dettato costituzionale. “La parità non può aspettare” è la campagna di comunicazione realizzata dall’agenzia Havas Milan per conto di Tim - Telecom Italia Spa. Motivazione: per essere riuscita a trasmettere con efficacia le difficoltà che molte donne si trovano a vivere tanto in ambito familiare quanto lavorativo. Ai sei soggetti vincitori è stata consegnata la libera reinterpretazione in edizione limitata del “Gattamelata” dello street artist Maupal, che così ha descritto la sua opera: “Un Santo senza nome che cammina su un prato senza erba e si dirige verso un Caffè senza porte. Tutto all’interno della sagoma dello zoccolo del cavallo sulla sfera della statua del Gattamelata. Lo sfondo sono le spirali di sangue che si sono versate nelle sue battaglie”. A corredo della cerimonia di premiazione gli interventi musicali del violinista Tommaso Luison e della pianista Luisa Antoni. Vicenza. Giustizia riparativa, Agnese Moro con i carcerati del “Del Papa” di Marta Randon vocedeiberici.it, 18 aprile 2024 “Mi vergogno di stare di fronte alla signora Agnese Moro”, ha detto con coraggio un giovane detenuto in terza fila. “Spero anch’io di essere perdonato”, ha aggiunto timidamente un altro ragazzo nella Casa circondariale di Vicenza. “Perdono è una parola scivolosa, non mi piace, preferisco il termine “ritrovarsi”, è più bello - ha risposto la terzogenita del presidente della Dc ucciso nel 1978 dalle Brigate Rosse -. Io e Grazia ci siamo ritrovate”. “Il perdono presuppone che ci sia qualcuno che concede qualcosa. Non c’è equità”, ha aggiunto Grazia Grena, militante nelle Brigate Rosse per una decina di anni. “Io voglio bene a Grazia. Incontrarla mi ha fatto stare meglio. I fantasmi sono spariti”. “Il segreto è accettare la parte peggiore di te e ripartire, io l’ho fatto” ha aggiunto ancora Grena. Hanno alzato le mani, come a scuola, e sono intervenuti, discretamente, ma intensamente, hanno lasciato andare emozioni, dubbi, drammi interiori. Qualche lacrima ha rigato i volti. Una ventina di detenuti della Casa circondariale di Vicenza giovedì scorso ha incontrato Agnese Moro e Grazia Grena, entrabe 72enni, due anime belle che da anni girano l’Italia in lungo e in largo per parlare dell’importanza e della forza salvifica della giustizia riparativa. Vittima e carnefice che si incontrano. Mani che si sfiorano. Umanità che incontra altra umanità. Nella Casa circondariale la scorsa settimana si è parlato di ascolto e riconciliazione. Di accettazione di sé e dell’altro, di come la sofferenza di chi ha fatto del male possa essere simile a quella di chi quel male l’ha ricevuto. L’iniziativa è stata organizzata dalle volontarie di “Unfilocheunisce”, laboratorio sartoriale in carcere, all’interno del progetto “Storie di vita”. All’incontro era presente anche la neo direttrice 28enne Luciana Traetta. Grena non è direttamente responsabile del sequestro di Moro e non ha ucciso, ma è stata protagonista di quella stagione di sangue. Ha scontato otto anni di carcere duro, l’ex art.90, oggi 41 bis. Negli anni Settanta lavorava come infermiera, la chiamavano “sorriso”. “I malati erano un po’ carcerati - ha raccontato -. Non avevano diritti. Cominciai un percorso vero di lotta di rivendicazione dei diritti dei dipendenti e dei malati. Scelsi la lotta armata. Vissi due anni in clandestinità prima dell’arresto”. Il primo spiraglio arrivò con l’abolizione dell’articolo 90: “Cominciò il dialogo, strumento che ci diede la possibilità di ragionare, di pensare quali erano le nostre responsabilità verso la società”. La svolta per Grena arrivò nel 1985 grazie ad un’intuizione del cardinale Carlo Maria Martini che fece entrare al San Vittore, dov’era detenuta, padre David Maria Turoldo e padre Camillo De Piaz. “Ci chiesero: “Perché?”. Il mio processo di cambiamento non cominciò nei periodi di isolamento, ma in quelli di riconoscimento e di presa di coscienza di parte della storia”. Grena uscì nel 1990, trovò lavoro in una libreria, poi in un Centro studi sociale. Nel 1991 nacque suo figlio: “Non sapevo come dirgli che ero stata in carcere, ci riuscii grazie all’associazione “Bambini Senza Sbarre” nata dal Gruppo Carcere Mario Cuminetti. Fu un passaggio dolorosissimo”. Per la vera rinascita ebbe però bisogno che Agnese Moro le chiedesse: “Perché?”. “Era il 2010. La mediatrice esperta Claudia Mazzucato mi invitò a partecipare agli incontri di giustizia riparativa. Rimasi senza fiato perché il passato tornava. Dovevo incontrare le vittime ed entrare in relazione con gli amici di un tempo che negli interrogatori avevano fatto il mio nome. Mi ritrassi, poi tolsi la corazza. Oggi so che la chiave è scoprire l’umanità dell’altro. Quando incontri il loro dolore, ti accorgi che è il tuo. E ti senti simile”. Agnese Moro li chiama “amici improbabili”. Uno dei primi che incontrò fu Franco Bonisoli che il 16 marzo 1978 era in via Fani. Uccise gli uomini della scorta di Aldo Moro: “Si presentò a casa mia con una piantina, segno di vita - - ha raccontato Agnese -. Con noi c’erano tre mediatori”. “I fantasmi li puoi odiare, le persone no. Volevo sapere chi era lui adesso. Mi disse che in carcere prendeva i permessi per andare a parlare con i professori dei figli. Mi si aprì un mondo, scoprii il suo dolore che non era diverso dal mio. Fu una scoperta sconvolgente. Qualcosa mi disse che eravamo uguali. Soffrivamo entrambi, potevamo costruire ponti”. “Se chiediamo di incontrare i familiari ai quali abbiamo fatto del male mentre siamo dentro veniamo strumentalizzati, lo Stato pensa che lo facciamo perché vogliamo uscire. Dobbiamo farlo quando siamo fuori” ha commentato uno dei detenuti. “Serve fiducia. E la fiducia nasce piano piano. Sono carni vive che si incontrano, è uno scandalo, improbabile, impossibile, eppure Agnese ed io siamo qui”, ha detto Grazia Grena. Agnese Moro non ha respirato fino al 2010, anno in cui padre Guido Bertagna, gesuita, con sobrietà e delicatezza le chiese se voleva incontrare alcuni brigatisti. “Ero chiusa nel mio silenzio. Pensavo che questi incontri potessero offendere la mia famiglia. Dissi di no. Poi capii che padre Guido mi stava proponendo qualcosa che non conoscevo, avevo bisogno di qualcuno che guardasse al mio dolore. Ebbi fiducia. Prima incontrai persone come me. Vidi che respiravano. Il lavoro dei mediatori fu importante”. L’ultima volta che Agnese vide il padre, l’uomo si stava preparando per uscire: “Era in bagno. “Ciao papà, io vado”. Lo rividi all’obitorio 55 giorni dopo. Durante il sequestro nessuno l’ha aiutato, poi, per il funerale, tutti lo volevano. Era gentile, prezioso, a tratti buffo, una cara persona”. Agnese dei lunghi processi ricorda gli occhi dei giovani dentro la gabbia. “Mi sembrava che ridessero, che si prendessero gioco di noi. Non capivano niente di quello che avevano fatto. La mia mente era piena di fantasmi e fu così per tanti anni. Ero piena di scorie radioattive che mi facevano allontanare da tutti. Mi padre mi manca tantissimo, ma la possibilità di ascoltare mi ha cambiato la vita”, ha detto ai detenuti. “Io mi rivedo in quei ragazzi dietro le sbarre, ma ora sto malissimo”, ha detto un uomo appoggiato al muro nell’angolo. “Sapere di poter essere ascoltato e accettato mi dà grande speranza”, ha commentato un altro. Una voce dalla prima fila azzarda: “Che ne penserebbe suo padre del rapporto che ha costruito con la signora Grazia?”. La risposta di Agnese Moro è arrivata senza esitazioni: “Papà è contento, lo so”. Cesena. “Dopo il carcere si comincia una nuova vita” Il Resto del Carlino, 18 aprile 2024 La testimonianza da parte di un detenuto è stata organizzata dalla collaborazione tra l’Istituto di Sogliano e l’Agenzia Technè. Nel corso dell’anno scolastico 2023/2024, il nostro Istituto ha attivato il Progetto ‘Legalità’, con l’obiettivo di valorizzare i comportamenti di cittadinanza attiva. Tra le diverse attività proposte, è stata molto significativo l’incontro-testimonianza ‘Il carcere da dentro’, organizzato in collaborazione con l’Agenzia Technè di Cesena. Insieme ai nostri professori e ad altre classi siamo partiti da Sogliano e ci siamo recati alla Rocca di Roncofreddo, luogo dove si sarebbe svolto l’incontro. Erano presenti un ex detenuto A.S., ormai prossimo alla fine della pena, che ci ha raccontato la sua esperienza nel carcere di Forlì, e l’ex Vice- comandante dello stesso carcere, la signora M.D. Quest’ultima ha preso la parola per prima e ci ha parlato in modo chiaro, spiegandoci cosa si può trovare all’interno del carcere, come sono suddivisi i prigionieri e quali mansioni ha svolto nel corso degli anni all’interno della struttura. Dopo questa introduzione, A.S. ci ha spiegato la sua esperienza all’interno del carcere e ci ha raccontato la sua storia. Abbiamo ascoltato con molta attenzione il suo racconto personale. Incarcerato per aver rubato dei soldi per pagare le bollette, ha dovuto abituarsi alla nuova realtà. Secondo lui lo Stato aiuta i carcerati a diventare delle persone migliori: si può studiare e anche iscriversi all’esame di terza media oppure all’esame di maturità. Lo Stato aiuta anche ad avere un lavoro, una volta scontata la tua pena. Si può lavorare, anche se la paga non è alta. Nelle celle si può mettere un cucinino e si ha la possibilità di comprare degli alimenti e di cucinarli. Lui si ricorda di quanti caffè beveva al giorno, per non rifiutare l’invito degli altri carcerati. Al tempo stesso, la vita all’interno della struttura detentiva, era molto dura: nonostante le agevolazioni messe in campo dallo Stato, occorre fare sempre molta attenzione a rapportarsi con gli altri carcerati e, in alcuni momenti, si possono correre anche rischi personali molto alti. Non è facile crearsi amicizie nel carcere, ci sono dei pericoli come risse e tentati omicidi. Come nelle scuole ci sono bulli che si approfittano dei più deboli. Si può avere uno sconto di pena di 45 giorni ogni 6 mesi, a patto di avere una buona condotta, rispettando tutte le regole previste nel periodo detentivo. Essere privi di libertà è difficile da accettare e non ci si abitua mai. Le visite dei familiari ti sostengono moralmente e ti fanno capire l’errore che hai commesso e i momenti che si perdono, soprattutto, quando si ha un figlio. Tornando alla vita normale, una volta scontata la pena, ci si accorge di essere cambiati e non conta se in carcere si è rimasti molti anni oppure pochi mesi: quell’esperienza non si scorderà mai; le stesse vecchie amicizie non resistono e, una volta usciti, sarà necessario ripartire da zero. Il racconto molto toccante delle esperienze vissute in carcere e della frustrazione che si prova ad essere rinchiuso dietro le sbarre ci ha fatto molto riflettere. Per A.S. stare in carcere è come perdere tempo per vivere; si perdono gli amici, e a volte anche i famigliari e si prova una grande solitudine. Gli alunni della classe 3ªA I.C. Sogliano al Rubicone - plesso Calamandrei Daria Bignardi: “Ogni carcere è un’isola: l’ho imparato lì dentro” di Francesco Mannoni Il Mattino, 18 aprile 2024 La giornalista firma un reportage sulle galere italiane, avendole visitate a lungo: il problema non sono le mele marce. È l’intero sistema che è guasto, anche gli agenti di custodia sono vittime di un meccanismo trascurato e disperato. Il nuovo libro di Daria Bignardi, “Ogni prigione è un’isola” è un’opera con più anime. È un reportage sui problemi delle carceri italiane e dei carcerati; è un labirinto di storie amare attinte dalle voci dei detenuti; è il racconto di un’umanità dolente fatta di ladri, rapinatori, povericristi, immigrati e tossicodipendenti (che costituiscono i due terzi della popolazione detenuta), mafiosi e camorristi, ma anche idealisti e rivoluzionari, terroristi rossi e neri; un coro di voci tragiche, dissenzienti, un quadro dai colori foschi, un magma ribollente che rende la questione carceraria sempre più esplosiva. La giornalista ha “bazzicato” le prigioni per anni. “Da ragazzina”, scrive, “mi appassionavo al Conte di Montecristo o a Le mie prigioni, e a vent’anni ho cominciato a scrivere lunghe lettere a un condannato a morte statunitense”; in carcere conobbe il futuro suocero Adriano Sofri e per il carcere operò al meglio delle sue possibilità anche se - precisa - ora “non provo più nessuna fascinazione per le galere”. Per scrivere questo libro di memorie e riflessioni, si è “rinchiusa” a sua volta in una piccola isola, Linosa, una delle tre Pelagie: “piccola, verde, nera, persa nel mare blu tra Africa e Sicilia”, per immergersi nel passato e rievocare un volontariato compiuto dentro le carceri, soprattutto a San Vittore di Milano. Sperava di poter migliorare la vita dei detenuti, Bignardi? “Non ho questa presunzione, mi limito a raccontare quello che ho visto: come ho scritto nel libro, in prigione c’è la vita com’è, fatta di dolore, ingiustizia, povertà amore, malattia, morte, amicizia, rimpianto di una felicità e desiderio di libertà”. La galera come specchio della società? “Che il carcere sia lo specchio della società lo dicono detenuti, agenti, direttori, educatori, magistrati, chiunque in carcere ci lavori e ci viva. È anche una scuola di crimine, nella maggior parte dei casi. In tanti raccontano di esserci entrati da ragazzi, magari per un pezzo di hashish o un reato minore, ed essere usciti pronti per una vera carriera criminale”. Il numero dei suicidi in reclusione si fa ogni anno più pesante... “Sì. E ci parla di un disagio insopportabile, di persone malate, tossicodipendenti, con problemi psichiatrici, che in carcere non ci dovrebbero stare”. La detenzione può essere davvero sentita come una “vendetta sociale”? “Di fatto lo è. È il sistema carcere che è guasto, non le singole “mele marce” come sentiamo dire ogni tanto”. Non si è mai saputo come sono morti i 13 detenuti durante le rivolte nelle prigioni italiane nel 2020, fra cui Salvatore Piscitelli di Acerra... “Ufficialmente sono morti di overdose. Due procedimenti d’inchiesta sono stati archiviati: ora c’è un ricorso in atto alla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Cucchi, Aldrovandi, i pestaggi a Santa Maria Capua Vetere... Questi metodi inaccettabili sono una regola o un’eccezione? “Credo che anche gli agenti siano vittime di un sistema trascurato e disperato”. Il carcere è davvero inutile come dice Luigi Pagano da Cesa (Caserta), per quarant’anni direttore di varie carceri italiane, da Pianosa alla Sardegna, fino a San Vittore? “Che il carcere così com’è sia inutile lo dicono i dati delle recidive, che sono circa il 70 per cento. Nelle rare realtà dove le persone ristrette possono imparare un lavoro qualificato la recidiva crolla al 20 per cento”. Il 41 bis: isolare gli elementi ritenuti pericolosi serve davvero o è una delle tante crudeltà carcerarie? “Molti agenti mi hanno detto che il 41bis è inutile perché “tanto i detenuti possono parlare con l’avvocato”. Altri che è anacronistico. Altri ancora pensano sia servito a far collaborare certi imputati”. Perché il carcere è un’isola? “La definizione è di un ispettore di un carcere del Nord. Voleva dire che ogni istituto è diverso dall’altro, un mondo a sé, e che tutto in un carcere dipende dalla direzione e dal rapporto della direzione col comandante degli agenti. Ma anche dal territorio. Le carceri dove i detenuti sono più lontani dalle loro famiglie, o totalmente abbandonati perché stranieri, sono le più tristi”. Il “fallimento” dei diritti costituzionali di Alessandra Algostino Il Manifesto, 18 aprile 2024 Le manganellate agli studenti e le querele per diffamazione contro la critica politica, per restare alle ultime di cronaca, mostrano un potere sempre più intollerante ai suoi limiti e alle contestazioni, che chiude gli spazi politici, quando non esercita, come nei casi citati, una vera e propria “violenza istituzionale”. Ogni scelta politica, che sia la delibera del Senato accademico della Sapienza, un provvedimento del governo o del parlamento, per quanto valida in quanto assunta secondo le procedure democratiche previste, non è per questo sottratta alla discussione e alla contestazione. Sembra ovvio, ma a quanto pare non lo è. La democrazia è conflitto e il dissenso ne è elemento coessenziale. Il processo di integrazione e mediazione politica, per quanto includente possa essere e, per inciso, non lo è (e non abbiamo ancora il premierato), non esaurisce la partecipazione. La democrazia si esprime nelle forme rappresentative, così come dal basso, attraverso l’esercizio dei diritti costituzionali, in primo luogo quelli legati al conflitto: lo sciopero, l’espressione del pensiero, la manifestazione. Sono concretizzazioni della partecipazione effettiva, che è il cuore, insieme strumento e obiettivo, della democrazia. Studentesse e studenti che manifestano esercitano diritti costituzionali, materializzano la democrazia, rendono effettiva la partecipazione, restituiscono alle università il loro ruolo di costruzione di sapere critico. La libertà di ricerca e di insegnamento non è accettazione dell’esistente nella finzione della neutralità, ma azione di discernimento, discussione, consapevole scelta: non prendere posizione non è imparzialità ma adesione al pensiero dominante. Quanto alla libertà di manifestazione del pensiero, “pietra angolare dell’ordine democratico” (Corte costituzionale), se pensiamo al caso Meloni contro Canfora, incontriamo il limite legato alla tutela della persona e della sua dignità, ma, al di là della pertinenza dello specifico termine “neonazista”, quando le critiche concernono le istituzioni prevale, anche in relazione alle persone che le ricoprono, il diritto di critica politica. “La violenza non è mai accettabile” afferma la presidente della Crui, Iannantuoni; è “vergognosa” fa eco la ministra dell’università, Bernini. Sono d’accordo, ma con la precisazione che in uno stato democratico deve essere garantito lo spazio per l’espressione pacifica dei conflitti e sono i manganelli contro studentesse e studenti a non essere accettabili; sono un “fallimento” aveva detto il presidente della Repubblica. Non è accettabile la violenza fisica della polizia così come non è accettabile la violenza verbale sottesa al qualificare come “delinquenza” le manifestazioni. Chi occupa posizioni di potere, come la presidente del Consiglio, può ovviamente obiettare a chi contesta, ma sempre nel presupposto che in uno stato democratico il dissenso è non solo legittimo ma necessario; definire i manifestanti “delinquenti”, o intolleranti e antisemiti (e qui si mescolano malafede, ignoranza e strumentalizzazione), delegittimandoli, ferisce la democrazia. Se vi sono atti che integrano fattispecie di reato saranno perseguiti per le vie ordinarie (ferma restando la critica all’accanimento nei confronti dei reati legati alla protesta), ma quando le istituzioni criminalizzano coloro che contestano esercitano una violenza verbale. È una delegittimazione funzionale alla privazione dei diritti? Il laboratorio “migranti” insegna. Aggiungo che nello specifico la mobilitazione per la Palestina contribuisce a spezzare la tragica ignavia di una società che assiste muta ad un genocidio in diretta, per (non) tacere del fatto che stiano - stiamo - chiedendo il rispetto del diritto internazionale contro politiche dei governi di Israele, queste sì, di violenza e sopraffazione, proterve nel ritenersi immuni dal diritto e dai diritti. I diritti sono strumenti controegemonici, contro il potere, contro il pensiero dominante. Se l’ordine pubblico o la pacifica convivenza all’interno delle università esigono l’identificazione con la “ragione di Stato” (o, più modestamente, del Senato accademico), le libertà costituzionali perdono il loro senso e si palesa l’arroganza di un potere che mira a imporre uno stato di passività e acquiescenza. Evitiamo che diventi senso comune, accettabile e legittima, la risposta istituzionale violenta quando le libertà, come è nella loro natura, vengono esercitate in senso antagonista. Migranti. Degrado e nessuna tutela: “I Centri di rimpatrio sono da chiudere” di Luca Liverani Avvenire, 18 aprile 2024 Dossier del Tavolo Asilo sugli 8 Centri di permanenza per il rimpatrio: sono lager, peggio delle carceri. I parlamentari d’opposizione d’accordo: si tratta di buchi neri. Fino a un anno e mezzo di detenzione senza avere commesso nessun reato, ma solo un’irregolarità amministrativa. Somministrazione massiccia e sistematica di psicofarmaci. Impossibilità di fatto per i “trattenuti” di far valere i propri diritti, dalla difesa alla salute. Sono solo le principali criticità dei Cpr, i Centri di permanenza per il rimpatrio per immigrati. Assimilabili a carceri, ma che paradossalmente garantiscono meno diritti delle carceri vere e proprie. “Non sono riformabili, vanno chiusi”, dicono concordi il Tavolo Asilo e i parlamentari dei partiti d’opposizione che li hanno visitati. Anche perché molto spesso non assolvono nemmeno alla loro funzione. A radiografare gli 8 Cpr in Italia sono stati parlamentari di tutti i gruppi dell’opposizione, insieme ai rappresentanti delle organizzazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione, coalizione di realtà laiche e cattoliche della società civile italiana con più di 40 aderenti. Le otto strutture attive, che trattengono attualmente circa 500 persone, sono Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Milano (Corelli), Roma (Ponte Galeria), Palazzo San Gervasio (Potenza), Bari, Restinco (Brindisi), Caltanissetta e Macomer (Nuoro). I risultati del monitoraggio sono stati presentati a Roma dai rappresentanti del Tavolo e da alcuni dei parlamentari che hanno visitato questi centri: Susanna Camusso (Pd), Matteo Orfini (Pd), Rachele Scarpa (Pd), Paolo Ciani (Demos). “È una bugia che sia obbligatorio, secondo la normativa europea, aprire centri di detenzione amministrativa” afferma Filippo Miraglia, responsabile immigrazione Arci. “Ed è inutile: in tutti questi anni i Cpr non hanno fatto aumentare il numero dei rimpatri”. Miraglia definisce poi “intollerabile la “doppia pena” per gli stranieri che hanno commesso reati: scontata la pena in carcere vengono trasferiti nei Cpr per tutto il tempo della procedura di espulsione. Perché non è stata fatta durante la detenzione?”. Per Gennaro Santoro di Antigone “i Cpr sono buchi neri incostituzionali. Mentre le carceri sono regolamentate da un ordinamento penitenziario e le violazioni finiscono in tribunale, per Cpr c’è solo il Testo Unico immigrazione che parla di “garantire gli standard minimi”. Sono involucri in cui si passa il tempo senza fare nulla. È impossibile e disumano”. Dice Fabrizio Coresi di ActionAid: “Abbiamo riscontrato patologie gravi non trattate e un abuso di psicofarmaci. Non c’è una persona, di quelle incontrate, che non fosse in stato confusionale o con lo sguardo perso, segni evidenti di somministrazione sistematica di psicofarmaci, assunti senza consenso informato. Gli atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno. I tentativi di suicidio tramite impiccagione vengono derubricati a simulazione”. Non quello di Ousmane Sylla, 22 anni, guineano, impiccatosi il 4 febbraio. L’ultimo dei 40 suicidatisi in questi anni nei Cpr. Susanna Camusso (Pd) racconta della “totale incertezza in cui vivono le persone nei Cpr. In mancanza di interpreti faticano a comunicare con gli avvocati, spesso d’ufficio, anche se è consentito l’uso del telefono”. Secondo Matteo Orfini del Pd “i Cpr sono luoghi di detenzione senza le garanzie dei veri luoghi di detenzione. Nei Cpr è sospeso lo Stato di diritto. Ci sono persone in evidente stato di disagio psichiatrico che non dovrebbero stare lì. Il governo vuole moltiplicarli, anche in Albania, con un approccio ideologico. Non hanno idea di cosa parlano. Se tieni una persona in un Cpr per rimpatriarla ma non c’è un accordo di riammissione, non sarà mai rimpatriata”. Miraglia ricorda che già nel 2007 la Commissione De Mistura istituita dal ministro dell’Interno Giuliano Amato aveva rilevato che i Centri erano costosissimi e inefficaci: “Mentre se si abbatteva il divieto di reingresso per gli stranieri irregolari, c’era molta più collaborazione per il rientro”. Per Orfini dunque “l’obiettivo non è rendere i Cpr ospitali e carini, ma chiuderli. Sono luoghi non riformabili, sbagliati”. Migranti. 500 trattenuti nell’inferno dei Cpr, tra disturbi psichiatrici e autolesionismo di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 aprile 2024 Visita nelle otto strutture per la detenzione amministrativa attive in Italia del Tavolo immigrazione e asilo e degli esponenti politici di opposizione. Tra i dannati dei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) c’è un uomo che mangia le sue feci e beve le sue urine. Ha un disturbo psichiatrico pesante. Nonostante ciò, un medico in Lombardia lo ha giudicato idoneo al trattenimento. Così dal carcere in cui aveva scontato una condanna per furto è finito nel Cpr di Macomer, dove lo hanno visitato la deputata Avs Francesca Ghirra e le associazioni Naga e Mai più Cpr. Quando il 24 marzo una rivolta dei detenuti ha dato alle fiamme una parte del centro, è stato trasferito nel Cpr di Ponte Galeria. “Da Macomer non hanno trasmesso l’idoneità sanitaria. Abbiamo chiesto fosse rivalutata, perché secondo noi l’uomo è a rischio suicidio. Il giudice aveva confermato il trattenimento per 20 giorni invece di 60, come si fa in genere con i richiedenti asilo, chiedendo accertamenti. Ieri in udienza l’ente gestore non li ha prodotti, ma il trattenimento è stato convalidato comunque. Ricorreremo alla Cedu”, dice Gennaro Santoro, legale del cittadino algerino. Alla sua storia è stato fatto cenno ieri durante la conferenza stampa organizzata dal Tavolo immigrazione e asilo, che riunisce 40 organizzazioni della società civile, a seguito dell’ispezione realizzata lunedì scorso negli otto Cpr funzionanti insieme a parlamentari e consiglieri regionali Pd, 5s, Avs e +Europa. All’interno hanno trovato circa 500 persone, poco meno della metà della capienza complessiva teorica. I reclusi vengono soprattutto dal Nordafrica (Tunisia, Marocco, Egitto, Algeria), ma anche dall’Africa subsahariana (Nigeria e Gambia), poi da Pakistan, Iran, Kirghizistan e Georgia. Un cittadino comunitario è rinchiuso senza sapere il perché. Quasi tutti sono uomini, ma c’è anche qualche donna, “compresa una “che non parla”“ scrivono le associazioni. In due strutture è stato fatto ostruzionismo all’ingresso dei collaboratori degli esponenti istituzionali: i legali faranno ricorso. All’interno sono state riscontrate le solite problematiche: diritto alla salute negato e alla difesa limitato, abusi di psicofarmaci, diffusa percezione di una detenzione ingiusta perché senza reato. Molte persone hanno mostrato segni di autolesionismo, che secondo le delegazioni è ormai un fenomeno completamente normalizzato all’interno dei Cpr. Tentativi di suicidio compresi. Alla conferenza stampa sono intervenuti anche i parlamentari dem Rachele Scarpa, Susanna Camusso e Matteo Orfini. Hanno tutti sostenuto che i Cpr non si possono riformare, ma vanno chiusi. Alla domanda se questa è la loro posizione individuale o se è condivisa da tutto il partito, visto che il centro-sinistra ha aperto i luoghi di detenzione amministrativa per migranti ai tempi della Turco-Napolitano e non li ha mai chiusi durante i governi successivi, Orfini ha risposto: “Va chiesto a Pierfrancesco Majorino, responsabile immigrazione del partito. Ma il fatto che sia stato nominato lui in questo ruolo, con la sua storia da assessore contrario alla struttura milanese di via Corelli, dice qualcosa. Con il cambio di segreteria c’è una sensibilità nuova sul tema”. Migranti. “Il commissariamento non ha risolto nulla: il Cpr di Via Corelli va chiuso” di Roberto Maggioni Il Manifesto, 18 aprile 2024 Il presidente dell’associazione Naga, Riccardo Tromba, annuncia un nuovo esposto ai pm milanesi contro la struttura detentiva per migranti. “Chiediamo alla procura il sequestro del Centro di permanenza per i rimpatri di Milano, i fatti di questi mesi dicono che neanche un Cpr sotto indagine e commissariato può diventare umano”. Riccardo Tromba è il presidente dell’associazione Naga, associazione che da anni si occupa di immigrazione e delle condizioni di detenzione della struttura di via Corelli. È proprio a seguito delle denunce fatte dal Naga che a dicembre 2023 i pm hanno aperto un’inchiesta sul centro milanese che ha portato al commissariamento della struttura. La situazione, però, non è migliorata, per questo martedì il Naga ha depositato un esposto in procura. Cosa dice l’esposto? Riguarda i fatti di violenza e autolesionismo avvenuti tra 10 e 18 febbraio, quando ci sono stati segnalati episodi molto gravi. In particolare nella notte tra 10 e 11 ci sono arrivati video che mostrano la protesta di alcuni migranti nel cortile del Cpr, nudi sotto la pioggia. Altre immagini riguardano il pestaggio degli agenti della guardia di finanza in tenuta antisommossa nei corridoi. Nei giorni seguenti ci sono arrivate testimonianze di altri gravi episodi. Tutti questi fatti sono dettagliati nell’esposto con testimonianze audio, video e fotografiche. Cosa vi aspettate dai pm? Chiediamo di indagare sui fatti, accertare le responsabilità, ma soprattutto di sequestrare il Cpr e in prospettiva chiuderlo, partendo dalla constatazione che neanche la gestione commissariale ha risolto i problemi che la stessa magistratura aveva rilevato con ispezioni e indagini. Cosa vi preoccupa di più in questa fase? La tutela dei diritti delle persone, che ci sembra sempre più sacrificata al dover tenere aperta la struttura. Lo dicono le testimonianze ricevute e lo abbiamo verificato noi stessi con gli accessi insieme ai consiglieri regionali Luca Paladini e Paolo Romano. Abbiamo ricevuto video che mostrano una persona che vaga senza reggersi in piedi in evidente stato di semi incoscienza, o la segnalazione di un uomo con problemi di coliche renali, finito in pronto soccorso e poi trattenuto ancora senza cure. Abbiamo anche raccolto la testimonianza di una persona a cui è stato impedito di chiedere asilo. Tutti questi problemi messi in fila cosa dicono? Dicono che i Cpr non sono riformabili, neanche quando sono sotto indagine della magistratura. Il Cpr di Milano dice che la storia si ripete. A ogni chiusura temporanea ha corrisposto una riapertura in condizioni sempre peggiori, ma non può essere altrimenti. Le persone giustamente fanno resistenza a una situazione assurda, a una detenzione incomprensibile, più crudele del carcere. Si percepiscono senza futuro e in numerosi casi ci hanno detto che preferiscono rischiare la vita piuttosto che stare lì dentro. E quindi aumentano i casi di autolesionismo o i tentativi di suicidio. Le persone i pezzi di vetro o le lamette li ingoiano davvero, la vita la mettono a rischio davvero. Le istituzioni devono farsi carico di questa sofferenza. La storia dei Cpr è segnata fin dalla loro nascita da simili episodi, per questo vanno chiusi: causano nuovi problemi a chi ha già problemi, portano sofferenza lì dove c’è già sofferenza. Oggi vengono rinchiuse nei Cpr persone con enormi fragilità, come problemi di salute mentale. Queste strutture sono sempre più delle “discariche sociali” e degli strumenti di controllo sociale. Ora il Cpr di via Corelli potrebbe chiudere temporaneamente per poi riaprire una volta terminati i lavori di ristrutturazione. Che notizie avete riguardo a questa possibilità? La prefettura di Milano dice che il centro non sarà chiuso e che i lavori saranno fatti diminuendo la capienza. Quindi ci aspettiamo trasferimenti da Milano in altri Cpr sparsi per l’Italia. Noi ci auguriamo che il nostro esposto alla procura possa influire su questa decisione e che la fase dei lavori possa sfociare in una chiusura definitiva. Ma soprattutto crediamo che del Cpr debba interessarsi tutta la cittadinanza, a maggior ragione ora che tutti sanno cosa accade dentro. Sui Cpr, a Milano come altrove, devono esserci gli occhi di tutta la società. Migranti. Cpr di Pian del lago, viaggio all’inferno: letti in cemento, gabbie e pattuglie di Alessia Candito La Repubblica, 18 aprile 2024 Siamo entrati nel centro per i rimpatri di Caltanissetta e abbiamo incontrato i 73 trattenuti, fra loro anche un iraniano, con un grave disagio psichico e che agli ayatollah non potrà essere consegnato mai. “Lo sai che qui ci trattano come animali? Neanche un nome abbiamo più. Siamo un numero”. Mehdi è mani che si aggrappano a una griglia, occhi neri che superano le grate, un urlo che vuole essere di rabbia, ma sa solo di disperazione. Ed è un ragazzino. Ha 23 anni, ma sembra più piccolo, il suo italiano - quasi perfetto - sa di Nord Italia. Arrivato da minorenne è inciampato, ha commesso un reato, è finito in comunità. A Caltanissetta ci era arrivato per un progetto, parte del suo programma di riabilitazione. Ma gli hanno contestato la non convivenza con la sorella, che ha cittadinanza italiana. Ed è finito nel cpr di Pian del lago. Una gabbia contenuta da una gabbia, che sta dentro a un’altra gabbia ancora. Nel centro, anche l’erba non è che un disegno stinto sui muri. Grigi. Come l’asfalto consumato dei camminamenti, il calcestruzzo vecchio che è pavimento, letto, tavolo, panca. Come i cancelli e le grate, irrobustite da reti che restituiscono un mondo a quadretti. Da anni i centri per il rimpatrio che il governo Meloni aveva promesso di moltiplicare in tutte le regioni sono un non luogo inaccessibile ai più. Nel giorno in cui le delegazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione (Tai) insieme a parlamentari di Pd, Avs, M5s e +Europa, hanno bussato alle porte degli otto cpr italiani, Repubblica è entrata in quello di Pian del Lago a Caltanissetta. Che ci stia avvicinando, lo suggerisce un brusio indistinto di umanità compressa, rotto dal suono di mani a palmo aperto che battono sulle grate, dalle urla di chi cerca di farsi sentire. A confermarlo, sono recinzioni e pattuglie che lo presidiano, come se fosse un carcere. Anche se per legge non lo è. Chi sta dentro non ha commesso alcun reato, spesso semplicemente non ha documenti in regola. “In realtà, qui è peggio degli istituti di pena”, spiega il senatore dem Antonio Nicita che nella struttura ha effettuato diverse ispezioni e ci è tornato insieme alla deputata dem Giovanna Iacono e alla delegazione siciliana del Tavolo asilo e immigrazione, Fausto Melluso, Giuseppe Montemagno, Ben Ammar Amine di Arci e Rosanna Moncada di Cgil. “Mancano anche i servizi di base, non esistono attività, le condizioni - sottolinea Nicita - sono degradanti”. La macchina delle convalide - Al momento i trattenuti sono 73, soprattutto tunisini, in larga parte da poco arrivati a Pantelleria o Lampedusa. Un gruppetto aspetta davanti al container - poco più di una roulotte - in cui avvengono le udienze di convalida. Hanno ciabatte ai piedi, vestiti stazzonati, lo sguardo perso. “Perché siamo qui - chiede Sabeur - quando siamo arrivati, ci hanno fatto firmare un foglio, ma io non ho capito. Perché siamo rinchiusi? Non abbiamo fatto niente”. Sulla carta l’assistenza legale c’è e la mediazione pure. Ma in massimo un quarto d’ora l’udienza - con il trattenuto, circondato da poliziotti e piazzato davanti a un pc, con giudice, mediatore e avvocato collegati in videoconferenza - si conclude. “Ma ora che succede?”, chiede Abdel che ha appena finito. “La maggior parte vengono rimpatriati nel giro di qualche giorno, solo chi riesce a farsi assistere davvero può provare a far emergere le vulnerabilità”, spiega l’avvocata Ilenia Grottadaurea. Formalmente, quasi tutti gli ospiti vengono dai cosiddetti “Paesi sicuri”: Tunisia, Marocco, Egitto. A dispetto delle sentenze che in molti casi hanno bloccato il rimpatrio di default perché è necessaria una valutazione caso per caso e la questione è stata rimessa in mano alla Cedu, per tutti il trattenimento è pressoché automatico. Shalid fuggito dall’Iran degli ayatollah, prigioniero a Caltanissetta - Ma in cpr ci finisce anche chi non potrà mai essere riportato indietro. Shalid è iraniano, il suo inglese perfetto racconta un percorso di studi avanzato, lui di sé nulla non sa dire. O almeno nulla di coerente. A volte racconta di essere inglese. Affetto da un grave disturbo psichiatrico viveva da clochard a Palermo. Abbandonato senza assistenza, perso nei suoi deliri, ha bucato l’audizione in commissione territoriale. Un giorno in strada ha dato in escandescenze, l’unica soluzione trovata per lui è stato sbatterlo in cpr. Succedeva 98 giorni fa. Adesso a stento riesce a parlare. “E ora sta meglio, quando gli hanno dato la medicina per giorni non si è mosso”, dicono i suoi compagni di modulo. Ha chiaramente bisogno di assistenza, l’Iran degli ayatollah non è certo un Paese sicuro. Per il giudice le sue condizioni sono compatibili con la permanenza in cpr. La doppia condanna - “Oggi sono già andato due volte per la medicina. Il mio male è nella testa - dice Chaka - qui è aumentato, mi sento soffocare, è peggio che in carcere”. Non è l’unico che dopo un periodo di detenzione, come pena aggiuntiva abbia avuto il trasferimento in cpr. A dispetto della funzione riabilitativa della pena che la detenzione ha in Italia, per uno straniero spesso equivale alla perdita del permesso di soggiorno. “È una delle assurdità del sistema”, spiega Filippo Miraglia, responsabile nazionale Arci migrazioni. “Anche in termini meramente economici è insensato - osserva Nicita - lo Stato investe per riabilitare un detenuto e poi lo manda via? Sempre che ci riesca”. Una gabbia vuota con una colata di cemento per letto - Nel frattempo chi è dentro aspetta. E ha solo una scelta, fuori e dentro. Fuori: uno spiazzo senza neanche una panca. Dentro: un corridoio buio, camerate con letti in cemento su cui sono appoggiati sottili materassini, lenzuola di carta che fanno da porte, in fondo un bagno che mostra i segni delle vecchie proteste, con pozze d’acqua e una puzza persistente che l’odore di detersivo non riesce a cancellare. In tutto il modulo, non c’è un libro, un giornale, un pallone. “Ci dicono che non si può”, dice Ahmed che fa l’operaio a Milano ed era andato a Palermo per festeggiare la fine del Ramadan con degli amici. “Mi hanno fermato per strada, non avevo tutti i documenti con me e mi sono ritrovato qui. Mi hanno tolto subito il telefono, ma lì c’è tutto”, spiega ancora sconcertato. Famiglie spezzate - Noureddine nel suo - racconta - custodisce come un tesoro le foto e i documenti che provano che ha una figlia e una compagna in Germania. Mahdi li tiene ordinati e stampati in una cartellina: ci sono la laurea, gli attestati di lavoro, le referenze, i referti dell’ospedale. È del sud della Tunisia, in un’area che il presidente Kais Saied ha di fatto ceduto agli islamisti. Per aver passato la notte con una donna che non ha ancora sposato, ha rischiato di essere linciato. “Qui non mi hanno creduto, ma io non posso tornare lì”. Anche Selim si dispera. Lui è in Italia è appena arrivato con la moglie, entrambi scappavano dalla famiglia di lei, che quel matrimonio ha tentato di impedirlo anche a coltellate. Lo confermano i segni slabbrati di vecchie cicatrici che lui ha su testa, collo, torace, schiena, ma l’industria del respingimento non li legge, non li vede. Dopo l’arrivo a Pantelleria, sono stati divisi. Lei è finita in un centro a Palermo, lui in cpr: già mesi fa aveva provato a lasciare la Tunisia, ma subito era stato rispedito indietro con un divieto di reingresso. “Non ci separeremo più”, gli aveva detto la moglie. L’Italia glielo ha imposto. Immigrazione e asilo: perché il Patto Ue non è stato affatto una svolta di Maurizio Ambrosini Avvenire, 18 aprile 2024 Nel dibattito si confondono e si sovrappongono immigrati, richiedenti asilo e persone sbarcate dal mare. E l’etichetta di “ingressi irregolari” getta una coltre di sospetto su chiunque arrivi. Tra le ragioni addotte per celebrare il Patto su immigrazione e asilo appena approvato dal Parlamento europeo, giusto in tempo per poter esibire un risultato in vista delle elezioni di giugno, campeggia la duplice idea di un’Unione Europea assediata dai migranti e di un’Europa meridionale sottoposta a una pressione migratoria eccessiva e sperequata rispetto ai partner centro-settentrionali. Come avviene spesso, nel dibattito pubblico si confondono e si sovrappongono immigrati, richiedenti asilo e persone sbarcate dal mare. L’etichetta di “ingressi irregolari”, getta una coltre di sospetto e stigmatizzazione su chiunque arrivi in modo spontaneo in Europa, come se, tra l’altro, gli fosse possibile seguire delle vie legali praticamente inesistenti per fuggire dalle zone di guerra, cercando scampo in un territorio che si fa vanto di proteggere i diritti umani fondamentali. I dati resi disponibili per il 2023 da Eurostat aiutano a misurare la validità di questi argomenti. Parlano in effetti di un aumento delle prime richieste di asilo nell’Ue, che hanno superato di nuovo la soglia simbolica di un milione (1.049.000), con una crescita del 18% sul 2022. Rispetto ai cinque milioni di ucraini arrivati nel 2022, rimasti nell’Unione Europea e mai menzionati nella discussione, non sembra un dato sconvolgente. Tra l’altro il 17% arriva dall’America Latina, il 21% da Paesi esonerati dall’obbligo di visto. Se pensiamo che nel mondo, con i conflitti in corso, i rifugiati hanno certamente superato la cifra di 110 milioni (erano 108 milioni a fine 2022), forse dovremmo interrogarci sul perché nell’Ue ne arrivino così pochi. All’interno dell’Ue, inoltre, la distribuzione non appare seriamente sbilanciata a sfavore dell’Europa mediterranea: quasi un terzo delle domande sono state presentate in Germania (329.000), seguita dalla Spagna con 160.500, dalla Francia con 145.100. L’Italia si trova al quarto posto con 130.600 domande, un magro 12% sul totale, e precede la Grecia (57.900). Le altre domande sono riferite ai Paesi centro-settentrionali, nell’insieme abbiamo accolto poco più di un terzo delle persone in cerca di asilo. Non siamo quindi il campo-profughi d’Europa, aggiungendo poi che gran parte dei profughi cercano di raggiungere i Paesi interni dell’Ue anche quando hanno presentato domanda d’asilo nei Paesi meridionali. Non per caso, a Nord delle Alpi contano molto sulle più stringenti procedure d’identificazione previste dal Patto, anche sui bambini di età superiore ai sei anni, nonché sul prolungamento della responsabilità di accoglienza dei Paesi di primo arrivo (da 12 a 20 mesi, fatta eccezione per le persone salvate in mare dalle Ong, per cui rimane a 12 mesi), per scongiurare quelli che chiamano “movimenti secondari” dei rifugiati, ossia i loro viaggi verso Nord. Finora ci sono riusciti poco. L’immigrazione irregolare poi è un fenomeno composito e mercuriale, ben più difficile da identificare rispetto ai richiedenti asilo che vengono registrati e contati uno per uno. Entra con permessi turistici, se necessari (per circa cinquanta Paesi del mondo l’Unione non li richiede), per studio, per visite ai familiari. Rendendo più dura la vita ai richiedenti asilo, obbligandoli a viaggi più lunghi, costosi e rischiosi, si vuole far credere all’opinione pubblica di contrastare l’immigrazione irregolare, ma si attua in realtà una sostituzione di bersaglio. In effetti dal vertice dell’Ue era uscita una dichiarazione, poi rapidamente fatta rientrare: il Patto serve a togliere un’arma alle forze sovraniste in vista delle prossime elezioni europee. Peccato che le soluzioni adottate coincidano in gran parte con le loro richieste, promuovendo una visione patologica dell’asilo, un impegno prioritario sui rimpatri forzati, uno sviluppo dei rapporti internazionali finalizzato essenzialmente a scongiurare nuovi ingressi indesiderati. La sovranità condivisa nella gestione dei confini è una condivisione degli sforzi di respingimento dell’immigrazione povera e sgradita. Unione Europea. Patto migrazione e asilo: più oneri per l’Italia, meno diritti per i migranti di Vitalba Azzolini* Il Domani, 18 aprile 2024 Cosa cambia per l’Italia con il Patto per la migrazione e l’asilo, approvato lo scorso 10 aprile dal Parlamento europeo, e in procinto di essere approvato anche dal Consiglio? Per l’Italia cambia poco o niente. Il Patto non scardina il principio base del regolamento di Dublino: sul Paese di primo ingresso continua a gravare l’accoglienza dei migranti e la valutazione delle loro domande d’asilo. Le deroghe a tale principio - ricongiungimenti familiari, conoscenza della lingua o ottenimento di un titolo di studio in uno Stato membro consentiranno di chiedere l’asilo a un Paese diverso da quello di arrivo - non sposteranno numeri rilevanti di migranti. È vero che il Regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione, uno dei 5 pilastri del Patto, prevede una soglia minima di migranti - 30mila presenze, numero che potrà essere rivisto secondo i flussi - da ridistribuire ogni anno e che la Commissione individuerà una quota a carico di ciascun Paese in base a Pil e popolazione. Questa solidarietà, per quanto obbligatoria, sarà comunque flessibile: se un Paese non vorrà accogliere migranti, potrà pagare una compensazione finanziaria pari a 20 mila euro per ogni persona non accettata. Se tutti i Paesi non di frontiera preferiranno offrire soldi anziché accoglienza, il carico su quelli di frontiera non sarà alleviato. Dunque, quando il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, dice che con il Patto migrazione e asilo, “il regolamento di Dublino è stato finalmente superato” fa una affermazione non rispondente al vero. I maggiori oneri - La situazione di Paesi come l’Italia è resa addirittura più onerosa. Da un lato, il periodo di responsabilità del primo Paese in cui i migranti fanno ingresso si protrae per 20 mesi, rispetto ai 12 attuali (restano 12 per chi è salvato in mare). Dall’altro lato, si allungano da 18 mesi a 36 mesi i tempi entro cui i richiedenti asilo che siano andati in altri Paesi, anziché restare in quello di entrata, possono essere trasferiti a quest’ultimo. La procedura che oggi rende complicati tali trasferimenti è sostituita da una mera notifica da parte dal Paese terzo a quello di primo ingresso. Di conseguenza, saranno più difficili i movimenti secondari, che finora avevano consentito all’Italia dei ricollocamenti in via di fatto, con relativo sgravio dall’onere dei migranti arrivati. Peraltro, questi ultimi potranno essere più agevolmente rintracciati e rimandati nel Paese di primo ingresso anche per la schedatura che ne sarà fatta ai sensi dei regolamenti Eurodac e screening, mediante la raccolta di impronte digitali e immagini del volto. È prevista la raccolta di dati anche dei bambini a partire dai sei anni, nonostante per il regolamento sulla protezione dei dati (GDPR) il trattamento di quelli biometrici è lecito solo a partire dai 16 anni. Anche se formalmente per i minori il fine è la loro protezione, essi saranno comunque oggetto della sorveglianza di massa realizzata dal nuovo Patto. La procedura di frontiera - Ai Paesi di primo arrivo spetterà anche il compito di fungere da barriera a difesa dell’Unione europea, facendo in modo che i migranti non ne attraversino i confini, ma restino chiusi in appositi centri nei quali opera la “finzione giuridica del non ingresso”. In tali centri si svolgerà la “procedura di frontiera”. Si tratta di un iter accelerato di valutazione (12 settimane al massimo) che riguarderà, tra gli altri, chi arrivi da Paesi con una percentuale di richieste di asilo accolte inferiore al 20%, nel presupposto che l’asilo sarà comunque negato perché il Paese di provenienza è “sicuro”. Le persone soggette a tale procedura - incluse famiglie con bambini - saranno “detenute” nei centri nonostante non abbiano commesso reati. Lo stato di detenzione e l’assenza di idonee garanzie di difesa renderanno per loro più difficile dimostrare che, pur arrivando da un Paese sicuro, necessitano di protezione per condizioni personali. La blindatura dell’Ue avviene, quindi, ledendo diritti fondamentali dei migranti. Così come li ledono certe azioni di “respingimento” poste in essere da Paesi terzi, poco democratici, finanziati dall’Ue per difenderne i confini esterni. Ora tali finanziamenti - mediante fondi acquisiti in alternativa ai ricollocamenti - sono stati previsti pure dal Patto. In determinate circostanze la procedura di frontiera potrà essere estesa a tutti i migranti in arrivo. I centri rischiano così riempirsi a dismisura, in mancanza di rimpatri veloci, con gravi problemi ancora una volta a carico dei Paesi di primo ingresso, ove i centri stessi sono situati. Fra due anni le norme diverranno operative e se ne potrà verificare il funzionamento. Ma i dubbi già ora sono molti, e a ogni livello. *Giurista Albania. Viaggio nell’ex base militare che dovrà diventare il Cpr “italiano” di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2024 “Tremila migranti? Qui al massimo ne entra un migliaio”. “Questa è un’area militare, non si può entrare”. Una strada stretta e tortuosa percorre il perimetro dell’ex base utilizzata fino ai primi anni Novanta in tempo di Guerra Fredda, quando anche il sistema dittatoriale albanese è collassato seguendo l’esempio di quanto accaduto in Russia e Jugoslavia. È lì dentro, oltre un cancello sigillato e controllato a vista da zelanti guardiani, che sorgerà una copia del Centro di permanenza per i rimpatri di Ponte Galeria. Non siamo alla periferia ovest di Roma, ma nell’Albania settentrionale, a una manciata di chilometri dal confine col Montenegro, in una zona distante da tutto e tutti. Occhio non vede, cuore non duole. È la metà di aprile e secondo la volontà espressa dal nostro governo il centro di raccolta dei migranti tra i villaggi di Gjader e Kakariq dovrebbe entrare in funzione il 20 maggio prossimo anche se secondo documenti della Difesa citati da Repubblica ormai è chiaro che tutto sarà rinviato a novembre. Il sopralluogo de ilfattoquotidiano.it effettivamente ha evidenziato che di passi avanti significativi non ce ne sono. La conferma dei timori di un ritardo abbastanza importante arriva sia dalle immagini registrate dai droni che dalle testimonianze raccolte. Un giornalista di Tirana che si è occupato del tema preferisce non esporsi. Racconta: “La data l’abbiamo appresa dai vostri media. Se aspettiamo le informazioni dal nostro governo stiamo freschi. Il via libera all’accordo con l’Italia per i migranti è stato votato in Parlamento assieme a un altro provvedimento di poco conto: tutto in quarto d’ora. Il tempo per la lettura delle proposte di legge, la votazione e via. Altro non è possibile saperlo, i tempi, ma neppure le altre informazioni vitali per l’Albania: i migranti potranno uscire dalla struttura, resteranno in Albania o saranno subito espulsi, chi pagherà le nostre spese, quanto durerà tutto ciò?”. Ci sono poi le questioni tecniche, a partire dalla capienza massima della struttura: il cronista albanese fornisce dati in suo possesso che non collimano con le intenzioni di Palazzo Chigi. “Voi scrivete di 3mila posti, a me ne risultano meno. Due strutture all’interno della base, usate dai militari, saranno trasformate per l’accoglienza. Una, la più grande, ospiterà chi ha ricevuto l’ok alla richiesta d’asilo per una capienza di 880 posti; nella più piccola andranno i rimpatriabili e ci saranno 150 posti. Visto l’andamento dei lavori, presto verranno eretti dei moduli abitativi, sia per gli stranieri che per i servizi”. Un’area dovrà essere riservata alla struttura carceraria per i migranti che dovessero commettere reati dentro il centro o su cui gravano precedenti. Come scritto nero su bianco in una circolare del ministero della Giustizia il mini carcere potrà tenere fino a 20 detenuti e la sicurezza sarà garantita da 45 operatori in missione, guardie specializzate in arrivo dall’Italia, spinti da uno stipendio niente male: 176 euro al giorno per i dirigenti, 157 a funzionari di carriera e “appena” 130 euro alle altre qualifiche; fatti due conti solo per questo servizio ogni anno le casse italiane dovranno versare qualcosa come 2,5 milioni di euro. Per arrivare al Cpr di Gjader bisogna imboccare una strada secondaria rispetto alla statale che collega Lezhe (Alessio), capoluogo della prefettura, e Scutari. Passato lo stabilimento della Colacem e una cava si entra nell’abitato praticamente deserto di Kakariq fino a una stazione di servizio in disuso. Lì è situato uno dei due ingressi, costellato dai tradizionali bunker di cemento armato a forma di funghetto costruiti sotto la dittatura comunista. A parte quattro mezzi da lavoro, ruspe ed escavatori (di un paio di aziende italiane) che hanno dissodato un pezzo di terra e un container per gli operai, poco altro è stato fatto. Una stradina che costeggia il profilo della montagna conduce al cuore della base, oscurata alla vista; dal lato opposto c’è l’altro ingresso, in fondo a una pista di rullaggio parallela a quella di decollo e atterraggio degli aerei da guerra tenuti dentro l’hangar naturale della montagna. Quei tempi sono andati. Se adesso si vede poco del sito vero e proprio, a lavori terminati tutto verrà ulteriormente oscurato: “Una fonte mi ha riferito che una delle opere da realizzare è un muro di cinta alto sette metri che sigillerà tutta l’area - aggiunge il giornalista di Tirana -. Il costo dell’opera sarà a carico vostro, come tutto il pacchetto di interventi del resto. Un’opzione era l’uso dei droni, temo che a breve sarà impossibile utilizzarli quando il campo sarà pieno di gente, italiani, albanesi, richiedenti asilo da mezzo mondo”. Diverso il discorso per l’hotspot al porto di Shengjin, dove le motovedette italiane cariche di naufraghi attraccheranno di volta in volta. Il cartellone ufficiale del cantiere ha dato un senso al progetto, ma qui i lavori sono davvero poca cosa rispetto al Cpr di Gjader. Il piccolo scalo peschereccio, piuttosto depresso, riprenderà vita grazie all’accordo Italia-Albania. I lavoratori di ditte italiane stanno allestendo lo spazio dove sorgerà una struttura temporanea per l’accoglienza, in accordo con i dettami della società di ingegneria Akkad di Roma, titolare della parte progettuale. La base è pronta: “L’idea è di realizzare un sito prefabbricato dove ospitare gli stranieri solo per le prime pratiche - spiega a ilfatto.it un addetto del porto albanese -. Qui nel piazzale saranno caricati a bordo di bus e furgoni e portati a Gjader”. In linea d’aria le due località sarebbero a 7-8 chilometri di distanza, ma di mezzo c’è una montagna invalicabile. L’alternativa è percorrere i 20 chilometri lungo una strada stretta e trafficatissima, specie d’estate, attraverso il centro di Lezhe dove si circola sempre a passo d’uomo. Le strade, appunto, il vero cruccio del Paese delle Aquile. Le autorità albanesi stanno correndo contro il tempo per regalare un collegamento viario il più rapido possibile alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel giorno in cui le strutture per i richiedenti asilo saranno inaugurate. Dall’aeroporto internazionale Nena Tereza di Tirana a Lezhe (45 chilometri) nella migliore delle ipotesi serve un’ora e mezzo. Per tre quarti del percorso si viaggia su una corsia per senso di marcia e le code in vari momenti della giornata possono diventare allarmanti. I lavori per realizzare la superstrada vanno avanti senza sosta, si lavora anche di domenica. Non basterà. Tunisia. Sui migranti Meloni non convince Saied di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 18 aprile 2024 Accordo su tre progetti per 100 milioni di euro, ma con il presidente non si parla di flussi. La visita lampo di ieri in Tunisia della prima ministra Giorgia Meloni ha rilevato due aspetti. Il primo è che i rapporti tra Roma e Tunisi continuano a essere solidi, nonostante in passato il presidente della Repubblica Kais Saied abbia sollevato a più riprese diverse criticità sull’operato della sponda nord del Mediterraneo. Il secondo è che la retorica scelta da Palazzo Chigi tende a scontrarsi con la realtà che sta vivendo il piccolo Stato nordafricano. In una conferenza stampa organizzata al palazzo presidenziale di Cartagine ma che fa fatica a chiamarsi tale per il divieto d’ingresso imposto ai giornalisti tunisini e stranieri, Meloni ha presentato i risultati dell’incontro bilaterale: “Abbiamo firmato tre intese: un accordo per il sostegno diretto al bilancio tunisino nel settore dell’energia rinnovabile e dell’efficienza energetica, una nuova linea di credito a favore delle piccole e medie imprese tunisine e un’intesa quadro per la cooperazione nel settore dell’università e dell’alta formazione”, ha dichiarato la premier annunciando un piano da 100 milioni di euro, accompagnata a Tunisi dal ministro degli Interni Matteo Piantedosi e da Anna Maria Bernini, ministra dell’università e della ricerca. Malgrado le promesse di finanziamento date da Roma, i veri obiettivi della visita sono stati altri e riguardano l’ambito migratorio, il capitolo che ha fatto da sfondo alle quattro visite di Stato svolte da Meloni in Tunisia negli ultimi dieci mesi e ulteriormente rafforzato da un nuovo aumento delle partenze avvenuto nelle ultime settimane. La premier ha posto l’accento sull’esigenza di lottare contro la rete dei trafficanti, aumentare i rimpatri e garantire vie di accesso legali in Italia. In generale, l’accento è stato posto sulla necessità di “costruire con le nazioni del continente africano una cooperazione su base paritaria”. Una propaganda di governo che si scontra, appunto, con la realtà dei fatti. A oggi l’Italia rimane un paese inaccessibile per la popolazione tunisina e straniera. Lo sa bene Ghassen Chraifa, artista tunisino che avrebbe dovuto presentare il suo film alla Biennale d’arte di Venezia. “Avrebbe” perché la domanda di visto di Chraifa risulta ancora in corso: “Vergogna ai politici che ci imprigionano dietro a delle frontiere insignificanti. Vergogna a coloro che ci impediscono di muoverci liberamente”, si è sfogato l’artista su Istagram toccando una problematica che riguarda migliaia di cittadini tunisini e in particolare gli studenti universitari che vorrebbero recarsi in Italia, spesso bloccati in Tunisia a causa di procedure burocratiche dubbie. Nelle stesse ore in cui Meloni celebrava le intese raggiunte con il presidente Kais Saied, di fronte all’ambasciata italiana di Tunisi un piccolo gruppo di manifestanti accerchiato da un folto numero di forze di sicurezza era impegnato a esprimere tutto il suo dissenso rispetto a una politica considerata impari. Rihab Fguira ha 22 anni e viene da Mahdia, cittadina nel centro della Tunisia. Studia nella capitale per diventare un giorno professoressa di arabo e quella di ieri è stata la sua prima manifestazione: “Lo faccio per mio fratello. È partito un anno fa insieme ad altri ragazzi. Il più piccolo aveva 12 anni, mio fratello invece 14. Da allora nessuno mi ha detto niente, non so se è vivo o morto e a me non resta altro che piangere tutte le notti”. C’è un ulteriore aspetto nella quotidianità tunisina che dimostra le incongruenze del governo italiano quando afferma di voler aspirare a creare rapporti di uguaglianza tra le due sponde del Mediterraneo. Negli stessi giorni in cui veniva firmato a Tunisi il Memorandum of Understanding tra Unione europea e Tunisia, alla presenza anche della premier Meloni, prendevano forma nel paese vere e proprie deportazioni di massa verso il deserto di migliaia di persone subsahariane e sudanesi. Era il luglio 2023 e da allora questa pratica è diventata strutturale e ancora oggi perdura in un silenzio generale che sta diventando di fatto assordante. Il governo italiano non si è mai espresso su queste gravi violazioni dei diritti umani, anzi. Roma ha continuato a finanziare l’apparato securitario tunisino. L’ultima fornitura risale al dicembre 2023 quando il Viminale si è impegnato a consegnare alle autorità tunisine 6 motovedette dismesse dalla Guardia di finanza e rimesse in efficienza per un totale di 4,8 milioni di euro. Le associazioni Asgi, Arci, ActionAid, Mediterranea Saving Humans, Spazi Circolari e Le Carbet hanno contestato questo finanziamento ritenendo responsabile di gravi violazioni la Guardia costiera di Tunisi, documentate attraverso testimonianze e prove, la quale attraverso alcune pratiche di intercettazione nel corso degli ultimi anni avrebbero causato la morte di decine di persone. L’udienza al Tar del Lazio è fissata il prossimo 30 aprile. Africa discarica d’Europa: come funziona il business criminale dei rifiuti che passa dall’Italia di Leonardo Di Paco La Stampa, 18 aprile 2024 Il materiale (spesso pericoloso) viene stipato nei container e spedito in Tunisia, Ghana, Senegal e Mauritania. Un giro d’affari illecito che nel mondo vale 20 miliardi di euro. Solo negli ultimi mesi sono scattati sequestri in Toscana, Campania ed Emilia-Romagna. Non serve essere dei giramondo, neppure degli esperti di geo-economia; basta aprire YouTube e scrivere “rifiuti Africa” per rendersi conto della portata del fenomeno. I video di adulti e bambini intenti a camminare in nauseanti poltiglie nere, scalare montagne di rifiuti o a bruciare ogni tipo di spazzatura, tessile o elettronica non fa differenza, sono centinaia. E mostrano senza filtri il lato oscuro del consumismo Occidentale che trasforma l’Africa (ma non solo) in una pattumiera dove gettare quotidianamente tonnellate di scarti, che spesso non sono neppure rifiuti veri e propri ma solo prodotti “sorpassati” da altri più moderni e performanti. L’attività di queste persone in inglese ha un nome specifico, “scrapping”, e rappresenta una vera e propria industria a mani nude: apertura, divisone delle parti, selezione, rottamazione dell’oggetto. Il ruolo dell’Italia - L’Italia, data anche la vicinanza con il continente africano e la presenza di diversi scali gioca un ruolo di rilievo nello scacchiere globale di questo business criminale che si stima valga circa 20 miliardi l’anno. Nel corso degli anni sono emerse particolari direttrici dei flussi di rifiuti dall’Italia verso determinate aree geografiche, per la maggiore capacità “attrattiva” di alcune tipologie. In Africa, secondo una recente analisi elaborata dal Comando tutela ambientale dei carabinieri le principali destinazioni sono Marocco, Ghana, Burkina Faso, Senegal, Nigeria, Tunisia, Mauritania per quanto concerne i Raee - i rifiuti da apparecchiature elettroniche - e i rifiuti pericolosi in genere. A monte ci sono strutture criminali tradizionali che, spiega sempre il report dei carabinieri, “in perfetta simbiosi con strutture straniere collaterali e con il supporto di discutibili agenzie d’intermediazione”, organizzano il trasferimento di rifiuti speciali verso territori anche extracomunitari. Si tratta di Paesi caratterizzati da discipline normative e fiscali più permissive o addirittura privi di capacità di controllo, “tali da consentire di estrarre la residua utilità economica dal rifiuto, mediante trattamenti altamente inquinanti e con l’abbandono incontrollato”. Uno dei luoghi simbolo di questo traffico illegale è Agbogbloshie, enorme agglomerato urbano situato sulle sponde della laguna di Korle, nella zona ovest di Accra, la capitale del Ghana. Qui ogni mese arrivano decine di container carichi di rifiuti elettronici di ogni tipo: cellulari, televisori, elettrodomestici. Quello che può essere riparato, lo si aggiusta e poi lo si rivende. Il resto viene smantellato e trattato chimicamente per estrarre pochissimi grammi di metalli preziosi da rivendere. La produzione di rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche dall’Italia ha mostrato una crescita costante sotto l’impulso, da un lato, della velocità con cui i prodotti tecnologici diventano obsoleti, dall’altro, dell’incremento dei volumi di produzione industriale di nuovi prodotti. Cosa dice la legge - Se il panorama normativo in Europa risulta ancora alquanto variegato, nell’ordinamento italiano vi è invece l’espressa previsione del delitto di “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”. Non che questa dicitura serva chissà quanto a limitare certi traffici. Anzi, l’Italia risulta essere uno dei Paesi che esporta di più. Pochi giorni fa, ad esempio, la Procura della Repubblica di Massa ha disposto il sequestro penale di 82 tonnellate di rifiuti, contenute in quattro container, pronti per essere imbarcati verso l’Africa. Le indagini sono iniziate nel corso di un controllo di routine ai varchi di ingresso del porto toscano per un container diretto in Tunisia che doveva contenere rifiuti tessili. Invece sono stati trovati anche scarti in materie plastiche, pellame e rifiuti elettrodomestici Raae. Analoga scoperta anche in altri tre container della stessa società speditrice che recavano lo stesso contenuto dichiarato e il medesimo Paese di destinazione. Oltre ad abiti dismessi sono stati trovati anche vecchi elettrodomestici, scarpe e giocattoli, per l’esportazione dei quali era necessaria una diversa procedura. All’inizio di marzo era stata smantellata una rete criminale che organizzava il traffico internazionale di rifiuti pericolosi diretti in Tunisia per essere illegalmente bruciati, coinvolgendo anche esponenti della Regione Campania. L’inchiesta aveva preso il via nel 2020, dopo che la Regione Campania adottò un provvedimento con il quale affidava a un’azienda privata lo smaltimento in Africa di rifiuti speciali. Per questa vicenda, sono state emesse 11 misure cautelari. A gennaio, invece, la guardia di finanza all’Interporto Bentivoglio (Bologna) aveva fermato un container diretto, appunto, in Ghana. Tre imprese sono state denunciate per traffico illecito di rifiuti e falsità ideologica: volevano rivendere un container pieno di pneumatici usati, vecchi frigoriferi ed elettronica usurata. L’attività investigativa - Per le forze dell’ordine italiane non è semplice riuscire a intercettare questi traffici verso i Paesi africani. La cooperazione internazionale di polizia, che si collega anche all’assistenza giudiziaria tra gli Stati, si è rivelata la strategia più efficace contro i traffici transnazionali della criminalità ambientale organizzata. Come spiegano le forze dell’ordine “gli scambi info-operativi, oltre ad aggiornare e condividere le informazioni sui modus operandi criminali, hanno consentito l’attivazione di un numero rilevante di investigazioni riguardanti spedizioni transfrontaliere sospette o ritenute illecite, dirette o in transito in diversi Paesi”. Un problema globale - Il Global e-Waste Monitor 2024 delle Nazioni Unite ha recentemente presentato un quadro inquietante: nel 2022, la quantità di rifiuti elettronici generati a livello mondiale è stata di circa 62 milioni di tonnellate, sufficienti a riempire più di 1,5 milioni di camion da 40 tonnellate. Le proiezioni del report per il futuro non sono positive: se non saranno adottate misure concrete, entro il 2030 si arriverà a produrre oltre 74 milioni di tonnellate di e-waste cioè di rifiuti elettronici.