La crisi carceraria dilaga, ma alle parole non seguono i fatti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 aprile 2024 Nel cuore della controversia che attanaglia le istituzioni penitenziarie italiane, emerge un dubbio dilagante: tra annunci mediatici e bufale politiche, cosa resta davvero di concreto per risolvere la crisi carceraria che affligge il Paese? Due vicende, apparentemente distinte ma intimamente collegate, gettano luce su questa oscura realtà. Il primo capitolo di questo dramma si svolge a Cagliari-Uta, dove si annuncia l’apertura del Padiglione 41bis della Casa Circondariale Ettore Scalas. Tuttavia, la realtà si rivela ben diversa dalle prospettive dipinte dagli annunci ufficiali. Il taglio del nastro, inizialmente previsto per il 20 marzo, è stato rimandato sine die. Maria Grazia Caligaris, portavoce dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV” (SDR), denuncia che la struttura non è pronta ad accogliere detenuti, mancando persino dei requisiti basilari come matricola, area sanitaria e arredi. Le parole di Caligaris sono un grido d’allarme che squarcia il velo di retorica istituzionale, rivelando la cruda realtà di un sistema penitenziario inadeguato e mal gestito. Ma il problema non si ferma a Cagliari. “Il problema - sottolinea Caligaris - non riguarda solo gli Agenti del GOM (Gruppo Operativo Mobile) che dovrebbero prendere servizio nella struttura e disporre della Caserma, ma bensì la realizzazione delle opere di servizio che nel progetto originario avevano dimenticato. Del resto il Padiglione del 41bis di Cagliari non farebbe altro che accrescere il numero dei detenuti di spessore criminale in una regione che ne ospita già 90 nella stessa condizione di massima sicurezza a Sassari-Bancali (pur senza Direttore e Comandante). Né si può dimenticare che i 41bis si trovano perfino nella Casa Circondariale di Badu e Carros a Nuoro, ancora in attesa di una direzione stabile”. L’isolamento geografico sembra trasformare le istituzioni penitenziarie in terre di nessuno, dove le condizioni disumane sono la norma e il rischio di suicidio è allarmante. “Dispiace infine osservare che il Ministero della Giustizia e il Dipartimento continuano a considerare la Sardegna come una terra di nessuno”, afferma con amarezza la portavoce di SDR. Le carceri dell’isola, da Cagliari a Sassari, da Nuoro a Oristano e Tempio, sono trascurate, ospitando persino detenuti dell’Alta Sicurezza, oltre 500 persone, recentemente usciti dal percorso del 41bis. Le Colonie Penali, sottolinea ancora Caligaris, rimangono inutilizzate, prive di opportunità lavorative e formative che potrebbero contribuire a una reale riabilitazione dei detenuti. La mancanza di azioni concrete per contrastare il rischio di suicidio e gli atti di autolesionismo all’interno delle carceri è evidente. Parallelamente, Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, solleva il velo sulla disperata situazione delle carceri italiane. Dopo 17 mesi e 24 giorni di sciopero della fame, insieme a Roberto Giachetti di Italia Viva, Bernardini denuncia l’inerzia della politica di fronte alla tragedia che si consuma dietro le sbarre. La commissione Giustizia, anziché affrontare con determinazione il problema, sembra arenarsi sul primo gradino, intrappolata nella politica delle promesse vuote e delle manovre dilatorie. Il Guardasigilli Carlo Nordio si trova nel mirino delle critiche. Le sue promesse di accordi con Paesi stranieri per trasferire detenuti o di nuovi posti grazie a ristrutturazioni risultano essere poco più di specchietti per le allodole. La realtà delle cifre smentisce la retorica dei politici: 10.000 posti mancanti contro i miseri 2.300 annunciati da Nordio. Ma l’indifferenza politica non è solo una questione di annunci vuoti. È anche la mancata volontà di affrontare la questione attraverso nuove leggi decarcerocentriche, come quella proposta da Giachetti per una “liberazione anticipata speciale”. Nonostante il supporto bipartisan e l’urgente necessità di agire, la proposta giace in un limbo burocratico, ignorata dalla politica che preferisce la routine all’azione. Mentre le audizioni proseguono in un limbo legislativo, i suicidi nelle carceri continuano a mietere vittime, lanciando un grido disperato di aiuto che sembra cadere nel vuoto delle stanze del potere. La politica, imbrigliata nei suoi interessi elettorali, si dimostra incapace di rispondere a una crisi umanitaria che urla vendetta contro l’indifferenza. Suicidi in carcere, domani la mobilitazione dei Garanti dei diritti dei detenuti di Pietro Pellegrini* Il Manifesto, 17 aprile 2024 Nel 2024 sono già 31 i suicidi avvenuti nelle carceri. Ogni suicidio è un evento sentinella che richiede un’analisi organizzativa a maggior ragione quando il tasso è 20 volte superiore a quello della popolazione generale. Dagli studi emerge la rilevanza di periodi critici (udienze, fine pena), delle stagioni (l’estate), delle sedi della detenzione (media sicurezza) e del sovraffollamento. Nel 2024 i detenuti hanno superato 61 mila con un incremento di 400-500 persone al mese. In carcere risultano 20 madri con 21 bambini. Il suicidio riguarda anche gli agenti della polizia penitenziaria che hanno tassi di suicidio doppi rispetto alle altre Forze dell’Ordine e tripli rispetto alla popolazione generale. Una situazione molto complessa, dove i problemi s’intersecano e il carcere rischia di diventare un insalubre concentrato di sofferenza, di disturbanti, emarginati e disperati, di problemi sociali e sanitari, esito di un patto sociale da ricostruire. Occorre una politica complessiva per ridurre il sovraffollamento e il carico sanitario e sociale con adeguati collegamento con i territori. Ad esempio i soggetti con psicopatia, problemi di personalità e comportamentali talora con uso di sostanze sono di norma imputabili e non devono essere destinati alle REMS ma possono essere trovare soluzioni detentive adeguate o misure alternative in comunità terapeutiche o sul territorio. Nelle Articolazioni Tutela Salute Mentale (ATSM) vi sono 230 persone e i detenuti con “diagnosi psichiatrica accertata” sono 350. Ai casi di grave infermità psichica sopravvenuta durante la carcerazione, sulla base della sentenza della Corte Costituzionale n. 99/2019 può essere concessa la detenzione domiciliare in deroga. Le persone arrestate in carcere alle quali vengono applicate le misure di sicurezza detentive provvisorie diventano detenuti “sine titulo” in quanto la misura di sicurezza sotto il profilo giuridico non è eseguibile in carcere. A novembre 2023 erano 42. I protocolli operativi, previsti dall’Accordo Stato Regioni 30 novembre 2022, prevedono il trasferimento in altre sedi sanitarie o a domicilio secondo le indicazioni dei DSM che sul territorio nazionale seguono circa 6.000 persone con misure giudiziarie o come estrema ratio in REMS. Le persone con misura di sicurezza detentiva definitiva in REMS sono 331 ed occupano il 51% dei posti REMS. Ne deriva che se queste venissero utilizzate solo per i “definitivi”, abolendo le misure di sicurezza detentive provvisorie e quelle ex art 219 c.p. per i seminfermi di mente, gli attuali posti REMS sarebbero più che sufficienti specie se si completasse la legge 81/2014 con il superamento del doppio binario e adeguate norme per evitare la detenzione di persone con disturbi mentali gravi (proposta di legge dell’on. Magi n.1119 del 2023). La prevenzione del suicidio può avvenire mediante un concertato lavoro interistituzionale e azioni multilivello. Per ridurre il sovraffollamento serve approvare leggi su indulto, amnistia, liberazione anticipata, misure alternative. Le riforme della legislazione su droga, migrazioni e povertà potrebbero avere un importante funzione preventiva. Provvedimenti che possono ridurre il numero delle persone detenute, dare senso alla pena, creare alternative, formazione e lavoro, ridurre il carico sanitario, migliorare qualità di vita e dare speranza. In questo quadro sono fondamentali le telefonate, le relazioni affettive e sessuali in attuazione della sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale. Servono visioni nuove non più carceri, risorse sanitarie, sociali e giudiziarie per adeguate dotazioni organiche del personale e promuovere i diritti, il supporto tra pari, combattere la povertà, la deprivazione relazione. Così si potrebbero prevenire i suicidi durante la detenzione ma anche prima e dopo. *Direttore Dipartimento Salute Mentale di Parma Il rimedio al sovraffollamento nelle carceri? Far uscire tutti in anticipo, per sempre di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 17 aprile 2024 È questo l’indulto mascherato previsto in una proposta di legge del renziano Roberto Giachetti, che martedì, grazie all’assist decisivo di Forza Italia, sarà incardinata in Commissione Giustizia alla Camera. Come soluzione al dramma dei suicidi in cella - già 16 quest’anno, l’ultimo giovedì a Genova - Giachetti vuole potenziare il beneficio della liberazione anticipata, volgarmente detto “sconto di pena per buona condotta”. Al momento, se il detenuto “ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione”, possono essergli abbuonati 45 giorni ogni sei mesi: se la proposta diventerà legge, si passerà per due anni a 75, dopodiché a 60 a tempo indeterminato. Insomma, un anno di pena si ridurrebbe a sette mesi e poi a otto. Un regalo retroattivo di cui potrebbero godere i condannati per qualsiasi reato: in primis i colletti bianchi, ma anche assassini, stupratori e persino i mafiosi non pentiti. La liberazione anticipata, infatti, è l’unico beneficio escluso dal regime dei reati ostativi. Misure simili sono già state adottate in passato, ma sempre per periodi di tempo molto ridotti e in situazioni di emergenza (l’ultima volta durante la pandemia di Covid). Qui invece si vorrebbe rendere il “maxi-sconto” strutturale: rispetto alle pene lunghe, si tratta potenzialmente di vari anni in meno dietro le sbarre, cioè di un indulto eterno (per quanto subordinato alla buona condotta). Non solo. Il testo prevede che la concessione del beneficio non spetti più al giudice di Sorveglianza, ma al direttore del carcere: il magistrato entrerà in gioco “solo ove il condannato sia incorso in una sanzione disciplinare che possa pregiudicare la partecipazione all’opera di rieducazione”. Una norma inedita e piuttosto scivolosa, perché attribuisce a un soggetto esterno alla magistratura - e a contatto quotidiano con i detenuti, con tutto ciò che ne consegue - la facoltà di ridurre a sua discrezione la lunghezza della pena. La relazione introduttiva giustifica la scelta in termini di efficienza: “Ogni anno i Tribunali di sorveglianza riescono a evadere solo poche migliaia di pratiche riguardanti la liberazione anticipata dei detenuti, con altissimi costi in termini di risorse finanziarie ed economiche mentre decine di migliaia di istanze restano senza risposta. Se si considera la situazione di crescente sovraffollamento delle carceri italiane (…) si comprendono l’importanza e l’utilità di rendere automatica la concessione del beneficio”, si legge. Giachetti, militante radicale da sempre sensibile a questi temi (da 18 giorni è in sciopero della fame contro il sovraffollamento) avrebbe voluto far esaminare la proposta con procedura d’urgenza, tagliando i tempi del dibattito. Ma la Conferenza dei capigruppo gli ha detto no, con i voti contrari di tutto il centrodestra. Così, in base al regolamento, due giorni fa il renziano ha reiterato la richiesta all’aula, preparandosi a uno scontato diniego. Ma lì ha trovato la sponda inattesa del collega di Forza Italia Pietro Pittalis, vicepresidente della Commissione Giustizia, che intervenendo nel dibattito ha preso un impegno ufficiale (condiviso con il presidente della Commissione, Ciro Maschio di FdI, e con gli altri gruppi di maggioranza) “affinché questa proposta venga incardinata nella prossima seduta” dell’organo. Insomma, se ne può parlare - e se ne parlerà - in Commissione: dopo i blitz già messi a segno in tema giustizia - dalla prescrizione ai trojan - l’asse tra renziani e berlusconiani porta a casa un altro risultato. Certo, per il maxi-indulto la strada è ancora in salita. Fratelli d’Italia per ora non ha alcuna intenzione di dire sì: la linea del partito contro l’emergenza-suicidi, esplicitata pochi giorni fa dalla premier Meloni, è quella di aumentare la capienza dei penitenziari. Anche la Lega difficilmente potrà mettere la firma su una legge così platealmente svuota-carceri. Ma Giachetti non dispera e punta a raggiungere un compromesso che renda digeribile il testo a tutto il centrodestra (contando anche su una possibile convergenza del Pd): un’ipotesi, ad esempio, potrebbe essere quella di ridurre i giorni di sconto, oppure di escludere dal regalo i reati più odiosi (come quelli di mafia). “Il punto politico, per quanto mi riguarda, è che il Parlamento si faccia carico di questo problema. Il merito delle scelte che si faranno ovviamente è affidato al libero e democratico dibattito delle aule”, ha detto il deputato di Italia Viva alla Camera. Mini-sanatoria per i detenuti. Contrari i magistrati Melillo e Ardita di Francesco Grignetti La Stampa, 17 aprile 2024 La leggina sfolla-carceri lentamente va ed è già questa una notizia. A fronte di un grande sovraffollamento carcerario, infatti, che aumenta al ritmo di 400 presenze in più ogni mese (sono 61.049 i detenuti al 31 marzo), il governo sa che presto si supererà la linea rossa e che sarà inevitabile una procedura d’infrazione europea. Si cerca di correre ai ripari, allora. E perciò viene guardato con occhio benevolo, anche se in totale silenzio perché la Lega è pronta a farne un caso, un ddl presentato in Parlamento da Roberto Giachetti, Italia Viva. Il gran sconto di pena che Giachetti prevede (passando da 45 a 60 giorni come premio di buona condotta ogni sei mesi di detenzione) lascia però molto freddi i magistrati. Se ne è fatto portavoce il procuratore nazionale Antimafia, Gianni Melillo, che ha lanciato un monito: non si applichi ai detenuti per delitti di criminalità organizzata e terrorismo. “Nel circuito dell’alta sicurezza non vi è alcun problema di sovraffollamento”. Questa mini-sanatoria del carcere sembra l’unica via, in tempi rapidi, per far scendere i numeri dei detenuti. Però Melillo, ieri in audizione alla Camera, ha posto molti dubbi sugli aspetti tecnici. Ad esempio, “che senso ha aumentare la durata della riduzione di pena per chi espia la pena in regime di detenzione domiciliare?”. Né lo convince la scorciatoia di affidare le decisioni ai direttori delle carceri anziché alla magistratura di sorveglianza: “Mi pare un grave passo indietro”. È quanto aveva detto nei giorni scorsi anche Nicola Gratteri, procuratore capo di Napoli. Con loro anche un altro magistrato illustre, Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Catania: “La liberazione anticipata speciale - spiega - verrebbe applicata fin dal 1 gennaio del 2016, e questo comporta che chi è stato sei anni in carcere avrebbe un anno di abbuono. Questo provvedimento è un indulto, neppure mascherato”. Ardita ha fatto anche una stima sugli effetti, proiettando la norma sui prossimi mesi: “Uscirebbero dal carcere 23.00 detenuti che hanno pene fino a tre anni”. Unico a mostrare ritrosie per ora è Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia leghista. Se ci sono dei detenuti a cui manca solo un anno di pena, e che avrebbero già diritto a commutare la pena con la detenzione domiciliare, “bisogna andare a vedere - dice - perché sono all’interno. Magari hanno compiuto reati ostativi molto gravi. Altre volte si tratta di detenuti che non hanno un luogo dove andare ad eseguire la misura alternativa per la mancanza di domicilio”. Per questo Ostellari vedrebbe bene l’aumento di comunità con una sorta di albo nazionale. Sul resto si dice contrario, ma per ora con toni molto soft. “Noi saremo faro di guida in una esecuzione della pena senza sconti, senza premi ma effettiva e efficace”. Sul lungo periodo, intanto, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, continua a puntare sul lavoro in carcere. Ha coinvolto il Cnel. “Stiamo creando - dice - un ponte con le capacità e le disponibilità del Cnel di venire incontro alle esigenze del ministero della Giustizia. È la prima volta che cerchiamo di realizzare, e ci riusciremo, una sinergia omogenea e programmata e non lasciata solo al volontariato per avere, in ciascun carcere, la possibilità di far apprendere un lavoro alle persone detenute”. La versione di Ardita: “Lo svuota-carceri è un messaggio ai potenti in carcere” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 aprile 2024 Lunedì 29 aprile la proposta del deputato di Italia viva Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale, elaborata insieme alla presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Barnardini sbarcherà in Aula alla Camera. Oggi ci sarà l’ultima audizione, quella del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, e domani scadrà il termine per gli emendamenti. Ma intanto ieri l’Antimafia si è spaccata sulla proposta, come rilevano le audizioni del procuratore nazionale della Dnaa Giovanni Melillo e del procuratore aggiunto di Catania, Sebastiano Ardita. Il primo, anche se non esplicitamente, ha fatto capire che sarebbe favorevole alla misura, escludendo però dai benefici i detenuti per delitti di mafia e terrorismo. Mentre il secondo la ritiene una forma di indulto, arrivando addirittura a dire che sarebbe “un messaggio ai detenuti”, affermazione che lo ha condotto ad un botta e risposta con l’onorevole Giachetti. Ma vediamo nel dettaglio le posizioni. “L’emergenza sovraffollamento è sotto gli occhi di tutti, non sorprende che il Parlamento voglia assumersi la responsabilità tutta politica di aumentare in via ordinaria la durata della riduzione di pena prevista nel caso di partecipazione attiva del detenuto all’opera di rieducazione”, ha esordito Giovanni Melillo. Tuttavia, ha proseguito il magistrato, “se il presupposto del provvedimento è la grave condizione di sovraffollamento del sistema carcerario occorre che nelle valutazioni del Parlamento siano considerati obblighi di coerenza sistematica. L’aumento dell’entità ordinaria del beneficio da 45 a 60 giorni non ha alcuna ragione di riguardare i detenuti per delitti di criminalità organizzata e terrorismo: nel circuito dell’alta sicurezza non vi è alcun problema di sovraffollamento né di compressione per altra via della dignità del detenuto”. Tanto è vero che dopo la Torreggiani la nuova norma “escluse i delitti di criminalità organizzata e di terrorismo dall’ambito delle misure adottate all’epoca per rafforzare l’effetto premiale della liberazione anticipata. Ed è una esclusione che la Cassazione ha considerato assolutamente coerente con i principi costituzionali”. L’altro obbligo di coerenza di sistema Melillo lo pone sotto forma di domanda: “Che senso ha aumentare la riduzione di pena per chi la espia ai domiciliari o in forme alternative al carcere? In questi casi chi è l’organo di controllo della sussistenza del presupposto del beneficio?”. Infine il procuratore nazionale ha auspicato che la proposta di legge “possa essere l’occasione per snellire meccanismi procedurali che al momento ne ostacolano l’applicazione”, seguendo ad esempio il modello francese, per il quale quando c’è l’ingresso in carcere, il detenuto condannato è informato del meccanismo premiale della “riduzione della pena” e delle possibilità della sua negazione. Molto più tranchant il parere di Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Catania, ex membro del Csm, chiamato dal M5S in audizione: “La liberazione anticipata speciale verrebbe applicata fin dal 1° gennaio del 2016, e questo comporta che chi è stato sei anni in carcere avrebbe un anno di abbuono, quindi questo provvedimento è un indulto, neppure mascherato, che si applica a chi ha una lunga permanenza in carcere: più lunga è la permanenza, maggiormente rilevante è l’applicazione della norma”. Il magistrato ha stimato che “in un anno e nove mesi uscirebbero dal carcere 23mila detenuti che hanno pene fino a tre anni, la maggior parte di loro subito, per effetto dell’indulto di cui ho parlato prima, gli altri scaglionati”. A beneficiarne maggiormente sarebbero “persone condannate per associazione mafiosa e per gravi reati contro la persona, come quelli da fasce deboli e da codice rosso”. L’onorevole Giachetti ha poi polemizzato con il pm: “Ardita ha detto letteralmente “che questa proposta di legge serve a lanciare messaggi ai detenuti”. Le vorrei chiedere che tipo di messaggi”. Ardita ha risposto non senza difficoltà: “Ovviamente non mi riferivo a messaggi mafiosi. Diciamo che la popolazione detenuta è molto attenta a quello che accade nel mondo pubblico e quindi un’iniziativa del genere significa lanciare un messaggio di difesa di quelle che sono le ragioni corporative”. “Magari in vista delle elezioni, lei pensa?”, lo ha incalzato Giachetti. “No, a me queste derive non piacciono. Mi scuso se ho dato l’impressione di aver utilizzato un termine che avesse un significato diverso. Purtroppo i messaggi mafiosi nella storia del mondo pubblico sono stati lanciati nel passato. Non è che bisogna stracciarsi le vesti. In questo caso non l’ho detto perché non ho gli elementi per dirlo. Tuttavia la storia dei rapporti tra il mondo pubblico e quello dei detenuti è fatta anche di messaggi di questo genere, di rassicurazione, quindi non sono cose campate per aria. Volevo dire che se si lavora per migliorare le condizioni dei detenuti occorrerebbe guardare a quelle che sono le condizioni di fondo della vita di tutti i detenuti, perché queste norme finiscono per avvantaggiare i potenti che stanno in carcere”. Giachetti: “Questo lo dice lei”. E Ardita: “Me ne assumo la responsabilità”. A favore della proposta il professor Glauco Giostra: “In questa situazione la proposta dell’onorevole Giachetti, come rimedio tampone, appare quella più convincente anche se non risolutiva. Riesce a coniugare l’idea di un de- affollamento, di un de- congestionamento con quella di mantenere la pena con la funzione che la Costituzione le assegna. È tra le pochissime proposte serie in circolazione, sarebbe bene rimuovere quindi le criticità sotto il profilo tecnico in modo da non pregiudicarne la funzionalità”. Mattarella: “Il lavoro sia un’occasione per il reinserimento dei detenuti” di Davide Varì Il Dubbio, 17 aprile 2024 Il messaggio del Colle all’evento del Cnel. Poi L’intervento alla cerimonia per l’intitolazione del Csm a Vittorio Bachelet. “Rivolgo un saluto agli organizzatori, ai relatori, ai partecipanti alla giornata di studi dedicata all’istruzione, formazione e lavoro in carcere. Si tratta di un tema di significativo rilievo in considerazione della primaria funzione della formazione e del lavoro che rappresentano una concreta occasione per il reinserimento sociale dei detenuti, anche una volta usciti dal carcere. Auspico che l’esame delle importanti tematiche possa portare a utili risultati e formulo i migliori auguri”. Queste le parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio inviato al presidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), Renato Brunetta, in occasione dell’evento dal titolo “Recidiva zero, studio, formazione e lavoro in carcere”. Durante l’evento, è emerso che il tasso di affollamento reale delle carceri è pari al 119%. Una forte problematica rimane la difficoltà a prevenire la recidiva e a favorire il reinserimento dei detenuti nella società: 6 condannati su 10 sono già stati in carcere almeno una volta. Sempre in giornata Mattarella ha presenziato alla cerimonia per l’intitolazione a Vittorio Bachelet - giurista e politico, nonché vicepresidente del Csm, assassinato dalle Brigate Rosse in un agguato alla Sapienza - della sede del Consiglio superiore della magistratura. Un “testimone autentico dei valori della nostra Costituzione - ha detto il Capo dello Stato -. Il dialogo rappresentava per lui, più che un metodo, l’essenza della democrazia. In quegli anni drammatici, Vittorio Bachelet esprimeva la convinzione che il rafforzamento delle istituzioni democratiche si realizzasse non attraverso lo scontro, ma con scelte - per quanto possibile condivise - di piena e coerente attuazione dei principi della nostra Costituzione”. Mattarella ha invitato i consiglieri del Csm ad ispirarsi a Bachelet nell’interpretare il proprio ruolo, ricordando il dovere di indipendenza e di impermeabilità alle circostanze esterne. “Nella logica criminale dei suoi assassini, Bachelet rappresentava le istituzioni che contrastavano con determinazione la violenza terroristica utilizzando soltanto gli strumenti costituzionali e, insieme, esprimeva un profondo senso della comunità e della coesione sociale - ha sottolineato -. Questi due elementi - la Costituzione e il senso di comunità per la coesione sociale - hanno sempre sconfitto i tentativi di lacerazione della società e di disarticolazione delle sue istituzioni. Anche con riferimento a questi valori - richiamati dalla figura di Bachelet - il Csm è chiamato all’impegno di contribuire ad assicurare la massima credibilità alla magistratura, con decisioni sempre assunte con senso delle istituzioni. I nostri concittadini chiedono una giustizia trasparente ed efficiente”. Detenuti, il piano Nordio-Brunetta: “Così i recidivi passeranno al 2%” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 17 aprile 2024 Il ministro della Giustizia e il presidente del Cnel hanno presentato “Recidiva zero”, l’operazione che vuole mettere a sistema tutti gli attori, istituzionali e non, che creano “iniziative di studio, formazione e lavoro in carcere”. Sei detenuti condannati su dieci sono già stati in carcere. Avessero avuto un un’opportunità lavorativa sarebbero solo due su cento. Con questa stima in mente, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il presidente del Cnel, Renato Brunetta, hanno dato vita a “Recidiva zero”. Lo hanno presentato martedì, a villa Lubin, assieme ai primi risultati di un’iniziativa che vuole mettere a sistema tutti gli attori, istituzionali e non, che creano “iniziative di studio, formazione e lavoro in carcere”. “Concreta occasione per il reinserimento sociale dei detenuti”, ha evidenziato in un messaggio il presidente Sergio Mattarella. D’accordo la premier Giorgia Meloni sul fatto che “l’approccio di sistema sia quello da seguire”. Realistico? Un piano c’è. In arrivo ci sono norme del Cnel per equiparare paghe e qualità del lavoro dentro e fuori del carcere, maggiori incentivi alle aziende, quote per i neo maggiorenni e un segretariato permanente di coordinamento. Spera il presidente della Cei, Matteo Zuppi: “Recidiva zero sembra un sogno, ma senza sogni non si cambia la realtà”. Un approccio, dice in collegamento, che permette di “uscire da una certa rozzezza: non serve far marcire le persone in carcere. Alzare i muri crea solo maggiore insicurezza. Dobbiamo dare un senso al tempo dietro le sbarre e una speranza a tutti. Noi ci siamo. Insieme possiamo far sì che il sogno diventi realtà”. Nordio parla di “svolta epocale”. Brunetta di “operazione win win”. Ma di cosa si tratta? “Costruire un ponte tra il dentro e il fuori” spiega il ministro. E specifica: “Da magistrato sono stato spesso, ho mangiato e persino fatto la pennichella in carcere. Ma da ministro ho visto iniziative che ridanno prospettive e portano verso la legalità. Se il detenuto esce solo con il “marchio di Caino”, invece, tende a ricommettere reati. Dobbiamo cambiare il sistema carcerocentrico”. Sono 61mila i detenuti su 51mila posti disponibili. Ma “norme “svuotacarceri” senza prospettive creano solo recidivi”, dice il sottosegretario leghista Andrea Ostellari, anche lui convinto della necessità di fare sistema. Si dice da anni. Ma Brunetta è convinto che sia la volta buona: “Perché qui non c’è ideologismo. Oltre ai 61mila detenuti sono in carcere, 120mila in esecuzione penale esterna e circa 95mila in attesa di entrare nel circuito. Vanno presi in carico tutti, inseriti in una piattaforma informatica e trattati in modo diverso”. C’è, dice, una ricchezza di reti ministeriali, professionali, di volontariato, società civile, banche, università e imprese: “Se ogni player digitale donasse 10 aule tecnologiche copriremmo i 190 istituti”, dice. Ottimista l’ex Guardasigilli Paola Severino, apripista di quest’approccio: “Il recupero del detenuto è utile soprattutto per la società. L’attenzione alla formazione fa pensare davvero a una possibile svolta”. Il Cnel accende un faro sul lavoro dei detenuti: le parti sociali in campo faranno la differenza di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2024 Lavoro e formazione come ponti tra carcere e società. Per spezzare la “sordità” nei confronti del mondo penitenziario e mettere a sistema le buone pratiche. Muove da questo obiettivo il pacchetto di proposte normative avanzato ieri al termine della giornata “Recidiva zero. Studio, formazione e lavoro in carcere” promossa a Roma dal Cnel insieme al ministero della Giustizia, a coronamento del percorso avviato a giugno 2023 con il protocollo d’intesa siglato tra il presidente del Cnel, Renato Brunetta, e il Guardasigilli Carlo Nordio. Oltre 300 partecipanti, 6 gruppi di lavoro tematici, 9 ore di attività: questi i numeri dell’evento, che porterà alla redazione di un testo di legge ad hoc o di un emendamento al Ddl sicurezza all’esame della Camera. “Cambiamo radicalmente la concezione carcerocentrica della pena”, spiega Nordio. “Per la prima volta cerchiamo di attivare una sinergia programmata e razionalizzata per portare il lavoro in ciascun istituto e in ciascun luogo di detenzione alternativa”. “Istituiremo un segretariato permanente - annuncia Brunetta - per facilitare l’interconnessione tra reti istituzionali, parti sociali e terzo settore. Possiamo azzerare la recidiva con il lavoro dentro e fuori dal carcere, la sua giusta remunerazione, l’istruzione e la formazione. È una scommessa win-win-win da vincere in tre: detenuti, società e vittime”. Nella mattinata dedicata al ruolo delle istituzioni ricorrono quattro parole chiave: ponte, rete, rieducazione, speranza. Lavoro e formazione, sottolinea in un messaggio il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, “rappresentano una concreta occasione per il reinserimento sociale dei detenuti, anche una volta usciti dal carcere”. “Il lavoro - evidenzia la premier Giorgia Meloni nella sua lettera - è lo strumento per eccellenza per il recupero di chi ha contratto un debito con la società”. Parlano i numeri, raccolti per il Cnel da Censis e Ambrosetti: i detenuti presenti nei 189 istituti penitenziari del Paese sono 61.049, con un tasso di affollamento reale del 119% e un tasso di recidiva del 60% (sei su dieci sono stati già in carcere almeno una volta), ma secondo le stime questo dato può calare fino al 2% per chi ha avuto la possibilità di un inserimento professionale. Eccolo, il game changer a cui punta l’alleanza sancita ieri. Anche perché nel 20231a formazione professionale in carcere ha coinvolto solo il 6% dei detenuti e il lavoro i133%, ma l’85% alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, soltanto nelle imprese private e il 4% nelle cooperative sociali. Di “miracolo che si deve compiere” parla il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari: “Vogliamo dare una soluzione diversa dagli sconti: gli svuota-carceri del passato hanno scaricato sulla comunità. Noi vogliamo invece fare in modo che chi esce dal carcere entri nella comunità sana del Paese. Il lavoro dei detenuti è un investimento sulla sicurezza di tutti”. Che la macchina sia in moto è fuor di dubbio. “Nel primo scorcio del 2024giàoltre 600 imprese hanno chiesto di godere degli sgravi previsti dalla legge Smuraglia”, riferisce il capo del Dap, Giovanni Russo. “Vogliamo creare “stabilimenti penitenziari”, da cui i nostri detenuti escano con maggiore cultura, maggiori capacità sportive, maggiore professionalizzazione”. “Riempire la detenzione di contenuti è la sfida”, concorda la presidente della Scuola nazionale dell’amministrazione, Paola Severino, che con la sua Fondazione ha aperto uno sportello di counseling per profilare i detenuti di alcuni istituti. Perché un’altra criticità sta nella scarsa conoscenza del capitale umano in carcere: di un detenuto su due non sappiamo neanche il titolo di studio. Allo stesso tempo, osserva il Garante dei diritti dei detenuti, Felice Maurizio D’Ettore, “serve una nuova cultura d’impresa”. Il bilanciamento tra certezza della pena e “strategia rieducativa di sistema” per “aiutare le persone a riscrivere la propria storia” è l’esigenza indicata dalla viceministra del Lavoro e delle Politiche sociali, Maria Teresa Bellucci. Per la sottosegretaria all’Istruzione e al Merito, Paola Frassinetti, va superata “l’eccessiva diversificazione delle scuole penitenziarie e assicurato un ambiente di studio consono”, con il massimo riguardo per gli oltre 450 ragazzi rinchiusi nelle strutture minorili: “Per loro sono ancora più importanti laboratori e formazione professionalizzante”. Lo sanno bene i Comuni. “Dobbiamo dare opportunità a chi non la ha avuta”, dice il vicepresidente Anci e sindaco di Ercolano Ciro Buonaiuto. “Opportunità da garantire anche ai figli dei detenuti”, rileva l’assessore calabrese Emma Staine, coordinatrice Politiche sociali delle Regioni. Il miracolo della recidiva zero non c’è ancora, la volontà condivisa di realizzarlo sì. Dalla meccatronica alla moda, le buone pratiche fanno scuola di Serena Uccello Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2024 Dai settori più tradizionali del manifatturiero, come la meccatronica, all’artigiano, come la sartoria, fino ad arrivare alla frontiera tecnologica, ovvero la creazione di reti informatiche. La mappa delle esperienze professionali che hanno visto il mondo dell’impresa varcare l’accesso degli istituti penitenziari ventiquattro anni dopo la Legge Smuraglia è ormai ampia. O meglio lo è per la varietà, ora bisogna renderla tale sul piano del numero di detenuti coinvolti e soprattutto dell’efficacia, ovvero il reinserimento effettivo e la deterrenza. A farne il punto chi è stato protagonista di queste prassi e chi le ha studiate, a cominciare da Filippo Giordano professore di Management alla Lumsa e alla Bocconi che da dieci anni si occupa anche di amministrazione penitenziaria. Giordano pone subito una questione strutturale: più che di recidiva preferisce parlare di riduzione dei comportamenti devianti, introducendo in questo modo una prospettiva che non è solo linguistica. Perché, spiega, la recidiva lancia troppo in avanti nel tempo l’analisi dell’efficacia degli interventi, invece considerare subito la riduzione dei comportamenti devianti permette nell’immediato di capire se le buone pratiche funzionano o meno. Due i nodi da affrontare: la complessità dell’inclusione sociale e la conoscenza inadeguata. In ogni caso, se l’obiettivo è quello di avere la certezza che il lavoro è la strada per un recupero, questa certezza c’è già e arriva da un progetto, partito dal carcere di Bollate e diffuso ora anche ad altri istituti, che ha coinvolto la Cisco Systems Italy. Oggi dopo vent’anni sono 1.500 i detenuti con capacità informatiche importanti; alcuni, una cinquantina, con una certificazione delle competenze che segnala il livello più alto, racconta Gianmatteo Manghi, amministratore Delegato Cisco Systems Italy che dice: “Su questi numeri la nostra recidiva è zero”. Un tema su cui si sofferma pure Gian Guido Naldi, amministratore delegato di Fare impresa in Dozza, azienda di Bologna specializzata nel packaging e nell’automazione industriale. “Attualmente - spiega - sono 15 le persone occupate ma nel tempo ne sono state formate e occupate una settantina, di queste quelle che sono rimaste nel settore del packaging sono una trentina. Tra tutte, considerando che alcune le abbiamo perse di vista, la recidiva si attesta attorno al 15 per cento”. Certo non mancano le criticità: “Per avere una connessione internet adeguata abbiamo dovuto aspettare un anno e anche se potremmo ampliare lo stabilimento l’autorizzazione non arriva”. Mentre, sempre su questo fronte, Flavia Filippi, presidente di Seconda Chance, associazione che a due anni dalla sua nascita, ha trovato lavoro con mansioni diverse a 280 persone, ricorda due nodi strutturali, quello delle risorse per le associazioni e i tempi dei Tribunali di sorveglianza. Esiste infatti un gap profondissimo tra i tempi dell’amministrazione penitenziaria e quelli dell’impresa, ne parla anche Federica Brancaccio, presidente Ance, che spiega come i tempi di un cantiere non coincidono con quelli degli istituti “così inserire un detenuto in una squadra diventa molto complicato”. Brancaccio poi dettaglia un paradosso: il suo è un settore che ha grande necessità di manodopera eppure non riesce ad occupare questi lavoratori per la difficoltà di svolgere in carcere la formazione necessaria. Parla invece “di un grande esperimento sociale che ha funzionato” Raffaela Pignetti, presidente Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale (A.S.I.) di Caserta - 99 persone inserire dopo un primo percorso formativo di Bo ore - al punto che questo progetto sarà studiato alla Nazione Unite. Certo dice Pignetti è stato necessario combattere l’inevitabile pregiudizio: “Oggi però dice sono le stesse imprese, all’inizio timorose, a spingerci ad andare avanti”. Punta anche sul lavoro come strumento di emancipazione il progetto di Marco Maria Mazio, presidente di Palingen: una sartoria all’interno del carcere Casa Circondariale femminile (“CC”) di Pozzuoli, un secondo laboratorio all’esterno Stefano Cuzzilla, presidente di Federmanager, cita l’impegno della sua federazione nel processo di sensibilizzazione della dirigenza italiana. Mentre Giuliano Zignani, presidente CE.PA. (Centro Patronati), sottolinea come fondamentale la conoscenza dei contratti nazionali e la formazione in materia di sicurezza sul lavoro. Si sofferma infine sulla necessità di valorizzare la qualità delle relazioni Nicola Boscoletto, presidente della Cooperativa sociale Giotto. Salari contrattuali per chi lavora dentro le strutture penitenziarie: le proposte del Cnel di Giorgio Pogliotti Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2024 Il trattamento economico e normativo del lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria va equiparato agli standard ordinari dei contratti collettivi nazionali di riferimento. È una delle proposte della giornata di studio al Cnel, che ha visto tutti i partecipanti d’accordo su un principio confermato da tutte le statistiche: se un detenuto impara e trova un lavoro, la percentuale di recidiva tende ad annullarsi. Il presupposto è il cambiamento di prospettiva in atto, sottolineato da Paolo Sommaggio (Università di Padova): “In passato c’era un approccio puramente afflittivo focalizzato solo sul reato commesso - ha detto - adesso si guarda anche al futuro, attraverso la formazione e il lavoro”. Dunque il carcere può trasformarsi in una risorsa. L’iniziativa del Cnel propone un’azione di sistema, attraverso un’alleanza tra diversi soggetti, “i corpi intermedi sono strategici”, ha sottolineato il viceministro al Lavoro Maria Teresa Bellucci, ricordando come dal programma di politiche attive Garanzia occupabilità dei lavoratori che ha una dote di 4,4 miliardi “nel percorso di inclusione sociale per la presa in carico delle persone più fragili, compreso chi sta scontando una pena, erano esclusi gli enti del Terzo settore che invece abbiamo coinvolto”. Del resto, come ha ricordato Vanessa Pallucchi, portavoce forum nazionale Terzo settore, “da decenni ci occupiamo dell’inclusione delle persone dentro e fuori dal carcere”. Resta molto da fare, considerando che di circa la metà dei 6imila detenuti non si conosce il titolo di studio, al 33,5% non è stata rilevata la professione. Solo un terzo lavora, ma l’85% è impiegato dall’Amministrazione penitenziaria. Le Agenzie per il lavoro possono svolgere un ruolo importante nel collocamento dei detenuti: “Possiamo favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro - ha spiegato Francesco Baroni presidente di Assolavoro - attraverso la rete di 2.500 filiali presenti nel territorio nazionale specializzate nella formazione mirata all’occupabilità delle persone, tenendo conto delle criticità di ciascuno”. Il reinserimento degli ex detenuti nel mondo del lavoro e nel circuito economico “è un investimento dello Stato sulla persona”, ha aggiunto Mario Baccini, presidente dell’Ente nazionale per il microcredito, la “microfinanza è uno strumento che implementa le ragioni di un’economia sociale e di mercato e rimette al centro la persona”. Un altro attore importante è Cooperazione finanza impresa: “Dal Duemila - ha ricordato l’Ad Luca Bernareggi - interveniamo a supporto della cooperazione sociale per l’inserimento di lavoratori svantaggiati, sosteniamo 200 cooperative, di cui 90 cooperative sociali, riuscendo ad arrivare laddove le risposte ordinarie non arrivano”. Un altro tassello del sistema di formazione e istruzione è rappresentato dalla Conferenza nazionale dei poli universitari che riunisce 44 università: “Abbiamo 1.707 iscritti in 137 istituti penitenziari, nel 2018 erano 800”, ha ricordato il presidente Franco Prina. Ma, ha ammonito Don Marco Pagniello, direttore Caritas, “a volte al detenuto non basta un titolo di studio o il lavoro, noi possiamo accompagnare queste persone che se non trovano un contesto sano, non ci sarà mai “recidiva zero”. Va nella direzione di restituire dignità ai detenuti il progetto “Teatro in carcere” promosso dall’Associazione di Fondazioni e Casse di risparmio (Acri), giunto alla sesta annualità: “coinvolge circa 300 detenuti”, ha spiegato il dg Giorgio Righetti. Ma per il successo dell’iniziativa è importante il capitolo governance: in un documento Cgil, Cisl e Uil sottolineano come l’attivazione del segretariato permanente presso il Cnel consentirà “sinergie per risorse ed expertise provenienti dalle diverse amministrazioni, parti sociali, Terzo settore”, per offrire un “hub di raccordo con l’Amministrazione penitenziaria”. Mattarella avvisa il Consiglio Superiore della Magistratura: “La giustizia sia trasparente” di Mario Ajello Il Messaggero, 17 aprile 2024 Un discorso molto energico quello di Sergio Mattarella, ieri: “Il Csm è chiamato all’impegno di contribuire ad assicurare la massima credibilità alla magistratura, con decisioni sempre assunte con senso delle istituzioni. I nostri concittadini chiedono una giustizia trasparente ed efficiente”. Una strigliata, sempre in stile mattrelliano ovviamente. Che arriva durante la cerimonia di intitolazione della sede del Consiglio a Vittorio Bachelet. “I componenti del Csm si distinguono soltanto per la loro “provenienza” - ha aggiunto il Capo dello Stato - e sono chiamati a svolgere il loro mandato senza doversi preoccupare di ricercare consenso per sé o per altri soggetti”. Insomma, la politicizzazione dell’organo di autogoverno dei togati è per Mattarella un problema che va evidenziato e superato. Che viene da lontano, naturalmente, ma che tuttora riguarda l’istituzione di Piazza Indipendenza. Mattarella ricorda il giurista assassinato dalle Brigate Rosse in una mattinata tremenda sulle scale della facoltà di legge all’Università di Roma e parla di lui - ex presidente di Azione Cattolica che fu anche vicepresidente dell’organo di autogoverno dei magistrati - come di una figura che ha coniugato “fermezza di principi e disponibilità al dialogo nella ricerca di convergenza tra prospettive diverse”. Ecco, il Csm non deve viversi come una roccaforte politica ma come un luogo di dialogo istituzionale ee di trasparenza nei confronti dei cittadini. La composizione delle diversità, ammonisce Mattarella nella cerimonia, “non si realizza ricorrendo a logiche di scambio, che assicurano l’interesse di singoli o di gruppi. Un metodo del genere rappresenterebbe la negazione del pluralismo democratico, che ispira le nostre istituzioni repubblicane e che Vittorio Bachelet ha sempre promosso”. È una critica alla politicizzazione e al correntismo. Alla malintesa ricerca della popolarità e guai a praticare logiche di scambio. Dice queste cose il Capo dello Stato davanti al vicepresidente Fabio Pinelli, ai componenti del Csm e ai familiari di Bachelet. Una vita, dedicata al “senso più alto della politica al servizio delle istituzioni”, quella di Bachelet. Il quale venne assassinato dai terroristi rossi alla Sapienza, il 12 febbraio 1980, al termine di una lezione, mentre era in compagnia dell’assistente Rosy Bindi. “La Costituzione e il senso di comunità per la coesione sociale hanno sempre vinto i tentativi di lacerazione della società e di disarticolazione delle sue istituzioni”, incalza Mattarella. Quando parla dei componenti del Csm che si distinguono soltanto per la loro “provenienza”, sta parlando dei laici e dei togati. Dei primi di nomina politica e dei secondi che sono toghe. E c’è chi interpreta il discorso molto critico di Mattarella più rivolto ai primi che ai secondi. Sta di fatto che il Capo dello Stato insiste sul doveroso rispetto da parte del Csm per “il dettato costituzionale, facendo prevalere sempre la ricerca dell’interesse generale”. Il vicepresidente del Csm, Pinelli, dice di apprezzare le parole di Mattarella, lo ringrazia e osserva: “Ogni magistrato deve sentire il compito di custodire, nell’esercizio quotidiano della funzione, la fiducia dei cittadini nella giustizia. Equilibrio, sobrietà di comportamenti dentro e fuori le aule di giustizia, prudenza e rigore nell’interpretazione della legge, capacità professionale sempre sorvegliata ed arricchita, sono i tratti irrinunciabili del magistrato di oggi e di domani, il corredo delle modalità di un esercizio corretto della funzione”. E ancora: “L’orgoglio di essere magistrato, la vocazione a servire il Paese in nome del popolo italiano, implica anche il suo rovescio, poiché la collettività si aspetta dai magistrati più di quanto chiede a chi è comunque investito di funzioni pubbliche”. L’intento di Mattarella è stato quello di incrociare insomma il ritratto che fa di Bachelet con i tempi di oggi. I suoi richiami sono netti. Se Bachelet era “l’uomo del dialogo, che più che un metodo è l’essenza della democrazia”, e di questo si era fatto protagonista anche al Csm, dopo essere stato eletto con un solo voto di differenza rispetto a Giovanni Conso, quel metodo dovrebbe valere sempre per la politica. “In quegli anni drammatici - dice Mattarella - Bachelet esprimeva la convinzione che il rafforzamento delle istituzioni democratiche si realizzasse non attraverso lo scontro, ma con scelte, per quanto possibile condivise, di piena e coerente attuazione dei principi della nostra Costituzione”. Una sola strada, dunque, quella della Carta. E non quella della partigianeria. Mattarella, da presidente del Csm oltre che da arbitro della nazione, è particolarmente appassionato e reattivo su questo punto. Ribadisce che “l’indipendenza della giurisdizione è un valore irrinunciabile della nostra democrazia”. Il Sottosegretario alla giustizia Ostellari: “Crimini aumentati”. Ma i dati dicono altro di Valentina Stella Il Dubbio, 17 aprile 2024 I report del ministero smentiscono l’impennata di delitti: Italia tra i Paesi più sicuri. Ma tra percezione e realtà nascono le politiche securitarie. “Si dice: il sovraffollamento delle carceri è un problema. È uno dei temi che viene usato anche in politica da chi vuole criticare l’azione del governo. Certo, il sovraffollamento è un problema perché stai guardando quei numeri legati ai detenuti all’interno delle nostre carceri. Ma siamo sicuri che sia quello il problema? Non è per caso che ci sia, invece, un problema diverso, cioè di moltiplicazione dei crimini all’interno del nostro Paese? In realtà, il nostro sistema in generale sta funzionando. Il vero problema non è il sovraffollamento nelle nostre carceri, il vero problema è semmai una presenza straordinaria di soggetti che delinquono”: così il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, intervenendo al convegno organizzato dal Cnel dal titolo “Recidiva zero”. Ma davvero c’è una moltiplicazione dei crimini? Secondo quanto riportato da un rapporto Censis a fine 2022, nell’ultimo decennio il numero delle denunce è diminuito del 25,4%. Nel 2012 in Italia erano stati denunciati 2.818.834 reati, nel 2021 sono stati 2.104.114, con una differenza di 714.720 delitti. Nell’ultimo decennio, secondo i dati, sono diminuiti drasticamente i crimini più efferati: gli omicidi volontari sono passati dai 528 del 2012 ai 304 del 2021 (-42,4%), e nell’ultimo anno in 32 province italiane - quasi 11 milioni di residenti - non è stato commesso neppure un omicidio. In calo anche la criminalità predatoria: tra il 2012 e il 2021 le rapine sono diminuite da 42.631 a 22.093 (-48,2%), i furti in casa da 237.355 a 124.715 (-47,5%), i furti d’auto da 195.353 a 109.907 (-43,7%). Milano guidava la graduatoria delle province in base ai reati denunciati in rapporto ai residenti, con 59,9 reati ogni 1.000 abitanti, a fronte di una media nazionale di 35,7. Nell’ultimo decennio sono aumentate solo alcune fattispecie di reato contro la persona, come le violenze sessuali: erano 4.689 nel 2012, sono 5.274 nel 2021: +12,5%. Insieme ad essi, secondo il Viminale, sono cresciuti i reati informatici che rappresentano oggi, in molti ambiti, una vera e propria emergenza a cui far fronte. A questa fotografia si aggiunge il report del maggio 2023 “La criminalità tra realtà e percezione”, realizzato dal ministero dell’Interno insieme all’Eurispes e secondo il quale “in Italia, nel periodo 2007-2022, il totale generale dei delitti ha mostrato un andamento altalenante sino al 2013, per poi evidenziare una costante flessione dal 2014 al 2020. Nel 2021 e nel 2022 si ha, invece, una risalita: in particolare, nel 2022, i delitti commessi registrati sono 2.183.045, con un incremento rispetto al 2021 del 3,8%. È, tuttavia, importante sottolineare la particolarità degli anni 2020 e 2021, caratterizzati da limitazioni al movimento delle persone. Pertanto, effettuando il confronto con il 2019, i delitti commessi nel 2022 risultano in diminuzione”. A conclusioni identiche sul piano effettuale, come riferisce il sito EticaPa, “inducono i dati del Global Peace Index 2022 che colloca l’Italia al secondo posto in Europa dopo la Slovenia come Paese con meno omicidi e al 32 posto nel mondo (su 163) per sicurezza”. Inoltre, “l’enorme contrasto fra i dati di realtà e la percezione degli italiani viene analizzato da un data room di Milena Gabanelli, che pone giustamente in relazione un’indagine statistica che certifica come il 78% degli intervistati ritenga la criminalità nel nostro Paese in aumento negli ultimi 5 anni e, giustamente, pone in relazione tale percezione errata con la quantità di tempo che le reti televisive nazionali dedicano all’argomento”. In base ai numeri riportati da Milena Gabanelli e Luigi Offeddu nel 2019 e rielaborati da fonti istituzionali - come sempre il Censis e il ministero degli Interni -, “omicidi volontari, quasi dimezzati: 611 denunciati nel 2008, 368 nel 2017. Rapine: 45.857 denunciate nel 2008, 30.564 nel 2017, un calo del 33,3%. Ad incidere di più sulla sfera personale sono i furti in casa, perché diffondono insicurezza: meno l’8,5%, nel 2017 rispetto al 2016”. Eppure “cresce la paura, reale o favorita da politica e media: nel 2017 il tema “criminalità” è comparso nel 17,2% dei programmi della principale Tv francese, nel 26,3% di quella britannica, nel 18,2% di quella tedesca e nel 36,4% dei 5 principali telegiornali italiani”. Altri dati confortano la tesi per cui il nostro Paese sia sicuro. A febbraio la Rsi Radiotelevisione svizzera ha riportato che “l’Italia è attualmente uno dei Paesi più sicuri d’Europa, con un basso tasso di omicidi rispetto ai suoi vicini più grandi, a cominciare dalla Francia. Con la fine del terrorismo politico e la conversione delle mafie alla criminalità dei “colletti bianchi”, il numero di omicidi intenzionali è crollato”. In più si osserva che “secondo l’Ufficio delle Nazioni unite contro la droga e il crimine (Unodc), nel 1990 in Italia si verificavano 34 omicidi per milione di abitanti, contro i 24 della Francia. Nel 2023 il numero di omicidi era sei volte inferiore, mentre in Francia lo era solo di 1,6 volte nello stesso periodo. E le statistiche medie dell’Unodc per il 2021/2022 evidenziano appunto che l’Italia è tra i Paesi europei con il minor numero di omicidi pro capite, 5,5 per milione, contro i sette della Spagna, gli otto della Germania, i dieci del Regno Unito e gli undici della Francia. E il divario con quest’ultima è palese anche per le aggressioni intenzionali (65.000 contro 384.000) e i tentati omicidi (1.018 contro 4.055), secondo i rispettivi ministeri dell’Interno”. Intercettazioni, nuova stretta del centrodestra: non potranno durare più di 45 giorni di Liana Milella La Repubblica, 17 aprile 2024 Entusiasta Forza Italia con Gasparri e Zanettin, in gramaglie l’ex pm Scarpinato di M5S che assiste allo “smantellamento del principale strumento investigativo”. E Costa alla Camera vuole cancellare il trojan per i reati di corruzione e farlo autorizzare solo da tre giudici. Il sogno di Berlusconi di limitare al massimo le intercettazioni si sta avverando davvero questa volta. Forza Italia mette a segno colpi che non erano riusciti neppure quando aveva in mano il ministero della Giustizia. E l’asse politico forte con la Lega - il duo degli avvocati entrambi senatori Bongiorno e Zanettin - funziona “alla grande”. Dal loro punto di vista. Mentre si strappa letteralmente le vesti l’ex pm di Palermo Scarpinato che grida contro “lo smantellamento del più importante strumento investigativo”. Il Guardasigilli Nordio ci ha già messo del suo, vietando ai giornalisti di pubblicare gli ascolti finché non sono a processo. E il suo ddl sull’abuso d’ufficio, già in fase di emendamenti alla Camera per l’ultimo passaggio parlamentare previsto prima delle europee, ratificherà la stretta. E non è detto che stavolta Enrico Costa di Azione, in combine con Forza Italia alla Camera - il duo Pietro Pittalis e Tommaso Calderone - non porti a casa anche il suo ultimo colpo contro il trojan. Costa lo tramortisce nel ddl sulla Cybersecurity e ne vieta l’uso per i reati di corruzione, nonché impone il via libera, considerata “la sua invasività”, solo da parte di un tribunale, quindi di tre giudici, visto che “il trojan è attivo in ogni frangente, anche quelli più intimi e privati”. Per questo ci va messo un freno. E la battaglia di Costa dura già da tempo. “In morte delle intercettazioni” si potrebbe intitolare questa sonata della maggioranza. Che vede l’entusiasmo di Maurizio Gasparri, il capogruppo di FI in aula, che adesso è entrato a far parte anche della commissione Giustizia, ed esulta per il ddl di Pierantonio Zanettin emendato dalla leghista Erika Stefani. Intercettazioni ammesse “solo” per 45 giorni, a meno che di mezzo non ci siano mafia e terrorismo. Quarantacinque giorni, cioè sei settimane, cioè nulla. Ada Lopreiato di M5S è basita e lo dice apertamente: “È diventata un’autentica ossessione, governo e maggioranza marciano senza sosta e senza scrupoli e a ogni provvedimento trovano il modo di limitare le intercettazioni. Non si fermano nemmeno di fronte alla violenza contro le donne, con buona pace dei proclami continui della premier Meloni e di tutto il centrodestra”. È già, è proprio così, perché in 45 giorni un telefono potrebbe “non parlare” né svelare l’autore del crimine. L’ex pm Roberto Scarpinato è fuori di sé: “Questo limite agli ascolti anche per reati gravissimi come la strage, gli omicidi, i reati di violenza sulle donne del Codice rosso, le rapine aggravate e tanti altri, si aggiunge ai provvedimenti già approvati e a quelli in cantiere sulle intercettazioni, tutti finalizzati a limitarne l’uso per i reati dei colletti bianchi, garantendo la loro impunità anche a costo di sacrificare l’esigenza fondamentale della difesa dei cittadini contro le forme più gravi del crimine. Manca solo l’ultimo tassello, il divieto del trojan per i colletti bianchi e l’opera sarà completata”. È giusto la norma che Costa, in chiave garantista dal suo punto di vista, propone alla Camera. Che l’escalation sulle intercettazioni ci sia lo ammette anche Zanettin, ovviamente in chiave positiva non solo da forzista, ma anche da avvocato. L’escalation è proprio nelle sue parole. Sentiamole: “Con quest’ultimo disegno di legge (quello dei 45 giorni, ndr) si completa il disegno di riforma delle intercettazioni che parte dall’indagine conoscitiva della commissione Giustizia del Senato. Abbiamo vietato quelle tra avvocato e cliente nel testo del ddl Nordio, che ora è all’esame della Camera. La settimana scorsa abbiamo approvato la disciplina dell’acquisizione dei dati degli smartphone”. E il vice ministro della Giustizia, l’avvocato barese Francesco Paolo Sisto, ovviamente manifesta tutta la sua soddisfazione per questi 45 giorni, una misura “equilibrata che si pone esattamente al centro tra il diritto alle indagini, che nessuno nega, e il diritto alla riservatezza e a una corretta gestione di uno strumento comunque è invasivo”. Quale grave delitto si potrà scoprire in soli 45 giorni? La storia giudiziaria italiana ci dice che potrebbe accadere solo per miracolo. Ma in clima elettorale il garantismo serve per accaparrarsi uno o più voti in più. Intelligenza artificiale, i timori dei legali. Il Governo studia un nuovo reato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2024 Molte le questioni discusse al G7 delle Avvocature organizzato dal Consiglio nazionale forense: dai rischi per la professione, alle possibili ingerenze nelle fasi giurisdizionali. Un Ddl ne regolamenterà l’utilizzo stabilendo anche le sanzioni. Su una cosa sono tutti d’accordo: la rivoluzione dell’intelligenza artificiale inciderà pesantemente anche sulla professione di avvocato. E per non trovarsi spiazzati, la categoria e la politica dovranno giocare tempestivamente la partita della regolamentazione. Sono queste le premesse del “G7 delle Avvocature” in corso oggi a Roma presso l’Aula Magna della Pontificia Università della Santa Croce dal titolo: “Intelligenza artificiale e valori democratici: etica, innovazione tecnologica e tutela dei diritti della persona” organizzato dal Consiglio nazionale forense, con l’intervento tra gli altri del Presidente Francesco Greco, del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e del viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto. La prima preoccupazione dei legali è il rischio di una spaccatura nella categoria tra chi rimane indietro anche perché non ha le possibilità di fare il salto tecnologico e chi invece, per esempio i grandi studi, può cavalcare una innovazione che non ha più il suo fulcro nella competenza professionale ma nelle capacità di gestire l’algoritmo. E poi lo spettro più grande, evocato anche ieri dal Presidente del Cnf e dal Ministro Nordio nel corso dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario forense, e cioè: le sentenze fotocopia, scritte direttamente dalla macchina su input di un giudice che si limita a prescriverne l’esito. “C’è tanta preoccupazione - afferma il presidente del Cnf Greco in apertura - perché siamo di fronte a qualcosa di nuovo che non conosciamo, paragonabile alla invenzione della scrittura o della ruota”. “Noi avvocati dovremo confrontarci con la AI, e non sappiamo come i giudici utilizzeranno la macchina intelligente”. “Disagio e incertezza prosegue sono diffusi anche negli altri paesi del G7: in Canada ancora non sono pronti all’ingresso della AI nel giudizio, così anche in Inghilterra, dove solo pochissimi studi si stanno attrezzando, molti non avranno le risorse economiche per farlo. In Francia, invece, sembra esserci maggiore consapevolezza mentre in Germania si è ancora all’inizio”. E siccome, prosegue, la tecnologia non deve aiutare solo chi ha maggiori risorse “un obiettivo del Cnf è quello di dotare l’avvocatura dell’utilizzo dell’AI. Nessuno dovrà trovarsi indietro, doteremo il Cnf di un sistema di AI da mettere a disposizione degli avvocati italiani”. Ma gli ambiti coinvolti sono tanti: dalla deontologia, “come si applica alla macchina?” Al segreto professionale, che invece va “rafforzato” in quanto “baluardo della difesa”; alle specializzazioni: “come valutare la mia preparazione tecnica - dice Greco - rispetto a chi invece è capacissimo nell’utilizzo dello strumento AI?”. Il Sottosegretario alla Pcdm Mantovano parte ricordando che alle ultime elezioni il problema della AI non era in alcun programma elettorale, a riprova della “rapidità di sviluppo del tema, che oggi manifesta il suo carattere pervasivo e preoccupante”. Oltre ai lati positivi, come per esempio le applicazioni in ambito sanitario, presenta infatti un “lato oscuro” che riguarda: la tutela diritti della persona, le fake news e il rapporto col consenso: “Alla tentazione dei controlli di massa - afferma l’ex toga - non sono immuni i paesi occidentali, servono dunque criteri per determinare precetti e sanzioni per chi si discosti dalle regole”. “Perché il diritto - prosegue - non può ridursi ad applicazione di algoritmi, non può esistere un giudice che dica alla macchina di confezionare una sentenza di condanna sulla base di una serie di documenti e file. E questo - ammonisce - non è una cosa così lontana anche considerato l’uso del ‘copia in colla’ da parte di alcuni magistrati”. Un pericolo sui cui torna anche il Viceministro Sisto: “Leggendo la Costituzione - afferma - è chiara l’impossibilità della sostituzione della componente umana nella decisione del giudice”. “Immaginate però se il Gip, avendo tutti i dati, chiedesse alla macchina di confezionare un provvedimento per arrestare tizio: saremmo di fronte ad una inversione del procedimento: si parte dal risultato e se ne fa scrivere alla macchina la motivazione”. “Il problema è a mio avviso gravissimo, come avvocati - dice Sisto richiamando il suo passato di penalista - dobbiamo combattere il moloch dell’efficienza, non possiamo essere ridotti alla necessità di fare presto. C’è un limite: i diritti dei cittadini. Non si riduce la domanda di giustizia si aumenta l’offerta, più magistrati ecc.” Mantovano ricorda poi che il Cdm sta per varare un Ddl per “indicare almeno i principi e sanzionare le deviazioni, tenendo presente la prospettiva antropocentrica”. In questo senso conclude: “È prezioso il ruolo del G7 delle Avvocature, voi siete in prima linea per vigilare che l’equilibrio sia garantito negli ordinamenti senza cadute orwelliane. La professione cambierà è inevitabile, si perderanno alcune funzioni, spero le più ripetitive, e se ne apriranno di nuove, quello che non cambia è il ruolo secolare di sentinella che l’avvocato svolge”. Il viceministro Sisto ha poi annunciato che è allo studio un provvedimento sulla cosiddetta sinteticità degli atti “per evitare, soprattutto agli amministrativisti, di non vedersi dichiarare il processo inammissibile. Faremo una norma per evitare il diritto di difesa possa diventare una colpa”. Sisto esprime invece un allarme per lo sviluppo dei “portali di giustizia telematica, dove l’utente potrà porre domande ottenendo delle risposte, e allora quale sarà il ruolo dell’avvocato? Per paradosso, se la AI prende un piede sbagliato, non servirà neppure più essere laureati per essere avvocati”. E sull’avvocato in Costituzione, evocato ieri dal Ministro Nordio, Sisto ha detto di aver cambiato idea: “Pensavo non fosse necessario, in quanto già compreso nel diritto di difesa, ma ho cambiato idea, proprio le tecnologie AI rendono indispensabile che la parola ‘avvocato’ entri nella Carta, per evitare la tentazione che esca dal diritto della difesa”. Un passaggio molto applaudito su cui poi è tornato Greco ricordando il caso della Tunisia che dopo aver inserito l’avvocato nella Carta dopo le “primavere arabe”, l’ha tolto non appena ha piegato verso l’autocrazia. Sisto ha infine anticipato che il Ddl, ancora allo studio, prevede (articolo 14) “l’utilizzo nella attività giudiziaria della AI esclusivamente per motivi di organizzazione e semplificazione oltre che di ricerca giurisprudenziale e dottrinale”. Spetterà invece ai Coa, evitare che la AI si trasformi in strumento di abuso del diritto di difesa. Per Sisto: “L’oralità è quello che può continuare a fare la differenza e non solo nel civile ma anche nel processo penale”. Il Ddl - annuncia - prevederà “un nuovo reato che sanziona chi utilizza la AI per scopi diversi dal consentito, come per esempio quando si vuole fare danno a qualcuno ecc.”. “Vieteremo ai giudici di farsi scrivere le sentenze dai robot” di Errico Novi Il Dubbio, 17 aprile 2024 L’impegno assunto al G7 delle avvocature riunitosi a Roma dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e dal viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto: “È in fase di elaborazione un ddl governativo che fisserà anche i limiti del ricorso all’intelligenza artificiale nella giustizia”. Ad Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio che, oltre a essere un magistrato, ha anche la delega ai Servizi, non sfugge un aspetto forse sottovalutato, sull’uso dell’intelligenza artificiale in ambito “pubblico”: “Dobbiamo guardarci innanzitutto dal rischio di torsioni orwelliane. Il ricorso alla tecnologia, nei regimi totalitari, arriva fino al controllo degli stati emotivi, ma purtroppo le stesse società occidentali non sono immuni da simili tentazioni”. E quindi: non ci si soffermi solo sull’effetto disumanizzante, bisogna stare attenti anche a come il robot può essere strumento di potere. Da qui, il senso forse più originale, e in fondo spiazzante, che proviene dall’intensa giornata alla quale oggi Mantovano ha preso parte con il mondo forense: il G7 delle avvocature, riunitosi a Roma presso la Pontificia università della Santa Croce e dedicato appunto a “Intelligenza artificiale e valori democratici: etica, innovazione tecnologica e tutela dei diritti della persona”, da cui è emerso appunto il pericolo che la tecnologia si trasformi in un’arma impropria non solo e non tanto a detrimento della componente umana, ma innanzitutto come strumento di manipolazione nelle mani dell’autorità pubblica. Da qui un’altra frase pronunciata nel proprio discorso dal sottosegretario alla Presidenza, destinata a lasciare il segno: “Non può esistere che il giudice chieda all’intelligenza artificiale di scrivere la sentenza. E non è uno scenario irrealistico, se pensiamo a quanto sia diffusa la pratica del copia e incolla nella stesura dei provvedimenti”. Detto da una delle figure più autorevoli dell’Esecutivo che, come ricordato, proviene proprio dall’ordine giudiziario, è una considerazione di un certo peso. Ed è destinata a riflettersi nel disegno di legge sul corretto uso della Ia annunciato dallo stesso Mantovano, un testo di matrice governativa che è in preparazione e che “sarà discusso in uno dei prossimi Consigli dei ministri”. Di lì a poco sarà un altro esponente di primo piano del governo, il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto - che in virtù della propria matrice di penalista è anche portatore, nelle istituzioni, delle attese dell’avvocatura -, a leggere alla platea di avvocati italiani e degli altri Paesi del G7 un passaggio della nuova legge, messo a punto in particolare a via Arenula: “Si deve prevedere l’uso dell’Ia nell’attività giudiziaria esclusivamente, e lo sottolineo, per l’organizzazione e la semplificazione del lavoro, per la ricerca dottrinale e giurisprudenziale anche finalizzata all’individuazione di orientamenti interpretati”. Significa, prosegue il numero due della Giustizia, che “in nessun caso si dovrebbe arrivare a sentenze affidate all’intelligenza artificiale anziché scritte da un giudice. E, almeno a mio giudizio, sarà probabilmente necessario prevedere la nullità di una sentenza per la quale si sia accertata una genesi non umana”. Applausi della platea e del presidente del Cnf italiano Francesco Greco, che ha aperto poco prima il summit, dedicato al confronto con le istituzioni ma anche con l’accademia, in particolare grazie alle sessioni che, sempre nella prima parte della giornata, hanno visto avvicendarsi tra gli altri l’ordinario di Diritto privato comparato dell’università Sant’Anna di Pisa Giovanni Comandé e la professoressa di Diritto civile e delle nuove tecnologie del Suor Orsola Benincasa di Napoli Lucilla Gatt. Un approfondimento culminato nelle lectio magistralis della ex guardasigilli Paola Severino e del presidente emerito del Cnf Guido Alpa. Ebbene, l’attuale vertice della massima istituzione forense italiana, Greco appunto, prima che intervenisse Mantovano, aveva chiesto in modo esplicito la “nullità per le sentenze eventualmente prodotte dalla Ia anziché dal giudice”. Il numero uno di via del Governo Vecchio non ha mancato di definire “condivise dai colleghi degli altri grandi Paesi, come è emerso in un primo confronto che abbiamo avuto ieri le nostre stesse preoccupazioni. E non si pensi che in sistemi e realtà come quella britannica ci sia un atteggiamento più leggero: il collega della Law society mi ha spiegato come Oltremanica siano pochissimi gli studi legali dotati di sistemi di intelligenza artificiale. Né nel nostro Paese possiamo pensare che uno strumento simile, certamente rivoluzionario, resti accessibile solo ai grandissimi studi, che come sappiamo sono concentrati quasi esclusivamente al Nord e in particolare a Milano. Anche per questo, come Cnf abbiamo cominciato a valutare la possibilità di dotarci di un nostro sistema di Intelligenza artificiale da mettere a disposizione di tutti gli avvocati italiani. Una rivoluzione straordinaria, certamente destinata a cambiare non solo la nostra professione ma l’intero mondo in cui viviamo, deve per forza di cose essere accessibile a tutti”. Va detto che Greco quasi si schernisce rispetto al tema del giorno, il ddl sull’uso della Ia (non solo nella giustizia ma anche in ambito sanitario, per esempio), provvedimento che, come anticipato da Mantovano e Sisto, sarà varato a breve, e che è il frutto di un approfondito scambio fra il governo e le componenti della società italiana più direttamente coinvolte, a cominciare proprio dagli avvocati. Il presidente del Cnf parla di “piccolo contributo che abbiamo messo a disposizione dell’Esecutivo”. Il sottosegretario alla Presidenza sarà più netto nel parlare di “lavoro prezioso del Cnf”. Ne parlerà anche Sisto, che ricorda le interlocuzioni avute con Greco e come “la vera politica, al suo livello più alto, forse si realizza proprio con le soluzioni individuate, attraverso scambi informali, fra persone in grado di trovare una consonanza”. E per il viceministro della Giustizia è la chiusura di un cerchio, “la dimostrazione di quanto sia insostituibile, anche nei tribunali, la componente umana: la Ia non potrà mai soppiantare la vera giustizia”. Come dirà poco più avanti la professoressa Gatt, “sarebbe indispensabile che ministero, Cnf e Csm definissero insieme, in questo ambito, le prime dieci azioni comuni da mettere in campo”, tra cui anche “un inquadramento deontologico dell’uso legale dell’Ia”. Sisto non trascura la questione e prevede che “i Consigli dell’Ordine vigilino su eventuali abusi di difesa”. Ma è chiaro che la stessa scelta di dedicare il G7 delle avvocature all’impatto della tecnologia sulla tutela della persona rimandi a una posizione di vittima, e non certo di manipolatrice, della professione forense. Il numero due di via Arenula ricorda che “dobbiamo guardarci da tutte le derive capaci di minimizzare la funzione difensiva. Intanto, come sa il presidente Greco, al ministero siamo al lavoro per modificare il codice del processo amministrativo in modo che mai più un avvocato debba veder dichiarato inammissibile il proprio ricorso per il semplice fatto di aver sforato, nella stesura del proprio atto, un limite di lunghezza”. E non è una questione estranea alla deriva tecnologica della giurisdizione, giacché “l’ossessione per la sintesi può anche, per analogia, precipitarci in una giustizia sintetica, cioè di plastica”. Artificiale, appunto. “Dobbiamo considerare che un domani, anzi presto, potranno essere disponibili on line programmi con i quali il cittadino sarà illuso di poter ricevere da una macchina la soluzione a un quesito giuridico: è uno scenario di fronte al quale dobbiamo chiederci qual è il destino a cui va incontro la professione di avvocato. E proprio un interrogativo del genere”, dice Sisto, “spinge me, che non sono mai stato un fanatico dell’avvocato in Costituzione, a dire invece che, mai come in questo momento, quella riforma è necessaria: se avanza l’intelligenza di matrice non umana, bisogna radicare tra i princìpi l’umanità irrinunciabile della funzione difensiva”. È indiscutibile. E mai come in una sfida del genere, l’interesse di uno Stato davvero democratico converge con quello di tutte le avvocature. Divieto di estradizione per fini processuali verso uno Stato in cui è prevista la pena di morte sistemapenale.it, 17 aprile 2024 Cass. Sez. VI, c.c. 11 aprile 2024, Pres. De Amici, est. Capozzi. Rilevante decisione della VI Sezione della Corte di cassazione, la quale è stata investita della questione “se sia consentita la estradizione passiva per fini processuali verso uno stato estero per un reato per il quale, secondo la legge di tale Stato, è prevista la pena di morte”. La vicenda aveva ad oggetto la domanda di estradizione processuale formulata dalla Repubblica islamica del Pakistan per il reato di omicidio volontario. Alla questione è stata data risposta negativa. In attesa del deposito delle motivazioni della sentenza e di ulteriori approfondimenti sul tema, possono leggersi in allegato una precedente pronuncia di legittimità (Cass., Sez. VI., 11 giugno 2019, n. 39443), la quale ha affermato che “in tema di estradizione passiva verso la Cina, qualora il reato per cui è richiesta la consegna sia punito astrattamente con la pena di morte, ai sensi dell’art. 698, comma 2, c.p.p. non può essere disposta la consegna in assenza di una decisione giudiziaria irrevocabile che escluda l’applicazione della pena capitale nel caso concreto, essendo insufficienti generiche assicurazioni dello Stato richiedente”, nonché un fondamentale arresto della Consulta (Corte cost., 27 giugno 1996, n. 223), attraverso cui è stata sancita “l’assolutezza della garanzia costituzionale del divieto della pena di morte incidente sull’esercizio delle potestà attribuite a tutti i soggetti pubblici dell’ordinamento repubblicano, comprese quelle attraverso le quali si realizza la cooperazione internazionale ai fini della mutua assistenza giudiziari”. Cass., Sez. VI., 11 giugno 2019, n. 39443: https://sistemapenale.it/pdf_contenuti/1713339539_39943-2019.pdf Cagliari. “Detenuti malati psichiatrici che bevono urina, isolati e con tagli sulle braccia” di Paolo Rapeanu castedduonline.it, 17 aprile 2024 Il reportage choc nel più grande carcere sardo, tra malati psichiatrici e tossicodipendenti. “Sono troppi e non dovrebbero stare nelle celle”, attacca la garante Irene Testa, “ho parlato con 3 ragazzi salvati dal suicidio, non possono restare rinchiusi”. “I malati psichiatrici e i tossicodipendenti sono troppi e non dovrebbero stare in carcere ma in strutture alternative che in Sardegna non ci sono. Nella mia periodica visita nel carcere di Uta nei giorni scorsi ho trovato l’inferno: un detenuto urinava in cella e beveva la sua stessa urina, riempiva le pareti di escrementi, si affettava le braccia. Un altro ancora viene tenuto in isolamento da mesi, ma è stato sottoposto a Tso, vista la sua condizione di disagio psichiatrico. Addirittura in alcune sezioni si fa fatica ad entrare per via dello stato di agitazione di alcuni detenuti. Persone malate che come più volte ho denunciato non dovrebbero stare lì”. Queste le dichiarazioni di Irene Testa, garante regionale delle persone private della libertà della Sardegna. “È chiaro che ogni giorno assistiamo alle denunce della polizia penitenziaria che si ritrova a spegnere incendi a salvare vite dai numerosissimi tentativi di suicidio. Lo scorso anno, solo a Uta, sono stati 46, per un totale di 96 in tutta l’isola. Ho parlato con tre ragazzi che sono stati salvati in extremis, tutti avevano un passato di tossicodipendenza alle spalle, ragazzi fragili che non possono essere trattati all’interno di una cella chiusa. Ragazzi incompatibili col regime carcerario”. Per queste ragioni domani, giovedì 18 aprile, insieme ad altri garanti, alla Camera penale, all’associazione socialismo diritti e riforme, a Don Ettore Cannavera, Testa dalle 11 parteciperà a un flash mob davanti al tribunale. “Sono necessarie misure straordinarie per fermare questo stillicidio di vite umane. Dobbiamo garantire la dignità e i diritti fondamentali”. Bolzano. “In via Dante due docce per 50 reclusi, sottovalutata la scabbia” di Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 17 aprile 2024 La visita degli avvocati dell’Aiga. Gnecchi: “Scabbia sottovalutata, ora si applicherà un protocollo. I detenuti sono preoccupati per la scabbia, e le condizioni delle docce sono indecenti”. Le note positive: da novembre c’è un nuovo direttore (“erano 25 anni che non veniva bandito il concorso”), Giovangiuseppe Monti, e il rapporto con prefetto e procuratore è ottimo (con quest’ultimo “che si è attivato in prima persona per accelerare sulla realizzazione delle celle di sicurezza”). Quelle negative (che si aggiungono a quelle ben note su sovraffollamento, mancanza di personale e fatiscenza della struttura): il “completo disinteresse” da parte di sindaco e presidente della Provincia, il fatto che i casi di scabbia siano stati “sottovalutati dal presidio sanitario interno”, e le condizioni “indecenti” delle docce. È il quadro che traccia Andrea Gnecchi, presidente della sezione di Bolzano dell’Associazione italiana giovani avvocati (Aiga), dopo il sopralluogo di ieri nel carcere di via Dante. Con lui il resto del direttivo, Filippo Augusto, Carmen Ianni e Michela Salvo. Dal punto di vista strutturale, di novità ce ne sono poche. “La struttura è quello che è - spiega -, i fondi a disposizione sono limitati: non si possono pretendere miracoli. C’è in ballo il rifacimento del tetto e della facciata: Un investimento da 1-1,5 milioni che, di fatto, non cambierà nulla dell’interno. Temo che il progetto per il nuovo carcere si allontani sempre più”. Carcere che resta sovraffollato (“attualmente i detenuti sono 108 su 88 posti”), anche se i numeri sono scesi (“solitamente ce n’erano 120”) e con poco personale. “C’è una grave carenza di organico - afferma il presidente Aiga -, sia di amministrativi che di guardie. Su carta, risulta in servizio anche la squadra sportiva che, ovviamente, non c’è”. Si confida in un miglioramento con l’attivazione delle nuove celle di sicurezza, come previsto dalla normativa, anche se per ora solo presso i carabinieri. Quello di cui si è più parlato nelle ultime settimane, però, è il caso della scabbia: cinque i contagi accertati tra i detenuti (uno dei quali è finito in ospedale), più uno tra gli agenti della penitenziaria. “C’è stato un incontro con l’Ufficio igiene per capire cosa fare - riferisce Gnecchi -: è stato elaborato un protocollo che prevede un trattamento di prevenzione su detenuti e personale e la sanificazione di materassi e lenzuola, il principale veicolo di trasmissione. Verrà messo in pratica adesso”. Sul tema, i legali dell’Aiga hanno sondato la preoccupazione dei detenuti e raccolto le lamentele sulle condizioni igieniche: “Le docce sono indecenti. Dovrebbe essercene una per cella, e invece sono comuni in ogni sezione: di fatto, ogni 50 detenuti ce ne sono due. Per giunta, mal funzionanti”. Porto Azzurro (Li). Diamo voce a chi non può farsi ascoltare di Raimonda Lobina* elbareport.it, 17 aprile 2024 La Garante dei diritti delle persona private della libertà personale del Comune di Porto Azzurro - Casa di Reclusione “Pasquale de Santis” aderisce all’iniziativa nazionale della Conferenza nazionale dei Garanti Territoriali delle persone private della libertà e fa suo l’appello, redatto in condivisone con Garanti Territoriali e volto a denunciare la grave situazione in cui versano gli istituti penitenziari italiani ed in particolare l’incessante incremento dei suicidi a partire dall’inizio di questo anno. Se è vero che nella Casa di Reclusione di Porto Azzurro finora non si sono registrati casi drammatici (e di questo bisogna dare atto alla professionalità dei suoi operatori e, in primis, della P.P., nonché dei volontari che operano in carcere), è anche vero che la situazione è comunque critica e servono interventi urgenti da parte del Governo. Bisogna dunque lavorare, ciascuno nel rispetto del suo ruolo, perché si risolvano alla radice alcune criticità che potrebbero generare situazioni irreversibili. Penso, per quel che riguarda Porto Azzurro, in primis ai percorsi trattamentali e soprattutto al lavoro (proprio martedì 16 aprile 2024 si è tenuto un importante convegno al proposito), ma anche all’assistenza sanitaria dove molto si è fatto, ma molto bisogna ancora fare. È urgente però che la comunità tutta sia più attenta e consapevole di quanto accade all’interno della Fortezza di San Giacomo e se da un lato sono orgogliosa di operare all’interno di una realtà ancora immune da certe tragedie, dall’altra sento il profondo dovere morale e civile di persistere nel mio impegno e denunciare tutto quanto di negativo avviene nelle carceri, sperando di poter continuare a contare sulla condivisione e sulla collaborazione anche della comunità locale. *Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Casa di Reclusione “Pasquale de Santis” - Porto Azzurro Modena. Festival della giustizia penale: focus su fine vita e ingiusta detenzione di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 17 aprile 2024 Torna l’evento, in programma dal 16 al 19 maggio, con appuntamenti in città, Carpi, Sassuolo e Pavullo. Interverranno politici, giuristi e anche condannati, tra cui Ricky Jackson, in cella 39 anni da innocente. Fine vita, ingiusta detenzione e un approfondimento sulla maternità surrogata. Sono questi i macro temi che saranno via via affrontati nell’ambito dell’attesa e quinta edizione del Festival della Giustizia penale, in programma dal 16 al 19 maggio a Modena, Carpi, Sassuolo e Pavullo. La nuova edizione, presentata ieri mattina nel dipartimento di Giurisprudenza, che la ospita sin dal primo anno è infatti incentrata su: ‘La vita e la morte nella giustizia penalè. Tantissimi e illustri gli ospiti: politici, professori, giornalisti, ministri, esponenti di associazioni nazionali ma anche Ricky Jackson, afroamericano di 57 anni che ha trascorso 39 lunghi anni dietro le sbarre, da innocente. L’uomo è stato scagionato dopo aver trascorso la sua vita in carcere, accusato di un omicidio che in realtà non aveva commesso. “Ci saranno ospiti nazionali e internazionali, come è nella storia del festival - spiega il professor Luca Luparia, direttore scientifico del festival - e ci saranno poi spettacoli teatrali e mostre. Avremo anche tantissime persone che hanno subito processi penali: il tema di quest’anno non è solo il fine vita ma anche l’impatto della giustizia penale sulla vita delle persone”. “Per noi è un onore, un prestigio ospitare il festival e un’occasione importantissima di approfondimento, per i nostri studenti, che va ben oltre i confini della vita accademica”, ha commentato il direttore di dipartimento Carmelo Elio Tavilla. Spero gli studenti partecipino: oggi lavorare con gli studenti è difficile, vanno incentivati in mille modi ma sono temi ai quali loro si devono abituare a confrontarsi e non solo sui libri”. “Saranno presenti nomi molto importanti - commenta poi l’avvocato Guido Sola presidente del Festival -. Dovrebbe essere con noi anche il ministro della giustizia Carlo Nordio ma ci saranno anche tanti imprenditori, giuristi, esponenti delle professioni che si confronteranno in questa quattro giorni su temi di grandissima attualità. Obiettivo del festival è sempre quello che ci ha portato a realizzarlo: ovvero parlare di garantismo, di cui non si parla mai”. L’avvocato Marco Pellegrini, in rappresentanza del consiglio dell’ordine degli avvocati, ha sottolineato che sarà organizzato un evento anche sulla maternità surrogata. “Ci saranno Giuliano Amato, già presidente della Corte Costituzionale ma anche il primo cittadino che ha iscritto un neonato con maternità surrogata”. Tra gli ospiti Cristina Cattaneo, medico legale che si è occupata di importanti delitti ma anche il politico e giurista Giuliano Amato, Roberto Formigoni, già presidente della Regione Lombardia, la senatrice Giulia Bongiorno e la giornalista Daria Bignardi che recentemente ha scritto un libro sul carcere. Attesi poi Beniamino Zuncheddu, vittima di errore giudiziario, Antonietta Fiorillo, già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, Luigi Foffani, ordinario di diritto penale nell’Università di Modena e Reggio Emilia ma anche Irma Conti, avvocato e Garante nazionale dei detenuti. Bologna. La Giustizia riparativa: una settimana di riflessioni alla Dozza di Giulio Lolli bandieragialla.it, 17 aprile 2024 Con l’edizione 2024 della Settimana della Giustizia riparativa, presentata dall’assessore Rizzo Nervo e dal provveditore Enza Rando, anche quest’anno la direttrice del carcere della Dozza, Rosa Alba Casella, si è spesa in maniera mirabile, con il prezioso aiuto della funzionaria giuridico-pedagogica Krizia Stella e degli operatori del carcere, per cercare di rendere comprensibile ai detenuti la rivoluzionaria idea della giustizia riparativa. Notevole il livello degli ospiti, tra i quali hanno spiccato gli interventi del cardinale Matteo Maria Zuppi e dell’ex P.M. Gherardo Colombo. L’unicità dell’esperienza come mediatore nei teatri di guerra di mons. Zuppi ha permesso di mostrare ai partecipanti, con due esempi di livello internazionale, la validità della mediazione e lo spirito con cui deve essere intrapresa. Infatti è stato lo spirito bellicista di Vladimir Putin, che non ha voluto incontrarlo, a fare fallire il faticoso tentativo, voluto dalla Santa Sede, di portare la pace in Ucraina; la mediazione ha comunque permesso il ritorno alle loro famiglie di centinaia di bambini ucraini rapiti dai soldati russi. Si concluse invece con la pace la mediazione che il cardinale Zuppi condusse nel 1992 tra il governo del Mozambico e il partito di Resistenza Nazionale, i cui rappresentanti ebbero lo spirito di incontrarsi dopo una lunga guerra civile: in questo caso la mediazione ha portato una vera pace, a cui è seguita la nascita di una democrazia. Altrettanto incisivo è stato l’intervento dell’ex P.M. Gherardo Colombo, che ha ricordato di aver lasciato il suo ruolo proprio dopo essersi reso conto dell’inutilità di mandare persone nelle carceri italiane, dove la finalità di recupero sociale viene inesorabilmente disattesa. Colombo è sempre stato un sostenitore della giustizia riparativa, proprio in quanto può offrire un nuovo paradigma per la giustizia, che mette al centro la persona e non il burocratico processo penale, incapace di rispondere alle esigenze delle vittime e della società causate dalla commissione di un reato. A questo riguardo sono stati preziosi gli interventi dell’avvocato Claudia Landi, che ha chiarito gli aspetti pratici entro i quali la giustizia riparativa può trovare applicazione, e della prof.ssa Susanna Vezzadini. La docente di Scienze Politiche e Sociali ci ha ricordato che la giustizia riparativa non disconosce la responsabilità individuale passata, che però si può trasformare nella responsabilità di mantenere nel futuro l’impegno della fiducia, conquistata durante la mediazione, tra autore e vittima del reato e tra autore e società. Imparare l’empatia attraverso l’oggetto emozionale è quanto ci ha fatto provare la prof.ssa Maria Rosa Mondini del Centro Italiano di mediazione e formazione della mediazione dell’Emilia-Romagna, che ci ha mostrato come un quadro, una poesia o una riflessione possano farci entrare in contatto con noi stessi e con gli altri. Straordinarie anche le testimonianze di Matteo Luzza e Manlio Milani che, insieme al potentissimo film di Vito Palmieri “La seconda vita”, hanno concretizzato in diverse forme il concetto di giustizia riparativa. Il successo di questa iniziativa è stato confermato dal numero dei detenuti che hanno abbracciato convintamente questo percorso, i quali hanno voluto sottolineare la speranza che la proposta di cambiamento culturale della giustizia riparativa possa illuminare anche la direzione del carcere. Infatti purtroppo anche negli ultimi tempi troppe telefonate sono state negate ai familiari, anch’essi vittime con le quali riparare e ricucire i rapporti, troppo disinteresse è stato dimostrato nei confronti delle condizioni detentive e troppe legittime richieste di benefici hanno ricevuto parere negativo, anche nei confronti di persone che hanno dimostrato nei fatti una presa di coscienza delle proprie responsabilità e un profondo cambiamento. Decisioni che, unite alle carenze strutturali del sistema carcerario italiano, portano al fallimentare dato di una recidiva superiore al 70% e alla tragedia del fenomeno suicidario fra i detenuti, che purtroppo anche qui a Bologna sta proseguendo con inesorabile ed atroce persistenza. Tuttavia, proprio per volgere lo sguardo al futuro, i detenuti si augurano che i valori della giustizia riparativa - l’ascolto, la comprensione e l’impegno verso il prossimo, il rispetto derivante dal guardare con attenzione chi ha subito e chi ha commesso, il superamento del sentimento della vendetta e la mediazione dei conflitti attraverso il dialogo, la riflessione e la cultura - possano essere estesi anche all’interno delle nostre carceri, Bologna in primis, nei processi penali, nella politica e nell’intera nostra società. Lecco. Sistema carcerario, per l’ex pm Colombo “serve un cambiamento” di Lorenzo Adorni casateonline.it, 17 aprile 2024 “Mi sono dimesso con 14 anni di anticipo dalla magistratura e la ragione preponderante è legata al carcere: più vado avanti, più penso che sia un assurdo”. Un’affermazione forte, allo stesso tempo una riflessione profonda, con la quale l’ex magistrato Gherardo Colombo ha aperto il suo intervento presso i locali dell’oratorio di Campofiorenzo durante un incontro organizzato lunedì 15 aprile da Romano Limonta e dall’associazione Sulle Regole. Una presa di posizione, quella dell’ex pubblico ministero, non certo nuova. Nel 2007, anno in cui lasciò il Consiglio Superiore della Magistratura e ogni incarico nel mondo della giustizia, spiegò come non sopportasse più l’idea di mandare persone in carcere. Perché le carceri italiane - secondo Colombo - hanno perso ogni funzione rieducativa. Aspetto che ha premesso fin dalle prime fasi nell’incontro di Casatenovo. Logica conseguenza di questa presa d’atto è stata la scelta dell’ex magistrato di dedicarsi proprio all’educazione e alla rieducazione. Da un lato incontrando i giovani nelle scuole, parlando loro di legalità. Dall’altro lato incontrando i detenuti nelle carceri italiane. “Il carcere - ha spiegato - costituisce la legittimazione a far male alle persone, un aspetto che deve fare riflettere sull’indole delle persone stesse”. Venuta meno la funzione rieducativa, il carcere diviene una semplice manifestazione della capacità repressiva della società e dello stato, riassumibile dalla formula: “Ti faccio vedere che la conseguenza di far male è far male”. Uno schema nel quale, “a far male” nei confronti di chi ha commesso dei reati, è il sistema carcerario italiano. “L’imposizione di sofferenza” come risposta a chi ha commesso un crimine. La dimensione repressiva che prende il posto del processo rieducativo del detenuto. Uno schema da rompere, un modello da superare. Dato che non esiste alternativa alla funzione rieducativa di chi delinque, nell’ottica di reinserimento nella società come cittadino libero, allora è necessario superare l’attuale condizione presente nelle carceri italiane. Testimonianza ultima di una situazione critica è l’altissimo numero di suicidi che avvengono negli istituti penitenziari italiani. Un incontro rivelatosi particolarmente interessante perché si è instaurato un dialogo continuo fra i presenti e l’ex pubblico ministero. Per promuovere la funzione rieducativa, Colombo ha preso ad esempio quanto avviene nella “nave”, ovvero al quarto piano del terzo raggio della casa circondariale di San Vittore. Luogo nel quale i detenuti in attesa di giudizio, al termine di un percorso di impegno personale, vivono in uno spazio carcerario più umano. Rimanendo impegnati tutto il giorno in attività, portando avanti una condizione di vita quanto più simile a quella che condurrebbero nella società esterna al carcere. Perché - come spiega Colombo - se l’obbiettivo del carcere, come prevedono le leggi italiane, deve essere la rieducazione del detenuto per il suo ritorno in società, ciò che il detenuto deve sperimentare in carcere, durante il suo percorso di riabilitazione, deve essere “quanto più possibile simile alla società esterna” nella quale tornerà a vivere terminata la detenzione. La “nave” di San Vittore resta un caso a parte nel sistema carcerario. Un ambiente la cui organizzazione ricade sotto la responsabilità dell’azienda di tutela della salute territoriale e non del sistema penitenziario. Come modello di carcere alternativo e innovativo, l’ex magistrato ha citato il caso dei penitenziari scandinavi. Ad Oslo, in Norvegia, i detenuti vivono nei corridoi delle carceri, attrezzati come se fossero abitazioni. Un forte cambiamento quello proposto da Colombo, che ha suscitato dubbi e perplessità fra i presenti. Non sono mancati interventi critici da parte del pubblico. “Non credo nell’indole violenta delle persone, ma credo che esistano delle persone con delle problematiche che devono essere curate” ha risposto l’ospite a chi ha avanzato la critica sulla cattiveria e violenza innata che sarebbe presente in alcuni soggetti, i quali, per conseguenza, sarebbero da escludere dalla società. Un percorso di cura e riabilitazione mirato al singolo rappresenta uno dei fattori principali del processo di riabilitazione del detenuto per Colombo. Dati alla mano, un terzo dei detenuti presenti nelle carceri italiane è tossicodipendente. Se non curato, tornerà a commettere gli stessi reati e, forse, tornerà di nuovo dietro le sbarre. Servirebbero percorsi di cura che oggi raramente vengono messi in atto. “Pensate che le risorse spese per il settore carcerario sono in larghissima parte destinate al mantenimento delle strutture agli stipendi del personale, a favore dei detenuti non va praticamente nulla” ha precisato. Un secondo elemento fondamentale è la necessità di “lavorare sulle denunce” come ha ricordato l’ex pm. “Dopo le denunce devono seguire delle verifiche, prima che le persone finiscano per commettere un reato”. La casistica che Colombo ha portato all’attenzione è quella dei femminicidi. Una tipologia di reato, che molto spesso, è preceduto da una o più denunce da parte delle donne che divengono poi vittime. Le verifiche condotte a seguito di una denuncia, secondo l’ex pm, dovrebbero anche portare, se necessario, al “preventivo” allontanamento delle persone violente. L’attenzione è anche andata ad alcune percezioni distorte che le persone anno rispetto al fenomeno della criminalità. All’atto pratico, in Italia alcuni reati come gli omicidi sono ai livelli minimi da oltre quarant’anni a questa parte e fra i più bassi d’Europa. “Il carcere rappresenta oggi una esasperazione della cultura che sta fuori dal carcere, nella società esterna. L’idea che si stia insieme attraverso rapporti di potere e non di comprensione reciproca” ha aggiunto Colombo nelle fasi conclusive dell’incontro. Unitamente a una preoccupazione. Quella del possibile aumento dei fenomeni di criminalità in seguito all’emergenza della pandemia, alla frattura sociale, e all’ “incattivimento” che si è generato. La Spezia. Detenuti e studenti attori al Civico. Speranza e riscatto dietro il muro di Alma Martina Poggi La Nazione, 17 aprile 2024 “Dirimpetto. La rete nell’abisso” spettacolo teatrale realizzato col contributo della Fondazione Carispezia. Accorciare le distanze. Scavalcare e abbattere finalmente quel muro, cortina ideale - e forse, per questo, ancor più invalicabile - per scoprirvi dietro tutta la bellezza di un’umanità che, mettendosi in gioco, ha ritrovato speranza e con essa il riscatto sociale. “Dirimpetto. La rete nell’abisso” è lo spettacolo teatrale che si terrà giovedì 2 maggio, alle ore 21, al teatro Civico della Spezia. Ideato e diretto dall’impresa culturale e creativa spezzina “Scarti” - Centro di produzione teatrale d’innovazione, è l’evento finale della sesta edizione del progetto “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” che, approdando per la prima volta nel principale teatro della provincia, grazie al patrocinio del Comune della Spezia; vedrà sulla scena detenuti della casa circondariale della Spezia e studenti spezzini (nella foto). L’iniziativa, di carattere nazionale, è promossa da Acri e sostenuta da 11 Fondazioni, tra cui Fondazione Carispezia. “Siamo orgogliosi - dice Andrea Corradino, presidente di Fondazione Carispezia - di essere tra i promotori di questo progetto fin dalla sua prima edizione e ringrazio la direttrice della Casa circondariale della Spezia, Maria Cristina Biggi, che da subito, con entusiasmo, ha contribuito in maniera determinante affinché questo progetto diventasse importante”. Nato dall’esempio, allora rivoluzionario, della compagnia della Fortezza nel 1988 presso il carcere di Volterra “Per Aspera ad Astra” sta realizzando in quindici carceri italiane percorsi di formazione teatrale; che riguardano non solo attori e drammaturghi ma anche altre figure professionali come scenografi, costumisti, truccatori, fonici e addetti alle luci. “Queste esperienze - spiega Corradino - servono ad abbattere il muro che esiste tra carcere e società un muro talvolta invalicabile fatto di pregiudizio”. Ma l’importanza dell’esperienza teatrale è proprio quella della costruzione di obiettivi. “Fondamentale - sottolinea Biggi - è costruire speranze attraverso il raggiungimento di traguardi possibili, per questo mi auguro di riuscire, insieme a tutti i miei collaboratori che ringrazio, a stabilizzare questo tipo di laboratorio che mostra finalmente il lato umano di chi è in carcere”. Uno spettacolo che ha tutte le caratteristiche di una produzione professionale a tutti i livelli: “Sta forse proprio nel prodotto artistico finale - dice Andrea Cerri, presidente di “Scarti”- l’innovazione di questa iniziativa è l’averla impostata come qualcosa di molto seria anche dal punto di vista artistico per arrivare ad un spettacolo conclusivo di qualità con tutte le caratteristiche di una produzione professionale”. Se è bello e non scontato vedere il sindaco, il presidente della fondazione e il direttore del carcere appoggiare insieme un progetto che ha come fine ultimo il reinserimento di individui nella società, come fa notare Enrico Casale, regista e direttore artistico “Per Aspera ad Astra” altrettanto bello e non scontato è vedere carcerati e studenti condividere sul palco questa avventura. E le istituzioni sono chiamate a fare squadra come conferma il sindaco Pierluigi Peracchini: “La vera sfida è la continuità, dobbiamo fare di più e insieme. Per questo rinnovo la disponibilità dell’amministrazione per tutte le iniziative volte a dare prospettiva di reinserimento sociale e professionale”. “Il progetto di valore artistico e partecipato - dice Donatella Pieri, presidente della commissione arte, attività e beni culturali di Acri - sfida i pregiudizi e restituisce il diritto alla bellezza anche a coloro che si trovano in carcere”. Venezia. “Con i miei occhi”, le detenute guidano i visitatori tra le opere scelte dal Vaticano di Veronica Tuzii Corriere del Veneto, 17 aprile 2024 “Siamo con voi nella notte”. È la scritta che campeggia su un muro del cortile destinato all’ora d’aria della Casa di reclusione femminile della Giudecca. Un’opera che rappresenta un invito a liberarsi dai confini simbolici e vivere liberi, anche dai pregiudizi. A firmarla il collettivo Claire Fontaine, lo stesso che ha dato il titolo alla 60. Biennale d’Arte, “Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere”. Il Dicastero per la Cultura e l’Educazione vi partecipa dedicando il Padiglione della Santa Sede (partner del progetto il ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) al tema dei diritti umani e alla figura degli ultimi, perno centrale del Pontificato di Papa Francesco, che il prossimo 28 aprile visiterà il Padiglione, proprio all’interno del carcere veneziano. Il cardinale José Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede e Commissario del Padiglione, ha affidato la curatela della mostra “Con i miei occhi” a Chiara Parisi e Bruno Racine, che hanno chiamato otto artisti. E se il Papa arriverà in elicottero il 28 alle 8 (prima tappa visita che lo porterà poi alla Chiesa della Salute e in Piazza San Marco), le persone che vogliono visitare dal 20 aprile al 24 novembre la mostra dovranno prenotarsi sul sito Coopculture.it. A condurre le visite guidate sono detenute-conferenziere. Il visitatore trova sulla Fondamenta “Father”, la grande opera di Maurizio Cattelan sulla facciata della Cappella: due enormi piedi che hanno fatto molta strada, rimando all’iconografia del “Cristo morto” di Mantegna e della crocifissione dipinta da Caravaggio. La visita inizia dopo aver consegnato documento d’identità, borse e cellulare. “Il percorso senza telefoni e documenti permette alle detenute di guidare i visitatori “con i loro occhi”“, rimarcano i curatori. Noi siamo stati accolti da Paola e Manuela. La prima tappa è nella caffetteria tappezzata dalle opere dell’icona della pop art Corita Kent (unica artista non vivente), suora artista, attivista e pacifista. Sui muri della calle Cavana sfilano placche di lava smaltata create da Simone Fattal, un percorso di riscoperta dell’io attraverso versi di Shakespeare, Etel Adnan e delle detenute della Casa. In fondo un’altra opera di Claire Fontaine, un occhio sbarrato, metafora della gente che non vuol vedere. Racconta le 12 ore prima dell’uscita dal carcere un cortometraggio di 16 minuti di Marco Perego con protagonista Zoe Saldana girato nel cuore della Casa di reclusione e reso speciale dall’intensa partecipazione delle detenute in veste di attrici. Si prosegue con la galleria di ritratti degli affetti realizzata da Claire Tabouret partendo da fotografie consegnategli dalle detenute. La nostra guida si commuove: “questa è mia nonna e ci sono anche io, a 11 mesi”. L’approdo è nella chiesa sconsacrata dedicata a Santa Maria Maddalena degli Angeli con l’installazione di Sonia Gomes composta da sculture sospese, dal titolo “Sinfonia”. Manca un’artista, la coreografa e danzatrice, Bintou Dembélé, che in settembre proporrà una coreografia composta per le detenute e con la loro partecipazione. Uscendo dal percorso, “Sapremo ancora cos’è “vedere con i nostri occhi”?”, chiede il Cardinal José Tolentino de Mendonça. Migranti. A Cutro fu strage di Stato di Piero Sansonetti L’Unità, 17 aprile 2024 Spunta una mail segreta. Devono rispondere i politici che sono responsabili di quella disposizione, e anche i ministri dell’epoca della strage, che non si accorsero che la Guardia Costiera era bloccata da una direttiva demenziale. O che se ne accorsero e fecero finta che le cose andavano bene così. C’è una mail, scovata dalla redazione de “Il Cavallo e La Torre” - la trasmissione di Marco Damilano sulla Rai - che impone alla Guardia Costiera di limitare al minimo gli interventi di salvataggio in mare dei naufraghi. In questo ordine di servizio, che viola il diritto internazionali e anche il codice penale italiano, si stabilisce che ad intervenire nelle situazioni critiche deve essere la Guardia di Finanza, che ha compiti di polizia, di respingimento e di cattura, e che non ha i mezzi per salvataggi impegnativi. È stato sulla base di questa mail, firmata da un capitano di vascello - il quale spiega di aver preparato il documento sulla base di indicazioni politiche - che si è impedito alla guardia costiera di intervenire, il 26 febbraio dell’anno scorso, in occasione del naufragio di Cutro. La Guardia costiera avrebbe potuto agevolmente impedire il naufragio. Ne aveva i mezzi e le capacità. Non le fu permesso di uscire in mare. Uscirono due motovedette della Finanza che fecero quasi subito rientro in porto perché il mare era troppo forte. Cioè nella consapevolezza che la barca dei profughi che era stata segnalata in pericolo, era ancora di più in pericolo perché il mare si era alzato. Il risultato di quella mail - che fino all’altro giorno è restata segreta - sono stati più di cento morti. Moltissimi bambini. Uno dei più gravi disastri in mare degli ultimi trent’anni. Chi e perché ha fatto partire quella mail? Perché per più di un anno non si è saputo niente? La Procura che sta indagando sul disastro di Cutro sapeva di questa mail? La direttiva è stata emanata nel giugno del 2022. Ministro Giovannini, tecnico, indipendente, vicino al Pd. Il ministro sapeva? Ha dato lui indicazioni? O, se non sapeva, come mai non sapeva? Come funzionano le cose al ministero dei trasporti? E il ministro (Lamorgese) dell’Interno era al corrente? Oppure nessun ministro conosceva questa follia? E nessun viceministro e nessun sottosegretario? Se nessuno era a conoscenza, e dunque nel nostro paese un ufficiale di marina può decidere che si sospendano i soccorsi in mare, la cosa è molto preoccupante. Vuol dire che c’è una falla gravissima nella struttura. E vuol dire che i ministri non hanno grandi doti amministrative. In ogni caso la strage c’è stata. Il colpevole della strage, ora senza più nessun dubbio, è lo stato italiano. “Il riformista” (del quale all’epoca era direttore) titolò: “Strage di Stato” (come La Stampa diretta da Giannini). La cosa creò molte polemiche. Ci attaccarono aspramente. Soprattutto da destra. Avevamo ragione noi: quello era il titolo giusto. Non ci fa piacere. Però ora bisogna che qualcuno risponda. È vero, non erano” italiani” i morti. Ma erano quasi dieci volte di più delle vittime di piazza Fontana. Non chiediamo retorica, no, non serve. Però un briciolo di rigore. Devono rispondere i politici che sono responsabili di quella disposizione, e anche i ministri dell’epoca della strage, che non si accorsero che la Guardia Costiera era bloccata da una direttiva demenziale. O che se ne accorsero e fecero finta che le cose andavano bene così. Deve occuparsene il Parlamento. Deve rispondere il governo. Migranti. L’accusa di essere uno “scafista” e 8 anni in carcere: ora Diouf punta alla revisione del processo di Enrica Riera Il Domani, 17 aprile 2024 Anche la sentenza che lo condannò nel 2015 riconosceva la sua estraneità all’organizzazione del viaggio. Una storia che ricorda la vicenda del protagonista del film “Io capitano” di Garrone. L’iniziativa legale di Baobab Experience si collega alla campagna per chiedere l’abrogazione dell’articolo 12 del Testo unico sull’Immigrazione. C’è uno spiraglio di luce nella storia di Alaji Diouf, il 34enne senegalese che ha scontato la sua pena dopo la condanna in via definitiva a otto anni di reclusione per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in forma pluriaggravata. Nel 2015 Diouf venne indicato, da un migrante che viaggiava su un gommone diverso dal suo, come scafista dell’imbarcazione su cui si trovavano oltre cento persone e in cui morirono per asfissia sette donne e un uomo. La vicenda si concluse, appunto, con la sentenza di condanna della Corte d’appello di Taranto, nonostante “l’imputato - si legge nelle motivazioni - non è l’organizzatore del viaggio (…) bensì un disgraziato che ha accettato tale compito per fuggire dalla condizione in cui versava in patria. Dunque scafista improvvisato”. Scafista per sbaglio, secondo la sentenza che però spedì comunque Alaji Diouf direttamente in carcere. Il giovane, oggi in libertà, giura di non aver mai toccato quel timone. Motivo per cui l’avvocato Francesco Romeo, insieme all’associazione Baobab Experience, sta cercando di far riaprire il caso e chiedere la revisione del processo davanti alla Corte d’appello di Potenza. “Siamo alla ricerca di nuovi elementi di prova, non valutati nei processi - spiega il legale a Domani -. Abbiamo chiesto la lista degli altri passeggeri che si trovavano sul gommone su cui viaggiava Alaji alla questura e alla prefettura di Taranto. A luglio 2023 - continua Romeo - la prefettura ci ha risposto che ci avrebbe fornito la lista, ma solo dopo aver concordato le modalità di consegna con il Garante della privacy. Dopo un lungo silenzio e una nuova richiesta, a gennaio 2024 sempre la prefettura di Taranto ci ha tuttavia comunicato di non trovare più questi elenchi”. Il “no” non ha fermato l’avvocato, l’associazione a sostegno degli ultimi e Alaji Diouf nella ricerca della verità. Dopo un post sui social, in cui veniva raccontata tutta la vicenda del giovane migrante, partito quasi dieci anni fa dalle coste libiche per trovare un futuro in Italia, un passo avanti, come si diceva, è stato compiuto. “Ci ha scritto - dice ancora Francesco Romeo - una persona, a sua volta in contatto con un migrante a bordo del gommone di Alaji. Cercheremo così di risalire a tutti gli altri passeggeri. E poi stiamo studiando - conclude l’avvocato - i tempi di viaggio, le posizioni dei gommoni, tra loro tutti distanti in termini di chilometri, le condizioni del mare e meteo all’arrivo dei barconi sulle coste italiane”. “Ho conosciuto Alaji Diouf oltre un anno fa e guardandolo negli occhi ho visto tutto il fallimento dello Stato”, spiega sempre a questo giornale la senatrice Ilaria Cucchi che pure si batte per la riapertura del caso. “La storia di questo giovane è simile per alcuni aspetti a quella raccontata da Matteo Garrone in Io Capitano, che tuttavia non prende in considerazione ciò che avviene dopo lo sbarco: un migrante innocente ogni 300 persone sbarcate viene incarcerato”. Anche la sottosegretaria leghista alla Cultura Lucia Borgonzoni aveva incrociato le dita per la partecipazione di “Io Capitano” agli Oscar 2024, ma in realtà secondo Cucchi “quello che questo Paese dà a chi arriva è il peggio di sé”. Capitani coraggiosi - Da qui la campagna di Baobab Experience, “Capitani Coraggiosi”, che mira, oltre alla revisione del processo per Alaji - sarebbe la prima volta in Italia per un migrante -, a chiedere l’abrogazione dell’articolo 12 del Testo unico sull’Immigrazione, a firma Turco-Napolitano, nonché datato 1998. “La nostra è una vera e propria battaglia - spiega Alice Basiglini, vicepresidente di Baobab -. Non è possibile che chi, per esempio, semplicemente sposta una tanica di benzina da una parte all’altra dell’imbarcazione, tiene in mano una bussola o salva vite umane rischia fino a trent’anni di reclusione: questa norma è un abominio giuridico”. A Casetta Rossa, nel cuore di Roma, martedì 16 aprile, a raccontare la sua storia è stato proprio Alaji Diouf. “In carcere, senza parlare o scrivere in italiano, mi sono sentito morto. Al buio, nella mia cella, ho pensato a mia madre, con cui sono riuscito a mettermi in contatto solo dopo i primi due anni di reclusione; ho pensato anche a tanti modi per poter uscire da quella situazione, ma non ne ho trovati. L’unico modo era farla finita. Mi ha salvato il mio compagno di carcere”. Oggi Alaji Diouf ha una stanza tutta per sé e lavora a Roma come giardiniere. “Sono libero - dice a Domani - ma lo sarò di più quando riuscirò a fare luce veramente sulla mia storia, su quello che è successo. Solo allora l’Italia potrà davvero essere - conclude - la mia casa lontano da casa”. Migranti. Per la quarta volta Meloni vola in Tunisia da Saied di Marina Della Croce Il Manifesto, 17 aprile 2024 Premier preoccupata per la recente impennata di arrivi dal paese nordafricano. Sarà una missione veloce, quasi una toccata e fuga prima di volare nel pomeriggio a Bruxelles per un consiglio Ue straordinario dedicato alla guerra in Ucraina e alla crisi in Medio oriente. Ma per Giorgia Meloni non per questo il viaggio che oggi la porterà per la quarta volta in dieci mesi in Tunisia, dove è attesa da Kais Saied, è meno importante. Con il presidente tunisino la premier parlerà di come rilanciare il piano Mattei (con lei ci saranno anche i ministri dell’Interno Matteo Piantedosi e dell’Università Anna Maria Bernini), ma soprattutto di flussi migratori, vero motivo che la spinge sull’altra sponda del Mediterraneo. Gli ultimi numeri forniti dal Viminale e relativi agli sbarchi sono infatti tali da preoccupare non poco palazzo Chigi, soprattutto quando mancano ormai poche settimane alle elezioni europee. Se da un lato si registra infatti una generale flessione degli arrivi avvenuti tra l’inizio dell’anno e il 15 aprile, tale da far segnare una diminuzione del 51,97% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (16.090 contro i 33.499 del 2023) e con la Libia come principale punto di imbarco, nelle ultime quattro settimane al ministero dell’Interno hanno registrato un’impennata degli arrivi che sono saliti a 9.539, pari al 60% del totale, e le coste tunisine sono state quelle dalle quali è partito alla volta dell’Europa il maggior numero di barconi. Quanto basta al governo per passare dei canti di vittoria e dalla rivendicazione del Memorandum siglato a luglio 2023 con Saied come un successo, alla consapevolezza che occorreva correre al più presto ai ripari. Da qui la decisione di Meloni di intraprendere una nuova missione in Tunisia, preoccupata dalla possibilità che le condizioni del mare favorite dalla bella stagione spingano le migliaia di migranti subsahariani, moltissimi dei quali sarebbero accampati nella regione di Sfax, a partire verso l’Europa. Va detto che per Meloni l’incontro con Saied si preannuncia tutt’altro che facile. Da giorni l’autocrate tunisino, che non si è mai fatto scrupolo di calpestare i diritti umani dei migranti, lancia messaggi per niente rassicuranti non solo all’Italia, ma anche a Bruxelles che con il Patto su immigrazione e asilo votato lo scorso 10 aprile vorrebbe rimandare quanti non hanno diritto alla protezione internazionale indietro verso l’ultimo Paese terzo attraversato prima di arrivare in Europa, come appunto è il paese Nordafricano: “La Tunisia non si piegherà ai progetti di quanti vogliono farne un luogo di transito o insediamento di migranti subsahariani”, annuncia Saied in un video registrato durante una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale. Parole lette da molti come la minaccia di far partire i barchini con a bordo centinaia e centinaia di disperati trattati come oggetti. Secondo alcune ong dietro le minacce ci sarebbe solo la volontà di chiedere più soldi all’Unione europea che a marzo ha stanziato una prima tranche di 150 milioni di euro come previsto dal Memorandum dello scorso anno. Ma il grosso della somma, paria a 900 milioni, sarebbe vincolato al via libera da parte del Fondo monetario internazionale a un prestito di quasi due miliardi di dollari legato a sua volta a una serie di riforme economiche che da due anni Saied si rifiuta di avviare. Come un cane che si morde la coda, in questo modo tutto rimane fermo e i migranti diventano - come spesso accaduto in passato, dalla Libia alla Turchia - uno strumento per fare pressione sull’Europa. Nei giorni scorso una trentina di ong tunisine e internazionali hanno espresso “preoccupazione per le gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani subite migranti” in Tunisia, “nonché* per le sistematiche campagne che incitano all’odio e alla violenza”. Tra i firmatari ci sono organizzazioni tunisine come la Coalizione contro la pena di morte, la Lega per i diritti umani, il Forum per i diritti economiche sociali, l’associazione Lina Ben Mhenni, ma anche EuroMed Rights, Watch the Med, Alarm Phone e l’Asgi. I giganti del digitale e gli Stati di Sabino Cassese Corriere della Sera, 17 aprile 2024 Mondo virtuale e regole: si moltiplicano gli interventi legislativi sempre più difficili in un territorio senza confini. Il governo italiano si avvia a regolare l’intelligenza artificiale e a riconoscere due esistenti organismi come “autorità nazionali per l’intelligenza artificiale”. Il presidente Biden, nell’ottobre scorso, ha emanato un “Executive Order” allo stesso scopo. L’Unione europea ha già approvato regolamenti su un arco più ampio di temi, quali la gestione e l’organizzazione dei dati, i mercati digitali, i servizi digitali, la cybersicurezza, nonché l’intelligenza artificiale. Altri Paesi si stanno affrettando a stabilire regole nazionali. Tutto questo perché si lamentano la scarsa supervisione da parte degli operatori sulla diffusione di notizie non controllate, le cosiddette fake news; gli arbitraggi fiscali (pagamento delle imposte dove conviene ai giganti del digitale); l’utilizzo di notizie e materiale che si trova in rete, senza rispettare le norme sul “copyright”; il commercio dei dati raccolti dagli operatori studiando a fini commerciali il comportamento degli utenti. Le nuove norme, approvate o allo studio, sono mosse dal timore dello sviluppo di poteri privati di dimensioni ben superiori a molti Stati; dalla paura che questi nuovi poteri si comportino come veri e propri governi, senza rendere conto a nessuno; dal pericolo delle intrusioni sia nella vita privata dei singoli, sia nelle opinioni pubbliche nazionali. Le norme nazionali e sovranazionali mirano a proteggere i diritti fondamentali e i valori costituzionali, quale per esempio la privacy e la concorrenza, e sono dirette a stabilire la responsabilità di produttori e utilizzatori, l’applicazione di regole antitrust e l’introduzione di autorizzazioni e licenze. Insomma, come ha scritto Luisa Torchia in un lucido articolo intitolato “Poteri pubblici e poteri privati nel mondo digitale”, pubblicato nell’ultimo numero della rivista il Mulino, “siamo di fronte a un passaggio da un mondo digitale libero e sregolato a un mondo che richiede sempre più regole pubbliche e private”. Questo ardore regolatorio pone due interrogativi, uno retrospettivo, l’altro rivolto al futuro, sui quali vorrei svolgere qualche riflessione. Primo: se i giganti del digitale non si fossero sviluppati - su territorio USA - in una bolla di immunità, e fossero stati subito sottoposti a antitrust e regolazione, avrebbero potuto affermarsi come poteri privati universali? Secondo: se l’Unione europea e gli Stati intervengono - come stanno facendo - regolando “dal basso” (cioè per regioni limitate, come l’Europa, o per singoli Paesi) un fenomeno universale, che è “più in alto”, quale successo potranno avere tali regolazioni? Se intorno ai giganti del digitale non fosse stata garantita, alla nascita, una bolla di immunità, nel luogo di origine (gli Stati Uniti) e altrove, non ci sarebbe stato uno sviluppo di poteri universali: gli Stati avrebbero “nazionalizzato” il loro perimetro di azione e non sarebbe stato possibile, quindi, lo sviluppo di un enorme industria come quella digitale. Questa, al suo nascere, sarebbe stata sottoposta a regole nazionali o anche sovranazionali, ma non globali, e sarebbe rimasta soffocata o se ne sarebbe impedita l’espansione universale, con la conseguenza di avere una rete locale piuttosto che mondiale, oppure una rete con molti buchi. Altrettanto importante, se non più rilevante, l’interrogativo relativo al futuro. Nella misura in cui singoli Stati o Unioni di Stati, come quella europea, intervengono, agendo “dal basso” su un fenomeno che è ormai universale, i rischi sono molti. Il primo è quello della inutilità, per la difficoltà di sottoporre un fenomeno globale a discipline regionali, come quella europea, o nazionali. Il secondo pericolo è quello di una regolazione parziale, ad Arlecchino, dove sarebbe invece necessaria una regolazione globale. Il terzo pericolo è indicato da Luisa Torchia nell’articolo citato, del tecnonazionalismo e della frammentazione della rete. Un quarto pericolo è quello che rimangano zone grigie, prive di una regolamentazione. C’è, infine, il pericolo che l’azione di regolazione nazionale o europea finisca per sabotare lo sviluppo dell’industria digitale, svolgendo lo stesso ruolo che ha avuto il luddismo nella fase iniziale della rivoluzione industriale, con la differenza che lì si distruggevano macchine industriali, qui reti digitali. Per il futuro, bisognerebbe riflettere sulla saggezza che spinse gli Stati, all’inizio dello sviluppo di “Internet”, a promuovere l’istituzione di un regolatore globale privato, l’”Internet Corporation for Assigned Names and Numbers” (ICANN) una “non-profit Corporation” che in questi anni ha operato, sia pure in ambiti ristretti, da regolatore globale, senza imporsi, ma assicurando uno sviluppo regolare della rete. Si lasciò, sostanzialmente, nelle mani di quelli che si chiamano “stakeholders” poteri che in molti altri settori sono detenuti da organismi pubblici. Insomma, non sarebbe meglio avere un regolatore privato globale? La corsa al riarmo dell’Europa prepara l’austerità di Marco Bascetta Il Manifesto, 17 aprile 2024 Von der Leyen inaugura ad Atene la sua campagna elettorale preparando la Ue alla guerra e lodando la Grecia, dissanguata dalla Troika e in mano alle destre, per la sua spesa militare. Non fu certo l’unico fattore ad accelerare il tracollo del sistema sovietico affetto da innumerevoli storture e dalla sclerosi permanente della sua elefantiaca struttura burocratica, ma è cosa nota il ruolo della forsennata corsa al riarmo. Non fu certo l’unico fattore ad accelerare il tracollo del sistema sovietico affetto da innumerevoli storture e dalla sclerosi permanente della sua elefantiaca struttura burocratica, ma è cosa nota che la forsennata corsa al riarmo durante gli anni della guerra fredda diede un contributo decisivo a logorare lo sviluppo economico dell’Urss e a mantenere basso il tenore di vita dei cittadini sovietici alimentandone così l’indifferenza o la disaffezione. In ogni sistema autoritario, per non parlare di uno stato di polizia, si bada poco a ricercare un ragionevole equilibrio tra l’incremento della potenza militare e i bisogni e le aspirazioni dei cittadini che le vengono regolarmente sacrificati. Ne consegue, alla lunga, un inevitabile indebolimento. La possente economia capitalistica degli Stati Uniti non ebbe invece bisogno di comprimere così pesantemente il livello di vita degli americani nel loro insieme per sostenere i costi della guerra contro l’”impero del male”. Era sufficiente il darwinismo sociale e la rigorosa limitazione del welfare a favore del processo di accumulazione a garantire quell’equilibrio a spese delle fasce più disagiate della popolazione statunitense. In questa partita sono i più forti a vincere senza nemmeno eccessivi timori di indebitarsi. L’egemonia militare costa, certo, ma poi serve anche a tenere a bada i creditori. Di ogni corsa al riarmo si può dire, anche riferendosi all’ambito delle democrazie parlamentari occidentali, che essa tende ad allargare il divario tra economie forti ed economie deboli esposte, queste ultime, a fattori di instabilità, alla crescita ulteriore delle diseguaglianze interne e quindi alla tentazione di superare squilibri e contraddizioni attraverso una restrizione della democrazia. Compensazioni di carattere ideologico e patriottico ai sacrifici non sembrano oggi abbondare, nonostante una narrazione che agita sempre più istericamente lo spauracchio di una guerra, possibilmente convenzionale ma non si sa mai, nell’intero Vecchio continente. Il riarmo è un pozzo senza fondo, un piatto in continuo rilancio. Ci si guarda bene dall’andare a vedere perché farlo significherebbe dar fuoco alle polveri. Così i meno solidi precipitano verso il fallimento. La Bundeswehr ha già fatto sapere che i 100 straordinari miliardi di euro stanziati dal governo di Berlino per rafforzare l’esercito tedesco sono di fatto già tutti impegnati. Ne servono altri, molti di più se si vuole avere, come insiste il ministro della difesa Boris Pistorius, un potente esercito adeguato al combattimento. Una volta il termine lessicalmente appropriato a una siffatta forza armata era quello assunto nel 1935 di Wehrmacht. Se da ogni parte si enfatizza l’urgenza di riarmare massicciamente i paesi europei, le resistenze a mettere in comune i costi di questa corsa alle armi restano decisamente tenaci, inversamente proporzionali ai toni angosciati dell’allarme. Con tutta evidenza l’incremento massiccio della spesa militare fa a pugni con l’impianto rigorista dell’architettura dell’Unione, a meno di sottoporre i cittadini europei, e soprattutto quelli del sud indebitato, a un feroce regime di austerità, che consenta di pagare le armi senza rinunciare alla difesa della rendita finanziaria. Non è un caso che Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione in cerca del bis, abbia inaugurato ad Atene la sua campagna elettorale tutta incentrata su un’Europa che deve prepararsi alla guerra, lodando e indicando come esempio il paese, già dissanguato dalla Troika e poi tornato nelle mani della destra, per il suo attuale zelo nell’incremento della spesa militare. Un esempio che più agghiacciante non potrebbe essere. Fatte le debite proporzioni, per alcuni paesi europei (anche se tutti avranno qualcosa da perdere) la corsa al riarmo avrà sulle economie e sui livelli di benessere effetti pesantemente depressivi analoghi a quelli che contribuirono al declino dell’Urss. Ed è nei confronti degli Usa, soprattutto, che l’Europa non ne uscirà emancipata e più unita, ma ancora una volta indebolita e subalterna. Vi è un modo di contrastare questa deriva? Di contrastare non solo l’eventualità effettiva di una guerra, ma anche il ridisegnarsi e rattrappirsi dell’Europa intorno a questa eventualità, intorno alla prepotente tirannia di una minacciosa proiezione? C’è un argomento morale, certamente. Ma c’è anche il rifiuto di spostare le risorse “dal burro ai cannoni”, di ridimensionare il welfare, e c’è la volontà di difendere il benessere conseguito, i redditi, le prestazioni sociali, le libertà individuali. E se fosse, allora, una potente ondata di lotte sindacali a sottrarre all’economia di guerra le sue basi materiali oltre ai suoi orpelli ideologici? A favore del più nobile di tutti gli egoismi: quello della buona vita per tutti e per ognuno. Il più immediato e comprensibile antidoto contro la guerra. Il caso Ilaria Salis e la necessità di uniformare al più presto il diritto europeo di Alessandro Palumbo linkiesta.it, 17 aprile 2024 La politica italiana si indigna e punta il dito contro l’Ungheria per le condizioni detentive della militante Antifa, dimenticandosi dell’indecente situazione carceraria che riguarda il nostro Paese e rimanendo inerme davanti alla totale frammentazione legislativa in Ue. Come spesso accade in Italia i casi si creano casi mediatici che poi si sgonfiano senza apparente motivo. Questo è il caso di Ilaria Salis, che dopo aver riempito pagine di giornali, dei talk show e essere diventato un caso politico, sino ad immaginare una candidatura, sta tornando nelle pagine interne dei giornali, eppure questo è un caso che si presta a molteplici riflessioni e meriterebbe maggior attenzione e più seria di quella usata sinora. Un primo livello di attenzione meriterebbe la tematica dei nostri connazionali detenuti all’estero, sono più di duemila, la metà dei quali ancora in attesa di condanna. Di loro si sa poco e poco se ne occupano i giornali, i reati contestati sono per lo più relativi a traffico di stupefacenti, sarebbe utile capire come si muove la Farnesina, soprattutto per i casi di carcerazione preventiva, la maggior parte dei detenuti è in paesi dell’Unione europea (la metà in Germania) o ex Ue come il Regno Unito. Alcuni di questi casi hanno avuto una fine tragica, come quella di Daniele Franceschi, morto in circostanze mai chiarite nel carcere di Grasse, nella civilissima Francia. L’assistenza consolare e diplomatica avviene in silenzio, ma non sempre è efficace, per non parlare dei nostri connazionali detenuti in Paesi che poco conoscono lo Stato di diritto e che spesso sono detenuti in condizioni allucinanti. Un paese civile ha il dovere di aiutare i suoi cittadini e di assisterli assicurando condizioni decorose, un giusto processo e una carcerazione preventiva limitata all’essenziale. Il secondo livello di attenzione riguarda le condizioni carcerarie. Spesso i nostri connazionali sono in carceri che versano in condizioni pessime e senza alcuna attenzione ai loro problemi di salute (caso Simone Renda morto in carcere in Messico senza cure, cibo e acqua). Ma qui il discorso diventa anche nostro, perché non possiamo accorgerci dei problemi delle carceri solo quando coinvolgono situazioni estere. Le nostre carceri sono indecenti, il numero dei suicidi è altissimo, gli stranieri nelle nostre carceri sono quasi diciottomila, un numero sette volte superiore a quello dei nostri connazionali detenuti all’estero, la Corte Europea di Strasburgo ha più volte condannato l’Italia per le condizioni delle nostre carceri. Siamo sicuri di avere l’autorevolezza per lamentarci delle condizioni delle carceri negli altri Paesi? Ci accorgiamo solo ora che i detenuti hanno diritto a preservare la loro dignità di esseri umani? Anche da noi si usano gli schiavettoni e “il guinzaglio”, si mettono i detenuti in gabbia, ma giriamo volentieri la testa dall’altra parte. Affrontare questo problema non è solo una questione politica, ma una questione etica. Per un attimo il caso Salis ha portato l’attenzione su questo argomento, ma lo abbiamo fatto con un alto tasso di ipocrisia, guardando gli altri e non noi stessi, ci siamo scandalizzati senza pensare alle nostre situazioni. Il terzo livello di attenzione riguarda la stessa Ue. Come è possibile costruire una comunità con valori comuni e istituzioni comuni senza avere un diritto comune? Come è possibile che in quelli che vorremmo Stati Uniti d’Europa gli stessi reati vengano puniti in una maniera radicalmente diversa? Siamo o vorremmo diventare cittadini d’Europa? E allora come è possibile che passando una linea che ora non è più confine, ma un libero transito, ci troviamo soggetti a situazioni che sono trattate in modo radicalmente diverso? Sappiamo che il reato di cui è accusata (e non ancora condannata dopo un anno di carcere preventivo) Ilaria Salis è punito in Ungheria sino a venticinque anni di carcere mentre in Italia lo stesso reato è stato depenalizzato (se i documenti sono giusti, le ferite inferte guaribili in cinque giorni sono considerate lesioni lievissime, ma anche in caso di lesioni sino a quaranta giorni la pena massima è tre anni). La certezza del diritto è una delle condizioni che creano una comunità, le diverse sensibilità nazionali non dovrebbero produrre macroscopiche differenze. Ma le domande che rimangono in sospeso sono molte. L’Ungheria può ancora considerarsi uno Stato che rispetta i parametri etici e politici della nostra Ue? Parametri che prevedono l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa. L’Ungheria è ancora dentro questi parametri? Questo non riguarda solo il caso Salis, ma l’insieme dei comportamenti del governo ungherese. Allentare i nostri parametri per permettere a tutti di rimanere non è un buon viatico per i prossimi (speriamo) Stati Uniti d’Europa. È possibile che in un Paese della Ue si possa tenere tranquillamente un raduno per e “festeggiare” le SS? Sono domande che rimangono senza risposta. La nostra classe politica anche in questo caso non si è mostrata all’altezza e ha dato l’impressione di pensare più a strumentalizzare il caso per motivi elettorali che ad aprire una riflessione su temi che riguardano la nostra situazione, ma anche il futuro dell’Europa. Ora che i riflettori si stanno progressivamente allontanando si spera che la nostra diplomazia possa fare qualcosa, ma i temi rimangono tutti lì, in attesa che una politica seria li affronti. Venezuela. Nuova ondata di repressione contro le voci dissidenti di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 17 aprile 2024 In Venezuela il 2024, anno elettorale, è iniziato con un allarmante inasprimento della repressione nei confronti degli spazi di libertà, delle voci critiche e dell’opposizione politica. Amnesty International segnala l’aumento degli arresti arbitrari di persone impegnate nella difesa dei diritti umani e l’adozione di leggi palesemente in contrasto con le norme internazionali sui diritti umani. Una delle vicende più gravi è costituita dalla detenzione di Rocío San Miguel, docente e difensora dei diritti umani, direttrice dell’Ong “Controllo cittadino”, con doppia cittadinanza venezuelana e spagnola. È stata arrestata il 9 febbraio insieme ad alcuni suoi familiari, poi scarcerati alcuni giorni dopo. È accusata di tradimento, cospirazione, terrorismo e vari reati associativi. Il 15 febbraio il governo venezuelano ha annunciato di aver sospeso le attività dell’ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite, che aveva preso posizione contro l’arresto di Rocío San Miguel. Un altro difensore dei diritti umani, Javier Tarazona, direttore dell’Ong “Fundaredes”, è in carcere dal luglio 2021 e rischia un processo iniquo solo per essersi occupati di diritti umani. Amnesty International ha sollecitato il governo venezuelano a scarcerare immediatamente Rocío San Miguel, Javier Tarazona, Rocío San Miguel e tutte le altre persone in carcere per motivi di opinione e a riattivare la collaborazione con gli organismi internazionali che si occupano del monitoraggio dei diritti umani. *Portavoce di Amnesy International Italia