La proposta Giachetti resta l’unica luce sul carcere, ma serve subito una correzione di Glauco Giostra Il Dubbio, 16 aprile 2024 Bisogna rimuovere dal testo le criticità tecniche che rischiano di pregiudicarne l’efficacia. Che la situazione carceraria sia drammatica, non è più seriamente contestabile. Che sia responsabilità soltanto dell’attuale governo sarebbe affermazione ingenerosa. Che la recente produzione di reati à la carte sia riuscita, però, nel non facile risultato di peggiorare una situazione già al collasso, è evidente. Che servirebbe una profonda palingenesi della risposta penale al reato in grado di fare dell’esecuzione carceraria l’extrema ratio e l’occasione per offrire al condannato una vita intramuraria ritmata non già da una immota clessidra senza sabbia, ma da impegnativi percorsi di formazione e di prestazioni a favore della vittima e della società è tanto ovvio, quanto ignorato. Che in mancanza di una tale riforma continueremo periodicamente a trovarci nella identica situazione attuale, è sicuro: si scaricano con irresponsabile sollievo nel pozzo della pena detentiva tutte le acque reflue (o ritenute tali) della convivenza civile; poi, quando il tetro e ignorato pozzo si ritiene “troppo pieno”, si cerca di abbassarne il livello con rimedi improvvisati e non risolutivi. Sino al 1990 si è provveduto con lo “sfioro” dell’amnistia e dell’indulto: si noti che il “troppo pieno”, all’epoca, era rappresentato da una popolazione penitenziaria che era meno della metà dell’attuale! Da allora, per “vuotare” il carcere - come si dice nel greve slang politico-mediatico si è fatto ricorso a “secchi” sempre più grandi, dilatando gli strumenti ordinari. Nel 2010 si introdusse, sbandierandone la natura eccezionale e transitoria, l’esecuzione presso il domicilio per pene o residui di pena sino a 12 mesi. Dopo appena un anno non era più misura transitoria e veniva innalzato a 18 mesi il periodo di pena residuo eseguibile presso il domicilio (d.- l 2011/211, Intervento urgente per il contrasto della tensione detentiva). Tempo due anni e intervenne la umiliante condanna di Strasburgo (sent, Torreggiani) per sovraffollamento. E la storia continua. In questa situazione di “cronica emergenza”, tra i rimedi tampone, è in discussione la proposta dell’on. Giachetti in materia di liberazione anticipata. Nel disarmante panorama attuale sembra questa la risposta più convincente, anche se ovviamente non risolutiva, perché riesce a coniugare l’esigenza di de- affollamento con quella di riservare alla pena la funzione che la Costituzione le assegna. A regime si propone di innalzare la riduzione di pena per ogni semestre in cui il condannato ha dato prova di partecipazione all’opera rieducativa dagli attuali 45 a 60 giorni. Come misura eccezionale e transitoria si prevede, invece, un innalzamento a 75 giorni con effetto retroattivo a partire dal 2016 (cioè da quando la precedente disposizione eccezionale aveva cessato di operare) e per i prossimi due anni, naturalmente sempre ove sia stata riconosciuta o si accerti la positiva partecipazione all’opera rieducativa. Proprio perché si considera questa tra le poche proposte serie in circolazione sarebbe bene rimuoverne tempestivamente le criticità sotto il profilo tecnico in grado di pregiudicarne la funzionalità. La più vistosa riguarda l’improvvido affidamento della competenza a decidere sulle riduzioni di pena al direttore dell’istituto penitenziario: scelta costituzionalmente indifendibile, in quanto deroga alla riserva di giurisdizione in materia di libertà personale. Né vale osservare, come si afferma nella relazione accompagnatoria, che si tratta di una decisione di carattere automatico. È vero che quando il “condannato sia incorso in una sanzione disciplinare che possa pregiudicare la partecipazione all’opera di rieducazione”, il direttore dell’istituto deve passare la competenza al magistrato di sorveglianza. Ma si tratta di una previsione doppiamente infelice: da un lato, perché tenta di occultare una delicata discrezionalità, in quanto è pur sempre il direttore a stabilire quando una infrazione disciplinare può compromettere il percorso risocializzativo; dall’altro, perché trasmette l’idea che la riduzione di pena spetti sempre a chi risulta disciplinarmente incensurato. In realtà, come una infrazione disciplinare non può ritenersi di per sé ostativa al riconoscimento della riduzione di pena, così l’irreprensibilità disciplinare non può di per sé attestare la partecipazione all’opera rieducativa (non risulta che Messina Denaro abbia mai commesso infrazioni disciplinari). Beninteso, si comprende la ragione di fondo che ha indotto ad attribuire la competenza al direttore: sgravare la magistratura di sorveglianza, già in affannoso arretrato, di un altro, gravoso compito. Non si può tuttavia cercare di porre rimedio ad una situazione costituzionalmente e convenzionalmente inaccettabile come il sovraffollamento carcerario, ricorrendo ad uno strumento incostituzionale. Piuttosto, si potrebbero almeno in parte recuperare le fondate esigenze di semplificazione procedurale, senza deragliamenti costituzionali, quando si tratta di maggiorare la detrazione di pena rispetto a riduzioni già concesse dal 2016 ad oggi. La nuova norma ne prevede l’incremento di ulteriori trenta giorni a semestre, “a condizione che successivamente alla originaria detrazione il condannato abbia continuato a dare prova di partecipazione all’opera di rieducazione”. Ebbene, se questa condizione viene eliminata, ben potendosi sostenere che sui benefici già concessi sia calato una sorta di “giudicato rieducativo”, si potrebbe affidare al direttore o al pubblico ministero l’applicazione - questa sì, automatica - dell’incremento che ha a monte un giudizio di meritevolezza effettuato a suo tempo dalla magistratura di sorveglianza. Di certo, bisognerebbe fare ogni sforzo per rendere questo strumento legittimo ed efficiente, almeno per indietreggiare qualche metro dal baratro. Scabbia a Bolzano, sovraffollamento in tutte le carceri, ma il governo latita di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 aprile 2024 Quella scoppiata nella Casa circondariale di Bolzano è una vera e propria emergenza sanitaria. I recenti rapporti provenienti da fonti sindacali della polizia penitenziaria dipingono un quadro allarmante: una diffusione incontrollata di scabbia all’interno dell’istituto carcerario, mettendo a rischio non solo la salute dei detenuti, ma anche quella del personale operativo. Fortunato Angotti, segretario provinciale della Fsa (Federazione Sindacati Autonomi) - Cnpp (Coordinamento Nazionale Polizia Penitenziaria), ha sollevato la questione in una nota ufficiale. Secondo quanto riportato, già tra ottobre e novembre del 2023 si è verificata un’escalation preoccupante dei casi di scabbia all’interno della struttura penitenziaria. Tuttavia, la risposta delle autorità sanitarie locali è stata definita “del tutto inadeguata” di fronte all’evolversi dell’epidemia. La scabbia, una malattia altamente contagiosa della pelle causata da acari parassiti, non solo può provocare gravi disagi fisici, ma anche psicologici se non trattata tempestivamente ed efficacemente. Il problema principale sollevato è stato il fallimento sistematico nel fornire le risorse e le misure necessarie per contenere e gestire questa emergenza sanitaria. Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa, ha confermato l’allarme, evidenziando che finora sono stati confermati sei casi di scabbia, cinque tra i detenuti e uno tra il personale della polizia penitenziaria. Tuttavia, si teme che questi casi confermati siano solo la punta dell’iceberg, poiché molti detenuti tendono a nascondere i sintomi per evitare l’isolamento sanitario. La situazione è aggravata dalle condizioni di salubrità e igiene precarie della struttura carceraria bolzanina. Si parla di una struttura vetusta e fatiscente, con costanti problemi di infestazione da insetti di vario genere, rendendola non solo insalubre ma anche insicura sia per i reclusi che per gli operatori. La richiesta urgente è un intervento massiccio e immediato per contenere la diffusione dell’epidemia. Si chiedono misure di prevenzione e profilassi urgenti, oltre alla fornitura di dispositivi di protezione individuale adeguati per il personale della polizia penitenziaria. Tuttavia, si sottolinea che queste azioni potranno affrontare l’emergenza attuale, ma non risolveranno il problema alla radice. Sebbene si parli da anni della dismissione della struttura attuale e della costruzione di un nuovo edificio, questo progetto viene sistematicamente rimandato. De Fazio ha espresso la sua preoccupazione per l’apparente menefreghismo dei governi verso le condizioni dei detenuti e degli operatori penitenziari. La situazione di Bolzano non è un caso isolato. Numerose altre strutture carcerarie in Italia presentano problemi simili, con edifici malsani e in rovina. De Fazio ha esortato il ministro della Giustizia e l’esecutivo a mettere in campo un programma urgente per la sanificazione e la messa in sicurezza degli edifici esistenti, invece di pensare alla costruzione di un nuovo carcere in Albania. Nel frattempo si parla della creazione di 2.262 celle extra per risolvere il sovraffollamento. Si tratta di un intervento che non potrà risolvere nulla. A dirlo è Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino. Solleva dubbi sulla portata e l’efficacia di questa misura, evidenziando che, nonostante l’annuncio, il problema principale rimane irrisolto: la carenza di ben 14.000 posti nelle carceri. “Come è preciso il ministro!” ironizza Bernardini, sottolineando che la mancanza di posti non è una novità e che questa misura non risolverà il problema generale di sovraffollamento nelle carceri italiane. Inoltre, la domanda cruciale è: quando arriveranno questi posti? E con quale personale saranno gestiti, considerando che già oggi il personale penitenziario è carente in modo allarmante? La critica di Rita Bernardini si estende anche alla natura di questi posti extra, definiti “una miseria”, sottolineando che la decisione di aggiungere posti non è stata presa da Nordio, bensì dai precedenti governi. Un esempio tangibile viene citato riguardo alla situazione a Rebibbia, che dimostra come il problema sia persistente da anni e che le soluzioni proposte finora siano risultate inefficaci. Anche perché, come evidenzia sempre la presidente di Nessuno Tocchi Caino, finora il governo ha solo introdotto nuovi reati e aumentato le pene. Recidiva zero: sfida del Cnel per il lavoro in carcere di Giovanni M. Jacobazzi Il Riformista, 16 aprile 2024 L’obiettivo principale è quello di valorizzare esperienze, competenze e modelli di intervento esistenti, inserendoli in un processo di governance multilivello. La sessione plenaria di questa mattina del Cnel dedicata ad un tema da sempre di grande interesse: il lavoro in carcere come deterrente ai casi di recidiva. È ormai ampiamente dimostrata la relazione tra lo status lavorativo di un individuo e le sue possibilità di commettere un crimine. In tale prospettiva è evidente l’importanza delle iniziative di formazione e di occupazione durante l’esecuzione della pena, proprio al fine di agevolare, nel rispetto del dettato costituzionale, il reinserimento dei detenuti nella società. Il Cnel sul punto ha sottoscritto lo scorso anno un accordo con il Ministero della giustizia che prevede l’istituzione di un “Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale”, con lo scopo di promuovere e incrementare l’occupabilità dei detenuti e ridurre in tal modo drasticamente la recidiva. A tal proposito sono stati predisposti dei tavoli di lavoro con il Garante nazionale dei detenuti, la Cassa delle Ammende, la Conferenza dei presidenti delle regioni, l’Anci, l’Ente nazionale del microcredito, la Luiss, Unioncamere, Assolavoro, la Comunità di S. Egidio, la Fondazione San Patrignano. Attraverso il Segretariato si intende, come si legge nel documento di presentazione, “rendere sinergiche e convergenti risorse ed expertise provenienti dagli enti e associazioni, dalle organizzazioni datoriali e sindacali rappresentate nel Cnel, dal mondo dell’impresa e dal terzo settore, per offrire uno snodo di raccordo funzionale per l’attivazione e la facilitazione dei contatti tra Amministrazione penitenziaria e soggetti pubblici, privati e del terzo settore, rivolti alla formazione, anche professionale, e all’inserimento lavorativo dei detenuti e degli ex detenuti”. La giornata, a cui è stato il titolo quanto mai evocativo di “Recidiva zero”, vedrà la partecipazione di numerosi stakeholder pubblici e privati già impegnati nel settore. L’iniziativa punta però ad avere anche una connotazione “operativa”, in quanto, partendo dall’illustrazione degli esiti dell’attività di analisi e osservazione già svolta, proporrà soluzioni rispetto agli ostacoli e alle criticità rilevati ai vari livelli in questi mesi. L’obiettivo prioritario è quindi quello di valorizzare esperienze, competenze e modelli di intervento esistenti, immettendoli in un processo di governance multilivello partendo dal lavoro già in essere dalla Conferenza unificata Stato Regioni attraverso la recente adozione di un protocollo. L’ultimo passaggio sarà poi la definizione di un modello di governance istituzionale per valorizzare il tessuto dei corpi intermedi che a vario titolo, a livello imprenditoriale, sindacale, di volontariato, di cooperazione e impresa sociale, perseguono gli obiettivi di reinserimento sociale e lavorativo delle persone private della libertà personale, al fine di abbattere in tal modo la recidiva. Il Cnel, in altre parole, vuole essere un hub in grado di interconnettere, inquadrandole in un contesto organizzativo efficiente e capillare rivolto all’intera popolazione carceraria, le risorse e le energie vive della società, delle sue forze economiche, sociali e del lavoro, con il “sistema” carcere, attuando i principi di prossimità, congruenza ed equilibro territoriale. Si tratta di “regole di ingaggio” per ridurre limiti temporali e territoriali, sovrapposizioni, dispersione di risorse e eccesso di burocrazia, avviando quindi processi di valutazione di impatto omogenei rispetto ai fabbisogni, agli esiti ed all’efficacia degli interventi. La cooperazione da parte del Cnel con le istituzioni preposte sul tema del lavoro e della formazione in carcere, ha affermato il presidente Renato Brunetta, deve intendersi come un “luogo dove interessi e responsabilità, diritti e doveri, privato e pubblico, dialogano e fanno sintesi con la voce delle rappresentanze datoriali, sindacali e del volontariato, ma anche delle eccellenze culturali e scientifiche del Paese”. Più lavoro, più formazione e più reinserimento per cambiare le carceri di Renato Brunetta* Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2024 “Il lavoro è valore sociale, fattore di emancipazione, giustizia e benessere per tutti”. È da questo principio che ha preso le mosse l’accordo del 13 giugno 2023 tra CNEL e Ministero della Giustizia per “gettare un ponte tra il carcere e la società, portando il lavoro e l’istruzione al centro di un grande progetto di inclusione sociale che veda protagonisti le imprese, i sindacati, il volontariato, il sistema scolastico e universitario e gli enti locali”. Vogliamo essere realisti e, al contempo, ambiziosi rispetto a una sfida così importante che aggrega organizzazioni, reti, società civile, soggetti pubblici e privati: la riabilitazione dei detenuti è un obiettivo di policy complesso, ma raggiungibile. È ormai dimostrata la relazione tra status lavorativo e probabilità di commettere reati, così come l’impatto positivo che il lavoro genera sulla riduzione dei comportamenti devianti, garantendo quel collegamento con la società al di fuori del mondo carcerario, essenziale per un effettivo reinserimento. La presenza delle imprese, ancora non adeguata nelle nostre carceri, è un elemento che contribuisce all’incontro tra domanda e offerta, per un inserimento diretto dei detenuti nel mondo del lavoro, sia durante che a fine pena. Sono 61.049 i detenuti che si trovano nei nostri istituti penitenziari: il 4,3% sono donne, il 31,3% sono stranieri. Il tasso di sovraffollamento è pari al 119%. A fronte di una capienza regolamentare di 51.178 detenuti, 5.980 di loro usciranno dal carcere entro un anno. Questo ultimo segmento rappresenta uno dei target principali dei percorsi personalizzati di formazione e di inserimento lavorativo, in grado di esprimere il maggiore effetto sul tasso di recidiva. È l’inizio di un circuito virtuoso. Con il riconoscimento del lavoro e della sua giusta remunerazione possiamo puntare all’azzeramento della recidiva e, al contempo, contrastare la capacità attrattiva e i rischi corrosivi della criminalità organizzata. Il paradigma da adottare è più lavoro, più istruzione, più formazione, più reinserimento. Il CNEL e il Ministero della Giustizia hanno lavorato in questi dieci mesi in collaborazione con tutti i soggetti e le realtà che operano nel sistema carcerario per dare compiuta applicazione al principio costituzionale di rieducazione della pena. Da Cassa delle Ammende alla rete delle cabine di regia territoriali delle Regioni, dal Garante nazionale alla rete dei garanti territoriali e a quella dei poli universitari penitenziari della CRUI, dal Forum del Terzo Settore all’ACRI e alle altre fondazioni bancarie, da Unioncamere a Assolavoro, dall’Ente del Microcredito a Assifero, da ANCI agli ordini professionali, dalle Caritas diocesane a USMI, dalla Comunità di S. Egidio alla Fondazione S. Patrignano e alla rete delle centinaia di comunità di recupero. Solo per citarne alcune. Perché una così straordinaria ricchezza di iniziative che accomuna istituzioni, regioni, enti locali, garanti territoriali, terzo settore, parti sociali, fondazioni, atenei, organizzazioni religiose ha prodotto risultati parziali, discontinui, di certo non adeguati all’impegno profuso? Questo è il punto. Il carcere e la società continuano ad essere due universi separati, incapaci di comunicare tra loro, perché diffidenti e in sordo conflitto reciproco. Le radici di questa “resilienza negativa” sono profonde: un’offerta rieducativa e formativa spesso non allineata con il mercato del lavoro e i fabbisogni dei territori, una discontinuità dei progetti realizzati, una mancata scalabilità delle esperienze di successo, una ridotta portata delle iniziative. E poi ancora troppa opacità, eccessiva burocrazia e accountability non adeguata. Di un detenuto su due - e di due su tre se stranieri - non conosciamo neppure il titolo di studio, mentre di un terzo o poco più della popolazione carceraria non risulta acquisita la storia professionale. Tutti elementi essenziali per la definizione di un percorso di formazione o di inserimento lavorativo in linea con i fabbisogni del mercato del lavoro e coerente con il profilo personale del detenuto e la sua effettiva occupabilità. Conoscendo poco e male il capitale umano presente nelle nostre carceri, come meravigliarsi degli attuali scarsi esiti occupazionali? Ma esistono anche fattori di carattere generale che incidono sulla traguardabilità del nostro obiettivo. Basti pensare all’apporto determinante del capitale umano dei servizi penitenziari, se professionalmente valorizzato e inquadrato, così come al ruolo decisivo dell’infrastruttura logistica, strumentale e digitale degli istituti. E ancora: la questione dell’efficientamento complessivo della macchina dell’esecuzione penale attraverso un dialogo costante, trasparente e qualificato tra i diversi attori istituzionali. Temi di cui il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha piena consapevolezza, e sui quali è già al lavoro per approntare soluzioni organiche all’interno di politiche volte alla riduzione del sovraffollamento e dei rischi che ne derivano, che possono essere drasticamente abbattuti anche con misure complementari, ma altrettanto importanti, a partire dalle attività sportive a quelle culturali e artistiche. L’intesa tra Ministero della Giustizia e CNEL risponde a queste criticità: è un vero e proprio patto di corresponsabilità offerto a tutte le realtà che decideranno di “fare rete”, amplificando così all’ennesima potenza competenze, esperienze, opportunità, risorse e dunque possibilità di successo. Chi ha una rete ha un tesoro. Ma la rete presuppone una struttura organizzativa adeguata, in grado di gestire, in un percorso di accompagnamento e di coordinamento, la complessità della collaborazione tra i diversi soggetti: mondo del lavoro, scuola, formazione, università, corpi intermedi, carcere. Basti pensare ad attori quali la Scuola Nazionale dell’Amministrazione, che potrà curare la formazione manageriale dell’intero sistema carcerario o a realtà quali le reti delle agenzie di lavoro pubbliche e private, in grado di incrociare e far coincidere le aspettative occupazionali alle reali esigenze del mercato. Ogni agenzia del lavoro, pubblica o privata, prenda in carico uno dei 189 carceri italiani e realizzi continuativamente progetti di formazione e collocamento. Vettori delle attività saranno il “Segretariato Permanente” del CNEL e l’Amministrazione penitenziaria, chiamati entrambi, per le rispettive competenze e i rispettivi punti di forza, a dare impulso e facilitare, in stretta sinergia istituzionale oltre che progettuale, l’interconnessione tra le reti istituzionali, le parti sociali e il terzo settore attraverso “regole di ingaggio” e “azioni di sistema” programmate per superare la frammentarietà, l’autoreferenzialità e i vincoli di natura temporale, territoriale o finanziaria. Tutti limiti che condizionano buona parte delle progettualità oggi esistenti, riducendole ad una condizione di “esemplarità” che seppur positiva, poco rileva a fronte della necessità di un approccio unitario e globale che deve essere invece rivolto alla totalità degli istituti penitenziari. Un lavoro da svolgere in costante raccordo con la Cassa delle Ammende e con la rete delle 16 cabine di regia territoriali rese operative nell’ambito dell’accordo con le Regioni. Sono 80 i milioni di euro già impegnati dal 2022 ad oggi in progetti rivolti a 18 mila beneficiari, detenuti ed ex detenuti e sui quali il Segretariato del CNEL avvierà una valutazione d’impatto dedicata. Le reti non mancano, manca la loro sinergia operativa. La prima “azione di sistema” che coinvolge soggetti pubblici e privati dell’informatica è l’integrale digitalizzazione degli spazi dedicati alla formazione professionale e allo studio in carcere, presupposto necessario per lo sviluppo di programmi efficaci di accompagnamento al lavoro e all’autoimprenditorialità dei detenuti. La geografia sociale del carcere e i ritardi accumulati rendono urgente la sfida che abbiamo assunto. È essenziale la predisposizione di un pacchetto normativo e regolamentare funzionale all’ottimizzazione dei processi organizzativi e alla governance complessiva. Abbiamo già un testo implementabile. Dalla progressiva e piena equiparazione del lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria agli standard ordinari dei CCNL di riferimento, alla messa in rete delle commissioni regionali e penitenziarie per il lavoro, al collocamento mirato dei neomaggiorenni in uscita dagli istituti penali minorili; dalla diffusione dei servizi dei patronati alla estensione dei benefici della “Legge Smuraglia”, prevedendone il prolungamento e una diversa intensità. Una norma che nel solo 2024 ha coinvolto 537 imprese e cooperative con agevolazioni fiscali pari a 10,6 milioni di euro, ma che ancora oggi presenta elevati divari e concentrazioni territoriali in termini di accesso ai benefici. Lavoreremo a forme di responsabilizzazione e compartecipazione dei detenuti nei confronti delle vittime e ad una rivisitazione dei regolamenti improntata a criteri di semplificazione, accessibilità e premialità. Ma l’aspetto maggiormente qualificante è il tentativo, assolutamente innovativo, di radicare e diffondere una “cultura imprenditoriale”. È un cambio di paradigma rispetto al quale CNEL e Ministero della Giustizia mettono alla prova il “sistema carcere” e il tessuto imprenditoriale e civile del nostro Paese. Mettiamo “in carcere” imprese, società civile, istituzioni: solo così potremo vincere tutti, insieme. Un’operazione vantaggiosa per tutte le parti in causa: per i detenuti, a cui sarebbe offerto un percorso autentico di risocializzazione; per la società e l’economia, che vedrebbero trasformata la spesa del sistema penitenziario in investimenti produttivi; e per le vittime dei reati, a cui sarebbe restituita anzitutto la speranza che il male da loro sofferto non si ripeta, e nel cui fondo dedicato sarebbe convogliata una quota della ricchezza prodotta: win-win-win. *Presidente del Cnel É il giorno di Pinelli, ma tra governo e Csm resta il grande freddo di Giulia Merlo Il Domani, 16 aprile 2024 Il palazzo del Consiglio superiore della magistratura cambia nome e viene intitolato al vicepresidente Vittorio Bachelet, ucciso dalle Br. L’obiettivo era la presenza di Giorgia Meloni, senza successo. Il ministro Nordio ci sarà, ma solo in platea. Il palazzo del Consiglio superiore della magistratura cambia nome, ma il clima teso al suo interno rimane lo stesso. Oggi, infatti, è giorno di celebrazione: palazzo dei Marescialli, chiamato così dal 1935 perché era sede dei marescialli d’Italia (un grado militare istituito da Benito Mussolini nel Ventennio), diventa palazzo Vittorio Bachelet. L’intitolazione al professore cattolico e vicepresidente del Csm dal 1976 fino al suo assassinio per mano delle Br nel 1980 è un evento molto atteso e soprattutto fortemente voluto dall’attuale vicepresidente, Fabio Pinelli, eletto in quota Lega. Nelle sue intuizioni, infatti, l’evento avrebbe dovuto rappresentare anche plasticamente il nuovo corso del Consiglio, alla presenza delle più alte cariche istituzionali, ma anche un modo per accreditarsi come interlocutore di rilievo per il governo di centrodestra. Tanto che la delibera del plenum è stata approvata il 7 febbraio e, nei progetti iniziali, l’intitolazione avrebbe dovuto avvenire in modo solenne proprio il 12 febbraio, data della morte di Bachelet. Tutto era pronto a ma a far slittare l’evento di due mesi - secondo ricostruzioni di fonti del Csm - è stata proprio un’improvvida mossa di Pinelli: con la conferenza stampa del 18 gennaio, inusuale nella prassi del consiglio, il vicepresidente ha maldestramente messo in imbarazzo il Quirinale, attaccando il suo predecessore David Ermini e parlando di Csm che agiva come “terza camera”, dimenticando che anche nella scorsa consiliatura Sergio Mattarella era presidente dell’organo di governo autonomo della magistratura. Di qui il cambio di data, così da far calmare gli animi e permettere una serena partecipazione da parte del Colle. Tanto più che Mattarella avrebbe apprezzato la scelta di intitolare il palazzo proprio a Vittorio Bachelet, che è stato presidente dell’azione cattolica in cui anche il Capo dello stato e i suoi fratelli sono cresciuti. Inoltre, Mattarella è legato da lunga amicizia anche al figlio Giovanni Bachelet, che terrà un intervento commemorativo. Eppure, qualcosa nell’organizzazione è andato storto comunque. Fonti del consiglio, infatti, raccontano che l’obiettivo iniziale di Pinelli era quello di avere seduta in prima fila la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, a cui l’invito sarebbe stato recapitato. Senza successo però: formalmente per concomitanti impegni internazionali, vista anche la vicinanza con il prossimo consiglio Ue del 17 aprile. Del resto sarebbe stato un unicum nella storia recente del Csm, dove di regola e in ossequio alla separazione dei poteri non mette mai piede il presidente del Consiglio, ma delega il suo ministro della Giustizia. Ufficiosamente, invece, il governo e Fratelli d’Italia avrebbero preferito mantenere le distanze. In platea accanto a Mattarella, comunque, ci sarà il Guardasigilli Carlo Nordio, che tuttavia non figura esplicitamente nel programma ufficiale. O meglio, cade sotto la generica dicitura di “più alte cariche dello Stato”. In sala con loro ci saranno i consiglieri del Csm, ha confermato la sua presenza il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia e un membro dell’ufficio di presidenza del Consiglio nazionale forense. Assente, invece, l’ex vicepresidente David Ermini. La freddezza - La freddezza tra il Csm e il ministero, però, è stata notata da più parti. Secondo fonti vicine alla maggioranza, infatti, Pinelli non sarebbe ancora ben stato inquadrato. Secondo le aspettative, come primo vicepresidente d’area centrodestra dopo diverse consiliature d’area progressista, avrebbe dovuto essere una figura di garanzia, pur nella terzietà del ruolo. Invece “non è ancora diventato un interlocutore riconosciuto e considerato capace di guidare il consiglio” sulla delicata materia giudiziaria, che nei prossimi mesi diventerà incandescente. Il Csm, infatti, dovrà presto dare parere sul decreto legislativo sui test psicoattitudinali alle toghe e nei prossimi mesi arriverà anche la riforma della separazione delle carriere, più volte annunciata da Nordio. E, fino ad ora, i pareri approvati dal consiglio sono stati considerati poco incisivi nella dinamica dello scontro tra governo e magistratura. Di qui l’esigenza di Pinelli di lavorare per accreditarsi, anche attraverso un gesto dal valore simbolico come l’intitolazione del palazzo a Bachelet. Tanto che, nel cerimoniale, inizialmente era previsto solo il saluto dello stesso Pinelli e a seguire quello del figlio di Bachelet, Giovanni. Alla fine, invece, una terza relatrice di peso è stata aggiunta: a prendere la parola sarà Marta Cartabia, presidente emerita della Corte costituzionale, giurista riconosciuta nel mondo cattolico e vicina al presidente Mattarella. Ma anche ex ministra della Giustizia, con il peculiare effetto di avere invece l’attuale ministro in carica seduto in platea. Nessun invito a partecipare alla stampa, invece: l’evento verrà trasmesso solo via streaming. Nuovo attacco alla stampa, Pinelli contro “i guasti del processo mediatico” di Liana Milella La Repubblica, 16 aprile 2024 Il Guardasigilli Carlo Nordio, con una delle sue iperboli, assimila l’avvocato “a una divinità” e considera maturo il tempo, in vista di una riforma costituzionale, per inserire anche questa figura nella Carta. Nell’inaugurazione di un anno giudiziario, stavolta del Consiglio nazionale forense, anche gli eccessi sono ammessi. E il ministro della Giustizia si esibisce in uno dei suoi. E del pari anche il numero due del Csm, l’avvocato nella vita Fabio Pinelli, scelto dalla Lega per palazzo dei Marescialli - che giusto domani, con tanto di mega cerimonia blindata per i soli vip, diventa “palazzo Bachelet” - allarga le critiche contro il “processo mediatico”. Della serie, fa sempre notizia criticare la stampa, se a farlo poi è un esponente del centrodestra. Da un lato, la minaccia di una legge draconiana e anti-Consulta sulla diffamazione, dall’altro, l’enfasi sul ruolo nefasto dei giornalisti, presunti falsificatori della realtà. Tant’è. Stiamo ai fatti. La platea è folta. La Sala Regia di Palazzo Venezia bella a vedersi. Ormai il Cnf si è lasciato alle spalle la storica auletta in boiserie di legno al piano terra di via Arenula. Altri tempi, quelli. Adesso il presidente del Cnf Francesco Greco lancia i suoi allarmi sui potenziali rischi dell’Intelligenza artificiale, ma anche su quelli cogenti del processo telematico impantanato da mesi, nonché sui suoi colleghi costretti a redigere atti brevi perché quelli “lunghi” finiscono per essere addirittura sanzionati. “Ed è avvenuto” giura Greco. E poi, anche nel civile, “l’abuso della trattazione scritta”. E nel penale “le persone non abbienti, deboli, ‘assenti’ nel processo di primo grado, incapaci di dotarsi di un’efficace difesa durante il lungo tempo delle indagini e del dibattimento” rischiano alla fine di vedersi “preclusa ogni possibilità di rivedere una condanna in ipotesi ingiusta”. Doglianze che i cenni di assenso dei colleghi in sala palesano l’ampia condivisione. Per una mattinata, messi da parte i panni della contrapposizione inevitabile tra due toghe che però fanno un diverso mestiere, la sintonia magistrati-avvocati appare sensibile. Ecco Margherita Cassano, la prima presidente della Cassazione, narrare della “comune responsabilità che grava su magistrati e avvocati”. E cioè “concorrere a realizzare lo stato di diritto che si fonda sulla condivisione dei valori sanciti dalla Costituzione”. Che richiede “la tutela effettiva dei diritti fondamentali della persona attraverso la garanzia di un giusto processo”. Già, principi innegabili e incontestabili. In cui “il difensore è un protagonista ineliminabile per garantire il contraddittorio, l’essenza del processo”. Ed è questo lo spirito del saluto che invia Sergio Mattarella. Quando parla dell’avvocatura e del suo “ruolo fondamentale per l’affermazione e l’avanzamento dei diritti nell’ambito dei bisogni espressi dalla collettività”. E ancora eccolo avvicinare magistrati e avvocati che “insieme, in una convergenza di sforzi, nella comune cultura della giurisdizione e delle garanzie, contribuiscono a dare concretezza al diritto nel quadro costituzionale, nell’interesse della collettività”. Mattarella guarda anche alle riforme processuali “che investono tutti gli ambiti del sistema giustizia, legate fra l’altro agli obiettivi fissati dal Pnrr”. Tutto questo, quando parla Nordio, sembra diventare un film. Il sempre loquace ministro si guadagna subito una “ola” quando tocca un nervo da sempre a scoperto degli avvocati, il loro ruolo nella Costituzione. E Nordio gli fa sentire proprio quello che loro vogliono udire, che è giusto inserire la loro figura nella Carta, anche se non si spinge fino a dire che nelle tante riforme costituzionali che la maggioranza ha per mano - dal premierato alla separazione delle carriere - se ciò davvero si volesse fare, si potrebbe fare. Ma tant’è, basta per scaldare la platea e portargli consenso. “Mi sento ancora magistrato, ma devo parlare da politico” dice Nordio che parla a braccio. Ammette che “in Italia la giustizia è carente” perché nessuno ha mai studiato il rapporto “tra il servizio necessario e il budget disponibile”. Per intenderci “un’ora di lavoro per scrivere una sentenza presuppone attività collaterali di cui nessuno finora ha tenuto conto”. Promette, per il 2026, di “coprire l’organico dei magistrati” quell’organico attuale “inadeguato ed esiguo”, parla dei tre concorsi in itinere e dell’ultimo bandito da lui medesimo “per 400 posti”. Finalmente nega che ci potranno essere “concorsi straordinari, come hanno scritto in giornali suscitando allarmi infondati” (in realtà erano bozze di testi legislativi usciti proprio da palazzo Chigi…). E poi eccolo vantare “la misura più rivoluzionaria, aver introdotto un avvocato nel nostro ufficio legislativo, dopo anni in cui via Arenula era descritta come una casta di magistrati, solo perché finora non ci si poteva permettere il costo dello stipendio di un avvocato”. Nuove “ola” dalla platea. E siamo a Pinelli, il guastafeste. I suoi speech sono sempre assai complicati, bisogna sforzarsi per capire con chi ce l’ha e cosa vuol dire. Il nostro avvocato parla difficile. Ma stavolta l’attacco al processo mediatizzato è lampante. Ce l’ha con la stampa Pinelli, tant’è che giusto domani ha deciso di tenerla fuori dalla grande cerimonia nel suo palazzo che “archivia” gli storici “marescialli” per onorare Giovanni Bachelet, il giurista cattolico assassinato dalla Brigate rosse alla Sapienza nel 1980. E sarà suo figlio Giovanni a ricordarlo. Non più dunque, per lui, la sala del plenum com’è stato per 40 anni, ma tutto l’edificio. Ma oggi, davanti ai suoi colleghi avvocati, Pinelli tira un fendente ai giornalisti per quel processo che, a suo dire, diventa spettacolo perdendo in giustizia. Parole come pietre. “I guasti della giustizia mediatica, dove si smarrisce il senso autentico del processo come ricerca condivisa della verità per la suprema garanzia dei diritti, dell’onorabilità, della libertà e dove talora persino la vittima - sia detto con il massimo rispetto - è fatalmente portata dalla logica mediatica ad assumere un ‘ruolo’ improprio al pari del giudice sottoposto alle pressioni del pubblico ministero preteso vindice”. Eccoli qua i cattivi, il pm e i cronisti. Interferenze “potenziali e sottili” che addirittura metterebbero alla prova “la capacità di resistere del magistrato”, al punto che la toga stessa rischia di non percepirne subito il disvalore. Sarà per questo, per il nocumento della visibilità mediatica, che in un giorno storico come quello dei “marescialli” che spariscono Pinelli non ha voluto alcun cronista tra i piedi. Carcere ai giornalisti, Fdi ci ripensa: dopo le proteste ritirati gli emendamenti di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2024 Dopo le proteste e l’allarme internazionale di Reporter senza frontiere, Fratelli d’Italia fa un passo indietro e ritira l’emendamento che aumentava il carcere per i giornalisti condannati per diffamazione (fino a 4 anni e mezzo). Ad annunciarlo è stato il promotore Gianni Berrino, senatore Fdi, che solo fino a pochi giorni fa rivendicava l’iniziativa. La proposta aveva sollevato grossi malumori anche dentro la stessa maggioranza con Fi e Lega che si erano espresse contro. Oggi Berrino ritorna sui suoi passi: “La necessità di procedere con celerità all’approvazione, mi ha convinto a ritirare gli emendamenti che in ogni caso, alleggerivano sensibilmente le pene attualmente previste”, ha sostenuto. Il parlamentare ricorda che il partito di Giorgia Meloni “ha presentato un ddl per eliminare la pena detentiva per il reato di diffamazione per garantire maggiormente la libertà di stampa. Una svolta da tempo attesa ma che nessuno prima di FdI aveva tradotto in provvedimenti. In linea con la sentenza della Consulta”, “avevo presentato due emendamenti per garantire la piena tutela delle persone offese da meccanismi di macchina del fango”. Ora ritirati. Nei giorni scorsi, oltre alle opposizioni, l’Ordine dei giornalisti e il sindacato Fnsi, erano intervenute anche le associazioni europee dei giornalisti, parlando di un “passo indietro per l’Italia”. E le preoccupazioni non sono finite: “Erano emendamenti ingiusti e incivili che avrebbero portato l’Italia ai confini dell’Ungheria”, ha commentato oggi la segretaria generale Fnsi Alessandra Costante. “Di questo, fortunatamente, si è accorto un pezzo della maggioranza, alla quale ora ci rivolgiamo nella speranza che, assieme alle altre forze politiche democratiche, si metta al lavoro per rendere più europeo il disegno di legge sulla diffamazione, che per l’informazione ha comunque molte criticità”. Una situazione che resta allarmante secondo la segretaria Pd Elly Schlein: “Come lo chiameremmo un governo che cerca di restringere gli spazi di informazione libera, che rende la Rai tele Meloni, che cerca di allargare la sua influenza con operazioni come quella allo studio tra Eni e Angelucci, che attacca la magistratura?”, ha detto alla stampa estera. “Sono cose che abbiamo già visto in Europa e voi ne siete testimoni. È una deriva che non siamo disposti a tollerare”. Per i dem rimane un provvedimento che non tutela la libertà di stampa. “Resta un provvedimento orrendo, una vendetta che penalizza e punisce il lavoro dell’informazione e sul quale dobbiamo fare una opposizione durissima, senza sconti”, ha scritto su X il senatore Filippo Sensi. “Tolta la foglia di fico resta la vergogna”. “Fratelli d’Italia ci ha provato, ma il tentativo di prevedere il carcere per i giornalisti è fortunatamente fallito”, hanno esultato le esponenti M5s Ada Lopreiato e Dolores Bevilacqua. “Possono dire quello che vogliono, possono provare a giustificare il ritiro di quei vergognosi emendamenti con le esigenze di procedere spediti sul ddl diffamazione, ma la verità è che il partito di Giorgia Meloni si è ritrovato isolato alla testa dell’ennesima battaglia assurda contro la libertà e l’indipendenza della stampa. Resta comunque inquietante anche solo il tentativo che è stato messo in campo. Teniamo la guardia alta affinché nuovi rischi del genere non abbiano alcun tipo di spazio”. Anche senza le pene detentive però, il disegno di legge presenta numerosi aspetti che vengono contestati, tra cui, ad esempio, la nomina del responsabile per i titoli degli articoli”. Dei 5 progetti di legge in materia presentati a Palazzo Madama (anche da Pd e M5S) il relatore ha preso come testo base quello che ha come primo firmatario il presidente della Commissione Affari Costituzionali, Alberto Balboni. La proposta di Berrino, non solo prevedeva di mantenere il carcere già previsto nell’articolo 595 del codice penale, che quasi tutti i ddl puntavano ad eliminare, ma la detenzione aumentava fino a 4 anni e mezzo. In più, si prevedeva l’interdizione dalla professione da 2 mesi a 2 anni. Berrino ha proposto anche l’introduzione di una nuova norma contro le ‘fake news’: l’articolo 595-bis del codice penale. Con questo nuovo articolo “chiunque, con condotte reiterate e coordinate, preordinate ad arrecare un grave pregiudizio all’altrui reputazione” attribuisce pubblicamente “fatti che sa essere anche in parte falsi”, è punito con la reclusione da 6 mesi a 1 anno e con la multa da 15.000 a 50.000 euro”. E se il fatto attribuito costituisce un reato “la pena aumenta da un terzo alla metà”. Se poi l’offesa è diretta a “un Corpo politico, amministrativo o giudiziario”, le “pene aumentano”. In più, Berrino, considerato “molto vicino ad Andrea Delmastro” il sottosegretario alla Giustizia avvistato nel pomeriggio a Palazzo Chigi, ampliava, tra l’altro, la platea dei responsabili prevedendo non più solo “l’autore dell’offesa’, ma anche “l’autore della pubblicazione”. Tutto questo rigore, si osservava anche in parte della maggioranza, va in controtendenza rispetto alla Corte Costituzionale che nel 2021 dichiarò illegittimo l’articolo 13 della legge sulla stampa proprio perché prevedeva il carcere, in contrasto con la giurisprudenza della CEDU che nel caso di Alessandro Sallusti condannò l’Italia perché al giornalista si comminò una pena detentiva (poi commutata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano). Il carcere per i giornalisti, giustizia inutilmente offensiva di Iuri Maria Prado Il Riformista, 16 aprile 2024 Si potrebbe pensare alla pubblicazione su un’intera pagina, e a spese del responsabile, del provvedimento che riconosce l’illiceità del comportamento dell’autore dell’articolo. È davvero difficile capire come la sacrosanta istanza garantista possa essere chiamata in causa per giustificare tre o quattro anni di galera sulla gobba di un giornalista magari anche disinvolto, magari anche peggio, ma dopotutto responsabile di un delitto che dovrebbe essere sanzionato senza ricorrere a quella strumentazione forcaiola. Sorprende, dunque, che alcuni, pur appartenenti alla schiatta che si intesta quell’ineccepibile missione di garanzia per i diritti individuali, snocciolino senza perplessità ipotesi di riforma ed emendamenti articolati su quel presupposto di giustizia piombata. Attenzione. Non c’è nessun dubbio sul fatto che una notizia inveritiera possa pregiudicare in modo anche gravissimo l’esistenza altrui, e non c’è dubbio che la cosa è tanto più detestabile quando la pubblicazione è fatta da chi sa di scrivere contro il vero o, peggio, essendo consapevole dell’innocenza di un cittadino di cui indica o lascia intendere una responsabilità che invece non c’è. Ma retribuire quell’odioso malcostume, per quanto possa elevarsi a livello di un pericoloso delitto, con una pena detentiva - oltretutto di una tale gravità - non risponde a serie esigenze di correzione del fenomeno. Anzi, se nel nostro sistema dovesse impiantarsi questo presidio ulteriormente carcerario avremmo semplicemente una moltiplicazione della giustizia inutilmente offensiva di cui giustamente si lamenta l’approccio garantista. E nessuno, appunto, vorrà sostenere che per i casi pur gravi di lesione dell’altrui reputazione e per le campagne di discredito ai danni dei disgraziati che finiscono nel tritacarne non esistano rimedi altrettanto o ben più efficaci rispetto al carcere. A parte le soluzioni risarcitorie, infatti, insomma a parte i soldi che il responsabile di quei reati può essere condannato a corrispondere alla vittima, un cospicuo bouquet di soluzioni alternative potrebbe essere messo in campo per ristabilire la verità compromessa dalle cosiddette fake news o dalle infondate attribuzioni diffuse per il tramite di questo o quel mezzo di informazione. Si pensi alla sporadicità, e in ogni caso alla usuale poca visibilità, della pubblicazione dei provvedimenti che abbiano riconosciuto l’infondatezza di una notizia e, dunque, il pregiudizio che ne ha patito la vittima. Si provi a pensare a che cosa succederebbe se fosse disposta la pubblicazione su un’intera pagina, e magari in prima pagina, e per più giorni, e a spese del responsabile, del provvedimento che riconosce l’illiceità del comportamento del giornalista e/o della testata. C’è da stare certi che la prossima volta gli passa la voglia. Con un’efficacia dissuasiva, se possibile, anche più forte rispetto alla prospettiva del carcere e, soprattutto, con un effetto di tutela per la vittima a dir poco incomparabile. Perché la vittima dell’aggressione giornalistica trova assai poco ristoro nel fatto che il giornalista sia messo in galera, mentre ottiene qualcosa di molto più serio se vede sbattuta in faccia al pubblico (non nei trafiletti) la propria innocenza, il ripristino della verità e il profilo svergognato di chi ingiustamente l’ha messo sulla graticola. Insomma i modi ci sarebbero, e su questo diverso fronte riparatorio davvero si potrebbe esercitare la fantasia di un legislatore realmente preoccupato di ricondurre a civiltà un sistema dell’informazione, e dei rapporti tra la stampa e l’amministrazione della giustizia, indiscutibilmente sguaiato e pericoloso. Ma la luce grigliata del carcere negli occhi di un giornalista pur mascalzone è un rimedio pessimo, che non ripugna meno del delitto che si vorrebbe punire. Il diritto di critica non può trasformarsi in diritto all’insulto. C’è un limite alle offese di Francesco Verri Il Dubbio, 16 aprile 2024 Provo a intervenire in difesa della reputazione, oltre che della libertà di espressione invocata dall’appello di Libération in favore del professor Luciano Canfora firmato da molti studiosi. Studiosi che ovviamente meritano il massimo rispetto - loro e le considerazioni che esprimono - ma permetteranno la mia (assai più modesta) dissenting opinion proprio in nome del diritto che ritengono leso dalla querela della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, definita da Canfora “nazifascista nell’animo”. In effetti, mi piacerebbe che si levassero voci e si firmassero appelli anche a favore dell’articolo 2 della Costituzione e del bene giuridico protetto dal reato di diffamazione, sopraffatti nel nuovo millennio dall’articolo 21 che tutela la libertà di espressione. Trattandosi di diritti fondamentali, non dovrebbero esserci vincitori e vinti. Sarebbe necessario cercare, ogni volta, l’equilibrio. Occorrerebbe bilanciarli, come dice anche la Corte di Strasburgo. Invece, a un certo punto si è diffuso, a ogni livello a quanto pare, il convincimento che ciascuno possa dire ciò che vuole dove gli aggrada. Alcune sentenze pronunciate nei processi per diffamazione probabilmente hanno contribuito: si è salvato in Cassazione, ad esempio, il cittadino che ha urlato “buffone, fatti processare” al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Nell’ambiente politico e in quello sindacale, la “desensibilizzazione” rispetto al linguaggio aggressivo e la tipica natura conflittuale della contesa hanno fatto ritenere giustificato dal diritto di critica anche l’uso di “toni aspri e sferzanti”. Il problema, però, è che i toni sono divenuti sempre più aspri e sferzanti, in televisione, sui giornali e ovviamente sui social network. Un climax cui corrisponde l’espansione all’infinito del pubblico a cui potenzialmente si rivolge chiunque pubblica un post su una qualsiasi piattaforma, da Facebook a TripAdvisor. Siamo diventati tutti editori e più la spariamo grossa più i nostri messaggi hanno la chance di diventare virali. Per misurare le dimensioni del fenomeno, basti pensare che il New York Times ha 9 milioni di abbonati digitali mentre l’influencer Khaby Lame, che per fortuna ha un’indole pacifica, su Tik Tok ha 162 milioni di followers e con i suoi video ha attirato 2,4 miliardi di like. Ora, è probabile che il professor Canfora venga assolto proprio a causa della generosa giurisprudenza che si è consolidata in materia di critica politica. Ricordo che nel 2007, ad esempio, la Corte di Cassazione annullò senza rinvio la sentenza che aveva condannato un consigliere comunale per aver definito il sindaco “traditore”, “ingrato”, “squallido”, “arrogante”, “antidemocratico”, “intollerante ad ogni forma di democrazia e fascista nel senso più deteriore della parola”. Nell’occasione, la Cassazione precisò che “dare gratuitamente del ‘ fascista’ a un comune cittadino è certamente offensivo perché mira a dipingere lo stesso come arrogante e prevaricatore, ma riferirlo a un politico che, peraltro, esercita rilevanti poteri pubblici è espressione di critica perché si paragona il modo di governare e di amministrare la cosa pubblica dello stesso ad una prassi ben nota ai cittadini”. Prendo rispettosamente atto di questa posizione ma non la condivido. Mi pare che, in questo modo, la Cassazione abbia finito per elaborare una sorta di “diritto di insulto” nei confronti delle autorità e - fatalmente - di chiunque sia molto esposto. È di pochi giorni fa la notizia che il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione della querela di Fedez contro il presidente del Codacons che gli ha detto “sottospecie di cantante”, “ignorante”, “imbecille” e “ciuccio”. Queste non sarebbero offese. Vedremo cosa deciderà il giudice per le indagini preliminari sull’opposizione del cantante; ma non è forse vero che la posizione della procura di Roma liberalizza e legittima qualunque insolenza e villania? Poi non lamentiamoci se il preside di una scuola dice alla guardalinee spagnola che è andata a sbattere contro un cameraman ferendosi al viso la frase “sì vabbè... però oggettivamente se fosse stata in cucina a preparare tagliatelle (cosa degnissima, che con ogni probabilità non sa fare), non si sarebbe fatta male, tesoro...”. In un ordinamento rispettoso di tutti i diritti fondamentali - anche di quello alla dignità e alla reputazione - questa sarebbe “diffamazione per sottrazione”. Sottrazione di una qualità, di un attributo, di una competenza in grado di incidere negativamente sul credito sociale di cui gode il bersaglio dell’insulto. Ma mi rendo conto che la nuova versione, assoluta e intransigente, della libertà di espressione ormai ha prevalso. “Come può uno scoglio arginare il mare?” cantava Battisti. Insomma, il mio alla fine è un discorso sottile e tardivo. E a farlo rischio di essere denigrato anche io. Decreto anti rave party, Nordio costretto ad ammettere: solo 8 a processo, zero condanne di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2024 Era stata spacciata come un’emergenza nazionale. Tant’è che fu proprio Giorgia Meloni a voler introdurre un nuovo reato per “dare un segnale” ed evitare che l’Italia “fosse maglia nera in tutta Europa” in materia di sicurezza. Pugno duro: pene da 3 a 6 anni e multe da mille a dieci mila euro. Eppure adesso il governo Meloni, a un anno e mezzo di distanza, ammette che il primo decreto del suo mandato per combattere i rave-party non solo non era urgente ma è servito per colpire pochissime persone: nel 2023, 50 sono finite sotto indagine e solo 8 di queste oggi sono a processo con l’accusa di “invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica”, il nuovo reato anti-rave. Ad ammetterlo non sono le associazioni per i diritti civili, ma lo stesso governo con una risposta del ministro della Giustizia Carlo Nordio a un’interrogazione di Alleanza Verdi e Sinistra in commissione Giustizia alla Camera, a prima firma del deputato Devis Dori. Quest’ultimo, specificando che alcuni gruppi di opposizione avevano denunciato le finalità “meramente politiche” del decreto, chiedeva al Guardasigilli di indicare quante persone siano state denunciate o imputate dall’entrata in vigore del nuovo articolo 633-bis del codice penale. La risposta di Nordio, che Il Fatto ha letto, è arrivata mercoledì in forma scritta. Il Guardasigilli spiega che la Direzione Generale di Statistica e Analisi Organizzativa del ministero ha raccolto i dati di 118 procure in tutta Italia e le statistiche parlano chiaro: nel 2023 sono stati aperti 21 procedimenti (cioè fascicoli) con il nuovo reato. Di questi, 18 sono stati “definiti”: 6 con l’inizio dell’azione penale che ha portato a 8 persone imputate, cioè sotto processo o su cui pende la richiesta di rinvio a giudizio. Gli altri casi sono stati archiviati, ma il ministero non specifica di quante persone stiamo parlando. Ad ogni modo, continua Nordio, “allo stato gli indagati sono 50”. Dati molto bassi che dimostrano la mancanza di urgenza di introdurre un nuovo reato contro i rave-party, tanto più con un decreto legge. La risposta di Nordio non solo è significativa sui numeri ma smentisce il governo anche sull’esistenza stessa dei rave party, cioè manifestazioni non autorizzate in cui si trovano giovani da tutta l’Europa. Negli ultimi mesi diversi esponenti di governo - da Matteo Salvini ad Andrea Delmastro - avevano spiegato che in Italia i rave party erano stati “azzerati” con l’introduzione del nuovo decreto. Dopo il primo anno di governo, lo “stop” ai rave era stato rivenduto come un grande risultato in un opuscolo di Fratelli d’Italia proprio in quanto misura simbolo. Ma ad ottobre scorso il sito di fact-checking Pagella Politica ne aveva contati almeno 8 nel 2023 in tutta Italia e i dati sui fascicoli aperti del ministero della Giustizia lo confermano, altrimenti non sarebbero stati aperti 21 fascicoli. Statistiche che fanno aumentare le perplessità nei confronti del governo sull’introduzione del nuovo reato: spesso il garantista Nordio viene accusato di aver introdotto nuovi reati per lo più inutili e i numeri del ministero della Giustizia sembrano confermare questa ipotesi. L’opposizione, quindi, protesta contro il governo: “Dopo l’approvazione di quel decreto monstre da subito denunciammo il fatto che l’unico scopo del governo fosse quello di creare un nuovo nemico a tavolino col solo scopo di mostrare i muscoli - spiega oggi il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Dori -. Ora abbiamo le prove che quel decreto fosse solo uno spot di inizio legislatura: i numeri sui procedimenti penali attivati in forza del nuovo 633-bis sono veramente risibili. Il Governo è rimasto imbrigliato nel proprio panpenalismo e il Parlamento è stato costretto a investire tempo ed energie su un provvedimento inutile”. La sentenza d’appello su Mimmo Lucano è un monito contro l’abuso delle intercettazioni di Ermes Antonucci Il Foglio, 16 aprile 2024 Depositate le motivazioni della sentenza di secondo grado nei confronti dell’ex sindaco di Riace. Crollano le accuse. In assenza di prove vere e proprie, i pm e poi il tribunale di Locri si sono affidati anima e corpo alle captazioni, risultate inconsistenti e anche inutilizzabili. Oltre a smontare la quasi totalità delle accuse mosse nei confronti di Mimmo Lucano, le motivazioni - depositate nei giorni scorsi - della sentenza della corte d’appello di Reggio Calabria sul processo “Xenia”, riguardante la gestione dei progetti di accoglienza dei migranti a Riace, contengono un avvertimento ai magistrati a non basare le loro indagini soltanto sulle intercettazioni. Nel 2021 il tribunale di Locri aveva condannato Lucano a una pena pesantissima, 13 anni e due mesi di reclusione, addebitandogli una serie infinita di reati legati alla gestione dei progetti di accoglienza dei migranti (associazione per delinquere, truffa, peculato, falso, abuso d’ufficio). La sentenza di condanna è stata, appunto, ribaltata in appello: tutti i reati più gravi sono caduti, mentre è rimasta in piedi solo un’accusa di falso, che è costata a Lucano una condanna a diciotto mesi di reclusione, con pena sospesa. Le motivazioni della sentenza d’appello evidenziano ora come non sia emersa alcuna prova che possa dimostrare l’esistenza di una struttura associativa, così come “manca la prova degli elementi costitutivi il reato” di truffa, mentre “non è configurabile” il reato di peculato. In altre parole, tutti gli elementi “suggeriscono di escludere che Lucano abbia orchestrato un vero e proprio ‘arrembaggio’ alle risorse pubbliche”, come era stato affermato dal tribunale di Locri. Al contrario, emergono “l’assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto e l’indiscutibile intento solidaristico” da parte dell’imputato. Ma ciò che colpisce particolarmente dalla lettura delle 300 pagine di motivazioni è il monito dei giudici d’appello contro l’abuso delle intercettazioni. I giudici, infatti, evidenziano come per diversi reati (per esempio il peculato) “la prova sia costituita in modo preponderante, se non totalizzante, dagli esiti dell’attività tecnica di intercettazione”. “Una preponderanza - proseguono i magistrati - non solo quantitativa, ma anche e soprattutto qualitativa, atteso che si tratta di elementi di prova decisivi per l’accusa in quanto illuminanti, come un faro nell’oscurità, i residui elementi documentali che, da soli, non sono in grado di dare dimostrazione (e dunque di offrire la prova) di sottostanti e artefatte condotte e, quindi, dei reati contestati”. Insomma, in assenza di prove vere e proprie, i pm e poi il tribunale si sono affidati anima e corpo alle intercettazioni realizzate durante le indagini. Intercettazioni, però, che non solo possono essere interpretate in maniera diversa a seconda di chi li legge, ma possono persino essere travisate nel loro significato. Esemplare il caso di un’intercettazione in cui Lucano parla a Capone (all’epoca legale rappresentante di “Città Futura”) dell’acquisto di un frantoio da destinare alla gestione dei migranti. Secondo il tribunale, Lucano suggerisce al suo interlocutore le false dichiarazioni che avrebbero dovuto rendere sulle spese effettuate. “(Gli diciamo, ndr): facciamo una cosa che serve per l’integrazione e serve per tutti. È per i rifugiati, gli devi dire”, scrive il tribunale. Peccato che dalla trascrizione fatta dal perito le frasi “gli diciamo” e “gli devi dire” non risultano. Non risultano, cioè, quelle espressioni “valorizzate dal tribunale nel ritenere che i due stessero approntando una precostituita linea difensiva per eludere le proprie responsabilità”, sottolinea la corte d’appello. Non è tutto. Nel corso del processo si è posto anche il problema dell’utilizzabilità delle intercettazioni autorizzate per alcuni reati gravi, i cui risultati però sono stati poi usati per dimostrare altri reati meno gravi per i quali le intercettazioni non avrebbero potuto essere autorizzate. Dalle motivazioni della sentenza d’appello emerge come i pm (con l’avallo del tribunale) abbiano fatto ampio uso di intercettazioni effettuate per reati non autonomamente intercettabili. Considerarle legittime significherebbe, scrivono i giudici d’appello, “da un lato svuotare di contenuto la funzione di garanzia propria del provvedimento autorizzativo; dall’altro, trasfigurare il decreto in una sorta di ‘autorizzazione in bianco’, in aperto contrasto con la riserva di cui all’articolo 15 della Costituzione”. Per queste ragioni molte delle intercettazioni effettuate sono state giudicate non utilizzabili nel processo, con effetti a cascata su diversi reati, dichiarati insussistenti. Una sentenza, insomma, che dovrebbe essere letta con attenzione da molti pm e giudici. La storia di Carmelo Patti, riabilitato post mortem. L’imprenditore era innocente di Valentina Stella Il Dubbio, 16 aprile 2024 Al patron del Valtur furono sequestrati tutti i beni nonostante fosse incensurato. Dopo 13 anni, i giudici di secondo grado revocano le misure: “Non era mafioso”. Tre processi subìti, tredici anni di misure di prevenzione, accuse che andavano dalla frode fiscale a quella infamante di concorso esterno in associazione mafiosa, pentiti che lo accusavano, una feroce campagna mediatica, un autentico impero finito letteralmente in fumo. Questa è la storia di Carmelo Patti: partendo da zero è riuscito a creare a partire dagli anni sessanta in poi, in pieno periodo del cosiddetto “miracolo italiano”, un polo industriale che pian piano è diventato il quinto gruppo mondiale in campo di cablaggio di fili per auto motive, con migliaia di dipendenti in tutto il mondo al seguito dell’indotto Fiat di cui era uno dei principali fornitori. Poi si estese nel campo del turismo, diventando il vertice del gruppo alberghiero Valtur, il quarto in Italia. Tutto iniziò a cambiare però all’inizio del 2000: un’indagine della procura di Marsala ha segnato l’inizio delle disavventure giudiziarie del cavalier Patti. La procura a quel tempo aveva ipotizzato nei suoi confronti alcuni reati fiscali e societari. Nel 2004 il Tribunale di Marsala ha assolto Carmelo Patti da tutti i reati contestati con sentenza divenuta definitiva. Sempre nei primi anni 2000 hanno preso avvio altre due indagini, condotte dalla procura di Palermo: una riguardante un presunto riciclaggio in relazione all’acquisto di un villaggio Valtur a Favignana; l’altra per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, quest’ultima basata su alcune dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Angelo Siino. Nel febbraio e nel maggio del 2001, la procura antimafia di Palermo ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione per infondatezza della notizia di reato. Ciò nonostante, nell’estate del 2011, il direttore della Dia ha chiesto al Tribunale di Trapani di applicare a Carmelo Patti le misure di prevenzione personali e patrimoniali. Fu definito “uno dei procedimenti più rilevanti nella storia giudiziaria italiana”. Il processo di primo grado durò ben sette anni e nel novembre 2018 il giudice dispose il sequestro e la confisca di tutti i beni appartenuti a Carmelo Patti, nel frattempo deceduto. Da quel momento il declino e il fallimento. Eppure oggi, nel 2024, la Corte di Appello di Palermo ha ribaltato questo giudizio: la Sezione misure di prevenzione ha depositato le motivazioni del provvedimento con il quale ha annullato in toto il decreto del Tribunale di Trapani che nel luglio del 2018 aveva disposto il maxi sequestro. “Il cavaliere Patti è deceduto incensurato ed è stato assolto da tutti i processi nei quali è stato chiamato a difendersi ed ha dedicato la sua vita al lavoro ed alla crescita delle sue aziende dopo essere emigrato al nord Italia all’età di 26 anni. Adesso i giudici della Corte di Appello gli hanno restituito seppure post mortem - quella onorabilità ingiustamente macchiata nel corso dei 13 anni di processo di prevenzione”, dicono i suoi avvocati Francesco Bertorotta, Roberto Tricoli, Raffaele Bonsignore, Angelo Mangione, Marco Antonio Dal Ben, Giuseppe Carteni. Carmelo Patti era dunque un imprenditore pulito. “Si potrebbe dire che “il tempo è galantuomo” - proseguono i legali in una nota stampa -; restano, però, i segni di una aggressione mediatica ingiustamente subita dal cavaliere Patti che è stato indicato al pubblico di molte trasmissioni televisive e dalla stampa nazionale come un imprenditore “vicino” al contesto mafioso di Castelvetrano”. Infatti, “il tema più scottante e doloroso della vicenda - dice al Dubbio l’avvocato Francesco Bertorotta - è quello del processo mediatico. Le misure di prevenzione non segnano effetti soltanto sul piano patrimoniale, ma producono anche altri effetti che non colpiscono soltanto il soggetto proposto alla misura - che in questo caso è anche morto - ma colpiscono anche i parenti e tutta la sua famiglia. Nel corso di ben 13 anni di processo di prevenzione la figura di Carmelo Patti è stata descritta dai media come quella di un imprenditore colluso con la mafia o addirittura di prestanome di Matteo Messina Denaro. La Corte di Appello di Palermo ha escluso in modo netto che Carmelo Patti abbia avuto rapporti con l’associazione mafiosa. Ma questo non basta a cancellare il degrado reputazionale e mediatico subito”. L’altra questione che l’avvocato stigmatizza è quella relativa alle misure di prevenzione: “Presentano notevoli criticità di compatibilità con la nostra Costituzione e con i principi della Cedu. Tali dubbi, del resto, sono stati posti di recente all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’oomo nel noto caso Cavallotti contro Italia. La Corte di Appello di Palermo ha escluso che il cavaliere Patti nel corso della sua esistenza terrena fosse un soggetto socialmente pericoloso. Resta, però, aperto un tema più generale sul sistema delle misure di prevenzione e cioè se sia compatibile con un ordinamento costituzionale, democratico e liberale, che una persona possa subire la “pena” della confisca di tutti i suoi beni, anche post mortem, malgrado i giudizi assolutori o di archiviazione intervenuti nei processi penali cui è stato sottoposto nel corso della sua vita”. La vicenda di Patti si intreccia con quella di diversi pentiti, in particolare con le accuse che gli vengono mosse dall’ex mafioso e collaboratore di giustizia Angelo Siino: “Ritengo che certamente i collaboratori di giustizia possono essere utili - ci dice ancora l’avvocato - tuttavia, il modello di gestione ed i criteri di valutazione delle loro dichiarazioni devono essere rigorosissimi, altrimenti si creano disastri”, come nel caso del suo assistito. Poniamo un’ultima domanda al legale, ossia cosa ci sia di anormale in questa storia: Patti è morto da anni e non ha visto la fine del processo e la proclamazione definitiva della sua innocenza nel campo delle misure di prevenzione. “I tempi della giustizia sono infinitamente lunghi - conclude il legale - e, purtroppo, quello che lei definisce anormalità non lo è affatto”. Lombardia. Morti in carcere: dal 2002 sono 251, per la maggior parte suicidi di Federica Pacella Il Giorno, 16 aprile 2024 “Servono interventi urgenti: non si può continuare a morire di carcere e in carcere”. L’appello arriva dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, che ha organizzato giovedì un momento di riflessione sui suicidi e sulle morti in carcere, con tutti i Garanti regionali, provinciali e comunali. A livello nazionale, fino a venerdì si contano 31 suicidi in istituti penitenziari da inizio anno, secondo il dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti. Il confronto con il 2023 è allarmante: quest’anno 17 persone in più si sono tolte la vita rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, 20 rispetto al 2019. In Lombardia, i casi di suicidi verificati sono stati 2 nel 2024 (entrambi nell’istituto di Pavia), mentre era stato uno nel 2023 (a San Vittore). Dal 2002 al 2024, periodo considerato dal dossier “Morire di carcere”, parliamo di 251 decessi negli istituti di pena lombardi, di cui 155 suicidi accertati. L’iniziativa dei garanti arriva a un mese esatto dalla dichiarazione del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che, il 18 marzo scorso, ricevendo la Polizia penitenziaria, ha dichiarato che sui suicidi in carcere servono interventi urgenti. Giovedì, la Conferenza nazionale diffonderà l’appello, ricordando i nomi dei detenuti morti suicidi, per malattia e altre cause ancora da accertare nonché i nomi degli agenti di polizia penitenziaria che quest’anno si sono tolti la vita. Tra i grandi nodi ci sono sovraffollamento, che può fare da detonatore rispetto a situazioni personali già di fragilità, e chiusura delle celle perché la maggioranza dei detenuti vive, per oltre 20 ore al giorno, in celle sovraffollate, dalle quali esce solo nelle “ore d’aria”. Secondo l’appello che sarà letto dai garanti, è necessario riempire di senso il tempo della detenzione, offrendo più attività “trattamentali”, potenziando le relazioni familiari e col volontariato. “È necessario un maggior numero di misure alternative, che da tempo chiediamo”, spiega la garante delle persone private della libertà del Comune di Brescia, Luisa Ravagnani. A Brescia, sul fronte sovraffollamento resta critica la situazione del “Nerio Fischione” (ex Canton Mombello). Dal Ministero della Giustizia si è appresa la volontà di proseguire con il progetto sul carcere di Verziano, che però non risolverebbe i problemi di vetustà di Canton Mombello, che resterebbe aperto, mentre a Verziano si potrebbe perdere lo spazio dedicato all’area trattamentale. Proprio ieri la sindaca Laura Castelletti ha scritto nuovamente al Ministero per l’istituzione di un tavolo che comprenda anche il Comune. “È un treno che Brescia non può perdere, il Nerio Fischione non ha ragione di essere - conferma Ravagnani - se non viene chiuso ora, dubito si potrà fare in futuro”. Cagliari. Padiglione per il 41bis a Uta? “Mai stato inaugurato, la struttura ancora non c’è” di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 16 aprile 2024 La responsabile dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” Maria Grazia Caligaris corregge il ministro della Giustizia Carlo Nordio che in risposta a un’interrogazione avrebbe annunciato l’apertura del nuovo braccio del penitenziario. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio lo ha annunciato i giorni scorsi con risposta scritta a una interrogazione parlamentare sull’emergenza carceri, ma nel penitenziario di Uta non ci sarebbe stata nessuna consegna del nuovo Padiglione 41bis, né tanto meno il suo collaudo per il semplice fatto che la nuova struttura detentiva per il regime speciale, ancora non esiste: a correggere il Guardasigilli è Maria Grazia Caligaris, dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme Odv”, con un comunicato in cui tra affronta anche l’emergenza del crescente fenomeno dei suicidi in carcere. “Nessun taglio del nastro nel Padiglione 41bis della casa circondariale di Cagliari-Uta - asserisce Maria Grazia Caligaris -. Nella struttura, che una settimana fa è stata consegnata al Ministero delle Infrastrutture per il completamento delle aree di servizio, non è ancora iniziato alcun intervento. Ciò significa che non c’è stata alcuna inaugurazione il 20 marzo scorso. Il ministro Nordio è stato male informato in merito alla situazione dell’istituto penitenziario cagliaritano”. Probabile sia stata confusa nella risposta del Guardasigilli la consegna dei lavori per la realizzazione di indispensabili opere accessorie con l’inaugurazione della sezione speciale, come la caserma per gli agenti del Gom (Gruppo operativo mobile) che dovrebbero prendere servizio nella struttura. Opere di servizio che incredibilmente nel progetto originario erano state dimenticate. “Il padiglione del 41bis di Cagliari - dice Caligaris - non farebbe altro che accrescere il numero dei detenuti di spessore criminale in una regione che ne ospita già 90 nella stessa condizione di massima sicurezza a Sassari-Bancali (pur senza direttore e comandante). Né si può dimenticare che i 41bis si trovano perfino nella casa circondariale di Nuoro, ancora in attesa di una direzione stabile”. “Dispiace infine osservare che il Ministero della Giustizia e il Dipartimento continuano a considerare la Sardegna come una terra di nessuno - prosegue l’esponente di SDR -. Le carceri isolane infatti a Cagliari, Sassari, Nuoro, Oristano e Tempio ospitano anche detenuti dell’alta sicurezza (oltre 500 persone), reclusi che sono da poco tempo usciti dal percorso del 41bis. Le colonie penali continuano a non essere utilizzate per offrire occasioni di lavoro e professionalizzanti. Niente di concreto invece ci sembra di vedere all’orizzonte per contenere l’alto rischio suicidario e i quotidiani gravi atti di autolesionismo dentro gli Istituti. Accrescere il numero degli psicologi è un segnale troppo debole laddove le condizioni detentive non consentono di attivare progetti trattamentali per la carenza di tutte le figure professionali e per la presenza di persone con gravi disturbi della sfera psichiatrica” Milano. “Oggetti d’evasione”: alla Design Week i lavori dei detenuti di Susanna Ripamonti* Corriere della Sera, 16 aprile 2024 Studenti del Naba e detenuti hanno raccolto gli oggetti auto-costruiti che in carcere vengono creati per sopravvivere a divieti, spesso incomprensibili. In mostra per la Settimana del design fino al 21 aprile alla Fabbrica del Vapore di Milano. Il progetto nasce dalla collaborazione tra CarteBollate, il periodico fatto dalle persone detenute del carcere di Bollate, e Naba (Nuova accademia di belle arti). Studenti e detenuti hanno raccolto gli oggetti autocostruiti che in carcere vengono creati per sopravvivere a divieti, spesso incomprensibili. Vietate le grattugie (vedere la soluzione nella foto qui sopra), gli uncinetti, gli strumenti per cucinare. Ammesse le penne biro, che all’occorrenza diventano ferri da calza (che invece sono proibiti). La vita detentiva è fatta di privazioni, della necessità di riempire i vuoti, di ritrovare le minuzie della propria quotidianità. In tutto 50 oggetti, che ora sono riuniti in una mostra, Oggetti d’evasione, inaugurata a Milano nell’ambito della Settimana del design, alla Fabbrica del Vapore in via Procaccini 4: resterà aperta al pubblico fino al 21 aprile, poi migrerà nello spazio del Consorzio Viale dei mille, dove sono previsti incontri e laboratori. Per capire i bisogni da cui nascono questi oggetti dobbiamo iniziare dall’assenza, dal vuoto che accoglie il detenuto al suo primo ingresso in cella. Immaginiamo di esplorarne una a caso, singola o condivisa, arredata con niente: una branda, muri scrostati, tracce della presenza di chi ha abitato quella stanza prima di noi. Un luogo in cui manca tutto e in cui non sai dove collocare te stesso e le poche cose che hai portato con te. Riempire quel vuoto, abitarlo, renderlo vivibile, è quindi la prima necessità da cui parte la produzione di oggetti d’uso, decorativi, consolatori, scaramantici. Oggetti che parlano di necessità, di solitudine, di nostalgia. Che raccontano il bisogno di ripetere gesti familiari, a cui si è abituati. In carcere non esistono specchi in cui ritrarsi a figura intera. Un piatto di cartone metallizzato diventa un piccolo specchio da toilette: “Mi guardo - si legge nella didascalia - e vedo solo la mia faccia. Chissà dove è finito il resto del mio corpo”. Accanto un cartone con un rotolo di carta igienica appeso con un filo: “Perché nessuno ha pensato che quando sei al cesso non puoi tenerti la carta igienica in mano? (n.b.: il cesso in questione è una turca)”. Decontestualizzando questi oggetti, esponendoli in una mostra, motivandoli e raccontandoli si è cercato di tracciare una loro biografia che ne esplicita i significati, trasformandoli in oggetti simbolici, dialoganti, in grado di produrre reazioni ed emozioni che prescindono dal loro significato originario. Il lavoro interpretativo fatto con questa operazione, consiste nel rendere transitabile la distanza tra il dentro e il fuori. È un’opera di traduzione e di mediazione culturale dal visibile al dicibile, che mette in comunicazione linguaggi diversi. *Direttrice di CarteBollate Firenze. Piantati nel carcere 120 alberi da frutto, li cureranno i detenuti Corriere Fiorentino, 16 aprile 2024 Sono stati piantari ieri mattina i 120 alberi del nuovo “ortofrutteto solidale” a Sollicciano. I detenuti del carcere saranno coinvolti nella cura e manutenzione delle piante ed il progetto, realizzato con il sostegno di Estra e che fa parte della campagna OrtoFrutteto solidale diffuso, promossa da AzzeroCo2 e Legambiente, è stato inaugurato alla presenza, tra gli altri, della direttrice di Sollicciano Antonella Tuoni e del garante dei detenuti di Firenze Eros Cruccolini, l’assessore all’ambiente di Palazzo Vecchio, Andrea Giorgio. I detenuti impiegati nel giardinaggio attraverso la cura degli alberi potranno acquisire competenze che potranno impiegare in futuro. Inoltre, i frutti raccolti potranno essere consumati direttamente all’interno della struttura e tra le progettualità potrebbe rientrare anche la realizzazione di marmellate da frutta da parte degli studenti che frequentano l’istituto di scuola superiore alberghiero all’interno della casa circondariale. Roma. Progetto “Olympe”, le attrici ex detenute vanno in scena per le scolaresche garantedetenutilazio.it, 16 aprile 2024 Le attrici ex detenute portano in scena lo spettacolo per gli studenti, al termine di un percorso dedicato alla Costituzione e all’educazione alla legalità. “Le Donne del Muro Alto”, attrici ex detenute e ammesse alle misure alternative alla detenzione, dirette dalla regista Francesca Tricarico, tornano in scena in una matinée dedicata agli studenti delle scuole di Roma e provincia con il progetto Olympe, sostenuto e fortemente voluto dalla fondazione Alta Mane Italia, dopo un percorso nelle scuole dedicato all’educazione alla legalità e alla Costituzione. Un progetto che ha visto coinvolti 500 studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado dedicato al tema della legalità e della riscoperta della Costituzione come importante punto di riferimento per il nostro vivere e agire collettivo. Lo spettacolo, che rappresenta il culmine di questo percorso iniziato a gennaio, è tratto dal romanzo La donna che visse per un sogno di Maria Rosa Cutrufelli, nasce da un primo studio fatto nel 2015 nel carcere femminile di Rebibbia e racconta gli ultimi mesi di vita di Olympe de Gouges (1748 -1793), intellettuale, drammaturga e attivista impegnata nella difesa dei diritti civili nell’epoca della Rivoluzione francese che pagherà il suo impegno politico con la vita. Le attrici ex detenute e ammesse alle misure alternative hanno incontrato i ragazzi nelle loro scuole e lo spettacolo sarà la tappa finale di questo viaggio per confrontarsi e condividere insieme il loro percorso, la loro esperienza di inclusione sociale e lavorativa attraverso il teatro, ma anche occasione di riflettere sulla libertà di espressione, sul concetto di bene comune. Francesca Tricarico, regista e ideatrice del progetto commenta: “Sono passati più di dieci anni da quel primo ingresso nel carcere femminile di Rebibbia, dieci anni esatti dalla nascita de Le Donne del Muro Alto, un progetto che fin da subito ho capito non poteva e non doveva terminare lì, nonostante tutto sembrasse dire il contrario, dalla difficoltà del luogo alla continua estenuante ricerca dei fondi. In questi 10 anni di attività dal mio primo ingresso nel carcere femminile di Rebibbia Le Donne del Muro Alto è una realtà che continua a crescere sia all’interno che all’esterno delle mura carcerarie, divenendo percorso di accompagnamento al ritorno nella società civile. Oggi, per le donne coinvolte, il progetto rappresenta sempre più una concreta possibilità di formazione oltre che un’occasione lavorativa regolarmente retribuita, un prezioso strumento di inclusione sociale”. Il progetto è realizzato dall’associazione Per Ananke, nata nel 2007, che fin dalla sua costituzione si occupa di teatro, in particolare teatro sociale, lavorando nelle carceri, centri per la salute mentale, scuole, Università. Dal 2013 l’attività teatrale all’interno degli istituti di pena diventa l’attività principale dell’associazione con la nascita del progetto Le Donne del Muro Alto, prima nella Casa Circondariale femminile di Rebibbia, portato in seguito nella Casa Circondariale femminile di Latina e la Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso e oggi anche all’esterno con donne ammesse alle misure alternative alla detenzione ed ex detenute. La giustizia riparativa: oltre la pena, per ricostruire fiducia e senso della collettività di Federica Brunelli* Left, 16 aprile 2024 Come si può riparare un danno, ricucire un legame sociale, dopo che è stato commesso un reato? E se si tratta di minorenni autori di reato quali interventi ipotizzare? Il tema sarà affrontato, con incontri e spettacoli, al “Curae festival” dal 16 al 20 aprile a Pontremoli. Ne parla una mediatrice esperta di giustizia riparativa, tra gli ideatori della manifestazione. La giustizia riparativa, che grazie al decreto legislativo 150/22 (c.d. riforma Cartabia) è diventata legge anche in Italia, viene spesso definita come “giustizia dell’incontro”, perché attraverso una serie di programmi relazionali e dialogici (che appunto si fondano sull’incontro con l’altro) prova a prendersi cura degli effetti distruttivi nascenti dalla commissione di un fatto di reato, promuovendo la ricucitura del legame sociale a partire dalle ferite che l’illecito ha generato. La giustizia riparativa si affianca al processo penale senza sostituirlo e prova a offrire ai protagonisti della vicenda penale qualcosa di più rispetto alle risposte tradizionalmente orientate alla sola punizione del colpevole o alla sua rieducazione. La questione fondamentale non è soltanto “come deve essere punito il colpevole” ma anche “se e che cosa può essere fatto per riparare il danno”, non solo nel senso di controbilanciare in termini economici il danno cagionato ma anche nell’ottica di ridare significato ai legami fiduciari fra le persone che il reato ha interrotto. Per fare questo, la giustizia riparativa coinvolge attivamente le persone indicate come autori dell’offesa, le vittime e la comunità, in un percorso dialogico di riconoscimento reciproco, nel quale possono ritrovare dignità i vissuti e le narrazioni di ciascuno. Oltre alla verità processuale, la giustizia riparativa accoglie le verità personali, quelle vissute e non solo accadute. I programmi di giustizia riparativa permettono di costruire la responsabilità in modo concreto, una responsabilità “verso il volto dell’altro” e non solo per aver fatto qualcosa, e aprono alla progettazione di azioni che riparano, quali gesti capaci di ridare valore al patto di cittadinanza violato, quale possibilità di riappropriarsi di un senso di giustizia non solo legato alla riaffermazione della norma ma anche ai significati delle relazioni che costruiamo con gli altri. Proprio su questi temi si apre a Pontremoli, dal 16 al 20 aprile, il Festival Curae 2024, promosso dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, sui temi della giustizia riparativa, della giustizia minorile e del teatro. Il tema di quest’anno - che rappresenterà il filo conduttore delle diverse iniziative in programma - è “l’altro”, quale parola chiave della giustizia riparativa ma anche di tutti gli interventi che promuovono responsabilità e riconoscimento. Il Festival coinvolge ragazzi sottoposti a procedimento penale, sia ristretti in quattordici istituti di pena per minorenni sia ospiti di comunità educative e affidati ai servizi della giustizia minorile, ragazzi del territorio della Lunigiana, quale voce della comunità lesa dal reato, e la comunità di Pontremoli, destinataria di gesti riparativi nella giornata conclusiva del Festival. Con spettacoli, performance, musica rap, incontri, tavole rotonde, proiezioni e presentazioni di libri, il festival vuole far dunque dialogare e confrontare registi di teatro, magistrati, mediatori, studiosi di diverse discipline, docenti di università italiane sul tema de L’altro: su quanto sia imprescindibile il riconoscimento e il relazionarsi positivamente con l’altro; sulla essenzialità dello smontare le paure verso gli altri; ed infine sull’alterità come componente fondamentale delle pratiche teatrali. Dal lavoro dei ragazzi in carico ai servizi della giustizia minorile, spesso in percorsi comuni con gli studenti di scuole superiori del territorio sono nati quattro lavori che debuttano al festival; il complesso universo dell’”Altro” è esplorato anche nei due incontri dal titolo Dialoghi sull’Altro: nel primo, introdotto da Antonio Sangermano, Capo Dipartimento del Dipartimento di Giustizia minorile e di comunità, il professore di sociologia Paolo Jedlowski dialoga con Teresa Forcades, teologa e medico, nel secondo il criminologo Adolfo Ceretti si confronta con Cristina Valenti, studiosa di teatro; e nella tavola rotonda in cui il dialogo sull’Altro mette in comunicazione giovani e adulti, attraverso uno scambio nel quale un gruppo di ragazzi “interrogano” sull’Altro diversi adulti, rappresentativi di ruoli professionali differenti e di esperienze personali variegate, con l’accompagnamento dei mediatori esperti della Cooperativa Dike. *Federica Brunelli è mediatrice esperta in programmi di giustizia riparativa - Cooperativa Dike di Milano. Cura con Paolo Billi (regista del Teatro del Pratello) e Lisa Mazoni (Associazione Punto Zero Milano) la direzione e l’ideazione del Curae festival Roberto Saviano, il nuovo libro: donne dentro al cuore dei clan di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 16 aprile 2024 Martedì 16 aprile esce per Fuoriscena “Noi due ci apparteniamo” in cui lo scrittore racconta le donne della criminalità organizzata. Vittime o carnefici, comunque condannate a non tradire mai. “Non so da dove si inizia e non trovo le parole a giustificare questo mio gesto. Mamma, tu sei mamma e solo tu mi puoi capire… So il dolore che ti sto provocando, e spiegandoti tutto almeno ti darai una spiegazione a tutto… Non volevo lasciarti senza dirti niente. Quante volte volevo parlare con te e per non darti un dolore non riuscivo”. Maria Concetta Cacciolla è donna di ‘ndrangheta. Conosce le regole, ma sceglie di violarle. Mentre il marito è in carcere lei lo tradisce con un altro uomo. Un’onta che la sua famiglia non può sopportare. Maria Concetta viene picchiata, punita, segregata. E lei reagisce nell’unico modo che le sembra una via di uscita: consegnarsi allo Stato. Si pente, comincia a collaborare con i magistrati. Entra nel programma di protezione, va via dalla sua terra, abbandona gli affetti. Abbandona i figli. E per questo scrive a sua madre. “Dio un’unica cosa ti supplico, non fare l’errore mio… a loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io. Dagli quello che non hai dato a me. Ora non ce la faccio a continuare più, voglio solo dirti di perdonarmi mamma della vergogna che ti provoco, ma piano piano mi sono resa conto che in fondo sono sola, sola contro tutti e tutto, non volevo il lusso, non volevo i soldi… era la serenità, l’amore”. Non c’è perdono per Maria Concetta. Non c’è futuro. A lei Roberto Saviano dedica uno dei capitoli del suo nuovo libro, in uscita martedì 16 aprile, certamente uno dei più drammatici ed emozionanti. Noi due ci apparteniamo è il titolo che ha scelto per raccontare le donne che hanno segnato la storia dei clan, vittime o carnefici, comunque protagoniste di quel codice d’onore al quale nessuna di loro è mai riuscita a sottrarsi. Il cuore trafitto che illustra la copertina scelta con “Fuoriscena” è il simbolo perfetto di “Sesso, amore, violenza, tradimento nella vita dei boss”. Perché Saviano sa tratteggiare con maestria i personaggi, gli intrecci, i tormenti di queste donne condannate a stare sempre un passo indietro, talvolta da altre donne che - proprio come la madre di Maria Concetta - hanno come unico obiettivo il rispetto delle regole imposte dalle cosche. E se Lorenza, la figlia del capomafia Matteo Messina Denaro, alla fine ha dovuto chinare la testa dopo l’arresto del boss per non perdere il privilegio della ricchezza, c’è chi non ha accettato né legacci, né compromessi. Come Sabrina Durán Montero, la “reina de TikTok”, che gestiva il traffico di stupefacenti ma sognava di diventare influencer con milioni di follower. “Sabrina Durán Montero, è una brunetta molto carina, ciglia lunghe, unghie smaltate, un visino fatto col pennello. Su TikTok si fa chiamare Juakina Guzmán, ma tutti la chiamano la ina. Sei la più bella! Sei la regina! Che incanto che sei… Esci presto, di’ al tuo avvocato di spicciarsi! Sei ogni giorno più bella! Ti adoro… sei una dea!”. Siamo in Cile, Sabrina è in carcere quando viene arrestata un’altra regina, Antonella Marchant, che guida uno dei clan di Santiago. Sono vite che si incontrano e alla fine si intrecciano, vite che però si spezzano sotto il peso di un’onta che proprio i capi del clan decidono di lavare. Perché in cella Sabrina e Antonella si innamorano e quando la prima lascia la prigione decide di rendere pubblica questa passione, sfidando le regole e i pregiudizi. La foto che Sabrina posta su TikTok mentre bacia Antonella è una provocazione, la dedica è una sfida. “Principessina mia, la amo tanto. Spero di piacerle anch’io, vita mia. Felice di essere la sua donna e che lei sia la mia”. Crescono i follower, i commenti, gli apprezzamenti. Sabrina i milioni di follower è riuscita a conquistarli, così come la fama. Ma è una notorietà che il clan non potrà mai accettare. La descrizione di Saviano sulla sua fine ha il potere di portare il lettore lì dove tutto accade, come fosse un film. “All’incrocio fra la Alberty Blest Ganna e Primera Transversal, due uomini incappucciati aprono lo sportello della macchina, la tirano fuori, le sparano. Sabrina cade a terra, faccia sull’asfalto. Non è morta. I killer stanno andando via. Se solo avesse il sangue freddo di restare ferma. Se solo avesse la freddezza di fingersi morta. Se solo Antonella fosse qui con lei. Ma Antonella non c’è. Nessun mitra sventaglia contro il cielo. E lei quella freddezza non ce l’ha, non l’ha mai avuta. Ha il suo giovanotto che l’aspetta a casa, non vuole morire. Vorrebbe solo che qualcuno la salvasse. E quindi fa ciò che ha sempre fatto, si agita come una bambina, in maniera scomposta. Commette errori. Questo qui è l’ultimo. Uno dei killer la vede, torna indietro, le spara ancora, e ancora, e ancora, finché lei rimane immobile, carne sull’asfalto, residuo umano sul fondo di un pentolone bruciacchiato, raschiatura, rigetto”. La storia di Lou, che Saviano sceglie di mettere all’inizio del libro, fa ben comprendere il valore che i criminali assegnano alle donne, comprese quelle che amano. Lui di sua moglie è certamente innamorato, ma quando al tavolo da poker ha un ottimo full e ormai nessun soldo per rilanciare, non esita. “La sua ultima fiche è la foto della moglie. La estrae dal portafoglio e la lancia sul panno come se fosse un biglietto da cento, né più e né meno. Mi gioco lei”. È la mossa che lo condanna, ma in quel momento Lou non può nemmeno immaginarlo. La passione del gioco, la voglia di rivalsa lo portano a umiliare ciò che dovrebbe essere il bene più prezioso. Gli uomini che proprio lui fa entrare nella stanza da letto per incassare la vincita, il terrore della donna, lo stupro e la sua disperazione lasciano attoniti e storditi, tanto da far apparire giusta la vendetta che viene consumata appena qualche giorno dopo. Anna, Angela, Maria Grazia, Rosa, Gianna, Maria. Sono madri mogli, figlie, amanti. Sono sempre un passo indietro, al massimo di lato. Mai davvero protagoniste. Saviano lo sa, lo spiega. “Il figlio maschio porta con sé la possibilità di ereditare il potere, quella di moltiplicarlo, e anche quella di sostituire il padre. Se occorre fare un omaggio al padre, lo si può fare al figlio. Se occorre vendicarsi contro il padre, lo si può fare contro il figlio. E la figlia femmina? Vale zero. Niente”. Accade quando i capi sono liberi, accade ancor di più se sono detenuti. Perché “padri, fratelli, a volte cugini, vigilano sulla condotta della donna del mafioso perché quello è il capitale da cui dipende tutto, è il titolo nobiliare che puoi smarrire. Se lei tentenna, se prova a costruirsi un’altra vita, se accoglie un altro uomo a cui, eventualmente, può trasferire il titolo, allora l’onorabilità della famiglia, i suoi affari, gli stipendi stessi sono a rischio. I maschi di casa diventano gli occhi stessi del capo incarcerato, non più sensibili all’affetto e al calore del legame famigliare ma alle necessità dell’organizzazione”. E l’organizzazione non perdona chi sbaglia. Mai. “Non dire in Rete quello che non avresti mai il coraggio di dire di persona” di Daniela Di Iorio Corriere della Sera, 16 aprile 2024 A Bergamo il progetto ha già coinvolto 40 scuole medie, ma altrove si comincia già dalle elementari visto che il primo telefono viene regalato a 10 anni. È giunto alla sua terza edizione “Il mio primo telefono”, percorso educativo ideato dall’Associazione Parole Ostili e voluto a partire dal 2021 dal Comune di Bergamo che lo ha replicato per tre anni scolastici consecutivi in 40 classi delle scuole medie. L’obiettivo è quello di sensibilizzare i ragazzi alla consapevolezza e responsabilità sul bullismo e cyberbullismo, le fake news, la privacy, l’hate speech, la web reputation, i rischi e le opportunità della Rete, la vita onlife dei ragazzi, le chat. Primo telefono a 10 anni - Il progetto previsto per Bergamo, con la presenza di 5 formatori di Parole ostili, 19 docenti e 786 studenti, è stato finanziato dal Comune della città lombarda per i ragazzi delle scuole secondarie di primo grado, anche se “il progetto standard dell’associazione è pensato già per le scuole primarie, perché nasce da un’esigenza di Parole Ostili di accompagnare genitori e insegnanti nell’approccio educativo alla consegna dello smartphone che, abbiamo mappato - fa sapere la responsabile comunicazione Tiziana Montalbano -, avviene intorno ai 10 anni, età nella quale i giovanissimi devono già cominciare a sviluppare capacità di gestione e attenzione. Il progetto - sottolinea Montalbano - segue quella che è la nostra missione e filosofia improntata alla comunicazione empatica e non ostile”. Parole alle quali fanno eco quelle della responsabile scuola dell’associazione, Agata Galazzi, la quale fa notare che “la linea editoriale del percorso educativo “Il mio primo telefono” segue la traccia del decalogo del Manifesto di Parole Ostili, e che il libricino dal nome Il mio primo telefono, utilizzato per il percorso educativo nelle scuole di Bergamo, è già presente come strumento didattico nelle scuole primarie dal 2019, anno in cui è uscito”. Il decalogo - Il progetto, che prende infatti il nome dal libro, scritto in una formula adatta ai bambini affinché possano leggerlo insieme agli adulti, riporta i 10 principi del Manifesto della comunicazione non ostile con l’obiettivo di insegnare il peso delle parole e le loro conseguenze, insieme al corretto approccio comportamentale nel mondo virtuale, perché le azioni che si compiono in quel mondo si ripercuotono sempre nella vita reale. Virtuale è reale è infatti il primo punto del Manifesto di Parole Ostili: “Dico e scrivo in rete sole cose che ho il coraggio di dire di persona”. Una delle professoresse che ha seguito le secondarie di primo grado dell’Istituto comprensivo Donadoni di Bergamo, Antonella Garofalo, ha posto l’accento sul fatto che “su Internet i ragazzi spesso parlano con leggerezza, non si rendono conto delle conseguenze delle loro parole e comportamenti, ecco perché il percorso vuole educarli a soffermarsi sulle parole e sui comportamenti da utilizzare, responsabilizzandoli e rendendoli consapevoli del fatto che è facile ferire e farsi ferire, e anche farsi ingannare dal virtuale perdendo il controllo davanti a uno schermo e pensando erroneamente che ciò che si dice e si fa nel virtuale resti in quel mondo, quando invece ha delle ripercussioni pesanti nella vita reale”. Un milione di studenti coinvolti in tutta Italia - A tal fine i formatori mostrano ai ragazzi diversi video, alcuni dei quali testimoniano le conseguenze tragiche del cyberbullismo su alcuni dei loro coetanei. “Erano tutti attenti e sul pezzo, usavano un linguaggio che io non conoscevo - nota l’insegnante -, hanno utilizzato quelle ore al massimo e aspettavano con ansia gli incontri. La scuola ha il compito di seminare, anche se i frutti non li vediamo immediatamente, perché il nostro compito è di partecipare alla formazione delle loro personalit”, conclude fiduciosa la docente. Nella città di Bergamo il progetto ha coinvolto oltre al Donadoni, anche il Tasso, il Camozzi, Codussi, Galgario, Cornagera, Flores, Ic Muzio Colagnola, Ic Muzio Villaggio, Petteni, Nullo, Savoia e il Santa Lucia. Il progetto verrà esteso alle scuole del Comune di Brescia a partire dal settembre del 2024. Parole Ostili, dalla sua nascita nel 2016-17, ha coinvolto più di un milione di ragazzi delle scuole italiane, con le schede didattiche, gli eventi, i percorsi formativi dedicati, le attività digitali. Il lavoro sulle comunità scolastiche è ampio e quotidiano, perché “l’habitat naturale di Parole Ostili è proprio il mondo scuola”, rimarca Galazzi. Ragazzi persi nella ludopatia, dove il banco vince sempre di Thomas Usan Il Domani, 16 aprile 2024 Si affidano ai guru delle scommesse, si fanno catturare dalle slot o dai casinò digitali. Sono i giovani italiani che non riescono a uscire dall’illusione di “vincere facile”. Perdendo un sacco di denaro. “Non riesco ad andare allo stadio senza scommettere. Una volta durante una partita ho perso 500 euro. Con quei soldi avrei potuto pagarmi l’abbonamento per un paio di anni”. Giuseppe (nome di fantasia) ha poco più di 20 anni e, come lui stesso riconosce, è ludopatico. Per il momento non è ancora riuscito ad andare in terapia. Da quasi mezzora è nel bar di paese, precisamente nello stanzino delle slot machine dove l’aria è quasi irrespirabile per il fumo delle sigarette. Distrattamente schiaccia di continuo sul tasto spin, ogni volta punta 50 centesimi. Dopo dieci minuti dall’inizio dell’intervista ha sete ed esce dallo stanzino per comprare un tè alla pesca. Imposta lo spin automatico che gli permette di andare avanti a giocare mentre lui è al banco a ordinare. Dopo essere tornato gioca fino a finire tutte le monete nel portafoglio. Ci sarebbe anche la macchinetta che converte le banconote in piccoli pezzi da uno o due euro. Ma per oggi basta così. Giuseppe da anni cerca di uscire da questo “circolo vizioso”, come lo chiama lui, in cui “si vince qualche soldino ogni tanto, ma poi si perdono gli stipendi la maggior parte delle volte”. Ma Giuseppe non è l’unico ragazzo nella sala. Anche Marco (altro nome di fantasia), 25enne, è dipendente dal gioco d’azzardo. La sua storia, però, comincia da molto più lontano, quando era ancora minorenne: “La mia dipendenza dal gioco è iniziata quando ero ragazzino - racconta -. Stavo camminando per strada e ho trovato per terra un Gratta e Vinci nuovo. L’ho portato a casa a mio padre e abbiamo vinto 100 euro”. L’inizio della fine. Da quel momento Marco non riesce più a smettere: “Non dimenticherò mai il brivido di adrenalina che ho provato in quel momento. Da lì ho iniziato a giocare alle macchinette al bar di nascosto e, qualche anno dopo, anche ai casinò online. Ho perso tantissimi soldi e da quando ho iniziato a lavorare la situazione è peggiorata”. E anche con le piattaforme digitali non è andata meglio: “Una volta ho vinto duemila euro, dopo poco ho raddoppiato la vincita - spiega -. In preda all’adrenalina ho deciso di continuare a giocare, fino a quando sono rimasto con poco più di mille euro”. Giovani e indifesi - Ma Marco e Giuseppe non sono gli unici ragazzi a essere entrati in questo circolo vizioso. La ludopatia è un fenomeno che in Italia sta dilagando tra i giovani. Secondo i dati dell’Osservatorio del gioco d’azzardo dell’Istituto superiore della sanità, sono circa il 42 per cento gli adolescenti che scommettono denaro periodicamente. Il 5 per cento sono anche dei frequent player, ovvero che giocano almeno una volta alla settimana. Generalmente la spesa di partenza è di 5 euro, ma la cifra sale di molto quando, dopo una perdita, si cerca di recuperare il denaro. Secondo il Centro torinese di solidarietà, le conseguenze della ludopatia non colpiscono solo il portafoglio, ma anche la salute. Tra i sintomi più comuni si possono individuare ansia, insonnia, tendenza all’isolamento e irritabilità. Nel caso dei giovanissimi il gioco può avere un effetto ancora più devastante sulla crescita. Anche se, in base a uno studio del 2018 dell’Università di Bologna e di Nomisma, solo il 6 per cento dei ragazzi, tra i 14 e i 19 anni, che scommettono è consapevole di aver sviluppato una dipendenza verso l’azzardo. Questo avviene, secondo l’Osservatorio, perché già in famiglia o nella cerchia di amici sono presenti casi di ludopatia. Diventa quindi la normalità. Un fenomeno in crescita - Il fenomeno nei giovani è dilagato negli ultimi anni. Paolo Jarre, uno dei massimi esperti italiani di gioco d’azzardo (che ha in questo momento in cura anche il calciatore della Juventus Nicolò Fagioli, sospeso per scommesse illecite), incontra ogni giorno decine di ragazzi che spendono le loro paghette nelle cosiddette “schedine sportive” (ma non solo): “In questi anni ci sono stati diversi fattori che hanno determinato un forte incremento della ludopatia tra i giovani - spiega -. Innanzitutto l’offerta dei siti è progressivamente aumentata in modo molto importante. Lo spostamento delle piattaforme online ha reso possibile le scommesse in qualsiasi momento. Chiaramente la pandemia ha dato un’accelerata alla diffusione del gioco d’azzardo”. E le piattaforme, secondo Jarre, hanno un ruolo attivo nello sviluppo della dipendenza, poiché utilizzano “una serie di stratagemmi” per esempio concedono al giocatore delle “vincite piccole e frequenti, che scatenato nel ragazzo un meccanismo di condizionamento operante di tipo comportamentale, come succede in laboratorio con gli animali, a cui vengono dati dei piccoli incentivi per invogliarli a proseguire la propria attività”. Ma non è tutto: “Le luci e i suoni vengono impiegati in modo tale da poter, come dicono le piattaforme, fidelizzare il pubblico ma in realtà sono tutti degli stratagemmi per creare dipendenza” dice l’esperto. Tutto ciò è ancora più rischioso per i giovani perché “teoricamente possiedono meno strumenti per difendersi e di conseguenza sono più esposti all’offerta commerciale” perché “non hanno ancora sviluppato una coscienza etica rispetto a certi temi”. I guru delle scommesse - Negli ultimi anni è esploso anche un altro fenomeno, quello dei “guru delle scommesse”, ovvero delle persone che in ambito sportivo consigliano delle puntate da fare attraverso i loro canali Telegram, tenuti in costante aggiornamento ogni giorno. Alcuni di loro hanno centinaia di migliaia di iscritti. In certi casi consigliano in prima persona delle piattaforme, dalle quali ricevono compensi. “Il fatto più clamoroso riguardo questi personaggi è che riescono ad avvicinare a loro anche dei giovani molto svegli - sottolinea Jarre -. Poco tempo fa ho incontrato un ragazzo all’ultimo anno di liceo scientifico che ha la media del nove in matematica. Anche lui segue un guru. Questi personaggi hanno fatto un po’ da catalizzatori nel processo di avvicinamento dei ragazzi al mondo delle scommesse”. Il rischio, a questo punto, è quello di entrare in un “circolo vizioso”: “Più si gioca più si perde - conclude l’esperto -. È fondamentale ricordare che le piattaforme di gioco non fanno beneficenza: il banco vince sempre, non ci sono eccezioni. Non serve a niente quando si perde cercare di recuperare il denaro puntando ancora, perché progressivamente si perde ancora di più”. Migranti. “Io Capitano, assolto perché guidavo in stato di necessità” di Giansandro Merli Il Manifesto, 16 aprile 2024 Oggi da casa sua Jallow Momodou vede il carcere dove ha trascorso la prima notte in Italia. La condanna a 4 anni e 8 mesi del processo di primo grado è stata annullata in appello. “Ogni volta che esco da casa mia vedo il carcere di Ragusa, dove ho trascorso la mia prima notte in Italia”. Jallow Momodou adesso si dice “in pace”: lavora al Caffé Italia, nella centrale piazza San Giovanni; ha acquistato un appartamento; si è sposato e vive con la moglie. Originaria della Guinea Conakry e conosciuta prima di partire, lo ha raggiunto in Sicilia dieci giorni fa per ricongiungimento familiare. “Fortunatamente non ha dovuto affrontare il viaggio toccato a me”, dice guardandosi indietro, ripensando al suo percorso: una moderna Odissea. Partiamo dalla fine. Il 21 aprile 2017 Momodou sbarca a Pozzallo. Pensa di essere finalmente al sicuro. “Invece mi arrestano come fossi un grande criminale. Non capivo neanche perché”. All’arrivo in porto il ragazzo, che non ha ancora compiuto 19 anni, dice la verità: “Ho guidato il barcone, sono stato costretto”. Rimane in cella tre giorni. Lo interrogano. Il fermo viene convalidato, ma a piede libero. Da quando ha lasciato il Gambia sono già trascorsi due anni. Ha attraversato Senegal, Mali, Burkina Faso e Niger, prima della Libia. Più si allontana da casa più aumentano le difficoltà. Ad Agadez ha finito i soldi. Prima di arrivare a Sabha, snodo libico per le persone dirette a nord, viene arrestato. Riesce a uscire. Cerca lavoro nei chat place, alle rotonde. Fa il muratore, bada agli animali. Un giorno viene portato lontano, lavora duramente per due settimane, quasi senza cibo. Ma non lo pagano e rischia di essere abbandonato nel deserto. Dopo varie peripezie raggiunge Tripoli. “Qui il lavoro alle rotonde era troppo pericoloso. Nelle case o nei bar era più sicuro, ma pagavano al mese: rischiavi di lavorare tanto e non vedere i soldi. I libici lo fanno spesso: ti puntano le armi addosso e ti dicono di andartene. O peggio: a volte ubriachi vanno alle rotonde e sparano, come sugli animali”. Momodou decide di rischiare la sorte. Si fa assumere in un bar, l’impiego che ritroverà in Italia. Vive lontano dal centro. “Non potevo muovermi. Fuori non mi sentivo sicuro. Così ho deciso di riprendere il viaggio, anche se ero arrivato in Libia per restarci”. Si mette in contatto con dei trafficanti. La partenza è dalle coste di Sabratha, 70 chilometri a ovest di Tripoli. La prima e la seconda volta “dei mafiosi si avvicinano e forano il gommone”. Bisogna rientrare subito. Anche nel terzo tentativo ci sono problemi con il mezzo: ma ormai la costa è lontana, sono in acque internazionali. Dei pescatori egiziani li vedono e con una fune trasbordano quelli che possono. “C’erano donne che urlavano perché non trovavano i figli o i mariti”. All’arrivo a terra si aprono le porte di Beni Walid. Un nome che fa venire i brividi ai migranti subsahariani che hanno attraversato la Libia. Due parole che corrispondono a un centro di tortura. “Sai come stanno le sardine in una scatola? Ci tenevano così. Ci facevano chiamare a casa durante le botte. Si esce se paghi o se qualcuno ti compra. Mia madre si è indebitata per mandare dei soldi. Mi ha salvato la vita”. Così viene riportato a Tripoli. Cerca il trafficante a cui ha dato i soldi. Li vuole indietro. Quello gli offre un nuovo viaggio. Lo riporta a Sabratha. Momodou dorme per strada quattro mesi, attendendo una partenza. Poi incontra un uomo, si chiama Coffee. “Mi ha promesso di aiutarmi. A Zawyia c’erano uomini potenti che potevano farmi arrivare in Italia. Mentre andavamo lì con la sua macchina mi diceva di stare tranquillo. Avrei solo dovuto fare un lavoretto. Senza aggiungere altro”. All’ingresso della struttura Coffe si fa dare 600 dinari da un uomo e scarica il ragazzo. “Sono rimasto a bocca aperta. C’erano migliaia di persone, di ogni nazionalità. Io, però, ero tenuto da parte, insieme a qualcun altro”. Una notte Momodou viene portato in spiaggia. Caricato su un gommone insieme a 140 compagni di viaggio. Intorno ci sono libici armati e a volto coperto. Alcuni indossano vestiti militari, ma non tutti. Uno sale sul loro mezzo e guida per un po’, scortato da una seconda imbarcazione veloce. A un certo punto ferma il motore. “A me ha detto di guidare, a un altro di tenere la bussola. Ho risposto che non sapevo farlo. Mi ha puntato la pistola. Poi mi ha spiegato come muovere il timone, dove andare e come usare un grosso telefono. Così ci hanno lasciati in mezzo al mare”. Nelle prime ore da terra i trafficanti chiamano Momodou, chiedono dove si trova, ripetono di andare dritto, dicono che se torna indietro lo ammazzano. Con l’aiuto di alcuni pescatori libici, che però si fanno consegnare risparmi e telefono satellitare, i migranti raggiungono le acque internazionali. Sono spaventati, il mare peggiora. “Ho pensato: se vado avanti moriamo tutti, se torno indietro muoio solo io. Quindi sono già morto, provo a salvare gli altri”. Poco dopo aver invertito la rotta, però, appaiono delle luci. Si riveleranno i gommoni di soccorso di una nave, “una grande nave arancione”, probabilmente di una Ong. Sembra fatta. Allo sbarco a Pozzallo, però, scattano le manette. In primo grado arriva una condanna pesante per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: 4 anni e 8 mesi di carcere e oltre 2 milioni di multa. I sogni rischiano di infrangersi. “Il fatto c’è. C’è il trasporto. La prima sentenza, però, sostiene che il mio assistito era parte dell’organizzazione che sta dietro al viaggio. In appello, invece, abbiamo dimostrato che aveva guidato per stato di necessità: per salvare la vita sua e degli altri, dal mare e dai libici”, dice l’avvocato Marco Comitini. Quello di Momodou non è un caso isolato. Sono migliaia le persone che si trovano nelle carceri italiane con accuse simili. Spesso a fare la differenza è la qualità della difesa, non sempre garantita fino in fondo a persone appena arrivate. Dal naufragio di Cutro in poi il governo aveva annunciato l’intenzione di dare la caccia agli scafisti “in tutto il globo terracqueo” e di usare il pugno di ferro in Italia. Dagli ultimi numeri del Viminale, però, non è possibile capire se i capitani arrestati siano effettivamente aumentati o diminuiti rispetto agli scorsi anni. Questa volta è stato fornito soltanto un dato aggregato: 425. “La cifra non include solo le persone accusate di aver guidato una barca - afferma Richard Braude, di Arci Porco Rosso, che cura un report annuale - Ma tutta una serie di reati legati all’immigrazione clandestina. Servirebbe maggiore trasparenza per capire meglio le attività di polizia sul tema”. Di sicuro grazie al lavoro di associazioni e avvocati negli ultimi anni tante persone sono state riconosciute innocenti. Casi che fanno giurisprudenza e trasmettono una diversa interpretazione del fenomeno. Contribuendo a evitare che i migranti siano condannati per assolvere i confini. Migranti in Albania, via ai lavori per Cpr e hotspot: il racconto dai cantieri Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2024 Un compound al porto di Shengjin, le vecchie strutture militari a Gjader dove per evitare le fughe dei profughi verrà eretto un muro di contenimento alto 7 metri. “Repubblica Italiana. Realizzazione di due centri per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria. Sito di Shengjin”. Partiti i lavori in Albania, ecco come il governo di destra sposterà la frontiera migratoria a oriente. Dieci giorni fa gli italiani hanno iniziato a mettere le mani all’hotspot nel piccolo porto nel nord dell’Albania dove verranno accolti i naufraghi recuperati dalle motovedette della Guardia costiera e della Guardia di finanza nel canale di Sicilia. Il cartellone all’esterno annuncia l’inizio attività il 23 marzo scorso, in realtà le ditte arrivate dall’Italia stanno operando da pochi giorni. Qualcosa inizia a muoversi anche nell’ex base militare di Gjader, abbandonata da anni nella campagna a una ventina di chilometri a nord-est di Shengjin (in italiano San Giovanni Medua). Qui all’ombra della montagna, dove durante la guerra fredda il regime di Enver Hoxa celava i suoi aerei da combattimento, sorgerà il Cpr dove i profughi maschi verranno tenuti come in un carcere, isolati da tutto e tutti. Procediamo con ordine, partendo dalla costa e dal minuscolo scalo di Shengjin, seguendo la rotta e i movimenti che faranno i poveri cristi salvati in mare. A 90 km a nord di Durazzo, fino a qualche anno fa accoglieva i traghetti da Bari nel periodo estivo, poi quel traffico si è arenato. Restano pochi pescherecci in quasi totale disarmo. L’unico movimento è al cantiere dell’hotspot. Siamo riusciti a entrare e a vedere con i nostri occhi cosa si sta facendo. Per ora un’area è stata spianata e lì sorgerà la struttura di prima accoglienza per migranti, tra identificazioni e impronte digitali. Opere e oneri a carico dell’Italia, appaltati dal governo alla società di Ingegneria Akkad con sede a Roma, Soggetto Attuatore l’Aeronautica Militare e Stazione Appaltante il Ministero della Difesa con la Direzione Generale dei lavori affidata all’ingegner Giancarlo Gambardella. C’è fretta di terminare l’opera, la premier Meloni vorrebbe inaugurare di persona la struttura il 20 maggio. A occhio e croce siamo in ritardo, non tanto a Shengjin quando a Gjader. Proviamo a chiedere lumi agli addetti dell’azienda che segue il cantiere, ma quando sentono le parole “giornalista italiano” scappano nel container di rappresentanza. Siamo a metà aprile, eppure da giorni la temperatura a Shengijn è fissa a 30 gradi. Le decine di hotel di lusso sono quasi del tutto ancora vuoti, i turisti, kosovari in larghissima parte, inizieranno ad arrivare soltanto a fine maggio. Eppure qualche ombrellone aperto sulla spiaggia sabbiosa c’è. Il porto si trova all’estremità nord del golfo di Shengjin, protetto da una collina verdeggiante puntellata da strutture militari in disuso miste a ville super lusso, tutte rigidamente abusive. Quasi nessuno in Albania, soprattutto a Lezhe, il capoluogo di cui Shengjin fa parte, sa come funzionerà realmente l’accordo tra Italia e Albania: “Da quanto abbiamo capito - spiega Frano, un uomo d’affari con molti interessi e rapporti strettissimi con l’Italia - i migranti arriveranno dall’Italia e noi li dovremmo tenere dentro queste strutture prima di consegnarli ai Paesi d’origine. Se è così non ci sono problemi, altrimenti per il turismo e per noi sarebbe un grosso problema”. Pochi, compreso Frano, sanno come stanno davvero le cose, le priorità sono la tenuta sociale di una zona già depressa rispetto al florido sud dell’Albania dove Edy Rama, il premier albanese, ha puntato le sue attenzioni di sviluppo. Sono le campane e i galli che svegliano all’alba e non il muezzin. Qui a Lezhe (Alessio, il capoluogo della provincia) come a Gjader, che ufficialmente conterebbe circa 7 mila abitanti, ma in realtà è abitato da poche centinaia di anime: “I residenti sono quasi tutti all’estero o a Tirana” spiega un cronista locale. Ci accompagna al sito vero e proprio, dove i migranti africani e asiatici potrebbero restare da 28 giorni, il tempo minimo per le pratiche di asilo, fino a 18 mesi: “Ho provato ad avere informazioni ufficiali dal governo, ma non c’è stato verso. Ci dicono che lì dentro ogni anno dovrebbero transitare circa 36 mila stranieri (3 mila è la potenzialità mensile di accoglienza, sulla carta, moltiplicata per i dodici mesi dell’anno), ma per il resto non si sa altro”. Cooperazione allo sviluppo, l’Italia in un anno ha tagliato 631 milioni di Luca Liverani Avvenire, 16 aprile 2024 L’Ocse: i fondi scesi dallo 0,33 allo 0,27%. Si allontana l’obiettivo dello 0,7%. Per la Campagna 070 “il nostro Paese non mantiene la parola data”. Oxfam: “Altro che Piano Mattei”. Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) in fase di stagnazione in gran parte dei Paesi ricchi. Il 2023 registra una crescita di appena l’1,8%, dovuto per lo più al sostegno alla crisi in Ucraina. Ma nessun nuovo sforzo per aiutare i paesi poveri attraversati da guerre, carestie, crisi climatica. L’Italia non è certo tra i paesi in fase di stallo. Si distingue eccome, peccato però che lo faccia in peggio. Non solo non cresce, ma arretra. In un anno siamo scesi infatti dallo 0,33% del Reddito nazionale lordo destinato all’Aiuto pubblico, allo 0,27% nel 2023. Un taglio drastico di ben 631 milioni di dollari. E un terzo dei fondi destinati alla cooperazione viene speso nell’accoglienza sul territorio nazionale dei richiedenti asilo. Non esattamente un modo per aiutare i paesi di provenienza a crescere e poter fare a meno dell’emigrazione. Non esce affatto bene l’Italia della cooperazione allo sviluppo dai nuovi dati preliminari 2023 del Comitato per l’aiuto allo sviluppo dell’Ocse. È stato un anno che comunque ha registrato uno scarso impegno dei paesi ricchi, che hanno destinato in media lo 0,37%agli aiuti allo sviluppo, con un incremento molto piccolo rispetto allo 0,36 del 2022: da 211 miliardi di dollari a 223,7 nel 2023. Considerando il traguardo dello 0,70%, comunque, i 21 paesi donatori dell’Unione europea raggiungono in media lo 0,52% del rapporto Aps/Rnl, pari a 92,6 miliardi di dollari, il 41% del totale. E gli Usa il 30%. Lo 0,70 non è un traguardo irraggiungibile. L’anno scorso 5 paesi europei - Lussemburgo, Norvegia, Svezia, Danimarca e Germania - hanno raggiunto l’obiettivo dello 0,7%, cruciale per il presente e il futuro di centinaia di milioni di persone. Non l’Italia, già lontana, che ha fatto un altro passo indietro. Nel dettaglio, l’Aps italiano cala proprio nelle voci dove più necessario sarebbe investire. Innanzitutto il calo è soprattutto nell’aiuto bilaterale, cioè tra Italia e singoli paesi, più che in quello a sostegno delle agenzie internazionali. Nel bilaterale in realtà il calo in un anno è molto più grave, pari al 25%, non il 15,5%. E nonostante i ripetuti impegni annunciati dal governo di Giorgia Meloni per “aiutare gli africani a casa loro”, il nostro Paese è passato in un anno dai 515 milioni del 2022 per aiuti bilaterali ai Paesi africani, a 351 milioni nel 2023. Cioè il 32% di meno in un anno. Non va meglio per i fondi destinati ai cosiddetti Paesi a basso tasso di sviluppo (Ldc), ovvero i più poveri e fragili, che calano da 381 milioni di dollari nel 2022 a 265 nel 2022 (una riduzione drastica del 30%). Colpi d’ascia anche sugli aiuti destinati a fronteggiare le più gravi crisi umanitarie, che crollano di ben 143 milioni, passando da 398 milioni a 255 (meno 36%). Si conferma poi, ampliandosi, la scelta di spendere fondi destinati allo sviluppo dei paesi poveri in attività sul territorio nazionale. Per l’accoglienza dei richiedenti asilo, infatti, non c’è uno stanziamento di risorse aggiuntive, ma si va a pescare nel bilancio per la cooperazione allo sviluppo: da 1.480 milioni nel 2022 il governo è arrivato a spendere 1.609 milioni nel 2023, circa il 27% - più di un quarto - del totale dell’aiuto pubblico italiano. “Certamente su questi numeri pesa l’aumento degli arrivi attraverso il Mediterraneo - afferma il portavoce di Oxfam Francesco Petrelli - passati da 104 mila nel 2022 al numero record di 155 mila nel 2023. Risorse che ancora una volta però - fa notare - non vengono destinate ai Paesi poveri”. Netto il giudizio della Campagna 070: “Da questi dati appare evidente che l’Italia non mantiene la parola data. Anziché aumentare gli investimenti in cooperazione internazionale, mantenendo l’impegno di destinare lo 0.70% in aiuto allo sviluppo, si torna indietro”, commenta Ivana Borsotto, presidente Focsiv e portavoce della Campagna 070, sostenuta anche da Oxfam. “Con un calo particolarmente duro - dice - per l’Africa e i paesi più fragili. Altro che Piano Mattei! Dove vanno a finire le promesse, le dichiarazioni e gli impegni? Chiediamo al Governo e al Parlamento, con spirito di dialogo, più coerenza e determinazione nel cambiare marcia, a partire dalla prossima Legge di Bilancio. In nome della credibilità e responsabilità dell’Italia nel mondo e verso l’Africa”. Medio Oriente. Perché Gaza è ancora più isolata di Francesca Mannocchi La Stampa, 16 aprile 2024 Nella Cisgiordania già piegata dalla crisi aumentano le violenze dei coloni e la povertà. Venerdì scorso, Binyamin Achimair, un quattordicenne israeliano, è scomparso alle 6.30 del mattino da Malachi Hashalom, un avamposto di coloni israeliani nei pressi di Ramallah, centro amministrativo della Cisgiordania. Secondo la ricostruzione dei media israeliani il giovane si era allontanato per pascolare il bestiame e i suoi familiari hanno lanciato l’allarme quando hanno visto tornare una pecora sola, non accompagnata né dal resto del bestiame, né dal ragazzo. Migliaia di unità di volontari si sono unite alle ricerche per ore, finché, il giorno dopo, con l’aiuto di un drone, il corpo è stato ritrovato nelle vicinanze. Dopo il ritrovamento i coloni israeliani hanno scatenato una reazione furiosa contro le comunità palestinesi, secondo il gruppo israeliano per i diritti umani Yesh Din 10 villaggi in Cisgiordania sono stati attaccati. In particolare, ad al-Mughayyir, sono state bruciate 12 case e varie automobili, a Qusra, a sud di Nablus, tre case e diverse automobili sarebbero state danneggiate dagli incendi; e a Beit Furik, a est di Nablus, ci sono state segnalazioni di scontri tra coloni e palestinesi. Nel villaggio vicino, Douma, sono state date alle fiamme 15 case e 10 fattorie e, secondo fonti dell’Associated Press, l’esercito giunto sul posto ha protetto i coloni anziché tentare di fermarli. Il risultato degli scontri, oltre ai danni fisici dei villaggi, è di 25 feriti e una vittima: il palestinese Jehad Abu Alia, di 26 anni. Anche un fotografo del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, Shaul Golan, arrivato al villaggio di al-Mughayyir per documentare gli eventi, è stato attaccato da un gruppo di coloni armati. Ha dichiarato al suo giornale che passeggiava cercando di scattare foto quando un gruppo di uomini mascherati è uscito da un campo di ulivi e ha cominciato a bruciare le case vicine. Si è nascosto sotto un tavolo mentre i coloni si avvicinavano e avvertiti da un bambino lo hanno picchiato, rompendogli un dito e sequestrando la borsa della sua attrezzatura per bruciarla. Hanno perquisito le tasche per portare via le schede di memoria nascoste. Golan ha cominciato a gridare di essere ebreo, non arano. Gli hanno risposto: e non ti vergogni? “Erano 20, 30, alcuni indossavano uniformi dell’esercito, mi hanno preso a calci in testa e nello stomaco, lasciandomi nudo, gettando via le chiavi della moto” per impedirgli di tornare a casa. È solo l’ultima drammatica cronaca della Cisgiordania in fiamme, l’altro fronte della guerra, dove dopo il 7 ottobre 460 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano e dove nelle ultime ore i gruppi in difesa dei diritti umani affermano che i palestinesi siano stati “abbandonati alla violenza selvaggia delle milizie di coloni armati”. “Una forma di violenza autorizzata dallo Stato”, secondo Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina. Una violenza che non è scalfita dalle sanzioni, anche perché colpendo i singoli non colpisce l’impalcatura complessiva, cioè i funzionari, i leader politici che hanno costruito l’impunità su cui le loro azioni si poggiano e hanno anzi facilitato la violenza armata dei gruppi dei coloni. Distribuendo armi d’assalto e continuando a sostenere l’espansione delle colonie illegali. Economia sull’orlo del baratro - Poco meno di un mese fa, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), un’agenzia delle Nazioni Unite focalizzata sul miglioramento degli standard lavorativi in tutto il mondo, ha dichiarato che il conflitto israelo-palestinese stesse spingendo il tasso di disoccupazione palestinese nella Cisgiordania occupata e a Gaza a oltre il 50%. Tradotto in numeri significa mezzo milione di posti di lavoro persi e - dice il rapporto - se la guerra continuasse fino alla primavera inoltrata raggiungerebbe un tasso record del 57%. Ruba Jaradat, Direttrice regionale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro per gli Stati arabi ha affermato, a marzo, che la distruzione delle infrastrutture, delle scuole, degli ospedali e delle imprese a Gaza ha “decimato interi settori economici e paralizzato l’attività del mercato del lavoro, con indicibili ripercussioni sulla vita e sui mezzi di sussistenza dei palestinesi per le generazioni a venire”. In Cisgiordania, negli ultimi mesi sono 100 mila i posti di lavoro andati persi, per il blocco dei permessi e quello fisico dei lavoratori impediti a lasciare le proprie comunità dai più di 650 check-point permanenti e temporanei in tutto il territorio, che hanno aggravato la crisi economica, immobilizzando di fatto i lavoratori. Dal giorno del massacro in Israele, adducendo ragioni di sicurezza, i palestinesi in Cisgiordania, che abitualmente lo facevano, non possono recarsi in Israele, privati della fonte primaria, spesso unica, di reddito e, a sei mesi dall’inizio della guerra a Gaza, l’intera economia è sull’orlo del baratro. Nella sola Nablus, come riporta il Washington Post, le forze israeliane da tempo controllano le quattro uscite dalla città, due sono chiuse dall’autunno, le altre aperte a singhiozzo e chiuse arbitrariamente. Nelle altre strade, quelle fuori pista, in campagna, hanno installato cancelli meccanici o posto cumuli di terra e massi per bloccare il passaggio in entrata e in uscita, con la conseguenza che i villaggi sono tagliati fuori gli uni dagli altri, e i lavoratori rimangono bloccati ore nel tentativo quotidiano di lasciare la città. Secondo la Banca Mondiale, i salari dei lavoratori transfrontalieri ammontano a 5,5 miliardi di dollari all’anno, circa un terzo dell’economia combinata della Cisgiordania e di Gaza, territori in cui il prodotto interno lordo pro capite nel territorio ammonta a soli 4.500 dollari all’anno, mentre oltre il confine, in Israele, è pari a circa 55.000 dollari. Dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, Israele ha imposto ampie restrizioni all’economia palestinese, ha revocando i permessi di lavoro di oltre 170.000 lavoratori palestinesi, secondo la Banca Mondiale, così che decine di migliaia di persone che lavoravano illegalmente in Israele sono ora senza lavoro, secondo il gruppo israeliano per i diritti B’Tselem, negli ultimi cinque mesi Israele ha eretto dozzine di nuovi posti di blocco militari e bloccato l’accesso alle città e ai villaggi sulle strade principali e l’aggravarsi delle restrizioni ha soffocato il commercio e la produzione locale, impedendo ad altri 70.000 palestinesi di tornare fisicamente al posto di lavoro. In più il governo israeliano ha trattenuto per mesi le entrate fiscali che raccoglie per l’Autorità Palestinese, perciò l’AP, che controlla parti della Cisgiordania, ha tagliato i salari dei suoi circa 140 mila lavoratori che nell’ultimo trimestre dello scorso anno non hanno ricevuto stipendio. “Il colpo peggiore alla nostra economia dalla fondazione dell’Autorità Palestinese, nel 1994”, ha detto Manal Farhan, vice ministro dell’economia dell’AP. I segni della mancanza di liquidità ci sono tutti: donne che provano a vendere oro nelle botteghe delle città, i bambini mendicano o vendono caramelle ai bordi delle strade, i negozianti con una lista di debitori che si allunga ogni giorno di più, madri di famiglia che provano a raccogliere metalli e lamiere da rivendere per sfamare i figli, perché gli uomini sono a casa, ormai in maggioranza disoccupati. Il rischio è che le difficoltà economiche si traducano in tensioni sociali. Khalil Shikaki, accademico che dirige il Centro palestinese per la politica e la ricerca sui sondaggi a Ramallah, teme che la crisi economica possa diventare un ulteriore ingrediente “di una miscela facilmente infiammabile”, numeri alla mano. Intervistato un mese fa dall’emittente americana NPR ha sottolineato che dall’inizio della guerra, il consenso intorno ad Hamas in Cisgiordania è più che triplicato, dal 12%, pre 7 ottobre, al 42% secondo i più recenti sondaggi. Dati che si combinano agli attacchi dei coloni che portano un numero crescente di palestinesi a ritenere che non sia possibile una soluzione diplomatica alla crisi, che l’unica sia la violenza come risposta alla violenza. “La Cisgiordania è in ebollizione”, aveva detto Shikaki, “e aspetta solo la scintilla che potrebbe portare a una grande esplosione”. “Il popolo palestinese è abituato alle crisi”, ha detto Iyad Kordi, segretario generale della Camera di Commercio di Nablus, ma “quello che vedo adesso, non l’ho mai visto”. Quest’inverno, i funzionari locali hanno affermato che centinaia di famiglie hanno contrattato per la prima volta denaro, cibo o riscaldamento di base”. Il timore è che la scintilla possa essere determinata dalla sovrapposizione delle crisi: la disperazione economica, l’espansione degli insediamenti, l’annessione di terre palestinesi senza precedenti, i disordini e gli scontri quotidiani tra palestinesi e coloni, il controllo dei movimenti. Che tutto questo, cioè, stia inesorabilmente portando, soprattutto i più giovani dei campi profughi impoveriti, a unirsi ai gruppi armati in un presente che vedono sempre più privo di soluzioni politiche e riempito solo da povertà e violenza.