Le carceri scoppiano, ma la liberazione anticipata è ancora ferma alle audizioni di Liana Milella La Repubblica, 15 aprile 2024 Dopo 17 mesi e 24 giorni di sciopero della fame di Roberto Giachetti e di Rita Bernardini la commissione Giustizia non va oltre il primo gradino. Eppure la situazione è disperata. Politica degli annunci e delle bufale sulle carceri. E politica all’insegna della routine. Come sempre. Ma se di mezzo ci sono le patrie galere e ci sono i suicidi, e se per giunta incombe anche l’estate, allora bufale, annunci, indifferenza politica diventano un crimine. Tra gli specialisti degli annunci mediatici c’è il Guardasigilli Carlo Nordio: sempre attraverso il Messaggero (di cui era collaboratore) annuncia accordi con i Paesi stranieri per rimandare lì i detenuti. O, ancora, 2.300 posti in più grazie a ristrutturazioni. Peccato che la possibilità degli accordi con gli Stati esteri già esista, ma con due problemi, quegli Stati non li vogliono, e in alcuni si pratica la tortura (vedi Egitto) soprattutto se chi è riuscito a fuggire è un oppositore politico. Ma tant’è. Magari per una manciata di denaro - il meloniano piano Mattei - qualche carcerato se lo ripigliano pure. E se poi muore “chissenefrega”. Quanto ai nuovi posti forse Nordio non ha in mente i numeri che parlano di diecimila carenze di posti (al 31 marzo, nelle patrie galere, c’erano 61.049 detenuti a fronte di una capienza massima di 51.178). Quindi i suoi 2.300 sono una goccia nel mare. Cos’altro resta della politica penitenziaria del Guardasigilli, annunci mediatici a parte? Quei 5 milioni di euro per assumere figure professionali anti suicidio, ma chi sa di carcere dice che basterebbero appena per garantire al massimo 4 ore di aiuto psicologico al mese. Quindi nulla. E veniamo all’indifferenza politica. O peggio, alla volontaria strategia dell’inabissamento quando una proposta è indigesta solo perché fa perdere voti, soprattutto in periodo elettorale (Amministrative ed Europee alle viste). Parliamo di quella di Roberto Giachetti, la “liberazione anticipata speciale”, 60 giorni di sconto di pena per ogni semestre invece degli attuali 45, da riconoscere “al condannato che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione”. Quindi non stiamo parlando di un regalo, di uno svuota carceri, ma di una misura che premia un detenuto che si è già messo sulla retta via. Giachetti, deputato di Iv, per farla inserire nell’ordine del giorno della Camera, è stato in sciopero della fame assieme a Rita Bernardini, la presidente di ‘Nessuno tocchi Caino’, per 24 giorni. E Sergio Mattarella, all’ennesimo suicidio, ha convocato al Quirinale il direttore delle carceri Giovanni Russo. Ma quando è stata depositata la proposta di legge? Il 14 novembre 2022. A governo insediato da due settimane. Sono trascorsi 17 mesi. La tragica statistica dei suicidi in carcere ci dice che ne sono morti 84 nel 2022, 69 nel 2023, e già 31 quest’anno. E che cosa fa la Camera? Procede con le audizioni. Come quelle del procuratore nazionale Antimafia, Giovanni Melillo, del professor Glauco Giostra, del procuratore di Catania Sebastiano Ardita. Sicuramente gli esperti. Ma cosa possono mai dire che già non sia “arci e stra” noto? Soprattutto perché di fronte ai detenuti che muoiono non c’è la stessa accelerazione - quella sì elettoralmente utile - che c’è sui test per le toghe, sulla stretta per le intercettazioni, sulla prescrizione, sull’abuso d’ufficio, perfino sulla separazione delle carriere? Una sola risposta è possibile, e riguarda il cinismo insopportabile della politica che se la cava con belle parole e nessun fatto. Tanto i detenuti stranieri non votano neppure in Italia. E i potenziali suicidi italiani non voterebbero sicuramente neanche in galera. Suicidi in carcere, la strage continua di David Allegranti publicpolicy.it, 15 aprile 2024 “Sui suicidi in carcere servono interventi urgenti”, diceva lo scorso 18 marzo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel frattempo i detenuti che si sono tolti la vita in carcere sono diventati trenta. Una strage che facilmente rischia di superare il triste record del 2022, quando i suicidi fra i ristretti furono 84. Per questo, per provare a sensibilizzare la pubblica opinione, ma soprattutto la politica, la conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale ha organizzato per questo giovedì, 18 aprile, una giornata di mobilitazione nelle città. “Ormai non si fa più in tempo ad enumerare i casi di suicidio che si è subito costretti ad aggiornarne l’agghiacciante elenco. È uno stillicidio insopportabile, al pari della sensazione di inadeguatezza delle attività di prevenzione. E dunque, è più che mai doveroso analizzare e decifrare il drammatico fenomeno del sovraffollamento carcerario, ribadendo, ancora una volta, con forza l’impellente necessità di interventi urgenti”, dice la conferenza dei garanti. La maggioranza dei detenuti vive, per oltre 20 ore al giorno, in celle sovraffollate, dalle quali esce solo durante le ore d’aria: “Questo rappresenta, senza dubbio, una patente violazione dei principi e delle garanzie riconosciute dalla nostra Carta costituzionale e dall’Ordinamento penitenziario. Tale situazione non è insuperabile. È necessario riempire di senso, il tempo della detenzione, offrendo più attività ‘trattamentali’ (culturali, lavorative, sportive e ricreative). Le relazioni familiari e col volontariato devono essere potenziate anche con l’aumento dei colloqui, delle telefonate, delle videochiamate”, dicono i garanti. “Si sottolinea, altresì, l’assoluta necessità di personale specializzato (psicologi, educatori, psichiatri, pedagogisti, assistenti sociali, mediatori linguistici) che dia ascolto ai detenuti e ne riesca a cogliere le ragioni di intollerabile sofferenza. È necessario un maggior numero di misure alternative alla detenzione rendendo efficiente ed efficace la Giurisdizione di Sorveglianza, anche destinando maggiori risorse. In effetti, sono diverse migliaia i detenuti con una condanna definitiva inferiore o pari a tre anni di reclusione. Chiediamo, dunque, a tutti i parlamentari norme specifiche ed urgenti, e al ministro di Giustizia provvedimenti concreti in tempi rapidi, in aderenza con le parole del presidente della Repubblica che ha sollecitato: ‘interventi urgenti, anche per tamponare l’emergenza’. Così come sollecitiamo i parlamentari (nazionali ed europei), i consiglieri regionali e comunali e gli stessi magistrati di sorveglianza a visitare le carceri con maggiore continuità e frequenza”. Pochi giorni fa il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha firmato un decreto che prevede, per quest’anno, l’assegnazione di 5 milioni di euro all’amministrazione penitenziaria. Soldi destinati al “potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici negli istituti, attraverso il coinvolgimento di esperti specializzati e di professionisti esterni all’amministrazione. Più che raddoppiato lo stanziamento annuale di bilancio destinato alle finalità di prevenzione del fenomeno suicidario e di riduzione del disagio dei ristretti”, ha detto lo stesso ministro. Tuttavia, per il filosofo del diritto Emilio Santoro, fondatore de L’Altro diritto, si tratta di una goccia nel mare: “È poco più di un ritorno all’assistenza psicologica di un anno fa. L’amministrazione penitenziaria pagava gli psicologi pochissimo, per cui solo quelli che non avevano altre alternative andavano a lavorare in carcere. Per ovviare a questa situazione il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ndr) ha alzato il compenso orario degli psicologi, ma non aumentando il budget. Per cui il risultato era una netta diminuzione di ore di assistenza. A partire dal 1 febbraio 2024 il compenso orario spettante agli psicologi penitenziari è passato da 17,63 a 30 euro lordi, oltre Iva e oneri previdenziali, quindi quasi raddoppiato. Quindi il raddoppio (o poco più) del finanziamento sostanzialmente evita la riduzione del sostegno psicologico più che aumentarlo”. Per Antigone si tratta di risorse “fondamentali per migliorare l’assistenza psicologica nelle carceri che, dai dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione, era riconosciuta nel limite di 20 ore ogni 100 persone recluse, per quanto riguarda gli psicologi, 10 ore ogni 100 persone recluse, per quel che concerne gli psichiatri (operatori in forza alle Asl). Ma non è l’unico provvedimento che può bastare. C’è bisogno di garantire una disponibilità maggiore di attività, che siano lavorative, formative, culturali. Le giornate delle persone detenute vanno riempite e non passate sdraiati sul letto a guardare il soffitto o a passeggiare per la sezione. Vanno inoltre garantiti i contatti con l’esterno, liberalizzando le telefonate e andrebbe dato seguito alla sentenza della Corte Costituzionale in merito al diritto all’affettività, prevedendo nelle carceri anche luoghi dove siano possibili colloqui intimi”. Durante i presidi organizzati dai vari garanti territoriali per questo giovedì, verranno letti i nomi delle persone che si sono suicidate in carcere nel 2024 e ricordati gli agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita negli ultimi mesi. Irene Testa: “Nelle carceri italiane ho visto l’inferno” di Antonio Scali tpi.it, 15 aprile 2024 “C’è troppa indifferenza di fronte al grido di disperazione che viene dalle carceri. Molti detenuti soffrono di dipendenze o di disturbi psichici ma non ricevono assistenza. C’è chi urina in cella e chi si strappa le unghie dei piedi. E avviene in media un suicidio ogni 2 giorni. Ingiustizie come nel caso Zuncheddu non sono isolate. Ma la politica non ha coraggio”. Lo stato di salute della democrazia di un grande Paese lo si misura attraverso vari fattori. Tra questi, per una potenza occidentale come l’Italia, ci sono i diritti di cui godono i suoi cittadini, il sistema della giustizia e le condizioni delle carceri. Temi al centro del dibattito politico attuale, sui quali evidentemente c’è ancora molto da fare. Ne abbiamo parlato con Irene Testa, storica esponente e tesoriere del Partito Radicale, nonché prima Garante dei diritti dei detenuti in Sardegna. Ad Ilaria Salis sono stati negati i domiciliari, per cui rimarrà in cella a Budapest. Il caso ha colpito molto l’opinione pubblica, come testimonia anche la vicinanza espressa dal presidente Mattarella... “Ho avuto modo di incontrare il padre di Ilaria nelle scorse settimane qui a Cagliari durante una manifestazione. La mancata concessione dei domiciliari è sicuramente un duro colpo per la famiglia. Ma credo che questa vicenda dovrebbe essere uno stimolo per far luce sugli oltre duemila italiani detenuti all’estero. Bisognerebbe introdurre una Carta penitenziaria europea, che stabilisca dei criteri validi per tutti i Paesi, proprio per evitare che avvengano situazioni e comportamenti del genere. D’altronde già nel 2014 l’Ungheria era stata ammonita dal Consiglio d’Europa sul fronte dei diritti umani”. Il tema delle carceri e della giustizia, dunque, dovrebbe essere una delle priorità della nuova Unione europea? “Dovrebbe essere al centro dell’agenda sia per la politica europea che per quella del nostro Paese. Se ne parla poco e soprattutto c’è una forte indifferenza di fronte al grido di disperazione che proviene da quei luoghi. Basti pensare al dramma dei suicidi nelle carceri italiane: non si è mai indagato a fondo sulle cause e non vengono avanzate delle soluzioni. Il 2024 è finora un anno nero in tal senso, con in media un suicidio ogni due giorni. Questo è un aspetto che scuote le coscienze di molti: bisognerebbe partire da qui per portare avanti una riforma a 360 gradi delle carceri e della giustizia, che sono strettamente collegate. Basti pensare che in Italia abbiamo diverse migliaia di persone in carcere in attesa di giudizio, e 90mila che sono “liberi sospesi”“. Cosa si intende? “Sono soggetti che hanno pene inferiori ai quattro anni e sono in attesa di una misura alternativa al carcere, ma a causa dei ritardi della giustizia restano in un limbo per anni in attesa della decisione dei Tribunali di sorveglianza. Potenzialmente, quindi, possono rientrare in carcere. Parliamo di 90mila persone che nel frattempo si sono fatte una famiglia e una vita lavorativa. Hanno avuto una condanna anche diversi anni fa, ma sono in stato di libertà, aspettando una decisione del Tribunale. Eppure se ne parla molto poco”. Quali sono le altre storture del nostro sistema carcerario? “Se ne sa poco anche, ad esempio, del fatto che ci sono tantissime persone con pene inferiori ai tre anni, e che quindi potrebbero usufruire delle misure alternative. Ci sono poi molti che dovrebbero uscire dal carcere, ma ci restano per diversi mesi in più perché mancano il personale e gli assistenti sociali, per cui non vengono fatte le relazioni di sintesi del detenuto necessarie al magistrato per concedere una misura alternativa. Tutte persone che affollano i nostri penitenziari e che invece non dovrebbero neanche starci”. Quali sono a suo avviso le urgenze di questo settore, per far sì che nelle nostre carceri venga garantito lo Stato di diritto? “I temi sono molti. Una delle priorità è ad esempio il fatto che la popolazione carceraria è prevalentemente malata, tra tossicodipendenti, che dovrebbero stare nelle comunità di recupero, e soggetti psichiatrici. Sono persone che andrebbero accudite e accompagnate, ma all’interno delle carceri non si riesce a seguirli. Molti di questi sono i ragazzi che poi finiscono per suicidarsi. Tanti detenuti hanno più patologie, spesso sviluppate a causa dell’abuso di sostanze. Troviamo in cella persone con disturbo bipolare, borderline, schizofrenico. Alla base c’è anche il fallimento di tutti i servizi sul territorio. Ai nostri detenuti non viene data la possibilità di fare alcun tipo di attività, e soprattutto di reinserirsi nel mondo del lavoro. Spendiamo ogni anno milioni di euro, senza avere nulla in cambio, perché li teniamo a oziare su una branda. Manca completamente l’aspetto rieducativo della pena, in aperto contrasto con l’articolo 27 della Costituzione”. A chi sono da attribuire le colpe? “In primis alla politica, che da decenni dimostra di avere poco coraggio e non interviene con misure efficaci, per prevenire le emergenze. Quei piccoli tentativi fatti finora si sono rivelati insufficienti, perché non erano nel contesto di una riforma strutturale, che coinvolga anche il sistema della giustizia”. Lei visita spesso le carceri italiane. Quali sono le storie che la colpiscono di più, anche dal punto di vista umano? “Spesso mi arrabbio quando visito le sezioni di transito o di isolamento. Lì si trovano quei detenuti più fragili, che hanno disagi psichiatrici e sono ad alto rischio suicidario. Per tutelare la loro incolumità vengono messi in celle in cui non c’è praticamente niente, se non un letto, spesso senza un materasso, e sono costretti a mangiare per terra. Non è possibile tenere delle persone in queste condizioni. Anche perché non dovrebbero stare lì, ma in strutture che garantiscano il diritto alla salute. Le responsabilità non possono neanche ricadere sul direttore o lo psichiatra che li mette in carcere, perché altrimenti dovrebbero fargli un Tso alla settimana. Ho visto in questi reparti detenuti che si strappavano l’unghia del piede o che urinavano nella cella. Ho visto l’inferno. Bisogna anche pensare a chi lavora in certe sezioni: non è un caso che molti agenti di polizia penitenziaria finiscano purtroppo per togliersi la vita. Sono completamente abbandonati”. Lei è stata da sempre molto vicina a Beniamino Zuncheddu, l’ex allevatore che ha trascorso oltre 30 anni in carcere da innocente dopo essere stato condannato per un triplice omicidio del 1991, per poi essere assolto. Si è diffusa la notizia che gli sarebbe stato riconosciuto un risarcimento di 30mila euro... “Materialmente non ha ricevuto ancora neanche un euro. Il suo avvocato aveva presentato un ricorso perché Beniamino aveva trascorso diversi anni in situazioni di sovraffollamento delle carceri, costretto a celle molto piccole. Già da qualche mese sapevamo del riconoscimento di questi 30mila euro, ma ancora non c’è stato. Al momento lui vive grazie all’aiuto della sorella Augusta. Questa è la vera ingiustizia: si tratta di un uomo a cui sono stati rubati gli anni migliori della sua vita, e lo Stato dopo un errore del genere, anziché prevedere un automatismo nel risarcimento, se la prende comoda. Ancora non ci sono neppure le motivazioni della sua sentenza di assoluzione, per cui non si può fare la richiesta di risarcimento danni. Parliamo di una persona di 60 anni. Nessuno gli ridarà quello che gli è stato tolto, ma che senso avrebbe un ristoro che magari arriverà fra 6-7 anni? Nessuno, soprattutto, ha ammesso le proprie colpe e chiesto scusa. Questo è il fallimento della giustizia italiana, non una vittoria, dopo una gogna di 33 anni. Purtroppo quella di Beniamino non è una vicenda isolata, visto che registriamo un migliaio di ingiuste detenzioni ogni anno. C’è qualcosa che non funziona”. Come si combatte questa malagiustizia? “Servirebbero tanti interventi. Ad esempio nella fase delle indagini preliminari, dove maggiormente avvengono errori, magari per superficialità. O ancora sulle intercettazioni. Dobbiamo ricordarci che la giustizia può colpire tutti, dal povero al ricco. Quando si tratta di politici o persone note, si rischia di finire in una gogna mediatica che può distruggere intere carriere. Dall’altra parte la persona comune non ha i mezzi per gridare la propria innocenza, come nel caso Zuncheddu. Per difenderci da certa giustizia servono ingenti risorse economiche, e non tutti hanno questa possibilità. Per non parlare del carico di stress. Non conosco un cittadino italiano che è contento di questa giustizia. Molte persone preferiscono evitare di fare le cause, pur di non doversi indebitare e stare per anni dietro a un processo”. Uno dei primi casi emblematici di malagiustizia, anche dal punto di vista mediatico, fu quello che coinvolse Enzo Tortora... “Chiediamoci cosa è cambiato da allora: i magistrati che sbagliano continuano a non pagare, il Parlamento continua a non legiferare. L’unico strumento a disposizione dei cittadini per modificare le cose sono i referendum, ai quali però su questi temi non viene data la giusta visibilità. Ricordo che il Partito Radicale fu promotore del cosiddetto Referendum Tortora sulla responsabilità civile dei magistrati. Nonostante il chiaro voto degli italiani a favore, il Parlamento ne stravolse l’esito con la legge Vassalli, che prevedeva che fosse lo Stato a pagare al posto dei giudici. Viviamo in un Paese in cui regna l’immobilismo”. Quali sono allora le urgenze prioritarie nel settore della giustizia? “Un provvedimento utile per smaltire questa mole di processi è l’amnistia. Non viene fatta da oltre 30 anni, nonostante sia prevista dalla Costituzione. Sarebbe una scelta saggia in una fase emergenziale come quella attuale. Si potrebbero poi prevedere degli automatismi, ad esempio per concedere direttamente le misure alternative a chi ne ha diritto, senza affollare per mesi le carceri”. Il Governo Meloni sta portando avanti la sua riforma della giustizia, che ha tra i punti chiave la separazione delle carriere dei magistrati. Può essere una misura utile? “Dal ministro Nordio ci si aspettava tanto. La separazione delle carriere va sicuramente fatta, ma ancora mi sembra che siamo in alto mare, perché viene costantemente rinviata”. Che ne pensa della possibilità di introdurre test psicoattitudinali per i magistrati? “Non vedo perché non dovrebbero farli: con i loro giudizi hanno nelle mani le vite delle persone. Ma ogni volta che si tenta di riformare questo settore, la magistratura fa le barricate”. Torniamo al dramma dei suicidi in carcere. Come bisognerebbe intervenire? “Il punto è migliorare la situazione nelle carceri. Non possiamo pensare di tenere il disagio psichiatrico chiuso in una cella, ce lo ha insegnato Basaglia. Servono meno persone e più personale nei penitenziari. Fornire dei trattamenti, ad esempio per il recupero dei tossicodipendenti. Invece lasciamo i detenuti chiusi, a deprimersi e a trovare il modo per ammazzarsi, magari usando un laccio delle scarpe. Questo è il fallimento dello Stato. Nessuno pensa che debbano essere lasciati liberi, ma la sicurezza la si garantisce rieducando e riabilitando queste persone. Altrimenti quando escono saranno uguali a quando sono entrati in carcere, anzi più poveri e più soli”. Lei è la Garante dei diritti dei detenuti in Sardegna. Quali sono state le sue prime azioni? “In primis ho visitato l’istituto minorile di Quartucciu: una situazione indecente, in una struttura non a norma, decadente. Dopo le mie denunce, sono iniziati i lavori per la sua ristrutturazione, anche se personalmente avrei preferito costruire un istituto nuovo. In generale bisognerebbe superare gli istituti minorili, puntando sul futuro di questi giovani. La politica deve capire che la sfida è recuperare il minore, non affollare gli istituti. Bisogna anche tenere conto del contesto di disagio da cui provengono molti di questi ragazzi: tanti hanno un futuro segnato. Per questo l’obiettivo non deve essere tanto quello di punirli, ma riabilitarli. Mi sono anche occupata del caso di una persona affetta da picacismo, che da 16 anni viene tenuta in un centro, legata e con un casco in testa, perché la sua patologia lo porterebbe a mettere in bocca qualunque cosa. Gli deve essere ridata la libertà, garantendo un’assistenza straordinaria”. Tra i suoi temi di interesse c’è quello delle proteste delle donne in Iran. A livello mediatico ultimamente se ne parla molto meno. Qual è la situazione attuale? “L’attenzione è calata anche a livello istituzionale. Sarebbero serviti interventi coraggiosi da parte dell’Unione europea per cercare di arginare il regime iraniano, ad esempio pesanti sanzioni economiche per i pasdaran. L’Iran è una potenza che incute paura, anche per il ricatto del nucleare e per il suo ruolo geopolitico. Per questo le misure messe in atto dall’Europa sono state molto timide. Alla fine queste donne non chiedono altro che la possibilità di vivere libere, come poter cantare o passeggiare con il proprio compagno. Il regime attua un controllo costante, arrivando a torturare, stuprare e impiccare chi protesta. Purtroppo questo popolo è stato lasciato solo. E non abbiamo neppure tutelato quelle ragazze che sono andate via da lì e sono venute nel nostro Paese, perché erano costrette a recarsi in ambasciata per il rinnovo del passaporto: molte di loro sono poi state rispedite in Iran e incarcerate”. Lei è una storica militante e tesoriere del Partito Radicale, che nel corso della sua storia si è sempre battuto per i diritti... “Il Partito Radicale è stato forse l’unico che è riuscito davvero a fare le più grandi riforme nel nostro Paese, che hanno cambiato la vita dei cittadini, come il divorzio e l’aborto, ma anche la chiusura dei manicomi e le battaglie sulla giustizia. È un partito che non pensa tanto al risultato elettorale, ma punta ad essere incisivo sui diritti umani. Marco Pannella ci ha insegnato il metodo radicale della lotta politica: bisogna combattere per le battaglie in cui si crede, senza accontentarsi. È evidente che quando prendi posizioni molto forti poi lo paghi caro in termini di isolamento. Penso invece che il Partito Radicale meriterebbe molta più attenzione. Di certo oggi una figura come quella di Pannella manca parecchio”. Nordio: “Cantieri da Nord a Sud per aumentare i posti, ma mancano ancora 7mila agenti” di Lorenzo Drigo ilsussidiario.net, 15 aprile 2024 Il ministro Carlo Nordio annuncia circa 2.300 posti letto in più nelle carceri italiane: disposti 9 interventi sul territorio, mentre aumenta la carenza di personale. Prosegue il maxi piano promesso e promosso ormai da tempo dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio per ridare dignità alle carceri italiane, da tempo al centro di una sempre più complicata crisi che parla (soprattutto) di sovraffollamento e suicidi, tanto tra i detenuti, quanto tra gli agenti penitenziari. I posti nei penitenziari sono pochi e completamente occupati, con un indice di sovraffollamento che sfiora il 130% e circa (con stime definite al ribasso) 10mila detenuti in più di quanti potrebbero effettivamente ospitarne le nostre carceri, che sulla carta hanno poco più di 51mila letti. Così, mentre si cercano soluzioni possibili per ridurre il sovraffollamento, tra gli accordi con gli stati esteri per rimpatriare gli stranieri (circa 19mila), altri accordi interni con le cooperative per l’affidamento di chi ha solamente un minimo residuo della pena da scontare e un ampio piano per ridurre il fenomeno della detenzione cautelare; il Guardasigilli annuncia con una nota che presto nelle carceri saranno resi operativi quasi 2.300 posti letto in più (esattamente 2.262). Alcune strutture preesistenti verranno ampliate con padiglioni e capannoni, mentre in luoghi strategici e con un ampio affollamento verranno aperti dei veri e propri (mini) penitenziari. Il ministro Nordio, nell’interrogazione parlamentare in cui è stata letta la sua nota, sottolinea che i cantieri stanno già venendo aperti e riguarderanno 6 differenti Regioni per un totale di 9 interventi, da Milano (si parla di un ampliamento dell’Opera e del penitenziario di Bollate) fino all’Abruzzo e al Lazio (rispettivamente il Sulmona e Rebibbia), passando anche per Bologna, Brescia, Pordenone e Forlì. Altre carceri, invece, hanno già goduto degli interventi previsti, come nel caso del penitenziario di Cagliari che lo scorso 20 marzo ha inaugurato ufficialmente un nuovo padiglione con 92 posti letto che saranno riservati al 41bis. Rimane tuttavia, e lo ammette lo stesso Nordio, un nodo importante da sciogliere e che allo stato attuale fa sì che il nuovo padiglione sardo sia completamente vuoto: gli agenti che in quei penitenziari tutti i giorni ci lavorano (con non poche difficoltà). Di fatto, nel nostro territorio operano complessivamente 42.850 agenti e dirigenti, che allo stato attuale rappresentano una carenza “di 7.335 unità”, destinate ad aumentare ulteriormente quando le nuove carceri saranno operative. La strana guerra dei test ai magistrati: tanto fumo, ma l’arrosto è un altro di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 15 aprile 2024 Impazza la polemica sul nulla. È una specialità di questo Paese, ma su questa storia dei test psico-attitudinali per gli aspiranti magistrati si è davvero raggiunto l’acme del nonsense. A cominciare dalla pietra dello scandalo, e cioè il decreto legislativo (in odore di eccesso di delega, peraltro) che ha inteso introdurli e regolarli. Perché quel testo, come cerchiamo, tra le altre cose, di raccontarvi in questo numero di PQM, sostanzialmente non dice nulla. Né su quale sia il test, né sul come e sul chi debba somministrarlo. Si tratta, a ben vedere, di una delega in bianco (una delega della delega!), conferita nientedimeno che al CSM. Abbagliati da questo turbinio di insensatezze, tipo sfera stroboscopica di una discoteca, abbiamo provato a raccogliere un po’ di informazioni, cercando di capirne di più. Dunque, potrete leggere opinioni molto qualificate su cosa siano in realtà i test psico-attitudinali, se quelli disponibili (l’ormai leggendario Minnesota) sarebbero utili alla bisogna, e quali attitudini o quali profili della personalità si ha in mente di voler testare per chi si appresti a svolgere il delicato e difficile compito, affidato al magistrato, di amministrare giustizia. Il nostro affezionato lettore scoprirà quale e quanta approssimazione ed incompetenza contraddistingue questa furibonda polemica che ci sta accompagnando da settimane, e promette di non abbandonarci nelle prossime. Sicché noi malfidati, poco inclini ad accodarci a polemiche delle quali non comprendiamo con esattezza l’oggetto, preferiamo piuttosto chiederci cosa ci sia dietro questo clangore di armi un po’ farlocco, e dietro un fumo troppo denso ed innaturale per non insospettirci. D’accordo, è notoria l’attitudine della magistratura italiana, e di tutto il mainstream che ne asseconda trepidante le gesta, a denunciare l’aggressione alla propria indipendenza ogniqualvolta il Governo o il Parlamento si azzardino ad ipotizzare qualsivoglia verifica o controllo sulla qualità e sull’idoneità del singolo magistrato nel fare il proprio mestiere; ma tutto questo strepitare per questo sconclusionato gramelot sul controllo della psiche, per di più affidato -come dire- in house, non ce la conta giusta. Tanto più che, in contemporanea con il vituperato decreto attuativo dello scandalo, ce ne sono un altro paio che rappresentano la resa totale del governo agli imperiosi desiderata di ANM proprio in tema di controllo della professionalità del magistrato (il fascicolo delle performance), e di controllo politico della magistratura sul Ministero della Giustizia (i fuori ruolo). E quindi scopriamo che il Governo, senza fare un plissé, ha raso al suolo le due uniche riforme vere dell’ordinamento giudiziario volute dalla Ministra Cartabia, e dal primo giorno nel mirino della magistratura associata. Radicalmente depotenziato il fascicolo delle performance per valutare finalmente la qualità professionale del magistrato sulla base dei risultati da questi ottenuti nel quadriennio; ed intangibilità della invasione del Ministero di Giustizia - scandalo unico al mondo - da parte di magistrati sottratti alle proprie funzioni giudiziarie. Ed ecco allora che il fumo si dirada. Una eccitante e rumorosa guerra sul nulla, in modo che passi, indisturbata, la ennesima, umiliante resa della Politica alla imperiosa pretesa della magistratura di lasciare immodificati i veri assetti di potere. Anzi, di strapotere. Della magistratura, s’intende. Una riforma ideologica senza valore scientifico di Eugenio Albamonte* Il Riformista, 15 aprile 2024 Un provvedimento, frutto di una plateale forzatura dei percorsi legislativi definiti dalla Costituzione, che ha una motivazione squisitamente politica e demagogica. Un dito nell’occhio all’intera magistratura. Un omaggio postumo a Silvio Berlusconi che indicava all’opinione pubblica i giudici come anormali e disturbati mentali. Uno scalpo per quei partiti dell’area di Governo che in molti modi stanno dimostrando insofferenza per la funzione esercitata dalle toghe, come dalle altre istituzioni di garanzia, quando il loro operato intralcia le politiche e gli obiettivi perseguiti. L’introduzione dei test psicoattitudinali per i magistrati non ha altro significato se non questo. Un provvedimento, frutto di una plateale forzatura dei percorsi legislativi definiti dalla Costituzione, che ha una motivazione squisitamente politica e demagogica: incidere negativamente, per l’ennesima volta, sulla credibilità dell’istituzione giudiziaria presso i cittadini e che le altre istituzioni dovrebbero incrementare anziché tentare di demolire. Nel nostro Paese, tra i tanti problemi che assillano la giustizia, quello dell’affidabilità psichica dei magistrati praticamente è inesistente. Fortunatamente non si ha notizia di decisioni che siano risultate, ex post, inficiate dalla mancanza di “giudizio” del magistrato. Inoltre l’attitudine psichica dei magistrati è costantemente monitorata. Siamo l’unica categoria professionale che viene valutata ogni quattro anni anche in relazione all’equilibrio dimostrato nell’esercizio della professione e nella vita privata, che già oggi, quindi, viene monitorato dai capi degli uffici, dai colleghi, dai tanti avvocati che esercitano quotidianamente il loro ministero davanti al giudice e affianco al PM. Nella fase di accesso alla magistratura, ancor più, questo aspetto viene attenzionato, mediante una attenta osservazione sul campo, svolta da tutor e colleghi affidatari e valutata dal CSM e dalla Scuola della Magistratura. Si tratta quindi di una modifica inutile e persino pericolosa su due piani: se i test introdotti dovessero servire a individuare le patologie psichiatriche sarebbero insufficienti, in quanti la diagnostica psichiatrica è cosa ben più seria e richiede una protratta osservazione e talvolta un lavoro d’equipe. Se invece il fine fosse quello di operare una selezione in base alle attitudini sarebbero arbitrari e potenzialmente discriminatori. Per selezionare, invece, le attitudini più adatte per fare il magistrato bisognerebbe, in primo luogo, qualificarle. Lavoro non facile e suscettibile di scelte contrastanti: è preferibile un giudice conformista o anticonformista, autoritario o tollerante, indipendente o subordinato, garantista o giustizialista? Le alternative sono infinite e ciascuna scelta implica la definizione di uno specifico modello di magistrato, disegnato inevitabilmente in modo arbitrario ed opaco. Il tema della trasparenza delle scelte è particolarmente sensibile e delicato, atteso che alcuni test, tra questi il famigerato Minnesota, sono stati utilizzati, in passato, anche con finalità di subdola discriminazione, consentendo l’identificazione di alcuni specifici orientamenti personali, anche riferiti alla vita intima, al fine di escludere i soggetti selezionati. Una ultima considerazione merita il parallelismo tra i magistrati ed altre categorie (come le forze dell’ordine) che già oggi vengono selezionate anche attraverso la somministrazione di test. Si tratta di funzioni differenti e molto distanti tra loro. Recentemente un esperto evidenziava come il magistrato fosse chiamato a prendere scelte molto ben ponderate ed argomentate che richiedono tempo di maturazione, mentre poliziotti e militari sono chiamati a decidere velocemente e con scarsi elementi di giudizio. A me sembra opportuno ricordare che le forze dell’ordine esercitano il monopolio legale della forza coattiva nei confronti dei cittadini ed operano spesso in rapporto diretto ed esclusivo con persone che si trovano in posizione di assoluto e totale assoggettamento. Il magistrato non usa la forza ed agisce in un contesto ove operano innumerevoli altri soggetti con ruoli di garanzia e di controllo a partire dagli avvocati difensori come previsto e garantito dalla Costituzione. *Magistrato “I test disponibili non sono adeguati. E prima vanno somministrati ad un campione” di Alberto de Sanctis Il Riformista, 15 aprile 2024 Intervista a Lucia Boncori, che è stata professoressa ordinario di “Teoria e tecniche dei test di personalità” nella Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza”. Presso lo stesso Ateneo ha diretto la Scuola di specializzazione quinquennale in Valutazione psicologica e counselling. Il Governo ha previsto i test psico-attitudinali per l’ingresso in magistratura. Innanzitutto, cerchiamo di fare chiarezza. Cosa sono i test psico-attitudinali e cosa sono in grado di rivelare della personalità di chi si sottopone? “Nella storia della psicologia i test psico-attitudinali erano prove strumentali - non “carta e matita” - progettate per selezionare apprendisti o allievi di corsi professionali (meccanici, tornitori, tipografi) in funzione di rapidità e precisione nei compiti manuali. Le attitudini, nella letteratura psicologica scientifica, sono caratteristiche cognitive. In tempi relativamente recenti, Forze armate e Forze dell’ordine hanno definito le “attitudini” del personale da arruolare come premessa dei loro bandi di concorso, inserendo fra le attitudini anche tratti di personalità e assenza di psicopatologie”. Quale sarebbe la procedura corretta, sotto un profilo scientifico, per creare questi test, in modo che siano “vestiti su misura” per la categoria dei magistrati? “Somministrare un test già esistente non avrebbe molto senso. Innanzitutto, occorre definire il profilo di personalità (che include caratteristiche cognitive generali o specifiche, tratti di personalità, assenza di particolari disturbi) in base al quale si vogliono selezionare i candidati. Quindi, mettere a concorso la costruzione di un test ad hoc, eventualmente riservando la partecipazione a Istituti di Ricerca con precedenti esperienze in materia. Sarebbe necessario finanziare un progetto che comporti un primo stadio con la costruzione di quesiti la cui validità di contenuto sia sottoposta a verifica da esperti che attestino la congruenza di contenuto fra ogni domanda e la caratteristica che dovrebbe misurare e un secondo stadio in cui il test è somministrato a un campione estratto a caso di italiani (almeno 300). Se il questionario deve valutare anche caratteristiche psicopatologiche, la verifica dovrà includere anche la somministrazione a campioni di soggetti con psicopatologie diversamente e oggettivamente accertate, per garantire la capacità discriminativa del test in costruzione. Infine, sarà necessario sottoporre il nuovo test a un nuovo campione per una verifica della struttura psicometrica dello strumento e, se questa risulta funzionale, il calcolo dei parametri su cui basare le condizioni per l’esclusione dei candidati dall’idoneità. I risultati poi dovranno essere valutati da una commissione e se includono una componente psicopatologica dovranno essere validati da un medico”. Come immagina, in una sorta di simulazione in laboratorio, un test per i magistrati? Dovrebbe essere in grado di rivelare la capacità del candidato di coltivare dubbi, di ascoltare le parti con attenzione mantenendo comunque l’equilibrio e senza farsi influenzare da fattori esterni e pressioni politiche. Il test sarebbe unico per pubblici ministeri e giudici, malgrado i loro ruoli siano diametralmente differenti... “Se i ruoli di pubblico ministero e di giudice sono differenti, è ovvio che, soprattutto in caso di separazione delle carriere, si dovrà partire dalla definizione di due diversi profili. La definizione del profilo del “bravo giudice”, del “bravo pubblico ministero” o del “bravo magistrato” devono darla professionisti qualificati. Nei test per i concorsi militari o delle Forze dell’ordine gli esperti sono stati gruppi di colonnelli, con l’apporto di uno psicologo docente universitario che traduceva in termini di categorie scientifiche le definizioni in lingua corrente proposte dai militari o dai dirigenti delle Forze dell’ordine. Nel caso della magistratura, va presa una decisione preliminare su chi siano i professionisti competenti a definire il profilo. Ci si potrebbe limitare a incaricare il CSM, ma si potrebbe allargare la richiesta all’avvocatura, nelle sue diverse componenti”. Lei pensa che sia necessariamente un modo per screditare una intera categoria ipotizzare di somministrare dei test? Vengono sottoposti a test poliziotti e militari, che imbracciano armi da fuoco, perché non sottoporre a test una categoria che - legittimamente - ha il potere di applicare misure cautelari in carcere, condannare ed irrogare pene che possono cambiare la vita di una persona? “Dipende da come è il test. Si sente parlare di un particolare questionario, il Minnesota, la cui pubblicazione negli USA risale al 1943 e che contiene domande Vero/Falso basate sulla cultura psichiatrica di quegli anni, in cui erano considerate come categorie patologiche l’omosessualità (maschile), l’isteria o la psicastenia, mentre non erano presenti indicatori appropriati per disturbi allora infrequenti, come i disturbi del comportamento alimentare, la componente della schizofrenia dai sintomi poco evidenti, la depressione com’è attualmente definita, molte tipologie di ansia e la maggior parte dei disturbi di personalità, quali il narcisismo patologico o il disturbo borderline. I correttivi successivamente introdotti non hanno apportato aggiunte sostanziali ai quesiti iniziali, ma solo modifiche psicometriche. Per di più, la larga diffusione nell’uso di questo test nei concorsi ha prodotto la proliferazione di sussidi vari per rispondere in modo da risultare accettabili, che si trovano in libreria e su internet. C’è anche una canzone dei Bluvertigo che ridicolizza il “test dei fiori”, come chiamano il Minnesota a causa di una domanda a cui chi risponde che gli piacciono i fiori viene considerato omosessuale. Prepararsi per questo test e falsare il risultato è piuttosto agevole”. Al di là delle polemiche politiche, da un punto di vista scientifico cosa può rivelare un test del profilo psicologico del candidato magistrato? Può essere utile? “Certamente può essere utile se non si utilizzano test già esistenti, che non hanno valore “universale” e la cui ampia diffusione li rende oggi inutili, e se si costruisce un test “su misura” cercando di individuare, senza strumentalizzazioni politiche, un “modello di magistrato” dopo un approfondito e “laico” contraddittorio con tutti gli operatori del settore”. I test psicoattitudinali? Sono oggetto di confronto, non solo in Italia di Eriberto Rosso* Il Riformista, 15 aprile 2024 In Grecia vi è una discussione in corso che guarda con una qualche perplessità alle vicende di casa nostra, in Germania quasi in ogni Land è previsto uno specifico percorso di verifica psicoattitudinale, in Olanda il sistema prevede colloqui con psicologi. Anche nel recente passato la magistratura associata italiana ha reagito con un niet ai tentativi della politica di prevedere meccanismi di verifica della idoneità, anche psicologica, dei magistrati, come se il tema non potesse essere neppure oggetto di confronto. È però innegabile che l’equilibrio di pubblici ministeri e giudici sia questione rilevante a garanzia della ragionevolezza della risposta giudiziaria e della correttezza del funzionamento dei meccanismi processuali e delle relazioni tra le parti. È difficile immaginare che la somministrazione di un vecchio armamentario come il Minnesota in sede di accesso alla carriera sia risolutivo del problema ma non è nemmeno accettabile la levata di scudi per lesa maestà, a fronte dei blandi tentativi governativi. Qualche lustro fa ci aveva provato l’allora Ministro Castelli a prevedere test psicoattitudinali, finalizzati anche a stabilire se il candidato avesse maggiore propensione alla carriera giudicante o a quella inquirente. Anche allora le proteste di ANM portarono a rinunciare all’esperimento; il Ministro Mastella lo corresse, ma anche questo secondo tentativo non andò oltre vaghe prospettazioni. La proposta Nordio è assai generica: in essa in realtà non viene definito quale sia lo strumento da utilizzare e se il test debba essere somministrato solo all’inizio della carriera - come parrebbe - o invece possano essere introdotti controlli in itinere. Quel che è certo è che l’esigenza di una verifica psicoattitudinale e di tenuta psicologica di chi è chiamato a svolgere le funzioni di magistrato è nelle preoccupazioni e nelle previsioni anche di altri ordinamenti d’Europa, dai quali probabilmente non c’è molto da copiare ma piuttosto qualcosa da cogliere, quantomeno sotto il profilo di indicazioni già sperimentate. Ad esempio, in Grecia vi è una discussione in corso - in particolare nel mondo della politica - che guarda con una qualche perplessità alle vicende di casa nostra. In Germania non vi è una disciplina unitaria federale sulla somministrazione di test ai magistrati, ma quasi in ogni Land è previsto uno specifico percorso di verifica psicoattitudinale, che comprende la simulazione di situazioni di stress per saggiare la capacità di tenuta psicologica del singolo magistrato, al pari di altri pubblici funzionari che operano nel settore della giustizia. I test elaborati sono finalizzati a valutare anche le capacità di reazione a condizioni di straordinario carico di lavoro. In Olanda il sistema prevede colloqui con psicologi, anche al fine di verificare la capacità di lavoro di gruppo e di mediazione nel corso del lungo periodo di formazione professionale. In Austria sono previsti colloqui dell’aspirante magistrato con un esperto psicologo. Repubblica Ceca, Irlanda e Croazia prevedono un test psicologico tra le prove d’esame degli aspiranti magistrati. Colloqui con psicologi sono previsti anche nella fase della selezione per l’accesso alla professione in Portogallo. Rileva che, in quasi tutti i sistemi citati, la valutazione psicologica è demandata a soggetti esperti indipendenti mentre, nella previsione del decreto legislativo n. 44/2024, condizioni di inidoneità e individuazione dei test da somministrare sono riservate alla competenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Discorso a parte per la Francia. Nell’ordinamento d’Oltralpe i test psicologici furono introdotti a furor di popolo nel 2008, dopo una serie di casi giudiziari che comportarono ingiuste detenzioni. I test sono sempre stati avversati dalle rappresentanze della magistratura - la critica in particolare ne segnalava la tendenza all’omologazione - e, dopo una dura resistenza interna, furono aboliti nel 2017. Insomma, dagli altri ordinamenti arrivano indicazioni utili per individuare meccanismi adeguati alla valutazione psicoattitudinale degli aspiranti magistrati. Varrebbe la pena confrontarcisi, anche con spirito critico, ma senza chiusure ideologiche. *Avvocato penalista Legge Cartabia tradita, la controriforma su fuori-ruolo e fascicolo di Valentina Alberta* Il Riformista, 15 aprile 2024 Non vi è solo l’introduzione dei test psicoattitudinali, altri sono i punti significativi rispetto ai quali l’ultimo passaggio in Cdm non è stato irrilevante. Con la pubblicazione dei decreti legislativi 44 e 45 del 28 marzo 2024, si conclude finalmente il travagliato percorso della legge delega n. 71 del 17 giugno 2022 di riforma dell’ordinamento giudiziario. La legge in questione era peraltro la traduzione normativa del lavoro della commissione Luciani, incardinatosi - come la riforma penale e con problematiche analoghe - su di un disegno di legge del precedente governo pentastellato. Dopo un travagliato percorso, di cui non si deve dimenticare l’iniziale ostacolo dello sciopero proclamato dall’Associazione Nazionale Magistrati nel maggio 2022, i decreti delegati introducono alcune novità, la cui analisi non può prescindere dalla valutazione del contenuto della delega rispetto alla prima versione del lavoro proposto dal Governo con i propri atti 107 e 110 sottoposti ai pareri di legge ed infine al prodotto finale. Non vi è infatti solo la novità dell’introduzione dei test psicoattitudinali (da disciplinare peraltro con future delibere del CSM); altri sono i punti significativi rispetto ai quali l’ultimo passaggio in Consiglio dei Ministri non è stato irrilevante. Con riguardo al fascicolo personale del magistrato ai fini della valutazione di professionalità - da subito uno dei punti dolenti secondo la magistratura associata - la versione finale dell’art. 10 bis del decreto 44 integra alla lettera c) i criteri di formazione del “campione” degli atti e dei provvedimenti del magistrato, con un riferimento alla necessità che esso rappresenti in modo effettivo il lavoro svolto per ogni anno e che contenga almeno un terzo di “provvedimenti cautelari o di prevenzione che incidono direttamente sulla libertà personale o la libera disponibilità dei beni, nonché dei provvedimenti che riguardano i minori”. Una istruttoria “rafforzata” dunque in questi ambiti, ma non ampia quanto si sarebbe potuto prevedere secondo i criteri di delega previsti nella legge 71 all’art. 3 lett. g) ed h). Sarà anche in questo caso il CSM, peraltro, a definire con propria delibera “i modi di raccolta della documentazione e di individuazione a campione dei provvedimenti e dei verbali di udienza”, ferma restando - e potrebbe essere norma interessante - la possibilità autonoma di ogni membro del consiglio giudiziario di accedere ad atti di processi in fase pubblica e di portarli all’attenzione del consiglio. Confermate (e peraltro vincolate dalla delega) le cosiddette “pagelle”, sono nella sostanza ribadite le regole, anch’esse “blindate”, rispetto al ruolo dell’avvocatura nei consigli giudiziari. Ruolo certamente definito rispetto al voto unitario sulle valutazioni di professionalità, ma ampio e potenzialmente significativo rispetto alla formazione del materiale utile alla valutazione, soprattutto rispetto alle segnalazioni al capo dell’ufficio ovvero al medesimo. consiglio giudiziario rispetto a “fatti specifici”. Saranno gli ordini, con il decisivo apporto delle associazioni, a doversi attrezzare per raccogliere queste segnalazioni per poter contribuire alla fase di valutazione di professionalità, così come potranno essere affinati i contributi già ora previsti rispetto al conferimento di uffici direttivi e semi-direttivi. Peraltro, non si può non segnalare la “morbida” disposizione transitoria, che posticipa l’applicazione della riforma: a chi abbia rivestito mandati o incarichi di governo successivamente all’entrata in vigore della riforma con riferimento alla non spendibilità degli stessi per la valutazione di professionalità; agli incarichi direttivi e semi-direttivi attribuiti successivamente alla entrata in vigore della riforma rispetto ai loro limiti; addirittura al 2026 rispetto alle nuove modalità di effettuazione del concorso, test compresi. Qualche considerazione finale rispetto al decreto 45 sul collocamento “fuori ruolo” di magistrati. Una modifica dell’ultimo minuto ha escluso dal numero massimo di magistrati ordinari fuori ruolo, previsto nella tabella B lettera M allegata al decreto, i magistrati eletti o con incarichi di Governo. Il numero già esorbitante previsto nella delega è quindi ulteriormente ampliato dagli incarichi più marcatamente politici. E, con altro inserimento dell’ultimo minuto, l’art. 13 - norma che recepisce gli ampi limiti quantitativi già indicati dalla delega - viene differito nella sua applicazione dal primo gennaio 2026. Con tutta calma, insomma. *Avvocato penalista Codice rosso, obbligatori i percorsi di recupero per sospendere la pena di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2024 Violenze di genere. Annullata la sentenza che non dà indicazioni sull’ente e sul programma. Il beneficio della sospensione condizionale della pena per i condannati per i reati del “Codice rosso” è subordinato alla loro partecipazione a percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e sostegno per questo tipo di reati, come previsto dall’articolo 165, comma 5, del Codice penale. È questa infatti la strada individuata dalla legge 69/2019 (Codice rosso) per evitare la recidiva. Va quindi annullata (con rinvio a nuovo giudice per fissare le modalità di svolgimento dei corsi) la sentenza che applica la sospensione della pena senza dare indicazioni sull’ente, l’associazione o il percorso da far seguire al condannato. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza 9311 del 5 marzo 2024. A sollecitarla è stato il ricorso promosso dal Procuratore generale contro la decisione del Gup di sospendere la pena a un uomo, colpevole di aver molestato una cliente del negozio dove lavorava come commesso, senza subordinarla alle prescrizioni del comma 5 dell’articolo 165 del Codice penale. Secondo la norma, nei reati di maltrattamenti, lesioni anche aggravate, violenza sessuale e atti persecutori la sospensione condizionale della pena è subordinata alla partecipazione a percorsi di recupero. Dato che il reato risultava consumato circa tre anni dopo l’entrata in vigore della legge, il Gup avrebbe dovuto subordinare la sospensione della pena alla creazione di un programma di recupero su misura; saltando questo passaggio essenziale, aveva violato la legge. La sentenza segue la pronuncia 32577/2022, con cui la Cassazione ha disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata proprio perché priva della statuizione circa gli accertamenti di fatto tesi a individuare l’ente o l’associazione, oltre che la durata, dei corsi di recupero. Peraltro, con la pronuncia 30147/2023, è stata aperta la possibilità che il giudice di legittimità integri la disposizione del beneficio della pena sospesa con le prescrizioni del comma 5. Questo per effetto di una discrezionalità che non riguarda l’an (il se) ma il quo modo (il come) per cui i dettagli potrebbero essere rimessi al giudice dell’esecuzione. In altre parole, pur non avendo il giudice dell’esecuzione il compito specifico di impartire le prescrizioni richiamate, ne è stata contemplata l’eventualità nel caso, allora affrontato, di anticipata e spontanea esecuzione del programma terapeutico da parte del reo. Tuttavia, non può superarsi - conclude ora la Cassazione - la norma che attribuisce al giudice della cognizione il compito di stabilire il percorso, individuare l’ente o l’associazione e validare il programma. Il beneficio della pena sospesa si può quindi giustificare solo dopo l’accertata disponibilità e idoneità dell’imputato a seguire un percorso. Spoleto (Pg). “Nessuno tocchi Caino” e Camere Penali visitano il carcere. Il problema salute mentale di Carlo Vantaggioli tuttoggi.info, 15 aprile 2024 Nella oggettiva difficoltà della condizione carceraria italiana, a Spoleto la conferenza finale di una serie di visite alle strutture umbre. Satyagraha (resistenza passiva) è solo apparentemente una parola difficile di origine indiana. Tuttavia il suo significato letterale sintetizza un concetto di alto profilo e straordinaria contemporaneità: quello di “insistenza per la verità”. Se poi aggiungiamo che chi ha formulato e praticato questo pensiero, e ne ha fatto anche una filosofia di vita, è stato il Mahatma Gandhi (e non solo) allora possiamo comprendere come Satyagraha sia la giusta definizione quando si deve affrontare un tema molto complesso ed anche attualmente divisivo come quello della condizione delle carceri in Italia. Nei giorni scorsi, per tutta la prima metà di aprile, l’Umbria delle carceri, Orvieto, Terni, Perugia ed infine Spoleto, è stata oggetto di una importante iniziativa promossa dalla Camera Penale di Terni e dall’Associazione “Nessuno tocchi Caino”, a cui hanno aderito anche la Camera Penale di Perugia “Fabio Dean” e quella di Spoleto intitolata a “Stefano Pecchioli”. Quattro visite ed una interessante conferenza finale tenutasi presso la Casa di Reclusione di Maiano di Spoleto, ospiti della direttrice Bernardina Di Mario, ultima tappa del programma. Per l’occasione, inoltre, è stata voluta e consentita la presenza all’interno della struttura carceraria anche dei giornalisti, un apprezzabile segno di apertura e trasparenza che nell’incontro di Spoleto ha visto protagonista la nostra testata, tuttoggi.info. Partecipazione qualificata - Nutrita la rappresentanza delle istituzioni promotrici con in testa i vertici nazionali dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino”: la Presidente Rita Bernardini, il Segretario Sergio D’Elia (già parlamentari della Repubblica), il Tesoriere Elisabetta Zamparutti e il membro del direttivo Porzia Addabbo. Altrettanto partecipate anche le delegazioni delle Camere Penali di riferimento con in testa l’Avvocato Luca Gentili, presidente della “Fabio Dean” a Perugia, l’Avvocato Roberto Calai per la “Stefano Pecchioli” di Spoleto e la Segretaria della Camera Penale di Terni, Avvocato Francesca Carcascio. Molto apprezzata anche la presenza della Dottoressa Nicla Restivo, magistrato responsabile dell’Ufficio di Sorveglianza presso il Tribunale di Spoleto e quella di Massimo De Pascalis, protagonista (come Direttore) di una stagione importante alla Casa di Reclusione di Maiano (1985-1992) per poi arrivare ai vertici del DAP come Vice Capo Dipartimento. Da tempo, la stretta collaborazione tra il DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) e le associazioni come Nessuno tocchi Caino, o le Camere Penali nazionali, hanno consentito un monitoraggio costante della condizione carceraria in Italia che è senza dubbio utile e necessaria anche per la ricerca di nuove soluzioni ai gravosi problemi che affliggono l’istituzione: sovraffollamento, deperimento delle strutture- sempre meno rispondenti alle necessità minime- suicidi o fenomeni di autolesionismo che crescono contestualmente anche ai fenomeni di aggressioni al personale della Polizia Penitenziaria. Alcuni temi di discussione - Fa impressione, come accennato da Sergio D’Elia, il dato sulla condizione della salute mentale in carcere: tra il 30 e il 40% dei detenuti attualmente ristretti nel sistema italiano, ha seri o gravi problemi di salute mentale. Una condizione, quella del disagio mentale, non più compatibile con la detenzione, soprattutto dopo la chiusura degli OPG (Ospedale psichiatrico giudiziario). Utile e significativa la ricognizione sull’attività legislativa e parlamentare in atto fatta da Rita Bernardini che conosce alla perfezione il sistema e che racconta alla platea spoletina della mai avvenuta attuazione dei Consigli di Aiuto Sociale, previsti dalla legge di riforma del 1975 e mai realizzati. In una recente interrogazione parlamentare sul tema ad opera del deputato Roberto Giachetti (Italia Viva), il Ministro Nordio ha risposto presentando la soluzione alternativa dell’attuale Governo al problema: i Piani Triennali di reinserimento sociale. Con un non trascurabile dettaglio, ovvero la mancanza di quasi tutte le regioni del sud e, nel caso specifico, proprio dell’Umbria. Su questo abbiamo chiesto un commento proprio a Rita Bernardini. Lo stesso Massimo De Pascalis, dall’alto della sua pluriennale ed apprezzata esperienza conferma che Il problema “carceri” in Italia è all’anno zero, per così dire, con la seria possibilità che si facciano ulteriori passi indietro. Non deve stupire dunque la proposta di cominciare a ragionare sulla chiusura delle attuali carceri fatta da Elisabetta Zamparutti di Nessuno tocchi Caino. Una proposta radicale, in senso letterale ma anche di riferimento rispetto alle lotte del Partito Radicale, con un occhio alle battaglie di civiltà e rispetto costituzionale (art. 27 del testo) dello scomparso leader, Marco Pannella. Un momento di confronto, quello di Spoleto, dove anche le Camere Penali coinvolte hanno espresso grande apprezzamento per la collaborazione, senza troppi individualismi, tra istituzioni. Sicuramente l’unico modo di affrontare con una prospettiva il problema, nella certezza che la discussione della condizione carceraria italiana non è più rimandabile o trasferibile a sottigliezze o cavilli e meno che mai alla contesa politico-partitica. Si tratta ormai di una chiara situazione di civiltà giuridica, che vede ovviamente protagonisti non solo i detenuti, ma anche il personale dedicato, sia esso quello degli agenti di Polizia Penitenziaria, che i medici, psicologi, assistenti, operatori culturali e quant’altro, alle prese con una endemica carenza e mancanza di sostegno istituzionale. Modello Spoleto - In tutto questo una luce si intravede: ed è quando a giudizio di tutti e non solo per dovere di ospitalità, si conferma la bontà del modello Spoleto. Una struttura che, anche dal punto di vista architettonico, ha una sua ragione di vita ed una prospettiva anche in divenire. Una prova evidente che anche in tempi passati (fine anni ‘70) era possibile progettare con intelligenza visionaria una forma di “accoglienza” del detenuto, in funzione di un progetto di rieducazione. Lo conferma in un intervento illuminante anche l’Architetto Cesare Burdese, anche lui legato a Nessuno tocchi Caino ed editorialista de L’Unità, che da anni collabora con le varie Commissioni ministeriali chiamate a ripensare gli spazi carcerari italiani. Seppure nelle oggettive difficoltà che non vanno sottaciute, Spoleto è stata ed è un esempio comportamentale e strutturale che ha ricevuto apprezzamento unanime. Brescia. Piano carceri, il ministro Nordio conferma l’ampliamento di Verziano giornaledibrescia.it, 15 aprile 2024 Nell’istituto di pena di verrà realizzato un nuovo padiglione detentivo da 220 posti. Sono circa 2.300 i nuovi posti “regolamentari” per i detenuti previsti dal piano per le carceri del ministro della giustizia Carlo Nordio, illustrato dal Guardasigilli con risposta scritta a una interrogazione parlamentare sull’emergenza carceri firmata da alcuni senatori lo scorso febbraio, tra i quali Barbara Floridia di M5s. Due gli obiettivi perseguiti, quello di “cercare di contenere la problematica del sovraffollamento” e quello “di migliorare le condizioni di vivibilità dei ristretti e degli operatori penitenziari”. La strada seguita è quella “della realizzazione di nuovi padiglioni in plessi penitenziari già esistenti e quella della manutenzione ordinaria e straordinaria delle sezioni già attive”. “Gli interventi conservativi - ha spiegato il ministro - hanno consentito di poter recuperare posti detentivi inagibili per problemi edili e impiantistici, in modo da tendere al raggiungimento della soglia fisiologica del 5% di posti indisponibili, quota percentuale legata all’espletamento dei normali cicli di manutenzione ordinaria dei fabbricati (cadenza ventennale)”. I nuovi posti - A Cagliari il 21 febbraio è stato approvato il collaudo del nuovo padiglione da 92 posti destinato al regime 41-bis presso la Casa circondariale. La consegna è avvenuta il 20 marzo 2024. A Sulmona è in corso di completamento il collaudo, a cura del Mit, del padiglione da 200 posti della Casa di reclusione. Sotto la supervisione del Mit, è prevista la ripresa dei lavori di realizzazione del nuovo padiglione in costruzione presso la Casa di reclusione Milano Opera per 400 posti. Attesa per la fine dell’anno l’ultimazione del nuovo padiglione da 400 posti in costruzione presso la Casa circondariale di Roma Rebibbia Nuovo Complesso. Appena saranno riappaltati i relativi lavori, entro il 2025 dovrebbero essere terminati il nuovo padiglione da 200 posti dell’istituto di Bologna e il nuovo istituto da 250 posti di Forlì. In fase d’ultimazione la progettazione definitiva del nuovo padiglione da 200 posti presso Milano Bollate. Sempre al fine di accrescere la capacità detentiva del sistema penitenziario, il 27 settembre 2022 è stata formalmente acquisita la ex scuola Riccardo Pitteri, collocata in adiacenza all’istituto penitenziario di Gorizia, destinata a ospitare la nuova caserma per la Polizia penitenziaria. “In un orizzonte temporale più ampio (che si ritiene poter circoscrivere nell’ambito di un quinquennio), si annovera l’intervento - ha proseguito Nordio - per la realizzazione del nuovo istituto di Pordenone, in località San Vito al Tagliamento (300 posti), nonché la ristrutturazione e ampliamento del carcere Brescia Verziano (nuovo padiglione da 220 posti)”. Edilizia - Per quanto concerne il Piano di edilizia penitenziaria, il Guardasigilli ha sottolineato che “risulta avviata e in corso di avanzamento la realizzazione di 8 nuovi padiglioni detentivi in aree libere disponibili ‘intramoenia’ presso complessi penitenziari già attivi, il cui finanziamento per 84 milioni di euro è stato inserito negli interventi complementari al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e per i quali il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti è stato individuato in qualità di soggetto attuatore”. “Nel corso dell’ultimo biennio - ha rilevato il ministro, infine - è proseguita l’attività di collaborazione intrapresa con l’Agenzia del Demanio e il Ministero della Difesa per l’ulteriore potenziamento del patrimonio edilizio penitenziario, mediante l’acquisizione e riconversione in istituti penitenziari di alcuni complessi ex militari, caratterizzati da una configurazione di tipo modulare, che potevano essere convenientemente trasformati in istituti penitenziari a trattamento avanzato”. Biella. Delmastro nel mirino: “Troppe attenzioni per il carcere della sua città” di Mauro Zola La Stampa, 15 aprile 2024 Scalfarotto raccoglie le proteste del sindacato Osapp: “Celle sovraffollate ovunque, ma non nella sua città”. C’è voluto un po’ di tempo, ma in questi ultimi giorni l’attacco del sindacato della Polizia penitenziaria Osapp al sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ha scosso il mondo della politica. È stata infatti presentata da Italia Viva un’interrogazione al ministro Nordio e ieri l’Associazione Radicale Adelaide Aglietti lo ha attaccato in una conferenza stampa. A firmare l’interrogazione di Italia Viva, partito che da tempo ha Delmastro nel mirino, è stato in questo caso il senatore Ivan Scalfarotto, che si occupa della situazione delle carceri. Il segretario dell’Osapp Leo Beneduci aveva contestato a Delmastro il fatto che al carcere di Biella non vengano più assegnati detenuti, il numero di questi sarebbe infatti inferiore alla capienza (in totale sarebbero 332), contro i 370 che la struttura può contenere a regime ordinario, potendo arrivare fino a 570 in caso di bisogno. Questo mentre, secondo Beneduci, a Torino il problema del sovraffollamento avrebbe raggiunto livelli di crisi, con 1.500 ristretti a fronte di una capienza di 1.091. Inoltre mentre in molte strutture mancherebbero gli agenti della penitenziaria, tanto che a Cuneo e a Torino spesso non riuscirebbero a consumare il pasto in mensa per carenza di personale, a Biella il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria avrebbe inviato a Biella del personale in missione forfettaria a 110 euro di compenso giornaliero, questo compresi cinque ispettori e il comandante attualmente in servizio, tema su cui l’Osapp avrebbe già chiesto l’intervento della Corte dei Conti. Tutti argomenti che Scalfaroto riassume nell’interrogazione. “La grave situazione di carenza di personale di polizia penitenziaria negli istituti carcerari - scrive il senatore - stride fortemente con la situazione del carcere di Biella, che sembra aver goduto delle attenzioni del sottosegretario Delmastro, ad esempio quando ha sollecitato l’espulsione forzata dei detenuti stranieri ivi collocati, o quando ha dato corso a diversi interventi e incontri con i sindacati di polizia penitenziaria, anche di carattere ludico e all’interno del carcere, con personale della polizia penitenziaria che indossava magliette bianche con la scritta “Anche io sono Delmastro”. Scalfarotto chiede quindi al ministro alla Giustizia “chi abbia dato ordine di bloccare le assegnazioni dei detenuti al carcere di Biella” e “se non ritenga necessario verificare le ragioni delle mancate assegnazioni e contestualmente di accertare le motivazioni del ricorso alle missioni”. Tante anche le domande presentate in conferenza stampa dai radicali Lorenzo Cabulliese e Igor Boni, che partono da un presupposto: “Il caposcorta di Delmastro, Pablito Morello, che era con lui presente ai famigerati fatti del capodanno di Rosazza, arriva dagli agenti penitenziari del carcere di Biella. Così il suo autista. Il rapporto tra il sottosegretario e gli agenti del carcere di Biella è un fatto”. Da lì le domande: “Delmastro ci dica se è intervenuto per fermare i trasferimenti di detenuti a Biella per fare un favore ai suoi amici e per quale motivo il Dipartimento rinnova missioni a Biella e non in altre strutture come Torino dove mancano all’appello circa 200 agenti. Se corrispondesse al vero che Delmastro ha agito favorendo la struttura a lui amica, è evidente che saremmo di fronte a una violazione di gravità inaudita, ma attendiamo una risposta”. Roma. Progetto “Recidiva zero”. Sinergia tra carcere e società di Antonella Cirese onafrancanews.info, 15 aprile 2024 Il lavoro come mezzo di riabilitazione ed inclusione sociale dei detenuti con il progetto “Recidiva zero”. In questa ottica Ministero della Giustizia e Cnel hanno siglato nei mesi scorsi un accordo inter istituzionale di collaborazione con imprese, sindacati e associazioni di volontariato per offrire percorsi di training e lavoro ai detenuti. L’accordo, che risponde all’esigenza di dare un ruolo di riscatto alla pena grazie a progetti formativi che accompagnino i detenuti sia in carcere che fuori dall’istituto penitenziario, verrà presentato con una giornata di lavoro il 16 aprile a Roma presso il CNEL. Intanto a marzo c’è stata l’istituzione presso il CNEL di un Segretariato Permanente con l’obiettivo di creare sinergia tra istituzioni centrali e locali, territorio, forze sociali ed enti del terzo settore al fine di creare condizioni di inserimento nel mondo del lavoro ed arginare il pericolo della recidiva. Negli ultimi anni si è visto come attraverso la formazione professionale e l’istruzione si dia al detenuto un obiettivo concreto durante la detenzione in carcere ed uno strumento per reinserirsi nella società alla fine della pena. Società e carcere non devono essere due realtà parallele ma devono collaborare e lavorare in sinergia per dare un valore educativo e riabilitante alla pena. Bari. Universitari a supporto dei detenuti, il progetto borderline24.com, 15 aprile 2024 I detenuti possono accedere ai corsi di laurea, seguiti da tutor. Entra nel vivo l’attività dei 5 vincitori del bando dell’Università di Bari Aldo Moro, per le attività di supporto a studenti del Polo Universitario Penitenziario (PUP), esperienza che da circa tre anni offre ai detenuti la possibilità di accedere ai corsi di laurea universitari in Puglia, negli istituti penitenziari di Bari, Trani, Taranto, Turi e presso l’Istituto penale minorile di Potenza. I tutor Uniba, impiegati nelle strutture penitenziarie di Turi Trani e Tarant, affiancheranno, di intesa con le Direzioni, gli studenti detenuti per supportarli nei percorsi universitari da loro scelti si occuperanno di contattare i docenti per reperire il programma degli insegnamenti, il materiale didattico e concordare le date di svolgimento degli esami; in più aiuteranno gli studenti nell’attività di studio e preparazione degli esami. Attualmente sono 24 i detenuti e le detenute iscritti ai corsi universitari, collocati negli Istituti Penitenziari di Bari e Taranto, Trani, Maschile e Femminile e Turi. Lo studio, la riflessione, l’elaborazione, anche in un contesto difficile come il carcere, permette agli studenti detenuti supportati da persone esterne al carcere di conseguire un titolo di studio, ma anche di fare esperienza di relazioni diverse mentre per gli studenti tutor Uniba si tratta di affrontare e vivere una esperienza impegnativa e formativa molto importante. Il progetto del Polo Universitario Penitenziario (Pup) Uniba, nasce nell’anno accademico 2019/2020, con una serie di iniziative formative e culturali, avviate dal Dipartimento For.Psi.Com.Uniba, con le strutture penitenziarie della Regione Puglia che hanno coinvolto e visto come protagonisti, soggetti, uomini e donne, ristretti nelle carceri pugliesi, operatori penitenziari, docenti, personale non docente, studenti, dottorandi e specializzandi del Dipartimento. Le attività hanno avuto un seguito anche durante il periodo di pandemia da Covid, pur con difficoltà comprensibili. Nel 2021 il progetto assume una veste istituzionale, con una convenzione regionale, sottoscritta da tutti gli Atenei Pugliesi e Lucani, e successivamente allargata, anche al Dipartimento Giustizia Minorile, di Puglia e Basilicata ed all’Ufficio esecuzione penale esterna Uiepe di Bari. Torino. “Bisogna aiutare Halili, il filosofo dell’Isis: più vive ai margini e più è pericoloso” di Elisa Sola La Repubblica, 15 aprile 2024 Luca Guglielminetti, membro del pool di esperti e ambasciatore per l’Italia del Ran (Radicalisation awareness network) della Commissione europea, suggerisce subito un intervento in comunità. “Il caso Halili è il frutto del mancato percorso legislativo italiano rispetto alle politiche di prevenzione della radicalizzazione in Europa. Occorre che gli attori istituzionali, a partire dal prefetto e dal sindaco, permettano ora a questo ragazzo, che può essere recuperato, di entrare in una comunità. Serve un atto di volontà politica”. Il primo ideologo dello Stato islamico in Italia, condannato a sei anni e sei mesi per terrorismo dal tribunale di Torino. Halili ha finito di scontare la pena sei mesi fa. Da allora vive come un senza tetto, accampato in zona Parco Dora. Originario del Marocco, viveva a Lanzo prima dell’arresto del 2018. Halili è diventato noto a livello internazionale per la sua intelligenza e la sua abilità, come “filosofo dell’Isis” a fare proselitismo. Era in grado di persuadere e addestrare i futuri combattenti pronti a partire per la Siria. Luca Guglielminetti, perché ritiene urgente la presa in carico di Halili? “Il peggioramento della salute mentale di Halili, che è recente e dovuta alla sua detenzione in regime di isolamento, è una criticità. Inoltre il fatto che viva come un senza tetto non aiuta. Più vive ai margini, e più peggiora il quadro patologico, e maggiori sono i rischi. La comunità è un primo intervento emergenziale, a livello sociale e psicologico, dove possono intervenire neuropsichiatri, operatori sociali ed educatori che lo riassestino. Dopo, si potrà intervenire con l’attività di de radicalizzaione. E lui potrà scegliere se restare in Italia o tornare in Marocco”. A cosa serve la permanenza in comunità? “Nel caso specifico di Halili, la componente ideologica è molto forte. Dunque un intervento d’emergenza di questo tipo serve a placarlo dal punto di vista comportamentale. Halili non era un violento prima dell’arresto, lavorava a livello teorico. Non ha mai combattuto. Faceva proselitismo. Adesso c’è da fare un intenso lavoro di narrativa della sua vita, di analisi della sua biografia, delle sue capacità di comunicare. Dobbiamo permettergli di ricostruire un’immagine della sua vita, proiettata verso un futuro diverso”. Cosa significa? “‘È un lavoro che non deve implicare per forza che diventi un non islamico. De radicalizzare una persona significa, nel caso di Halili, che lui dopo questo tipo di lavoro può restare un islamico, e anche un islamico fondamentalista, se lo vuole, ma è importante che accetti una vita sociale in comunità senza commettere reati e senza teorizzare l’uso della violenza. L’obiettivo dei progetti di de radicalizzazione non è cambiare le idee politiche delle persone, ma insegnare loro a sapere restare nella società senza commettere reati, pur senza cambiare idea”. Lei è ottimista riguardo al futuro di Halili? “Sì. È un ragazzo che può essere re inserito, dopo un lavoro di un certo tipo, nella società, o italiana o marocchina. Ma ci va un impegno maggiore di prefettura e Città di Torino per trovare una soluzione. La sua situazione non può più attendere. Il caso Halili è il perfetto esempio di come un ragazzo che non ha commesso reati di sangue, e che ha scontato una pena grave, ora sia solo perché è mancato di fatto un percorso di de radicalizzazione strutturato sui modelli delle politiche europee.Ma noi abbiamo un problema legislativo, come Paese”. In che senso? “L’Italia non ha una legge che preveda politiche di recupero e di re inserimento sociale per i terroristi. Il massimo esperto legislativo sul terrorismo, Stefano D’Ambruoso, che aveva indagato il fenomeno già prima dell’undici settembre, e che poi entrò in parlamento, aveva in mente una norma. E aveva attivato, anticipando le direttive europee dell’antiterrorismo del 2016, un iter legislativo in Italia. Ma la legge non è mai passata, si è arenata in Senato per due volte, in due legislature differenti. È da 12 anni che come membro del Ran mi batto per promuovere queste politiche. L’Italia è l’unico paese che non ha politiche europee in materie di prevenzione”. Quali sono gli interventi urgenti da fare adesso per recuperare Halili? “Va innanzitutto sbrogliata la matassa burocratica. Da quando è uscito dal carcere Halili ha perso la cittadinanza italiana. Ma non ha i documenti marocchini e quindi non può essere rimpatriato. Dopo il carcere la sua salute mentale è deteriorata. Resta in un limbo quindi. E chi lo aveva seguito in carcere, nel percorso di de radicalizzazione, è stato lasciato solo. Come Ran, ho proposto in prefettura, lo scorso febbraio, l’inserimento di Halili in una comunità. Ma tutto è rimasto fermo poi. Ora serve una presa in carico istituzionale e politica”. Milano. “Oltre il carcere”, fragilità che si incontrano chiesadimilano.it, 15 aprile 2024 Il 15 aprile a Rho detenuti di Opera in dialogo con pazienti affetti da disturbi psichiatrici seguiti dalla Fondazione Sacra Famiglia. Interviene l’ex magistrato Gherardo Colombo. Può sembrare quasi un azzardo, un curioso esperimento sociale il singolare progetto di giustizia riparativa che verrà raccontato lunedì 15 aprile a Rho (appuntamento alle 21, all’auditorium Maggiolini) nell’ambito dell’iniziativa “Dialoghi di inclusione. Confini e passaggi”. Un’audace scommessa, si diceva, perché si parlerà dell’incontro tra un gruppo di detenuti del carcere di Opera e i pazienti affetti da disturbi psichiatrici seguiti dalla Fondazione Sacra Famiglia di Cesano Boscone, nel proprio Centro diurno “Il Cameleonte”. Da una parte i “cattivi”, dall’altra i “matti”, dunque. Vissuti differenti accomunati dallo stigma che si assegna ai comportamenti antisociali, e da una propria prigione: quella fisica di uno spazio ristretto e del tempo da trascorrere in carcere per i primi; quella di una mente che fatica a trovare luoghi e contesti per esprimersi sollevata dalle proprie sofferenze per gli altri. Per entrambi, però, il desiderio è poter andare “Oltre il carcere”, come recita il titolo dell’incontro, a cui parteciperà anche l’ex magistrato Gherardo Colombo. Contribuire a un percorso Anticipa il racconto dell’esperienza Barbara Migliavacca, responsabile del Centro diurno della Sacra Famiglia, che con i suoi pazienti ha risposto all’invito in carcere dei volontari dell’associazione In Opera (gruppo nato dalla Sesta Opera San Fedele e animato dagli stessi detenuti, che puntano a creare già in carcere occasioni concrete di esercizio e di gestione della propria responsabilità) di contribuire a un percorso di giustizia riparativa: “Una giustizia che non significa solo scontare una pena, - sottolinea -, ma anche la possibilità di ricucire relazioni”. Uno scambio iniziato nel 2019, quando i detenuti avevano incontrato altri ospiti della Sacra Famiglia, affetti da un ritardo cognitivo. “Questa volta, invece, le persone che entrano con noi in carcere soffrono di disturbi psichici, ma in molti casi riescono a condurre una vita autonoma”, specifica Migliavacca. Ogni due settimane, il giovedì pomeriggio, i malati del Camaleonte superano dunque i controlli di sicurezza, attesi da una ventina di detenuti: si realizza così, dietro le sbarre, l’incontro tra due fragilità, tra due mondi che in genere rimangono invisibili. Presa di coscienza - “Come per tutte le nostre attività l’obiettivo è far sì che i pazienti prendano contatto quanto più possibile con la parte più sana di sé”, sottolinea Migliavacca. E lo stesso, in fondo, vale per i detenuti, tanto che l’intuizione di uno loro è diventata lo slogan dell’intero percorso, da cui è nato anche uno spettacolo teatrale, Emozioni in Opera: “Noi non siamo il nostro reato, così come voi non siete la vostra malattia”, ha esclamato durante gli incontri uno dei ristretti. Una conclusione scaturita da un lavoro sulle emozioni: “Abbiamo messo in campo quello che già facciamo con i nostri pazienti”, prosegue Migliavacca, “lavorando sulla presa di coscienza di ciò che ciascuno prova: attraverso giochi, lavori di gruppo, disegni si prova a dare un nome ai propri stati d’animo, e a riconoscerli negli altri. È stato come guardarsi allo specchio: le rispettive fragilità erano riconoscibili, e questo ha reso più facile entrare in relazione”. Agli operatori il compito di condurre gli incontri, mantenendo quelle attenzioni che rendono possibile il confronto. “Uno dei nostri pazienti - fa un esempio Migliavacca - è un tifoso sfegatato del Milan, e, quando si tocca l’argomento, manifesta atteggiamenti di ipereccitabilità: ai detenuti, quindi, abbiamo chiesto di evitare le classiche battute che si fanno dopo le partite”. Parte del lavoro è, naturalmente, anche la rilettura dell’esperienza, per far emergere quei vissuti che hanno maggior valore. La scoperta è reciproca, sempre nella direzione della normalità: “i nostri pazienti non appaiono così “matti”, mentre per i detenuti, al di là dei loro errori, si scopre la possibilità di un’elaborazione del vissuto e di una crescita”, riassume la responsabile del Camaleonte. Da destinatari a protagonisti - Quest’anno il percorso prosegue sul tema della cura, per la propria persona e per gli altri; e al gruppo di utenti della Sacra Famiglia che entra in carcere, finora tutti maschi, si sono aggiunte anche due donne. Un atteggiamento di cura di cui in questo caso i pazienti sono non solo destinatari, ma diventano protagonisti nei confronti dei detenuti, in quello che per loro è un vero e proprio rovesciamento di ruoli. “I nostri pazienti sentono di essere, in queste circostanze, essi stessi i volontari, e sono ben consapevoli di avere un ruolo terapeutico per chi incontreranno - nota Migliavacca -: “sentono di poter offrire, con il proprio contributo, occasioni di riflessione, di riabilitazione”, in uno scambio che diventa arricchimento reciproco. Milano. Quando il carcere offre emozioni: musica, sogni e poesia, le riflessioni dei detenuti di Opera di Giuseppina Manin Corriere della Sera, 15 aprile 2024 Musica e Parole è un format nato dall’intesa tra le Dimore del Quartetto e il progetto Leggere Libera-Mente con il sostegno di Itsright Società Benefit. “E sognò la libertà, e sognò di andare via, via, via”. Che altro può sognare un detenuto? Di quel sogno ineludibile Lucio Dalla ne aveva fatto una delle sue canzoni più belle. Ma dentro una cella sogni e incubi, visioni e miraggi si affollano e si moltiplicano, e per non farsi sopraffare bisogna riuscire a raccontarli. Un’urgenza raccolta da Musica e Parole, format nato dalla collaborazione tra le Dimore del Quartetto e il progetto Leggere Libera-Mente con il sostegno di Itsright Società Benefit, che per il terzo anno si impegna a sollecitare un gruppo di detenuti del carcere di Opera a riflettere su temi cardine delle vite di tutti. Capitoli cruciali per chiunque voglia ricominciare. E così, dopo la Bellezza e la Speranza, è la volta del Sogno. Territorio impervio, da attraversare con l’aiuto di parole e versi scritti da loro stessi ma anche di brani musicali capaci di riflettere tante emozioni. Un complesso lavoro di preparazione condiviso in un incontro aperto al pubblico alla Casa di Reclusione di Opera. Protagonisti una ventina di detenuti inseriti nel laboratorio Libera-Mente dell’associazione Cisproject, e i giovani strumentisti del Doré Quartet: Ilaria Taioli (violino), Samuele Di Gioia (violino), José Manuel Muriel López (viola), Caterina Vannoni (violoncello). “Proprio per la sua fluidità, il sogno si può declinare in varie accezioni: a occhi chiusi, a occhi aperti, persino spalancati - ricorda Francesca Moncada, ideatrice e anima delle Dimore del Quartetto -. Raccontare i propri sogni non è facile, ma l’intreccio tra musica e parole ha la forza di evocare immagini e atmosfere, sollecitare nuovi scenari di pensiero”. Interessanti gli accostamenti tra i sogni elaborati dai detenuti e le partiture scelte dai musicisti. Per esempio la libertà ha trovato eco nel Quartetto n.2 in la minore di Brahms, ispirato a un viandante in cammino verso una redenzione. Mentre l’amore, altro desiderio lancinante, ha avuto come sfondo sonoro il Quartetto n. 2 in la minore di Mendelssohn dove il compositore si interroga sulla natura di questo sentimento. Quanto alla speranza, così ardua da coltivare in un luogo di sofferenza, l’appiglio è stato Beethoven, Quartetto n.3 in re maggiore capace di suscitare calma e fiducia. Ma il sogno dietro le sbarre sconfina in territori sorprendenti. Ismael racconta di sognare “una patria rotonda”, senza bandiere, né confini, né guerre. Quello di Mimmo, il poeta del gruppo che scrive versi in napoletano, è invece di stare “zieme a te” perché solo allora “o cielo para chiù bello e le stelle addubbat’a festa”. Quanto a Raffaele, che sta per laurearsi in Scienze dei Beni Culturali, confessa che per “sopravvivere al presente bisogna inventarsi l’isola che non c’è” e lui l’ha trovata nella cultura. Sogna il mare Pietro, quel mare “che mi dà senso di libertà, ma nel profondo del mare sogno spesso una sirena che mi trascina sul fondo”. L’incontro con la grande musica per loro è stata un’esperienza straordinaria. Anche perché il quartetto, formazione musicale la più paritetica, è un esempio di convivenza possibile, di un’armonia da raggiungere insieme. “Stando sul palco ho ascoltato come non ho mai ascoltato - ricorda Mimmo -. Bastava chiudessi gli occhi per volar via, per evadere, aggrappandomi al do re mi fa. Che goduria!”. Pontremoli (Ms). Il teatro in carcere va in aiuto alla giustizia di Luisa Brambilla iodonna.it, 15 aprile 2024 Il teatro in carcere può essere la premessa a un percorso di cambiamento. Se ne parla a Curae Festival, dal 16 al 20 aprile 2024 a Pontremoli. Adolescenti, magistrati, mediatori, e artisti in dialogo su L’Altro. Il teatro in carcere è la sua capacità di generare un cambiamento è al centro di Curae Festival, primo festival in Italia dedicato a Teatro, Mediazione e Giustizia Riparativa. Diretto e ideato da Paolo Billi (regista del Teatro del Pratello), Federica Brunelli (mediatrice della cooperativa Dike, Milano) e Lisa Manzoni (Associazione Puntozero di Milano). Ne parliamo con Federica Brunelli. Teatro in carcere e giustizia riparativa - “Mettersi nei panni dell’altro è la premessa indispensabile fare il lavoro teatrale. E anche per avviare un percorso di riflessione, come quello della giustizia riparativa. Oggi colonna portante della giustizia minorile in Italia”, spiega Federica Brunelli. Lei è mediatrice di una cooperativa, Dike, che dagli Anni Novanta a Milano segue i percorsi di giustizia riparativa dei ragazzi minorenni. Più di recente un centinaio di casi all’anno inviati dal giudice minorile. Mettersi nei panni dell’altro - I percorsi che, nel caso dei minori, integrano il procedimento tradizionale in tribunale, sono pensati per mettere in relazione vittima del reato e autore. Conoscere le emozioni che il proprio gesto aggressivo ha suscitato, accettare di confrontarsi con la rabbia, a volte, o il dolore di chi ha subito un’ingiustizia, è la possibile premessa a un cambiamento. Che si deve esprimere concretamente in atti riparatori. E che, nel processo minorile, può incidere sulla determinazione della pena. La ballata dell’angelo ferito - La Ballata dell’Angelo Ferito del Teatro del Pratello, in scena dal 16 al 18 aprile a Pontremoli. Il festival si declina in reading, incontri, tavole rotonde, uno spettacolo teatrale, proiezioni. Protagonisti sono i ragazzi che hanno fatto esperienza della giustizia riparativa, in dialogo, con gli interlocutori adulti. Il primo appuntamento è la messa in scena con un gruppo di ragazzi delle scuole di Pontremoli di uno spettacolo teatrale La ballata dell’angelo ferito. A cura del Teatro del Pratello di Bologna è allestita in tre date, il 16, il 17 e il 18 aprile. Le storie che si affrontano narrano di angeli che hanno subito ferite; donne e uomini che si ritrovano angeli per improvvise metamorfosi; angeli che rappresentano gli Altri. Mentre Desiré, opera prima di Mario Vezza, ambientata all’IPM di Nisida, racconta di come un “luogo di contenzione per antonomasia - grazie alla sensibilità di chi ci lavora e grazie all’arte teatrale - può diventare ambiente di crescita e rinascita” La proiezione è mercoledì 17 alle 21.00, Cinema Manzoni di Pontremoli. Incontri per addetti ai lavori - Le Attivita? Teatrali negli IPM: Confronti e Prospettive è l’incontro riservato a operatori della Giustizia Minorile e operatori teatrali coordinato da Susanna Vezzadini (docente di Sociologia del diritto, UNIBO) con Mario Schermi (venerdì 19). Si parlerà anche qui di teatro in carcere, come attivatore di cambiamento. Nell’ambito dei Dialoghi sull’altro, va segnalato anche il confronto tra il criminologo Adolfo Ceretti tra i primi a portare la giustizia riparativa in Italia, e Cristina Valenti, studiosa di teatro. La parola a ragazze e ragazzi - “Sul tema dell’altro”, spiega Federica Brunelli, “i ragazzi e le ragazze provenienti da 14 diversi istituti penali (Acireale, Airola, Bari, Bologna, Caltanissetta, Cagliari, Catanzaro, Milano, Palermo, Pontremoli, Potenza, Roma, Torino, Treviso) presenteranno le loro riflessioni scritte”. Si trasformeranno in un reading, Metamorfosi, diretto da Lello Tedeschi (regista di Teatri di Bari-TRIC), allestito sul greto del torrente Magra negli Orti della Città (venerdì 19 aprile). I testi saranno poi pubblicati dall’editore Castelvecchi, che ha curato anche la raccolta dei reading della prima edizione del Festival L’ascolto smarrito. In un secondo appuntamento saranno i ragazzi a usare il tema dell’altro. In confronto con gli adulti, rappresentativi di ruoli professionali differenti e di esperienze personali variegate, (sabato 20, Stanze del Teatro dalle 9 alle 13). Sarà in una tavola rotonda in cui saranno loro a fare le domande. Performance di giustizia riparativa - Che cosa è la giustizia riparativa? Perché dovrebbe interessare la gente comune? Per dare una risposta una performance- ancora una volta un gesto teatrale- coinvolgerà la cittadina di Pontremoli. “La performance sarà sabato 20 aprile accanto alla piazza del mercato, alle due estremità del ponte della Cresca. I ragazzi della cooperativa Kayros, seguiti dai mediatori di Dike, proporranno ai cittadini di mettersi delle cuffie e ascoltare mentre attraversano il ponte, delle voci. Sono quelle di aggressori e di vittime, che hanno accettato di fare insieme un percorso riparativo” spiega Federica Brunelli. “Al termine dell’ascolto si avrà la possibilità di rispondere a due domande. Ha mai commesso un’ingiustizia? E che cosa le sarebbe piaciuto fare per riparare a quel gesto? Ha mai subito un’ingiustizia? Che cosa le sarebbe piaciuto facesse l’autore per rimediare a quel gesto?”. Rapporto Idea 2024 sulla democrazia: Italia al penultimo posto per accesso alla giustizia di Agnese Ranaldi La Stampa, 15 aprile 2024 Il rapporto “Perceptions of Democracy. A Survey about How People Assess Democracy around the World”, dell’International Institute for Democracy and Electoral Assistance (Idea) di Stoccolma. Sfavorevoli al leader forte, sfiduciati nei confronti dell’accesso alla giustizia. Sono i cittadini e le cittadine in Italia che hanno risposto allo studio sullo stato di salute della democrazia, condotto dall’International Institute for Democracy and Electoral Assistance (Idea) di Stoccolma. Gli elettori di molti Paesi hanno espresso insoddisfazione nei confronti del funzionamento delle istituzioni democratiche. I risultati del sondaggio Perceptions of Democracy. A Survey about How People Assess Democracy around the World, pubblicato giovedì, tracciano uno scenario scoraggiante per la democrazia nei 19 Paesi persi in esame: Brasile, Cile, Colombia, Danimarca, Gambia, India, Iraq, Italia, Libano, Lituania, Pakistan, Romania, Senegal, Sierra Leone, Isole Salomone, Corea del Sud, Taiwan, Tanzania e Stati Uniti. Mentre 2 miliardi di persone si preparano ad andare alle urne nel 2024, dagli Stati Uniti, all’India, all’Unione europea, “le democrazie devono rispondere allo scetticismo dei loro cittadini”, ha dichiarato in un comunicato il segretario generale dell’Idea internazionale, Kevin Casas-Zamora. “Devono farlo sia migliorando la governance - ha detto - che combattendo la crescente cultura della disinformazione che ha favorito false accuse contro elezioni credibili”. L’Italia è al penultimo posto nel report per accesso alla giustizia, appena sopra la Colombia. Meno del 10% delle persone intervistate ha un’opinione positiva in merito (cioè, ha affermato che l’accesso è “sempre” o “spesso” libero e agevole): una percentuale simile a Libano, Pakistan, Brasile. Anche l’accesso alla giustizia è un indicatore della buona salute di una democrazia, ma solo gli elettori danesi ritengono che i tribunali la garantiscano “sempre” o “spesso”. Inoltre, come accade spesso nel rapporto, le opinioni degli esperti divergono dalle percezioni dei cittadini e delle cittadine. Ad esempio, l’Iraq ha una delle valutazioni più basse, ma le persone intervistate ripongono più fiducia nei loro tribunali (28% “sempre” o “spesso”) di quanta non ne ripongano gli statunitensi (26%). Inoltre, per gli autori del report, sono le minoranze, le donne e i gruppi economicamente più svantaggiati ad avere meno probabilità di credere in un accesso equo alla giustizia, anche nei Paesi ai quali gli esperti attribuiscono un alto rendimento. Leader forte: in Italia chi è contro lo è “estremamente”, chi è pro lo è “moderatamente” - Un elemento di particolare interesse, è la propensione delle persone che vivono in contesti democratici ad essere favorevoli o meno all’idea del leader forte. In generale, secondo il rapporto, “il sentimento più comune in tutto il mondo è la mancanza di una predisposizione negativa nei confronti di questo tipo di leader”. In Italia, invece, la percentuale di cittadini e cittadine che si colloca tra i non favorevoli è superiore rispetto ai favorevoli. Se si osserva la distribuzione dei favorevoli, questi sono perlopiù “moderatamente favorevoli”, mentre gli sfavorevoli sono perlopiù “estremamente sfavorevoli”. Gli estremi del continuum avrebbero un peso diverso, nel caso in cui questo tema dovesse prendere spazio nel dibattito pubblico. “Non sembra che vivere in un Paese ad alto rendimento con istituzioni politiche forti renda le persone meno propense a sostenere una leadership non democratica”, osservano gli autori del rapporto. Sono 8 su 19 i Paesi in cui cittadini che si dicono favorevoli a “un leader forte che non deve preoccuparsi del parlamento o delle elezioni” sono più di quelli sfavorevoli. In India e in Tanzania più della metà delle persone si dice favorevoli a questo tipo di leader. Persino in Danimarca, Paese che si colloca tra i più performanti dal punto di vista delle istituzioni democratiche, meno della metà delle persone intervistate dichiara di avere opinioni “estremamente sfavorevoli”. Elezioni: in 11 Paesi su 19 meno della metà degli elettori le reputa “libere e giuste” - In Italia, più della metà degli intervistati ha detto di ritenere le ultime elezioni politiche “libere e giuste”. In 11 dei 19 Paesi esaminati, invece, meno della metà degli elettori ritiene che le elezioni più recenti siano state “libere e giuste”. Tra questi, anche gli elettori della prima democrazia liberale, gli Stati Uniti, e quello della democrazia più popolosa al mondo, l’India. Taiwan, ad esempio, è un considerato dagli esperti una democrazia “altamente performante in termini di credibilità elettorale”, ma meno del 40% degli intervistati ha detto di aver avuto fiducia nel corretto svolgimento delle elezioni del 2020. Salute mentale, l’appello degli psichiatri: “Il sistema in crisi nega al paziente le giuste cure” di Anna Germoni Il Riformista, 15 aprile 2024 La professoressa Liliana Dell’Osso, presidente dell’associazione psichiatri italiani e numero 55 della Top Italian Scientist, Clinical Sciences che include tutti gli scienziati italiani nel mondo, su questo delicatissimo tema interviene così: “Le riflessioni contenute in questa lettera gettano luce sulle attuali condizioni della psichiatria italiana, descritte attraverso lo sguardo obiettivo e sincero di un giovane immerso nella quotidiana pratica clinica dei servizi territoriali. Sono informazioni preziose, che restituiscono il quadro di un sistema in crisi, come testimoniato dal fatto che sempre più spesso i nostri psichiatri neospecialisti scelgano di operare nella sanità privata, rinunciando per la propria salute fisica e mentale a svolgere la professione nei servizi pubblici, ormai in via di spopolamento”. “La psichiatria del 2024 - continua la scienziata - non è infatti, per nulla, sovrapponibile a quella che ispirò le riflessioni basagliane. Il progresso, soprattutto in ambito farmacologico, ha consentito un superamento delle antiche sfide, ma nuove problematiche, ancora non del tutto illuminate dalla conoscenza scientifica, hanno già valicato le porte di pronti soccorsi, centri di salute mentale e spdc, imponendo una gestione complessa e spesso insostenibile. Disturbi del neurosviluppo, sindrome di hikikomori, disturbi alimentari multiformi, quadri associati a nuove sostanze psicoattive: alcuni esempi di un panorama complesso e in costante evoluzione, così come la società nel quale è inserito”, e “viene meno, come sottolineato accoratamente dal giovane collega, la possibilità di prestare al paziente le giuste cure, la cui qualità, d’altronde, non può prescindere dal benessere psicofisico di chi le presta”. Anche Diana De Ronchi, ordinario di psichiatra all’università Alma Mater Studiorum dell’università di Bologna, con una laurea anche in Giurisprudenza, già referente per la Commissione di Ricerca della Comunità Europea a Bruxelles, ha fornito il suo prezioso contributo in una nota passionale che pubblichiamo integralmente. “Ho letto l’appello e ho ricordato quello di oltre 100 direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale scritto un anno fa dopo la morte della psichiatra Barbara Capovani. Entrambe esprimono dolore (ebbene sì, dolore, anzi grondano dolore). Lo stesso dolore che proviamo tutti noi psichiatri e che provano i nostri Pazienti. Di qualunque città o regione. Il dolore nel vedere dimenticato da tutti, come fosse qualcosa di indicibile, il tema del rapporto tra salute mentale e giustizia, e con l’attribuzione allo psichiatra del compito di controllo del paziente, non del dovere di cura (badate bene) ma del controllo sociale. Non più medici, ma custodi. Basaglia ci aveva liberato (sì, anche gli psichiatri erano stati liberati) del ruolo di controllo custodiale in vista del ruolo di medico… ed ora il dovere di custodia torna prepotente. Il dolore nel vedere ragazzine di 13 anni con autismo o ritardo mentale gravissimo ricoverate nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura per adulti, perché in tante civilissime città non vi sono posti letto in urgenza per adolescenti con problemi comportamentali. Il dolore nel sentire la nostra voce opporsi a tutto questo, una voce spesso inascoltata. E che evidentemente è meglio non udire. Il dolore per alcuni di noi, ricercatori della psichiatria, nel non potere far parte di un IRCCS (Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico), ma di tentare comunque disperatamente di fare ricerca (pur avendo vinto prestigiosi Progetti PNRR o della Comunità Europea) perché i letti (evidentemente insufficienti) sono sempre occupati dalle urgenze, continue, urgenti, sempre più urgenti, più urgenti ancora. Tutte le discipline mediche progrediscono, mentre il nostro sogno di disegnare trattamenti “su misura” per le malattie psichiatriche basati sulla genetica e sul profilo biologico del paziente, deve rimanere appunto un sogno? Oppure dovremo tornare all’estero, dove siamo già stati, laddove la ricerca psichiatrica è non solo tollerata ma desiderata e finanziata nelle istituzioni pubbliche? Scusatemi se ho usato toni forti, ma abbiamo combattuto a mani nude da una vita. Mi scusino i miei Pazienti, io vorrei dare loro speranza e nuove scoperte, vorrei dare loro una vita felice. Non posso dimenticare il nostro Mario (nome di fantasia) che veniva a trovarmi alla prima lezione di Psichiatria al Policlinico, per fare vedere agli studenti di Medicina come la sua vita fosse cambiata con la riabilitazione ed un farmaco efficace, scelto “su misura”. I miei studenti di Medicina ricorderanno certamente Mario. Lui non viveva più in una struttura chiusa, ma nella sua casa”. Il ministro Valditara non sa cos’è la “sua” scuola di Laura Eduati La Stampa, 15 aprile 2024 I figli degli stranieri di fede musulmana desiderano partecipare all’evento religioso più significativo dell’Islam. Se il ministro Giuseppe Valditara lo scorso 10 aprile fosse venuto in visita nella mia classe di stranieri avrebbe trovato l’aula pressoché vuota. La maggioranza dei ragazzi musulmani, infatti, è rimasta a casa per la festa di fine Ramadan e il risultato è che la mia è stata una non-lezione visto che mancavano quasi tutti. Ho recuperato due giorni dopo, quando finalmente la classe è tornata al completo. Scendo nei dettagli didattici perché questa è la scuola italiana dove gli studenti, lo ripetono tutte le linee guida ministeriali, sono al centro della comunità di pratica. Se mancano gli studenti, banalmente smette di esistere la scuola. Tuttavia non è soltanto questo il nervo vivo toccato dagli insegnanti di Pioltello, che in nome di un dato di fatto evidente hanno ritenuto di chiudere per un giorno le aule. A Pioltello, infatti, è andata in scena la enorme complessità del vivere scolastico contemporaneo. I figli degli stranieri di fede musulmana desiderano partecipare all’evento religioso più significativo dell’Islam, eppure ciò non significa che queste famiglie non diano importanza alla scuola. Lo può testimoniare uno dei miei studenti più capaci, un ragazzo maliano di quindici anni: il 10 aprile è venuto a scuola, ma controvoglia. Gli piace studiare, vorrebbe diventare professore di matematica. È attento e disciplinato. Eppure mi ha confidato, con il broncio: “Io, oggi, non dovevo venire”. Ha passato la lezione in fondo all’aula con le cuffiette alle orecchie. Eccola, la complessità. La stessa che viene citata come proemio alle Indicazioni nazionali del ministero, e cioè il documento più importante della scuola italiana: “Lo studente è posto al centro dell’offerta educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. In questa prospettiva, i docenti dovranno realizzare i loro programmi educativi e didattici non per individui astratti, ma per individui che vivono qui e ora”. Cosa avrebbe detto il ministro Valditara al mio studente qui-e-ora, improvvisamente ribelle? Edgar Morin, il filosofo e pedagogista che ha ispirato quelle indicazioni nazionali sullo spirito della scuola italiana, incoraggia la “unitas multiplex”, ossia il tenere insieme le varietà a volte disarmoniche. A Pioltello è stata trovata una soluzione a questa sfida della complessità, scegliendo la strada che lo stesso ministero delinea, quella di guardare alla realtà senza ricorrere alle regole astratte. Ora Valditara procede in direzione ostinata e contraria rispetto ai precetti della scuola che guida. In classe, in fondo, non ci deve entrare. Migranti. Sui Centri in Albania il governo smentisce se stesso. Pronti non prima di novembre di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 aprile 2024 In base al bando per la gestione avrebbero dovuto aprire a maggio, il ministero della Difesa prevede la consegna dei lavori per le strutture in autunno. Inizio lavori 23 marzo, consegna prevista dopo 233 giorni, cioè il 10 novembre. Così si legge nella determina del ministero della Difesa che ha affidato al Genio militare la realizzazione dei centri per migranti in Albania. Che, però, stando alle intenzioni della premier Giorgia Meloni e soprattutto al bando per la gestione degli stessi centri, avrebbero dovuto aprire i battenti il 20 maggio, giusto in tempo per incassare il risultato di quella che il governo ritiene una soluzione innovativa per alleggerire l’Italia dall’onere dell’accoglienza dei migranti. Cantieri appena aperti, ci vorranno mesi - Al porto di Shengjin e nell’ex base militare di Gjader, i lavori stanno appena muovendo i primi passi, siamo ai sopralluoghi che per altro starebbero rilevando una serie di difficoltà nel territorio. Impossibile che i centri siano pronti per maggio, ci vorranno mesi, passerà tutta l’estate. E, al di là della propaganda di governo, i primi documenti svelano il bluff dell’operazione Albania, i cui costi continuano a lievitare e rischiano di arrivare a sfiorare la cifra monstre di un miliardo di euro in cinque anni. Perché alle cifre ufficiali, già elevatissime che ammontano a circa 150 milioni di euro all’anno moltiplicati per cinque anni, devono aggiungersi i costi non quantificabili: quelli rimborsabili a piè di lista, per i trasporti e la sanità e, per quel che riguarda le strutture i subappalti “senza limiti di spesa”, come si legge appunto nella determina della Difesa. Fondi extrabudget dirottati dal Pnrr - Anche i costi per realizzare i due centri, l’hotspot nel porto di Shengjin e il centro di detenzione per richiedenti asilo da 880 posti, con un’ala destinata a Cpr (altri 144 posti) e un’altra a vero e proprio carcere (da 20 posti), a Gjader, sono da considerarsi un extrabudget. I lavori affidati al Genio costeranno circa 65 milioni di euro. Soldi che, in parte, vengono prelevati da un disegno di legge che riguarda l’utilizzo dei fondi del Pnrr, come sottolineano i rappresentanti dell’opposizione. “Ogni giorno che passa è sempre più chiaro il bluff dell’accordo Italia Albania - dice Matteo Mauri che per il Ps ha seguito i lavori in commissione sul protocollo Albania - I costi aumentano ogni mese. In un decreto di marzo hanno aggiunto altri 65 milioni di euro, sfondando il tetto dei 700 milioni totali. Una cifra spropositata per fare una cosa completamente inutile”. In aggiudicazione il bando per la gestione dei centri - Nei prossimi giorni il ministero dell’Interno aggiudicherà la gara da 36 milioni di euro a base d’asta per la gestione dei centri. All’esame ci sono le offerte delle tre imprese selezionate sulle trenta partecipanti. Ancora da bandire invece quella per la fornitura dei moduli prefabbricati che saranno piazzati sulle aree quando il Genio e le imprese subappaltatrici avranno terminato di sbancarle, bonificarle, realizzare fogne e impianti, Senza limiti di spesa. Medio Oriente. L’attacco di Khamenei che non aiuta Gaza di Nathalie Tocci La Stampa, 15 aprile 2024 Che avremmo visto una risposta iraniana all’attacco israeliano al consolato di Teheran in Siria era un segreto di Pulcinella. Quel che rimane incerto è il seguito. Per giorni gli iraniani, dalla Guida suprema Ali Khamenei in giù, lo avevano detto e ridetto. Come scritto su queste pagine all’indomani dell’attacco israeliano che uccise sette guardie rivoluzionarie della Repubblica islamica a Damasco, una risposta iraniana era quasi scontata. La domanda non ruotava, insomma, attorno al se, ma semmai al quando e al come sarebbe arrivata una risposta di Teheran. Perché, in effetti, la via era stretta. Da un lato l’Iran vuole evitare una guerra regionale. Fino ad ora, il Paese è tra i vincitori della guerra a Gaza, e non ha interesse a vedere l’escalation trasformarsi in una guerra regionale vera e propria (ossia una guerra tra Stati), dalla quale perderebbero tutti, Iran incluso. Parte del successo iraniano sta nel modo in cui Teheran è riuscita a capitalizzare politicamente sul disprezzo che c’è nella regione (e non solo) nei confronti di Israele, alla luce degli eccessi dell’invasione di Gaza. L’Iran ha usato la guerra nella Striscia per migliorare sensibilmente le proprie relazioni con i Paesi arabi, da sempre tese, a partire da quelle con l’Arabia Saudita. Paradossalmente, c’era proprio questo miglioramento a limitare le opzioni a disposizione dell’Iran. Teheran avrebbe potuto ristabilire la propria deterrenza rispondendo simmetricamente a Israele, colpendo una sua sede nella regione, dal Bahrain agli Emirati Arabi Uniti, dalla Giordania all’Egitto. Ma ciò avrebbe complicato le relazioni con questi Paesi arabi, che l’Iran ha coltivato negli ultimi mesi. Avrebbe potuto ingaggiare di più Hezbollah, ma sa che il Libano scongiura una guerra e che un attacco della milizia filo-iraniana libanese che superi l’impercettibile linea rossa che vige sul fronte nord sarebbe stato ancora meno controllabile di un proprio intervento diretto. Questo lasciava come unica via per ristabilire la deterrenza, considerata necessaria a Teheran, un attacco dal proprio suolo diretto contro Israele, senza tuttavia far precipitare il Medio Oriente in una guerra regionale. Insomma un dilemma non da poco. Per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, Teheran ha attaccato Israele con centinaia di droni e missili, ma ha reso l’attacco plateale e prevedibile, dando quindi a Israele, avvertita anche dagli Stati Uniti nelle ore precedenti all’attacco della notte tra sabato e domenica, tutto il tempo per preparare la propria difesa aerea. Difatti Israele, con il supporto di Stati Uniti, Regno Unito e Francia, ha intercettato e abbattuto la stragrande maggioranza dei droni e dei missili iraniani. L’Iran ha poi subito dichiarato che considera chiusa la faccenda, fermo restando che non ci sia un ulteriore attacco israeliano (o statunitense) nei propri confronti. Insomma, pari e patta, chiudiamola qui. Francamente non è stata una mossa geniale: un attacco così massiccio ha suscitato una condanna pressoché universale nei confronti dell’Iran e declassato Gaza nei dispacci della diplomazia internazionale. Ha pure spazzato via l’idea - per quanto ancora ipotetica - di sospendere o di condizionare gli aiuti militari occidentali a Israele, in un contesto di pressione aumentata dopo l’attacco israeliano al convoglio umanitario del World Food Kitchen, la minaccia imminente di un’invasione di Rafah e la carestia divampante nella Striscia. Per giunta, l’attacco iraniano non ha ristabilito granché la deterrenza della Repubblica islamica, visto che quasi tutti i droni e i missili diretti verso Israele sono stati intercettati. Probabilmente l’Iran avrebbe tratto più beneficio lasciando Israele sulle spine per più tempo e/o optando per una risposta meno telegrafata, massiccia e coreografica. Politicamente, poi, avrebbe giovato molto più a Teheran e all’intero Medio Oriente mantenere uno stretto collegamento tra la reazione al raid di Damasco e la guerra a Gaza, con una pressione crescente per un cessate il fuoco nella Striscia. Il sostegno per l’Iran tra i governi (non le opinioni pubbliche) della regione è, infatti, calato dopo l’attacco della notte tra sabato e domenica, durante il quale anche la contraerea giordana ha contribuito a sostegno di Israele. Gli Stati Uniti, così come tutti i Paesi del G7 e il segretario generale dell’Onu António Guterres, hanno prevedibilmente e giustamente condannato l’attacco iraniano. L’Ucraina, che vive quotidianamente offensive di questo genere da parte della Russia, non ha né il lusso di una difesa aerea come quella israeliana né beneficia della stessa protezione del proprio spazio aereo che, invece, Stati Uniti, Francia e Regno Unito hanno garantito a Israele. Il confronto è tragico. Il presidente americano Joe Biden, riaffermando l’impegno incondizionato alla difesa di Israele, ha però aggiunto che gli Usa non parteciperanno a operazioni “offensive” contro l’Iran. Anche Washington, come Teheran, scongiura una guerra regionale, sebbene abbia dato carta bianca a Israele nella guerra a Gaza e non abbia definito ciò che costituisce un attacco offensivo ed uno difensivo che, come noto, è opinabile. Se Israele non risponde, la questione può considerarsi chiusa, per il momento. Chiusa per modo di dire, naturalmente. Non solo non esiste alcuna possibilità per una reale riconciliazione nella regione in questo momento, ma, soprattutto, la minaccia di una guerra regionale non può essere accantonata finché andrà avanti la guerra a Gaza. E la guerra a Gaza andrà avanti. Tragicamente l’attacco iraniano, distogliendo l’attenzione dalla catastrofe umanitaria nella Striscia, rischia pure di averla prolungata. Da questo punto di vista, Teheran ha fatto il gioco di Tel Aviv. L’unico vero dubbio rimane il calcolo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Fino ad oggi Israele si è concentrata sull’invasione di Gaza, pur segnalando chiaramente di voler ribaltare lo scenario strategico nel nord del Paese, mantenendo viva la minaccia di una guerra contro Hezbollah in Libano. Fino ad oggi Netanyahu ha dimostrato di dare zero retta ai consigli paterni e agli schiaffetti sulle mani di Biden riguardo Gaza, mentre non è chiaro se a dissuadere Israele in Libano sia stata più Washington oppure l’oggettiva difficoltà di aprire un secondo fronte a nord mentre Israele rimane impelagata in quello a sud. Fonti di Washington hanno più volte suggerito il sospetto ed il timore che Israele voglia trascinare gli Stati Uniti in una guerra in Medio Oriente. Uno scontro diretto tra Israele e Iran garantirebbe, infatti, un’entrata in gioco degli Stati Uniti. L’unica cosa chiara è che Netanyahu pare avere più a cuore la propria sopravvivenza politica che la sicurezza del Paese da lui guidato, figuriamoci la pace in Medio Oriente. E questo non è di buon auspicio. Palestinese muore di cancro dopo 38 anni nelle prigioni israeliane: una storia emblematica di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2024 Può sembrare una storia minima di fronte alla devastazione che l’esercito israeliano ha fatto negli ultimi sei mesi contro i civili palestinesi della Striscia di Gaza. Ma, per quanto riguardi una sola persone, questa storia è l’emblema della crudeltà delle autorità israeliane. La settimana scorsa Walid Daqqah, 62 anni, il palestinese da più tempo nelle carceri israeliane, è morto di cancro. Le autorità israeliane sono rimaste sorde di fronte ai tanti appelli affinché, dopo che nel 2022 gli era stato diagnosticato un tumore al midollo osseo, il prigioniero potesse essere rimesso in libertà per ragioni umanitarie e trascorrere gli ultimi giorni della sua vita in famiglia. Arrestato il 25 marzo 1986, quando aveva 24 anni, Walid Daqqah venne processato un anno dopo e condannato all’ergastolo per aver comandato - un’accusa da lui sempre negata - un gruppo armato affiliato al Fronte popolare per la liberazione della Palestina che, nel 1984, aveva rapito e ucciso il soldato israeliano Moshe Tamam. Tanto per essere chiari, un crimine di guerra. La condanna venne emessa sulla base di una legge di emergenza del 1945, risalente al mandato britannico. Nel 2012 la pena venne commutata in 37 anni di carcere. Decorrendo dall’anno dell’arresto, sarebbe pertanto scaduta nel marzo 2023. Sarebbe, appunto. Perché, già diagnosticato malato terminale, Walid Daqqah era stato nel frattempo condannato ad altri due anni per aver fatto entrare telefoni cellulari nella prigione. Fine pena, dunque, marzo 2025. Walid Daqqah non c’è arrivato. Non solo, ma dal 7 ottobre la sua vita e quella dei suoi familiari sono diventate un inferno. Negli ultimi sei mesi di vita, Walid Daqqah non ha potuto fare neanche una telefonata alla moglie, Sanaa Salameh, alla quale ovviamente è stato negato anche l’ultimo abbraccio al marito. Walid Daqqah non ha potuto vedere per l’ultima volta neanche la piccola Milad, nata quattro anni prima grazie al seme fatto uscire dal carcere. Durante quasi quattro decenni trascorsi in prigionia, Walid Daqqah è stato un mentore e un educatore per generazioni di prigionieri palestinesi. Ha scritto saggi, un testo teatrale e letteratura per ragazzi. Una sua frase: “L’amore è la mia modesta e unica vittoria contro il mio carceriere”. *Portavoce di Amnesty International Italia Taiwan. La Corte costituzionale esaminerà un ricorso contro la pena di morte di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 15 aprile 2024 Chiou Ho-shun, Taiwan, undated photo. Chiou Ho-shun was sentenced to death for robbery, kidnapping, blackmail and murder in 1989. He has been detained for over 21 years while the cases have bounced between the High Court and the Supreme Court. This is the longest-running undecided case with defendants in detention in Taiwan’s judicial history. Chiou Ho?shun and 10 of his co?defendants say they were tortured into making confessions and denied the right to communicate with anyone for the first four months of their detention. They were also denied a lawyer during the investigation and interrogations. Il 7 aprile Chiou Ho-shun, uno dei prigionieri rinchiusi da più tempo nei bracci della morte di Taiwan, ha compiuto 64 anni. È in carcere da oltre 30 anni, precisamente dal 1989, quando è stato condannato alla pena capitale per i reati di omicidio e rapimento di cui si è sempre dichiarato innocente. Ha raccontato di essere stato tenuto in isolamento, senza contatti col mondo esterno, per i primi quattro mesi di detenzione e torturato affinché facesse una “confessione”, poi ritrattata. Chiou è stato l’unico imputato a essere condannato a morte. Gli altri 11 imputati hanno ricevuto varie pene detentive, ormai scontate, a eccezione di un prigioniero deceduto in carcere. I prossimi giorni potrebbero essere decisivi per il futuro della pena di morte a Taiwan. Attualmente sono 37 i condannati a morte ma le esecuzioni sono ferme per un ricorso alla Corte costituzionale che sarà esaminato il 23 aprile. *Portavoce di Amnesty International Italia