Il piano Nordio contro il sovraffollamento: 2.300 posti in più nelle celle di Francesco Bechis Il Messaggero, 14 aprile 2024 Da Roma a Milano, la mappa. Nuove strutture e padiglioni sorgeranno al fianco degli attuali istituti, per un totale di 2.262 posti extra. Non sarà un’impresa facile. E del resto il Guardasigilli Carlo Nordio ha sempre messo le mani avanti, da quando ha preso posto a via Arenula: costruire nuove carceri, in Italia, “è molto difficile, ci sono tanti vincoli”. Di fronte all’emergenza sovraffollamento però - con un indice che sfiora il 129 per cento e la violenza che monta dietro le mura, tra suicidi in crescita e incidenti tra detenuti e agenti penitenziari - il governo si trova costretto a muoversi. Nove strutture saranno costruite per trovare nuovi spazi ai detenuti. Vere e proprie carceri, oppure padiglioni che sorgeranno al fianco degli attuali istituti per ospitare un totale di 2.262 posti extra. L’annuncio - Ad annunciare l’accelerazione è proprio il ministro della Giustizia, rispondendo a un’interrogazione scritta della senatrice del Movimento Cinque Stelle Barbara Floridia sui suicidi in cella. Nordio parte dai numeri, drammatici. Sono 61mila gli italiani che stanno scontando una pena detentiva. Ma solo 51mila i posti ufficialmente previsti nelle piante carcerarie. Diecimila persone in più (ma sono stime a ribasso) bastano a dare il polso della situazione. Spazi ristretti, convivenze forzate in pochi metri quadri, condizioni precarie che alimentano tensioni e depressione dietro le sbarre e rendono la vita impossibile alla Polizia penitenziaria. Di qui il piano del governo. Mentre si cercano vie alternative per ridurre l’affollamento - accordi bilaterali con Stati stranieri, percorsi per affidare alle cooperative i detenuti prossimi all’uscita ma anche e soprattutto un freno alla detenzione cautelare - procede spedita la costruzione di nuovi spazi. La mappa - Dove? Roma e Milano, Cagliari e Sulmona, Brescia e Forlì. È ancora Nordio a tracciare la mappa dei cantieri. In alcuni di questi c’è già stato il taglio del nastro del governo. Come a Cagliari, il capoluogo sardo che andrà al voto a giugno e il 20 marzo ha inaugurato un padiglione da 92 posti della casa circondariale. Saranno tutti per i detenuti al 41-bis: mafiosi recidivi e pericolosi. È già operativo, sulla carta. Nei fatti, bisogna trovare gli agenti penitenziari per sorvegliare il padiglione: il regime 41-bis, come è noto, richiede un alto numero di poliziotti per garantire la sorveglianza continua. Nordio prosegue la conta. Duecento posti in più a Sulmona, il carcere recentemente travolto da uno scandalo per un traffico di cellulari e perfino stupefacenti che circolavano liberi tra i detenuti, con la complicità di alcuni dirigenti. Altri ottocento posti letto saranno presto pronti a Milano e Roma: quattrocento nel carcere di Opera, altrettanti a Rebibbia, nel nuovo complesso dell’istituto romano. I nodi - E nuovi spazi si ricaveranno in Emilia-Romagna, duecento posti a Bologna, duecentocinquanta a Forlì. Ancora al Nord: Bollate, Gorizia, Pordenone. Ruspe al lavoro, garantisce Nordio. Che dell’edilizia carceraria non è mai stato un grande fan e per questo ci tiene a precisare che le vie al vaglio sono tante e diverse, che il vero obiettivo è “migliorare le condizioni di vivibilità dei ristretti e degli operatori penitenziari”. Certo, i nodi da sciogliere sono tanti. Ad esempio, il destino dei detenuti stranieri: più di 19mila. Il governo cerca intese bilaterali per far scontare la pena in patria, dalla Romania ai Paesi africani, ma è un lavoro diplomatico delicato ed estenuante. E poi, le condizioni degli agenti di Polizia penitenziaria, fra le cui fila i suicidi sono frequenti tanto quanto fra i detenuti. Anche qui, c’è un serio problema di organico. Scrive Nordio: a fronte di una pianta organica del corpo che prevede 42.850 agenti e dirigenti in servizio, “si rileva una carenza di 7.335 unità”. Numeri che parlano da sé e i round di assunzioni avviati finora non riescono a stare al passo. La linea - Sta di fatto che il piano carceri procede spedito e si avvale dell’accordo siglato con la Difesa italiana per la cessione di alcune caserme dismesse da riqualificare: è successo a Grosseto a metà gennaio, con la consegna di 15 ettari e 40 prefabbricati del Demanio. È un punto fisso nell’agenda della destra italiana ben riassunto in un aforisma caro ad Andrea Delmastro, sottosegretario e vedetta meloniana a via Arenula: “La sinistra svuota le carceri, la destra le costruisce”. Carceri, allarme suicidi. I Garanti si mobilitano di David Allegranti La Nazione, 14 aprile 2024 Il tema della salute mentale in prigione è tra i più misconosciuti. Si fa fatica a capire l’entità del problema. “I suicidi sono il prodotto della lontananza della politica e della società civile dal carcere”, dice la Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà, che ha organizzato per il prossimo 18 aprile una giornata di mobilitazione, a un mese esatto dall’intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Sui suicidi in carcere servono interventi urgenti”, ha detto il capo dello Stato il 18 marzo. Dall’inizio del 2024 ce ne sono stati 30. Il triste record del 2022 - 84 suicidi - rischia di essere facilmente superato, nell’indifferenza di molti. “Ormai non si fa più in tempo ad enumerare i casi di suicidio che si è subito costretti ad aggiornarne l’agghiacciante elenco”, dicono i garanti territoriali: “È uno stillicidio insopportabile, al pari della sensazione di inadeguatezza delle attività di prevenzione”. La maggioranza dei detenuti vive, per oltre 20 ore al giorno, in celle sovraffollate, dalle quali esce solo nelle ore d’aria: “Questo rappresenta, senza dubbio, una patente violazione dei principi e delle garanzie riconosciute dalla nostra Carta costituzionale e dall’Ordinamento penitenziario. Tale situazione non è insuperabile”. Da qui l’appello dei garanti a parlamentari, consiglieri regionali e comunali, e agli stessi magistrati di sorveglianza, a “visitare le carceri con maggiore continuità e frequenza”. D’altronde, scriveva nel 1949 Piero Calamandrei che le carceri “bisogna vederle, bisogna esserci stati, per rendersene conto”. Il 18 aprile i garanti ricorderanno, nelle manifestazioni che stanno organizzando, i nomi dei detenuti che si sono suicidati, per malattia e altre cause ancora da accertare, “nonché i nomi degli agenti di polizia penitenziaria che quest’anno si sono tolti la vita”. Il tema della salute mentale in carcere è serissimo. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, pochi giorni fa ha firmato un decreto che prevede, per quest’anno, l’assegnazione di 5 milioni di euro all’amministrazione penitenziaria. Soldi destinati al “potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici negli istituti, attraverso il coinvolgimento di esperti specializzati e di professionisti esterni all’amministrazione”. Gli operatori del carcere dicono però che non sono sufficienti e spiegano che non è soltanto una questione di soldi. “Le giornate delle persone detenute vanno riempite e non passate sdraiati sul letto a guardare il soffitto o a passeggiare per la sezione”, dice Antigone. Nelle carceri, peraltro, ci sono persone che non ci dovrebbero stare. Che cosa ci faceva Alvaro Fabrizio Nuñez Sanchez, detenuto di 31 anni, affetto da gravi patologie psichiatriche, suicidatosi nel carcere di Lorusso e Cutugno, a Torino, lo scorso 24 marzo? Niente, assolutamente niente. Non era il posto per lui, non doveva stare lì. Lo aveva stabilito il pm che aveva disposto mesi prima il trasferimento in una Rems, cioè una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza; le Rems sono luoghi che ospitano le persone dichiarate incapaci (o semi incapaci) di intendere e volere al momento della commissione del reato, ma ritenute socialmente pericolose. Era proprio il caso di Nuñez, gravemente malato, che aveva tentato di uccidere il padre accoltellandolo nel sonno. Tra gli psicologi impegnati in cella: “Il carcere va ripensato” di Fulvio Fulvi Avvenire, 14 aprile 2024 Cinque milioni per combattere il male oscuro di chi sta dietro le sbarre: parlano gli addetti ai lavori. Il cappellano di Busto Arsizio: troppe chiusure, garantire socialità e telefonate ai familiari. Cinque milioni di euro per prevenire e contrastare i suicidi in carcere. Lo ha deciso il governo. Dall’inizio dell’anno 31 detenuti si sono tolti la vita, 490 hanno tentato di uccidersi e circa 3.500 hanno compiuto atti di autolesionismo. Un netto peggioramento rispetto agli anni passati. Col decreto firmato nei giorni scorsi dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, lo stanziamento annuale di bilancio è stato più che raddoppiato per essere destinato al “potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici” nei 189 istituti penali del Paese. Il fondo, finanziato dalla Cassa delle ammende, servirà per aumentare la retribuzione degli psicologi che lavorano nelle prigioni (pagati attualmente 30 euro lordi l’ora). Parliamo di professionisti a contratto, ex articolo 80 dell’ordinamento penitenziario e non di personale assunto in pianta stabile, come sarebbe necessario per garantire in continuità la salute mentale dei 61.000 reclusi nelle patrie galere. Il lavoro di pochi “precari” con persone fragili e arrabbiate con la vita - “Siamo precari la cui posizione lavorativa è soggetta a rivalutazione con selezione ogni quattro anni - spiega Chiara Paris, psicologa presso la Casa circondariale “Spini di Gardolo” a Trento - e questo spesso porta a un ricambio dei professionisti che non aiuta le persone detenute. Inoltre, il monte ore mensile è ridotto, mai superiore alle 64, molto spesso nettamente inferiore, e soggetto a variazioni nel tempo che rendono difficile seguire elevati numeri di utenti nel modo migliore. Anche gli psicologi Asl - aggiunge Paris - sono spesso in numero ridotto e necessiterebbero di maggiori risorse”. Ma qual è il lavoro degli psicologi con i detenuti? “Ci occupiamo di osservazione e trattamento, accompagniamo la persona condannata definitivamente in una riflessione sui motivi che l’hanno portata al reato e sulle possibili conseguenze dello stesso, al fine di fornire una valutazione quando questa viene chiesta dalla magistratura di sorveglianza ma svolgiamo anche azioni di sostegno”. Ma è sufficiente, questo, a impedire che la disperazione di chi è ristretto prenda il sopravvento fino alle estreme conseguenze? “Il suicidio si previene con un ambiente che restituisca alla persona la possibilità di esprimere la propria rabbia verso gli altri e se stessi e attraverso mezzi e attività che permettano di recuperare la fiducia in sé e nelle proprie potenzialità” afferma lo psicologo e psicoterapeuta Angelo Juri Aparo, per 40 anni consulente del ministero e ora impegnato nelle carceri milanesi con il “Gruppo della Trasgressione”, cooperativa sociale che dal 1997 si occupa di progetti a sostegno dei detenuti. “Il suicidio è favorito dalla difficoltà di tollerare, con la consapevolezza dell’oggi, la viltà del proprio passato, a maggior ragione quando la persona sente di aver perso la possibilità di rinnovarsi - osserva Aparo - e di non avere un futuro nel quale riconoscersi vivendo un senso d’oppressione così invalidante da volerne fuggire a ogni costo. Il suicidio è l’atto finale di una tirannia esercitata per anni ai danni di sé stessi”. Ma il disagio non significa solo patologie - Complessi sono i meccanismi della mente che possono portare un carcerato all’atto estremo. “Ma non è solo patologia, esistono fattori scatenanti, momenti critici, fattori personali legati agli affetti familiari o a difficoltà di relazione. E, inoltre, la “decisione” di togliersi la vita è influenzata spesso da aspetti di carattere culturale” sostiene Daniela Pajardi, docente di psicologia giuridica e sociale all’università di Urbino uno dei 4 membri della categoria che partecipa al “tavolo” istituito dal dicastero di viale Tevere tra Dap e Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi per definire protocolli e modalità di interventi allo scopo di prevenire i suicidi. “La tematica appartiene a tutte le figure dell’area sanitaria e non solo: esistono segnali, indicatori di rischio che vanno colti subito e in modo corretto, si tratta di un lavoro integrato - precisa Pajardi - che riguarda operatori appositamente formati. Tutti hanno un ruolo di prevenzione, poliziotti penitenziari, educatori, medici, mediatori culturali, dirigenti dell’istituto”. Ma ci sono fasce più fragili che meritano maggiore attenzione: donne e immigrati stranieri, per esempio. E i condannati a “fine pena mai”. “Un ergastolano, ma anche un recluso che deve scontare molti anni, arriva a non distinguere più il prima e il dopo - afferma Aparo - la vita di un uomo, però, è identificabile da tappe evolutive, il tempo deve essere misurabile, bisogna avere la possibilità di trasformare la realtà e l’ambiente. Ma il carcere è l’antitesi di questo - osserva -, lì meno rumore fai e più si sta tranquilli. Ma così è difficile essere riconosciuti”. Non si può entrare nella testa di chi medita il suicidio. “Quando ci si uccide spesso lo si fa per colpire un nemico, un tiranno incorporato nel proprio midollo: la morte è per punire qualcuno che si odia e nei cui confronti ci si sente impotenti - spiega Aparo -, si uccide così una parte interna che opprime il proprio sé impedendogli di formulare un progetto evolutivo. Come dire: tenetevi pure il corpo che è diventato vostro, io me ne vado”. Il carcere, di per sé, favorisce il suicidio. “Dietro le sbarre carezze non ce ne sono e se sei pericoloso vieni controllato, si creano tensioni e quando si ha sentore che un detenuto può suicidarsi - dice lo psicoterapeuta - lo si mette in una “cella a rischio” ma su di lui non ha buoni effetti”. Un tempo da riempire e gli affetti da curare - Gli interventi psicologici, da soli, non bastano a salvare la vita dei detenuti, servono anche più contatti con la famiglia, lavoro e attività per riempire il tempo. “Vanno evitati progetti che rischiano essere di puro tamponamento, cioè senza continuità - sostiene Pajardi -, forse utili ma non sufficienti, esistono problemi strutturali a cui va data risposta: e non basta aumentare le ore di colloquio con gli psicologi o somministrare più farmaci, bisogna dare uno scopo alla vita dei reclusi”. Intanto però di carcere e in carcere si continua a morire. “Da novembre siamo tornati al regime chiuso - afferma don David Maria Riboldi, cappellano nella Casa circondariale di Busto Arsizio - nessuno fa le “vasche” in sezione, camminando avanti e indietro per provare a stancare quel corpo che la notte poi non ne vuole sapere di dormire. A Natale e Pasqua le celle sono rimaste chiuse. Permessa la socialità ristretta: puoi chiedere di andare a pranzare nella cella dell’amico: chiusi dentro”. Sarà un caso che l’impennata dei “morti da carcere” sia arrivata proprio adesso?” si domanda il sacerdote. C’è poi la questione delle telefonate ai familiari. Tutti hanno detto, anche ministro e Dap, che possono essere aumentate le attuali 4 al mese (di 10 minuti ciascuna) ma si attende una decisione (anche se i direttori possono autorizzarne più di quelli previsti dal regolamento). “Serve un risveglio della coscienza nella collettività, anzitutto - sottolinea don Riboldi - serve leggere i fatti e l’umiltà di passi indietro e qualche passo in avanti, le celle andrebbero riaperte, le telefonate andrebbero aumentate. Non cambierà niente? Ma non vale la pena provare a salvare vite umane?”. Firenze. L’Inps gli nega la disoccupazione: 7 detenuti fanno causa e vincono di Vincenzo Brunelli Corriere Fiorentino, 14 aprile 2024 I reclusi avevano lavorato per 4 anni nel carcere di custodia attenuata di Solliccianino ma non avevano ricevuto la Naspi. Sette detenuti della casa circondariale “Mario Gozzini”, conosciuto anche come Solliccianino, il carcere a custodia attenuata accanto a Sollicciano, hanno vinto una causa contro l’Inps che si era rifiutata nel 2019 di concedergli l’indennità di disoccupazione (Naspi) dopo aver lavorato per circa 4 anni in carcere dove sono tuttora detenuti. Nel 2021 dopo il diniego definitivo da parte dell’istituto con i loro legali avevano deciso di avviare un procedimento giudiziario per il riconoscimento di quello che ritenevano un loro diritto acquisito. Nei giorni scorsi la sentenza del Tribunale di Firenze che ha condannato l’Inps a pagargli 24 mesi di Naspi, più interessi e rivalutazione. Si tratta di una delle prime pronunce di un Tribunale ordinario dopo la sentenza della suprema corte di Cassazione del gennaio scorso che aveva fatto chiarezza sull’argomento. La Naspi ha natura previdenziale e non assistenziale e il relativo trattamento economico è collegato a determinati requisiti e presupposti normativi. Non esistono quindi ragioni giuridiche per distinguere tra lavoro svolto in carcere e lavoro svolto in libertà. L’Inps aveva invece negato il beneficio economico ai 7 detenuti di Sollicciano proprio tracciando un solco tra chi lavora fuori dal carcere e chi lavora al suo interno da detenuto. Inoltre il Tribunale fiorentino ha rimarcato un altro aspetto fondamentale, quello relativo ai motivi per cui i 7 detenuti avevano interrotto l’attività lavorativa che non era dipeso dalla loro volontà ma da motivi interni di turnazione. Ma nemmeno se avessero interrotto il lavoro per fine pena avrebbero perso diritto alla Naspi secondo i giudici fiorentini. Insomma una vittoria su tutti i fronti. Nel cosiddetto lavoro intramurario (in carcere) vi sono diversi rapporti lavorativi (a termine) che si susseguono secondo i prestabiliti criteri di turnazione, e i periodi di inattività tra un contratto e un altro sono quindi assimilabili ad uno stato di disoccupazione involontaria come nel lavoro libero, in quanto scaturiscono da una cessazione del rapporto di lavoro indipendente ed estranea dalla sfera di iniziativa e di influenza del lavoratore e dovuta solo all’indisponibilità dell’occasione di lavoro, al di là della loro volontà. Per queste motivazioni chiare e precise il Tribunale fiorentino ha dato ragione ai 7 detenuti di Solliccianino e torto all’Inps su tutta la linea. D’altronde la Cassazione, nella sentenza del 5 gennaio scorso, nel richiamare la normativa in vigore e la giurisprudenza della Corte Costituzionale, aveva affermato che la legge prevede che il lavoratore detenuto abbia gli stessi diritti e le stesse tutele spettanti a tutti i lavoratori. Gli ermellini, infatti, avevano ribadito che il fine rieducativo del lavoro non influisce sui contenuti della prestazione e sulle modalità di svolgimento del rapporto di lavoro. Anzi, il lavoro penitenziario è tanto più rieducativo quanto più è uguale a quello dei lavoratori liberi. Inoltre, richiamando la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, i giudici di Piazza Cavour non avevano lesinato passaggi in sentenza molto precisi dove si affermava in maniera perentoria che il lavoro intramurario in carcere è equiparato al lavoro ordinario ai fini previdenziali e assistenziali e che la normativa prevede espressamente che lo stato di detenzione non costituisce causa di decadenza dal diritto all’indennità di disoccupazione. I giudici fiorentini hanno orientato le loro decisioni proprio partendo da questa recente pronuncia della suprema corte di Cassazione che ha messo ordine tra diverse interpretazioni dei vari tribunali italiani in merito all’argomento. I 7 detenuti ora riceveranno a breve tutte le somme dovute. Cuneo. “Più detenuti, rimane la carenza di agenti” di Giulia Marro La Stampa, 14 aprile 2024 Il direttore della Casa circondariale di Cuneo è Domenico Minervini, in amministrazione penitenziaria dal 1997. Già a capo degli istituti di Asti, Alessandria, Verbania, Aosta, Torino. Secondo lui bisogna considerare determinati fattori legati sia alla popolazione detenuta, che è cambiata come la società all’esterno, sia alle modifiche che riguardano il personale di sicurezza interno. “Stiamo assistendo ad un aumento significativo di quantità di sostanze stupefacenti che circolano - dice -. Le dipendenze che provocano sono preoccupanti. Spesso nel carcere non si riescono ad interrompere o l’astinenza ne genera altre. Ciò alimenta atteggiamenti violenti. Abbiamo sviluppato accordi con l’Asl per potenziare l’intervento interno, ma non basta. Un altro fattore da considerare è la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, che ha aumentato il numero di persone con disturbi mentali che non posso essere seguite degnamente negli istituti penitenziari”. La casa circondariale di Cuneo ha un alto numero di persone straniere detenute, il 55% del totale. Un dato aumentato dopo le ultime leggi nazionali in materia di immigrazione, che rendono più difficile la regolarizzazione e quindi favoriscono la microcriminalità per sopravvivenza. In che modo si adattano i servizi alle nuove esigenze che richiedono, come ad esempio il supporto legale amministrativo? “Molti detenuti vengono mandati qui da città più grandi dove le carceri sono sovrappopolate - prosegue Minervini -. Gli stranieri, non avendo legami sui territori sono più mobili. La maggior parte di loro sono irregolari, o lo diventano mentre sono detenuti. Questo status impedisce loro di accedere ad alcuni servizi, come il lavoro e l’accesso a comunità per tossicodipendenti. Ciò non aiuta a investire positivamente il tempo che passano all’interno del carcere in un’ottica di reinserimento, e quando escono possono passare da una detenzione penale a quella amministrativa (nei Centri permanenti per il rimpatrio). Per far fronte a questi ostacoli si sta sviluppando uno sportello multiservizi per pratiche amministrative di tutti i generi, per italiani e stranieri. Per dare una risposta più strutturata e alleggerire il carico di lavoro e responsabilità di associazioni di volontari. Inoltre le persone straniere non ricevono visite, anche se dal periodo Covid è stata potenziata la possibilità di fare videochiamate con le famiglie d’origine”. Un altro aspetto di difficoltà a Cuneo è il taglio di finanziamenti e l’aumento di detenuti, non proporzionale a quello del personale. Motivo per cui le sei sigle sindacali hanno indetto in questi giorni uno sciopero della mensa degli agenti penitenziari. “A Cuneo c’è una carenza di agenti pari al 13%. Sarebbero previsti 21 ispettori e ce ne sono solo 3, così come i sovrintendenti: 3 al posto di 25 - continua Minervini. Dei 148 neo agenti assegnati al nostro distretto 25 arriveranno a Cuneo (5 a fine aprile e 20 a luglio, ndr). Un altro problema di Cuneo è che ci sono tanti giovani agenti con meno di due anni di servizio: ben 40. Sono forze fresche che vanno guidate da ispettori e sovrintendenti. Se quel quadro intermedio è povero, si fa fatica a guidare il personale. E da un anno e mezzo è aumentato il numero dei detenuti: si è passati da 240 a 360, con un nuovo padiglione per 120 detenuti aperto a marzo 2023. Sono aumentati i carichi di lavoro, e l’incremento di personale è avvenuto solo a fine luglio. Nei mesi successivi c’è stata una perdita veloce di unità di polizia trasferite al Sud, in altri reparti 41/bis”. Da segnalare c’è il taglio del costo orario degli psicologi (ora rivalutato) e degli stipendi dei detenuti (addetti pulizie, lavori a turnazione). I reclusi sono più poveri e la tensione sale. Nonostante le difficoltà, per favorire il benessere dei detenuti e investire sul loro percorso rieducativo, il carcere di Cuneo ha da poco assunto due nuove educatrici, ha attivato il percorso di scuola alberghiera e di alfabetizzazione, ospita la Cooperativa Panaté che produce prodotti lievitati con detenuti articolo 21 e una nuova serra del progetto “Liberi di coltivare” gestita da Open Baladin e Joinfruit. Ancona. A Montacuto picco di autolesionismo. Ben 187 atti tra i detenuti nel 2023 di Dario Crippa Il Resto del Carlino, 14 aprile 2024 Il dato è emerso dal report del Garante Giulianelli: “Occorre intervenire subito”. Disagio psicologico, patologie psichiatriche, atti di autolesionismo. Uno spaccato della realtà all’interno degli istituti penitenziari che desta preoccupazione e induce a una riflessione di più ampio respiro, come quella proposta dal Garante Giancarlo Giulianelli “Non basta più accendere i riflettori - dice - soltanto quando si è al cospetto di gesti estremi. Non basta più semplicemente fotografare, occorre intervenire. Ma al momento ci troviamo in una situazione di profondo stallo, con notizie che rischiano di aggravarla ancora di più”. In base al monitoraggio effettuato dal Garante le patologie più diffuse, soprattutto negli istituti maggiori, sono quelle psichiatriche (diversi anche i detenuti in terapia psicotropa) e a seguire le problematiche cardiovascolari, respiratorie, osteoarticolari. Ovviamente le tossicodipendenze hanno una loro rilevanza come pure i tentativi di suicidio e si registrano diversi scioperi della fame. Nota dolente, come evidenziato da Giulianelli, sugli atti di autolesionismo, con un picco di 187 nel 2023 a Montacuto. Una situazione generale resa ancora più fluida dai trasferimenti dei detenuti con ingressi che, oltre a rendere oscillante il sovraffollamento, possono introdurre nuove patologie, nuovi casi di disagio che non sempre sono individuabili fin da subito. I dati Prap (Provveditorato per l’amministrazione penitenziaria) di Emilia Romagna e Marche indicano che al 31 dicembre 2023 erano presenti complessivamente negli istituti penitenziari 17 psicologi (5 per Montacuto e Barcaglione, uno Marino del Tronto, 2 Fermo, 3 Fossombrone, 6 Villa Fastiggi) e 17 funzionari per il giuridico pedagogico dell’ area trattamentale (6 per Montacuto e Barcaglione, 3 Marino del Tronto, 2 Fermo, 3 Fossombrone e 3 Fermo) con quattro responsabili (uno per entrambe le strutture di Ancona e nessuno a Fermo). Detto questo, il problema dei problemi resta quello dell’assistenza, della presenza di personale adeguato che rischia di assottigliarsi sempre di più. Andando ai dati evidenziati dal Prap, per quanto riguarda le Marche, Barcaglione e Montacuto avrebbero a disposizione 149 ore a fronte di 416 detenuti, Villa Fastiggi 112 per 244, Marino del Tronto 58 per 92, Fossombrone 34 per 85; Fermo 35 per 57. Firenze. Fra diritto e giustizia. In cerca di armonia nel nome di Antigone di Lisa Ciardi La Nazione, 14 aprile 2024 “Dura lex, sed lex” dicevano gli antichi, ovvero “la legge è dura, ma è legge”. Ma le norme devono essere rigorose o giuste? Qual è il punto di equilibrio possibile fra diritto e senso di giustizia? A questi interrogativi è stata dedicata la conferenza Riflessioni su Antigone - Tra politica, giustizia e città, organizzata per il centenario dell’Università di Firenze. Introdotti da Irene Stolzi, direttrice del Dipartimento di Scienze Giuridiche, hanno preso la parola gli accademici dei Lincei Massimo Cacciari e Pietro Costa, insieme a Luciano Violante, presidente emerito della Camera dei Deputati. Il confronto si è concentrato sulla figura di Antigone, che nella tragedia sofoclea decide di seppellire il fratello Polinice, benché il re di Tebe, Creonte, lo abbia vietato per decreto, trattandosi di un nemico, morto assediando Tebe. La rigida applicazione della legge porterà alla morte di Antigone, che si toglierà la vita in prigione, seguita dal suicidio del promesso sposo, Emone, figlio di Creonte, e quindi di sua madre Euridice. Irene Stolzi, introducendo il confronto, ha citato Piero Calamandrei e la sua arringa in difesa di Danilo Dolci, processato per aver protestato contro la disoccupazione avviando, insieme ad alcuni operai, dei lavori stradali. “Calamandrei - ha spiegato - fa riferimento proprio al contrasto fra Antigone e Creonte, tra la Costituzione democratica e il Testo unico di pubblica sicurezza del 1931, dicendo che le leggi non devono restare formule vuote, ma incarnarsi nella realtà dei valori democratici”. “Per capire Antigone - ha proseguito Cacciari - bisogna partire dal concetto greco di Nomos (legge, diritto), ma anche di Themis (ordine cosmico) e Dike (giustizia divina). La legge, come fatto contingente, potrà provare ad avvicinarsi a Dike e a Themis, ma è impossibile che incarni la Giustizia. Qual è dunque l’equilibrio possibile? Perché senza una giusta proporzione, senza un tentativo di composizione, si ha la catastrofe: di Creonte, di Antigone e della polis”. “Antigone è spesso vista come simbolo di libertà - ha detto Costa - ma non rivendica la libertà, bensì la legge. Invoca norme diverse da quelle di Creonte: leggi non scritte ed eterne. Secondo Calamandrei, nel processo di Norimberga, i gerarchi nazisti vennero condannati perché, pur non avendo violato leggi esistenti, avevano contraddetto quelle eterne dell’umanità, le leggi di Antigone. Nella tragedia si ha il contrasto fra la voce della polis e quella della stirpe, fra Lex e Ius. La scommessa del costituzionalismo novecentesco sta nella capacità della Costituzione di tenerle insieme, bilanciandole”. “Quello fra Creonte e Antigone - ha detto Violante nel suo intervento - è un conflitto sempre attuale fra vecchi e giovani, uomo e donna, legge scritta e non scritta. Un altro elemento di attualità è la necessità di una composizione del conflitto. E poi, il corpo del nemico, ancora oggi spesso esposto al pubblico ludibrio o fatto sparire”. “Attualissimo, infine, - ha concluso Violante - il tema della legge ingiusta: penso alle norme sull’immigrazione, che pongono più di tutte questioni di carattere etico, soprattutto quando si tratta di minori”. Lecco. Lezione in carcere per gli studenti impegnati nel percorso di educazione alla legalità orizzontescuola.it, 14 aprile 2024 Una lezione in carcere a conclusione del percorso di educazione alla legalità per gli studenti dell’istituto Parini di Lecco. Si tratta di un percorso intrapreso dall’istituto scolastico che prevede in particolare, si legge su Lecco Today, alle classi terze viene proposto un percorso di approfondimento sulla giustizia minorile tenuto dagli avvocati penalisti delle camere penali di Como e Lecco, mentre le classi quarte effettuano un’uscita presso il tribunale cittadino assistendo ad alcune udienze dopo avere seguito una lezione di approfondimento sul processo penale tenuta dagli avvocati. “L’avvicinamento alla realtà della detenzione costituisce quindi il momento conclusivo del percorso, ispirato dalla consapevolezza che la scuola svolge un ruolo fondamentale nel prevenire il disagio e la devianza giovanili e nel promuovere la cultura della legalità - fanno sapere i docenti - L’obiettivo è quello di aiutare i ragazzi a riflettere sulle conseguenze di scelte sbagliate, ma anche indurli a rivedere pregiudizi e stereotipi sedimentati riguardo la realtà carceraria e i detenuti, divenendo maggiormente consapevoli dei vissuti difficili e delle fragilità che spesso sono alla base dei reati che prevedono condanne a pene minori, sviluppando un atteggiamento di ascolto e imparando non a giustificare, ma a comprendere, e soprattutto ad avere chiara la finalità rieducativa della pena”. Due classi in particolare sono state protagoniste della visita al penitenziario. Dopo avere visitato alcuni spazi del carcere, gli studenti hanno avuto la possibilità di incontrare i detenuti e interagire con loro, formulando agli stessi alcuni quesiti e ascoltando le loro testimonianze rispetto agli errori commessi, spesso legati a vissuti faticosi e complicati, ma anche al proprio desiderio di provare a cogliere la seconda opportunità cui l’esperienza carceraria dovrà aprire le porte. “Si tratta di un’esperienza a cui i ragazzi si accostano con sensibilità e capacità di emozionarsi - osserva la professoressa Daniela Monaco - e anche per questo particolarmente significativa nella ricaduta educativa. Il nostro ringraziamento va quindi, per l’accoglienza ricevuta, oltre che alla direttrice della Casa circondariale, alle altre figure che operano all’interno della struttura e che abbiamo avuto modo di incontrare: dall’educatrice alle insegnanti, che testimoniano l’importanza dell’istruzione come opportunità di riscatto, fino al medico, agli agenti di polizia penitenziaria e al sacerdote, che accompagnano i detenuti nel loro delicato percorso”. Massa Carrara. Sul palcoscenico per essere liberi. Il teatro strumento di riabilitazione di Alessandra Poggi La Nazione, 14 aprile 2024 Successo per la due giorni di spettacolo agli Animosi organizzato anche dalla Camera penale provinciale. Volpi: “Coinvolti i carceri di Massa e Spezia. Per loro è una sorta di conquista, dopo il disagio”. Il teatro per riabilitare i detenuti e farli sentire persone “normali”. Questa la filosofia della prima edizione del mini festival ‘Passaggi’, di scena venerdì e sabato al teatro degli Animosi per la regia di Alessandro Bianchi. Sul palco veri carcerati quasi prossimi alla libertà, che grazie al teatro riescono a raccontare la loro voglia di riscatto. I dettagli nelle parole dell’avvocato Claudia Volpi, presidentessa della Camera penale, che ha realizzato il tutto assieme al regista Bianchi e Donatella Bennati, Giulia Tonelli, Alessandro Bianchi, Umberto Moisè. “Il progetto è nato all’incirca un anno fa e come Camera penale abbiamo pensato di partecipare per coinvolgere le carceri di Massa e Spezia - spiega Volpi -, in particolare per il carcere di Massa dove il mercoledì si svolge una sessione di teatro per i familiari. A Massa ci sono circa 140 detenuti. Questo progetto è una sorta di riabilitazione, durante lo spettacolo agli Animosi c’è stato un momento dove gli studenti potevano fare le domande ai detenuti e uno di loro ha risposto che il teatro lo faceva sentire normale”. “Per loro questa è una conquista perché partono da situazioni di disagio pesanti - prosegue Volpi -, i tre detenuti che fanno parte della compagnia sono prossimi a uscire. Alla Camera penale interessa avere un rapporto con i detenuti, solo nel 2024 ci sono stati più di trenta suicidi. Pensiamo che ogni iniziativa possa contribuire alla loro riabilitazione e a vedere una prospettiva fuori dal carcere”. Coinvolgere i detenuti per tutta la giornata è la mission della casa di reclusione di Massa. “I detenuti del carcere non potendo recitare perché non avevano permessi - aggiunge la presidentessa -, di loro spontanea volontà hanno voluto contribuire all’iniziativa realizzando delle borse all’interno del laboratorio di sartoria del carcere di Massa. Massa è considerato tra i migliori carceri dal punto vista educativo, buona parte dei detenuti può svolgere attività sartoria, tessitoria, falegnameria, ci sono un orto, una palestra, una biblioteca, un teatro e insegnanti per aiutare a conseguire le licenze medie e superiori. A parte per il momento della conta le porte del carcere di Massa sono sempre aperte”. L’iniziativa è stata realizzata dal Comune di Carrara in collaborazione con Experia Aps e Empatheatre Aps. Catanzaro. “Scusa mamma”, quando la musica rap “scatena” di Antonia Fama collettiva.it, 14 aprile 2024 Il rap del giovane detenuto Davo, creato nell’Ipm di Catanzaro grazie ai laboratori musicali del progetto Crisi Come Opportunità. “Non ero mai riuscito a chiedere scusa a mia madre per i reati commessi. Non so perché non riuscissi a dirlo. Mi vergognavo troppo del dolore che le avevo fatto provare... o forse una parte di me, sapendo che mia mamma mi avrebbe perdonato, pensava di non meritarlo”. Davide ora è un ragazzo libero, ma da detenuto dell’Istituto Penitenziario Minorile Paternostro di Catanzaro, ha partecipato a uno dei laboratori di rap del Presidio Culturale Permanente, un progetto di CCO - Crisi Come Opportunità. In Calabria, i due incontri settimanali con i ragazzi sono condotti da Christian Zuin, Nancy Cassalia e Giuseppe Fazzari, e coordinati dal rapper Kento. Nancy Cassalia, Scusa Mamma è il brano che Davide, in arte Davo, ha scritto con il supporto degli educatori e di altri ragazzi e ragazze. Un brano autobiografico, con una funzione catartica... Davo ha una spiccata dote naturale per la scrittura. Riesce a mettere giù i suoi pensieri e questo lo fa sentire più libero. Questo progetto è stato per lui fondamentale, il mio collega Christian Zuin ha costruito una base musicale adatta per il testo che aveva scritto, e non posso dimenticare il giorno in cui- era un venerdì- gliel’abbiamo fatta ascoltare. A Christian brillavano gli occhi, mi ha detto “ho fatto venire una squadra di archi”, perché Davide ci potesse cantare sopra. All’inizio arrivava con i suoi quaderni e ci faceva leggere testi molto generici. Uno in particolare sulla guerra perché, avendo origine ucraine, raccontava di quanto male facessero le bombe e di quanti bambini stessero morendo. Poi pian piano, grazie alla conoscenza e alla fiducia, ha deciso di farci leggere quel testo. Una storia reale: “Scusa mamma, se ti prendo i biglietti per i posti più brutti d’Italia” non è solo la barra di un pezzo rap, è l’esperienza autentica di un ragazzo che, avendo origini del Nord, costringeva la madre a farsi centinaia di chilometri per poter partecipare al colloquio e vederlo. Sono 516 i minori e i giovani adulti detenuti negli istituti penitenziari italiani all’inizio del 2024, il dato più alto registrato negli ultimi 10 anni. Progetti come CCO - Crisi Come Opportunità, sono di vitale importanza, per fornire ai ragazzi e alle ragazze in custodia della degli stimoli concreti per metabolizzare quello che vivono e al tempo stesso pensare in maniera costruttiva al loro futuro... Il nostro lavoro di educatori non si esaurisce nell’ipm, ma continua anche dopo, perché una volta che si chiude quella porta, si apre quella della vita quotidiana. Un giorno Davide mi ha chiamata e mi ha detto “ti presento la mamma a cui ho chiesto scusa”. La canzone è un pezzo di un percorso di maturazione e consapevolezza. Davide non solo ha scelto di non essere più il ragazzo che è entrato in ipm, ma l’ha voluto dire pubblicamente. E questo non è un passaggio scontato, non è neanche un processo facile, perché molte volte all’interno degli istituti di detenzione si compie un processo di maturazione che poi si scontra con la realtà che c’è fuori. Sono davvero rare le volte in cui questi ragazzi dicono pubblicamente “io non sono più quello di prima”. Di solito tendono a mantenere una corazza, un atteggiamento da duri, un certo distacco. Davide, invece, ha avuto il coraggio di urlarlo al mondo. Ogni volta che sento questa canzone il cuore mi va in frantumi. Ogni barra è una carezza che piano piano li ricompone. Dalle sue parole emerge tutta l’emozione di chi questo lavoro lo fa spinto da una vocazione profonda. Il vostro ruolo, accanto a ragazzi così giovani, può davvero fare la differenza, salvare vite che possono ancora andare diversamente... Negli ipm finiscono gli ultimi tra gli ultimi, i ragazzi che non hanno avuto alcun tipo di possibilità, o che sono stati educati in un modo che non permette di conoscere quale potrebbe essere l’alternativa. Questo che conduciamo con loro è un laboratorio di musica, ma è anche molto altro. Un percorso di di introspezione, di dialogo. Lì dentro noi siamo le uniche persone da cui non dipende la loro vita, nel senso che non scriviamo relazioni, non li giudichiamo. Quindi per loro è più facile riuscire ad aprirsi. Una volta un ragazzo mi ha voluto confidare il reato che aveva commesso e per cui era finito dentro, dettagli che noi assolutamente non chiediamo e di cui non parliamo per nostra iniziativa. Lui mi guarda e mi dice “ma hai capito cosa ho fatto? Gli ho risposto “sì, ma io ho imparato a volere bene a chi sei, non a chi eri”. Un altro ragazzo mi ha raccontato che voleva a tutti i costi tornare nell’istituto detentivo dove si trovava prima che lo trasferissero a Catanzaro, perché lì tutti gli portavano rispetto per il suo cognome, la sua famiglia. Ne abbiamo parlato, e l’ho fatto riflettere su come quello che nutrivano per lui non fosse amicizia, ma timore reverenziale verso un nome. Ci ha ripensato e non ha più voluto trasferirsi. La musica ha un grande valore terapeutico, supporta le ragazze e i ragazzi in un percorso di consapevolezza, ma rende anche molto più sopportabile la vita dentro, trasformandola da parentesi in opportunità... In quattro anni siamo riusciti ad avere uno studio di registrazione, anche grazie all’impegno del direttore. Ora abbiamo il nostro posto felice all’interno dell’istituto, abbiamo un’aula tutta pitturata, con la lavagna dove i ragazzi scrivono i loro pensieri. A breve avremo un’attrezzatura pronta per farli registrare ogni volta che vogliono. Siamo in continua trasformazione, anche se devo dire che fin da subito, dal settembre 2021, ci hanno accolto in maniera straordinaria e ci hanno subito dato fiducia. “Ora sarò migliore” è la promessa di Davo alla madre. Oggi Davide è un ragazzo libero... Davide oggi è un ragazzo libero, sta lavorando. Per carattere è molto timido, ma si esprime bene attraverso la scrittura, l’unico strumento attraverso il quale raccontare un passato che gli fa male. Prima di essere Davo il rapper, Davide è un ragazzo che non ha avuto le mie stesse possibilità e ha pagato il prezzo per la sua strada sbagliata. Si sta rimettendo su quella giusta, fatta di uscite, di amici, di famiglia. Aiutare i giovani ad immaginare un futuro diverso da quello a cui pensano di essere destinati: questo lo scopo di Crisi Come Opportunità. Dentro capiscono che possono cambiare, ma la vera sfida è fuori. Le è capitato di conoscere ragazzi che sono tornati di nuovo in ipm? Mi sono capitati due ragazzi. Il primo aveva lasciato l’ipm per andare in comunità, ma poi è tornato in ipm, perché fuori si era perso di nuovo. Non gli piaceva la vita della comunità e inoltre c’è da considerare che l’istituto per loro diventa una comfort zone. Dentro in ogni caso sono “tranquilli”, le giornate procedono secondo un ordine, fanno quello che devono fare e non fanno quello che non possono fare. Quando escono diventa tutto molto più difficile. E poi c’è stato un altro ragazzo che avevamo conosciuto in comunità e poi però lo abbiamo ritrovato in ipm. Nel momento in cui i ragazzi escono vivono una destabilizzazione profonda. A volte capita che riusciamo a chiedere loro di continuare un percorso con noi, altre volte sono così destabilizzati che non riescono a razionalizzare ciò che sta succedendo. Proprio su questo c’è tanto da fare. Ci stiamo lavorando e vorremmo concentrarci su come accompagnarli fuori. A proposito di musica, di narrazione e di istituti detentivi minorili. Cosa ne pensa della serie “Mare fuori”. Non rischia di essere un racconto troppo distante dalla realtà e che, dunque, la distorce? Sicuramente ha dato spazio e umanizzato il racconto di quello che avviene dentro agli ipm. Lo dico per esperienza personale. La prima volta che ci sono entrata a 18 anni, da volontaria, la notte prima non riuscii a chiudere occhio. Mi immaginavo questi ragazzi mostri, brutti e cattivi. Il giorno dopo, invece, incontrai dei fratelli minori. Grazie alla serie Mare fuori si prova a guardare più l’umano che il reato. Certo, ci sono tante cose che sono molto lontane dalla realtà, e di questo ne abbiamo parlato anche con i nostri ragazzi, che ci hanno persino scritto una barra: “Qui il mare fuori non esiste”. Oggi la nostra responsabilità, quando andiamo a parlare nelle scuole o quando accogliamo qui delle scuole, è abbattere gli stereotipi. Anche quelli che sono stati creati dalla serie tv. Lo faremo a breve con una scuola di Torino che verrà a trovarci nelle prossime settimane. Saranno gli stessi ragazzi detenuti a fare un gioco con gli studenti in visita, per smontare insieme gli stereotipi nati con la serie Mare fuori. Ancona. Lezioni di rap in carcere: “La musica può salvare la vita” di Dario Crippa Il Resto del Carlino, 14 aprile 2024 Sandra Piacentini, rapper falconarese, lavora coi detenuti. “Penso a Jordan, morto in cella”. “Quando ho letto di Jordan Jeffrey Baby, il trapper di 26 anni di Bernareggio morto in carcere a Pavia, non ho potuto fare a meno di pensare: se fosse stato uno dei “miei” ragazzi forse non sarebbe andata a finire così”. La falconarese Sandra Piacentini, in arte Miss Simpatia, sa di cosa parla. Perché i “suoi ragazzi” sono rapinatori, ladri, pusher, assassini, qualche volta innocenti, ma hanno tutti qualcosa in comune: sono in carcere. E lei, atipica mamma di 38 anni, per vocazione dà speranza e un senso alla loro vita. Con lezioni di rap. “È nato tutto per caso - racconta - quando ho scoperto che un mio amico era finito dentro e attraverso i suoi racconti ho aperto gli occhi sulla realtà carceraria, con i suoi problemi, il sovraffollamento, la mancanza di prospettiva”. Rapper di professione, marchigiana di Falconara, Sandra ha ideato un format: “theRAPia”. Lezioni di rap ai detenuti. “Un’opportunità per esprimersi, tanti ragazzi già conoscono questo linguaggio, Jordan era un trapper, sono convinta che la musica renda liberi. Potersi esprimere, avere uno spazio in cui potersi registrare, ascoltare, regalare le proprie rime alla mamma, alla fidanzata, a una figlia che ti aspetta può fare la differenza”. Al carcere di Montacuto, ad Ancona, il format ha già avuto successo... “Dieci detenuti il primo anno, poi su richiesta della stessa direttrice la replica quest’anno. Con 17 ammessi, ma le richieste sono state molte di più. Non è facile seguirne così tanti da sola quindi ho dovuto chiamare più persone e forse è stata un’arma vincente: i detenuti sentivano come se portassi un po’ “di esterno” all’interno. Ogni docente insegna una materia, chi il freestyle, chi la metrica, chi la respirazione e il diaframma, chi l’attitudine”. E adesso? “Mi piacerebbe esportare il format, anche a Monza. Metto a disposizione la mia esperienza”. La difficoltà maggiore? “La burocrazia, abbattere i muri e i pregiudizi. Occorre avere un progetto preciso, lezione per lezione. E bisogna imparare a entrare in carcere. Si viene a contatto con storie umane eccezionali e difficili. Double F, un ragazzo che prima di entrare in carcere faceva rap, un giorno ha preso le mie mani e mi ha detto “tu mi hai salvato la vita, questo corso mi ha salvato la vita”. La soddisfazione più grande”. I suicidi in carcere sono già una trentina quest’anno... “Alcuni detenuti che seguono il mio corso avevano tentato il suicidio ma dopo le lezioni di rap non è più successo. “BigMat” più volte mi ha detto che aspettava solo il lunedì e il giovedì per potersi sentire “libero”. “Is My Ill”, un rapper arabo, la prima volta che è venuto al corso non sorrideva, stava in un angolo e si tagliava, man mano che riusciva a partecipare alle lezioni ha iniziato a sorridere e ad aprirsi. Double F aveva pensieri brutti e da quando ha partecipato al corso è rinato. Il rap in contesti alienanti come un carcere può salvare”. Da dove si inizia? “Sono partita dalla domanda: cosa faresti se il tuo migliore amico finisse in carcere? Al mio fianco ci sono il coordinatore del progetto Kiwi e il producer e tecnico del suono Millet. L’obiettivo è offrire un’opportunità di espressione creativa e di reinserimento sociale. E i detenuti hanno dimostrato una notevole crescita artistica”. Questo progetto ha coinvolto figure importanti del rap... “TrapGod ha prodotto alcune tracce dei ragazzi, il brianzolo Emis Killa ha inviato un video di saluto ai detenuti, Jamil è venuto a trovarci, Shekkero (campione nazionale di freestyle) ha fatto lezione ai ragazzi. Questo progetto ha come finalità quella di restituire un’identità ai detenuti e offrire spunti di riflessione ma anche di provare a ridare un po’ di autostima”. TheRAPia è diventato anche un documentario, la pagina Instagram ha 73mila follower... “Double F ha anche girato un videoclip in carcere e i ragazzi hanno potuto incidere le loro canzoni grazie allo studio pert2studio e alla direttrice Manuela Ceresani”. I detenuti stranieri? “Nel mio corso ci sono tre ragazzi di lingua araba e uno indiano. Si rappa in tutte le lingue”. “Il re”, Sky si interroga su carcere e potere di Andrea Fagioli Avvenire, 14 aprile 2024 Un immaginario carcere, il San Michele, dove un controverso direttore, il duro Bruno Testori, si comporta da sovrano assoluto. Da qui il titolo Il re dato alla serie di Sky Studios. Ma può anche succedere che “il re” finisca dalla parte opposta delle sbarre con l’accusa di omicidio. Ecco il finale della prima stagione e l’inizio della seconda con Luca Zingaretti protagonista, diretto da Giuseppe Gagliardi in una storia fuori dagli schemi scritta da Peppe Fiore, Alessandro Fabbri e Federico Gnesini, in onda il venerdì sera su Sky Atlantic e Sky Cinema Uno e disponibile on demand. Per tirare fuori il direttore dalla cella e rimetterlo al suo posto interviene addirittura il capo dei servizi segreti con una richiesta-ricatto in cambio: far parlare un detenuto illustre, un magistrato accusato forse ingiustamente di omicidio. A questo punto Testori sospetta di essere lui lo strumento inconsapevole di una macchinazione, persino di un potenziale complotto internazionale. In cambio della libertà sente di perdere il suo potere assoluto. E se è vero che nel suo “regno” ha sempre esercitato la propria idea di giustizia in maniera decisamente discutibile, non tollera che il potere decida di schiacciare un potenziale innocente per interessi superiori. La serie si concentra così ancor più sul tema dell’abuso di potere: oltre a quello di Testori, adesso anche quello incarnato dai servizi segreti, che si mostra altrettanto ambiguo, manipolatorio e sostanzialmente immorale, con il confine tra bene e male, giusto e sbagliato, che diventa sempre più sottile. L’atmosfera si conferma cupa, ma meno claustrofobica, anche perché l’elemento thriller aggiunto in questa stagione spinge più spesso il protagonista all’esterno del carcere, che resta comunque uno spazio angusto, un microcosmo isolato dalla società esterna, in cui i conflitti tra le persone esplodono con violenza. “11 giorni”, il mondo dentro di Antonia Fama collettiva.it, 14 aprile 2024 I detenuti del carcere di Brescia si raccontano in una web-serie per la regia di Nicola Zambelli: “Qui neanche la vita è più tua”. Sin dalle prime scene 11 giorni è una soggettiva che ti porta dentro, cancello dopo cancello, insieme agli occhi di Nicola Zambelli, regista della web-serie che entra nel Nero Fischione di Brescia. Con una percentuale di presenze che ha superato, tra il 2023 e il 2024, il 200%, il penitenziario più affollato d’Italia apre le sue porte a un racconto nudo e crudo, che esce tutti i giorni sulla pagina Instagram del progetto @11giorni, in un gioco di numeri che regala 3 episodi al giorno, per un totale di 33. I numeri, per chi vive dietro le sbarre hanno un peso enorme: gli anni che si contano, le persone che si perdono, quelle con cui si condivide una quotidianità fatta di spazi angusti, sporcizia, violenza. Il documentario è una produzione InPrimis, Smk Factory e Associazione Carcere e Territorio, con la collaborazione del Comune di Brescia e il contributo di Cooperativa Bessimo e della dottoressa Doriana Galderisi, psicologa. I protagonisti della serie sono i detenuti che hanno preso parte a un percorso educativo volto alla creazione di momenti di riflessione, con l’obiettivo di trovare una modalità innovativa per arrivare al mondo dei più giovani. Il laboratorio ha permesso la raccolta di materiali testuali e audio interviste, che hanno costituito la traccia orale del racconto 11 Giorni. Una narrazione fatta prevalentemente di spazi riempiti da voci, in cui l’assenza fisica dei protagonisti è colmata dalla presenza di suoni e di storie. Una staffetta di parole e storie senza filtri. “Qui neanche la tua vita ti appartiene più” spiega uno dei protagonisti, per restituire il senso di una privazione che va oltre la punizione. Il compito del carcere dovrebbe essere quello di rieducare e preparare a una vita diversa fuori. Ma spesso non lo fa, perché gli educatori - e i progetti proposti- non ce la fanno a confrontarsi con i numeri del sovraffollamento, non riuscendo a dare a tutti la giusta risposta. Giorno dopo giorno la sporcizia, la mancanza di igiene e il degrado - persino i topi sono quotidiani compagni di cella - fanno dimenticare il senso della parola dignità. Dietro le sbarre, la violenza resta ancora il linguaggio prevalente degli scambi, mentre il disagio psicologico generato dalla clausura viene troppo spesso gestito con l’uso di psicofarmaci, quello che i detenuti chiamano “la terapia”. Una forma di assuefazione peggiore della droga, da cui non ci si libera nemmeno una volta fuori. L’uso di medicine in alcuni casi rende più violenti, in altri inebetisce, ma comunque ostacola in maniera irrecuperabile il percorso di consapevolezza e di maturazione. Nessuno dei detenuti intervistati ritiene il carcere ingiusto, ma quello che colpisce è la lucida analisi di quanto la vita dentro non aiuti a diventare migliori. Di come il carcere non supporti le persone nella costruzione di un’alternativa. E se così è, queste stesse persone una volta libere “entro dodici mesi torneranno di nuovo dentro”, come osserva uno degli intervistati. Ogni episodio di è una riflessione autentica sul confine tra carcere e libertà, uno sguardo profondo su una quotidianità che si fa fatica persino a immaginare. Attraverso un percorso di giustizia riparativa, i detenuti hanno raccontato le loro storie alla telecamera che guida lo spettatore nel penitenziario, con un doppio fine. Da un lato, quello di permettere ai detenuti di confrontarsi con se stessi. Chi ha la fortuna di riuscire ad accedere a percorsi di rieducazione attraverso l’arte, chi frequenta la biblioteca e gli altri spazi comuni, ha davvero la possibilità di immaginarsi un futuro fuori dal carcere. L’altro importane obiettivo è parlare ai più giovani, i veri destinatari del progetto. Durante incontri tematici proposti alle scuole superiori di secondo grado, il racconto video costruirà infatti un ponte tra il mondo dei detenuti e quello delle ragazze e dei ragazzi, per dire loro che si è sempre in tempo per scegliere una strada diversa. Una vita diversa. Il viaggio di Vito Palmieri nella “giustizia riparativa” di un carcere di Damiano D’Agostino di hollywoodreporter.it, 14 aprile 2024 “La seconda vita” è un film sulla rinascita, sulla ripartenza. “Anna, la protagonista, ha scontato la sua pena, ha capito il suo errore. Ora vuole costruire un futuro”, racconta l’attrice Marianna Fontana. La pellicola è stata recentemente proiettata nel penitenziario di Rebibbia. Al capolinea della linea B della metropolitana di Roma, fermata Rebibbia, c’è una scritta: “Fettuccia di paradiso stretta tra la Tiburtina e la Nomentana. Terra di mammuth, tute acetate, corpi reclusi e cuori grandi”. La firma è quella di Zerocalcare, il protagonista è il quartiere di Rebibbia, zona della periferia romana (a nord-est) nota principalmente - purtroppo - per la struttura penitenziaria. Tra quelle imponenti mura grigia, come in quelle di altre carceri italiane (tra cui Trento, Bolzano, Volterra e Trani), il regista Vito Palmieri, l’attrice Marianna Fontana e la produttrice Chiara Galloni, hanno concluso lunedì 8 aprile una distribuzione parallela di “La seconda vita”, ultima pellicola di Palmieri che racconta la storia della giovane archivista Anna, e del suo tentativo di ricostruirsi una vita dopo anni di carcere. Il film, arrivato nelle sale il 4 aprile, è una fotografia intima e drammatica - a tratti tragica - della cultura italiana in termini di carcere, detenuti e giustizia. Una storia, quella con protagonista Fontana, stretta tra la volontà di ricominciare e il freno del pregiudizio; tra il voler dimenticare, cancellare quasi, il passato, fino a rivederlo, affrontarlo. La giustizia riparativa - “Si parla di giustizia riparativa”, spiega la mediatrice Maria Pia Giuffrida, dell’associazione Spondé, che ha accompagnato all’interno della casa circondariale di Rebibbia Palmieri, Fontana e Galloni. “Il reato non è solo la lettura di una norma, non c’è solo una responsabilità giuridica, ma è la responsabilità relazionale. Il tentativo è quello di rendere presenti le vittime davanti allo sguardo di chi ha commesso un reato, un incontro che cambia completamente l’assetto esistenziale delle persone”. “Si sconta la pena, ma rimane quella che noi mediatori chiamiamo l’eccedenza”, continua Giuffrida. “È il dolore dell’altro, la sua ferita. Ed è una scelta drammatica che non lascia identici, si cambia. Anche se la vittima non vorrà incontrare il reo, già il fatto di aver pensato all’incontro cambia la vita”. La giustizia riparativa considera quindi il reato principalmente come un danno alla persona, proponendo un approccio che vede le vittime, le comunità, attivamente coinvolte nella riparazione, mentre chi ha commesso il crimine rimedia alla sua condotta. “Il film nasce con l’idea di un incontro impossibile”, spiega il regista Vito Palmieri, specificando che la storia di Anna non è tratta da alcun fatto di cronaca reale. “Inizialmente non doveva raccontare di carcere e recupero, ma anche solo un amore impossibile tra due persone sole, introverse. Poi ho avuto occasione di fare una lezione di cinema nel carcere di Bologna e di incontrare i detenuti per tanto tempo, e con loro è emersa la paura della società, del pregiudizio”. Un film sulla ripartenza - Non è la prima volta che Palmieri affronta il tema della “giustizia riparativa”, al centro del documentario del 2022 Riparazioni. Ora, con La seconda vita ha voluto realizzare un film “sulla rinascita, sulla ripartenza”. “Ma, più in generale su un pensiero comune a tutti, quello di avere una seconda possibilità. Inizialmente non c’era l’idea di un finale speranzoso, poi quando ho scoperto la giustizia riparativa, il film è diventato un flusso di coscienza, dal dialogo e dall’amore tra Anna e Antonio (interpretato da Giovanni Anzaldo, ndr) a quello con la madre”. “Interpretare Anna è stata una responsabilità”, racconta Fontana, che in passato ha recitato in film come Perez e Indivisibili di Edoardo De Angelis e Capri - Revolution di Mario Martone. “Quando Vito mi ha proposto il film, inizialmente non sapevo come avvicinarmi al personaggio, ma grazie a un percorso fatto con il regista stesso e con una criminologa, piano piano ho costruito questo personaggio, anche sul set. Era importante sentire il dolore che provava Anna, questa ferita interna che non si richiuderà mai, ma anche questa volontà di tornare a vivere e di essere di nuovo accettata dalla società”. Anna, la seconda vita - “Anna ha scontato la sua pena, ha capito il suo errore. Ora vuole una nuova vita”, aggiunge Fontana. Prima di entrare nel penitenziario, area femminile, c’è un locale, il Cookery Rebibbia. Una tavola calda, bar e pasticceria gestita dal Gruppo CR, e compreso nella cinta muraria della terza casa circondariale di Rebibbia. Nel locale, si legge sul sito, si offre “opportunità di riscatto a chi sta affrontando il proprio percorso di rieducazione all’interno del carcere”. Di Anna, all’inizio del film, non si conosce nulla. Sta cercando lavoro, come tanti, e lo trova, nella biblioteca pubblica di questo borgo mai nominato, ma che di fatto è il comune di Peccioli, in Toscana, riconoscibile dalle gigantesche statue vicine alla discarica. Figure umane di quasi 10 metri che emergono dal terreno, rinascono. “Inizialmente ho fatto un po’ fatica a capire come collocare queste statue nelle scene, in sceneggiatura non c’erano le statue”, spiega Palmieri, sottolineando come ha inserito queste sculture, realizzate nel 2011 da Naturaliter Snc, insieme al direttore alla fotografia Michele D’Attanasio e senza usare troppi virtuosismi tecnici. Inquadratura fissa, esterno-giorno, Anna è seduta sugli scaloni di un piccolo anfiteatro mentre chiama la mediatrice penitenziaria, con la scultura immobile e imponente davanti a sé che cerca di liberarsi dal terreno. “Ho trovato un lavoro, sono felice”, dice. La scelta di Peccioli - La scelta di Peccioli è stata influenzata sia dalla presenza di queste statue, sia per l’estetica del borgo. “Volevo ambientare il film in un non luogo, nel film non ci sono accenti o cadenze, non sappiamo da dove vengono i personaggi, perché non sentivo l’esigenza di raccontarlo”. Il borgo ha dato la possibilità a Palmieri di ambientare la sua storia “in un’isola felice, dove sembra andare tutto bene, ma che ha in sé un alone di mistero”. “C’è l’impressione che qualcosa di brutto possa succedere anche qua, anche nell’isola felice il pregiudizio può vincere purtroppo”. “Il personaggio di Anna mi ha lasciato molto”, aggiunge Fontana. “Ho lavorato molto sull’interiorità, esplorando anche il mio animo, e mi ha lasciato una grande maturità nell’affrontare il dolore. Anna è diventata una mia grande amica, e come personaggio che interpreto, cerco di capirlo, ascoltarlo, senza giudizio. Io ho solo dato un volto e una voce, poi il film è di chi guarda”. La proiezione a Rebibbia - La proiezione nei penitenziari, spiega invece la produttrice del film Chiara Galloni, non fa parte di una “trovata di marketing”. “Il film è stato lavorato in una logica di produzione di impatto sociale fin dalle sue fasi di scrittura, e l’arrivo di un percorso personale con la comunità e con mediatori. Nella fase di produzione sono state coinvolte persone detenute in permesso come comparse sul set”. E la distribuzione nelle carceri, in anteprima, è quindi la chiusura di questo percorso. Dopo la proiezione nel piccolo cinema di Rebibbia, alla presenza di circa una quarantina di detenute del penitenziario femminile, Palmieri, Fontana e Galloni erano più che soddisfatti, descrivendo l’esperienza come “diversa dalle altre svolte finora”. Il pubblico era, infatti, completamente femminile, ed erano “coinvolte nella narrazione” in un “momento catartico collettivo”, dice Galloni. “Hanno vissuto il film, pensavano ad alta voce, erano rumorose in senso buono, hanno dato voce ad Anna - spiega Palmieri - Quando subiva un pregiudizio o un’ingiustizia, rispondevano come se fossero loro protagoniste, tutte”. E alla fine del film, volutamente aperto, “le detenute hanno visto un seguito, un futuro alla storia di Anna”. “Scianèl”, il film sui detenuti del Malaspina arriva a Los Angeles tp24.it, 14 aprile 2024 “Scianèl” è tra i film finalisti che rappresenteranno l’Italia a Los Angeles all’Italian Comedy Festival. Il 14 aprile ci sarà la presentazione dei film finalisti a Roma alla Casa del Cinema dove verrà assegnato il premio “Giuria Giovani”. “Scianèl” è il tassello finale di “Officine Malaspina”, il progetto dell’associazione Centro Studi Pianosequenza finanziato dal Dipartimento per le Politiche giovanili e il Servizio civile universale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Regista e ideatore del progetto è Luciano Accomando. Le telecamere sono entrate fin dentro l’istituto penitenziario minorile Malaspina di Palermo. Cinquanta detenuti dell’istituto penitenziario minorile hanno preso parte ai laboratori di sceneggiatura, scenografia, fotografia, suono e critica cinematografica. È una finestra sul mondo la cinepresa, uno strumento che sa di riscatto sociale. Uscito al cinema il 16 gennaio “Scianèl” è stato visto ad oggi da oltre 7.500 spettatori in quattordici sale e nove città siciliane. Nel cast Lollo Franco nel ruolo del nonno e la giovane Giulia Fragiglio a interpretare Scianèl. Dopo diversi sold out arriva anche a Catania, Acireale, Trapani e Alcamo. Lunedì 15 aprile alle 20,45 il film sarà proiettato al King Multisala Cinestudio di Catania, martedì 16 aprile ad Acireale al Cinema Margherita con tre spettacoli alle ore 17,30, 19,30 e 21,31. Giovedì 18 aprile Scianèl si sposta a Trapani: appuntamento alle 18,00 al Cinema Diana. Il 24 aprile invece doppia proiezione allo Starplace Multisala di Alcamo, alle 18,30 e alle 20,30. Presente in sala in tutte le città il regista Luciano Accomando. “Con il film Scianèl abbiamo voluto raccontare lo Zen attraverso uno sguardo inedito - dice il regista Luciano Accomando - quello di una ragazzina che scopre di avere dei poteri magici e prova a colorare il mondo attorno a sé. Scianèl è una favola edificante capace di ispirare i giovani a credere nei propri sogni, ad abbattere i pregiudizi e a coltivare il piacere della scoperta. Il coinvolgimento dei giovani dell’istituto penitenziario minorile Malaspina di Palermo nelle varie fasi di realizzazione del film rappresenta per noi un valore aggiunto, perché dimostra che i sogni, talvolta, possono diventare realtà”. “Scianèl è un film che sta ottenendo un grande interesse da parte delle scuole perché è una storia di speranza e resilienza che fa bene al cuore - interviene la presidente del centro studi Pianosequenza Patrizia Toto - È un film che stimola la motivazione e la curiosità come punto di partenza per la ricerca della conoscenza. Contiamo di raggiungere ancora tante studentesse e tanti studenti grazie ai matinée nei cinema, per trasmettere le stesse emozioni che ci hanno guidato sin dal primo ciak”. Dallo Zen, come dentro un carcere, alla ricerca della felicità. Quando giustizia vuol dire guardare il mondo con gli occhi degli ultimi di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2024 In una “struttura di base” nella quale si generano diseguaglianze socioeconomiche tali disuguaglianze devono favorire quanto più è possibile coloro che occupano la posizione socioeconomica più bassa. Qual è “la fondazione morale più adeguata per una società democratica”. Questo è il quesito al quale John Rawls cerca di rispondere nella sua Teoria della Giustizia. Lo fa proponendo due principi basilari che ogni ordinamento politico e socio-economico dovrebbe rispettare: il “principio di libertà”, sul quale ci siamo soffermati a lungo nel Mind the Economy della settimana scorsa, e il “principio di differenza” su cui vorrei concentrarmi qui ora. La “struttura di base” della società è composta, secondo Rawls, da tutte quelle istituzioni e insiemi di regole che governano la vita degli individui e nell’ambito di queste istituzioni possiamo distinguere quelle che presiedono all’ordine politico e giuridico e le istituzioni di natura sociale ed economica, come la famiglia, il mercato, la proprietà. Mentre l’ordine politico è sottoposto al “principio di libertà”, quello sociale ed economico è regolato invece dal “principio di differenza”. A proposito di questo secondo principio il filosofo belga Philippe Van Parijs scrive nel suo capitolo della Cambridge Companion to Rawls che “Pochi elementi della filosofia politica di John Rawls hanno segnato un epoca quanto quello che egli, un po’ stranamente, chiamò il “principio di differenza”. Nessuno altro aspetto della sua teoria ha esercitato un’influenza così grande al di fuori della cerchia dei filosofi accademici e nessun altro elemento ha dato luogo a tanti malintesi o generato così accese controversie”. Il “principio di differenza” - Nella sua prima formulazione che troviamo nel paragrafo 46 di Una Teoria della Giustizia, il “principio di differenza” viene enunciato in questo modo: “Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere: a) per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente con il principio di giusto risparmio, e collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità”. Questa formulazione subisce negli anni varie rielaborazioni fino a pervenire nella sua versione più recente a questa forma: “Le disuguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni: primo, devono essere associate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa uguaglianza delle opportunità; secondo, devono dare il massimo beneficio ai membri meno avvantaggiati della società” (Giustizia come equità. Una riformulazione. Feltrinelli, 2002). L’enunciato come si vede è diviso in due parti, la prima riguarda l’accesso a eque opportunità e la seconda, invece, definisce il “principio di differenza” vero e proprio. Le prescrizioni associate alle due parti sono soggette ad un ordinamento lessicografico; ciò significa che ci si dovrebbe occupare della natura delle diseguaglianze solo dopo che l’uguaglianza delle opportunità viene garantita a tutti i cittadini. Ma cosa prevede, nel concreto, il “principio di differenza”? - Ci dice che in una “struttura di base” nella quale si generano diseguaglianze socioeconomiche tali disuguaglianze devono favorire quanto più è possibile coloro che occupano la posizione socioeconomica più bassa. Il principio è soddisfatto, cioè, quando non è possibile pensare a ordinamenti istituzionali alternativi a quello esistente che siano capaci di far migliorare la posizione socioeconomica dei più svantaggiati. Se al contrario questo dovesse essere possibile, allora, la “struttura di base” attuale violerebbe il secondo principio di giustizia. Una società giusta, potremmo dire, facendo riferimento al principio di maximin di cui abbiamo parlato qualche settimana fa, è una società che genera la migliore condizione tra tutte le peggiori situazioni possibili. Nel quadro della teoria rawlsiana la posizione socioeconomica è determinata dal modo in cui vengono distribuiti i tre beni sociali primari: i poteri e le prerogative associati alle posizioni professionali, il reddito e più in generale la ricchezza e, infine, il rispetto di sé. Su questi beni e sul modo in cui questi sono distribuiti a chi si trova in situazione di svantaggio occorre concentrare le analisi per verificare come e quanto i diversi assetti istituzionali soddisfano il principio di differenza. L’obiettivo di Rawls - È necessario ricordare che attraverso la sua teoria Rawls cerca di dimostrare che soggetti liberi e razionali negozierebbero nella “posizione originale” e raggiungerebbero un accordo per disegnare le loro istituzioni coerentemente con i due principi di giustizia. Ma perché, dunque, i cittadini dovrebbero accordarsi per l’adozione del principio di differenza come strumento di valutazione dei diversi assetti socioeconomici? La ragione è che dietro il “velo di ignoranza” i cittadini non conoscono quale posizione occuperanno nella costituenda società. Potrebbero finire per occupare quella migliore ma anche quella peggiore, oltre che qualunque altra posizione intermedia. È razionale, quindi, visto il rischio concreto di finire per appartenere alla quota più svantaggiata della popolazione, minimizzare il massimo danno, adottare, cioè, un principio di valutazione che, nel peggiore dei casi, darà preminenza proprio alla tutela degli interessi di chi si trova più svantaggiato. Il “principio di differenza” superiore ad altri principi alternativi - Una seconda ragione che spingerebbe i cittadini a convergere verso un accordo sul “principio di differenza” è che questo, comparativamente, si dimostra superiore ad altri principi alternativi, per esempio al principio utilitaristico della massimizzazione dell’utilità media. Questa superiorità si manifesta, secondo Rawls, sotto il profilo della chiarezza, della trasparenza e della sua concreta applicabilità. La felicità, il benessere o l’utilità, qualunque variante si scelta di considerare, sono concetti piuttosto complessi da misurare oltre che da confrontare. Se pure dovesse essere possibile affermare con certezza che il soggetto A è più felice del soggetto B, sarebbe impossibile dire di quanto. Quanto A è più felice di B. Un dato questo necessario per poter decidere fino a che punto saremmo disposti a tollerare una riduzione di felicità per A se questa dovesse produrre un incremento per B? L’impossibilità o la estrema difficoltà di rispondere anche solo a domande apparentemente semplici come queste rende il principio utilitaristico poco chiaro, trasparente e di difficile applicabilità concreta. In questo senso il principio rawlsiano è più immediato ed economico, visto che si fonda su un indice oggettivo dei beni primari ed ha bisogno di informazioni solo sul sottoinsieme dei cittadini più svantaggiati. Queste virtù del “principio di differenza” hanno implicazioni importanti sia per la sua utilità concreta sia per la possibilità di ridurre il conflitto che invece sorgere molto più frequentemente tra esponenti di posizioni differenti nel caso in cui si utilizzasse un criterio più vago e meno trasparente. La stabilità delle istituzioni - C’è anche una seconda considerazione che assume oggi un peso niente affatto trascurabile; si tratta della questione della stabilità delle istituzioni. Lo sottolinea il filosofo tedesco Thomas Pogge nel suo John Rawls: His Life and Theory of Justice (Oxford University Press, 2007). “La fedeltà morale (alle istituzioni) - scrive Pogge - non deve essere eccessivamente impegnativa dal punto di vista psicologico. Coloro che si trovano nelle posizioni socioeconomiche più basse troveranno spesso molto difficile dare un sostegno volontario alle istituzioni socioeconomiche che producono posizioni così basse (…) L’apatia e la slealtà sono tanto più probabili tra i cittadini quanto più sono svantaggiati”. Ma perché allora la questione dovrebbe riguardare tutti i cittadini anche coloro che non sono per niente svantaggiati? “Poiché l’apatia e la slealtà di alcuni - spiega Pogge - vanno contro gli interessi di tutti, tutti hanno interesse a moderare lo svantaggio”. Ma non sarebbe bastato, allora, che Rawls proponesse direttamente un principio di uguale distribuzione dei beni primari? In che senso possiamo affermare che una società dove regnano anche forti disuguaglianze può essere considerata giusta? Le ragioni per tollerare una certa dose di diseguaglianza sono almeno due e rientrano entrambe nelle classiche argomentazioni liberali a favore dell’economia di mercato. La prima questione ha a che fare con gli incentivi - Il gioco del mercato non è un gioco a somma zero. Non si tratta di distribuire un ammontare fisso di risorse. Si tratta piuttosto di far crescere quelle risorse attraverso l’ingegno, la ricerca e lo sviluppo di nuovi beni e servizi. Il problema è quello di imparare a cucinare torte più grandi, non tanto quello di vincere la lotta per chi deve mangiarsi la fetta più grande. A causa di molteplici fattori la capacità di far crescere la torta non è distribuita in maniera uguale tra tutti i cittadini. Alcuni sono più talentuosi, altri più perseveranti, altri ancora più visionari, altri, semplicemente, più fortunati. Il fatto che questi si trovino in una condizione di vantaggio, in termini di distribuzione di beni primari, rispetto ad altri, rappresenta un incentivo a continuare nella loro opera di innovazione e scoperta che alla fine produrrà un vantaggio di tutti: torte più grandi, fette più grandi per tutti anche per quelli che prima mangiavano, tra tutti, le fette più piccole. Tali differenze, scrive Rawls, “agiscono come incentivi affinché il processo economico sia più efficiente, l’innovazione proceda a un ritmo più rapido”. L’”efficienza allocativa” - C’è anche un secondo aspetto. Quello legato alla cosiddetta “efficienza allocativa”. In un sistema di mercato efficiente, infatti, non basta che gli innovatori abbiano la ragionevole certezza di poter guadagnare dal loro impegno e dai loro sforzi; è necessario anche che il mercato espella coloro che non sono capaci di utilizzare le risorse in maniera efficiente per consentire che tali risorse vengano attribuite - “allocate” appunto - a chi è più capace di farle rendere al meglio. La conclusione di Rawls è dunque che anche sistemi caratterizzati da una certa tolleranza verso le disuguaglianze sono maggiormente in grado di tutelari gli interessi dei più svantaggiati di quanto lo sarebbero sistemi puramente egualitari, a patto che i primi si pongano l’obiettivo esplicito, scrive ancora Rawls, di “migliorare le aspettative dei membri meno avvantaggiati della società”. Su questo punto Philippe Van Parijs sottolinea un aspetto interessante. Da quanto detto fin qui sembrerebbe che la tolleranza per la disuguaglianza, per quanto ampia, si fonda sulla possibilità che si verifichi qualche miglioramento, per quanto piccolo, a favore dei più svantaggiati. Questa caratterizzazione descriverebbe Rawls come molto più disposto ad accettare forti disuguaglianze di quanto non sia in realtà. In una delle ultime formulazioni del “principio di differenza” che troviamo in Una Teoria della Giustizia, infatti, Rawls parla di “disuguaglianze sociali ed economiche che devono essere (…) per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati”. In Giustizia come equità, analogamente usa l’espressione “il massimo beneficio”. Questa formulazione mette in chiaro il fatto che il passaggio da un assetto istituzionale ad un altro potrà essere considerato coerente con il secondo principio non tanto se nel secondo possiamo osservare un qualche miglioramento della condizione dei più svantaggiati, ma se quel miglioramento rappresenta il massimo miglioramento tra tutti quelli possibili. Il ruolo dell’istruzione - Discuteremo più avanti quali forme concrete potrebbe assumere una società ispirata dai principi rawlsiani di libertà e differenze. Vorrei concludere qui con un breve cenno al ruolo dell’istruzione. In Giustizia come Equità Rawls distingue cinque tipi di sistemi sociali, “ciascuno con le sue istituzioni politiche, economiche e sociali”. Il primo è il capitalismo liberista, poi il capitalismo assistenziale (welfare state capitalism), il socialismo di stato con economia pianificata, la democrazia proprietaria e, per finire, il socialismo liberale. Egli si concentra, in particolare, sul confronto tra capitalismo assistenziale e democrazia proprietaria, regimi che, più degli altri potrebbero essere coerenti con i principi rawlsiani. Entrambi i tipi di regime prevedono ampie libertà politiche e la proprietà privata dei mezzi di produzione. In un capitalismo del welfare state, tuttavia, il potere economico e quello politico sono concentrati nelle poche mani di una piccola élite che domina il processo politico. In una democrazia proprietaria, sostiene Rawls, la distribuzione del potere e della ricchezza è molto più ampia e democratica. C’è anche un’altra differenza, forse ancora più interessante, e cioè il fatto che, come fa notare ancora Pogge, “il capitalismo del welfare state tende a generare una sottoclasse permanente di destinatari dell’assistenza statale che, anche se ricevono benefici adeguati, sono esclusi da qualsiasi ruolo reale nella vita sociale ed economica della loro società”. In una democrazia proprietaria questo problema è mitigato. Scrive ancora Pogge: “Invece di alleviare la povertà più grave - a posteriori, per così dire - attraverso l’assistenza pubblica, la sua concezione impedisce l’emergere stesso di una sottoclasse bisognosa di sussidi pubblici. L’obiettivo è consentire a tutti i cittadini di soddisfare i propri bisogni socioeconomici con il proprio reddito da lavoro”. È qui che la scuola e il sistema dell’istruzione tutto entra in gioco. È necessario che tutti i cittadini ricevano in maniera compiuta tutti gli elementi culturali e educativi indispensabili per “poter partecipare, pienamente e come uguali, alla vita economica e sociale della loro società”. Ma questo non è ancora sufficiente. Potremo dire che il sistema dell’istruzione avrà assolto davvero al suo compito essenziale quando non solo i cittadini avranno gli elementi culturali per poter partecipare ma anche quando decideranno di partecipare effettivamente alla vita pubblica, sociale e politica perché sono sicuri del fatto che verranno considerati e trattati come uguali a tutti gli altri cittadino. Gli psichiatri scrivono a Mattarella: la Salute Mentale rischia il collasso di Anna Germoni Il Riformista, 14 aprile 2024 Non è passato un anno dalla morte della psichiatra Barbara Capovani, uccisa brutalmente, dopo aver finito il suo turno lavorativo nell’ospedale Santa Chiara di Pisa. Questa tragedia aveva scosso tutti. I suoi organi donati per salvare altre vite. Minuti di silenzio per onorarla. Nastro nero al braccio di tutti i medici e una medaglia al merito. Gli specialisti scrissero note, lettere di sdegno e di dolore evidenziando tutte le problematiche del loro comparto. Chiedevano aiuto e una mano tesa. Promesse legislative. Poi, il silenzio. Di nuovo abbandonati. Eppure il Rapporto annuale sulla salute mentale, presentato a ottobre scorso, ha indicato che nel 2022 le persone psichiatriche assistite dai servizi specialistici in Italia sono 776.829, ovvero 154,2 ogni 10.000 abitanti adulti. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, in occasione della giornata mondiale della salute mentale, il 10 ottobre scorso, in un messaggio inviato al ministro della Salute, Orazio Schillaci, aveva sottolineato come le disfunzioni mentali siano “circondate da un silenzio frutto del pregiudizio” alimentando così “il disagio”, che colpisce “un numero crescente di adolescenti e giovani, già messi a dura prova dalla crisi della pandemia e dall’affacciarsi in Europa dei conflitti armati degli ultimi anni”. Per arginare questo preoccupante fenomeno, il presidente della Repubblica aveva dichiarato che “è responsabilità comune promuovere politiche di prevenzione, di presa in carico precoce, inclusione e sostegno, fornendo ai ragazzi gli strumenti per crescere in salute e alle loro famiglie il giusto supporto”. È proprio a lui che oltre 500 operatori di salute mentale hanno sottoscritto una lettera, l’8 aprile scorso, per riaccendere i riflettori sulle gravi ferite in cui versa il comparto sanitario mentale. Il titolo della nota indirizzata al Quirinale è eloquente, “Basaglia si rivolta nella tomba”. La denuncia inizia così: “Signor Presidente, ci permettiamo di sottoporre a Lei, in quanto rappresentante di tutti i cittadini, le riflessioni amare e appassionate di un giovane collega psichiatra, in cui ci riconosciamo pienamente. A sottoscriverle è un vasto gruppo di operatori di salute mentale, diversissimi per storia, età, provenienza geografica, ruolo all’interno del Servizio Sanitario Nazionale, di cui troverà le firme in calce”. I medici sottolineano che “i servizi di salute mentale hanno un’importanza cruciale, soprattutto per le fasce più deboli e bisognose della popolazione. L’Italia non può permettersi di assistere impotente alla loro regressione, processo in atto da anni, e noi, impegnati in prima linea, non possiamo permetterci di tacere”. “Il nostro compito - si legge nella missiva inviata al Quirinale - è affrontare ogni giorno la sofferenza mentale dei cittadini nelle sue forme più gravi e laceranti. A un anno dal brutale assassinio della psichiatra Barbara Capovani, sentiamo il dovere di esprimere il nostro senso di indignazione e sfiducia nel sistema attuale, ma anche la determinazione a non arrenderci di fronte al declino e all’ingiustizia, perché una svolta non è più rimandabile”. Recentemente si è celebrato il centenario della nascita di Franco Basaglia, psichiatra e neurologo, ispiratore di quella legge 180 del ‘78 che cambiò l’approccio alla malattia mentale, sancendo la chiusura dei manicomi e riformando con lungimiranza il sistema di cura del disagio mentale e dell’assistenza ai pazienti malati. Proprio su questo oltre 500 medici nella missiva si interrogano retoricamente: “Ma cosa penserebbe Basaglia della situazione attuale dell’assistenza psichiatrica italiana?”. Stefano Naim, giovane e brillante psichiatra in servizio a Carpi primo firmatario dell’appello al capo dello Stato, descrive, nella lettera indirizzata al Quirinale, una giornata ordinaria tipica di lavoro. “Ieri. Guardia fino alle 20. Esco alle 23. Davanti a te, la scelta tra rimanere “sordo” all’angoscia dei pazienti, e andare presto a casa (in fondo, quella guardia neanche ti toccava). Oppure ascoltarli, i pazienti, per come meritano. Ma sapendo che sacrificherai te stesso. I tuoi bisogni personali. Che uscirai di notte. E che poche ore dopo tornerai in CSM (Centro di Salute Mentale). A coprire forse un’altra guardia, che non dovresti fare. Ma che farai. Perché non ci sono medici”. Naim continua il suo racconto: “La scelta, obbligata, tra sacrificare l’interesse per la gente, per garantire la tua conservazione. Oppure viceversa. Nell’indifferenza del sistema, marcio, che non pensa più a cosa serve per garantire la salute della gente - e dei suoi operatori - ma al contrario i suoi operatori li divora, ne calpesta la dignità, ne prosciuga la passione. Non ci sono medici? Non è un problema, farai il doppio tu. Ovviamente a gratis”. Tutto questo, “sulla pelle dei pazienti, smarriti e delusi. E degli operatori. Che il sistema sanitario lo lasciano. Indignati. Sfiniti. O tutti e due. Basaglia parlerebbe, forse, di tutto questo alla gente. Parlerebbe di un nuovo manicomio, fatto di disinvestimento e disinteresse. Spiegherebbe alla gente perché se va in Pronto Soccorso, o in un Centro di Salute Mentale, trova un giovane neanche specializzato, o un medico preso una tantum, a “gettone” (che spesso nemmeno conosce la tua lingua) o un medico che ti ascolta solo per 5 minuti, o che fa solo finta di ascoltarti. Spiegherebbe che questo sistema produce malattia. E fa carne da macello di chi si oppone al suo funzionamento malato”. Il giovane psichiatra chiosa con questa amarissima riflessione: “Sarebbe interessante parlarne oggi con Basaglia. Forse avrebbe orrore, nel vedere come sono messi oggi i suoi servizi. Logori, prosciugati di risorse, e dello spirito con cui (e per cui) sono nati. Chissà cosa farebbe, lui, per contrastare questa desertificazione. Io, che in confronto a lui non sono nessuno, ma ho capito che o mi ammalo o rinuncio, intanto denuncio. Forse gli farebbe piacere. Lo spero. Buon compleanno Basaglia”. Fatica, dolore e frustrazione di non riuscire a garantire adeguati livelli di assistenza a pazienti e famiglie gravemente sofferenti. Un appello d’amore straziante da parte di neuropsichiatri, medici e psicologi affinché il comparto di salute mentale non collassi. Ecoattivisti, non terroristi. A Padova cadono le accuse di Mario Di Vito Il Manifesto, 14 aprile 2024 Archiviata l’inchiesta shock per associazione a delinquere contro Ultima Generazione. Non solo clima: a maggio previste tre settimane di mobilitazioni “per la democrazia”. Un anno fa, tra lo stupore generale, erano stati trattati da terroristi in erba. Adesso la faccenda si è definitivamente sgonfiata. È la storia di dodici attivisti di Ultima Generazioni che, nell’aprile del 2023, vennero iscritti nel registro degli indagati della procura di Padova per associazione a delinquere e che adesso sono stati archiviati. L’indagine era cominciata nel 2020, quando cioè la digos si era accorta della presenza in città di alcuni manifesti contro “i grandi affari distruttivi” delle catene di abbigliamento. Da lì gli investigatori hanno inserito nello stesso fascicolo d’indagine notizie su diversi “blitz organizzati, discussi e vagliati” dagli attivisti ecologisti, trattandoli come un vero e proprio sodalizio criminale. Tra i reati ipotizzati: interruzione di pubblico servizio, ostacolo alla libera circolazione, deturpamento di beni culturali e imbrattamento di luoghi. Cioè, di fatto, blocchi del traffico, resistenza passiva agli agenti, scritte sui muri, manifestazioni non autorizzate. Eventi di portata minima e senza grande rilevanza penale che, secondo il sostituto procuratore Benedetto Roberti, bastavano lo stesso per circostanziare l’esistenza di un’associazione a delinquere (Ultima Generazione) parte addirittura di un network internazionale (Extinction Rebellion). Il 18 marzo scorso, però, il procuratore Roberti ha cambiato idea ed ha redatto una richiesta di archiviazione perché, per sua stessa ammissione, non esiste alcuna “strutturazione organizzativa dotata di autonomia operativa e strategica”. La giudice Maria Luisa Materia ha poi accolto la richiesta di archiviazione, firmandola l’8 aprile. “Siamo molto soddisfatti di questa decisione - commenta al manifesto l’avvocato veneziano Leonardo De Luca, difensore degli attivisti -, di fatto il magistrato prima e il giudice dopo hanno accolto in pieno quanto noi sostenevamo sin dall’inizio di questa storia”. Si chiude così una vicenda che fece discutere parecchio un anno fa, quando l’impressione generale è che la procura di Padova volesse sul serio considerare Ultima Generazione come un gruppo di ecoterroristi, mentre il governo Meloni, proprio negli stessi giorni, valutava l’ipotesi di punire con il carcere chi imbratta i beni culturali (alla fine la partita si è chiusa varando sanzioni fino a 60.000 euro). Non è indifferente, in tutto questo, il fatto che lo scorso febbraio a Padova si sia insediato il nuovo procuratore capo (Angelantonio Racanelli, in precedenza aggiunto a Roma) dopo quasi un anno e mezzo di ufficio vacante, periodo durante il quale la lotta interna per ascendere alla poltrona più importante è stata aspra e si è combattuta anche a colpi di inchieste giudiziarie che hanno fatto scalpore: vale la pena citare, tra le tante, la clamorosa iniziativa presa dalla procura padovana quando chiese al Comune gli atti relativi alla registrazione all’anagrafe di trentadue bambini, tutti figli di coppie omogenitoriali. Le attività di Ultima Generazione, comunque, non si sono mai fermate e il gruppo adesso si prepara a tre settimane di mobilitazione previste per maggio. Un ciclo di iniziative e di manifestazioni che “non ha a che fare con la crisi ecologica di per sé, ma con il grave stato in cui versa la nostra democrazia, che in un susseguirsi di governi inetti ci presenta di fronte a una crisi epocale in mutande e con un governo più interessato a rafforzare il proprio potere incriminando e soffocando le voci della protesta e del dissenso che a proteggere i propri cittadini”. Il mese di maggio dunque non sarà dedicato tanto alla crisi climatica, ma al fatto che “meritiamo una democrazia capace di farvi fronte”. Da qui l’appello rivolto soprattutto ai giornalisti, ai quali si domanda di mobilitarsi per le giornate dell’11 e del 25 maggio. Ultima Generazione, inoltre, esprime la sua “massima solidarietà” ai “giornalisti della Rai che vedono in queste ore il servizio pubblico ridotto a mera propaganda di regime” e “a tutti i giornalisti colpiti dall’emendamento proposto da FdI al ddl diffamazione che potremmo ribattezzare “ddl sulla restrizione delle libertà di stampa”, quello cioè che prevedrebbe addirittura il carcere da uno a tre anni (e una multa tra i 50mila e i 120mila euro) per il reato di diffamazione. La Ue, i migranti e i bambini delle scuole multietniche di Andrea Malaguti La Stampa, 14 aprile 2024 “Un giornale che è fedele al suo scopo si occupa non solo di come stanno le cose, ma di come dovrebbero essere”. - Joseph Pulitzer. Come dovrebbero essere le cose, allora? Per capirlo sono tornato a scuola. Alle elementari. Un istituto per mille e rotti ragazzini a Barriera di Milano, la periferia multietnica di Torino. Via Santhià, Istituto comprensivo statale Aristide Gabrielli. Un incrocio tra il circo da banlieue di Daniel Pennac e quello ipnotico di Roman Gary. Più un maestro, Guido Barilla, che avrei voluto averlo io in terza elementare. Ho pensato di andarci dopo che il parlamento europeo ha approvato il pomposo Nuovo Patto per l’Asilo e l’Immigrazione, una specie di marginale pasticcio rassicura-coscienze (eppure “storico” a sentire Bruxelles) che dice un sacco di cose discutibili, ma nella mia testa essenzialmente due. La prima: i migranti vanno redistribuiti, ma se un Paese non li vuole paga una quota e buonanotte. Strana idea di solidarietà da mercato delle pulci, eppure a Giorgia Meloni piace. La seconda: anche i bambini da sei anni in su, vanno schedati e trattenuti ai confini dell’Europa con tanto di impronte digitali e foto segnaletiche. Prima del patto-pasticcio, per trattarli come criminali in nuce bisognava che ne avessero almeno 14 di anni. Era incivile lo stesso. Ma adesso di più. Come ha scritto Giorgia Linardi su questo giornale: “siamo di fronte ad un accordo al ribasso sulla tutela dei diritti umani, in particolare del diritto di asilo e questo perché si continua a considerare la migrazione come un’eccezione, come un’emergenza, invece di riconoscerla come un fenomeno strutturale dei nostri tempi”. Mi rendo conto che soltanto a sussurrarle, certe frasi, si finisce nel calderone di quelli che “allora volete farli entrare tutti indiscriminatamente”. Ma è una fesseria talmente colossale, che corro volentieri il rischio. Forte anche di una frase che mi ha detto poche settimane fa Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’Eni, non un pericoloso comunista. In sintesi: “Parlano tutti dei rischi dell’intelligenza artificiale e pochi della vera questione che sta esplodendo sotto i nostri occhi: le grandi migrazioni dall’Africa”. Per inciso, il continente che Descalzi ama di più al mondo. Puoi fare patti, pattini e comizietti acchiappa voti, ma se non pensi che le pressioni demografiche e migratorie vadano gestite con umanità per evitare che ci saltino addosso, allora sei matto. Con questi pensieri che ballano confusamente in testa vado all’istituto Aristide Gabrielli e dal maestro Guido Barilla. Mi accoglie dicendo: “c’è Lampedusa, poi ci siamo noi”. Mica gli dispiace stare sulla frontiera. Al contrario. È nato in Calabria e si è trasferito in Piemonte da ragazzino. Quando è arrivato qui - in questi sgarrupati alveari di cemento in cui non è chiarissimo chi e quante persone vivano in affitto, subaffitto e sub-sub-sub-affitto - lo chiamavano “mandarin”. Come chiunque non fosse nato tra la Mole e il Valentino. Mi porta nel museo del “Gabrielli” (al “Gabrielli” c’è un museo) e mi mostra una serie di grafici che raccontano come sia cambiata la popolazione scolastica tra queste mura dagli anni Settanta in avanti. Cinquant’anni fa l’80% degli studenti era piemontese. In più c’erano piccole comunità di pugliesi, di siciliani, di campani e di laziali. Dieci anni più tardi si sono aggiunti i sardi e i friulani e la quota Piemonte si è ristretta. Una contaminazione lenta, inesorabile e fruttuosa che, nella classificazione statistica rilevata decennio per decennio, ha portato a sostituire i piemontesi con la più generica categoria degli “italiani” e ha fatto entrare nella torta, in quote sempre più significative, prima i marocchini poi i rumeni, quindi gli albanesi, i nigeriani, i filippini, i tunisini e i peruviani, fino ad arrivare ad oggi con classi, come la terza in cui sto entrando, in cui su diciannove bambini nessuno ha genitori nati in Italia e nessuno ha l’italiano come prima lingua. Eppure la gran parte di loro è venuta al mondo qui e, anche se la prossima settimana li portano in gita al mare, non ha mai visto altra città all’infuori di Torino. Un problema, una circostanza neutra o un’opportunità? Con i genitori le cose sono più opache. Le mediazioni non semplici. I rapporti tra comunità, spigolosi. Ma ogni giorno che passa migliora le cose. Ogni crescita ha bisogno di tempo. E i più piccoli non fanno altro che assorbire quello che vedono attorno. Mi domando che senso abbia immaginare di dare la cittadinanza al compimento del diciottesimo anno, quando la diffidenza (e il razzismo) avrà incattivito una parte di loro, e non adesso, mentre sono spugne che per dare il meglio di sé hanno solo bisogno di sentirsi dire: lo sai che ti voglio bene? Anche per questo c’è Guido Barilla. “Pensa che l’altro giorno, scivolando in un cliché, ho detto ad un bambino di origine cinese che non voleva mangiare il riso: sai che Mao si sarebbe arrabbiato con te? A tutti i cinesi piace il riso”. E lui? “Io sono italiano e a me piacciono gli spaghetti”. Genio. Mi metto a sedere vicino a Kalum (da qui in avanti tutti i nomi sono inventati), un fringuellino di origini nigeriane, credo, con gli occhi più grandi della faccia e un ciuffo di capelli gialli. Mi spiega: “lui è Philip, il mio migliore amico”. Da dove viene? “Da Torino, come me”. Perfetto. Sono un fesso. Mi guardo attorno. Mi sembra la classe più bella del mondo. Barilla mi anticipa la nazionalità dei genitori: Marocco, Niger, Romania, Senegal, Egitto, Tunisia, Ghana, Ecuador. Poi si avvicina alla cattedra e apre una grande valigia di cartone che i suoi genitori si sono portati dalla Calabria. È piena di libri (comprati con il suo stipendio). Ne tira fuori uno che ha preso il giorno prima a Bologna, alla fiera per bambini. Un volume muto. Solo illustrazioni. Si intitola: “Mentre tu dormi”. È la storia di una mamma che racconta alla figlia una favola per farla addormentare e lei sogna il condominio, i vicini, le loro vite, e poi una foresta incantata piena di creature animali, fino a quando il sole la risveglia. I disegni sono fatti da mani abili. Barilla li proietta sulla lavagna interattiva con l’aiuto di una collega. La classe è stregata. Barilla chiede di dare un nome al disegno. Le prime a rispondere sono due ragazzine strappacuore che mi sembrano le leader del gruppo. Una dice: “Il bosco dei mostri”. L’altra, sulla scia: “Il bosco sensibile”. Altri bambini aggiungono: il bosco delle fate, il bosco silenzioso, il bosco dei sogni. Io sto con il “bosco sensibile”, mi sembra una definizione imbattibile. Ci vorrebbe un romanzo per raccontare la magia che si sprigiona in classe, mentre Barilla approfitta della favola per insegnare i pronomi, gli aggettivi, i tempi dei verbi. Come si dice questa frase al futuro? E all’imperfetto? Quali sono le preposizioni semplici? Che animali vedete nel disegno? I bambini si alternano alla lavagna. Hanno l’aria felice. Dicono una frase che prevede un “chi”, un “che cosa” e un “dove”. Ci mettono fantasia e risate. Alcuni sono più fluidi. Altri, come Adina, che è appena arrivata dal Bangladesh, un po’ meno, ma sentirla parlare è emozionante. Impara in fretta. Quando torna al banco, Aisha, che forse viene dal Niger e capisce bene quella fatica e quello sforzo, le prende la mano. “Sei stata brava”. È vero. Il tempo mi scappa via. Penso: se qualcuno mi dice che questi bambini non sono italiani lo meno (se non altro fingo di). Lo smartphone segnala che sotto Lampedusa c’è stato un naufragio. Un altro. Quindici morti. Molti piccolissimi. Frega a qualcuno? I piccoli-grandi “ottenni” di Guido Barilla mi danno un cinque e mi rimettono in asse. Saluto. Prima di uscire resto incantato di fronte a un gruppetto che gioca a calcio in cortile con una palla di gommapiuma. Salim fa un gol da fenomeno, dopo una finta che mette a sedere Malik. Butta le braccia al cielo e grida: “Juve uno, Inter zero”. Gli altri lo abbracciano. Esulto anch’io. Torno a Pulitzer. Come dovrebbero essere le cose, allora? Così. Migranti. Perché il ministro Piantedosi copre i miliziani libici di Luca Casarini L’Unità, 14 aprile 2024 Quei miliziani libici, eroi per il Viminale, si vedono nei nostri video mentre frustano a bordo i naufraghi catturati. E il Viminale quei video ce l’ha. Il ministro Piantedosi rispondendo all’interrogazione urgente del senatore Nicita, ha mentito sulla Mare Jonio. Mentire, dire il falso, può avere tante sfumature. Rimane di certo la scarsa considerazione del proprio ruolo istituzionale, e di quello di colui che interroga. Ma qui la sfumatura del mentitore, del bugiardo, si arricchisce di un particolare importante: il ministro degli Interni italiano ha mentito innanzitutto per “coprire” dei complici, e cioè i miliziani armati che vengono definiti “guardia costiera libica”. Questi personaggi, dei banditi veri e propri, li abbiamo registrati nei video mentre frustano a bordo della motovedetta le persone che hanno catturato. Si vedono naufraghi, trattati come prigionieri, costretti a stare inginocchiati con le mani dietro la schiena, probabilmente legate, e si distingue uno dei miliziani che li frusta con una cima da ormeggio ricoperta da un tubo di gomma dura, come si usa per proteggere dallo sfilacciamento i cavi. Nemmeno lo sanno loro, i miliziani di terra, che in mare quella cima serve a legarsi ad un approdo. Sanno di torture, della paura che incute un mitra se lo spiani in faccia a qualcuno, o se gli spari addosso. Sanno certamente di soldi, e ogni cattura sono soldi, tanti soldi: quelli del nostro governo, quelli di Malta, quelli dell’Unione Europea. E quelli dei profughi che pagano, e non poco, per comprarsi la roulette russa di un viaggio che può essere senza ritorno e senza approdo. Le milizie - che stanno sopra quelle motovedette come potrebbe starci chi pensa, come dice il mio amico Comandante Pietro Marrone, “che il mare sia solo acqua” - sono legate da rapporti di clan e da relazioni familiari ai grossi trafficanti di esseri umani. I grossi trafficanti non sono quelli che organizzano il barcone, ma i loro capi. Questa particolare guardia costiera, prende i soldi anche da loro, per non farli finire in galera, e poi si prende anche i motori, che vengono restituiti allo smuggler locale dietro compenso. Gli “eroi” di Piantedosi, che stuprano e seviziano donne, bambine, uomini, all’inizio non avevano voglia di sfidare il mare grosso o di spingersi a cento miglia da casa. Per loro, che non sono marinai, è un viaggio troppo lungo, troppo pericoloso. Il mare è grande e tu, anche se sei della milizia di Zawhia, quella di tuo cugino Bija che è ricercato dal Tribunale Penale Internazionale ma ricopre il grado di “alto ufficiale” nella cosiddetta “guardia costiera libica”, sei solo un misero puntino, un granello di polvere lì in mezzo. Anche se sei uno capace di ammazzare un uomo con un colpo alla nuca davanti a suo figlio o a sua moglie, beh, con il mare sei nessuno. Per convincere questi killer a far finta di fare i marinai, ci sono voluti soldi, tanti soldi. Non sanno nemmeno usare la radio, tanto che l’aereo militare di Malta che gli indicava i bersagli da catturare per la deportazione, doveva ripetere posizioni in loop. Doveva farsi vedere, così lo seguivano come pollicino con le briciole di pane. I tracciati del velivolo sono esplicativi di questa conduzione “a manina” fatta con i miliziani. Può essere così strano che Piantedosi menta al Parlamento? Tutta la politica dei respingimenti in mare, in aperta violazione della Convenzione di Amburgo e della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, si basa su questo baraccone di bugie. Dalla zona Sar in giù. E dunque Piantedosi deve reggere. Quando ci saranno incidenti più seri, come l’arrembaggio a bordo di una nave del soccorso civile e il suo dirottamento a Tripoli, nella migliore delle ipotesi senza morti o feriti nell’equipaggio, il governo vedrà come mentire. Lo farà con un rimbrotto anche per i libici, con un volo del jet dei servizi da Pratica di Mare all’aeroporto di Tripoli, che testimoni il “grande impegno ad evitare questi spiacevoli incidenti”. Sempre mentendo spudoratamente, ma in maniera un po’ più avveduta di come ha fatto un Ministro, senza tener conto dei video che lo smentiscono ed erano già in suo possesso. Che poi, se noi della Mar Jonio avessimo davvero organizzato il sabotaggio di una deportazione ad opera di carcerieri infami, ci sarebbe da rivendicarlo fino in fondo, sarebbe un dovere farlo. Senza mentire, anche a costo di finire in galera. Cosa c’è di male a rispettare i diritti dell’uomo, ad aiutare esseri umani a non morire in un lager o in mezzo al mare, a fuggire dalla schiavitù e dall’inferno? Piantedosi, come ogni domenica, andrà a messa domani. Da buon cattolico si dirà, tra sé e sé, che è un brav’uomo, al servizio dello stato e della giustizia. Ma si possono imbrogliare gli uomini, si può imbrogliare il parlamento, si può imbrogliare chiunque. Ma sei sicuro ministro, che riuscirai a imbrogliare proprio tutti? Nel frattempo, buona vita a tutti i fuggitivi, a tutti i fratelli e sorelle che ce l’hanno fatta. Ognuno è complice di ciò che vuole. La spirale bellicista non è controllabile di Gigi Riva* Il Domani, 14 aprile 2024 Dall’Ucraina in poi, per arrivare fino all’annunciato attacco dell’Iran su Israele, sono stati legittimati linguaggi e logiche inaccettabili fino a poco prima. A prevalere sono le ragioni della guerra, senza nessuna diplomazia in grado di correggere la logica delle armi. Nel mondo dominato dai dottor Stranamore sono diventati normali linguaggi e logiche che sarebbero risultati inaccettabili solo poco fa. Sono cadute, definitivamente, linee rosse che avevano regolato i comportamenti anche durante le guerre. Non esistono più salvacondotti, nessuno spazio per qualunque pietas, nessuna zona franca. Si spara sui cimiteri, sugli ospedali. Si spara sulla Croce Rossa. E non vengono risparmiate nemmeno le rappresentanze diplomatiche. Il passo ulteriore a cui assistiamo in questi giorni è la legittimazione strisciante e senza scandalo dell’azione terroristica. Non sappiamo quando avverrà, ma avverrà. Nella rassegnazione universale e nella riabilitazione della legge del taglione. L’Iran ha subito l’onta dell’attacco israeliano a una sua sede consolare in Siria e sembra in qualche modo “giusto” che debba reagire per salvaguardare il proprio prestigio nazionale. Gli Stati Uniti lanciano l’allarme su cento missili degli ayatollah pronti all’uso e, con una serie di perifrasi, lasciano intendere che visto l’ineludibilità della ritorsione, la facciano in modo limitato, “ragionevole”, per non alzare il livello di scontro e scongiurare l’allargarsi incontrollabile del conflitto in Medio Oriente. Una dose metadonica di ordigni, schiaffo ricevuto, schiaffo reso e così siamo pari. Persino Israele si prepara a subire l’attacco senza lanciarsi in qualunque deterrenza preventiva, accettando così la dialettica dell’occhio per occhio, purché proporzionata, una sorta di “picchiate ma solo un poco”. Inerzia bellicista - Il guaio è che non esiste nessuna narrazione alternativa a questa inerzia della storia, come se la corsa bellicista avesse ormai preso un abbrivio inarrestabile e la concatenazione dei fatti dovesse portare alle conclusioni più nefaste. Succede quando, uno dietro l’altro, si violano i tabù e qualunque atto diventa possibile, in assenza di un’autorità universalmente riconosciuta capace di far rispettare leggi, scritte o meno, che avevano disciplinato i rapporti tra le nazioni. È la diplomazia la vittima illustre del nostro presente, ben rappresentata dallo stato comatoso delle Nazioni Unite che ormai nemmeno ci provano a mediare, visto che i dottor Stranamore si fanno beffe di qualunque risoluzione e figurarsi delle raccomandazioni. Né possono le iniziative velleitarie di questo o quel leader più o meno neutrale, sconfessate sul terreno dall’infuriare delle battaglie; o le conferenze di pace sul modello di quella annunciata in Svizzera per l’Ucraina a cui mancherà la Russia. Come dire: giochiamo una partita ma senza una squadra in campo. L’abisso - Se proprio dobbiamo trovare una logica al meccanismo azione-reazione innestato in Medio Oriente, va cercata nel timore inespresso di un’escalation nucleare tra uno stato che possiede la bomba (Israele) e uno probabilmente prossimo a confezionarla (l’Iran): la madre di tutti gli incubi, lo scontro diretto tra due potenze regionali da decenni in rotta di collisione annunciata. Dal 7 ottobre scorso, dalla carneficina nei kibbutz, sul punto di ricorrere alle maniere spicce, alla resa dei conti finale sinora evitata per le briciole di ragionevolezza rimaste nelle tasche dei rispettivi governanti e di cui pare finita la scorta. Ora, in un salto di qualità evidente, siamo all’accettazione del pareggio dei conti in sospeso. Senza valutare che la spirale innescata non è controllabile, nulla è controllabile dopo che si è sparato il primo colpo come dimostra ampiamente la storia dei conflitti. E fosse solo una la guerra in atto. Siccome tutto si tiene, l’assuefazione alla dittatura delle armi si è acuita in Ucraina, ormai oltre due anni fa, quando una potenza ha intrapreso una campagna di aggressione, conquista e annessione, sfatato almeno verbalmente taciti accordi come il “mai più” circa l’uso dell’atomica, liberato demoni che hanno preso a girovagare per il pianeta, sdoganato comportamenti poi scimmiottati altrove una volta che ne è stata comprovata l’impunibilità. All’abisso mancano pochi passi. Siamo ancora in tempo per tornare indietro. Poco tempo, però. *Scrittore L’anno orribile del Sudan, 23 mila morti e non è finita di Stefano Mauro Il Manifesto, 14 aprile 2024 Iniziata il 15 aprile 2023, la guerra tra esercito e Rsf è un catalogo di crimini contro l’umanità. 10 milioni di sfollati e bambini esposti a violenze estreme, carestia, stupri e diplomazia al palo. È passato un anno - lo scorso 15 aprile 2023 - da quando violenti combattimenti hanno contrapposto l’esercito sudanese (Fas), guidato dal generale Abdel Fattah Al-Burhan, alle Forze di Supporto Rapido (Rsf) del generale Hamdan Dagalo (detto Hemedti). Da allora nessuna mediazione è riuscita a porre fine a un conflitto che ha provocato, fino ad oggi, almeno 23mila vittime e oltre 10 milioni di sfollati interni o rifugiati nei paesi vicini: Egitto, Libia, Ciad, Repubblica Centrafricana e Sud Sudan. Ufficialmente la guerra è iniziata dopo lunghi mesi di blocco per l’integrazione dei paramilitari delle Rsf nell’esercito regolare. La mancata regolarizzazione ha innescato scontri armati che secondo le prime dichiarazioni di al-Burhan, sarebbero durati “meno di due settimane”, ma che, in pochi mesi, si sono estesi dalla capitale, Khartoum, a tutto il paese. In una recente dichiarazione, il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, si è detto “costernato dalla violenza” che vede il Sudan ormai in preda a “una guerra totale”, con combattimenti diffusi a Khartoum, ma anche ad ovest nel Darfur, nel nord e nel sud del Kordofan, così come nello stato del Nilo Azzurro, con un “totale disprezzo per i diritti umani”. Sul versante della mediazione, le azioni intraprese si scontrano con l’indifferenza dei due schieramenti. A poco sono valsi in questi mesi gli sforzi da parte dell’Arabia Saudita, degli Stati Uniti e dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) - che raggruppa i diversi stati del Corno d’Africa - per “portare le due fazioni ad una tregua, con l’obiettivo di proteggere i civili e garantire l’accesso umanitario”. Riguardo alla situazione dei profughi interni e dei civili, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Turk, ha indicato che “il Sudan è diventato un incubo vivente”, con quasi la metà della popolazione (25 milioni di persone) che ha “urgente bisogno di cibo e assistenza medica” e oltre l’80% degli ospedali distrutti, come indicato anche dall’Ong italiana Emergency presente con diverse strutture sanitarie nel paese. “Oltre 10 milioni di bambini sono stati ripetutamente esposti a violenza mortale in tutto il Sudan dall’inizio delle ostilità, una cifra sconcertante che rappresenta il numero più alto di bambini esposti nel mondo” ha indicato Turk. Accuse di crimini contro l’umanità da parte di Amnesty International, che ha condannato entrambe le fazioni riguardo alle “violenze indiscriminate” nei confronti di civili, con “bombardamenti e armi chimiche” utilizzate nelle aree urbane o di rifugio dei profughi, anche qui nel più totale disprezzo del diritto internazionale. Particolare attenzione viene rivolta verso il Darfur. L’ultimo studio pubblicato da Acled - Ong specializzata nell’analisi dei conflitti armati - dipinge un “quadro terrificante” della brutalità delle Rsf proprio in quella regione, dove continua inesorabile la “pulizia etnica”. In particolare contro i membri del gruppo non arabo dei Massalit, con città come Geneina - capitale dello stato del Darfur occidentale - dove sono state uccise “almeno 15mila persone”. Il report indica anche l’utilizzo della “violenza sessuale come arma di guerra”, con centinaia di casi di donne e ragazze violentate da elementi delle milizie agli ordini di Dagalo. Condanna da parte delle agenzie umanitarie - in questo caso nei confronti di entrambe gli schieramenti - anche riguardo “ai ripetuti saccheggi e al blocco delle forniture degli aiuti umanitari”, con attacchi continui contro gli operatori. Il Programma alimentare mondiale (Pam) ha recentemente dato l’allarme in vista di una possibile carestia nel paese, con una risposta umanitaria ancora inadeguata - solo il 5% del fabbisogno finanziato - e la prospettiva di altri milioni di profughi nei prossimi mesi. “Gli autori delle orribili violazioni dei diritti umani devono essere chiamati a risponderne, senza indugio” - ha indicato Turk - “e senza indugio, la comunità internazionale deve concentrare la propria attenzione su questa crisi. Il futuro del popolo sudanese dipende dalle nostre azioni nel cercare di fermare questo massacro di civili e di fornire gli aiuti umanitari ai profughi”. Iraq. Dopo 20 anni un tribunale si occuperà delle torture americane ad Abu Ghraib di Michele Manfrin L’Indipendente, 14 aprile 2024 Vent’anni fa vennero rilasciate le foto tristemente famose, e agghiaccianti, dei prigionieri torturati dai soldati statunitensi, all’interno della prigione irachena di Abu Ghraib. Militari, inclusi ufficiali d’alto rango e agenti della CIA, che si mostravano sorridenti e divertiti mentre torturavano cittadini, gli applicavano elettrodi sul corpo, li trascinavano al guinzaglio come cani o li mutilavano con dei bisturi. Ora, tre dei detenuti sopravvissuti alle torture di Abu Ghraib avranno finalmente la possibilità di portare il caso in un’aula di tribunale per provare ad ottenere giustizia. Lunedì, presso la Corte Distrettuale degli Stati Uniti ad Alexandria, in Virginia, sarà la prima volta che i sopravvissuti di Abu Ghraib saranno in grado di portare le loro accuse di tortura davanti a una giuria degli Stati Uniti d’America. Le foto pubblicate nel 2004 mostravano prigionieri nudi accatastati in piramidi o trascinati al guinzaglio da soldati sorridenti e divertiti. Una foto mostrava un soldato che posava accanto a un cadavere mentre sorrideva e mostrava il pollice in su. Altre foto invece ritraevano detenuti minacciati con i cani o incappucciati e attaccati a cavi elettrici. Suhail Al Shimari, uno dei querelanti, ha descritto aggressioni sessuali e percosse durante i suoi due mesi in prigione. È stato anche sottoposto a scosse elettriche e trascinato in giro per la prigione con una corda legata intorno al collo. Salah Al-Ejaili, ex reporter di Al-Jazeera, ha invece detto di essere stato sottoposto a posizioni di stress che gli hanno fatto vomitare liquido nero, oltre ad essere stato privato del sonno e costretto a indossare biancheria intima femminile sotto la minaccia dei cani. Una delle fotografie iconiche delle torture nella prigione di Abu Ghraib. La soldatessa Lynndie England costringe un detenuto a gattonare e abbaiare come un cane al guinzaglio. L’imputato nella causa civile è il CACI, un appaltatore del governo federale con sede in Virginia impiegato nella prigione irachena al momento dei fatti, che nega qualsiasi illecito, mentre a sollevare il caso sono stati gli avvocati del Center for Constitutional Rights. Il giudice distrettuale degli Stati Uniti Leonie Brinkema, ha stabilito che le ragioni per cui sono stati mandati ad Abu Ghraib sono irrilevanti ai fini del processo e non saranno date ai giurati. “Anche se fossero terroristi, questo non giustifica la condotta che viene accusata qui”, ha detto all’udienza del 5 aprile. Inoltre, tutti e tre sono stati rilasciati dopo periodi di detenzione che vanno da due mesi a un anno senza mai essere accusati di alcun crimine. Il CACI, tuttavia, ha affermato che la responsabilità delle condizioni di Abu Ghraib è da ritenersi in capo all’esercito degli Stati Uniti e che i suoi dipendenti non erano in grado di dare ordini ai soldati. Nei documenti del tribunale, gli avvocati della difesa hanno affermato che “l’intero caso non è altro che un tentativo di imporre la responsabilità di CACI perché il suo personale ha lavorato in una prigione in zona di guerra con un clima di attività che puzza di qualcosa di ripugnante. La legge, tuttavia, non riconosce la colpevolezza per associazione nel caso di Abu Ghraib”. In una delle argomentazioni di appello di CACI, la società ha sostenuto che gli Stati Uniti godono di immunità sovrana contro le accuse di tortura e che CACI gode di immunità derivata come appaltatore che esegue gli ordini del governo. Ma il giudice distrettuale degli Stati Uniti, Leonie Brinkema, in una sentenza unica nel suo genere, ha stabilito che il governo degli Stati Uniti non può rivendicare l’immunità quando si tratta di accuse che violano le norme internazionali stabilite, come la tortura dei prigionieri. Di conseguenza, CACI non può rivendicare alcuna immunità derivata. I giurati, a partire dalla prossima settimana, dovrebbero anche ascoltare la testimonianza di alcuni dei soldati che furono condannati da un tribunale militare per aver inflitto direttamente l’abuso. Tra questi Ivan Frederick, un ex sergente maggiore condannato a più di otto anni di reclusione dopo una condanna da parte della corte marziale con accuse tra cui aggressione, atti indecenti e inadempienza al dovere, ha fornito una testimonianza registrata che dovrebbe essere ascoltata in aula. Il processo, che dovrebbe durare due settimane, potrebbe però essere ostacolato dal governo degli Stati Uniti, in quanto alcune prove, a detta dei funzionari, se rese pubbliche, divulgherebbero segreti di stato che danneggerebbero la sicurezza nazionale. Si tratta insomma di un piccolo passo, una causa civile e contro una ditta appaltatrice, mentre evidentemente per stabilire una reale verità giuridica - oltre alle colpe individuali che vennero definite in parte dai processi militari - servirebbe un processo penale capace di indagare la catena di comando all’interno delle forze militari.