Italia, perché tieni questi uomini prigionieri al 41bis? di Antonella Mascia* L’Unità, 13 aprile 2024 Il 26 marzo 2024 la Corte EDU ha deciso di comunicare alle parti, e quindi al Governo italiano, quattro casi - Trovato c. Italia e altri tre ricorsi - dove i ricorrenti, tutti detenuti in regime differenziato di cui all’articolo 41bis O.P., hanno lamentato la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, disposizione inderogabile che vieta i trattamenti inumani e degradanti, in quanto le proroghe reiterate del regime loro applicato non sarebbero giustificate. Con tale comunicazione si apre la fase contraddittoria e le parti sono state invitate a rispondere a due questioni, ovvero se i ricorrenti siano sottoposti a trattamenti vietati dall’articolo 3 della Convenzione a causa della ripetuta applicazione delle restrizioni previste dal regime differenziato di cui all’articolo 41 bis e se, in particolare, le autorità nazionali abbiano fornito motivazioni adeguate a giustificare tali proroghe. In tema di regime carcerario differenziato, la Corte EDU si è già pronunciata riguardo alla sua durata, al rischio di arbitrarietà e alla necessità che vi sia una valutazione in concreto ed effettiva del singolo caso, alla luce dei cambiamenti che possono intervenire nel corso della detenzione. Nel caso Enea c. Italia, la Grande Camera della Corte EDU ha in effetti affermato che l’applicazione prolungata di alcune restrizioni al regime carcerario ordinario può porre un detenuto in una situazione che potrebbe costituire un trattamento inumano o degradante e che la durata di tale regime deve essere esaminata alla luce del singolo caso in esame e, in sede di proroga, deve essere verificato se tali restrizioni possano essere ancora giustificate. Nel caso Piechowicz c. Polonia, la Corte EDU ha puntato l’attenzione sul rischio di arbitrio, fissando il principio che la motivazione giustificante la proroga del regime differenziato deve permettere di verificare che vi sia stata una nuova valutazione che tenga conto di eventuali cambiamenti riguardanti il detenuto, soprattutto nel caso di una prolungata continuazione di tale regime, riscontrando peraltro che le proroghe intervenute in quel caso si erano ridotte a una pura formalità. Nel caso Provenzano c. Italia, la Corte EDU si è infine discostata dalla sua precedente giurisprudenza con cui, fino ad allora, aveva rigettato la doglianza riguardante il regime del 41bis come un trattamento inumano e degradante in quanto i ricorrenti non avevano presentato prove che potessero indurla a concludere che le restrizioni reiterate in modo continuativo fossero ingiustificate. Nel caso Provenzano, invece, i Giudici di Strasburgo hanno ritenuto che, pur prendendo atto che in merito al passato e al ruolo criminale di spicco del ricorrente le autorità avessero fornito informazioni e motivazioni dettagliate ed esaurienti, riguardo invece al mutato stato di salute del detenuto, caratterizzato da un grave deterioramento cognitivo, non fossero state fornite argomentazioni convincenti non avendo il Ministro della Giustizia e il Tribunale di sorveglianza di Roma elaborato una valutazione esplicita sulla situazione cognitiva del ricorrente. Questi principi saranno ora determinanti per esaminare i casi appena comunicati al Governo italiano dove i ricorrenti, pur avendo chiesto la valutazione dei loro personali percorsi di cambiamento e gli sforzi intrapresi durante la lunga detenzione, hanno ottenuto in risposta dinieghi fondati su risposte apparse ripetitive e stereotipate, prive di quella dovuta individualizzazione e valutazione dei loro singoli casi. È dunque ora in gioco il rispetto della dignità umana che è l’essenza stessa della Convenzione la cui finalità è quella di proteggere gli esseri umani. Di conseguenza quando una persona detenuta subisce restrizioni che la escludono dalla possibilità di accedere ad ogni percorso trattamentale e alla possibilità di lavorare al proprio cambiamento, ecco che allora le autorità penitenziarie e la discrezionalità loro accordata dall’ordinamento interno dovrà essere corredata da motivazioni sufficienti e convincenti, basate su una effettiva valutazione personalizzata in modo da non compromettere la dignità umana, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione e, aggiungo, dell’articolo 27 comma 3 della Costituzione italiana. *Avvocata, Consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino Contro i suicidi in carcere una giornata di mobilitazione dei Garanti per i diritti dei detenuti di Angela Stella L’Unità, 13 aprile 2024 Il dramma dei suicidi dietro le sbarre: servono rimedi urgenti, non si può continuare a morire di carcere in carcere. La Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale ha organizzato per la giornata del 18 aprile, un momento di riflessione sui suicidi e sulle morti in carcere, che vedrà coinvolti tutti i Garanti regionali, provinciali e comunali. Nel corso della manifestazione verrà letto un appello elaborato dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, contenente i nomi dei detenuti morti suicida, per malattia ed altre cause ancora da accertare, nonché i nomi degli agenti di polizia penitenziaria che quest’anno si sono tolti la vita, per non dimenticare le loro storie e il dramma delle loro famiglie. Il dramma dei suicidi in carcere - L’appello è rivolto al Ministero della Giustizia, all’Amministrazione Penitenziaria, ai membri di Camera e Senato e alla società civile, ad un mese esatto dalle dichiarazioni del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che, ricevendo il corpo della Polizia penitenziaria, ha ribadito l’importanza di interventi urgenti per frenare l’emergenza dei suicidi in carcere. Il Garante campano, Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, dichiara: “Il 18 aprile sarà l’occasione per accendere i riflettori sulle grandi carenze del sistema penitenziario attuale, per fare il focus sul sovraffollamento carcerario, sulle mancanze sanitarie e trattamentali, sulla necessità di una maggiore applicazione delle misure alternative al carcere. La lettura dei nomi morti suicida in carcere servirà a prendere coscienza di questa grande tragedia esistenziale, che giace nel silenzio delle istituzioni. Troppo spesso i luoghi detentivi sono considerati una discarica di esseri umani, anziché luoghi di riabilitazione”. La giornata di mobilitazione dei garanti per i diritti dei detenuti - Nell’autonomia dei singoli Garanti territoriali, le iniziative, il 18 aprile alle ore 12.00, saranno svolte in luoghi pubblici e istituzionali, attraverso conferenze stampa, appelli e altre iniziative, coinvolgendo Terzo settore, Avvocatura, cappellani e volontari. “Troppa attenzione per una detenuta!”. Adesso anche l’empatia diventa un crimine di Claudio Foti* Il Dubbio, 13 aprile 2024 Non posso pronunciarmi su questioni che non conosco: non posso entrare nel merito della responsabilità penale della signora Pifferi, accusata di aver fatto morire la propria piccina o nel merito delle contestazioni rivolte alle psicologhe che hanno seguito questa donna in carcere. Intervengo su una specifica accusa formulata nei confronti delle due colleghe: in una relazione di consulenza psichiatrica disposta dal Tribunale di Milano, il consulente ha affermato che le due operatrici hanno lavorato più del dovuto, stante il fatto che l’intervento sanitario in carcere non è intensivo, tranne in situazioni di rischio suicidario: “L’attivazione di due psicologhe con colloqui frequenti non era appropriata, non era coerente con una situazione non allarmante”. Dunque le due operatrici del carcere di San Vittore non avrebbero lavorato troppo poco, ma troppo! Questo sembrerebbe diventare un comportamento sospetto. Ora, ciò che lamentano i detenuti in tutte le carceri è la forte carenza di colloqui da parte degli psicologi. Se c’è qualche curante che si motiva a colloqui frequenti, intravvedendo prospettive di cambiamento nel detenuto o rispondendo in qualche modo a suoi bisogni, diventa sospetto e indiziato di reato. Chi ha lavorato per anni nel campo della tutela può affermare che l’accusa contro le due psicologhe è assurda, ma coerente con un clima culturale, presente talvolta nella stessa comunità degli psicologi: il lavoro terapeutico, svolto con impegno empatico, crea diffidenza. Bisognerebbe piuttosto attenersi ad un lavoro centellinato nei tempi e nella disponibilità emotiva secondo le risorse predefinite dall’istituzione, secondo le procedure stabilite dall’alto, secondo uno stile seguito da una parte degli operatori stessi, in base a cui l’impegno professionale va erogato col contagocce, pensando innanzitutto a difendere il proprio ruolo e non certo pensando alle disponibilità al cambiamento che si possono aprire tra i pazienti. Ciò che ha disturbato nel progetto innovativo di Bibbiano, che è stato pesantemente criminalizzato dall’inchiesta Angeli e Demoni, è stato proprio questo: gli assistenti sociali, gli psicologi, avrebbero fatto “troppo” rispetto agli standard di svolgimento burocratico del ruolo. Troppi casi di abuso emersi! In realtà, il numero delle cartelle sociali, relative a situazioni di abuso, che pure cresceva in Val d’Enza, restava coerente con i dati italiani e ben al di sotto delle percentuali dei casi di abuso seguiti a livello europeo. Ora l’azione per ridurre gli abusi nascosti dovrebbe essere considerata meritoria e la crescita della capacità di un servizio di far emergere il sommerso non dovrebbe essere vista con sospetto. Invece, no! Gli operatori a Bibbiano mostravano “troppo impegno” e ci mettevano pure il cuore, impegnandosi nella prevenzione e nel contrasto della violenza sui minori, con quel coinvolgimento emotivo e cognitivo indispensabile per poter svolgere bene il compito. E sono stati criminalizzati. Gli psicologi attivavano l’empatia che è una risorsa trasformatrice e quindi disturbante rispetto all’omeostasi delle istituzioni e della comunità sociale: secondo una logica purtroppo diffusa, i “disgraziati” come Alessia Pifferi e come le vittime di abuso dovrebbero essere lasciate al loro destino. Così l’empatia diventa sospetta e possibile indicatore di un crimine. Se due psicologhe decidono in scienza e coscienza di effettuare colloqui intensivi con una detenuta in ogni caso sofferente, al di là del reato di cui è accusata, come possono per questo essere criminalizzate? La “partecipazione affettiva” (Ferenczi) è un movente fondamentale della cura delle persone più fragili. Con questo impegno emotivo e relazionale non si fuoriesce dal ruolo dello psicologo, si tenta al contrario di realizzarlo pienamente. Che società è questa in cui la “partecipazione affettiva” del curante diventa un crimine? Quale cura è proponibile se gli psicologi devono risparmiare sul numero dei loro colloqui, devono moderare la loro disponibilità emotiva, devono frenare la loro identificazione con i soggetti impotenti e sofferenti di cui sono chiamati ad occuparsi? Attraverso l’empatia lo psicologo cerca di compiere un viaggio esplorativo nella mente dell’altro, rimanendo se stesso e rimanendo dunque nel proprio ruolo e nel proprio statuto professionale. Dunque l’empatia non può essere intesa come uno slancio passionale di tipo fusionale, senza rigore e senza rispetto delle regole. Il mondo istituzionale, che accusa le psicologhe del caso Pifferi di aver lavorato troppo, non comprende ciò che aveva intuito invece un grande psicoanalista, Kohut, che parlava di “empatia scientifica” e di “scienza empatica”. La scienza della trasformazione rivolta anche ai soggetti perdenti. *Psicoterapeuta Uno psicologo d’ufficio che colga complessità e fragilità dell’imputato di Benedetta Bisaccioni Il Dubbio, 13 aprile 2024 Si dice che i reati contro la persona siano più semplici da difendere sotto un profilo tecnico: nessuno si è mai posto il problema che, forse, sia il processo penale a non essere non all’altezza della complessità dell’essere umano. Un Codice Penale che esclude la rilevanza ai fini dell’imputabilità degli stati emotivi e passionali. Un Codice Penale, parametro sul positivismo, cioè di una dottrina medica ottocentesca già messa in crisi agli inizi degli anni 2000 con l’emergere, all’evidenza pubblica, di casi di disturbi di personalità sconosciuti alla dottrina medica citata. Un Codice scritto da un uomo di un’epoca che rifiutava l’emotività, riconosciuta solo al sesso femminile. Un’epoca in cui la realtà carceraria non contava già dall’inizio del 2024 una trentina di suicidi, dovuti spesso a disturbi di personalità aggravati o provocati dalla detenzione stessa e dal sovraffollamento. I disturbi della personalità che non costituiscono malattie mentali secondo la nozione del Codice Penale o che necessariamente ledono l’aspetto cognitivo ma influiscono sui comportamenti, sull’umore e sulle percezioni, all’epoca odierna, sono talmente diffusi che perde il senso e la stessa rilevanza in punto di colpevolezza, mai riconosciuta se non parzialmente in certi limiti, ma che l’emergenza carceraria impone di considerare. Qualora, infatti, i disturbi o i comportamenti disfunzionali non incidono sulla capacità di intendere e di volere o non siano sintomatici dello specifico reato, l’imputabilità può e dovrebbe essere considerata come capacità di pena - validi per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche per la scelta di misure alternative o per scelte processuali differenti come il ricorrere agli istituti di giustizia riparativa. Discorso analogo per l’emotività che dà origine ai comportamenti: il comportamento, secondo tutta la psicologia cognitiva comportamentale, è determinato dall’emozione originata dal pensiero. Si pensi infatti quanto sia centrale la paura, la quale si attiva come meccanismo di difesa dal pericolo e, quando è molto intensa sfocia, spesso, in comportamenti aggressivi. La paura che, nonostante l’art. 90 C. p., esiste già nel Codice e costituisce la base emotiva della legittima difesa e dello stato di necessità. Una complessità che rende sempre più necessario svolgere fin dal primo contatto con l’assistito un accertamento volto anche a capire lo stato emotivo per risalire al pensiero sotteso e causa del comportamento criminale. Un processo, di conseguenza, non soltanto volto all’accertamento dei fatti, sotto il profilo oggettivo e psicologico della fattispecie, ma anche luogo di comprensione dei comportamenti, nello loro e comune a tutti, complessità. Soprattutto dinanzi all’evidenza del fatto di reato e della relativa colpevolezza dell’imputato, perché spesso la commissione del reato diventa l’occasione di salvezza di colui che lo ha compiuto, se posto nella condizione di comprenderlo. Un’evidente complessità che, al contempo, richiede soprattutto ai fini della tutela della persona e della sua fragilità, la necessaria presenza e l’aiuto di un professionista psicologo psicoterapeuta. Una figura ce dovrebbe essere messa a disposizione dell’avvocato in particolar modo quello di ufficio, considerando che è la figura che maggiormente assiste persone indigenti e non in grado di far fronte alle spese di un consulente tecnico di parte. Una figura a cui rivolgersi per valutare, in ipotesi di pericolosità sociale riconosciuta, misure alternative alla detenzione, o percorsi terapeutici idonei e alternativi alle Rems, attualmente insufficienti. Una figura necessaria a rendere soprattutto il processo più complesso pari alla complessità dell’essere umano: colui che viene giudicato, punito e rieducato o che muore. Il carcere per i giornalisti divide la maggioranza di Nicolò Zambelli Il Foglio, 13 aprile 2024 L’emendamento di FdI spiazza Lega e Forza Italia. L’esponente di FdI Gianni Berrino ha depositato un emendamento che inasprisce le pene per il reato di diffamazione. Ma i suoi alleati dicono “no”. Il blitz in commissione Giustizia del Senato, pochi giorno dopo le modifiche alle regole della Par Condicio. Altri malumori all’interno della maggioranza. Questa volta il tema è l’inasprimento delle pene per il reato di diffamazione. Ieri al Senato in Commissione Giustizia sono stati depositati una serie di emendamenti a firma di Gianni Berrino, parlamentare di Fratelli d’Italia. Il testo aumenta, e non di poco, le pene per il reato di diffamazione a mezzo stampa: tra le altre cose, è stato proposto il carcere per giornalisti fino a 4 anni e mezzo e multe di oltre 120 mila euro per chi diffonde notizie false. La presentazione di questi emendamenti, secondo gli alleati di FdI, non sarebbe stata concordata con la maggioranza, creando non poche tensioni con Lega e Forza Italia, e si rifanno al testo base del disegno di legge presentato dall’alleato di Fratelli d’Itali Alberto Balboni l’anno scorso. Questo ddl, tra le altre cose, doveva recepire le indicazioni europee circa la libertà di stampa e quindi togliere il carcere come pena per il reato di diffamazione. “La diffamazione, anche a mezzo stampa, è sempre stata punita con la pena detentiva dalla legge - ha dichiarato Berrino -. Noi, con norma più liberale, eliminiamo la detenzione per la ipotesi semplice, la riduciamo, pur mantenendola come alternativa alla multa, per il caso di attribuzione di un fatto determinato falso e per l’ipotesi di attribuzione del fatto determinato falso e costituente reato. Le condotte che mantengono una punizione detentiva, seppur sempre attenuata, non sono relative alla libertà di stampa, ma a un uso volutamente distorto e preordinato al killeraggio morale della libertà di stampa”. Lega e Forza Italia hanno subito preso le distanze dalla mossa di Berrino. La stessa presidente della commissione Giustizia, l’ex ministro Giulia Bongiorno, quota Carroccio, ha spiegato: “Come presidente della Commissione ho sempre cercato di far trovare una posizione di mediazione tra maggioranza e opposizione, e ho sottolineato l’importanza di focalizzare l’attenzione sui titoli degli articoli e sulla tematica della rettifica”, annunciando a breve una “riunione di maggioranza sul punto” che dovrebbe arrivare già il prossimo lunedì. Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia nella stessa commissione, ha sollevato “più di un dubbio”, spiegando che: “Bisogna vedere se è conciliabile con la sentenza della Consulta. Noi vogliamo la rettifica, non il carcere”. Contrario anche il leader di Noi Moderati Maurizio Lupi, che ha espresso “un secco no” al carcere per i giornalisti. Il testo dell’emendamento presentato recita: “Chiunque, con condotte reiterate e coordinate, preordinate ad arrecare un grave pregiudizio all’altrui reputazione, attribuisce a taluno con il mezzo della stampa fatti che sa essere anche in parte falsi è punito con il carcere da 1 a 3 anni e con la multa da 50 mila a 120 mila euro”, una permanenza in carcere che aumenta fino a 4 anni e mezzo in determinate circostanze. Sul piede di guerra anche le opposizioni. Il capogruppo del Pd in commissione Giustizia Alfredo Bazoli: “Questa maggioranza ha proprio un conto aperto con la libertà di informazione, il ricorso a misure detentive per i giornalisti è un retaggio barbaro, condannato a più riprese da organismi europei e dalla Corte Costituzionale”, spiega insieme ai colleghi Rossomando, Mirabelli e Verini. Il riferimento dei dem è a una sentenza della Corte Costituzionale che nel 2021 dichiarò illegittima l’articolo 13 della legge sulla stampa: introdotto nel 1948, prevedeva il carcere per i giornalisti. “Fratelli d’Italia dovrebbe riflettere seriamente sulle implicazioni di una simile proposta e ritirarla immediatamente”, dice invece la presidente della commissione Vigilanza Rai Barbara Floridia, quota M5s, parlando di “rischi per il tessuto democratico del paese”. In risposta alle polemiche, Berrino ha continuato a difendere le sue scelte: “Nessuno ha diritto di inventarsi fatti falsi e precisi per ledere l’onore delle persone. Quello non è diritto di informazione ma orchestrata macchina del fango, che lede anche il diritto alla corretta e veritiera informazione”. In serata l’esponente di FdI ha poi abbassato i toni: “Non è prevista nessuna nuova pena detentiva per i giornalisti”, assicura, anzi “il provvedimento in esame semmai elimina la pena detentiva per alcune ipotesi di diffamazione, salvo continuare a tutelare il cittadino nella sua onorabilità”. La notizia ha scosso gli animi, oltre che delle opposizioni, anche dei rappresentanti della categoria, la Federazione nazionale per la stampa e l’Ordine dei giornalisti. Gli emendamenti presentati, tra le altre cose, si aggiungono alla modifica fatta qualche giorno fa in commissione vigilanza Rai sulle regole alla par condicio in vista delle prossime elezioni europee. Nella sostanza, la maggioranza ha approvato un emendamento che garantisce spazi di comunicazione politico-istituzionale all’interno dei programmi di approfondimento giornalistico dei canali Rai. Una decisione che il sindacato UsigRai non ha condiviso: “La maggioranza di governo ha deciso di trasformare la Rai nel proprio megafono. Lo ha fatto attraverso la Commissione di Vigilanza che ha approvato una norma che consente ai rappresentanti del governo di parlare nei talk senza vincoli di tempo e senza contraddittorio. Non solo, Rainews24 potrà trasmettere integralmente i comizi politici, senza alcuna mediazione giornalistica, preceduti solamente da una sigla. Questa non è la nostra idea di servizio pubblico, dove al centro c’è il lavoro delle giornaliste e dei giornalisti che fanno domande (anche scomode) verificano quanto viene detto, fanno notare incongruenze. Per questo gentili telespettatori vi informiamo che siamo pronti a mobilitarci per garantire a voi un’informazione indipendente, equilibrata e plurale”. Carcere e stop trojan. Si prepara la stretta su cronisti e indagini di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2024 Costa all’assalto del ddl cybersicurezza. Il deputato di Azione torna alla carica con una nuova sventagliata di emendamenti “garantisti”: propone il carcere fino a tre anni per chi diffonde informazioni provenienti da accessi abusivi e multe fino a ventimila euro per i cronisti che pubblicano intercettazioni citate nelle ordinanze di custodia cautelare. Carcere fino a tre anni per chi diffonde informazioni provenienti da accessi abusivi a sistemi informatici. Multe fino a ventimila euro per i cronisti che pubblicano intercettazioni citate nelle ordinanze di custodia cautelare. Estensione del segreto investigativo anche agli atti già conosciuti dalle parti, stop all’uso dei trojan nelle indagini i per reati contro la pubblica amministrazione. Il falco Enrico Costa torna alla carica con una nuova sventagliata di emendamenti “garantisti”, ben 23, presentati al ddl sulla cybersicurezza in discussione nelle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera. “Ho scritto un po’ di emendamenti interessanti. Dalla pubblicazione di informazioni “rubate”, al trojan, alle ispezioni ministeriali, all’estensione del segreto istruttorio. Tutti temi cari a Nordio, almeno così credo. Come finirà?”, si chiede su X il deputato di Azione, già ispiratore di varie contestate misure approvate negli ultimi anni in tema di giustizia (dal decreto sulla presunzione d’innocenza al fascicolo per la valutazione del magistrato, dal ritorno della prescrizione dopo il primo grado al “bavaglio” alla stampa sulle ordinanze di arresto). In realtà anche stavolta le sue idee hanno ottime probabilità di essere accolte dalla maggioranza: in particolare gli emendamenti sugli accessi abusivi alle banche dati della pubblica amministrazione, elaborati sull’onda dello scandalo che ha coinvolto Pasquale Striano, il finanziere in servizio alla Procura nazionale antimafia accusato di dossieraggi illeciti su centinaia di soggetti. Vediamo le proposte. “Al fine di garantire un’adeguata tutela e protezione dai rischi di accesso abusivo ai dati contenuti in sistemi informatici di interesse pubblico”, si legge in uno degli emendamenti, l’accesso alle banche dati è consentito solo “previo utilizzo di specifici sistemi di autenticazione (…) basati sull’utilizzo combinato di almeno due differenti tecnologie, una delle quelli deve essere basata sull’elaborazione di caratteristiche biometriche” (cioè impronte digitali, riconoscimento facciale e simili). Se poi ad accedere non è un funzionario dell’ufficio, ma un “addetto tecnico” (cioè un “operatore tecnico avente funzioni di amministratori di sistema, di rete o di archivio di dati”) il suo accesso “è preventivamente riportato in un apposito registro (…), unitamente alle motivazioni che lo hanno determinato e a una descrizione sintetica delle operazioni svolte, anche mediante l’utilizzo di apparecchiature elettroniche”. Inoltre Costa vorrebbe introdurre un nuovo reato per punire con il carcere da sei mesi a tre anni i giornalisti, o chiunque altro, pubblichi “in tutto o in parte” informazioni acquisite tramite accessi abusivi, “conoscendone la provenienza illecita”, anche al di fuori dei casi di concorso del reato (come quello contestato ai tre cronisti del quotidiano Domani, accusati di istigazione nei confronti di Striano). Una norma che impedirebbe, ad esempio, di riportare sui giornali tutti i documenti segreti pubblicati da Wikileaks, la piattaforma fondata da Julian Assange. E che, se proposta in Aula, potrebbe essere approvata con il voto segreto, trattandosi di una previsione attinente alla libertà personale tutelata dalla Costituzione. “Va bene non prevedere il carcere ai giornalisti per la diffamazione (come invece vorrebbe fare Fratelli d’Italia, ndr), ma “diritto di cronaca” non significa “immunità”. Chi pubblica informazioni che sa essere state “rubate” attraverso fatti di reato, tipo accessi abusivi ai sistemi informatici o intercettazioni abusive, va punito, perché questo non è diritto di cronaca”, rivendica Costa. La previsione di un reato apposito, spiega, “si è resa necessaria dopo la bizzarra posizione della Cassazione che invece ha considerato il diritto di cronaca come un’immunità anche di fronte a informazioni acquisite attraverso condotte delittuose”, negando quindi la sussistenza del delitto di ricettazione (la vicenda riguardava la pubblicazione, da parte di Libero, di alcune intercettazioni illegali realizzate da Esselunga ai danni di Coop). Gli emendamenti però non si limitano a questo aspetto: il deputato calendiano ripropone anche un suo vecchio pallino, l’abolizione della possibilità di usare il trojan (il captatore informatico che trasforma i telefoni in microspie) nelle indagini per i reati contro la pubblica amministrazione puniti con una pena non inferiore nel massimo a cinque anni, come la corruzione, la concussione, il peculato o l’induzione indebita. Si tratta di una facoltà introdotta dalla legge Spazzacorrotti dell’ex ministro della Giustizia M5s Alfonso Bonafede, che l’attuale Guardasigilli Carlo Nordio ha già detto di voler cancellare (e Forza Italia ci ha già provato con degli emendamenti): anche questa proposta, pertanto, ha ottime possibilità di passare se verrà dichiarata ammissibile. Ancora in tema di informazione giudiziaria, poi, Costa vorrebbe moltiplicare le pene del reato di “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”, che punisce chi riporta sui giornali “atti o documenti di cui sia vietata per legge la pubblicazione”. Attualmente la fattispecie è punita con un’ammenda da 51 a 258 euro, cornice che l’emendamento vorrebbe alzare da tremila a diecimila euro, e addirittura da diecimila a ventimila “se il fatto riguarda le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche”. La mossa è il completamento di un altro blitz firmato Costa, l’emendamento-bavaglio che ha delegato il governo a prevedere il divieto per i giornalisti di pubblicare letteralmente il testo delle ordinanze di arresto. Quando la delega sarà esercitata, quindi, quei provvedimenti - anche se non più soggetti a segreto - rientreranno nell’elenco di quelli “di cui è vietata per legge la pubblicazione”: pertanto un cronista che citerà tra virgolette un’intercettazione riportata in un’ordinanza rischierà fino a ventimila euro di multa. Non solo: un altro emendamento del deputato al ddl cybersicurezza vorrebbe estendere tout court il segreto a tutti gli atti fino al termine delle indagini preliminari, anche se conosciuti dalle parti. In quel caso diventerebbe vietato persino riportare il contenuto di un’ordinanza di custodia cautelare, anche senza citarla tra virgolette: in sostanza, fino al processo non si potrebbe più conoscere il motivo dell’arresto di un indagato. Quando difendere in Aula presunti ‘ndranghetisti rischia di diventare reato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 aprile 2024 Nell’universo intricato della giustizia, il colloquio tra l’avvocato e il suo assistito riveste un carattere sacrosanto, intoccabile, essenziale per la tutela degli interessi difensivi e il rispetto del contraddittorio processuale. Questa inviolabilità costituisce un pilastro fondamentale, tanto che qualsiasi interferenza esterna minerebbe irrimediabilmente l’integrità di tale rapporto, compromettendo l’equità del procedimento. Tale principio, sancito anche dalla Convenzione europea dei diritti umani, eleva la riservatezza dei colloqui tra avvocato e assistito a uno dei cardini del processo equo in una società democratica. Eppure, non di rado assistiamo alla violazione di questo sacro diritto. Essere avvocato è un mestiere già difficile di per sé, ma lo diventa ancora di più quando ci si trova ad assistere persone accusati di far parte della criminalità organizzata. In contesti come quello della Calabria, dove non di rado si effettuano inchieste giudiziarie a “strascico”, questo fenomeno assume contorni ancora più marcati. Un esempio tangibile di questa complessità è il caso dell’avvocato Francesco Sabatino, coinvolto nell’inchiesta condotta dalla Dda di Catanzaro, nota come “Maestrale”. Recentemente, la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio il provvedimento emesso dal Tribunale del riesame di Catanzaro il 12 ottobre 2023, grazie alla strenua difesa degli avvocati Valerio Vianello Accorretti e Francesco Petrelli, quest’ultimo presidente della Camera Penale. Sabatino era stato arrestato lo scorso 7 settembre con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, ma successivamente gli erano stati concessi gli arresti domiciliari. Il Tribunale del riesame aveva ridimensionato l’accusa a suo carico, escludendo l’utilizzabilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Andrea Mantella e Raffaele Moscato. Ma ha dichiarato legittime le intercettazioni. Per questo ultimo motivo, l’avvocato ha fatto ricorso in Cassazione, contestando l’utilizzabilità delle intercettazioni che, tra l’altro, non evidenziano alcun illecito. Degno di nota è l’incontro con Domenico Macrì, indagato per ‘ ndrangheta. Peccato che si tratti di uno suo assistito. L’avvocato Sabatino lo ha ricevuto presso il suo studio, il quale chiedeva chiarimenti in ordine al rischio di essere indagato a seguito di condotte emerse dalle indagini che avevano portato alla emissione di un provvedimento cautelare (l’operazione “Nemea”). Quindi parliamo di un provvedimento non coperto da alcun segreto. Ma non solo: era conosciutissimo dalla stampa perché i magistrati calabresi, in particolare il procuratore Nicola Gratteri, avevano indetto una conferenza. Come se non bastasse, parliamo di un provvedimento che l’avvocato conosceva visto che era difensore di una persona (tale Giuseppe Mancuso) indagata per quell’operazione. Provvedimento, che tra l’altro l’avvocato non ha consegnato a Macrì. Anche se, c’è da sottolineare, avrebbe potuto comunque darglielo. Fino a prova contraria, sarebbe potuto rientrare nella strategia difensiva. Comunque sia, questo non è accaduto. Sintetizziamo. Macrì teme di essere indagato nell’operazione ‘ Nemea’ e si reca nello studio dell’avvocato Sabatino, suo legale difensore, per un chiarimento. La giurisprudenza è chiara su questo punto: di fatto, è illegittimo aver intercettato (tra l’altro con il trojian) perché il dialogo è avvenuto tra un assistito e il suo legale, all’epoca non indagato. Parliamo di un episodio risalente nel 2018. Il contenuto verteva su questioni tecniche elementari e non coperte da segreto. L’avvocato Sabatino non ha mai avuto accesso agli atti investigativi coperti da segreto istruttorio. Si prospetta quindi un chiaro travisamento probatorio: le intercettazioni sono state utilizzate per giustificare la riapertura delle indagini (archiviate nel 2015) contro l’avvocato Sabatino e senza che sia specificato nel merito i motivi dell’attività captativa. Come se non bastasse i dialoghi non contengono alcun elemento penalmente rilevante, sì perché le presunte “prestazioni professionali ingiustificate’ non sono supportate da prove concrete. Si profila tutto a un discorso di “toni confidenziali” che è una considerazione di tipo moralistico. Il ricorso è stato accolto, tra l’altro anche il procuratore generale della corte suprema ha sposato in pieno i rilievi posti dalla difesa dell’avvocato Sabatino. La Cassazione ha quindi annullato l’arresto, rinviando il provvedimento per disporre una nuova valutazione. Nel frattempo, però, è alle battute finali il processo di rito abbreviato dove, oltre all’avvocato, sono a giudizio i clan della ‘ ndrangheta di Mileto, Briatico, Tropea, Cessaniti, Vibo, Filadelfia, Nicotera e Limbadi. Giovedì la pubblica accusa ha chiesto nei confronti dell’avvocato Sabatino, una pena di 8 anni e 9 mesi di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Una richiesta senza valutare i ragionevoli dubbi che emergono dalla stessa Cassazione. La tesi è chiara: l’avvocato avrebbe fornito consulenze e assistenza a esponenti delle cosche, rafforzandone il potere. Eppure, nel caso dell’avvocato Sabatino, parliamo di condotte che rientrano nell’esercizio legittimo della professione forense. Non vi è prova che l’imputato abbia agito “contra legem” o abbia ricevuto un vantaggio dalle cosche. Ancora una volta emerge quanto sia arduo e rischioso difendere individui coinvolti nella criminalità organizzata, con il pericolo costante che il legame tra avvocato e assistiti venga erroneamente interpretato come complicità. E tutto ciò diventa ancora più grave quando viene violato il diritto alla segretezza delle comunicazioni tra difensore e assistito. La democrazia liberale, principi cristallizzati dalla Costituzione, appare sempre in bilico. Si assiste sempre di più verso l’idea di uno Stato Etico. “Lucano non era un fuorilegge: la sua era un’economia della speranza” di Simona Musco Il Dubbio, 13 aprile 2024 Nessuna prova dei reati contestati a Domenico Lucano e alla sua presunta banda. Meglio: non esiste nessuna banda, non esiste alcun guadagno, non esiste nemmeno quella spavalderia con la quale, con un tratto di penna moraleggiante, il Tribunale di Locri aveva descritto l’ex sindaco di Riace. Si è totalmente sbriciolata sotto i colpi del diritto l’inchiesta Xenia, stando alle motivazioni della sentenza d’appello che ha spazzato via le pesanti condanne inflitte in primo grado, addirittura il doppio di quanto richiesto dall’accusa per l’ex sindaco: 13 anni e due mesi. Non c’è associazione a delinquere - anzi, non c’era nemmeno secondo chi ha svolto le indagini - non c’è prova della truffa, non c’è arricchimento, solo un falso che è valso al “Curdo” un anno e mezzo di condanna, pena sospesa. E non esiste nemmeno quel profilo di Lucano, così malefico da non meritare nemmeno le attenuanti generiche perché incensurato. Per i giudici di Reggio Calabria (Palumbo, Lauro, Minniti), infatti, le cose stanno diversamente. Una motivazione in punta di diritto, che conferma la forzatura - già sostenuta da numerosi giuristi - sull’utilizzo delle intercettazioni (come peraltro evidenziato anche dalla procura generale di Reggio Calabria), in quanto “risulta in via documentale, ed è incontestato tra le parti, che le intercettazioni furono inizialmente richieste ed autorizzate per i reati di cui agli artt. 317, 323 e 640 bis cod. pen. (...) e sulla scorta della prima relazione ispettiva”. Non era possibile, ovviamente, intercettare per l’ipotesi di abuso d’ufficio (poi tramutato in sentenza addirittura nel reato di truffa, di cui non vi è prova, secondo il collegio), per cui le intercettazioni sono state effettuate fuori dai casi previsti dalla legge. Ma emergendo ulteriori ipotesi di reato rispetto a quella iniziale era necessario, secondo i giudici, trovare ulteriori prove dei fatti (prove la cui esistenza era certa, secondo la sentenza di primo grado). Di queste prove non c’è nemmeno la minima traccia, stando alla sentenza d’appello. E Il ragionamento del giudice Fulvio Accurso è stato totalmente stracciato dalla Corte d’Appello. Il Tribunale di Locri, “per alcune ipotesi di reato, ha dato al fatto una diversa qualificazione giuridica, il che pone il problema” dell’utilizzabilità delle intercettazioni “per reati non autonomamente intercettabili”. Considerarle legittime significherebbe “da un lato svuotare di contenuto la funzione di garanzia propria del provvedimento autorizzativo, dall’altro, trasfigurare il decreto in una sorta di “autorizzazione in bianco”, in aperto contrasto con la riserva di cui all’articolo 15 della Costituzione”. Ma anche a fingere che non ci sia stata forzatura nell’utilizzo delle intercettazioni, ciò che manca sono le prove. Che erano necessarie per dimostrare “l’effettivo impiego, e soprattutto l’impiego illecito, delle somme prelevate dai vari rappresentanti legali, prova il cui onere incombeva sul pm”. Nelle sue motivazioni di primo grado, Accurso aveva descritto Lucano come “un falso innocente”, negandogli ogni attenuante. Un giudizio morale che la Corte d’Appello demolisce totalmente. La sua personalità, scrivono i giudici, “il contesto in cui ha sempre operato, caratterizzato da un continuo afflusso di migranti, l’assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto, l’indiscutibile intento solidaristico, gli sforzi per portare avanti la propria idea di accoglienza (nelle sue stesse parole, io devo avere uno sguardo più alto)” sono “indicatori meritevoli di considerazione”. E la Corte d’Appello non condivide il ragionamento del Tribunale quando fa riferimento ad una “logica predatoria delle risorse pubbliche, ad appetiti di natura personale, a meccanismi illeciti e perversi fondati sulla cupidigia e sull’avidità” : a ben vedere, scrivono i giudici d’appello, “i dialoghi captati (...) mettono in luce lo spirito di fondo che ha mosso l’imputato, certo di poter alimentare una economia della speranza, funzionale a quella che più volte Lucano ha definito essere la sua mission, ovvero poter aiutare gli ultimi”. Una mission “tesa a perseguire un modello di accoglienza integrata, ovvero non limitato al solo soddisfacimento di bisogni primari, ma finalizzato all’inserimento sociale dell’ospite di ciascun progetto”. Che Lucano mai avesse (neppure) pensato di guadagnare sui rifugiati “è circostanza emersa anche in un ulteriore dialogo (sempre anteriore alla discovery), in cui egli stesso sottolineava come, proprio grazie al suo intervento, altre persone avevano cambiato approccio, ponendosi verso la tematica dell’accoglienza senza alcuna finalità predatoria”. I dialoghi intercettati, prima e dopo la discovery, in linea con gli accertamenti patrimoniali compiuti su Lucano Domenico, “suggeriscono pertanto di escludere che abbia orchestrato un vero e proprio “arrembaggio” alle risorse pubbliche (così, invece, p. 61 sentenza appellata)”. Ma veniamo all’associazione a delinquere. Per la Corte d’Appello “sono fondati i motivi di appello relativi alla stessa esistenza del sodalizio, già esclusa in fase cautelare, e ciò pur prescindendo da ogni considerazione sulla utilizzabilità delle intercettazioni (anche) per le posizioni dei meri partecipi”. Dagli elementi raccolti non emerge infatti alcuna prova “della avvenuta strutturazione di mezzi e persone, secondo un coordinamento complessivo che trascenda le singole azioni”. E lo stesso teste principe dell’accusa, il tenente colonnello Nicola Sportelli, ha escluso che dalle indagini fosse emersa una qualche prova di associazione a delinquere. “Lucano - scrivono i giudici non si appropriò di alcuna somma di denaro, al punto da rivendicare la sua condizione di sostanziale nullatenenza”. L’ampia istruttoria, del resto, “non ha offerto elementi per ritenere provati nessuno degli elementi che, nella pratica giudiziaria, vengono valorizzati per dimostrare l’esistenza dì una struttura associativa”. Che Lucano e gli altri imputati stessero perseguendo un programma delittuoso aperto “è circostanza che trova una ulteriore e plastica smentita anche sul piano della componente soggettiva, nella espressa e formale richiesta di una più approfondita ispezione ministeriale; richiesta di cui vi è traccia anche nei dialoghi intercettati, in cui proprio Lucano lamentava il carattere incompleto - poiché meramente documentale (solo sulle carte) delle ispezioni conclusesi con relazioni negative per il progetto Riace”. Infine, mal si conciliano con la finalità predatoria più volte evocata dal tribunale - il banchetto - i dialoghi in cui, a fronte di chi sosteneva l’insufficienza della somma pro capite riconosciuta, Lucano Domenico ricordava - in dialoghi sia precedenti che successivi alla discovery - che l’importo di 35 euro giornalieri, se moltiplicato per il numero di ospiti, consentiva ampiamente di soddisfare le loro esigenze. “Siamo soddisfatti - ha commentato Andrea Daqua, difensore, insieme a Giuliano Pisapia, di Lucano - in quanto la corte d’appello ha accertato e dichiarato la piena bontà e legittimità, sotto ogni profilo, dell’intero operato di Lucano”. Insomma, una vera e propria debacle per il Tribunale di Locri e per l’accusa. E intanto il sogno di Riace è stato distrutto. Appello contro la misura cautelare, spazio a nuove prove per la difesa di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2024 Le Sezioni unite penali, sentenza n. 15403 depositata oggi, risolvono un contrasto interpretativo ed estendono all’indagato il diritto di portare eventuali nuovi elementi a suo favore nel rispetto del contraddittorio e del principio di devoluzione, tenendo ben saldo il principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. Sì alla proposizione di nuove prove a difesa nel giudizio di appello cautelare. Lo hanno stabilito le Sezioni unite penali con la decisioe n. 15403 depositata oggi, a soluzione di un contrasto giurisprudenziale, chiarendo tuttavia che restano fermi i principi del rispetto del contraddittorio e quello devolutivo. Il caso era quello di un uomo a cui era stata applicata la misura cautelare del carcere a seguito della contestazione del reato di associazione mafiosa che chiedeva di prendere in considerare le successive dichiarazioni dell’operante della polizia giudiziaria secondo le quali nel corso dell’attività di captazione non era emersa alcuna intercettazione con gli altri esponenti del sodalizio mafioso. Il Tribunale di Catanzaro aveva però escluso “in forza del principio devolutivo” di poter considerare “gli elementi nuovi e sopravvenuti che la difesa ha prodotto all’udienza di discussione”, successivamente dunque all’adozione del provvedimento appellato. Contro questa decisione la difesa ha proposto ricorso. La Prima Sezione penale, rilevato un contrasto ha rimesso la questione alle Sezioni unite. Secondo un primo orientamento, il giudice dell’appello cautelare è vincolato dall’effetto devolutivo dell’impugnazione. Pertanto, la prospettazione di una situazione nuova più favorevole all’appellante deve costituire oggetto di una nuova istanza. Indirizzo, scrive la Corte, coerente con la posizione delle S.U. Donelli (n. 18339/2004) che hanno riconosciuto solo al Pm che agisce contro il rigetto della misura la possibilità di introdurre elementi nuovi anche sopravvenuti (ed all’indagato di contestarli). Secondo un opposto orientamento, invece, l’appello implica una valutazione complessiva della prognosi cautelare e pertanto attribuisce al giudice dell’impugnazione i medesimi poteri spettanti al primo giudice, compreso quello di decidere, sia pure nell’ambito dei motivi prospettati, su elementi diversi e successivi rispetto a quelli posti a base dell’ordinanza impugnata. Per le Sezioni Unite, se la “scarna disciplina” della materia non consente di definire in modo autonomo i poteri cognitivi del giudice dell’appello, è d’obbligo guardare ai principi che governano le misure cautelari. E dunque all’articolo 13 della Costituzione, sulla inviolabilità della libertà personale, e all’articolo 27, principio di non colpevolezza. Considerato che i provvedimenti cautelari sono per natura provvisori, solo così potendosi conciliare col principio di non colpevolezza, e che “vengono adottati prescindendo da un accertamento pieno ed in contradditorio degli elementi che li giustificano”, è evidente che la “funzione di garanzia assolta dalla menzionata presunzione verrebbe irrimediabilmente compromessa dalla previsione di meccanismi di fissità e non revocabilità delle cautele qualora, nel corso della loro esecuzione, dovessero mutare le condizioni che ne hanno legittimato l’adozione”. Sul punto, la Corte costituzionale ha sottolineato che il sistema cautelare deve “corrispondere alla logica del costante adeguamento dello status libertatis dell’imputato alle risultanze del procedimento” (n. 321 del 2001). E le Sezioni Unite che gli strumenti procedurali per la verifica della perdurante sussistenza delle condizioni di applicabilità della misura si fondano sulla “immanente esigenza di evitare che possa registrarsi nel corso dell’esecuzione della misura uno scollamento della situazione cautelare da quella reale”. Nella logica tracciata dai suddetti principi, prosegue la decisione, “appare quindi irragionevole ritenere che al giudice dell’appello cautelare sia preclusa la possibilità di acquisire gli elementi probatori eventualmente prodotti dalle parti ad integrazione della piattaforma cognitiva sulla base della quale è stato emesso il provvedimento impugnato”. Inoltre, “la facoltà di produrre elementi probatori inediti deve essere riconosciuta non solo all’imputato, ma anche al pubblico ministero”. Il favor libertatis alla base del ragionamento appena svolto infatti “non è sufficiente per inibire alla parte pubblica la possibilità di produrre i nova probatori”. Del resto, anche il pubblico ministero potrebbe produrre elementi pro libertate. Inoltre, come già osservato dalle Sezioni Unite nella sentenza Donelli, appare irragionevole configurare un contraddittorio camerale “dimezzato”, nel quale solo l’accusa risulti “vincolata all’immutabilità dello ‘stato degli atti’ preesistenti”. Al Pm non può essere negato il diritto di presentare materiale informativo inedito a confutazione dei nuovi prodotti dalla difesa, anche considerato che proprio la sentenza Donelli gli ha riconosciuto il diritto di sottoporre a sua volta al giudice i nuovi elementi di prova a sostegno dell’appello da lui proposto avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di applicazione di una misura cautelare. In conclusione la Suprema corte ha affermato il seguente principio: “Nel giudizio di appello cautelare, celebrato nelle forme e con l’osservanza dei termini previsti dall’art. 127 cod. proc. pen., possono essere prodotti dalle parti elementi probatori “nuovi” nel rispetto del contraddittorio e del principio di devoluzione, contrassegnato dalla contestazione, dalla richiesta originaria e dai motivi contenuti nell’atto d’appello”. Il ricorso è stato tuttavia rigettato, nonostante il ragionamento del Tribunale contrasti con i principi appena affermati, in quanto i nova probatori sono stati presentati oltre il termine (articolo 127, comma 2). Nulla l’ordinanza cautelare non tradotta se è noto che lo straniero non parla italiano di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2024 L’indagato alloglotta che non conosca la lingua italiana ha diritto alla piena assistenza gratuita di un interprete in particolare dal momento in cui sia conosciuta dal giudice tale mancata conoscenza. Per cui se lo straniero, che non conosce l’italiano, sia sottoposto a misura cautelare e il giudice delle indagini preliminari già nell’udienza di convalida abbia ritenuto necessaria la presenza di un interprete a fini di una piena comprensione da parte dell’indagato non può non offrire alla persona ristretta la traduzione dell’atto che ha disposto la misura privativa della libertà personale. Tale traduzione va fornita in un termine congruo in base al Codice penale o, possiamo dire, nel “tempo più breve possibile”, come indicato dalle norme sovranazionali comunitarie e convenzionali. Tali tempistiche “celeri”, in quanto garanzie della possibilità di esercitare compiutamente il proprio diritto a una piena attività difensiva - nel caso in cui la mancata conoscenza della lingua italiana emerga successivamente all’atto adottato - impongono la sua traduzione in tempi brevi che decorrono a partire dal momento dell’acquisita conoscenza che lo straniero non comprende l’italiano. Le Sezioni Unite penali - con la sentenza n. 15069/2024 - hanno risolto il contrasto di giurisprudenza sulle conseguenze della mancata traduzione dell’atto processuale in termini di nullità o di inefficacia, in caso questo non sia tradotto in italiano o in lingua comprensibile al soggetto in tempi congrui. La decisione nomofilattica, in questo caso, depone per la nullità a regime intermedio. E, in tal senso, viene dettato il principio di diritto che scioglie il contrasto di giurisprudenza rilevato dalla sezione remittente. Il principio - Secondo l’interpretazione fornita è quindi affermata la nullità, dovuta alla sua mancata traduzione, dell’ordinanza cautelare che sia stata emessa quando era già nota la non conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato o indagato alloglotta. Nel caso in cui, invece, sia emerso dopo la produzione dell’atto che la persona attinta dalla misura personale non conosca l’italiano, l’ordinanza cautelare sarà da considerarsi valida fino al momento dell’acquisita consapevolezza su tale circostanza, ma in caso di mancata traduzione dell’ordinanza in un tempo congruo anch’essa sarà da considerarsi affetta da nullità che travolge tutti gli atti processuali presupposti all’applicazione della misura cautelare personale. Infine, le sezioni Unite penali chiariscono che la parte che contesti la legittimità dell’atto perché non tradotto in tempi congrui deve far valere tempestivamente il vulnus difensivo subito e dimostrare di avere un interesse concreto fondato sulla possibilità di ottenere un risultato favorevole. Calabria. Morire di carcere e in carcere. Voci contro l’indifferenza giornaledicalabria.it, 13 aprile 2024 Fervono i preparativi dei Garanti dei diritti delle persone detenute presenti in Calabria per l’iniziativa indetta dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale che si terrà il prossimo 18 aprile, a distanza di un mese dall’appello del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Alle ore 12.00, contestualmente in tutte le regioni, si darà lettura dei nominativi dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita, nonché dei nominativi dei detenuti deceduti per malattia ed altre cause da accertare. Si tratta di un elenco “agghiacciante”, sottolinea il documento della Conferenza dei Garanti, uno “stillicidio insopportabile, al pari della sensazione di inadeguatezza delle attività di prevenzione”, che rappresenta il prodotto della “lontananza” dal carcere e dall’intera comunità penitenziaria. L’appello della Conferenza, che analizza le diverse criticità del circuito penitenziario, si conclude con la richiesta di norme specifiche ed urgenti e di provvedimenti concreti da assumere in tempi rapidi. Il Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Luca Muglia, ha rimarcato che “dalla Calabria verranno segnali decisi ed importanti tesi a richiamare l’attenzione del legislatore, della società civile e dell’opinione pubblica sulle gravi condizioni di vulnerabilità che affliggono quotidianamente le persone private della libertà personale. L’impennata di suicidi e di eventi critici richiede uno sforzo comune che abbatta le barriere dell’indifferenza e dell’odio sociale, occorre restituire dignità alle persone detenute”. “La manifestazione del 18 aprile” -ha concluso il Garante regionale- “si svolgerà con modalità diverse presso le città di Catanzaro, Cosenza, Crotone, Palmi e Reggio Calabria, a cura dei Garanti comunali, provinciali e metropolitani, che ringrazio per l’operosità e la preziosa collaborazione. La maggior parte degli eventi si terrà presso gli ingressi e/o le scalinate dei Palazzi di Giustizia o delle Corti di Appello. In alcuni casi è prevista anche una conferenza stampa degli organizzatori. Io sarò presente, personalmente, a Cosenza, dove l’iniziativa sarà realizzata presso il Palazzo di Giustizia in collaborazione con l’Ordine degli Avvocati di Cosenza, la Camera penale “Fausto Gullo” e l’Osservatorio carcere dell’Unione Camere Penali, con l’adesione di tutte le associazioni forensi e delle associazioni di volontariato o del terzo settore”. Campania. Il suicidio è la prima causa di morte nelle carceri napolitoday.it, 13 aprile 2024 “In carcere il suicidio è la prima causa di morte. Servono interventi urgenti, non si può continuare a morire di carcere e in carcere”. Il dramma dei suicidi dietro le sbarre al centro dell’agenda della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, che ha organizzato per la giornata del 18 aprile un momento di riflessione sui suicidi e sulle morti in carcere, che vedrà coinvolti tutti i Garanti regionali, provinciali e comunali. Nel corso della manifestazione verrà letto un appello elaborato dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, contenente i nomi dei detenuti morti suicida, per malattia ed altre cause ancora da accertare, nonché i nomi degli agenti di polizia penitenziaria che quest’anno si sono tolti la vita, per non dimenticare le loro storie e il dramma delle loro famiglie. L’appello è rivolto al Ministero della Giustizia, all’Amministrazione Penitenziaria, ai membri di Camera e Senato e alla società civile, ad un mese esatto dalle dichiarazioni del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che, ricevendo il corpo della Polizia penitenziaria, ha ribadito l’importanza di interventi urgenti per frenare l’emergenza dei suicidi in carcere. “Il 18 aprile - dichiara il Garante campano, Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale - sarà l’occasione per accendere i riflettori sulle grandi carenze del sistema penitenziario attuale, per fare il focus sul sovraffollamento carcerario, sulle mancanze sanitarie e trattamentali, sulla necessità di una maggiore applicazione delle misure alternative al carcere. La lettura dei nomi morti suicida in carcere servirà a prendere coscienza di questa grande tragedia esistenziale, che giace nel silenzio delle istituzioni. Troppo spesso i luoghi detentivi sono considerati una discarica di esseri umani, anziché luoghi di riabilitazione”. Nell’autonomia dei singoli Garanti territoriali, le iniziative, il 18 aprile alle ore 12, saranno svolte in luoghi pubblici e istituzionali, attraverso conferenze stampa, appelli e altre iniziative, coinvolgendo Terzo settore, Avvocatura, cappellani e volontari. Pavia. Il trapper morto in carcere. “Jeffrey Baby finì in un incubo” di Manuela Marziani Il Giorno, 13 aprile 2024 Il 26enne fu trovato impiccato. Per le violenze in cella imputato il “collega” Traffik. Ad un mese esatto dalla morte di Jordan Tinti, il trapper di 26 anni noto come Jordan Jeffrey Baby, in tribunale è iniziato il processo per i maltrattamenti che il giovane avrebbe subito in una cella dell’istituto penitenziario pavese. Sul banco degli imputati, un altro trapper, Gianmarco Fagà, noto come Traffik e che come Jordan era stato condannato in primo grado a Monza per rapina aggravata dall’odio razziale (accusa riqualificata in violenza privata in appello). L’udienza si è aperta con il subentro del padre di Jordan, Roberto, nella costituzione di parte civile. La prossima udienza è fissata per venerdì 7 giugno, giorno in cui verranno ascoltati i testimoni tra cui alcuni compagni di cella di Jordan. “I testimoni hanno già raccontato alla polizia giudiziaria quello che avevano visto - ha detto l’avvocato Federico Edoardo Pisani - e la loro testimonianza ha trovato pieno riscontro nella denuncia di Jordan, tanto che si è arrivati al rinvio a giudizio. Davanti al giudice spero che possano raccontare qualcosa in più su quello che avviene in carcere. Dopo la morte di Jordan, ho ricevuto diversi messaggi da parte di parenti di detenuti o ex detenuti, ma non ho dato riscontro a quei racconti, talvolta anche molto duri”. Venerdì 13 settembre si proseguirà poi con il dibattimento e in quella data si potrebbe anche arrivare alla sentenza. Nel frattempo prosegue l’altra indagine della procura di Pavia per fare luce sulla morte di Jordan. L’ipotesi di reato è omicidio colposo ed è stata chiesta anche la documentazione al Sert. “Sono contento che la procura abbia avviato un’inchiesta a 360 gradi per fare chiarezza sulla morte di Jordan - ha aggiunto il legale -. Che la situazione del carcere di Pavia sia pesante lo dimostra l’ultimo suicidio avvenuto ancora una volta nel reparto protetti, con la morte di un detenuto di 42 anni. La responsabilità di questi drammi non può certamente essere degli agenti di polizia penitenziaria, sotto organico rispetto alle esigenze dell’istituto”. Jordan Jeffrey Baby era stato arrestato per una rapina con aggravante dell’odio razziale perché con Fagà avrebbe aggredito una persona di colore. “Per Jordan non ritengo si possa parlare di rapina - ha proseguito Federico Edoardo Pisani -. La persona aggredita aveva buttato la bicicletta e lo zaino ed è stato rincorso da Fagà, che poi è tornato indietro dove si trovava la bicicletta e insieme hanno fatto un video con il cellulare. Un’azione stupida. Ma quando Fagà ha buttato la bici sui binari, Jordan è andato a recuperarla perché aveva paura che qualcuno si facesse male”. Per questa azione Jordan è stato condannato a 16 mesi di reclusione durante i quali avrebbe subito maltrattamenti e violenza sessuale. Napoli. La vedova di Giuseppe Salvia: “Ci vorrebbe più umanità in carcere” di Antonio Caruso rainews.it, 13 aprile 2024 “Ci vorrebbe più umanità in carcere”. Un monito non banale se a parlare è Giuseppina Troianiello, vedova di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale, di cui Raffaele Cutolo ordinò l’assassinio, avvenuto il 14 aprile 1981, in un agguato sulla tangenziale di Napoli. Salvia seppe far convivere integrità e fermezza nel far prevalere le regole dello Stato nei confronti dei boss di camorra, con la capacità di dialogare con i detenuti, nel difficile percorso di rieducazione all’interno delle case circondariali. I premi dedicati a Giuseppe Salvia, assegnati ogni anno dall’Associazione Nazionale della Polizia Penitenziaria a esponenti, sono però l’occasione anche per una riflessione sulle tante criticità dell’universo-carcere italiano e campano: aggressioni, sovraffollamento, organici di polizia sottodimensionati, suicidi, fatiscenza delle strutture. “Stiamo lavorando per realizzare nuovi posti detentivi, per diminuire la pressione derivante dall’affollamento; a soluzioni per incentivare le misure alternative, laddove sia reso possibile dalle condizioni di sicurezza e dopo valutazione della magistratura di sorveglianza - dichiara Giovanni Russo, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - stiamo ampliando l’offerta trattamentale: consente a detenuti che vogliono partecipare a questo percorso di rieducazione, di svolgere per otto-dieci ore al giorno, all’interno del carcere, attività lavorative, artigianali, professionalizzanti. Possono ottenere una qualifica che rappresenta un ponte verso un futuro di reinserimento nella società”. Il numero uno del Dap, sul tema dei suicidi dietro le sbarre afferma: “Gli esperti che abbiamo coinvolto nelle nostre valutazioni - psicologi, psichiatri - ci dicono che non è un fenomeno collegato al sovraffollamento. Dobbiamo essere capaci di intercettare il disagio dei detenuti, per questo abbiamo potenziato l’assistenza con uno stanziamento straordinario di cinque milioni di euro volto al reperimento di psicologi”, conclude Russo. Modena. Sempre più detenuti per violenza di genere. “Servono cure in carcere per i sex offender” modenatoday.it, 13 aprile 2024 Una giornata di studio, a Modena, fa il punto sulla gestione carceraria dei detenuti che hanno commesso reati di natura sessuale. Presenti il garante regionale dei detenuti dell’Emilia-Romagna Roberto Cavalieri e la garante provinciale di Modena, Laura De Fazio. I dati sono noti e allarmanti: in soli dieci anni i numeri delle violenze di genere sono più che raddoppiati e le statistiche sul reato più grave, quello della violenza sessuale, sono particolarmente preoccupanti, considerato che l’incremento è stato del 40%. Le vittime sono donne nel 90% per cento dei casi di violenza, di cui più di un terzo minorenni - in questo caso i carnefici sono spesso coetanei. Situazione che inevitabilmente si riflette all’interno delle carceri. Servono maggiori risorse, trattamenti specifici, più progetti e personale preparato nella gestione di detenuti condannati per reati sessuali. Così come occorrono collaborazioni dirette con le aziende sanitarie del territorio. Queste, in sintesi, le conclusioni della giornata di studio sulla gestione carceraria dei detenuti che hanno commesso reati di natura sessuale, i cosiddetti sex offender. Un incontro a Modena, nella sede della facoltà di Giurisprudenza, in cui si sono confrontati docenti, giuristi, criminologi, psicologi, operatori penitenziari ed esperti dei diritti dei detenuti. Il Garante regionale dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri, fra gli organizzatori dell’evento assieme alla garante modenese Laura De Fazio, ribadisce la necessità di prevedere percorsi specifici per questa tipologia di detenuti, che appartengono alle cosiddette minoranze presenti all’interno delle carceri con esigenze diverse dagli altri detenuti. Per Cavalieri, contestualmente, è poi fondamentale continuare ad affiancare queste persone a fine pena. In questo caso, diventa centrale il ruolo degli enti locali, che, secondo il garante, dovrebbero fare di più. Sulla stessa linea la garante De Fazio, che evidenzia come questi detenuti necessitino di tutele particolari, ribadendo quanto sia determinante per la riabilitazione la fase del reinserimento sociale. Anche per il presidente della commissione Parità dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, “il percorso dei trattamenti in carcere diventa fondamentale per promuovere il reinserimento sociale e per contrastare le recidive, che in Italia riguardano il 70% dei casi”. Amico ripercorre poi l’impegno della Regione Emilia-Romagna: “L’ente interviene con una serie di misure consistenti nel trattamento in carcere, a partire dalla tutela e cura della salute. Importante, inoltre, il lavoro rivolto a incentivare i percorsi all’esterno del carcere finalizzati al reinserimento sociale”. “Un argomento forte, difficile e drammatico per tante persone”, sottolinea poi Gloria Manzelli, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e delle Marche. “I numeri - prosegue - sono in costante aumento, anche fra le donne. Il trattamento e la rieducazione per questo tipo di soggetti non possono essere improvvisati. Ci deve essere un metodo scientifico, servono professionalità adeguate. Per raggiungere risultati concreti, inoltre, il fine pena deve essere collegato a una presa in carico da parte del territorio”. Ad aprire i lavori il direttore del dipartimento di Giurisprudenza di Unimore, Carmelo Elio Tavilla. I lavori si sono conclusi con un approfondimento specifico sulla situazione nel carcere di Modena, che attualmente, nella sezione protetti, ospita un centinaio di detenuti. Nell’istituto penitenziario modenese da alcuni anni sono state definite linee guida rivolte ai sex offender e modalità d’intervento con la collaborazione dell’azienda sanitaria locale: c’è una presa in carico del detenuto da parte di una specifica équipe che si occupa inizialmente della valutazione diagnostica e successivamente della gestione del percorso terapeutico, lavorando sul comportamento del soggetto. Roma. Il dramma di Hasib, giù dalla finestra durante un controllo della polizia di Angela Stella L’Unità, 13 aprile 2024 Il 36enne rom, sordo dalla nascita, precipitò dalla sua camera nell’appartamento di Primavalle. Verso la richiesta di rinvio a giudizio per gli agenti. Secondo i pm, prima di cadere fu picchiato, legato e minacciato con un coltello. L’uomo ha raccontato di essere stato gettato nel vuoto, per l’accusa fu indotto a buttarsi. La Procura di Roma ha chiuso le indagini a carico di tre poliziotti coinvolti nella vicenda di Hasib Omerovic, giovane sordomuto di etnia rom precipitato il 25 luglio 2023 dalla finestra della sua camera nel suo appartamento a Primavalle, durante una attività di controllo da parte degli agenti. L’atto prelude alla richiesta di rinvio a giudizio. Nei confronti dei tre, i pm di piazzale Clodio contestano, a seconda delle posizioni, i reati di falso e tortura. In particolare, del reato di tortura viene accusato l’assistente capo della polizia Andrea Pellegrini, all’epoca dei fatti in servizio nel distretto di Primavalle. Secondo quanto si legge nel capo d’imputazione, il poliziotto “dopo essere entrato all’interno dell’abitazione, immediatamente e senza alcun apparente motivo colpiva Omerovic con due schiaffi nella zona compresa tra il collo ed il viso” dicendogli “con fare decisamente alterato” la frase ‘non ti azzardare mai più a fare quelle cose, a scattare foto a quella ragazzina’”. Il riferimento è ad un presunto episodio durante il quale Omerovic avrebbe infastidito una ragazzina per strada e le avrebbe scattato delle foto. Tornando alla ricostruzione dei fatti, successivamente il poliziotto “impugnava un coltello da cucina e lo brandiva all’indirizzo di Omerovic chiedendogli, sempre con fare alterato e urlando, che utilizzo ne facesse; avendo trovato la porta della stanza da letto di Omerovic chiusa a chiave la sfondava con un calcio, sebbene il 36enne si fosse prontamente attivato per consegnare le chiavi”. Inoltre “intimava a Omerovic di entrare all’interno della sua stanza da letto e lo costringeva a sedere su una sedia; dopo aver recuperato un filo della corrente di un ventilatore, lo utilizzava per legare i polsi” dell’uomo e “brandiva, ancora una volta, all’indirizzo dell’uomo il coltello da cucina in precedenza utilizzato, nel contempo minacciandolo, urlando al suo indirizzo la seguente frase ‘se lo rifai, te lo ficco nel c…’”. A Pellegrini è contestato anche il reato di falso in concorso con altri due colleghi per avere attestato che l’intervento nell’appartamento fosse “dipeso dall’essersi incrociati per strada lungo il tragitto e non, come realmente accaduto, da accordi telefonici previamente intercorsi”. I tre avrebbero inoltre attestato di aver ricevuto dai condomini dello stabile, una volta giunti sul posto, informazioni secondo cui “all’interno dell’appartamento degli Omerovic vivevano più persone che danno spesso problemi al condominio, in quanto vivono in uno stato di scarsa igiene e riferivano inoltre che durante alcune litigate all’interno dell’abitazione si sentivano spesso urla e lanci di oggetti come bicchieri e coltelli dalla finestra, laddove tali informazioni erano state, in realtà, acquisite soltanto dopo che Hasib Omerovic era precipitato nel vuoto”. Infine i poliziotti avrebbero omesso “di indicare tutte le condotte poste in essere da Pellegrini all’interno dell’appartamento”. La posizione di un quarto indagato, Fabrizio Ferrari, che ha collaborato alle indagini, è stata invece stralciata con l’accusa di falso. Il 2 febbraio Omerovic era stato sentito dai magistrati Michele Prestipino e Stefano Luciani. Come riferito dai suoi legali Susanna Zorzi e Arturo Salerni e dal segretario e deputato di +Europa Riccardo Magi che della vicenda si è occupato sin dall’inizio, quel giorno l’uomo ricostruì nel dettaglio quanto avvenuto, confermando quanto riportato nell’esposto promosso dai propri genitori all’indomani della vicenda. Ha affermato “di essere stato aggredito e picchiato dagli agenti con calci, pugni e oggetti contundenti; ha riconosciuto un agente come protagonista della brutale aggressione; ha dichiarato di essere stato legato ai polsi da un cavo elettrico e, in alcuni momenti di essere stato incappucciato. Infine ha confermato di essere stato afferrato per poi essere scaraventato dalla finestra dell’appartamento di via Gerolamo Aleandro”. In realtà la versione dell’accusa è che è stato indotto a gettarsi. Comunque si ribadisce che fino al termine degli eventuali tre gradi di giudizio vige la presunzione di innocenza per i poliziotti coinvolti. “Aspettiamo di vedere gli atti per comprendere come mai non siano state formulate ipotesi di reato in merito alla caduta di Hasib dalla finestra”, ha dichiarato Riccardo Magi. “In ogni caso è importante che l’inchiesta sia andata avanti perché parliamo di ipotesi di reati gravissimi commessi da funzionari dello stato. Più in generale e necessario ribadire l’importanza di non abrogare il reato di tortura come si chiede da più parti”. Venezia. Giustizia minorile, a Mestre il nuovo centro per tutto il Nordest di Giacomo Costa La Nuova Venezia, 13 aprile 2024 Il progetto era iniziato anni fa ma non si era mai concluso. Andrà a sostituire la struttura ora attiva a Treviso. Ci sono le porte blindate, ma le finestre sono identiche a quelle nelle aule e negli uffici del giudice. Gli impianti sono stati predisposti, ma mai attivati. Un lavoro a metà, insomma, che ora però sarà recuperato per diventare uno dei tre assi strutturali della giustizia minorile non solo veneta, anche di Friuli e Trentino. Il Centro di prima accoglienza di Mestre, adiacente al Tribunale dei minori, è infatti destinato a sostituire quello attuale di Treviso, che vale per tutto il distretto nordestino. Lo ha annunciato il sottosegretario di Stato alla Giustizia, Andrea Ostellari, venerdì in visita nelle aule di terraferma. Il senatore ha incontrato il procuratore capo, la magistratura minorile e il capo dipartimento, Antonio Sangermano, poi ha compiuto un sopralluogo proprio nei locali di piazzale Carlo Alberto dalla Chiesa che avrebbero dovuto diventare lo spazio in cui trattenere i minorenni fermati e in attesa di convalida o comunque i non accompagnati protagonisti di illeciti prima che venga loro trovata una sistemazione definitiva. “L’obiettivo è di riqualificarli e renderli rapidamente agibili. Gli spazi sono adeguati alle necessità previste dal servizio, sia per i minori che per il personale di polizia penitenziaria”, ha dichiarato Ostellari. “Il comprensorio minorile di Treviso comprende un istituto per minori e un Cpa. Entrambi saranno progressivamente dismessi”. La struttura penale destinata alla rieducazione, dove sono detenuti i minori già giudicati dal tribunale, sarà sostituita con quella in fase di realizzazione a Rovigo e che dovrebbe essere pronta entro l’anno; lì saranno anche trasferiti i 18 ospiti attuali dei locali trevigiani. Il futuro Cpa sarà invece quello di Mestre, appunto, dove potranno trovare spazio come minimo dieci giovanissimi; tanti, se si considera che per tutti si tratterà di un passaggio temporaneo, normalmente non superiore alle 48 ore (al momento, a Treviso, nessun minore si trova nel Centro esistente). I tempi per l’adeguamento della struttura dovrebbero essere anche più rapidi di quelli previsti per il complesso rodigino: di fatto si tratterebbe di attivare l’impiantistica, adeguare le stanze (soprattutto sostituendo le finestre, oggi semplici infissi in vetro) e rinnovare tutti i locali. I costi dell’operazione sono ancora in fase di valutazione e saranno poi oggetto di gara. “Manteniamo i patti”, ha concluso Ostellari, “l’azione di ammodernamento prosegue con determinazione, con una particolare attenzione alle esigenze educative e di recupero dei minori”. Massa Carrara. Il carcere sale sul palco: i detenuti protagonisti di “Passaggi” La Nazione, 13 aprile 2024 Il mini festival di teatro in carcere. Oggi in programma presentazione di un libro e spettacoli sul palco degli Animosi. L’evento promuove la riflessione sul capitalismo e il ruolo del denaro nella società. Prosegue anche per la giornata di oggi al teatro Animosi il mini festival di teatro in carcere ‘Passaggi’. Grande successo per lo spettacolo ‘Ali’ di ieri mattina e che ha visto una larga partecipazione di pubblico studentesco. Due gli appuntamenti in programma per oggi: alle 16,30 al Ridotto degli Animosi Carlo Mazzerbo (ex direttore del carcere della Gorgona) presenta il libro dal titolo “Ne vale la pena”, mentre alle 21 sul palco degli Animosi andranno in scena gli spettacoli ‘Ali’e ‘e It’s just a game’ per la regia e drammaturgia di Livia Gionfrida, con Robert da Ponte, una produzione Teatro Metropopolare del progetto ‘Teatro in Carcere 2021’ della Regione Toscana. Livia Gionfrida porta avanti con il suo collettivo Metropopolare un’indagine sul capitalismo e sul ruolo che il denaro ha nella nostra società e nelle nostre vite. Un attore storico del collettivo, ex detenuto ed ex bancario, prova a fare il punto sulla situazione, mescolando teorie economiche e legge di Murphy, con l’aiuto di Shakespeare, The Blues Brothers e l’ex presidente Trump. ‘Passaggi’ è la prima edizione del mini festival di teatro in carcere ‘Fuori e Dentro le Mura’ organizzato dal Comune di Carrara e realizzato in collaborazione con Experia Aps e Empatheatre Aps, due compagnie teatrali che da anni collaborano nella realizzazione di laboratori teatrali all’interno delle Case di reclusione di Massa, Lucca e San Gimignano e di numerose attività collaterali, riunite sotto la denominazione ‘Fuori e Dentro le Mura’ in teatri, sedi istituzionali, istituti scolastici e ambienti cittadini su idea di Donatella Bennati, Giulia Tonelli, Alessandro Bianchi, Umberto Moisè, Claudia Volpi. Il costo dei biglietti per assistere ai due spettacoli serali è di 10 euro, si possono acquistare alla biglietteria degli Animosi dalle 10 alle 12,30 e a partire dalle 18 o sul circuito Vivaticket. Venezia. Mark Bradford incontra i detenuti di Santa Maria Maggiore La Nuova Venezia, 13 aprile 2024 Il noto artista americano nel carcere veneziano per parlare di arte e cultura e coinvolgere i detenuti in laboratori. Venerdì mattina il carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia ha visto una visita speciale: Mark Bradford, il rinomato artista americano, ha fatto tappa presso l’istituzione penitenziaria su invito del direttore Enrico Farina e della cooperativa Rio Terà dei Pensieri che opera all’interno del carcere promuovendo il reinserimento lavorativo dei detenuti attraverso attività come la pelletteria e la serigrafia. Grazie al loro impegno nel fornire opportunità di formazione e lavoro ai detenuti, stanno contribuendo a rompere il ciclo della recidiva e a preparare gli individui per una transizione positiva nella società una volta scontata la pena. L’incontro tra Mark Bradford e i detenuti ha rappresentato un momento di ispirazione e di apertura mentale. L’artista ha condiviso la sua esperienza e la sua prospettiva unica sull’arte come strumento di trasformazione e di espressione individuale. I detenuti hanno avuto l’opportunità di interagire direttamente con l’artista, porre domande e persino partecipare a piccoli laboratori creativi. Il direttore Enrico Farina ha sottolineato l’importanza di iniziative come questa nel promuovere la riabilitazione e il reinserimento sociale dei detenuti. Ha espresso gratitudine nei confronti di Mark Bradford per aver dedicato del tempo e della sua arte a questa causa, sottolineando come la collaborazione tra artisti e istituzioni penitenziarie possa aprire nuove prospettive e possibilità per tutti gli interessati. “In un momento in cui il dibattito sulla giustizia penale e sul sistema carcerario è sempre più acceso, eventi come la visita di Mark Bradford al Carcere di Santa Maria Maggiore ci ricordano l’importanza della compassione e della speranza nel processo di riabilitazione. Sono questi gesti di solidarietà e di comprensione che possono veramente fare la differenza nella vita di coloro che sono stati coinvolti nel sistema penitenziario”, spiegano dalla cooperativa. “In carcere c’è la vita” di Massimo Marino Corriere di Bologna, 13 aprile 2024 Il carcere. Qual è il nostro rapporto con il luogo che sembra contenere tutti gli scarti della nostra società, tutto quello che riproviamo, che non vogliamo vedere? Daria Bignardi inizia il suo nuovo libro, “Ogni prigione è un’isola” (Strade blu Mondadori, pagine 168, euro 18.50), riportando una seduta con il suo analista. Cerca di spiegare perché, negli anni, si è tanto interessata alle prigioni, perché le ha frequentate con attività varie, perché ne ha seguito i problemi, le rivolte nel periodo del Covid, le morti, le attività che cercano di rendere reale il tema della “rieducazione” evocato dall’articolo 27 della Costituzione. Confessa: “Non è che le prigioni mi piacciano, al contrario. Ma dentro c’è l’essenza della vita: l’amore, il dolore, l’amicizia, la malattia, la povertà, l’ingiustizia...”. E continua: “Il carcere è come la giungla amazzonica, come un paese in guerra, un’isola remota, un luogo estremo dove la sopravvivenza è la priorità e i sentimenti primari sono nitidi. È un posto dove tutto è più chiaro, capisce?”. Il carcere è qualcosa di profondo, che la implica tanto da parlarne in una seduta psicanalitica: è un luogo chiuso, isolato, protetto, ma anche esposto a mille insidie, come un’isola. Del libro, dei luoghi di reclusione, delle attività che vi ha svolto, degli incontri con le persone, con i reclusi ma anche con giudici, direttori e agenti, parlerà lunedì alle 18 all’Oratorio di San Filippo Neri in un incontro realizzato in collaborazione con la libreria Mondadori. Interverrà Silvia Avallone, un’altra scrittrice “stregata” dalle attività in carcere, che ambienta una parte del suo ultimo romanzo, Cuore nero (Rizzoli), nel carcere minorile di via del Pratello a Bologna, immaginandolo come un istituto femminile. Signora Bignardi, che cosa ha fatto e che cosa fa in carcere? “Negli anni ho lavorato con tanti diversi gruppi di detenuti a vari progetti: scrittura, interviste, coro, lavoro nelle scuole, convegni. Ci sono entrata la prima volta nel 1998 mi sembra, e non ho più smesso di andarci. Soprattutto a San Vittore. Ma sono stata anche a Bollate, a Poggioreale, al carcere femminile di Pozzuoli. Anche al femminile di Tirana”. Dal libro risulta che lei ha lavorato su come dall’interno si percepisce il mondo esterno. Ci può raccontare qualcosa? Per esempio, come sono visti i media? “La televisione è l’unica cosa garantita in carcere, l’unico contatto con l’esterno. Non c’è internet, non ci sono i giornali. I detenuti sono grandi esperti di televisione. Vent’anni fa a un gruppo avevo dato da scrivere per due anni la rubrica televisiva del mensile che dirigevo. Le loro rubriche spesso erano esilaranti. In carcere a volte si ride anche, come a scuola”. I problemi del carcere? “Sono i problemi di fuori ma all’ennesima potenza: la povertà, le differenze sociali ed economiche, l’ingiustizia sociale, la malattia, le dipendenze, i problemi psichiatrici. In più c’è il sovraffollamento (61mila presenze per 47mila posti), i problemi strutturali. In carcere soffrono tutti, detenuti e agenti”. È trasformabile il carcere? “Lo sarebbe, ma ci vorrebbe un enorme impegno, e la politica non vuole prenderselo, perché non porta voti, anzi”. È sempre necessario? “Tutti quelli con cui ho parlato, soprattutto addetti ai lavori come direttori agenti e giudici, mi hanno detto che di 61mila detenuti forse avrebbe senso che fossero reclusi in seimila”. “Concertina”: un Festival per superare il confinamento sociale e carcerario di Bernard Bolze* L’Unità, 13 aprile 2024 Le nostre certezze? La storia e l’esperienza ci hanno insegnato a diffidarne. Le nostre convinzioni sono intatte. Il nostro team sta preparando la quarta edizione, a fine giugno a Dieulefit in Francia, di “Concertina, Incontri estivi attorno ai confini”. Ecco il percorso. Le persone che sono attaccate alla questione del confinamento lo fanno per convinzioni politiche, sociali, filosofiche o religiose. Convinzioni umaniste in tutti i casi. Queste persone provengono da tutti i posti, da tutte le età, da tutte le discipline e da tutte le opinioni. Ci sono attivisti rivoluzionari (Bruciamo le carceri!) e riformisti (Umanizziamo le carceri!), ma anche parenti, assistenti sociali, visitatori, insegnanti, medici, architetti, artisti, avvocati, giornalisti, storici, geografi, cappellani, ricercatori, uomini e donne politici (pochi). Cerchiamo di fare di Concertina il luogo dove si sta per necessità e senza snobismo, se si è interessati all’incarceramento e si è disposti a incontrare persone, cioè ad ascoltare il punto di vista dell’altro. Organizziamo incontri con professionisti e specialisti che accettano di abbandonare il loro gergo per rivolgersi al grande pubblico senza distanze e senza populismi. Cerchiamo di non ridurre gli Incontri a scambi tra ricercatori e attivisti impegnati nella causa. Venire a Concertina significa accettare il rischio e le opportunità di tutti gli incontri, compresi quelli del personale dell’amministrazione penitenziaria o della salute mentale e psichiatrica in carcere. Siamo preoccupati dei gravi abusi di alcuni di questi membri del personale che oscurano la vita dei prigionieri o dei pazienti e offuscano l’immagine di queste istituzioni. Queste sono ragioni aggiuntive per impegnarsi in un dialogo con coloro che, tra questi membri, accettano il principio. Crediamo immodestamente di poter contribuire alla rivalutazione del loro lavoro per il massimo beneficio delle persone ristrette. Venire a Concertina significa partecipare a un festival di idee che quindi include necessariamente anche il dibattito. Non vogliamo evitare temi che fanno rabbia, senza arrabbiarci con tutti! Rifiutiamo il pensiero comodo “c’è solo questo e poi lo sai”. Cerchiamo di tenere insieme l’amicale e il politico, non favorendo nessuno dei due. Difendiamo il principio del libero accesso a tutti gli eventi e dell’impegno volontario: un’iniziativa collettiva e un movimento per formare, promuovere, unire. Crediamo insieme ad altri che “la grandezza non è nella dimensione”. Crescere significherà immaginare domani altri incontri a misura d’uomo, in altre città e in altri Paesi, con un pensiero comune allo sviluppo. Vogliamo una linea editoriale che coinvolga e, dal 28 al 30 giugno, metteremo in evidenza e in discussione, tra altre cinquanta, proposte attorno al tema Margini come: l’uso della violenza e della nonviolenza, l’uso dei campi di lavoro minorile nel XIX secolo e successivamente, la paura degli altri e l’indesiderabilità, le carceri a fronte del cambiamento climatico, il margine creativo di nuovi diritti, il personale di sorveglianza a fronte della malattia mentale, l’irruzione dell’anormalità nella vita di una persona, i graffiti, i tatuaggi, “Il ricordo lacerato” della figlia di una vittima e della nipote di un torturatore in America Latina, la custodia a vista e i suoi abusi. Avremo come base questo breve testo sviluppato insieme: “Tutti i margini raccontano una storia tra un centro e una periferia. Qui la sensazione esilarante di uscire dal gregge, lì la sensazione dolorosa di essere lasciati indietro. Desideri opposti di essere dentro e fuori, uguali e diversi. Siamo tutti gli outsider di un gruppo o di un’idea. La persona privata della libertà è, numericamente, una persona ai margini in Europa. Spesso è senza casa, senza documenti, senza scuola o senza relazioni sociali e familiari, duramente colpita dalla crisi ecologica. Quando è una migrante, il confine a volte è labile tra l’amministrazione della sua situazione e la sua criminalizzazione. A Concertina rivendichiamo la scelta originale di interessarci alle persone private della libertà e di mobilitarci per loro. E anche di metterle al centro delle nostre preoccupazioni. Le nostre società giudicano la persona confinata, giudicano la sua colpa, la sua devianza, la sua infrazione, a volte il suo mancato rispetto delle norme sociali o la sua dissidenza politica. Ritengono opportuno metterla da parte per tutelarsi e, perché no, farla soffrire, includerla nei margini invisibili dei nostri territori. Dalla marginalità all’esclusione c’è solo un passo che a volte può rasentare la barbarie. Ci piace anche pensare che i margini significhino un rifiuto dei modelli predatori. Aperti e confusi, offrono il loro spazio di libertà e creazione. Invitano a l’impegno, la solidarietà, la nonchalance, la tenerezza, le strade secondarie o i passi laterali, la poesia, la musica, la resistenza”. *Team organizzatore di Concertina La Corte europea ha cambiato il catalogo dei diritti di Serena Sileoni Il Dubbio, 13 aprile 2024 La sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato pochi giorni fa lo Stato svizzero per non aver adottato misure efficaci di lotta al cambiamento climatico ha una portata storica, sotto diversi punti di vista. Innanzitutto, è la prima volta che la Corte di Strasburgo è chiamata a decidere se uno Stato ha fatto abbastanza per combattere i cambiamenti climatici. Il ricorso è stato presentato da una associazione di donne di terza età, le quali lamentavano che la loro salute fosse compromessa dalle ondate di calore e che lo Stato svizzero avesse violato i loro diritti non avendo attuato misure adeguate per fronteggiare il problema. Finora, la Corte era stata investita di questioni relative a danni diretti e circoscritti all’ambiente e alla salute, non a danni così estesi che, per sua stessa ammissione, dipendono da una pluralità di fattori, concatenati in maniera complessa, con profili incerti di allocazione delle responsabilità, degli effetti, dei rischi. In secondo luogo, la Corte innova il catalogo dei diritti su cui ha giurisdizione: nella Convenzione che essa è chiamata a tutelare non c’è uno dedicato espressamente all’ambiente, ma i suoi giudici avevano già avuto modo di individuare nel diritto alla vita e in quello alla vita privata e familiare - questi sì previsti dalla Convenzione - anche quello a vivere in un ambiente salubre. Estendere questo diritto di derivazione giurisprudenziale alla protezione contro i danni da cambiamenti climatici è un enorme salto in avanti, proprio per la difficoltà di circoscrivere le vittime, i danni, i responsabili. Quella contro la Svizzera sarà quindi una sentenza pilota, considerato anche l’attivismo con cui le ONG ambientaliste stanno portando in tribunale stati e compagnie ad alta intensità emissiva. Alla transizione verde, ammonisce la Corte, sono chiamati tutti: cittadini, imprese, Stati. La retrocessione dei concetti di danno e di vittima e del rapporto causa-effetto in tema di cambiamenti climatici è però un facile tratto di penna, per il giudice, ma una responsabilità inusitata per i soggetti coinvolti. Qui si celano altri due profili di eccezionalità della sentenza, che hanno a che fare con i pilastri su cui tutto sommato si reggono ancora i nostri pericolanti Stati: la separazione dei poteri e la democrazia. La Corte giudica la Svizzera nel merito delle politiche ambientali, superando il limite per cui il giudice non può sindacare il merito delle scelte politiche, limite che è ancora l’anima, e la garanzia, dello stato di diritto. La necessità a cui sono chiamati i governi di fare sintesi tra molti interessi diversi, l’assunzione di responsabilità nel recepire i dati di scienza richiederebbero, proprio in questa materia, una maggiore cautela di sindacato nei confronti della discrezionalità di scelta delle politiche pubbliche, come mostrato - ad esempio - dal tribunale di Roma nella prima causa intentata allo Stato italiano contro l’inerzia sulle politiche di contrasto al climate change (il cd. Giudizio Universale). Qui, invece, la sentenza si sostituisce alla legge, il circuito giudiziario al circuito politico. L’iperattivismo delle Corti è un tema di dibattito da anni, ma in questo caso specifico l’intromissione nella discrezionalità politica suona ancora più eccezionale, perché si pone in maniera frontale rispetto a scelte democraticamente già assunte dalla Svizzera. Nel 2021, infatti, la popolazione svizzera aveva rigettato, con il 51,6% dei voti contrari e una partecipazione prossima al 60%, una legge sulla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. L’estate scorsa, più del 59% dei votanti, con una partecipazione ferma al 42,5%, ha confermato una nuova legge sul clima, che rende vincolante il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050. Sembra quindi difficile ritenere che la Confederazione non si sia già attivata nel senso suggerito dalla Corte europea. A meno che non si voglia supporre che in capo allo Stato non vi sia soltanto una obbligazione di impegno, ma un obbligo di risultato. Qualcosa che urta, di nuovo, con la separazione dei poteri. Non si tratta di minimizzare i rischi derivanti dal cambiamento climatico, ma di rispettare quella divisione dei ruoli che è il sale della democrazia, perché rende responsabili coloro che, davvero, sono soggetti a una costante giudizio di conferma o condanna da parte degli elettori. C’è un ultimo punto degno di considerazione. È curioso che la sentenza sia stata sollecitata da un’associazione di signore anziane. La tutela dell’ambiente è una delle questioni a maggiore trade off tra presente e futuro e quindi uno dei più rilevanti terreni di scontro, o quanto meno di bilanciamento, tra i diritti consolidati della popolazione adulta e quelli delle generazioni più giovani, come ricordano molti movimenti giovanili. Probabile che si tratti solo di un caso. D’altra parte molte cause climatiche, oltre alle note proteste più o meno scomposte come quelle che imbrattano i monumenti, sono portate avanti da giovani, compresa una respinta dalla stessa Corte Edu contemporaneamente a quella qui citata, ma sulla base di motivazioni processuali. Sarebbe interessante però capire se, minoranze rumorose a parte, la maggior parte dei giovani sia consapevole che il futuro dell’ambiente non è un gioco a somma zero tra legislazione e progresso. L’alternativa è restare legati a un’idea di Stato tuttofare con cui sono cresciute le generazioni adulte. È credere alle facoltà divine di chi ci governa, capace di imporre con la bacchetta magica delle leggi la soluzione di problemi così grandi, e reo quindi di non impegnarsi abbastanza laddove i risultati sperati non vengono raggiunti. Un credo simile ha qualcosa di mistico che riporta le lancette indietro ai tempi di imperatori e sovrani che basavano il loro imperio sul loro culto. Un credo che, in maniera imperfetta ma fortunata, proprio la democrazia ha sfidato e vinto. “Perché l’idea che il povero sia un pigro che non ha voglia di lavorare non muore mai” di Loredana Lipperini L’Espresso, 13 aprile 2024 Il concetto dei “fannulloni” serve, in realtà, a nascondere l’incapacità da parte di chi governa di garantire giustizia sociale a chi vive ai margini. Al contrario, si sottovalutano le risorse e la rabbia di quanti sono considerati tra gli ultimi. Un tempo la letteratura si occupava di poveri. Molto prima de Le ceneri di Angela di Frank McCourt, successone del 1997, ci fu Un albero cresce a Brooklyn: lo scrisse nel 1943 Sophina Elisabeth Werner con lo pseudonimo di Betty Smith. Vendette quattro milioni di copie, venne tradotto in sedici lingue, la New York Public Library lo inserì fra i libri del secolo. Raccontava la storia dei piccoli Francie e Nellie Nolan, figli di immigrati irlandesi che nel 1912 sopravvivono come possono alla fame e alla miseria. Francie, in particolare, sogna di diventare scrittrice fin dagli anni della scuola, opponendosi a una maestra che la invita a raccontare “la bellezza” e non la povertà, che è “sordida”. Ora, il concetto di “sordido” è durissimo a morire. Nei giorni scorsi l’Istat ha detto che le famiglie italiane in povertà assoluta hanno toccato il massimo storico (5,7 milioni di persone), in aumento dello 0,1% rispetto allo scorso anno. Dei nuovi 78 mila poveri, peraltro, alcuni hanno un lavoro, ma è uno dei tanti bad jobs che umiliano e non sfamano. La presidente del Consiglio ha commentato che “la povertà non si abolisce per decreto”. In realtà ci vogliono i decreti e ci vuole anche un lungo lavoro culturale che almeno scalfisca la narrazione secondo la quale la povertà è frutto di pigrizia, concetto che precede questo governo: la parola fannulloni piace a tutti, a Matteo Renzi, a Renato Brunetta e ai titolisti di Libero, e a tutti coloro che si aggrappano al concetto di merito. Quando, nel 2018, un gruppo di signore torinesi diede vita a una manifestazione “Sì-Tav”, le organizzatrici rivendicarono con orgoglio il termine “borghese”, “che indica generalmente una sana laboriosità”, a differenza, si fece intendere, di quelli che vivono sdraiati sul divano aspettando il sostegno dello Stato. E ogni anno, all’inizio della stagione turistica, imprenditori e ristoratori e albergatori si lamentano di non trovare camerieri o aiuto cuochi, causa svogliatezza e, quando c’era, reddito di cittadinanza (che poi non precisino quasi mai l’entità dello stipendio sembra faccenda secondaria). Che una presidente del Consiglio trovi il modo di contestare i dati Istat e, nei ritagli di tempo, di querelare Luciano Canfora dovrebbe sorprendere: ma non avviene, perché ci stiamo abituando a tutto come se fosse la normalità, incluso il vedere Ilaria Salis in catene. Soprattutto, ci appare normale parlare di merito, nel lavoro come nella scuola. Come scrisse Alan Bennett in Una visita guidata, non solo i poveri non hanno voglia di lavorare, ma non fanno nulla per dimostrare che hanno voglia di lavorare: “L’ortodossia corrente ritiene che gli impiegati pubblici facciano il loro lavoro al meglio solo se gli viene chiesto di dimostrare che stanno facendo il loro lavoro al meglio”. Dunque, la cosa preziosa di oggi è La vera storia della Banda Hood di Wu Ming 4, in uscita per Bompiani. Parla di Robin Hood, certo: ma la bellezza e la cura con cui viene ricostruita l’antica leggenda e viene narrata la giovanissima comunità di banditi che vive nella foresta di Sherwood restituiscono un pizzico di giustizia alle storie che bisognerebbe imparare a raccontare, e ci insegnano che quelli che vengono considerati ai margini, sordidi, poveri o fuorilegge, hanno molte più risorse, più parole e più rabbia di quanto si creda. Migranti. Dopo l’ok al Patto Ue il governo annuncia l’apertura di nuovi Cpr di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2024 Dopo aver negoziato il nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, il ministro degli Interni Matteo Piantedosi ha salutato l’accordo tra Consiglio e Parlamento Ue come un successo dell’Italia. Quattro mesi dopo, il 10 aprile, l’Eurocamera approva il Patto. Ma la Lega sconfessa il suo ministro bocciando l’intero testo, definito “deludente e contrario agli interessi dell’Italia”. Schizofrenici anche i meloniani, che qualcosa approvano, altro no e in alcuni casi si astengono, parlando di “pochi progressi”. Il governo Meloni non si perde d’animo e così Piantedosi, che l’indomani gira la frittata: “L’Unione ha rafforzato la normativa che ci impone la realizzazione dei Centri di permanenza per il rimpatrio, i Cpr”. La direttiva rimpatri non impone i Cpr, piuttosto fissa standard e garanzie per le procedure. Confidando forse nell’ignoranza altrui, Piantedosi tira dritto e annuncia l’ennesimo “piano straordinario per l’individuazione di aree da destinare a nuove strutture”. Quelle che nessuno vuole, a partire dalle Regioni. Al bagno di realtà ci ha pensato una dottoranda italiana della London School of Economics, Daniela Movileanu, che sui dati degli ultimi anni ha realizzato una simulazione dell’impatto della riforma europea sul nostro Paese. Al centro è il regolamento sulle procedure per richiedere l’asilo in Ue. I migranti con basse probabilità di ottenerlo, quelli che vengono da Paesi “sicuri”, saranno obbligatoriamente sottoposti a una procedura accelerata di frontiera che esamina la domanda entro 12 settimane. La procedura subordina l’ingresso nel territorio nazionale all’esito della domanda. Per farlo presuppone la detenzione delle persone e fissa la capacità “adeguata” e quella “massima” per ogni Paese, cioè i posti da avere a disposizione. Il calcolo indicato dall’articolo 47 del regolamento è a dir poco complesso. “Calcolando la media degli ultimi tre anni, si sommano gli ingressi irregolari in Italia, gli sbarchi dopo operazioni di salvataggio in mare e i respingimenti alla frontiera. Si moltiplica la somma per 30.000, il numero minimo di posti da rendere disponibili in un dato momento in tutta l’Ue, e si divide il risultato per la media di ingressi, sbarchi e respingimenti registrati su tutte le frontiere dell’Unione”, spiega Movileanu. Che usando i dati del 2022 ha calcolato per l’Italia una disponibilità di almeno 7.892 posti. Quanto alla capacità massima, sarà il doppio all’entrata in vigore della norma, il triplo un anno dopo e il quadruplo a due anni, per 31.568 posti totali. “Ad oggi in Italia si contano 1.600 posti negli hotspot e 1.338 nei Cpr”, osserva. In altre parole, mancano all’appello da un minimo di 5mila posti a un massimo di 28mila. Ed ecco le simulazioni, realizzate su impulso di una rete di associazioni italiane, il Forum per cambiare l’ordine delle cose. Nel 2020, con 34mila sbarchi, le attuali disponibilità avrebbero fatto i conti con 31mila persone da destinare alla procedura accelerata. L’anno scorso, con oltre 157mila sbarchi, le persone avviate alla procedura sarebbero state più di 93mila. Non è un fulmine a ciel sereno. Simulazioni sono state commissionate già negli anni passati dalle istituzioni europee, come ricorda Movileanu che nel 2021 ha fatto un tirocinio al Parlamento europeo: “Si facevano per capire se la cosa potesse funzionare nella pratica”. Interrogativo al quale oggi risponde con un secco no. Perché, ricorda, “nel 2023, soltanto nei mesi di luglio e agosto sono arrivate 49mila persone”. Servono strutture per la procedura e altre, i Cpr appunto, per non ottiene l’asilo e va rimpatriato. Nonostante Piantedosi sostenga esserci una “forte correlazione, in senso positivo, tra numero dei rimpatri e posti disponibili nelle strutture”, nel 2023 le questure hanno adottato 28.983 provvedimenti di allontanamento, ma solo 4.368 sono stati effettivamente rimpatriati. Dato in linea con quelli di tutto lo scorso decennio. Significa che per soddisfare la nuova normativa non possiamo fare affidamento sul turnover, visto che nei Cpr molti ci restano mesi, spesso senza alcuna prospettiva di rimpatrio. Poi c’è che il Patto non ha superato il regolamento di Dublino, ma gli ha solo cambiato nome. La responsabilità di valutare le richieste d’asilo resta in capo al Paese di primo ingresso e ora per un periodo più lungo. Quanto alla “solidarietà obbligatoria”, non impone a nessuno Stato di prendersi parte dei migranti, ma introduce forme di sostegno ai Paesi in prima linea, economico o in contributi alla capacità operativa. Mentre definiva “successo” una riforma decisamente onerosa, il governo Meloni si accordava per aprire due centri in Albania, al costo di 700 milioni di euro per ospitare al massimo tremila persone. Significa raddoppiare l’attuale disponibilità quando il Patto Ue ci imporrà di decuplicarla. Non solo: i tremila posti in Albania non potranno essere calcolati ai fini dalla normativa europea. Perché le norme Ue non si applicano esternamente all’Unione. Di più: come ha chiarito la stessa relatrice del regolamento procedure, l’europarlamentare francese Fabienne Keller, “l’accordo tra l’Italia e Albania non rientra nel nuovo Patto. Le nuove regole definiscono un Paese terzo sicuro sulla base di una relazione effettiva con il migrante trasferito nel Paese in questione e non ci sembra che questo sia il caso dell’accordo tra Italia e Albania. Le autorità ci hanno detto ben poco di questo accordo e la stessa Commissione ha detto che non ci sono ancora elementi scritti”. Migranti. La farisaica valutazione di chi ha diritto e chi no di Mario Morcone Il Manifesto, 13 aprile 2024 La Ue e i migranti. Caro direttore, mentre ancora almeno 9 persone, di cui alcuni minori, annegano nel canale di Sicilia, le trombe squillano annunciando la svolta storica dell’approvazione del nuovo Patto Europeo sulla migrazione e l’asilo. Ma è davvero così? Sarebbe ingeneroso negare alcuni passi in avanti, determinati dalla decisione di rendere obbligatoria la redistribuzione dei migranti in caso di una particolare pressione; ma nella sostanza è un passettino, poco più dell’agenda Juncker del 2015. Certo si impone una solidarietà, tante volte negate, ma il Regolamento di Dublino non è stato superato. Intanto, la responsabilità rimane comunque in capo al Paese di primo approdo (e cioè l’Italia); poi vorrò vedere con i miei occhi il trasferimento di contributi finanziari di chi non accetterà ricollocamenti (soprattutto Ungheria e Polonia). Ma non basta! Con una farisaica valutazione di chi ha diritto e chi no, vengono inasprite le verifiche sugli sbarchi, mentre la lista dei Paesi cosiddetti sicuri consente di fare strame dei diritti di chi ha più bisogno, rinnegando i principi sacri contenuti nella nostra Costituzione e non mi voglio nemmeno avventurare sulla straordinaria innovativa idea dell’accoglienza in Albania celebrata come la via maestra del domani. Mi viene in mente quanto denunciato nella civilissima Milano dove la qualità dell’accoglienza dei migranti è stata demandata alla valutazione della Magistratura. Una qualità di accoglienza che ci fa vergognare e soprattutto dove immagino che le condizioni sociali del Paese possano offrire di più. Che cosa potrà avvenire in Albania lontano dai nostri occhi? Continuo a sperare che si tratti solo di un fuoco d’artificio in vista della scadenza elettorale dell’8 giugno, perché faccio fatica a credere che si possa convenire su una scelta così irragionevole. Allora ritorno a prospettive ordinarie, da persona con i piedi per terra e leggo una articolata ricerca di qualificati editorialisti su possibili e credibili percorsi d’inclusione. La strada indicata è quella giusta. È l’unica capace di costruire percorsi di inserimento dei cittadini che arrivano da noi, di arginare il precipizio di denatalità. Ne parlava Giuliano Amato nei primi anni del 2000, lo denunciava il senatore Livi Bacci, tra i più importanti demografi italiani e accademico dei Lincei. E non è bastato nemmeno nei mesi passati, l’allarme del governatore della Banca d’Italia, tradizionalmente di una prudenza atarassica, o del principale giornale economico del Paese. È necessario strutturare percorsi che costruiscano opportunità promuovendo l’acquisizione della lingua, la formazione professionale, l’housing; offrire un titolo di soggiorno che consenta credibilmente di immaginare il proprio futuro nel nostro Paese partecipando allo sviluppo economico e sociale. Così fanno i popoli che sanno guardare avanti, oltre lo steccato della prossima scadenza elettorale, così per esempio fa la Germania ed è una scelta che io condivido. Credo però che la gestione di un fenomeno così complesso e articolato fatto di bisogni, di responsabilità di contaminazioni di culture e di fragilità debba essere affidata alle istituzioni più vicine ai cittadini: i Sindaci. Rendere i sindaci concretamente protagonisti dell’accoglienza con numeri compatibili con il territorio e la popolazione residente, anche attraverso incentivi, non mina l’autonomia comunale. Una scelta di coraggio che consenta il rispetto dei diritti, la flessibilità del tessuto dell’accoglienza, la scelta di una strada nuova per il futuro di un Paese in affanno. Migranti. Ogni rotta, una mafia. Perché le inchieste in Europa si limitano alle teste di serpente? di Roberto Saviano Corriere della Sera, 13 aprile 2024 Chi si fa carico di traghettare le persone in Europa, nella stragrande maggioranza dei casi, non è neanche complice: spesso è un migrante. Ogni rotta ha la sua mafia: non gang o bande, ma vere e proprie mafie, ovvero organizzazioni articolate e complesse. La rotta dell’Est era gestita soprattutto da turchi: i migranti mediorientali e afghani, passando per la Turchia, venivano spediti come merce in Grecia e in Italia. La rotta libica, che l’Italia conosce bene, è gestita dalle stesse figure che vengono pagate dall’Europa per fermare l’immigrazione. Veri e propri trafficanti che si fanno pagare dall’Europa per fermare i flussi oppure dai migranti sotto estorsione per aprire le rotte verso l’Europa. Questo permette alle milizie criminali libiche di negoziare continuamente sul prezzo: se volete che noi fermiamo i flussi ci dovete pagare almeno quanto guadagneremmo dal prendere i dazi e le estorsioni dai migranti. Chi si fa carico di traghettare le persone in Europa, nella stragrande maggioranza dei casi, non è neanche complice: spesso è un migrante. Il “capitano” di Garrone, per intenderci, che spesso marcisce nelle carceri italiane dove ci sono migliaia di immigrati senza alcuna colpa. Ci sono stati casi in cui membri delle organizzazioni accompagnavano i migranti. È successo soprattutto all’indomani della guerra civile con i siriani, che partivano dalla Turchia e venivano portati con due barche: una che poi si sganciava e tornava indietro, e una, quella dei migranti, che veniva lasciata alla deriva. Per quale ragione accompagnavano? Innanzitutto, per studiare le rotte, anche perché qualora si fossero viste la Guardia Costiera o imbarcazioni militari, potevano scappare lasciando la barca dei migranti in balia dei controlli; e poi perché erano servizi pagati meglio, e quindi non si poteva rischiare di fare cadere o abbandonare in mare aperto i migranti perché il passaparola di un viaggio riuscito avrebbe innescato richieste e aumentato il valore del viaggio stesso. Tranne che per quel periodo, dove c’erano davvero scafisti che accompagnavano per l’intero viaggio con un’imbarcazione con motori più potenti l’imbarcazione messa peggio e carica di persone, chi conduce - perché gli viene data una mappa o perché conosce i sentieri avendoli magari già percorsi - è sotto ricatto, disperato e niente ha a che fare con l’organizzazione. In tutto questo l’elemento più drammatico è che l’Europa non sa nulla: non abbiamo nomi, non abbiamo strutture studiate, non abbiamo vere inchieste sui grandi trafficanti, ma solo sui segmenti minori, più spesso su innocenti fatti passare come responsabili del traffico umano. La verità è che del traffico degli esseri umani sappiamo poco, pochissimo: i governi e le polizie si concentrano sugli scafisti, che sono spesso le “teste di serpente”. Gli “scafisti” che vengono chiamati così non sono per niente scafisti: sono persone ricattate che sanno condurre una piccola barca (pescatori o meccanici); in molti casi non sanno condurre una barca ma semplicemente hanno avuto a che fare con un motore, o in altri casi addirittura sono solo persone un po’ più sveglie, un po’ più giovani, meno impaurite. Se non lo fanno, la barca non parte; in cambio possono ricevere degli sconti a volte ridicoli (5% in meno, 10% in meno), nelle situazioni più gravi puntano a ricattare, a pestare, cioè “se non lo fai, ti teniamo a riva e non torni neanche a casa”. Le organizzazioni criminali che gestiscono i traffici sono quindi totalmente protette. A oggi non sono coinvolte direttamente organizzazioni criminali italiane, cioè Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, mafia garganica, ciò che resta della Sacra corona unita. Le organizzazioni italiane non gestiscono traffici umani. Per tradizione le mafie italiane non fanno neanche prostituzione: prendono dazio sulla prostituzione, ma non la gestiscono autonomamente. Quando i nigeriani se ne occupano, in Campania, devono dare una percentuale alla camorra, ma non è la camorra a gestire direttamente. Se lo fanno degli italiani sono bande limitrofe, ma le mafie rifiutano di trattare per una sorta di codice non morale, ma di onore: mostrarsi in grado di tenersi lontano dagli affari più deplorevoli per la società (quindi usura, che pure controllano ma non praticano, e prostituzione). Il traffico degli esseri umani ha la stessa dinamica per le mafie italiane: prendono dei dazi, ma ancora non abbiamo indagini su questo, quindi è pura congettura e percezione derivante da una serie di movimenti che le organizzazioni criminali fanno. I bulgari, i serbi, i turchi, le organizzazioni libanesi, le organizzazioni libiche sono strutture che da sempre gestiscono il traffico di esseri umani. La mafia turca, vincente nel traffico di eroina e di armi, si è data un ruolo di trafficante per tutti gli anni 90 e 2000; Erdogan l’ha fermata per convenienza con gli accordi fatti insieme (più che insieme, “comprati” dall’Unione europea): lui ha fermato un segmento di mafie interne dedite al traffico e così, di conseguenza, le organizzazioni criminali libanesi, bulgare e serbe hanno iniziato a trafficare. Migranti. La missione Frontex in Albania: abusi, botte e morti sospette di Youssef Hassan Holgado e Marika Ikonomu Il Domani, 13 aprile 2024 Dal 2019 l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere collabora con le autorità albanesi. Decine di report interni denunciano respingimenti e violazioni a danno dei migranti. Respingimenti alla frontiera dall’Albania alla Grecia, trattamenti inumani e degradanti a danno dei migranti per mano della polizia albanese, morti sospette all’interno dei centri temporanei di accoglienza situati nel sud del paese. Sono solo alcune delle denunce contenute in un documento scritto da un membro dello staff di Frontex, l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere, e inviato il 16 febbraio del 2023 al Fundamental Rights Office (Fro). L’ufficio ha il compito di monitorare che i dipendenti di Frontex rispettino i diritti fondamentali delle persone durante il loro operato. Domani è riuscito a ottenere, tramite un accesso agli atti, il report di un’indagine interna condotta dal Fro il 30 ottobre del 2023 sulla base della segnalazione pervenuta da un dipendente di Frontex. Nel documento emergono una serie di violazioni e abusi, in presenza di agenti di Frontex, nei confronti dei migranti, avvenuti tra il dicembre 2022 e il gennaio 2023 per mano della polizia albanese, la stessa che avrà il compito di gestire la sicurezza esterna dei centri che il governo Meloni sta costruendo in Albania, per trattenere i migranti soccorsi dalle motovedette italiane in acque internazionali. Non solo. In base alle carte visionate da Domani, gli stessi agenti di Frontex avranno a disposizione un ufficio nel centro italiano di Shëngjin - sulla costa, a 70 chilometri a nord di Tirana - che sarà destinato all’identificazione e al fotosegnalamento dei migranti. L’accordo tra Meloni e Rama, tra l’altro, potrebbe diventare un nuovo modello di esternalizzazione delle frontiere dopo l’approvazione al parlamento europeo nei giorni scorsi del nuovo Patto sui migranti, che sposta l’asse politico europeo sempre più a destra. Il report sensibile - Di certo c’è che, come emerge dai documenti di Frontex, il paese scelto da Meloni mostra una serie di criticità nella gestione dei migranti che sollevano questioni rilevanti di tutela dei diritti umani. Il whistleblower dell’Agenzia europea ha denunciato, si legge nel report, “molteplici respingimenti al confine greco-albanese, di cui il personale di Frontex è a conoscenza ma che non vengono sistematicamente riferiti all’ufficio o alla catena di comando”. Ha ammesso di aver assistito ai “maltrattamenti di migranti da parte di agenti di polizia albanesi anche con percosse o la rimozione forzata delle scarpe e mantenimento dei migranti a piedi nudi al freddo”. Infine, ha denunciato anche “presunti decessi di migranti presso il centro di registrazione e alloggio temporaneo di omissis, non segnalati come tali dalle autorità nazionali”. Quest’ultimo è il dato più inquietante ma sul quale è difficile indagare, dato che il luogo del centro menzionato è stato coperto da omissis dalla stessa Frontex. Il 18 maggio del 2023 sono state ascoltate le autorità albanesi, che hanno negato ogni tipo di coinvolgimento nelle violazioni. Hanno escluso anche che siano stati registrati decessi all’interno delle loro strutture di accoglienza. Anche lo staff di Frontex dislocato nell’area ha negato le accuse. L’indagine del Fro, quindi, si è risolta in un nulla di fatto. Ma spiega che all’ufficio sono arrivate altre segnalazioni sui respingimenti, facendo presupporre che non siano casi isolati. Inoltre, non si possono dimostrare i maltrattamenti delle forze di polizia albanesi e i decessi nei centri “non possono essere confermati”, tuttavia - si legge nel report - “la persona che ha effettuato la segnalazione ha descritto di aver visto personalmente i cadaveri in modo credibile e dettagliato, facendo sorgere il dubbio all’ufficio sul fatto che non ci siano mai stati morti nel centro, come sostenuto dalle autorità”. Frontex in Albania - L’Albania è stato il primo paese non membro dell’Ue con cui Frontex ha firmato nel 2018 un accordo per il controllo delle frontiere e la gestione dell’immigrazione irregolare. Frontex ha messo a disposizione di Tirana 132 agenti e un aereo che pattuglia i mari Adriatico e Ionio. Ma il suo operato è molto opaco, lo dimostrano le inchieste giornalistiche e i documenti del Fro che in alcuni casi vedono coinvolti i membri di Frontex in prima persona, mentre in altri sono compiacenti con le autorità albanesi. In un episodio del 4 giugno 2022, un agente di Frontex ha accusato un collega di aver agito in un modo “non professionale e inumano”: ha intercettato due migranti in territorio albanese e li ha “appesi fuori dal suo veicolo e trasportati in quella posizione”, si legge nel report. Alla domanda sul perché mettesse le loro vite in pericolo, l’agente ha riso e risposto: “Sono dei cazzo di migranti”. Lo stesso agente avrebbe poi detto di non avere paura di ritorsioni perché aveva buoni contatti nel quartier generale dell’Agenzia a Varsavia. Le accuse sono state considerate plausibili dal Fro, il quale ha concluso che “i migranti sono stati trasportati dalla persona interessata (l’agente, ndr) in un modo che li ha messi a rischio”. Ma nessun provvedimento è stato preso. È di pochi giorni prima un’altra segnalazione su un potenziale uso eccessivo della forza da parte di un agente albanese e un agente di Frontex durante l’intercettazione di un gruppo di 14 migranti entrati in Albania. Quando sono stati fermati dagli agenti, i migranti hanno raccontato di aver già provato a oltrepassare il confine, ma di essere stati respinti e rimandati in Grecia dalla polizia albanese. A quel punto l’agente albanese avrebbe colpito i migranti a calci. Tutto questo alla presenza di un agente Frontex che ha dichiarato in un secondo momento di essere stato distratto dalla conta delle persone ma di aver appreso del possibile calcio in una chiamata telefonica con un collega dell’agenzia, il quale gli aveva chiesto di riferire all’omologo albanese di smettere di picchiare i migranti. Segnalazioni di questo tipo sono dozzine ogni anno, la maggior parte riguardano respingimenti collettivi verso la Grecia. Negli atti letti da Domani in un caso sarebbe stato anche coinvolto un dipendente di Frontex che avrebbe assistito a un respingimento. È sufficiente la parola della polizia albanese che nega le accuse per concludere i report con raccomandazioni che chiedono genericamente il rispetto del diritto europeo. Contattata da Domani, Frontex non ha risposto alle nostre domande. Ai suoi agenti, Bruxelles ha voluto garantire protezione e impunità. Nell’accordo firmato nel 2018 con l’Albania viene, infatti, assicurata allo staff l’immunità in territorio albanese durante il loro operato. Russia. Morto in cella lo “Schindler russo”: mise in salvo 900 sfollati ucraini di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 13 aprile 2024 Alexander Demidenko fu arrestato a ottobre per possesso illegale d’arma da fuoco. Contrario alla guerra, era stato picchiato e torturato. Per le autorità è stato “suicidio”. La guerra trasforma gli esseri umani, li porta a commettere atti inimmaginabili in tempi di pace ma a volte, in qualche modo, riesce anche ad esaltare la parte migliore delle persone che compiono imprese eroiche perdendo anche la loro vita. la vicenda di Alexander Demidenko è un esempio di tutto ciò. Abitante della città russa di Belgorod, al confine con la vicina Ucraina, era un sincero oppositore della cosiddetta operazione militare speciale. la guerra, lanciata da Vladimir Putin nel febbraio 2022. Come volontario ha accolto nella sua casa le famiglie sfollate a causa dei combattimenti, dopo le guidava verso il valico di frontiera Kolotilovka- Pokrovka, praticamente varco l’unico aperto tra Mosca e Kiev. In due anni di guerra, si ritiene che Alexander Demidenko abbia aiutato circa 900 persone ucraine a tornare nel loro paese. Ma il servizio segreto russo, l’FSB, considera questo naturale desiderio, considerando la situazione di conflitto, un passo meritevole di sospetto e attenzione ferrea. Per questo motivo l’opera di Demidenko, seppure caratterizzata da spirito umanitario, era altamente rischiosa. Così proprio vicino al punto di passaggio della frontiera è stato arrestato il 17 ottobre 2023, stava trasportando una barella a un rifugiato malato. L’uomo inizialmente è scomparso per tre giorni, prima di essere formalmente accusato e posto in custodia cautelare per consumo di alcol in strade pubbliche. Demidenko però è morto in carcere il 5 aprile scorso, il suo avvocato ne è venuto a conoscenza solo tre giorni dopo, quando è andato a trovarlo. Per l’amministrazione penitenziaria russa si tratta di suicidio. La versione ufficiale presenta diverse incongruenze e lascia adito a sospetti sull’operato delle autorità penitenziarie russe. Dieci giorni dopo il suo arresto infatti è stata effettuate una perquisizione domiciliare alla presenza dello stesso Demidenko, sua moglie si è immediatamente accorta di segni di tortura, sopratutto sulla schiena e anche di evidenti lividi sulle costole. La testimonianza delle violenze è stata fotografata e conservata. È stata l’ultima volta che la sua famiglia ha potuto vederlo: da ottobre era stato privato della possibilità di colloqui e di usufruire della lettura di libri, si tratta di uno dei mezzi di pressione più comuni utilizzati contro gli imputati in Russia. Successivamente Demidenko è stato anche accusato di possesso illegale di esplosivi. Una circostanza che sarebbe derivata unicamente dal ritrovamento nel giardino della sua abitazione di una granata risalente alla Seconda Guerra Mondiale. I parenti sono stati completamente isolati dalla comunità in cui vivono, gli abitanti infatti temono ritorsioni simili. Le reti che aiutano gli ucraini a lasciare la Russia, agiscono clandestinamente. Nella stessa Belgorod, un’altra nota volontaria, Nadine Geisler, di 28 anni, è stata arrestata il 1° febbraio, accusata di incitazione all’estremismo. Su di lei la repressione esercita non solo l’inevitabile violenza, mettendo in pericolo la sua vita, ma usa anche mezzi subdoli. Ad esempio la giovane donna riceve all’inizio di ogni mese trenta litri d’acqua da misteriosi benefattori, un dono che però le viene fatto pagare in altro modo in quanto le viene vietato di ricevere altri pacchi che potrebbero essere utili per gli ucraini in fuga. La famiglia Demidenko crede di sapere il motivo di tanto accanimento per un’opera che non sposta di certo le sorti della guerra nonostante l’avversione per il conflitto di molti cittadini russi. Il passaggio clandestino della frontiera infatti costituisce anche un lucroso business sulla pelle di persone disperate. Con la sua attività l’uomo morto in carcere avrebbe ostacolato il racket e la corruzione praticati al posto di frontiera di Kolotilovka- Pokrovka. Oleg, il figlio di Demidenko, ha confermato di aver sentito il padre lamentarsi più volte per le torture che gli venivano inflitte. Ma non esclude che l’ipotesi del suicidio possa essere vera: “Per un uomo libero come lui, il pensiero della reclusione era intollerabile”, ha scritto su Telegram. Stati Uniti. In Tennessee insegnanti a scuola armati: la proposta da far west diventa legge di Anna Lombardi La Repubblica, 13 aprile 2024 La proposta approvata mercoledì al Senato aspetta il passaggio alla Camera che è però scontato. In classe con la pistola: una nuova legge approvata mercoledì dal Senato del Tennessee con 26 voti a favore e solo 5 contrari consentirà agli insegnanti di portare armi da fuoco nelle scuole pubbliche. Andrà ora al voto della Camera dove però non dovrebbe aver problemi a passare. A patto di soddisfare determinati requisiti: avere il porto d’armi, aver passato test psicoattitudinali e aver frequentato un apposito corso di 40 ore coordinato con la polizia locale. I loro nomi e il tipo di armi introdotte verrebbero comunicati solo a pochi responsabili. Genitori e ragazzi, cioè, non sapranno mai se l’insegnante è armato o meno. La decisione dopo la strage - La decisione, dopo la strage avvenuta un anno fa alla Covenant School, un istituto privato di Nashville, dove morirono tre minori e tre adulti. Da allora, già diversi istituti privati permettono ai docenti di entrare armati. A molti genitori, però, la nuova legge proprio non piace: temono che più che proteggere i loro figli ne metterà ancor più a rischio le vite. E infatti in tanti hanno protestato durante la votazione esponendo cartelli con sopra scritto: “Kill the Bill, not the children”, uccidete la legge, non i bambini. Fra questi, anche genitori repubblicani e pro armi come Melissa Alexander, che a News Nation dice di opporsi al disegno di legge. Suo figlio di 10 anni è sopravvissuto proprio alla strage della Covenant School grazie alla maestra che ha chiuso la porta a chiave, fatto sdraiare i bambini a terra e li ha tenuti nel massimo silenzio, senza attirare l’attenzione del killer: “Se l’insegnante fosse stata armata avrebbe magari lasciato l’aula. Rischiando di farsi ammazzare, lei e gli alunni: perché le stragi spesso vengono compiute con armi da guerra e cosa vuoi fare con una piccola pistola, contro un grande fucile?”. Sostenitori della legge come il senatore repubblicano Paul Bailey sostengono invece che gli insegnanti armati sono essenziali soprattutto in quelle aree rurali dove ci sono meno fondi per la polizia. Aggiungendo che non dovranno necessariamente intervenire in caso di incidenti. Ma gli attivisti non demordono: “Più armi circolano, più aumentano i rischi”. Il giro di vite di Biden - Intanto però mentre il Tennessee arma gli insegnanti l’amministrazione Biden compie un importante giro di vite: d’ora in poi saranno obbligatori i controlli sugli acquirenti anche per le vendite online e alle fiere di settore. Chiude insomma una scappatoia legale che consentiva il commercio di armi anche da guerra in luoghi informali senza effettuare controlli. È la più grande restrizione alla vendita legale di armi che si fa in America da decenni “Questa norma è un passo storico nella lotta contro la violenza e salverà vite umane”, ha infatti annunciato il ministro della giustizia Merrick Garland. La Casa Bianca stima che il 22 per cento delle armi possedute dagli americani siano state acquistate senza i cosiddetti “background check” e che circa 23mila persone in più dovranno ottenere la licenza come rivenditori dopo l’entrata in vigore della norma fra un mese.