“Io non so parlar d’amore”, una giornata di studi sulla desertificazione affettiva nei penitenziari La Repubblica, 12 aprile 2024 Ci sarà una giornata di studi, prevista per venerdì 17 maggio dalle 9 alle 17 nella Casa di reclusione di Padova sul tema dell’affettività in carcere, sancita da una recente sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui prevede che la persona detenuta possa essere ammessa ai colloqui con il coniuge o convivente, sotto il controllo a vista del personale di custodia”. Partecipano ai lavori con le loro testimonianze i redattori detenuti di Ristretti Orizzonti, che dialogheranno anche con i loro famigliari. Coordinerà i lavori Adolfo Ceretti, criminologo, dell’Università di Milano-Bicocca, e coordinatore scientifico dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano. Aprirà i lavori il direttore della Casa di reclusione, Claudio Mazzeo. Il programma della Giornata di Studi è stato curato da Ornella Favero con la redazione di Ristretti Orizzonti. La desertificazione degli affetti. “Desertificazione affettiva”: è questo “il paesaggio del carcere” che la Corte Costituzionale descrive nella sentenza 10/2024, che, rendendo possibili i colloqui intimi, è destinata a rivoluzionare la vita detentiva riportando vegetazione, acqua e amore in quel deserto. Ristretti Orizzonti - Associazione composta anche da detenuti che informa su quello che accade nelle prigioni e nelle aule di giustizia italiane - usciva nel 1998, nel suo numero Zero, affrontando senza timidezze il tema degli affetti e del sesso negato in carcere. Oggi, a distanza di più di venticinque anni, per la prima volta s’intravede la possibilità di un cambiamento vero, profondo, radicale. La sentenza della Corte Costituzionale è il faro che guida in un viaggio, che può davvero trasformare le carceri in luoghi più umani, a partire da quegli spazi che finalmente devono essere garantiti alle persone detenute per incontrare le persone care senza controlli visivi. Viaggio dentro una sentenza. La prima tappa è con il magistrato e il costituzionalista: per l’amore in carcere serve “uno spazio il più possibile simile alla vita all’esterno”. Fabio Gianfilippi è il magistrato di sorveglianza di Terni che ha sollevato la questione di costituzionalità sull’articolo 18 dell’Ordinamento Penitenziario, che impone il controllo visivo nei colloqui delle persone detenute con i loro cari, di fatto impedendo l’esercizio del diritto a coltivare un rapporto, affettivo e sessuale, con il proprio partner: “La Corte non detta i tempi, ma certamente dice - secondo me in modo molto chiaro - che non c’è da attendere il legislatore. Lui interverrà se e quando lo riterrà, ma intanto bisogna organizzarsi, anche se i tempi saranno inevitabilmente un po’ diversi da istituto a istituto”. Il sesso e il carcere, tema incandescente e rimosso. Scriveva Andrea Pugiotto, costituzionalista che da anni vigila che la Costituzione non si fermi sulla soglia del carcere: “Il binomio affettività-carcere stringe a tenaglia un problema intorno al quale è inutile circumnavigare: la possibilità di mantenere dietro le sbarre una relazione amorosa che non sia amputata della propria dimensione sessuale. Problema incandescente, perciò da sempre rimosso nonostante la reiterata richiesta dei detenuti ad avere in carcere, in condizioni di intimità, incontri con persone con le quali intrattengono un rapporto di affetto. È un desiderio legittimo. È anche un diritto?”. Sì, oggi è anche un diritto, “si tratta ora di vigilare contro il rischio di manovre dilatorie che - c’è da scommettere - non mancheranno”. Andrea Pugiotto è ordinario di Diritto costituzionale, all’Università di Ferrara, estensore e primo firmatario dell’appello - sottoscritto da oltre cento accademici, garanti dei detenuti, presidenti e aderenti all’Unione delle Camere Penali (UCPI), esponenti del Volontariato e del Terzo Settore - a sostegno della questione di costituzionalità promossa dal Magistrato di sorveglianza di Terni. Seconda tappa, l’incontro con le emozioni bloccate. Con ragazzi che hanno dovuto congelare le proprie emozioni. Se te ne vai da casa che sei ancora un ragazzino, se lasci il tuo Paese e i tuoi genitori non ti fermano perché sanno che non c’è futuro a restare, l’affetto, l’amore, i ricordi, li devi reprimere per non stare troppo male. E invece, dice ai ragazzi del minorile Chiara Gregori, sessuologa capace di parlare con delicatezza di sesso e di amore, le emozioni “…imparate a riconoscerle, a rispettarle, quindi a modularle, prima di passare all’azione; è importante per poter star bene voi, ma anche per far stare bene chi è con voi”. Con i ragazzi parla anche “dell’importanza del piacere nelle nostre vite e nella sessualità, ma anche l’importanza della gentilezza e cura dell’altra persona e infine la tendenza che abbiamo a fare cose per piacere alle altre persone più che per noi. Questi sono tre aspetti che, a mio parere, andrebbero sempre dosati e valutati nelle relazioni umane”. Chiara Gregori, è ginecologa e sessuologa, segue un progetto con una classe di minori stranieri dell’Istituto penale minorile Beccaria, nel quadro di un programma finanziato dall’Università degli Studi di Milano. È appena uscito, per le edizioni Becco Giallo, “Per piacere. Piccola guida per una sessualità consapevole”. Terza tappa, i detenuti e l’amore “congelato”. Il carcere degli adulti che ti fa diventare “analfabeta amoroso”. Ridurre i danni provocati dalla galera, forse a questo servirà la sentenza della Corte Costituzionale. Che sembra poco, e invece è un’enormità, perché permette alle persone detenute di ritrovare la loro umanità, la bellezza di un abbraccio, il piacere di un bacio che non sia rubato. Francesca Melandri, sceneggiatrice, scrittrice e documentarista è anche autrice di “Più alto del mare”, dove racconta gli anni bui del terrorismo da una prospettiva diversa, quella dei parenti dei colpevoli, vittime a loro volta ma condannate a non essere degne di compassione. A questo proposito va citato Massimo Cirri, psicologo e giornalista, e da venticinque anni impegnato nei servizi pubblici di salute mentale. Dal 1997 è autore e voce di Caterpillar, su Radio2 ed è autore, tra l’altro, con Chiara D’Ambros, di “Quello che serve”, un libro delicato, ironico e profondo, che conferma l’importanza del diritto alla salute sancito dalla Costituzione. E il dovere di tutelarlo. Quarta tappa, il ruolo della Polizia penitenziaria. Ma anche quello degli operatori civili. Insomma, da uno sguardo ostile a uno sguardo accogliente? Scrive Roberto Cornelli, criminologo “Analizzare il punto di vista degli operatori e delle operatrici di Polizia Penitenziaria è rilevante (…) per consentire una discussione pubblica sulle polizie, in modo da rafforzare i presupposti democratici della loro legittimità. L’uso della forza di polizia è sempre problematico in una società democratica, anche quando risulta legittimo: possibile che il poligono di tiro e l’addestramento tecnico non possano essere accompagnate da altre materie di approfondimento? Possibile che la formazione sia gestita in modo così autoreferenziale da non consentire spazi di dialogo con la società esterna?”. Roberto Cornelli è professore ordinario di Criminologia all’Università degli Studi di Milano, dove insegna anche Giustizia Riparativa. È autore di “La forza di polizia. Uno studio criminologico sulla violenza”; alla Polizia Penitenziaria ha dedicato diverse ricerche, tra cui la “Prima indagine sul personale lombardo della Polizia Penitenziaria” e lo studio su “La polizia penitenziaria di fronte agli eventi critici”. L’amore “affidato” ai direttori? La sentenza della Corte Costituzionale ha bisogno di direttori che sappiano sfidare la lentezza, che a volte diventa immobilismo, delle Istituzioni. La Corte dunque invita tutti a dare il loro apporto e, aggiungiamo noi, a non fare come con il Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario che dal 2000 a oggi ancora non è stato del tutto applicato: “È altresì opportuno valorizzare qui il contributo che a un’ordinata attuazione dell’odierna decisione può dare - almeno nelle more dell’intervento del legislatore - l’amministrazione della giustizia, in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, non esclusi i direttori dei singoli istituti”. L’amore ha bisogno di esperienza. Lo dice Cosima Buccoliero, direttrice della Casa Circondariale di Monza, a proposito dei legami affettivi delle persone detenute: “L’amore ha bisogno di esperienza e per queste coppie l’impossibilità dell’esperienza vanifica anche il piú intenso dei sentimenti. Il rapporto è vissuto per lettera, in una costante proiezione verso un altro tempo o un altro luogo, e attraverso i sei colloqui che possono diventare anche meno se poi ci sono madri o padri, figli, sorelle o fratelli da incontrare e con cui condividerli. E poi è un rapporto vissuto sempre sotto l’occhio della sorveglianza”. Quinta tappa, i morti di carcere. Quando in carcere l’amore e il dolore si intrecciano. L’amore di cui si parla è quello di tante madri, i cui figli stanno in carcere e non dovrebbero essere lì: “Mio figlio - racconta Stefania - aveva avuto una perizia psichiatrica, in cui appunto era chiaramente scritto che era inidoneo al carcere, e quindi doveva fare un percorso comunitario. (…) e infatti era in attesa di essere trasferito in una REMS. Poi ci sono stati degli episodi disastrosi, ad esempio qualche giorno prima si era tolta la vita un ragazzo di una cella accanto con cui Giacomo era diventato amico. Questa cosa praticamente ha innescato il grilletto, anche se non sappiamo quanto sia stata volontaria la sua morte, nel senso che lui cercava di lenire il suo dolore devastante in qualsiasi modo”. Prevenire queste morti non è facile, ma si deve fare di più: cominciamo almeno ascoltando i racconti di quelle madri che hanno “perso” un figlio in carcere. Stefania, madre di Giacomo, che ha perso la vita in carcere a 22 anni. Sesta tappa, le nuove speranze. L’amore e la sofferenza dei famigliari. Come guarderanno alla sentenza figli, compagne, genitori delle persone detenute? È con loro prima di tutto che bisogna aprire un dialogo, perché il rischio è che si creino illusioni, diffidenze, e anche la sensazione di essere discriminati o esclusi, dal momento che la sentenza limita la possibilità dei colloqui riservati al coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente. L’occasione sprecata dall’Anm di difendere la dignità dei detenuti di Gianpaolo Catanzariti Il Dubbio, 12 aprile 2024 Sull’emergenza carceri, nel Parlamentino delle toghe sono prevalse logiche correntizie. E intanto l’Ipsos dice che il 45% degli italiani non si fida dei magistrati. Il documento del comitato direttivo centrale dell’Anm, del 7 aprile scorso, sull’emergenza carceri è stato il frutto di una faticosa opera di mediazione per salvaguardare l’unità del sindacato delle toghe. Ma siamo poi così sicuri che l’unità delle correnti sia un bene? Siete davvero convinti, cari magistrati associati, che salvaguardando gli equilibri correntizi abbiate reso un servizio utile e vantaggioso per il Paese? Da cittadino che ha ascoltato il dibattito del Cdc sul carcere del 6/ 7 aprile scorso ho avuto la netta sensazione che l’Anm abbia sprecato una grande occasione. Un calcio di rigore senza portiere che le avrebbe potuto consentire di accorciare le distanze significative rispetto al sentire dei cittadini. Un sondaggio recente fatto da Ipsos ha evidenziato che il 45% degli italiani non nutre particolare fiducia nei magistrati. E non è certo un bene per la tenuta del nostro sistema democratico e per una salutare convivenza civile. E non parliamo dei sondaggi recentissimi sulla utilità o meno dei test che, personalmente, non mi appassionano più di tanto e che vedono 2 italiani su 3 favorevoli ai test psicoattitudinali anche per i magistrati. All’ascoltatore estraneo alle logiche correntizie è sembrato, piuttosto, un dibattito in cui la dignità dei detenuti possa essere sacrificata sull’altare delle istanze corporative. L’unità del direttivo Anm tornerà di certo utile per un gioco di interdizione verso il governo su tante questioni che li riguardano. I fuori-ruolo, la separazione delle carriere, il fascicolo del magistrato, fra tutte. Nel documento approvato l’Anm sembra avere abdicato al ruolo politico di guardiano della legalità costituzionale, quotidianamente calpestata nelle carceri italiane, per abbracciare sempre più il ruolo di co- gestore delle politiche giudiziarie del nostro Paese. Avevano paura di apparire all’esterno come un “soggetto politico” che interviene indebitamente nelle scelte di politica criminale. Hanno finito per diventare sostenitori delle scelte di politica criminale dell’attuale governo con l’ampliamento della carcerizzazione diffusa. Come definire, infatti, la richiesta dell’Anm di “dare finalmente corso ad un piano di costruzione di nuove carceri moderne e residenze per esecuzione di misure di sicurezza (Rems) effettivamente funzionali a consentire di attuare al principio costituzionale di rieducazione della pena, prevedendo strutture differenziate per ciascuna necessità di intervento”? Sembra riecheggiare sempre più la propaganda di FdI o della Lega, sempre meno i principi costituzionali e convenzionali che vietano alla Repubblica italiana, a cui tutti i magistrati hanno prestato giuramento di fedeltà, di mantenere i detenuti in condizioni disumane e degradanti. E ciò nonostante siano ben noti gli esiti di tutti i precedenti “Piani- carcere”, davvero deludenti, per come riconosciuto nel 2015 dalla Corte dei conti, a fronte di uno spreco di risorse pauroso e di infiniti tempi. Così come è oramai acclarato che gli attuali interventi sull’edilizia penitenziaria, tanto propagandati dal Governo, in realtà porteranno, nella migliore ipotesi, al recupero, entro la fine del 2025, di circa 2.300 nuovi posti, a fronte dell’ingresso di 400 detenuti in più per ogni mese trascorso, che vorrebbe dire, entro la stessa data, la cifra monstre di circa 70.000 presenze in carcere. Nel documento approvato sul carcere non si trova nemmeno un accenno al ruolo della magistratura nel governo del settore penitenziario. Eppure, i magistrati, protagonisti principali e assoluti della macchina giudiziaria, dovrebbero sapere bene quando e come si registrò in Italia l’impennata improvvisa dei detenuti. Fu proprio al “tintinnar di manette” degli anni 92/ 93 che si passò dalle 35.469 presenze del 1991 alle 51.165 del 1994. Conoscono meglio di chiunque altro quanto siano, ogni anno, le misure cautelari in carcere del tutto ingiustificate, e non solo per la ricostruzione postuma del processo. Dal 2018 al 2022, secondo la relazione ministeriale 2023, la cifra media delle misure cautelari in carcere emesse è stata di 27.460. Di queste, il 20% a distanza di tempo dai fatti contestati. Nel solo 2022, in rapporto alle definizioni dei relativi processi, le misure carcerarie disposte nello stesso anno si sono rivelate ingiustificate nel 16% dei casi. Addirittura, nulla si dice sugli interventi davvero deflattivi del carico umano nelle nostre carceri. Solo un moderato e generico accenno alla opportunità di un temporaneo ampliamento dei meccanismi premiali. Eppure, da qualificati addetti ai lavori, conoscono bene quali siano stati, davvero, gli interventi più efficaci per ridurre l’endemica condizione di sovraffollamento. Tutti gli studi sinora compiuti, indicano come, a fronte di scarsi decrementi determinati dai vari interventi normativi, il vero ed unico immediato “svuota- carceri” è stato l’indulto del 2006 che ha ridotto di ben 20.000 unità i detenuti presenti. Nemmeno un accenno alla necessità di un dibattito pubblico, scevro da pregiudizi, che tutte le forze parlamentari, non certo il governo, devono affrontare per l’adozione di misure necessarie a ridare ossigeno alle carceri e alle disfunzioni della giustizia penale quale l’amnistia e l’indulto. Confidiamo, però, in altre occasioni future, pur consapevoli che di tempo per arrestare il disastro umanitario delle carceri ne rimane davvero poco. Un suicidio ogni 3 giorni, il dramma delle carceri italiane di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2024 Dall’inizio dell’anno 30 detenuti si sono tolti la vita in carcere con una media di 1 ogni 3 giorni. Una tendenza che, se confermata, assegna al 2024 il titolo di anno nero per le strutture penitenziarie, superando anche il 2022 quando dietro le sbarre si uccisero 84 persone. A illustrare il dato in audizione sul Rapporto sulla situazione carceraria 2023 in commissione Diritti umani al Senato sono stati i volontari di Antigone, l’associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale” che a breve presenterà il rapporto intitolato “Nodo alla gola” proprio per richiamare l’attenzione su quella che viene definita una “vera e propria emergenza”. Un suicidio ogni tre giorni - ha sottolineato Sofia Antonelli di Antigone. Nel 2022, l’anno record, di questi tempi erano stati 20 e ora nel 2024 siamo a 30. Se continuiamo di questo passo rischiamo di superare il record tragico di 84 suicidi del 2022”. I volontari hanno poi evidenziato un altro aspetto: “Principalmente a suicidarsi in prigione sono persone con grande marginalità e sofferenza, molti gli stranieri, con tossicodipendenze, patologie psichiatriche. Molti erano da poco in carcere, molti erano prossimi a lasciarlo”. Una tragica conta - Nella tragica conta dei primi mesi emerge che a togliersi la vita, da Ancona a Padova, da Poggioreale a Teramo, continuando con Verona, Torino, Vibo Valentia e Cagliari, sono stati parecchi giovani: 6 tra i 20 e i 29 anni; 12 tra i 30 e i 39. “Di questi 29, il 48% era straniero - ha aggiunto la rappresentante dell’associazione - 9 soffrivano di problematiche psichiatriche, e avevano già tentato il suicidio: 1 era in attesa di Rems, e invece s’è tolto la vita a Torino il 24 marzo”. Due poi erano tossicodipendenti, due erano senza fissa dimora. Tra gli ultimi a farla finita in carcere anche il trentaduenne morto a Cagliari. Troppi detenuti in cella - A pesare sulla situazione carceraria è anche il sovraffollamento. “Al momento sono poco più di 61 mila i detenuti nelle carceri - ha rimarcato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone -. La capienza regolamentare ufficiale è attorno ai 51 mila posti, ma è una capienza che per stessa ammissione dell’amministrazione penitenziaria è più alta di quella effettiva, perché ci saranno circa 3-3500 posti provvisoriamente inutilizzabili, che ci sono sulla carta ma in sostanza no. Il sovraffollamento riguarda quindi in realtà 13-14 mila persone”. Gonnella poi ha aggiunto: “Non dobbiamo pensarlo uniformemente distribuito sulle 190 carceri italiane. Rebibbia a Roma, o le carceri sarde, per esempio, non ne soffrono. Ma in altri luoghi diventa invece quasi clamoroso. Il picco in Lombardia - Le carceri lombarde sono le più affollate d’Italia, si raggiungono tassi del 200%. Una presenza doppia rispetto a quella regolamentare”. Numeri che, a sentire il presidente dell’associazione “determinano una grandissima difficoltà degli operatori a personalizzare, individualizzare il loro lavoro. Ma se aumenta il numero dei detenuti rimane stabile quello degli operatori, anzi con i pensionamenti tende a scendere”. Senza dimenticare poi la riduzione degli spazi di socialità. L’istruzione e i minori - “Anche questo produce tensione - ha aggiunto -. A Regina Coeli una parte dedicata alle scuole è diventata dormitorio, e questo va a detrimento dei diritti fondamentali e dell’offerta scolastica che è doverosa. La parte educativa ha un impatto decisivo sulla recidiva, perché è di qualità”. C’è poi anche il caso dei minorili dove “non si erano mai superati i 350-400 detenuti. Adesso però siamo a 500” L’auspicio - Quindi l’appello: “Noi dovremmo costruire un sentimento comune sulle carceri fondato sull’articolo 27 della Costituzione - ha concluso Gonnella -, che dà spiegazioni a tutti noi sul senso della pena. È stato scritto dai nostri costituenti che hanno vissuto l’esperienza sulla loro pelle”. La storia di Wail, dal percorso di riscatto a Padova all’inferno di Vigevano di Claudio Bottan* Il Dubbio, 12 aprile 2024 Con un articolo a firma del direttore Francesco Lo Piccolo, la scorsa settimana Voci di dentro si è occupata della vicenda di Wail Boulaied. Nato in Marocco, ma in Italia da quando aveva 7 anni, il giovane ha avuto un’infanzia devastante: un padre che lo picchiava e un passato fatto di droga, furti, e incendi. Un’escalation fino a quattro anni fa quando, dopo una notte a base di alcol e psicofarmaci, Wail in compagnia di un amico uccide una donna. In primo grado il ventiquattrenne è stato condannato all’ergastolo, successivamente la corte d’Appello ha concesso le attenuanti generiche riducendo la pena a 27 anni. Un crimine odioso, di quelli che rendono difficile la vita anche in carcere, tant’è che spesso gli autori di simili reati vengono collocati nelle sezioni protette. Così non è stato per Wail. Al carcere di Padova dove, grazie al personale medico e ai volontari, la sua esistenza aveva cominciato a prendere la giusta strada, addirittura lavorava come portavitto. Insomma, un inizio di cambiamento. Un percorso improvvisamente interrotto: “Ufficialmente per mancanza di spazio a causa di alcuni lavori di ristrutturazione, Boulaied viene trasferito a Vigevano” dice il suo avvocato Igor Zornetta. E continua: “I parenti di Wail, che vivono in Veneto, mi raccontano che sta male. Da quando lo hanno trasferito dal carcere di Padova a quello di Vigevano, a oltre 300 chilometri da casa, non ha più alcun aiuto. Ora è solo, in una cella sporca, e mangia poco. Loro, il fratello e gli zii, hanno difficoltà a spostarsi; per motivi di lavoro non possono andare a trovarlo e al telefono lo sentono strano, peggiorato, e temono un gesto inconsulto”. La casa circondariale di Vigevano, inoltre, non versa in condizioni diverse da molti altri istituti, anzi, per cui è incomprensibile la decisione di destinare Boulaied in un carcere con un sovraffollamento del 160% e che soffre per la cronica carenza di personale medico e di polizia penitenziaria. Il giorno successivo alla pubblicazione dell’articolo che titolava “Dap, prevenzione solo a parole”, Boulaied è stato improvvisamente posto in isolamento apparentemente senza alcun motivo rendendo così la situazione ancora più difficile, ma sicuramente si tratta di una coincidenza. “Lungi da noi pensare che si tratti di una ritorsione dovuta alle pressanti richieste rivolte al Dap affinché il mio cliente venga trasferito in un istituto vicino alla famiglia-, dice l’avvocato Zornetta. Ma il principio di territorialità della pena deve essere garantito. Non a caso l’art. 14 dell’Ordinamento penitenziario stabilisce che i detenuti e gli internati hanno diritto di essere assegnati a un istituto quanto più vicino possibile alla stabile dimora della famiglia o, se individuabile, al proprio centro di riferimento sociale, salvi specifici motivi contrari, anche perché i familiari non sono in alcun modo responsabili di eventuali reati commessi dai congiunti, e anche loro vantano il diritto alle relazioni affettive”. Ad oggi le istanze del legale sono rimaste lettera morta. Il decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 124 mettendo sempre il detenuto- persona al centro dell’esecuzione, titolare di tutti i diritti che non siano strettamente incompatibili con la restrizione della libertà personale, prevede tra l’altro il rafforzamento dei divieti di discriminazione, la promozione di attività che responsabilizzino il detenuto in vista del suo futuro reinserimento, nuove norme su alimentazione, permanenza all’aperto, attività di lavoro, istruzione e ricreazione, oltre alla riaffermazione del principio di territorialità della pena (destinazione ad istituti vicini alla famiglia). L’amministrazione penitenziaria ha il mandato istituzionale di promuovere interventi “che devono tendere al reinserimento sociale” (art. 1 della legge 354/ 1975 sull’ordinamento penitenziario) dei detenuti e degli internati e ad avviare “un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale” (art. 1, comma 2, regolamento di esecuzione, d. p. r. 230/ 2000). Si tratta di principi democratici e di umanità che dovrebbe valere per tutti, anche per coloro che si sono resi colpevoli di crimini efferati che istintivamente ci fanno gridare vendetta. Soprattutto quando si tratta di giovani detenuti occorre favorire i contatti con l’ambiente esterno; invece, lo Stato non rispetta le sue leggi e si accanisce sui più deboli. Forse non bastano le trenta persone che dall’inizio dell’anno si sono impiccate alle sbarre delle celle? La maggior parte di loro era giovane, molti avevano problemi psichiatrici e di dipendenza. Proprio come Wail, figlio di un dio minore che, oltre ad aver commesso un reato orrendo, probabilmente sconta l’imperdonabile aggravante delle origini marocchine. *Ex detenuto, vicedirettore della rivista “Voci di dentro” Giustizia: il paradosso su pc e telefoni di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 12 aprile 2024 La legge approvata in Senato Indebolisce sia privacy sia indagini perché il Ministero non sa rimediare alla saturazione dell’Archivio Digitale Intercettazioni. Indagini indebolite e, nel contempo, privacy indebolita per gli indagati e per i terzi interlocutori di mail, chat o sms sequestrati dai magistrati su telefoni e pc: era difficile fare l’en plein, per un legislatore che diceva di voler giustamente tutelare “la vita delle persone racchiusa ormai nei nostri cellulari”, ma Parlamento e Governo ci sono riusciti nel testo di elaborazione congiunta approvato dal Senato mercoledì. Anche a costo di disattendere le conclusioni dell’”indagine conoscitiva” proprio della commissione Giustizia del Senato presieduta da Giulia Bongiorno. Il 20 settembre 2023 raccomandava di far custodire i messaggi (considerati non più “documenti” sequestrabili e duplicabili dal pm, ma “corrispondenza” sequestrabile su autorizzazione del gip) in una apposita partizione dell’ADI-Archivio Digitale Intercettazioni: quello cioè dove già da anni confluiscono tutte le intercettazioni segrete in corso, prima che soltanto quelle rilevanti per il processo (e non anche quelle zeppe di fatti privati e dati sensibili) vengano depositate. Ma il legislatore non lo ha fatto, perché il Ministero della Giustizia non è capace di (o non riceve dal governo i soldi per) rimediare all’attuale già quasi saturazione della capienza massima dell’ADI, lenita sinora con moduli aggiuntivi di memoria presto non più sostenibili dalla complessiva architettura dei server (sprovvisti peraltro di backup). E siccome non è in grado di fare la cosa giusta, fa la cosa sbagliata: disegna una farraginosa procedura che - lungo tre necessari ok del gip per prendere il telefono, duplicarlo, e acquisirne i “dati comunicativi” rilevanti - impone di coinvolgere in una udienza non solo l’utilizzatore dell’apparecchio, e il proprietario se diverso, ma anche tutti gli indagati (sperando nel frattempo non usino programmi di cancellazione da remoto dei messaggi), le parti offese, tutti i difensori e i consulenti, che con gip, pm, cancellieri e polizie sommeranno una folla di potenziali fonti per i giornalisti sicuramente grati alla nuova legge. Meno lo saranno le vittime di reati sempre più difficili da provare. Salvo che l’assurdità ordinaria delle nuove regole venga disinnescata dall’ossimoro di un ordinario ricorso dei pm alla straordinarietà della procedura semplificata, dalla legge ammessa come eccezione in caso di “pericolo per l’incolumità di una persona o la sicurezza dello Stato”, pericolo “concreto per le indagini” o “attuale per la dispersione dei dati”. Diffamazione, blitz di FdI: sì al carcere per i giornalisti. Ma gli alleati non ci stanno di Paola Di Caro Corriere della Sera, 12 aprile 2024 FI e Lega: noi vogliamo la rettifica. Pd e M5S all’attacco. A sorpresa, e senza accordo preventivo nella maggioranza che dovrà riunirsi per fare il punto, torna l’ipotesi del carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione con pene fino a 4 anni e mezzo. È l’effetto di alcuni emendamenti presentati in commissione Giustizia alla Camera dal relatore del provvedimento sulla diffamazione Gianni Berrino, di Fratelli d’Italia. Che introduce di fatto un nuovo articolo, il 13 bis: “Chiunque, con condotte reiterate e coordinate, preordinate ad arrecare un grave pregiudizio all’altrui reputazione, attribuisce a taluno con il mezzo della stampa” fatti “che sa essere anche in parte falsi è punito con il carcere da 1 a 3 anni e con la multa da 50 mila a 120 mila euro”. Se si sa che l’offeso è innocente la pena aumenta da un terzo alla metà, cioè fino a 4 anni e mezzo di carcere. La polemica esplode immediatamente, con la protesta vibrata delle opposizioni, ma anche dalla stessa maggioranza si sollevano dubbi se non contrarietà, sia da parte della Lega che da Forza Italia e Noi moderati. L’articolo 13 della legge sulla stampa era stato infatti dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale nel 2021 proprio perché prevedeva pene detentive. Il testo originario infatti includeva solo pene pecuniarie, che sono già state aumentate fortemente nel ddl in discussione. Ora, a sorpresa, si torna a proporre il carcere. I primi ad esprimere sostanziale contrarietà sono appunto esponenti della maggioranza: “Il carcere per i giornalisti? Bisogna vedere se è conciliabile con la sentenza della Consulta. Noi vogliamo la rettifica, non il carcere”, mette le mani avanti Pierantonio Zanettin, di FI. Ed è soprattutto Giulia Bongiorno, presidente della commissione eletta con la Lega, a frenare: “Come presidente della Commissione Giustizia ho sempre cercato di far trovare una posizione di mediazione tra maggioranza e opposizione, e ho sottolineato l’importanza di focalizzare l’attenzione sui titoli degli articoli e sulla tematica della rettifica”. Insomma, c’è un modo diverso per affermare i propri diritti senza punizioni esasperate, è la linea della Lega. “Adesso - continua - vedremo e approfondiremo i nuovi emendamenti, personalmente come Lega riteniamo importante focalizzare l’attenzione sul titolo e rettifica, per il resto nei prossimi giorni ci saranno delle riunioni di maggioranza”. Se il leader di Noi moderati Maurizio Lupi pronuncia “un forte e deciso no”, senza tentennamenti, al carcere per i giornalisti, Berrino difende la propria posizione: “Nessuno ha diritto di inventarsi fatti falsi e precisi per ledere l’onore delle persone. Quello non è diritto di informazione ma orchestrata macchina del fango, che lede anche il diritto alla corretta e veritiera informazione”. Insorgono la Federazione nazionale per la stampa, l’Ordine dei giornalisti e le opposizioni, che sono già sul piede di guerra. Il Pd attacca: “Questa maggioranza ha proprio un conto aperto con la libertà di informazione”, il ricorso a misure detentive per i giornalisti “è un retaggio barbaro, condannato a più riprese da organismi europei e dalla Corte costituzionale”, dicono i dem della seconda commissione Bazoli, Rossomando, Mirabelli e Verini. Dal M5S, Barbara Floridia parla di “rischi per il tessuto democratico” del Paese: “FdI dovrebbe riflettere seriamente sulle implicazioni di una simile proposta e ritirarla immediatamente”, chiede la presidente della Vigilanza Rai. “Il linguaggio giuridico non sia oscuro. Il diritto dev’essere accessibile a tutti” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 12 aprile 2024 Il linguaggio giuridico non può essere oscuro e incomprensibile. Federigo Bambi, professore di Storia del diritto medievale e moderno e di lingua giuridica nell’Università di Firenze (è anche accademico ordinario della Crusca) sottolinea l’importanza della chiarezza da parte degli operatori del diritto, senza tralasciare il delicato ruolo del legislatore nella redazione di testi che sono rivolti a tutti i cittadini. Professor Bambi, il linguaggio giuridico e il linguaggio della legge quando sono incomprensibili appartengono ad un gruppo ristretto, per non dire una casta? Talvolta può diventare il linguaggio di una casta. Ma attenzione. Quando si dice che il linguaggio giuridico deve essere compreso da tutti non dobbiamo semplificare questo concetto, perché tale linguaggio conserva sempre una sua tecnicità. Un linguaggio tecnico non può essere mai banalizzato, per cui certe parole del lessico giuridico, quelle che normalmente vengono indicate come tecnicismi specifici, dovranno necessariamente rimanere. Tutto quello che invece può essere modificato per rendere comprensibile il linguaggio del diritto sono i paroloni che non servono a indicare un concetto tecnico, ma semplicemente ad alzare il tono del discorso. Ecco perché i giuristi, il magistrato, il funzionario dell’amministrazione della giustizia, l’avvocato, dovrebbero in ogni caso acquisire l’abilità nell’esprimere un ragionamento complesso nel linguaggio più chiaro possibile. Questa è un’attività che occorre svolgere sin dai primi anni di formazione. Sono molto utili a tal riguardo le iniziative che vengono svolte dopo. Penso a quelle della Scuola superiore dell’avvocatura. Anche noi a Firenze, da oltre dieci anni, organizziamo un corso di perfezionamento dedicato al linguaggio giuridico. Ci troviamo nella situazione paradossale che parlare nella maniera più comprensibile possibile è diventato sempre più difficile? Non è difficile. Basta abituarsi a farlo e basta poterlo fare. Il problema è che per tantissimi anni, per non dire sempre, non si è data, nella formazione del giurista, la giusta attenzione alla scrittura. La scrittura è il primo strumento tecnico del mestiere, prima ancora della conoscenza tecnica del codice e, come si diceva un tempo, delle pandette. Serve una capacità di scrittura. Purtroppo, mi riferisco pure alla mia esperienza universitaria negli anni Ottanta del ‘ 900, ho ripreso la penna solo per scrivere la tesi, dopo l’esame di maturità. Appena sono entrato nel mondo del lavoro e del diritto, appena ho cominciato a svolgere la pratica legale, mi è stato chiesto di scrivere un atto o un parere. Allora si imparava mutuando e copiando lo stile di chi ti dava degli insegnamenti. Nell’avvocatura si seguiva lo stile del dominus e si imparava a scrivere come il dominus. Se mancava questo riferimento, il rischio era di essere prolissi, poco incisivi e, quindi, sotto questo profilo poco favorevoli a una vittoriosa conclusione della causa per il cliente. Il linguaggio giuridico si dovrebbe imparare nelle scuole di giurisprudenza. A Firenze ci siamo attrezzati in tal senso. Noto però che questa attenzione si riscontra anche in altre scuole. Spero che si possa proseguire così. Non sono esenti dall’utilizzare un linguaggio astruso anche i magistrati nella redazione delle sentenze, che sono pronunciate in nome del popolo. Cosa ne pensa? A parte la pronuncia formale “in nome del nome del popolo”, la motivazione, come sempre ci hanno insegnato, ha certamente una funzione endo- processuale, ma ha anche una funzione extra- processuale, perché deve servire a controllare come la giustizia viene accertata e devono essere gli stessi cittadini a effettuare questo tipo di controllo. Chiarezza e sinteticità sono due elementi che riguardano anche il lavoro del magistrato. L’obiettivo è di scrivere un ragionamento complesso con un linguaggio più chiaro possibile. Il legislatore e i giuristi cosa devono fare per essere più vicini ai cittadini? Dovrebbero fare una sorta di esame di coscienza e pensare sempre a chi è il destinatario del testo. Occorre commisurare la struttura del testo alle caratteristiche culturali del destinatario. Il giudice deve pensare all’avvocato e al cittadino che non sia fornito di nozioni giuridiche, perché se scrive in modo chiaro tiene conto pure di un obbligo di carattere deontologico. Se un giudice capisce rapidamente e non si incarta nella ricostruzione di un pensiero difficile, espresso in un atto dall’avvocato, decide più volentieri ed è più facile, a mio avviso, che vada incontro all’esigenza della difesa e delle parti. Nell’epoca della scrittura sui social network rischiamo di passare da un eccesso all’altro, vale a dire da un linguaggio, sotto certi versi, ampolloso ad un linguaggio arido? Bisogna fare estrema attenzione su questo punto. Semplificare, scrivere in modo sintetico e chiaro non significa banalizzare, soprattutto la sintesi e la chiarezza non coincidono con la brevità. Noi organizziamo spesso all’Accademia della Crusca alcuni corsi anche per i magistrati, dove nelle parti di laboratorio si analizzano, si ricompongono e si ricostruiscono sentenze già fatte e altri provvedimenti. Molto spesso un provvedimento breve non è chiaro. E bisogna intervenire su questo. Non dobbiamo però confondere la brevità con la chiarezza e la sinteticità. Sono concetti anche filosoficamente diversi. Intercettazioni, cosa accade in un Paese assuefatto al Trojan: la deriva indecifrabile di Nordio di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 12 aprile 2024 Non piace al senatore Scarpinato la riforma appena approvata dal Senato, che rafforza le garanzie del cittadino il cui smartphone venga sottoposto a sequestro. C’è tutta la nostra vita privata, la più intima ed inviolabile, nella capiente memoria del nostro ormai inseparabile strumento di comunicazione con il mondo, e dunque si sta finalmente stabilendo che l’eventuale suo sequestro debba essere vagliato da un Giudice, e non più affidato alla solitaria iniziativa del Pubblico Ministero. Quando doverosamente si rafforzano le garanzie del cittadino nei confronti del potere investigativo dello Stato, occorre prevedere tempi serrati ma adeguati a dare effettività a quelle regole di tutela. Tempi per il giudice di vagliare, discernere, decidere; tempi per il cittadino di difendere la riservatezza della propria vita. Ma secondo lo Scarpinato-pensiero, “i malintenzionati” a cui lo smartphone sia stato sequestrato, avranno ora il tempo di accedere dal computer a “wapp web”, e cancellare le chat che li inguaiano. Scarpinato dovrebbe sapere benissimo che queste operazioni di cancellazione non avranno alcuna efficacia reale, ma non è questo il punto. Tutele e garanzie per farla franca - Il fatto è che le parole del senatore grillino, come ha ben colto immediatamente in aula il senatore Renzi, danno la misura del quadro valoriale che esprime l’ex magistrato, e chi la pensa come lui. I cittadini sono potenzialmente tutti dei malintenzionati, sicché munirli di tutele e garanzie troppo stringenti consentirà loro di farla franca. Per questi populisti e giustizialisti nostrani, il mondo è popolato da mascalzoni, e dunque l’unico compito delle istituzioni è quello di scovarli, ovunque essi si annidino e con qualunque mezzo. Le garanzie intralciano questa sacra missione, e i colpevoli -come ama dire Davigo- la fanno franca. Ci dobbiamo stupire? Nossignore, questo è il pensiero dei populisti italiani, Scarpinato è perfettamente coerente con quell’universo di valori. La rivendicazione di Nordio - Non possiamo dire lo stesso di Carlo Nordio, che in una lunga intervista rivendica certo il valore di questa riforma, ma allo stesso tempo afferma che invece “il problema del trojan è secondario”. Si tratta di una affermazione assai lontana da quanto da lui affermato non solo negli anni da semplice editorialista, ma ancora poco tempo fa da Ministro (“trojan incivile”, 22 dicembre 2022). D’altronde, occorre prendere atto che il Ministro ha messo la propria convinta firma sulla estensione dell’uso di questo strumento, prima riservato alla sola ipotesi di associazione mafiosa, anche ai reati comuni commessi con “modalità mafiose”, determinando un ampliamento micidiale dell’uso legittimo di questo strumento. Nordio cede dunque al fascino del trojan, senza avvedersi di come questo strumento sia al contrario divenuto addirittura il protagonista della vita democratica del Paese. Assuefatti all’ascolto - Siamo una democrazia ascoltata, le sorti politiche ed elettorali, a livello sia locale che nazionale, ruotano intorno agli esiti di questi ascolti, in gran parte, badate bene, penalmente irrilevanti ma voluttuosamente rilanciati dai media e largamente sufficienti a suscitare, non di rado fondatamente, riprovazione morale per il modo di vivere la cosa pubblica da parte di questo o di quel rappresentante politico. Il fatto è che ci siamo assuefatti all’idea di questo ascolto indiscriminato, di questa pesca a strascico che il trojan per sua natura consente ben al di là della rilevanza penale dei comportamenti che esso sarebbe esclusivamente destinato a disvelare, e riteniamo sia nostro diritto ascoltare, giudicare, riprovare. Dunque, definire “secondario” il problema invece impellente di una rigorosa regolamentazione restrittiva dell’uso del captatore informatico, appare davvero sorprendente. Non mi stupisce Scarpinato ed il suo mondo ossessivamente popolato non da cittadini ma da “malintenzionati”; mi sconforta invece la deriva davvero indecifrabile, e francamente ormai indifendibile, di quello che doveva essere il primo Ministro liberale della Giustizia. *Avvocato La riscoperta della questione morale e il pericolo del dualismo tra magistratura e politica di Alberto Cisterna Il Riformista, 12 aprile 2024 In un paese in cui il codice penale non riesce a impedire scandali e mascalzonate, è davvero buffa l’idea di rispolverare il vecchio arnese del codice etico per porre rimedio ai guasti di una classe politica, a tratti, palesemente inadeguata. L’armamentario dei codici etici appartiene a un tempo passato quando ancora si riteneva che precetti morali e collegi di probiviri potessero arginare la tendenza di taluno a occuparsi di affari o imbrogli vari. Poi è impattata sul problema la stessa magistratura, con lo scandalo Palamara, e l’esperienza dei probiviri dell’Anm ha suscitato perplessità e incertezze non essendo apparso uno strumento del tutto convincente. Se le stesse toghe hanno avuto difficoltà a destreggiarsi con condotte penalmente irrilevanti e asseritamente in contrasto con l’etica associativa, c’è da immaginarsi cosa accada o possa accadere altrove. È intuitivo che la questione sia molto più complessa e si avvertono in filigrana gli scricchiolii di una visione del mondo, di una cosmologia e di un’antropologia insieme, che non tengono il passo di una modernità dissolvente. L’ultimo tentativo - La diluizione dell’etica repubblicana, l’attenuazione dei vincoli consociativi, l’affievolimento dei legami entro le formazioni sociali (partiti e sindacati, tra i primi) hanno comportato il progressivo svilimento di uno strumento - il codice etico, appunto - nato sulle ceneri di Tangentopoli, e tenuto in vita per qualche anno, che si voleva proporre come un rimedio autogestito in grado di mitigare comportamenti disdicevoli e conflitti d’interesse di aderenti e adepti. Insomma, l’idea era anche di un certo pregio: si eviti che sia sempre la magistratura a intervenire e, piuttosto, si controlli dall’interno quel che accade imponendo comportamenti “eticamente” corretti e comminando sanzioni. Forse quello è stato l’ultimo tentativo per difendere l’autonomia e il prestigio alle formazioni sociali che sono l’intelaiatura della Repubblica (articolo 2 Costituzione) e la cui “moralità” è interesse dell’intera società a prescindere da qualsiasi appartenenza associativa. Se i corpi intermedi sono eticamente fuori controllo a essere compromessa è l’intera vita delle istituzioni e la legalità dell’azione pubblica cui essi concorrono attraverso una miriade di rivoli. Il mancato punto di svolta - Lungo questa traiettoria il codice etico avrebbe dovuto segnare un punto di svolta e un argine all’azione, naturalmente pervasiva, della magistratura che - dal finanziamento illecito dei partiti alla P2, dall’azione di Confindustria in Sicilia alla gestione dei patrimoni dei partiti - aveva perfettamente compreso la natura potenzialmente eversiva di formazioni sociali fuori controllo e aveva rimodellato l’applicazione di molti reati (appropriazione indebita, falso in bilancio, traffico influenze sino all’immancabile associazione per delinquere) proprio per far fronte all’inerzia disciplinare delle corporazioni. È sotto gli occhi di tutti che lo strumento è abortito e che la stagione dei “codici etici” è tramontata da un pezzo. Ma non senza conseguenze negative. In primo luogo, l’etica, e quel che essa rappresenta, si è da tempo trasferita dal piano delle condotte degli aderenti a quello penale, connotando l’azione dei pubblici ministeri di un disvalore morale del quale doveva restare totalmente priva. La gogna mediatica, in questa traslazione, non è stato solo un effetto secondario o un danno collaterale, ma ha rappresentato la manifestazione stessa della nuova azione etico-penale affidata alle toghe. Simul stabunt simul cadent, come i più furbi ben sanno. La riscoperta della questione morale - Senza il ludibrio fiammeggiante della stampa la componente etica del controllo giudiziario si sarebbe dispersa irrimediabilmente, trasformando il processo penale in un mero agone laico e tecnico, scevro di preconcetti e precomprensioni morali. Quindi l’aborto dello strumento non ha solo comportato l’evaporazione e l’evanescenza dei controlli inframurari nei corpi intermedi, ma ha conferito all’indagine penale una legittimazione etica che non le poteva e le doveva appartenere per statuto costituzionale. Secondariamente, la brusca riscoperta della questione morale nei partiti e nelle altre formazioni sociali di cui si discute animatamente in questi giorni, vede i corpi intermedi di nuovo disarmati, privi di qualsiasi strumento efficace e sta provocando una escalation istituzionale che è ragionevole ritenere che debba essere prudentemente arginata. Un percorso insidioso - Le polemiche sulla gestione della pandemia, il clamore per la scoperta del dossieraggio all’interno della Procura nazionale, le vicende elettorali baresi e quelle piemontesi evidenziano - anche - deficit comportamentali e inciampi etici per i quali quasi all’unisono si è richiesto o invocato la costituzione o l’intervento di apposite commissioni parlamentari nel tentativo di canalizzare per quella via le istanze di verifica sulla correttezza e compostezza delle condotte. Un percorso insidioso e dagli effetti imprevedibili. Se le aule parlamentari, le commissioni d’inchiesta in particolare, assumono il ruolo di nuovi censori dell’etica pubblica e si ergono a moderno palcoscenico dell’agone giacobino il rischio è che - al mutare delle maggioranze politiche - si attuino ritorsioni e vendette devastanti per i cittadini quanto le indagini penali. La presunzione d’innocenza è un baluardo assoluto e un valore che permea tutto l’ordinamento repubblicano in quanto riverbero della dignità della persona umana e della sua inscalfibile densità assiologica. Se la morale pubblica diviene un terreno di contesa da spartire tra magistratura e politica e se le istanze di controllo dei comportamenti ambiscono a emulare le movenze del processo, non è detto che la nuova diarchia sia meno pericolosa e nociva del monopolio giudiziario (F. Sgubbi, “Il diritto penale totale”), soprattutto nel momento in cui si realizzano obliqui travasi o le sofisticate sinergie e le parallele convergenze di cui si è avuto una qualche traccia negli ultimi tempi. “La sinistra sbaglia da trent’anni sulla giustizia. E ci sono troppe intercettazioni” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 12 aprile 2024 Questione morale e sinistra: abbiamo chiesto il parere di Luciano Violante, l’ex magistrato che è stato parlamentare dal 1979 al 2008 e Presidente della Camera dal 1996 per cinque anni. Il garantismo è un valore universale? “Io sono contrario agli “-ismi”. Perché gli “-ismi” sono un deterioramento della parola. Lo ha spiegato Lopez de Onate. Il principio è quello della presunzione di innocenza, che è un criterio puramente giuridico. Poi c’è il piano politico e quello etico. Che sono cose diverse. Rispettare le garanzie della persona è una forma di civiltà. Poi ci sono i parametri della politica e dell’etica politica che sono distinti dal processo penale”. In che termini? “Una persona può comportarsi correttamente dal punto di vista penale e invece in modo assolutamente discutibile per etica pubblica. Oppure l’inverso: comportarsi bene dal punto di vista etico ma fare qualcosa che costituisce reato. Da sindaco ho i migranti che non so dove mettere e li metto in un albergo che sequestro? Dal punto di vista dell’etica pubblica faccio una cosa giusta, ma commetto un reato”. Vuole dire che si confondono spesso i piani? “Sì, voglio dire che i parametri sono diversi. La politica, che ha smarrito in questo momento la propria autonomia, diventa subalterna alle categorie del giuridico”. Sottintende che parlare di garantismo significa prendere una posizione politica? “Io preferisco parlare di legalità, che si colloca sul piano giuridico. E comporta non considerare una persona colpevole finché non c’è una certezza determinata dall’ultimo grado di giudizio. Ma insisto: c’è un profilo etico e politico distinto dall’aspetto giuridico. E la politica che si schiaccia sul giuridico, non è apprezzabile”. La politica ha abdicato, si è schiacciata sul giuridico? “E non da adesso, sono trent’anni. Dal 1992 ha rinunciato a esercitare un proprio governo dei comportamenti politici e si è sdraiata sul lettino del giurista”. Soprattutto la sinistra? “All’inizio, con Mani Pulite, la sinistra ha confuso la questione morale e la questione giuridica. Ma tra il 1992 e il 1994 si è confuso tutto da parte di tutti. Quando Craxi disse: “Guardate che se non troviamo una soluzione politica, prevarranno l’avventurismo e la degenerazione”, aveva ragione. È quello che è avvenuto. Perché distingueva il piano politico da quello giuridico. Purtroppo nessuno di noi capì. E sappiamo tutti come è andata”. Oggi nel Pd stanno lavorando a un nuovo regolamento etico. Non bastava il codice etico del 2008? “Naturalmente i codici etici si fanno anche in relazione a situazioni specifiche. C’era alla fondazione del Pd, al Lingotto. Ma evidentemente oggi si ritiene necessario richiedere un costume che qualcuno aveva dimenticato”. Le notizie di questi giorni, i voti comprati a Bari, le questioni di Torino, la sorprendono? “Mi sorprendono. Ma aspettiamo di vedere il seguito delle indagini, che finora destano preoccupazione, e distinguiamo gli innocenti dai colpevoli: E riflettiamo sui luoghi dove si sarebbe inserito il malaffare”. La reazione del M5S è stata forte, accendono il sacro fuoco moralizzatore. E Schlein finisce per assecondarlo. “Naturalmente lei è più in difficoltà di lui su questo punto. E Conte sta legittimamente conducendo la “battaglia dei secondi”: quello che fa Conte con Schlein è come quello che fa Salvini con la Presidente Meloni. I numeri due sono sempre pericolosi per i numeri uno”. Il leader dei Cinque Stelle però è uscito dalla giunta pugliese. Non è solo polemica, si rompe il Campo largo su queste cose. “Conte ha preso delle decisioni coerenti con quello che ha detto. Si può essere contenti o meno, ma sostenendo che quegli avvenimenti sono contro l’etica del suo partito, si è schierato fuori dalla maggioranza della Regione. È coerente, anche se può essere più o meno gradito”. Ma esiste una questione morale a sinistra? “Sono scettico sull’uso del termine “Questione morale”. Cosa vuol dire questione morale? Vuol dire che l’attività politica in generale è distorta a fini di arricchimento personale? Che esistano problemi giuridici di natura penale per alcuni esponenti del Pd, come anche di altri, in questi giorni, è un fatto. Ci sono comportamenti politici che fanno emergere questioni di correttezza. Starei attento all’uso immorale della questione morale. o’ eccessivo”. Siamo lontani dal rispetto filologico dell’espressione berlingueriana… “Sì, Enrico Berlinguer diceva un’altra cosa: i partiti hanno occupato lo Stato e perciò c’è una questione morale. Si riferiva al rapporto invasivo dei soggetti politici nei gangli dello Stato, quindi a fatti politici e non a processi penali”. Quando si parla di cacicchi e capibastone, mi sembra che prevalga una coloritura populista. Chi sono, in fondo, i cacicchi se non dirigenti locali che curano il territorio, fanno tessere, coltivano un rapporto con il loro elettorato? “Non so bene in quale momento ma a un certo punto c’è stato un gruppo dirigente del Pds-Ds-Pd, nella sua evoluzione, che ha attribuito piena autonomia ai capi locali purché sostenessero il gruppo dirigente nazionale. A un certo punto mi sembra sia è invalsa implicitamente questa condizione: “Sulle questioni locali, fate voi, purché sosteniate il centro”. Sono cresciute così autonomie distorte, che non rispondevano più a una logica complessiva”. Ma i sindaci della “primavera dei sindaci”, erano cacicchi? “No, i sindaci erano eletti. Definirei i cacicchi quei dirigenti politici che si attribuiscono il potere di fare il bello e il cattivo tempo sul territorio. Potentati locali sganciati dalla logica generale: il cacicco non è un eletto, è un ras che sta dietro le quinte senza essere stato votato”. Il rapporto tra politica e magistratura a trent’anni da Tangentopoli, secondo lei, è evoluto o il populismo giudiziario è ancora forte? “Devo dire che in questo momento si sta registrando un tentativo di ridimensionamento della magistratura rispetto alla politica. Nel 1993 scrissi un articolo su L’Unità in cui dicevo: “C’è uno sfrenato giustizialismo. E stiamo attenti: nessuna società accetterà di essere governata dai giudici. E prima o poi arriverà un potere regolatore che cercherà un riequilibrio tra partiti e magistrati”. Oggi credo che sia in corso questo riequilibrio”. Giusto limitare il sequestro dei cellulari, pensando anche al caso dell’inchiesta Open? “C’è una pdl, aspettiamo di vedere la legge”. Il trojan a strascico va limitato? “Il trojan è uno strumento pericoloso. Dobbiamo cercare un equilibrio tra i diritti della persona e il diritto all’accertamento delle responsabilità. Alcune volte il trojan serve, ma c’è un eccesso nell’uso di questo strumento. Auspicherei si potesse fare una riflessione tra penalisti e politica intorno al giusto limite di garanzia della privacy individuale rispetto all’acquisizione delle prove”. Ora che il lupo non esiste più nessuno ci parla di Bibbiano di Simona Musco Il Dubbio, 12 aprile 2024 Dopo anni di gogna la macchina mediatica si è inceppata: nessun titolone sull’assoluzione di Claudio Foti, mostrificato senza pietà da giornali e tv. “Il lavaggio del cervello per dare i bimbi in affido”. “Manipolavano i bambini per darli in affido agli amici”. “Vergogna affido, elettroshock e bimbi plagiati”. “Abusi e lavaggio del cervello ai piccoli”. “Scoperta tratta di bimbi”. “Bimbi affidati per soldi”. “Emilia, le carte horror sui ladri di bambini a colpi di elettroshock”. “Elettroshock ai bambini per portarli via ai genitori”. E ancora: “Il metodo Foti”, in varie salse, e altre fantasiose leggende. Le frasi che riportiamo qui sono solo alcune delle centinaia apparse sulle prime pagine dei giornali all’indomani dell’operazione “Angeli e Demoni”, messa a segno dai Carabinieri di Reggio Emilia il 27 giugno 2019. Frasi che, nella maggior parte dei casi, riportano inspiegabilmente una fake news, che la procura di Reggio Emilia ha dovuto smentire subito: quella dell’elettroshock sui bimbi. Come e perché questa notizia sia circolata, al momento, non è dato saperlo. Quel che è certo è che è sopravvissuta, edizione dopo edizione, post dopo post. Ed è sopravvissuta anche dopo essere stata smentita categoricamente in aula, dove un esperto ha spiegato che la “macchinetta dei ricordi” è un aggeggio innocuo, che fa male come ascoltare la musica col cellulare. L’attenzione smodata mostrata nei primi mesi si è spenta strada facendo, con la notizia costretta a mescolarsi alle altre feroci campagne mediatiche da portare avanti, senza mai confrontarsi con l’esigenza di una verifica, seppur minima, della notizia, né con la tanto vituperata presunzione di innocenza. Per questo non sorprende quanto accaduto dopo l’assoluzione definitiva dell’uomo immagine del caso Bibbiano, Claudio Foti: nessun titolone sulle prime pagine, anzi, nessun titolo proprio. E dove c’era una traccia di questa notizia, tutto si riduceva ad un trafiletto: le dimensioni della dignità di uomo. Un ingombro ridicolo rispetto a quello dedicato alla sua mostrificazione, che per giorni, settimane e mesi è stata costruita con notizie totalmente false o leggermente storpiate, quanto basta per renderlo odioso agli occhi di chiunque. Dai suicidi di cui sarebbe responsabile alla manipolazione dei cervelli, su Foti si è detto di tutto e di più. Eppure, per conoscere il suo ruolo, sarebbe bastato fare una cosa, semplicissima: guardare le sedute incriminate. Sedute dalle quali non emerge nulla di ciò che abbiamo letto sui giornali che lo hanno trasformato nel “lupo di Bibbiano”. Trasformare il caso Bibbiano in un processo mediatico è stato semplicissimo: è bastato tirare in ballo i bambini, il loro “bene” - sempre calcolato in base al loro essere “proprietà” di qualcuno, i genitori, a prescindere da tutto - e instillare la paura di poter finire sul patibolo, di vedersi portare via i figli. È bastato, come sottolineato dallo stesso Foti, far sentire il lettore “buono” a confronto di demoni accusati delle peggiori azioni possibili. Per capire quanto conti la verità processuale basta riavvolgere il nastro di un anno e arrivare alla sentenza di assoluzione in appello. In quel momento i principali giornali del Paese si fiondarono non sull’imputato appena scagionato, ma sul procuratore di Reggio Emilia, su chi sosteneva l’accusa, lasciandogli il microfono a disposizione per dire: sappiamo che è colpevole e questa assoluzione, in fondo, non è un’assoluzione. “L’idea che passa - dice Luca Bauccio, difensore di Foti - è che non bisogna mai disturbare gli accusatori, anche se ci sono istituzioni superiori che mettono in dubbio il buon operato dei pm, perché con le procure bisogna sempre avere buoni rapporti”. Quei giornali oggi tacciono, quasi come se non fosse accaduto nulla. Così come hanno taciuto in questi anni, mentre le aule restituivano pezzi di storia completamente diversi da quelli raccontati fino ad allora. Storie che però venivano ribadite, rispolverate e riconsegnate all’opinione pubblica, come se la verità si potesse fermare al livello degli indizi, senza alcuna necessità delle prove. Bibbiano ha rappresentato la tempesta mediatica perfetta, con il mostro da sbattere in prima pagina, la politica a banchettare sui cadaveri per fare propaganda e le macerie sul campo. Tra queste macerie ci sono anche le garanzie, sacrificate sull’altare della convenienza. Basti pensare ad alcuni dati. Il primo: un giudice ha scritto nero su bianco che le misure cautelari non erano più necessarie “in ragione della distruzione dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro incolumità”, motivo per cui il pericolo di inquinamento probatorio “è andato via via scemando”. Il secondo: nonostante il cuore della vicenda riguardi gli affidi, l’uomo simbolo dell’inchiesta è quello, forse, con il minor numero di capi d’accusa in assoluto, uno che con gli affidi non c’entra, ovvero Foti. Perché puntare tutto su di lui, dunque? Perché famoso, perché al centro di un dibattito feroce a livello scientifico, in un momento storico in cui la politica puntava tutto sull’altro attore in campo, cioè quello pronto a sostenere la validità di teorie antiscientifiche come la sindrome di alienazione parentale, sostenuta all’epoca anche da una proposta di legge poi rimasta chiusa in un cassetto. Per abbattere Claudio Foti si è arrivati ad attribuirgli un metodo - che non esiste -, confondendo l’ascolto del minore in Tribunale con quello nella terapia, millantando certezze sui protocolli in gioco, come se la scelta di uno al posto dell’altro rappresentasse una sorta di peccato originale dal quale era impossibile salvarsi. Criticare Foti era possibile, certamente, ma il luogo opportuno per farlo era l’accademia. Così facendo, invece, “Angeli e Demoni” è diventato un processo alla scienza, alimentato da notizie spesso prive di qualsiasi fondamento, con la diffusione scientifica di atti coperti da segreto. In particolare le intercettazioni, estrapolate dal contesto e tagliate ad hoc, fino a far sembrare delle risate delle urla di terrore. Ma non solo: nonostante tutti, in quei giorni, si siano autoproclamati difensori dei bambini, i minori coinvolti nel caso sono stati inseguiti, identificati, sbattuti in prima serata e perfino attesi per poter strappare loro una parola di odio e di dolore contro chi li aveva “rubati” ai genitori. Ci sarebbe da chiamare in causa le carte deontologiche, ma almeno questo ve lo risparmiamo. Parlateci di Bibbiano, urlavano tutti in quei giorni terribili. E tutti lo facevano senza sapere di cosa parlavano, aiutati da centinaia di account falsi, come spiegato da Alex Orlowski, esperto di comunicazione digitale, che in un’intervista alla Gazzetta di Reggio spiegò come “decine di migliaia di post, meme, video, per milioni di visualizzazioni, like e commenti, sono stati alimentati da centinaia di profili sospetti, gestiti con una precisa intenzionalità politica e mediatica”. La rete fu invasa da immondizia, quella che è rimasta a galleggiare, nonostante tutto. Di Bibbiano, però, ad un certo punto, hanno smesso di parlare tutti. Eppure il processo a Reggio Emilia - dove sono imputate 17 persone - continua, riservando sorprese e colpi di scena. Mettendo in evidenza ciò che chiunque conosca il diritto sa da sempre: le ordinanze di custodia cautelare non sono una Bibbia. È il processo a comandare. Basterebbe seguirlo. Solo così si può parlare di Bibbiano. Pavia. È morto in ospedale il detenuto di 42 anni che si era impiccato alcuni giorni fa di Federico Berni Corriere della Sera, 12 aprile 2024 Nella Casa circondariale nove suicidi tra il 2020 e il 2021. La direttrice: “È una realtà molto complessa”. Il cavo dell’antenna della tv usato come laccio da stringersi al collo. Poi, il gesto estremo. Gli agenti cercano di intervenire per salvarlo, ma l’uomo, poco prima, aveva fatto modo di ostacolare l’ingresso in cella, bloccando la porta. Quando riescono a soccorrere il detenuto, si trova già in condizioni gravissime, dopo essere rimasto senza ossigeno per un tempo che, nonostante il trasporto immediato in ospedale, si è rivelato fatale. Ahmed Fathy Ehaddad, egiziano, è morto a 42 anni dopo qualche giorno di agonia. Nei prossimi giorni avrebbe dovuto essere processato con il rito abbreviato davanti al Gup di Monza, per un caso gravissimo di violenza sessuale commesso il 27 settembre 2023 ai danni di un’anziana di 89 anni a Sesto San Giovanni. La donna era stata aggredita nell’androne di casa sua, davanti all’ascensore del palazzo. Dopo l’arresto effettuato dai carabinieri a ottobre scorso, il successivo esame del Dna lo aveva inchiodato alle sue responsabilità. Ma ha deciso di togliersi la vita, all’interno della sezione “protetti” del carcere di Pavia. La stessa dove, durante la notte tra l’11 e il 12 marzo scorsi, è stato trovato morto il brianzolo Jordan Tinti, 26 anni, di Bernareggio, noto alle cronache come Jordan Jeffrey Baby, il nome scelto dal giovane nel tentativo di sfondare con la musica trap, già condannato a 4 anni e 4 mesi per rapina aggravata ai danni di un immigrato alla stazione di Carnate nell’estate 2022. Il giovane era stato trovato impiccato alle sbarre. Il padre Roberto Tinti, sostenuto dall’avvocato Federico Edoardo Pisani, ha dichiarato pubblicamente di non credere al suicidio del figlio (che aveva denunciato di aver subito maltrattamenti e violenze in quello stesso carcere) e la Procura di Pavia ha disposto accertamenti (tutt’ora in fase di indagini preliminari), a partire dall’autopsia. Nel carcere di Pavia tra il 2021 e il 2022 si sono verificati ben nove casi di suicidio: sei nel 2022 e i precedenti tre in rapida sequenza, alla fine del 2021. Una situazione che, all’epoca, aveva spinto la garante dei detenuti, Laura Cesaris, a lanciare un appello ai vertici dell’amministrazione penitenziaria per migliorare la situazione. Diverse sigle sindacali della polizia penitenziaria, inoltre, avevano denunciato, oltre a ripetute aggressioni, anche carenze d’organico, con difficoltà di gestire una situazione che a più riprese era stata definita “fuori controllo”. In piena esplosione del Covid, inoltre, lo stesso carcere era stato teatro di una rivolta, a marzo 2020, a seguito della quale sono stati rinviati a giudizio quest’anno 68 imputati, con le accuse di devastazione e saccheggio. Sul suicidio del detenuto nordafricano, la direttrice del carcere Stefania Mussio, in carica da circa un anno a Pavia, ha fatto sapere che “ci sono indagini in corso da parte della magistratura”. Il sospetto è che si possa essere trattato di un “gesto dimostrativo andato oltre le intenzioni”. La direttrice ha spiegato inoltre che quella del carcere di Pavia “è una realtà molto complessa”, essendo “il più grande carcere lombardo, dopo quelli milanesi”. I problemi di sovraffollamento sono fisiologici, ma “al numero di detenuti che aumenta, corrisponde la riduzione del personale”, e che quindi servono “investimenti e risorse per migliorare la situazione”. Udine. Il Garante dei detenuti: “Le nostre richieste ancora inevase” rainews.it, 12 aprile 2024 Bilancio di Franco Corleone, vicino alla scadenza del mandato: “Via Spalato sta cambiando volto, ma il nodo principale resta il sovraffollamento”. A Udine il garante dei detenuti Franco Corleone, vicino alla scadenza del suo mandato, ha tirato le somme dell’attività di quest’anno e non solo. Un bilancio per alcuni aspetti positivo, tre anni intensi che stanno vedendo la trasformazione del carcere di via Spalato. I lavori, a detta del garante, dovrebbero concludersi entro fine anno o al massimo entro i primi mesi dell’anno prossimo. Risultato che è stato definito dal capo del Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria Giovanni Russo collegato in videoconferenza, il “miracolo Udine”. Il triennio, dice però Corleone, vede anche ombre. Tanti i problemi ancora da affrontare, su tutti il sovraffollamento. Oggi nella struttura di via Spalato sono rinchiusi 160 detenuti, a fronte di una capienza di 86. Sono 40 di detenuti in attesa di primo giudizio. Tra gli altri nodi urgenti, le carenze di personale di sorveglianza e assistenziale, tentati suicidi e autolesionismo. Parma. Nessuna “divisione”, l’AIGA di conferma il proprio impegno per migliorare concretamente le condizioni dei detenuti Ristretti Orizzonti, 12 aprile 2024 Apprendiamo con sorpresa che i Colleghi di Camera Penale Parma hanno sentito il bisogno di prendere pubblicamente le distanze da un nostro comunicato, che si limita a descrivere sinteticamente la visita al carcere di Parma e non nega di certo le criticità della situazione carceraria. Tale comunicato aveva lo scopo di far conoscere al pubblico l’adesione della sezione di Parma alla più ampia iniziativa Nazionale dell’ONAC; iniziativa che si tradurrà in una nostra relazione approfondita sulle condizioni dell’Istituto penitenziario di Parma ed in proposte concrete volte ad affrontare strutturalmente l’emergenza carceri. Spiace che non sia stato compreso da chi ha criticato quanto espresso nel suddetto comunicato, probabilmente perché non conosce l’attività dell’Osservatorio Nazionale Carceri di AIGA che nasce proprio per monitorare la situazione delle carceri italiane e sensibilizzare l’opinione pubblica ed il legislatore sull’importanza di una riforma dell’ordinamento penitenziario e che, nel 2023, ha portato alla redazione del “libro bianco”, che è molto più di un semplice resoconto sulla situazione delle carceri, ma ha l’obiettivo di promuovere proposte concrete di modifica dell’ordinamento penitenziario e degli istituti carcerari. Come pure probabilmente chi critica non conosce l’impegno di AIGA - la cui traccia è facilmente rinvenibile in tutti i canali comunicativi della associazione e della sezione di Parma - per scongiurare il gran numero di suicidi in carcere, promuovendo una stagione di riforme tanto sotto il profilo sostanziale, quanto relative all’ordinamento penitenziario. Il nostro impegno - lo ribadiamo - è stato e sarà concreto e siamo sicuri che potrà essere condiviso con i Colleghi di altre associazioni, come dimostra la nostra partecipazione all’iniziativa di beneficenza natalizia di Camera Penale Parma. Il direttivo AIGA sezione di Parma Benevento. In tribunale un “macabro manifesto” sui suicidi in carcere di Anna Liberatore Il Mattino, 12 aprile 2024 L’iniziativa della Camera penale per sensibilizzare l’opinione pubblica sui suicidi in carcere, sempre più frequenti. All’interno del tribunale di Benevento, su iniziativa della Camera penale, è stato esposto il “macabro manifesto”: una affissione, aggiornata costantemente, che mette in bella vista il numero dei suicidi avvenuti in carcere dal 1° gennaio di quest’anno. L’obiettivo è di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni in cui vivono i detenuti. “Abbiamo chiesto al presidente del tribunale - ha spiegato la presidente della Camera penale di Benevento, l’avvocato Simona Barbone - di poter affiggere questo manifesto. Quando abbiamo fatto la richiesta i suicidi erano 26, qualche giorno dopo erano già saliti a 31. Vogliamo far capire che serve maggiore attenzione verso questo mondo, soprattutto in un momento storico in cui i suicidi di detenuti nelle carceri italiane sono sempre più frequenti per la mancanza di assistenza psichiatrica, perché le celle che sono piccole e sporche, per il sovraffollamento. Per non parlare dell’assistenza sanitaria base: per ottenerla devono mettersi in turnazione, a volte rischiando la propria salute”. “È assolutamente fondamentale - conclude la presidente - restituire dignità a coloro che scontano una condanna per recuperare il valore rieducativo della pena”. Viterbo. L’associazione Gavac, 50 anni in campo per il reinserimento dei detenuti Il Messaggero, 12 aprile 2024 La presidente: “Certi suoni come il chiavistello alle tue spalle non si dimenticano”. Sono in tutto una ventina i volontari del Gavac (Gruppo assistenti volontari animatori carcerari), l’associazione che opera all’interno e all’esterno della casa circondariale di Viterbo per dare assistenza a detenuti e familiari. “Da 50 anni sul campo - spiega la presidente Elisabetta Gatti - ma i nostri valori sono sempre gli stessi, così come i nostri obiettivi”. L’anniversario, per la precisione, cadrà tra alcuni mesi: il prossimo novembre. “Era il 1974 quando don Frare decise di fondare questa associazione (Gruppo assistenti volontari animatori carcerari, la dicitura estesa, ndr) la cui volontà era occuparsi e portare sollievo ad una categoria spesso dimenticata: quella dei detenuti - spiega Gatti -. Nel corso degli anni l’associazione si è evoluta, ha retto il passo con i tempi, non facendo mancare mai la sua opera. La detenzione è un dolore per chi la prova sulla sua pelle ma anche per chi la conosce dall’esterno perché mette alla prova l’emotività di una persona. Per questo ogni volontario attraversa un percorso di formazione prima di entrare a contatto con la realtà carceraria. Certi suoni, come quello del chiavistello che gira alla tua spalle, sono difficili da dimenticare”. Le attività all’interno del carcere prevedono colloqui di risocializzazione “perché il dialogo è il nostro punto di partenza. Ascoltiamo i detenuti che ne fanno richiesta, ci facciamo promotori delle loro esigenze e richieste davanti alle figure professionali che lavorano all’interno del carcere”. E ancora tutoraggio per gli studenti universitari e numerose attività formative finalizzate alla rieducazione del detenuto. “Lo scorso anno, per esempio, abbiamo dato il via a una serie di progetti, tra questi un ciclo di percorsi sulla genitorialità e un corso di autobiografia attraverso il quale il detenuto progettava il futuro rivisitando il passato”. Fuori dalla casa circondariale, invece, l’associazione lavora per garantire ospitalità ai detenuti in permesso premio senza risorse economiche e delle loro famiglie. Per l’accompagnamento dei carcerati in permesso premio ad ore. Per facilitare i rapporti con famiglie, avvocati e struttura carcerari. Quindi sensibilizzando i cittadini sulle tematiche carcerarie. Altre, poi, sono pronte a partire. “Quest’anno ci sarà un nuovo progetto culturale con al centro la biblioteca e, quasi in parallelo, un corso sul rispetto della persona umana”. Progetti che hanno avuto il sostegno anche del Comune di Viterbo. Nei giorni scorsi, infatti, l’amministrazione comunale ha disposto attraverso una determina l’erogazione di un contributo di 16mila euro in favore di Gavac, “per l’attuazione di interventi volti all’inclusione sociale dei detenuti”. Fondi così suddivisi: 9mila euro per le attività all’interno del carcere e 7mila per quelle all’esterno. Milano. La storia di Cristian: “Dopo 10 anni di carcere aiuto i detenuti a costruirsi un futuro” di Luca Tavecchio Il Giorno, 12 aprile 2024 Cristian Loor Loor fu arrestato a Linate nel 2012: durante la detenzione ha fondato la Onlus Catena in Movimento: “Per farla crescere ho rinunciato ai permessi cui avevo diritto dal 2019. Ma ne è valsa la pena”. “Mi chiamavano ‘Quaranta chili’, perché quando sei in carcere conta quello che hai fatto, quello per cui sei dentro. Non conta niente chi sei o cosa sai fare”. Per quei quaranta chili Cristian Loor Loor si è fatto dieci anni e due mesi di prigione. Prima San Vittore, poi Bollate. Erano quaranta chili di cocaina liquida nascosta dentro una valigia diplomatica scoperti dai doganieri all’aeroporto di Linate nel 2012. È entrato in carcere a 33 anni. Ne è uscito a 43. Ora “Quaranta chili” non esiste più. Al suo posto c’è Loor Loor, il presidente di Catena in Movimento onlus, un’associazione nata nel laboratorio di Bollate nel 2017 con lo scopo di dare ai carcerati la possibilità di non sprofondare, di progettare una vita fuori dalla cella. E pensare che Cristian, originario dell’Ecuador ma in Italia da vent’anni, nella sua vita prima del carcere era un attore e un regista. Si occupava di televisione e teatro. Cosa è successo nel 2012? “Eravamo di ritorno da una piccola tournée del nostro spettacolo teatrale organizzato con il supporto dell’ambasciata. Io ero il responsabile della compagnia. Dentro una valigia all’aeroporto hanno trovato quaranta chili di cocaina. Sono stato arrestato insieme ad altre cinque persone, due delle quali sono poi state uccise in Ecuador. È una storia molto più complicata di quello che sembra. Io comunque sono stato condannato a dodici anni di carcere. Un giorno ero su un palcoscenico, il giorno dopo ero in una cella”. Com’è stato l’impatto con il carcere? “Durissimo. La prima volta che mia mamma è venuta a trovarmi a San Vittore non la dimenticherò mai. Il suo sguardo, i suoi occhi. Però non mi ha mai abbandonato, nonostante tutto. Poi c’è stata la prigione. I detenuti, e io non ho fatto eccezioni, attraversano tutti le stesse fasi: per i primi due anni quello che vivi non ti sembra reale, hai l’impressione che ti sveglierai e riprenderai la tua vita di prima. Poi arriva la fase in cui ti rendi conto che invece passerai anni rinchiuso, che quando uscirai sarai più vecchio, che il mondo sarà diverso. Io ho avuto la fortuna di incontrare delle persone, a iniziare dall’educatrice Simona Gallo, che mi hanno aiutato a non lasciarmi andare, a non rassegnarmi. Così dopo quegli anni è arrivato lo studio (Cristian ha ottenuto una laurea magistrale in Relazioni Internazionali all’Università Statale di Milano, ndr), il lavoro, Catena in Movimento e il laboratorio tessile”. Come mai proprio il laboratorio tessile? “In carcere è difficile riuscire a utilizzare le tue competenze, le tue capacità. La scommessa di Catena in Movimento è anche quella di ridare questa dignità ai detenuti. Io sono cresciuto tra macchine da cucine e tessuti. Mia mamma era una stilista e produceva accessori di moda, mio papà era un tappezziere. Sono l’ultimo di cinque fratelli, loro si sono specializzati in ambiti particolari del settore, io ho imparato tutto quello che c’è da sapere sulla tessitura. Poi mi sono appassionato al teatro e ho iniziato a fare l’attore, ma la sartoria si può dire che è nel mio dna”. Perché quando la sua pena è finita ha continuato ad occuparsi di carcere e carcerati, non ha avuto voglia di dire basta, di lasciarsi tutto alle spalle? “In tanti lo fanno. O per lo meno ci provano. Io invece no. Il carcere è un’esperienza terribile e dieci anni sono tanti. Per sopravvivere ho cercato in qualche modo di trasformarla in qualcosa di utile. È assurdo e doloroso dirlo, ma il carcere mi ha anche arricchito. Condividere le storie tragiche di tanti ragazzi mi ha aperto gli occhi su tante cose. Un conto è leggere certe storie sul giornale e o vederle nei film, un altro conto è sentirle raccontate dal tuo compagno di cella mentre prepara una torta utilizzando solo il fornelletto e gli sgabelli. Quando ho iniziato a lavorare nel laboratorio di Bollate ho visto che davvero si poteva fare qualcosa di buono. I detenuti che ci lavorano cambiano prospettiva, si sentono utili. Si sentono persone. Così nel 2017, insieme a un compagno e grazie all’appoggio del carcere di Bollate è nata Catena in movimento. Per farla crescere ho anche rinunciato ai permessi cui avevo diritto dal 2019. Ma ne è valsa la pena. Ora abbiamo un laboratorio dentro al carcere e uno a Trezzano sul Naviglio. In questi anni sono dalla nostra associazione sono passati 110 detenuti. Si è creata una piccola comunità che sta diventando anche un’impresa”. In che modo il lavoro con la sua Onlus è utile ai detenuti? “Usare le proprie capacità, il proprio impegno per realizzare qualcosa che viene riconosciuto all’esterno è un grande risultato per i detenuti. Il percorso lavorativo con noi è poi accompagnato anche da momenti di confronto con il personale pedagogico del carcere. Una cosa su cui cerco di puntare è il valore dell’errore. L’errore danneggia se stessi ma anche gli altri, la comunità. Riconoscerlo e trovare il modo di riparare è la sfida più difficile, ma anche la più appassionante”. Milano. “Che sapore hanno i muri’, Paolo Aleotti e le voci di Bollate di Beppe Donadio laregione.ch, 12 aprile 2024 Sono quelle di detenuti e detenute del penitenziario, nel suo laboratorio di giornalismo e comunicazione. È andata così. Dopo i classici tot anni di onorata carriera in Rai, Paolo Aleotti deve decidere se scegliere “quella cosa un po’ strana” che è la pensione anticipata; il destino vuole che ‘Antigone’, associazione che s’interessa della tutela dei diritti nel sistema penale e penitenziario, gli chieda di provare a insegnare ai detenuti del carcere di Bollate, in provincia di Milano, a fare documentari, inizialmente radiofonici. “Ci ho pensato, mi è parso un segno del destino e sono entrato. Come si fa in questi casi, ho fatto per quattro mesi il convitato di pietra, cercando di capire come funzionasse quel posto. Dopo poco ho avuto il colpo di fulmine: lì dentro ho trovato delle persone, che dopo il tempo trascorso a studiarci reciprocamente mi hanno detto: “Noi non siamo reati che camminano, noi siamo persone che hanno commesso un reato”. E mi hanno chiarito il concetto: “Tu non sei un giornalista, sei Paolo che fa un sacco di cose compreso il giornalista, e ora quest’altro lavoro”. A Bollate, Aleotti applica quanto appreso in una vita trascorsa a comunicare, da ‘Per voi giovani’ con Arbore nel 1968 a ‘Che tempo che fa’, fino al 2013 per Fabio Fazio, e in mezzo l’inviato speciale in Europa, Stati Uniti e America Latina, la direzione degli Spettacoli del Giornale Radio Rai, ‘Ballarò, ‘RT’ per Enzo Biagi e una bella collaborazione con laRegione iniziata con l’elezione di Barack Obama e durata qualche anno, sulle pagine dirette da Erminio Ferrari, che manca a lui almeno quanto manca a noi. Domenica alle 17, al Teatro San Materno di Ascona, moderato da Lisa Ferretti, Aleotti racconta la sua esperienza, confluita nel 2023 nel libro ‘Che sapore hanno i muri’ (Casa Sirio). Paolo Aleotti. Di Bollate ha sempre parlato di un carcere diverso dagli altri, di una ‘dirigenza illuminata’, un posto dove la redenzione è possibile... Il carcere di Bollate è uno dei pochi penitenziari che adottano una legge del 1975 secondo la quale le porte delle celle possono restare aperte tutto il giorno. Una scelta di questo tipo può significare la carneficina, se poi non si danno alle persone delle cose da fare. Parlai di dirigenza illuminata soprattutto facendo il nome di Lucia Castellano, la direttrice che per dieci anni ha portato avanti questo esperimento e che è riuscita a collegare il carcere con il territorio, facendovi entrare una serie di attività che arrivavano fino dai cavalli da accudire, che oggi non ci sono più, alle serre e ai laboratori come il mio, che avevo chiamato un po’ pomposamente ‘Teleradioreporter’. Da Bollate sono usciti radiogiornali, podcast, documentari, alcuni trasmessi anche dalla Rai. Quanto le storie personali di ognuno sono entrate nel processo di lavorazione? Io non chiedo mai a chi collabora con me il motivo per il quale si ritrova recluso. Di alcuni è impossibile non sapere, perché si tratta di detenuti o detenute altamente mediatici. Però durante le ore lunghe di laboratorio, e il tempo in carcere è un tempo particolare, i momenti di lavoro diventano quasi psicoterapeutici, per tutti, me compreso. Le racconto il caso di Gianrico, che aveva ottenuto un giorno di permesso per andare a trovare i suoi a Padova e si era portato dei documenti riguardanti suoi amici condannati; capendo un po’ di legge, voleva aiutarli nella lettura e sul treno era salita una coppia un po’ ‘conservatrice’, che al sentir parlare di detenuti si era lanciata nel solito “bisogna buttare via la chiave e farli marcire in cella”. Poco prima di scendere, Gianrico confessa loro di non essere un avvocato ma un detenuto, e la coppia arrossisce. “Se avessero saputo che ho ucciso mia moglie…”, mi dice durante il laboratorio; io mi stupisco che avesse avuto un permesso e lui mi dice che dopo dieci anni per i giudici lui sarebbe stato pronto per ricominciare. “Ma io non ne sono certo”, mi dice, “perché ci hanno messo meno i genitori di mia moglie a perdonarmi di quanto ci abbia messo io a perdonare me stesso. Finché non capisco di avere espiato la mia colpa non mi sento sicuro”. Come l’ha cambiata il carcere, dal punto di vista professionale, dopo questa ‘detenzione’ creativa? Mi ha cambiato in questo senso: da giornalista quale sono stato, in passato avrei approfittato della vicinanza con queste persone per produrmi in articoloni da prima pagina a loro dedicati. Ora mi sento integrato in una nuova missione, quella di sostenere e supportare persone che, per esempio, vogliono scrivere un’autobiografia e io di loro cerco di prendere la parte migliore, senza mai perdere di vista il motivo per il quale si trovano in carcere. Quanto l’ha cambiata umanamente? Mi sono reso conto che all’inizio li guardavo in faccia e mi chiedevo solo perché fossero lì, e se una volta vicini a me sarebbero stati pericolosi oppure no. Poi il rapporto è diventato tra persone ‘normali’ e il confine tra il bene e il male, in un certo senso, si è spostato e ho cominciato a chiedermi come si finisce in galera: è perché si è cattivi? Perché a quella persona gli ha detto male e invece a me ha detto bene? Se tutti abbiamo scheletri nell’armadio, perché noi non siamo tutti rotolati giù per la china, per non tornare più su? Tutta questa empatia con strane persone ha a che fare col fatto che per tanto tempo si è occupato di musica e spettacoli? C’è un fondo di verità in quel che dice (sorride, ndr). Più seriamente parlando. I tassi di suicidio nel carcere di Bollate sono molto bassi: è la bontà della gestione? Sì. A Bollate, durante la pandemia, non ci sono stati disordini perché la dirigenza ha subito comunicato ai detenuti che i parenti non sarebbero potuti venire a trovarli, e che potevano avere una telefonata al giorno anziché una alla settimana. Penso a Santa Maria Capua Vetere, coi carcerati lasciati nella totale disperazione. A Bollate la recidiva scende dal 70% su scala nazionale al 17%, e anche se moralmente non è il primo pensiero, se tratti bene i detenuti, se li rendi responsabili di un’eventuale rinascita, escono migliori di come sono entrati. Oggi che l’ergastolo non è più tale, oggi che nessuno resta per sempre in carcere, è bene che le persone escano meglio di come sono entrate, perché se escono peggio, fanno sconquassi più grandi di quelli per i quali sono state condannate. Lei, in fondo, non è mai andato in pensione: che idea ha del giornalismo odierno? L’insegnamento (alla Scuola di Giornalismo Basso di Roma, alla facoltà Limed e in Cattolica a Milano, ndr) mi ci mette in costante contatto. Mi piace occuparmi dei ragazzi che hanno tanta voglia, mi accorgo, di un giornalismo sensato e si rendono conto di quanto quello attuale sia abbastanza insensato. Con tutte le difficoltà, nel carcere produciamo un giornale radio a settimana, più dei podcast e dei videodocumentari. Collaboro anche con una televisione e una radio in Emilia Romagna che produce mezzora al giorno dedicata al mondo delle carceri. La mia passione l’ho messa in questo nuovo soggetto che ho incontrato. Quello che è certo è che continuo a pensare che il mondo dell’informazione dovrebbe migliorare tanto e nel mio piccolissimo cerco di compiere minuscole rivoluzioni, inventandomi anche un giornalista che arrivi, perché no, da dietro le sbarre. Nella scuola nessuno deve essere (o sentirsi) straniero di Giancarlo Visitilli Corriere del Mezzogiorno, 12 aprile 2024 Chissà come si sarà sentito Akim, quando ha ascoltato le parole del ministro della Scuola pubblica italiana (e non di altro), Giuseppe Valditara: “La maggioranza degli alunni in classe sia italiana”. Cosa avrà pensato Gioele, bambino palestinese, che fatica a pensare “alla nonna in guerra, se vive ancora, non abbiamo notizie di lei da molto tempo e mia madre piange”, quando deve fare i conti con la sua imbarazzante estraneità in una classe in cui le parole di un ministro (di un ministro, non di un coetaneo di Gioele!) gli ricordano che è straniero, perché è in Italia e frequenta una classe di scuola italiana. Nella storia, ogni volta che si fa pesare agli altri la propria estraneità, diversità, “anormalità”, si realizza il razzismo. La si chiama separazione, in Italia, apartheid in Sudafrica, la politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo di etnia bianca del Sudafrica, rimasta in vigore fino al 1991. Il suo iniziatore, Daniel François Malan, fu anche lui un ministro. A debellarla fu Nelson Mandela, nel 1994, quando divenne primo presidente sudafricano non bianco, dopo aver scontato 27 anni di carcere per la sua lotta al segregazionismo razziale. Senza alcuna ombra di dubbio, l’unica positività della scuola italiana, in questi ultimi vent’anni, è stata la bellezza di vedere colorarsi le squallide aule scolastiche, attraverso i colori della pelle di molte studentesse e studenti. Mediante il racconto dei diversi credo religiosi che ci sono, fra musulmani, cristiani e tante altre fedi, dai Protestanti ai Testimoni di Geova. La meraviglia di avere studenti che non fanno fatica a raccontarsi al femminile o viceversa. E senza che qualcuno, almeno nella scuola, possa credere che esista una “teoria gender”. A scuola insegniamo quello che dovremmo sapere tutti: che per esempio, nelle centinaia di dialetti africani, l’aggettivo “straniero” lo si usa solo per le cose e gli oggetti, non per le persone. Bisognerebbe dire a Valditara che noi insegnanti, ma così anche i presidi, i bidelli, tutti noi nella scuola, ci sforziamo di far sentire Persone tutti. Meritevoli tutti. Eccellenze tutti. A prescindere dal loro colore di pelle, dalla loro religione, sessualità o appartenenza politica a un partito o un altro. Perché crediamo che le aule scolastiche siano ancora l’unico baluardo, che difenderemo con le unghie e con i denti, dove insegnare lo stupore, la meraviglia, gli occhi sgranati e le bocche aperte di umani che, di fronte a qualsiasi forma di diversità, si emozionano, piangono, ridono e cercano di confondersi, fondersi e “sporcarsi” con gli altri. In occasione di questa breve riflessione, ho interpellato alcuni presidi e tutti, unanimemente, mi hanno detto di essere in disaccordo con il ministro e le sue classi di transizione. Non accontentandomi, fuori da una delle scuole di Bari, al quartiere Libertà, ho chiesto a una studentessa: Nella tua scuola ci sono stranieri? E lei, dieci anni, mi ha risposto: No, ci sono solo bambine come me. Mi sono vergognato di averglielo chiesto, perché è una domanda stupida. E, per giunta, per quelli come me che insegnano italiano, la parola “straniero” non può esistere per le bambine, i bambini e gli adolescenti. Neanche per i ministri. Quelli adulti e cittadini del mondo. Piantedosi conferma: il diritto d’asilo sostituito con il diritto al carcere di Carlo Forte L’Unità, 12 aprile 2024 Il ministro riferisce sul nuovo patto per l’asilo deciso dall’Europa. Aumenteranno i respingimenti e gli espatri, sparirà l’articolo 10 della Costituzione. Il ministro Piantedosi ha annunciato che l’Italia farà nuovi Cpr, sostituirà i vecchi, renderà più veloci le espulsioni. E se poi i Cpr sono nel degrado e ci si vive dentro da cani, poco male: la colpa - ha detto il ministro al Senato - è dei detenuti che fanno un sacco di danni. Cosa sono i Cpr? Sono “prigioni per stranieri”, cioè prigioni dove si vive peggio ancora che nelle carceri italiane, e dentro le quali si finisce senza aver commesso nessun reato tranne il reato, nuovissimo, di “stranierità”. Il ministro ha rilasciato queste dichiarazioni, più ciniche e reazionarie del solito, probabilmente per rispondere alla furia del suo partito, la Lega, che lo contesta aspramente perché è stato proprio lui, insieme ai suoi colleghi francesi e tedeschi e nordeuropei, a elaborare quel “patto sull’asilo” contro il quale la Lega ha votato nel Parlamento europeo. La Lega ha votato contro con la stessa motivazione dei 5 Stelle. Che è opposta alla motivazione con la quale hanno votato contro le sinistre (solo una parte delle sinistre) guidate dal Pd. Le sinistre sostengono che il nuovo “patto” cancella il diritto d’asilo e lo sostituisce con il diritto alla prigione. E ieri Piantedosi ha confermato che le cose stanno così. Lega e 5 Stelle invece protestano perché nel patto non ci sono molte misure che favoriscono il respingimento in mare (ed eventualmente il legale annegamento di africani e asiatici), e c’è per di più una norma che rende difficile il flusso dei superstiti - sbarcati in Italia - verso Francia, Germania, Belgio e paesi scandinavi. In effetti è così. Il governo di destra italiano in cambio del via libera a respingimenti e accordi di vario genere coi tagliagole libici, ha ceduto sul punto che interessa di più i nostri xenofobi (soprattutto Lega e 5 Stelle). E cioè alle misure che ostacolano la possibilità di fuga di massa dei profughi verso il Nord Europa. Nader Akkad: “Il terrorismo non è Islam. L’unica strada è il dialogo” di Widad Tamimi La Repubblica, 12 aprile 2024 Parla l’imam della Grande Moschea di Roma: “Bisogna proteggere la vera essenza delle religioni e isolare le appropriazioni illecite dei simboli sacri”. Per chi guarda il cielo, non solo figurativamente, ma alla ricerca di quella falce di luna così importante nella scansione del tempo per l’Islam, la convergenza tra religione e scienza è oltre che un passo significativo di armonizzazione tra fede e ragione, sacralità e secolarità, un’indicazione essenziale per l’adempimento delle norme religiose. Nader Akkad è un’esemplare sintesi di questa convergenza: ingegnere, è stato ricercatore all’International Centre for Theoretical Physics di Trieste ed è imam della Grande Moschea di Roma. Ogni occasione è per lui un pretesto per muovere importanti passi di un’integrazione che non è solo religiosa, ma anche culturale, sociale e si spinge fino al dialogo con la scienza. Islam e Unione Europea: incontro o scontro? “Anni fa, dopo aver già completato gli studi di teologia in Siria, frequentai il master dell’Università di Padova in Studi sull’Islam d’Europa, iniziativa del ministero degli Interni con un consorzio di atenei per la formazione di figure religiose in sintonia con i valori dell’Unione Europea. Una formazione di stampo europeo, che possa integrare la formazione degli imam con i valori fondanti del progetto europeo, ci permette non solo di sviluppare un Islam d’Europa, che non significa affatto rinnegare i fondamenti e gli insegnamenti del Corano, ma piuttosto coniuga la proclamazione dell’unicità di Dio con la molteplicità delle culture che caratterizzano il vecchio continente”. La Grande Moschea di Roma si sente a casa? “In mezzo a Roma spicca un minareto tra i tanti campanili. Non stona: è invece simbolo della bellezza della Costituzione italiana, che protegge la mescolanza dei popoli, delle culture e dei diversi credo garantendo le libertà e promuovendone l’incontro. Molti si lamentavano della non reciprocità, i paesi musulmani integralisti non avrebbero mai permesso di costruire una Chiesa. Paolo VI rispose che una Moschea a Roma avrebbe arricchito il carattere di civiltà universale della città”. Anche i luoghi giocano una loro parte, è soddisfatto del progetto dell’architetto Paolo Portoghesi? “Portoghesi ha saputo creare un dialogo interreligioso architettonico straordinario. L’edificio prende spunto dal modello del giardino, caratteristico del Maghreb e della grande moschea di Cordova; quello della moschea ottomana e di quella persiana, nell’alternanza tra grandi cortili e spazi aperti. A queste caratteristiche si aggiunge l’utilizzo di materiali dell’architettura romana, come il travertino e il cotto rosato”. L’estremismo è una faccia dell’Islam o uno sfiguramento? “Bisogna insistere sulle giuste definizioni: quando si parla di terrorismo si entra nella sfera della criminalità. Bisogna proteggere la vera essenza delle religioni ed isolare le appropriazioni illecite dei simboli religiosi. La sfida futura sarà soprattutto culturale”. Il riconoscimento da parte dello Stato italiano conferisce più margine di manovra alla comunità musulmana anche in questo senso? “È fondamentale. Permette innanzitutto la prevenzione della deriva estremistica evitando la dispersione delle anime che non avendo il supporto e il sostegno di una comunità che le aiuti ad integrarsi rischiano di intraprendere strade pericolose. La cultura è un mezzo fondamentale alla costruzione dei processi di integrazione”. La Grande Moschea sostiene anche la sostenibilità energetica in una interazione anche interreligiosa... “Poco più di otto secoli fa, avvenne un incontro molto importante tra San Francesco e il comandante dell’esercito nemico, il Sultano d’Egitto Malik al-K?mil. Fu uno dei più straordinari gesti di pace nella storia del dialogo fra Cristianesimo e Islam. Oggi lo spirito di quel gesto di pace rivive nella commuovente esperienza di collaborazione tra la Grande Moschea di Roma e l’Ordine dei Frati Minori Francescani. Ma oltre ad aver dato vita alla prima comunità interreligiosa d’Italia, abbiamo promosso un sodalizio ambientalista: entrambe le realtà diventano parchi per la produzione di energia rinnovabile per alimentare i consumi interni ma anche il fabbisogno, in caso di eccesso di energia, dei quartieri più vicini. Anziché un’energia fossile che divide, un’energia solare che unisce”. Si chiude il mese di Ramadan, con quale spirito il musulmano entra nella festa dell’Eid? “Il digiunante ha due momenti di gioia, il primo al tramonto per la fine del digiuno, il secondo nell’incontro col Signore, che lo compenserà per la sua astinenza. Il ramadan è un mese di grande spiritualità, rafforza il credente e lo avvicina al Signore, ma è anche un momento di importante vicinanza ai temi contemporanei di eguaglianza e giustizia”. Fallisce il percorso di recupero, il “filosofo dell’Isis” oggi vive per strada a Torino di Elisa Sola La Repubblica, 12 aprile 2024 Elmadhi Halili è stato il primo ideologo dello Stato Islamico arrestato in Italia. Condannato a 6 anni, in carcere ha iniziato la deradicalizzazione, interrotta dopo l’uscita. Definito, pericoloso e ancora ossessionato, è stato però lasciato solo. Lezione numero uno. “Ai miscredenti dico, aggrediteli come vi hanno aggredito. Chi insulta Maometto, lo si può uccidere”. Era il 6 luglio 2017 quando Elmadhi Halili, il primo ideologo dello Stato islamico in Italia condannato per terrorismo, spiegava a un ventenne ivoriano - in una casa di Lanzo - il proprio manuale, “Quaderno rosso”. Un manoscritto di 64 pagine che Halili, a 23 anni, aveva ideato per indottrinare i combattenti pronti a partire per la Siria. Due anni dopo viene arrestato. Poi condannato, a 6 anni e 6 mesi di reclusione. E mentre il suo nome, unito alla fama di “filosofo dell’Isis”, veniva stampato - mentre era in carcere in regime di alta sicurezza - nei documenti delle intelligence di tutto il mondo, le istituzioni, gradualmente, si sono dimenticate di lui. Halili oggi è un senza tetto accampato in zona parco Dora a Torni. Scarcerato sei mesi fa, e finito al centro di uno dei progetti di deradicalizzazione pilota a Torino e in Italia, vive su una panchina. Solo, in preda all’ossessione della guerra santa. E in preda ai demoni del disturbo psichiatrico di cui soffre. Qualche giorno fa ha aggredito senza un motivo due musulmani di passaggio. Dopo la scarcerazione, era finito in un Cpr, decreto di espulsione alla mano. Ma per un motivo burocratico, il suo rimpatrio in Marocco non è stato possibile. Così è tornato a Lanzo, a casa dei genitori, che lo hanno respinto. Loro sanno che Halili è lo stesso di prima, più o meno. Che potrebbe avere le stesse idee. E che, come aveva detto al processo il procuratore aggiunto Emilio Gatti, “è uno dei soggetti più pericolosi e radicalizzati in Italia”. “È necessario che venga avviato per lui un percorso di deradicalizzazione”, aveva ribadito Gatti. E il percorso era stato avviato, mentre Halili era in carcere. Ma da quando il giovane è uscito di prigione, l’unica persona che si è occupata di lui è il teologo islamico del progetto di deradicalizzazione. Un imam incaricato dalle istituzioni per agire come intermediario con Halili, all’interno dell’istituto penitenziario, per tentare di convincerlo ad abbandonare l’idea della violenza come mezzo necessario. È stato il teologo a lanciare l’allarme, nelle ultime settimane, scrivendo più volte alla prefettura e al comune di Torino: “È un soggetto che versa in condizioni di pericolosa instabilità. Ha bisogno di cure”. Ma gli appelli paiono inascoltati. Halili bivacca tra parchi e giardinetti. È pericoloso perché non è stato (ancora) deradicalizzato, è ancora ossessionato. Ha problemi psichiatrici. Ha con sé un telefonino ed è libero di muoversi. Eppure Halili, secondo il teologo intermediario, si merita una possibilità. Avrebbe dimostrato “buona volontà” dopo essere stato scarcerato. Si era fatto convincere, per esempio, a sottoporsi a una visita medica psichiatrica. E sarebbe anche disposto, secondo l’imam (di cui non sveliamo il nome per motivi di sicurezza) a farsi ospitare in una comunità di recupero che il Gruppo Abele metterebbe a disposizione, se qualcuno pagasse la retta. Le basi per un percorso di recupero e integrazione ci sarebbero. Ma senza interventi delle istituzioni, Halili potrebbe tornare a manifestare il suo estremismo. Il percorso per curarlo e reinserirlo nella società dopo la galera, era stato avviato qualche anno fa. Era stato creato un tavolo istituzionale (che esiste ancora) con prefettura, procura, questura, servizi, Comune di Torino e il Ran (Radicalisation awareness network) della commissione europea. Ma da quando Halili è tornato libero, l’iter si è bloccato. L’imam lo ha incontrato per caso, accampato nella zona di via Livorno. Aveva aggredito due passanti. Il teologo ha scritto solleciti alla prefettura. Ha accompagnato Halili dallo psichiatra. C’è stata una riunione del tavolo, due mesi fa. Ma Halili continua a essere un senzatetto. Il teologo, pochi giorni fa, ha avvisato il ministero dell’Interno che presto darà le dimissioni dall’incarico. Non è pagato. Non sa più a chi chiedere aiuto. E nonostante sia monitorato dai servizi, inizia a temere per la propria incolumità. Mandato di arresto europeo, i Ventisette tra buone pratiche e raccomandazioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 aprile 2024 Il Mandato di Arresto Europeo (European Arrest Warrant, EAW) rappresenta un pilastro fondamentale della cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri dell’Unione Europea. Affinché questo strumento funzioni in modo efficace e rispetti i diritti fondamentali delle persone coinvolte, è essenziale adottare raccomandazioni specifiche per migliorarne le procedure e l’attuazione. Un’analisi approfondita condotta dall’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali ha focalizzato l’attenzione sulla decisione quadro 2002/ 584/ GAI riguardante il Mandato di Arresto Europeo. Questo studio ha messo in luce alcune sfide nell’applicazione delle regole, con particolare attenzione alle differenze tra gli Stati membri riguardo alla garanzia dei diritti procedurali. Per valutare l’efficacia delle regole a tutela dei diritti umani nella prassi applicativa del Mandato di Arresto Europeo, l’Agenzia ha condotto una ricerca approfondita coinvolgendo 19 Stati membri, tra cui l’Italia, e intervistando i destinatari della decisione in 6 Stati membri. Questo studio ha portato alla luce casi interessanti, evidenziando le buone pratiche in alcuni Paesi come la Spagna, che ha rispettato il principio di proporzionalità, e il Portogallo, con pronunce della Corte di appello. Uno degli elementi centrali di questo rapporto sono le raccomandazioni che si concentrano su diverse aree chiave che richiedono attenzione e miglioramento. In primo luogo, è fondamentale garantire un’informazione chiara e tempestiva ai soggetti richiesti riguardo ai motivi dell’arresto e ai dettagli del mandato di arresto europeo. Questo garantirà una maggiore trasparenza e consentirà ai soggetti coinvolti di comprendere appieno la situazione e di esercitare i propri diritti. In secondo luogo, è essenziale migliorare la qualità dell’interpretazione e della traduzione durante le procedure di EAW. Una comprensione accurata da parte dei soggetti coinvolti è fondamentale per assicurare un processo equo e giusto. Inoltre, è necessario assicurare che i soggetti richiesti abbiano accesso a un avvocato in modo confidenziale e tempestivo. Garantire il pieno esercizio dei loro diritti di difesa è un principio fondamentale del diritto penale e contribuisce a garantire la giustizia e l’equità delle procedure. La formazione e la sensibilizzazione delle autorità coinvolte nelle procedure di EAW sono altresì cruciali. Promuovere una maggiore consapevolezza dei diritti fondamentali dei soggetti coinvolti contribuirà a garantire il rispetto di tali diritti durante l’intero processo. Infine, è importante favorire la cooperazione tra gli Stati membri dell’Unione Europea per armonizzare le pratiche e garantire un’applicazione uniforme e coerente del mandato di arresto europeo. Questo contribuirà a ridurre le disparità tra gli Stati membri e a garantire che i diritti fondamentali siano rispettati in modo uniforme in tutta l’Unione Europea.