Carcerati e no di Gabriele Romagnoli La Repubblica, 11 aprile 2024 La prigione dev’essere un luogo di privazione della libertà, ma anche di preparazione al reinserimento. Il condannato resta un cittadino, non deve perdere la dignità. Purtroppo nessuno vuole riformare il carcere. La verità è che c’è una resistenza sociale alla umanizzazione delle prigioni. Il punto è che il livello di vita dei detenuti deve essere inferiore a quello del gradino più basso nella scala sociale di chi detenuto non è. Un poveraccio onesto non può sopportare che un carcerato viva meglio di lui, è una cosa che creerebbe rivolte. Ma una società democratica deve cercare di migliorare le condizioni di entrambi”. La Prima Cosa Bella di giovedì 11 aprile 2024 è stata Robert Badinter, l’uomo che fece abolire la ghigliottina e che aveva un’idea sensata sul carcere e sulla società. Mi è tornato alla mente leggendo una lettera a Repubblica. È morto due mesi fa, a 96 anni, sazio di vita e saggezza. Ci incontrammo nella sua casa di Parigi, dalle cui finestre si vedevano i giardini Luxembourg. Mi consegnò una ricetta per una miglior politica penale. In due punti. “Primo: no alle pene di breve durata. A che serve condannare qualcuno a sei mesi? Solo a farne un criminale 180 giorni dopo. Secondo: cambiare il regime carcerario. È umiliante. I progressi fatti non sono sufficienti”. La giudice ostile agli sconti di pena perché “rendono vane le condanne...” di Gaetano Scalise* Il Dubbio, 11 aprile 2024 La proposta di legge elaborata da Roberto Giachetti e Rita Bernardini, che determinerebbe un sicuro effetto deflattivo nelle carceri, è criticata dalla giudice Vittoria Stefanelli: le condanne, dice la magistrata del Tribunale di Sorveglianza di Roma, verrebbero, in virtù dello sconto di pena, “neutralizzate”. In un articolo pubblicato ieri sul Dubbio, la giornalista Valentina Stella riporta l’opinione di magistrati, avvocati e rappresentanze della polizia penitenziaria sul tema lacerante del sovraffollamento carcerario, ponendolo in rapporto alla proposta di legge elaborata da Roberto Giachetti e Rita Bernardini che determinerebbe, con l’incremento della liberazione anticipata da 45 a 60 giorni per semestre, un sicuro edimmediato effetto deflattivo. Ciascuno esprime la sua opinione, ma tra le altre - tutte di segno favorevole, o quanto meno focalizzate sulla abnormità di un sovraffollamento che supera le 14.000 unità e che determina una situazione di illegalità di Stato del tutto intollerabile - svetta quella della dottoressa Vittoria Stefanelli, secondo la quale invece la proposta presenterebbe “criticità” proprio in relazione al profilo ora detto, giacché le condanne “quando intervengono”, verrebbero, in virtù dello sconto di pena, “neutralizzate”. Ciascuno esprime la sua opinione, si diceva. Ma la dottoressa Stefanelli, oltre che magistrato di sorveglianza, è stata presidente facente funzioni del Tribunale di Sorveglianza di Roma fino a gennaio di quest’anno. Cosicché leggere che abbia additato uno strumento legislativo come la liberazione anticipata - di cui dovrebbe e avrebbe dovuto far uso quotidiano, e che assume oggi anche una connotazione compensativa delle indegne condizioni di vita dei detenuti - come un “neutralizzatore” delle condanne irrogate dai Tribunali, desta serissima preoccupazione. E tuttavia non stupisce, perché conferma quanto in passato più volte la Camera penale di Roma ha denunciato circa la visione carcerocentrica che alligna nella giurisdizione di sorveglianza del distretto capitolino. La dottoressa Stefanelli non ha forse percepito la vera portata delle proprie parole, ma noi sì: una visione al limite dell’oscurantismo. Non possiamo quindi esitare oltre nello stigmatizzare il contenuto del suo intervento, figlio di quella impropria visione carcerocentrica della pena in netto contrasto con i principi costituzionali. Questo dimostra inequivocabilmente perché il Tribunale di sorveglianza di Roma si palesi restio alla concessione dei benefici penitenziari o, quantomeno, perché questi benefici vengano concessi con il contagocce. Crediamo che di fronte a una affermazione del genere l’avvocatura, ma ci piacerebbe anche la stessa magistratura di sorveglianza, non possa rimanere inerme, e debba dare dimostrazione alla dottoressa Stefanelli di come lo Stato non “investe sul processo penale”, ma condanna nella consapevolezza che la pena (perché forse la dottoressa Stefanelli non ricorda che la Costituzione parla di pene e non di carcere) debba essere un viatico rieducativo, purtroppo oggi vanificato dalle inumane condizioni carcerarie, dalla mancanza di supporti medici, psicologici e, a questo punto, anche da una giurisdizione appiattita. Auspichiamo che l’attuale Presidente del Tribunale di Sorveglianza voglia avere una visione conforme allo spirito della nostra Costituzione superando la visione carcerocentrica che ha informato il passato, dando anche il segnale di un nuovo corso di quel Tribunale. *Presidente Camera Penale Roma Non bastano gli psicologi, in carcere serve la presenza del Sistema Sanitario Pubblico di Riccardo C. Gatti Il Riformista, 11 aprile 2024 La carenza di risposta terapeutica multidisciplinare e la mancanza di terapeuti e di supporto, può trasformarsi in un dramma. In un articolo di ieri, a firma Giovanni M. Jacobazzi, intitolato “Trenta suicidi in cella: insufficienti i fondi per gli psicologi” si precisa che “Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha firmato l’altro giorno un decreto con cui vengono stanziati 5 milioni di euro per il potenziamento dei servizi trattamentali”. Questo può migliorare in qualche modo la situazione, tenendo, però, presente che questi servizi dipendono dalla Amministrazione Penitenziaria e il “trattamento” a cui ci si riferisce, consiste, come esplicitato nel sito del Ministero della Giustizia, “nell’insieme degli interventi rieducativi che gli operatori penitenziari propongono di attuare nei confronti del condannato o internato nel corso dell’esecuzione della pena”. Sebbene la fase di “osservazione scientifica della personalità” possa fornire alcuni elementi utili per allertare sulla eventuale presenza di situazioni patologiche, l’équipe di osservazione, composta da personale dipendente dell’Amministrazione Penitenziaria, ha a che fare solo indirettamente con la clinica e la cura di patologie e si muove sostanzialmente in area rieducativa. Quindi il problema rimane, considerando che nelle carceri sono recluse sempre più persone (troppe) che hanno disturbi psichiatrici, a volte anche gravi ed avrebbero primariamente bisogno di una diagnosi certa e di cure appropriate. C’è chi sostiene che le carceri stiano poco per volta assumendo la funzione che un tempo avevano gli ospedali psichiatrici. Ma, tenendo presente tutte le ragioni che ne hanno portato alla chiusura, e, sia chiaro, senza alcun rimpianto, almeno i manicomi avrebbero dovuto essere luoghi di cura. Ciò che a mio parere è davvero carente (e in pochi ne parlano) è la presenza del Sistema Sanitario Pubblico nelle carceri, in particolare per quanto riguarda la presenza di Servizi specialistici Psichiatrici (psico-sociali). Parlo di una presenza strutturata di Servizi multidisciplinari, specificamente dedicati ai disturbi mentali ed alle dipendenze patologiche. Nella maggior parte dei casi è disponibile (quando c’è) una ridotta presenza di singoli specialisti, che accedono dall’esterno. Non essendo parte di servizi incardinati nel carcere, non di rado hanno anche il limite di una ridotta efficienza negli interventi: tra le misure di sicurezza all’ingresso, la logistica generale e gli spostamenti interni dei detenuti, in una intera mattinata, uno specialista riesce a fare veramente poco. Rare sono le situazioni più strutturate ed organizzate. Vengono portate ad esempio, quando serve, ma rimangono iniziative isolate e non di rado sono in difficoltà, per carenza di personale esperto, proprio in una situazione in cui le patologie psichiatriche, l’abuso di droghe e di farmaci e le dipendenze patologiche, sono sempre più diffuse e, in carenza di una adeguata assistenza, possono solo peggiorare. Il carcere, evidentemente, non è il luogo ideale per curare o essere curati ma, se, di fatto, ci entrano persone malate o che si ammalano, perché portatrici di particolari fragilità, la carenza di risposta terapeutica multidisciplinare, e di una costante presenza di terapeuti e di supporto, può trasformarsi in un dramma. Quindi, se da una parte occorre prestare attenzione, a diverso livello, per non trasformare davvero le carceri in nuovi manicomi, è indispensabile che la presenza del Sistema Sanitario Pubblico sia più strutturata e presente nelle carceri e che, assieme all’Amministrazione Penitenziaria, possa essere organizzata diversamente, anche dedicando una maggiore attenzione alla collocazione dei detenuti con particolari problematiche, laddove è possibile affrontarle. Come purtroppo sappiamo, il Sistema Sanitario Pubblico è carente fuori dalle carceri ma, almeno fuori, si possono trovare alcune alternative che in carcere sono difficilmente accessibili, nonostante la buona volontà di chi, professionalmente o volontariamente, ci lavora. Come se non bastasse, c’è anche un problema per gli stranieri dove, senza una buona conoscenza della lingua e della cultura, è difficilissimo intervenire, comprendere situazioni patologiche psicologiche e psichiatriche, diagnosticarle e, soprattutto, curarle. Anche di questo problema, che pure dovrebbe essere noto, si tiene conto in modo insufficiente. Le difficoltà del Servizio Sanitario Pubblico, in relazione alla assistenza territoriale sono evidenti e rappresentate per quanto riguarda i cittadini “liberi”, cosa che sta perversamente diventando una giustificazione per rimandare nel tempo la ricerca di soluzioni per ogni problema che si presenta, ma anche le carceri sono nel territorio, ed i detenuti, in relazione alla salute, dovrebbero avere almeno gli stessi diritti di chi detenuto non è, anche se si tende a dimenticarlo. Chiudo con una osservazione. È giusto porsi un problema di assistenza, se nelle carceri entrano sempre più persone con disturbi mentali, che rimangono senza risposta, ma sarebbe ancor più corretto chiedersi perché questo avviene. Credo sia, prima di tutto, un compito della politica analizzare questo argomento, accettandone la complessità, facendosene carico responsabilmente, e indirizzando la ricerca di nuove soluzioni, senza fermarsi ad inutili scontri tra schieramenti, che nulla cambiano, o a facili riferimenti ad una errata programmazione negli anni passati che rischia di portarci a scelte semplicistiche e sbagliate, anche per quelli futuri. Giustizia, le riforme incagliate nei veti di Giovanni M. Jacobazzi Il Riformista, 11 aprile 2024 “Sulla giustizia chiediamo un’accelerazione dei tanti dossier annunciati e mai portati a termine”, ha affermato ieri l’avvocato Francesco Petrelli, presidente delle Camere penali, rispondendo alle domande del Riformista. Riguardo la separazione delle carriere in magistratura, in particolare, Petrelli ha dichiarato che l’occasione è “irripetibile”. Purtroppo per Petrelli, e per la maggioranza dei cittadini che aspirano ad un sistema giustizia effettivamente liberale e garantista, la possibilità che le riforme in cantiere vadano in porto è ogni giorno che passa sempre più difficile, con il concreto rischio che ci si limiti ad un semplice maquillage. “Sulla giustizia chiediamo un’accelerazione dei tanti dossier annunciati e mai portati a termine”, ha affermato ieri l’avvocato Francesco Petrelli, presidente delle Camere penali, rispondendo alle domande del Riformista. Riguardo la separazione delle carriere in magistratura, in particolare, Petrelli ha dichiarato che l’occasione è “irripetibile”. Purtroppo per Petrelli, e per la maggioranza dei cittadini che aspirano ad un sistema giustizia effettivamente liberale e garantista, la possibilità che le riforme in cantiere vadano in porto è ogni giorno che passa sempre più difficile, con il concreto rischio che ci si limiti ad un semplice maquillage. La prima riforma attesa è, ovviamente, il ddl Nordio. Il testo prevede l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, la modifica di quello di traffico d’influenze illecite, una migliore definizione dell’avviso di garanzia e del relativo interrogatorio, l’inappellabilità (in alcuni limitati casi) delle sentenze di assoluzione da parte del pm, l’introduzione del gip collegiale per le misure cautelari personali. Si tratta di interventi quanto mai diversificati fra loro e dalla portata molto simbolica. La battaglia dell’abuso è un tema infatti che si trascina da decenni. Anche se la norma è stata più volte modificata introducendo dei paletti, i magistrati hanno quasi sempre trovato il modo per aggirarli, ricorrendo a contestazioni fantasiose. Si ricorderà il caso della sindaca di Crema che venne iscritta nel registro degli indagati per tale reato dopo che una bambina si era ferita ad una mano nella porta dell’asilo. Il testo ha avuto una genesi estremamente complicata. Inizialmente Nordio si era spinto ad affermare che dovesse essere approvato entro gennaio del 2023, essendo tutto pronto. Da allora si è però perso il conto delle audizioni effettuate dal Parlamento. Le decine di pm auditi, in servizio ed in pensione, ad iniziare da Piercamillo Davigo, per stroncare la riforma hanno richiamato asseriti accordi anticorruzione che sono stati sottoscritti a livello internazionale dall’Italia, primo fra tutti la Convenzione di Merida. Un richiamo fuori contesto dal momento che questa Convenzione non prevede indicazioni per i singoli Stati aderenti circa i criteri concreti con cui contrastare la corruzione. L’Italia, peraltro, ha una delle legislazioni più severe a livello europeo sul punto, con pene detentive elevatissime. Senza considerare, infine, che per il contrasto a questo genere di reati si possono utilizzare i terribili virus trojan. Il ddl Nordio è fermo da settimane in Commissione giustizia alla Camera. Per la sua approvazione, dicono, si dovranno attendere le elezioni europee. Una prospettiva infausta perché dopo le elezioni europee è sicuro che ci sarà un rimpasto di governo ed uno dei ministri che rischia di saltare è lo stesso Nordio, ormai visto dalla premier Meloni come un corpo estraneo all’interno dell’esecutivo. La riforma richiesta da Petrelli, che necessita di una modifica costituzionale, è semplicemente in alto mare. In Parlamento era stato depositato lo scorso anno un testo, poi ritirato in quanto il governo aveva dichiarato di volerne presentare uno proprio. Che non si è mai visto. La legge attualmente in vigore prevede che si possa cambiare funzione non più di due volte e a certe condizioni. Ma il punto non è questo. Il tema di fondo è che per diventare pm o giudice il concorso è il medesimo, come è il medesimo l’organo di autogoverno, dove pm e giudici si valutano e promuovono a vicenda. Difficile parlare di terzietà ed indipendenza in questa situazione. È una delle riforme più surreali mai realizzate dal dopoguerra ad oggi. Dopo il Palamaragate tutti dissero che bisognava togliere potere alle correnti della magistratura, diventate dei centri di potere per la spartizione dei posti. La riforma che doveva favorire candidature indipendenti al Csm ha prodotto l’effetto contrario: su 20 componenti togati, ben 19 sono espressione di gruppi associativi. Ci sarebbe, allora, il sorteggio temperato. Ma anche questa riforma, primo firmatario il forzista Pierantonio Zanettin, è arenata in Commissione giustizia. Sul fronte delle carceri la situazione è tragica: trenta detenuti si sono tolti la vita dall’inizio dall’anno. Nordio da sempre ripete che bisogna utilizzare le caserme dismesse per avere più posti e fronteggiare così il sovraffollamento. Ma è una soluzione di difficile realizzazione. L’unica soluzione è un provvedimento, come richiesto dalle Camere penali, di amnistia. Ma è impensabile con le sensibilità della maggioranza di governo. Si potrebbe cercare di migliorare le condizioni detentive. Il Ministero della giustizia ed il Dap si stanno impegnando, con zelo non comune, a rendere invece la pena sempre più affittiva. Un esempio? Le telefonate in carcere. Con un provvedimento di assoluto buon senso durante il Covid i detenuti potevano telefonare senza particolari limiti. Adesso non più, al massimo una telefonata a settimana. E poi i braccialetti elettronici. Il Ministero della giustizia spende tantissimo per rinnovare il parco auto ma non trova qualche decina di migliaia di euro per acquistare questi strumenti. La domanda da porsi, giunti a questo punto, è cosa è stato fatto in tema di giustizia: nuovi reati, innalzamenti delle pene di quelli esistenti, paletti processuali che rendono sempre più difficile il diritto di difesa. E poi non bisogna dimenticare che molti non si rivolgono più ai tribunali: oltre all’aumento del contributo unificato, il bollo che si deve pagare allo Stato affinché un magistrato esamini il fascicolo, c’è il rischio della condanna alle spese. Un disincentivo ad adire all’autorità giudiziaria. Uno scenario certo non esaltante. Giustizia, task force di magistrati per smaltire i processi in ritardo di Francesco Bechis Il Messaggero, 11 aprile 2024 Intervento del Csm per trasferire 60 toghe nei tribunali dove i ritardi sono più gravi. Un “bonus Pnrr” per i magistrati italiani. Il governo corre ai ripari per far fronte alle gravi carenze di organico della giustizia. E soprattutto accelerare sullo smaltimento dell’arretrato del processo civile, un obiettivo chiave del Recovery Ue da cui dipende l’erogazione di ingenti fondi all’Italia. Fra gli emendamenti della maggioranza al decreto Pnrr al vaglio della Camera ce n’è uno dedicato alla “giustizia-lumaca”. La norma prevede “applicazioni straordinarie di magistrati per il raggiungimento degli obiettivi Pnrr”. Nei fatti, il decreto introduce una “task-force” di giudici che saranno ricollocati su indicazione del Consiglio superiore della magistratura (Csm) nei tribunali dove si registrano i più gravi ritardi nello smaltimento dei processi. Saranno sessanta al massimo i giudici trasferiti. Il team sarà scelto dal Csm verificando prima le scoperture di organico dei tribunali di provenienza, che non potranno essere superiori al 20 per cento. Non solo. A muoversi, si legge, saranno i magistrati degli uffici “in cui il numero e il tempo medio prevedibile di definizione dei procedimenti civili rilevanti ai fini del Pnrr sono inferiori ai rispettivi valori medi nazionali”. Ovvero, solo chi ha dimostrato di saper procedere spediti lungo i binari tracciati dalla roadmap europea. Perché un “bonus Pnrr”? Semplice: perché per i magistrati che dovranno fare le valigie e spostarsi nelle sedi più “disagiate”, dove le montagne di fascicoli affastellati sono più alte, saranno previsti incentivi. Anzitutto, scatti di anzianità più veloci. “Il magistrato applicato - prosegue il decreto, avrà accesso “a un punteggio di anzianità aggiuntivo pari a 0,10 per ogni otto settimane di effettivo esercizio di funzioni”. E a un’indennità extra pari “allo stipendio tabellare di un magistrato ordinario con tre anni di anzianità”. È una soluzione temporanea, certo. Anche perché la “task force” Pnrr sarà composta da giudici che dovranno lasciare parzialmente scoperti i tribunali dove operano oggi. E infatti è solo un tassello di un puzzle più ampio. Gli arretrati del processo civile sono la vera “mission impossible” del governo Meloni alle prese con le scadenze del Recovery europeo. L’obiettivo iniziale di ridurre del 90 per cento entro giugno 2026 l’arretrato si è dimostrato, nei fatti, irraggiungibile. Per questo Palazzo Chigi, d’intesa con il ministero guidato da Carlo Nordio, ha cercato una mediazione con la Commissione europea a fine anno. Strappando ai negoziatori di Bruxelles una rimodulazione dei target ritenuti oggi più alla portata grazie a un nuovo step intermedio: la riduzione, entro la fine del 2024, del 65 per cento dell’arretrato civile in Tribunale e del 55 per cento nelle Corti di Appello. Nel frattepo, si prova in ogni modo a spingere sull’acceleratore. Come? Ad esempio con il sistema di incentivi e sanzioni introdotto con la riforma della magistratura ordinaria approvata dal Parlamento in attuazione di una delega della legge Cartabia. Con la previsione, ogni 4 anni, di una “pagella” da parte del Csm per decidere gli avanzamenti di carriera delle toghe. Il ritardo nello smaltimento dei processi è uno dei parametri chiave per il giudizio di merito di Palazzo dei Marescialli. E ancora, nell’ottica di coprire le carenze di organico, la previsione di uno stage ridotto - da diciotto a dodici mesi - per gli ottocento giovani magistrati che passeranno quest’anno il concorso, in modo da spedirli subito nei tribunali. Le opposizioni si dividono sul sequestro dei cellulari di Mario Di Vito Il Manifesto, 11 aprile 2024 Dal Senato ok al ddl Smartphone: il Pd si astiene, mentre il M5s vota contro e attacca. Pd e Movimento Cinque Stelle si dividono sul ddl Smartphone che toglie ai pm la possibilità di sequestrare i telefonini e li obbliga a farsi autorizzare da un gip. Al Senato i voti favorevoli sono stati 89 (la maggioranza più Italia Viva), 18 i contrari (il M5s) e 34 gli astenuti (il Pd). Una frattura evidente su un tema delicatissimo come la giustizia, anche se manca un passaggio alla Camera e la questione si è consumata tutta nel giro di poche ore, senza grandi sussulti nell’opinione pubblica e con un dettaglio non irrilevante: tutti, persino il M5s che un anno fa aveva presentato una proposta di legge sul tema, sono di per sé favorevoli al fatto che il pm non possa più da solo sequestrare uno smartphone. Sia pure con qualche distinguo nei modi e nei termini. Roberto Scarpinato lo ha detto chiaro e tondo nel suo (comunque durissimo) intervento: “Va bene che deve decidere il giudice, ma la maggioranza ha debordato prevedendo questo anche per i documenti che non rientrano nella corrispondenza, come quelli bancari, le ricevute”. Da qui, secondo il senatore ed ex pm, il rischio di “paralisi in ogni piccolo tribunale per cui non ci saranno più giudici per i collegi”. Quindi l’approvazione del senato del ddl diventa “una Caporetto della legalità, con procedure farraginose e senza copertura costituzionale”. Nel merito la questione riguarda il nuovo articolo 254 ter del codice di procedura penale: il pm dovrà chiedere al gip il sequestro. Poi, in caso di autorizzazione, entro cinque giorni ci dovrà essere l’avviso alla persona sottoposta alle indagini, che hanno diritto a partecipare allo svolgimento delle operazioni di duplicazione del contenuto del dispositivo ed eventualmente possono anche impugnare il provvedimento davanti al Riesame e poi in Cassazione. Se il pm vuole sequestrare “dati inerenti a comunicazioni, conversazioni o corrispondenza informatica inviate e ricevute” deve chiedere una nuova autorizzazione al gip, che pure potrà essere oggetto di ricorso da parte dell’indagato. “Il rischio reale adesso è quello di rendere le indagini più complicate, un labirinto, con decisioni impugnabili due volte e in Cassazione, difficoltà degli investigatori e non dei vantaggi, con uno scarico di lavoro sui gip, che per giunta in futuro diventeranno un collegio di giudici”, spiega Walter Verini del Pd, che tuttavia vede possibilità di miglioramento del testo. “Siamo stati tentati di votare contro per via del pasticcio - prosegue -, ma magari alla Camera ci potrà essere un ripensamento”. In effetti la possibilità di convergenza tra maggioranza e opposizione c’era, magari a partire dai testi del forzista Zanettin e del grillino Scarpinato. Ma, dice ancora Verini, “la maggioranza ha respinto tutti gli emendamenti e ha fatto un pasticcio”. La maggioranza ha respinto gli emendamenti e fatto un pasticcio. Siamo stati tentati di votare contro, ma alla Camera può essere diverso Italia Viva, come sua prassi, ha fatto opposizione all’opposizione. Matteo Renzi se l’è presa direttamente con Scarpinato, “colpevole” di aver usato la parola “malintenzionati” nel suo intervento. “Provo un senso di disappunto quando un membro del Senato, un ex pm, si permette di parlare di garanzie costituzionali dei cittadini che chiama “malintenzionati”, anche se non è stata provata ancora l’effettiva commissione di un reato”, ha detto Renzi. E Scarpinato ha replicato: “Da pm ho avuto spessoa che fare con dei malintenzionati”. Uno scontro dialettico in verità piuttosto buffo, che non aggiunge molto al merito della vicenda ma che testimonia una volta di più la pessima considerazione reciproca tra i cosiddetti riformisti e i pentastellati. Ma che ci faceva Cantone in Parlamento? di Giuseppe Di Federico L’Unità, 11 aprile 2024 È stata un’iniziativa senza precedenti, quella del procuratore di Perugia di riferire su indagini in corso. Da ora varrà per tutti? Anche per i giudici? Su un caso di notevole rilievo istituzionale è sceso il silenzio. Mi riferisco all’episodio di cui è stato protagonista il procuratore della Repubblica di Perugia, Raffaele Cantone, che ha chiesto ed ottenuto di essere udito dalla Commissione antimafia del Parlamento su un caso giudiziario di cui è titolare e su cui sta ancora svolgendo indagini, cioè quello degli accessi abusivi alla banca dati della Direzione nazionale antimafia. Il procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani, definito “inusuale” l’iniziativa di Cantone. Si tratta in effetti di un evento “senza precedenti, non previsto né regolato dal nostro ordinamento giudiziario”. Su un caso di notevole rilievo istituzionale è sceso il silenzio. Mi riferisco all’episodio di cui è stato protagonista il procuratore della Repubblica di Perugia, Raffaele Cantone, che ha chiesto ed ottenuto di essere udito dalla commissione antimafia del Parlamento su un caso giudiziario di cui è titolare e su cui sta ancora svolgendo indagini, cioè quello degli accessi abusivi alla banca dati della Direzione nazionale antimafia. Nell’immediatezza dell’evento il procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani, che istituzionalmente è preposto alla sorveglianza della Procura diretta da Cantone e che era stato tenuto all’oscuro dell’iniziativa, ha detto di aver avviato controlli “su eventuali anomalie” che si sarebbero verificate nella vicenda e ha inoltre definito “inusuale” l’iniziativa di Cantone “di riferire al Parlamento su una indagine in corso”. Si tratta in effetti di un evento “inusuale” senza precedenti, non previsto né regolato dal nostro ordinamento giudiziario. Di un evento che solleva questioni di notevole rilievo istituzionale che riguardano sia il ruolo del pubblico ministero (quello che può fare e quello che non deve fare) sia i rapporti tra i poteri dello Stato, e nel caso specifico quello tra potere giudiziario e potere legislativo. Tuttavia né il ministro della Giustizia né il Csm, né esponenti del mondo accademico hanno espresso valutazioni critiche a riguardo di quella audizione. Se ne deve quindi dedurre che quanto accaduto sia a loro giudizio pienamente legittimo? Considerarlo tale ha tuttavia molteplici implicazioni di notevole rilievo. Vuol cioè dire che da ora in poi qualsiasi capo di una procura della Repubblica può richiedere di essere ascoltato dal Parlamento sulle indagini che sta svolgendo e che sta al Parlamento decidere se ascoltarlo o no? Il procuratore lo può fare in ogni caso o solo quando il caso ha una grave valenza politica come nel caso delle indagini che Cantone sta conducendo sulla fuga di notizie dalle banche dati della Direzione nazionale antimafia? Lo può fare solo il pm o anche un giudice con riferimento ad un caso giudiziario che sta giudicando? Se così non fosse quali sono le ragioni per cui il pm lo può fare ed il giudice no? In passato il nostro Csm si è già occupato di valutare l’opportunità delle audizioni di magistrati da parte di commissioni parlamentari in circostanze del tutto simili a quelle di cui ci stiamo qui occupando. Infatti il 14 febbraio 2006 il nostro Csm (sfidando il senso del ridicolo) ha censurato duramente il Parlamento della Francia che aveva convocato un magistrato di quel paese perché riferisse su un caso giudiziario di sua competenza che aveva suscitato scalpore anche a livello politico (affaire d’Outreau). In quel caso il nostro Consiglio ha affermato che il Parlamento francese aveva determinato “uno stravolgimento della separazione dei poteri” e violato l’indipendenza della magistratura. Sul caso del procuratore Cantone, che al pari del magistrato francese ha riferito in parlamento su un caso di sua competenza, il Csm ha taciuto. Vuol forse dire che uno stravolgimento della separazione dei poteri si verifica solo quando è il Parlamento che convoca il magistrato ma non lo è quando è il magistrato che chiede al Parlamento di voler riferire su un caso giudiziario di sua competenza e su cui sta indagando? Finora tutte queste domande sono rimaste senza risposta. Sembra che tutti vogliano evitare di esprimersi sulla vicenda e sulle implicazioni istituzionali ad essa connesse. Sembra chiara la volontà di stendere un velo pietoso sulla vicenda. Anche le iniziative per fare chiarezza che erano state annunciate sono state subitaneamente e definitivamente interrotte. Contrariamente a quanto annunziato, il Procuratore generale di Perugia sembra aver rinunciato a indagare sulla “inusuale” iniziativa del Procuratore Cantone “di riferire al Parlamento su una indagine in corso”. Il Procuratore Cantone, che aveva chiesto di essere ascoltato non solo dal Parlamento ma anche dal Csm ha rinunciato a questa seconda opzione. Il Csm, che da tempo non perde occasione per auto-attribuirsi (ed esercitare) il compito di “vertice organizzativo della magistratura”, in questo caso sembra aver gradito la decisione di Cantone di riferire solo al Parlamento. Ha così evitato l’imbarazzo di dire se Cantone ha abusato dei suoi poteri ed eventualmente sanzionarlo, oppure, in alternativa, se sia legittimo che i capi delle Procure (o anche i giudici) possano rivolgersi al Parlamento per riferire sui casi giudiziari di cui si stanno occupando. C’era una volta il garantismo: ecco l’Antimafia della destra di Giulia Merlo Il Domani, 11 aprile 2024 La Commissione è diventata il palcoscenico per inchieste mediatiche, da Bari a Palermo. Parlano le procure, ma per prassi gli indagati no. Laudati, coinvolto a Perugia, non sarà ascoltato. La vocazione garantista del centrodestra si ferma - o almeno rallenta bruscamente - davanti alla porta della commissione Antimafia. Guidata da Chiara Colosimo, che è deputata vicinissima ad Arianna e Giorgia Meloni, la commissione è tornata alla ribalta grazie all’interessamento in tutti i casi giudiziari che in questi mesi hanno avuto più attenzione mediatica, con l’effetto di amplificarli con inevitabili riverberi anche di natura elettorale. Commissione parlamentare bicamerale d’inchiesta, l’Antimafia è ormai di fatto una commissione permanente con poteri di indagine molto intensi, che permettono di entrare nel merito anche di inchieste in corso e di agire attraverso audizioni con gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria. Una funzione non da poco, che ha trasformato i banchi della commissione in un megafono strategico, dal quale anche il segreto istruttorio rischia di essere trascinato via. L’ultima mossa in ordine di tempo è stata quella di chiedere di acquisire gli atti delle tre inchieste in corso, appena scoppiate in altrettanti capoluoghi di regione e che hanno riguardato voto di scambio. In tutti e tre i casi, il clamore mediatico al momento della notizia è stato massimo e sta già influenzando le campagne elettorali regionali e comunali: Torino, con l’inchiesta a carico di Raffaele Gallo (padre di un consigliere regionale del Pd) in merito agli appalti dell’autostrada A32 e le sue commistioni sulla politica; Palermo, dove è stato arrestato l’esponente di FdI Mimmo Russo ma soprattutto Bari, dove le indagini hanno portato il Viminale a inviare la commissione d’accesso per valutare le possibili infiltrazioni mafiose nel comune. Delle tre, la più rilevante in termini politici è l’inchiesta barese, con il possibile esito del commissariamento del comune guidato dal centrosinistra in seguito all’iniziativa del ministero dell’Interno, a pochi mesi dal voto di giugno. L’iniziativa del Viminale ha visto indirettamente coinvolta anche la commissione Antimafia, visto che il suo vicepresidente Mauro D’Attis, di Forza Italia, ha partecipato alla delegazione di sette parlamentari di centrodestra che hanno chiesto al ministro Matteo Piantedosi di “valutare l’invio” della commissione. A breve, dunque, in Antimafia sfileranno tutti i soggetti a vario titolo interessati dal caso Bari: ieri è stato il turno di Giulia Romanazzi, presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Bari, ma poi toccherà al sindaco di Bari Antonio Decaro e al presidente della Regione Puglia Michele Emiliano. Poi, ragionevolmente, si passerà a Torino e Palermo. Si tratta di inchieste tutte ancora in corso, con contorni ancora non del tutto definiti a livello di indagine e ancora molti atti coperti da segreto. E se - come è stato nelle ultime occasioni - le audizioni non saranno secretate, il risultato rischia di essere quello di dare un palcoscenico a quel processo mediatico che sulla carta il centrodestra sta avversando sul piano legislativo. Come, per esempio, con l’iniziativa di rendere non pubblicabile per estratto l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Del resto, così è stato in un caso molto recente. La commissione Antimafia, infatti, ha accolto la richiesta di audizione del procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone e del procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, in merito all’inchiesta sulla fuga di notizie dalla Procura nazionale antimafia, che vede indagati un finanziere, un magistrato e anche tre giornalisti di Domani. Rispondendo alle domande dei parlamentari, Cantone ha reso pubblica l’esistenza di un’inchiesta aperta dalla procura di Roma e fino a quel momento non nota. Con l’effetto distorsivo paradossale di parlare pubblicamente (a indagine in corso ancora nella fase preliminare) di un’indagine per fuga di notizie, rivelando lui stesso dettagli ancora inediti. A bollare come “inusuale” la richiesta di audizione, del resto, è stato il procuratore generale di Perugia Sergio Sottani, che ha reso noto che verificherà “il corretto bilanciamento tra doveroso diritto dell’opinione pubblica ad essere informata nella fase delle indagini e il rispetto della presunzione di innocenza”. A dimostrare come la commissione Antimafia rischi di diventare l’anticamera del processo prima ancora che le indagini siano concluse è stata la richiesta di essere audito avanzata anche dal pm antimafia indagato, Antonio Laudati. Dopo le bordate di Cantone e Melillo, che ha parlato di “mandanti occulti”, Laudati si è difeso dicendo di non aver “mai costruito dossier” e di aver agito “sotto il pieno controllo del procuratore nazionale antimafia”. Ora, vorrebbe avere anche lui spazio per presentare pubblicamente le sue ragioni e rispondere alle domande dei parlamentari. La sua audizione, però, non è stata calendarizzata e difficilmente lo sarà. “La prassi della commissione è di non ascoltare mai gli indagati, per non interferire con le indagini”, spiega una fonte. Il finanziere Pasquale Striano non ha chiesto l’audizione, ma sulla base della stessa prassi l’Antimafia non lo chiamerà. Questa dunque è la linea della commissione, anche sugli altri casi che ora sono attenzionati: gli indagati - se rinviati a giudizio - potranno difendersi solo nell’eventuale processo. Nel frattempo, invece, la commissione potrà ascoltare la voce della magistratura. Accendendo sì un faro su indagini per fatti gravi potenzialmente connessi alla mafia, ma anche aggiungendo utile rumore intorno alle inchieste più rilevanti per le possibili conseguenze elettorali. Il “caso dossieraggio” è sparito. Ma non era lo scandalo del decennio? di Ermes Antonucci Il Foglio, 11 aprile 2024 Per settimane non si è parlato d’altro. Ora il silenzio. Ciò che è certo, per ora, è che non è emersa l’esistenza di alcun dossier. Insomma, il “caso dossieraggio” non esiste. Al massimo si può parlare di accessi abusivi alle banche dati, vicenda meno attraente per il lettore medio. Per settimane è stato rappresentato come lo scandalo del decennio: migliaia di accessi abusivi alle banche dati della procura nazionale antimafia, fughe di notizie, creazione di dossier su politici, imprenditori e personaggi famosi, rapporti distorti fra inquirenti e giornalisti, l’ombra del coinvolgimento di servizi segreti stranieri. Poi il “caso dossieraggio” è sparito completamente dai radar del dibattito pubblico e politico. Neanche una parola. Ci sarebbe quasi da rallegrarsi, se non fosse che il segreto delle indagini è ormai da tempo andato a farsi benedire. Raffaele Cantone, capo della procura di Perugia, che sta conducendo l’inchiesta, in un’audizione di oltre due ore alla commissione Antimafia ha infatti elencato tutte le principali risultanze investigative raggiunte finora: gli accessi abusivi effettuati dal finanziere Pasquale Striano, principale indagato, sono risultate “oltre diecimila”; Striano “ha scaricato 33.528 file dalla banca dati della Direzione nazionale antimafia”; al momento non sono emersi elementi tali da far pensare a finalità economiche della sua attività; “con alcuni giornalisti Striano aveva rapporti di amicizia personali”. E tanto altro. Fatto sta che dopo il tam tam iniziale, l’attenzione sul caso si è interrotta. Segno forse che le indagini non stanno fornendo i riscontri attesi. Ciò che è certo, per ora, è che non è emersa l’esistenza di alcun dossier in senso stretto. Insomma, il “caso dossieraggio” non esiste. Al massimo si può parlare di “caso accessi abusivi alle banche dati”. Tutta un’altra cosa, di sicuro meno attraente per il lettore medio. L’inchiesta non solo sembra essersi fortemente ridimensionata, ma rischia di subire un clamoroso scossone. Il magistrato Antonio Laudati, indagato per alcuni accessi abusivi e responsabile per un periodo del gruppo Sos (segnalazioni operazioni sospette) a cui faceva riferimento Striano, ha chiesto di essere sentito in commissione Antimafia. Nella richiesta, Laudati ricorda che il caso ha preso avvio dalla denuncia del ministro Crosetto dopo la pubblicazione di un articolo sulla sua precedente attività professionale. Laudati spiega di aver verificato che nessun accertamento nei confronti di Crosetto è mai stato effettuato dall’ufficio Sos della procura nazionale antimafia: gli accessi sono stati effettuati sulla banca dati in dotazione alla Guardia di Finanza, nei cui uffici Striano lavorava tre giorni a settimana. Laudati aggiunge che in quelle occasioni non avrebbe logicamente potuto esercitare alcuna direzione né controllo sulle attività di Striano. Se ciò fosse confermato, significherebbe che la competenza sui fatti al centro del caso sarebbero di competenza della procura di Roma e non di Perugia, competente per i reati che coinvolgono i magistrati in servizio nella Capitale. Si ricomincia da capo? “Minacce agli indagati”, condanne definitive per i due pm di Trani di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 11 aprile 2024 La Corte di Cassazione (Sezioni Unite civili, presidente D’Ascola, estensore Patti) ha rigettato i ricorsi dei magistrati Alessandro Donato Pesce e Michele Ruggiero contro la sentenza del Csm, con la quale la sezione disciplinare dell’organo di autogoverno della magistratura aveva dichiarato Ruggiero e Pesce responsabili di alcuni illeciti disciplinari. Ai due ex sostituti procuratori, in servizio negli anni scorsi a Trani, sono state contestate condotte gravemente scorrette ai danni di alcune persone coinvolte in procedimenti penali pendenti presso la procura tranese. Tra le contestazioni, nell’ambito di diversi procedimenti disciplinari nel frattempo avviati, le violazioni “dei doveri di imparzialità, correttezza, equilibrio e rispetto della dignità della persona, nell’esercizio delle funzioni di sostituti procuratori della Repubblica presso il Tribunale di Trani”, e violazioni di legge ricorrendo “a metodi di indagine idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione e ad alterare la capacità di memoria e di valutazione di specifiche circostanze”. In seguito agli approfondimenti effettuati da Palazzo dei Marescialli emerse che le due toghe usarono “toni marcatamente offensivi, denigratori e pure evidentemente minacciosi nei confronti dei soggetti escussi”. Una condotta assolutamente incompatibile con la funzione svolta. La Sezione disciplinare del Csm aveva già disposto la sospensione dalle funzioni di Ruggiero (per due anni) e di Pesce (per nove mesi), disponendo il trasferimento del primo presso il Tribunale di Torino e del secondo al Tribunale di Milano, entrambi con funzioni di giudice civile. Nel settembre 2023, Pesce e Ruggiero hanno proposto ricorso per Cassazione, rispettivamente con quattro motivi, illustrati da memoria finale, e con cinque motivi. Il procuratore generale ha chiesto il rigetto di entrambi i ricorsi. Tra i passaggi più significativi della sentenza pubblicata ieri si segnala quello in cui i giudici della Cassazione esaminano la possibilità, in materia di procedimento disciplinare a carico di magistrati, che la Sezione disciplinare del Csm possa disporre il trasferimento ad altra sede o ad altro ufficio. L’interpretazione della norma (il riferimento è all’articolo 13, primo comma, del D. lgs. 106/ 2006) prevede entrambe le misure, “senza escluderne il cumulo, poiché la ratio della norma non è quella di sanzionare ulteriormente il magistrato, ma di impedire che il contesto ambientale in cui esso opera, rispetto al quale sono rilevanti sia la sede che le funzioni svolte, determini ulteriori violazioni disciplinari lesive del buon andamento della giustizia: tutelando, pertanto, un interesse pubblico riconducibile all’articolo 97 della Costituzione e all’intero Titolo IV della Costituzione”. Michele Ruggiero in uno dei motivi - il terzo, per la precisione del ricorso presentato ha rilevato la “manifesta illogicità della motivazione”, in quanto la Sezione disciplinare del Csm ha disposto nei propri confronti, unitamente alla sanzione di sospensione dalle funzioni giudiziarie per la durata di due anni, il trasferimento d’ufficio al Tribunale di Torino, “con l’obiettivo del proprio radicale allontanamento dal distretto nel quale avrebbe commesso le condotte incriminate”. Inoltre, l’ex sostituito procuratore, che a Trani indagò su alcune agenzie di rating e sulla Deutsche Bank, ha considerato “punitivo” il trattamento nei propri confronti da parte del Csm, in quanto contrario al principio di buon andamento dell’amministrazione della giustizia, “in violazione pure del diritto al rispetto della propria vita familiare”. Anche su questo punto la Cassazione si è pronunciata, ritenendo inammissibile il motivo del ricorso. L’argomentazione della Suprema Corte è molto chiara. “Secondo insegnamento consolidato di queste Sezioni Unite - scrivono i giudici -, in materia di procedimento disciplinare a carico di magistrati, l’applicazione della sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio, salvo il necessario presupposto rappresentato dall’irrogazione di una sanzione principale, diversa dall’ammonimento e dalla rimozione, è rimessa ad un apprezzamento di fatto della Sezione disciplinare del Csm, non sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato”. “Verità per Giuseppe Uva”. La Cedu apre un procedimento di Luigi Manconi e Chiara Tamburello La Repubblica, 11 aprile 2024 Giuseppe Uva è morto il 14 giugno del 2008 nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo, a Varese, dopo aver passato la notte in una caserma dei carabinieri. Aveva 43 anni e, solo qualche ora prima che incontrasse la morte, stava trascorrendo una serata con gli amici in un bar, a bere e a guardare l’Italia giocare contro la Romania (in occasione dei Campionati europei di calcio). Dopodiché, Uva e l’amico Alberto Biggiogero, tornano verso casa a piedi ed è a quel punto che si accorgono di alcune transenne accatastate all’angolo di una strada. I due, euforici a causa dell’alcol, spostano le transenne in mezzo alla via bloccando il traffico. Vengono avvistati da una pattuglia di carabinieri e prende avvio quella vicenda tragica che riportiamo, seguendo il racconto che ne farà il testimone oculare Biggiogero nella denuncia presentata il giorno dopo la morte di Uva. Dopo un breve inseguimento e una colluttazione, ai militari si aggiungerà l’equipaggio di un’auto della polizia. Uva e Biggiogero vengono portati alla caserma di via Saffi, dove convergeranno altre due pattuglie. In conclusione quattro vetture, ovvero due carabinieri e sei poliziotti, per due persone in evidente stato di ebbrezza. Giunti in caserma, Uva e Biggiogero vengono separati. Il secondo, in sala d’aspetto, ascolterà nitidamente le urla di Uva, le sue richieste di aiuto e i rumori e i tonfi delle violenze cui sarebbe stato sottoposto. Chiama un’ambulanza, che non arriva. In compenso, dopo alcune ore, si presenta un medico che dispone per Uva un Trattamento sanitario obbligatorio (Tso): e, così, l’uomo viene ricoverato nel reparto psichiatrico dell’ospedale Circolo, dove morirà la mattina successiva. La sorella Lucia potrà vedere il cadavere sul tavolo dell’obitorio e riuscirà a fotografare lesioni, tumefazioni, lividi e perdite di sangue. Da qui parte la sua battaglia, che durerà oltre tre lustri e che dovrà affrontare frustrazioni e offese, sconfitte e umiliazioni. E un percorso giudiziario segnato profondamente dall’attività (e dalla non attività) del procuratore Agostino Abbate. Infine, dopo rinvii e differimenti, depistaggi e omissioni, il processo si conclude nel luglio del 2019, quando la Corte di Cassazione conferma le assoluzioni di primo e secondo grado dei sei poliziotti e dei due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale. Tutto sembrava essersi concluso, e definitivamente, con il corpo di Uva e le sofferenze sue e dei suoi familiari consegnati all’oblio. Ma poi, ecco il provvedimento della Corte europea dei diritti umani (Cedu) del 26 marzo 2024. La Corte dispone la trasmissione del ricorso al governo italiano e l’apertura di un procedimento che si articola in due tempi. La prima è una fase non contenziosa in cui i ricorrenti (i familiari di Uva) e il governo italiano sono invitati a cercare una composizione amichevole della vertenza. Qualora non si arrivasse a un accordo entro il prossimo 28 giugno si aprirà la fase del contenzioso. Essa prevede che il governo italiano risponda a una serie di specifiche domande, e cioè che dica alla Corte: 1) Giuseppe Uva è stato o meno sottoposto a trattamenti inumani e degradanti da parte delle forze di polizia in violazione dell’art. 3 della Cedu? 2) Le indagini sui fatti che hanno portato alla morte di Giuseppe Uva sono state adeguate e tempestive? In particolare, lo Stato italiano dovrà dire alla Corte quali siano state le circostanze in cui Uva è stato portato presso la caserma, così come i fatti che vi sono avvenuti mentre era privato della libertà. Inoltre, dovrà precisare su quale base giuridica Giuseppe Uva è stato fermato e trattenuto in custodia. Si apre, in tal modo, un importante spiraglio per il raggiungimento della verità su quella morte tanto atroce, fatta oggetto di mille manipolazioni e di altrettanti travisamenti. Resta la limpidissima figura di Lucia Uva che, assistita solo dai suoi legali e da “A buon diritto onlus”, ha saputo credere - nonostante tutto - nella giustizia degli uomini. Marche. Il Garante Giulianelli: “Troppi tentativi di suicidio e mancano posti nelle Rems” di Antonio Pio Guerra Corriere Adriatico, 11 aprile 2024 Troppi tentativi di suicidi nelle carceri marchigiane, con picchi impressionanti (un gesto autolesionistico ogni due giorni) nel penitenziario anconetano di Montacuto. E troppi delitti commessi da pazienti psichiatrici, che anziché del carcere avrebbero bisogno di strutture dove scontare misure di sicurezza sostitutive della pena, nei casi di incapacità di intendere e volere. Un tema rilanciato ieri dal garante regionale dei diritti (anche) dei detenuti, avvocato Giancarlo Giulianelli “C’è interesse della Regione per creare un nuovo modulo Rems. È una prospettiva a medio termine”, ha detto in una conferenza stampa sul tema del disagio psicologico nelle carceri, sottolineando la necessità di una seconda Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, erede dei vecchi ospedali psichiatrici giudiziari. Nella nostra Regione ce ne è soltanto una, da 20 posti, a Macerata Feltria. “Attualmente gli ospiti sono 24 - ha spiegato Giulianelli - Ed in lista di attesa ce ne sono altri 13. Ho parlato col presidente Acquaroli di questa esigenza e si è recato a Roma per sollecitare il Governo affinché venga creata una seconda Rems marchigiana”. I numeri - Il problema delle patologie psichiatriche in carcere, del resto, tocca da vicino le Marche. Non solo perché il primo suicidio in carcere del 2024 è stato quello di Matteo Concetti, detenuto in isolamento a Montacuto e sofferente di un disturbo bipolare. Ma anche perché, sempre nel carcere anconetano, nel 2023 sono stati registrati 187 atti di autolesionismo, “un dato che fa riflettere”. La situazione critica viene fotografata anche dall’ultimo report di Antigone, l’associazione che ispeziona e valuta le carceri italiane. Emerge che la somministrazione di farmaci sedativi o ipnotici riguarda 41 detenuti ogni 100. Numero che diventa di 20 su 100 se parliamo di antidepressivi e stabilizzanti per l’umore. “Il disagio psicologico dipende da molti fattori, compresa la mancanza di affettività ed il numero limitato di telefonate, 4 al mese”, spiega il garante. Proprio sul fronte della affettività, una recente sentenza della Corte Costituzionale impone ai penitenziari di permettere ai reclusi di incontrare i partner. Ma “le nostre carceri non sono adeguate per questo”. E “una delle cose che i detenuti lamentano spesso è la carenza di momenti per contattare famigliari e affetti”. E non aiuta la carenza di personale sanitario. “Al 31 dicembre erano presenti negli istituti penitenziari 17 psicologi e 17 funzionari per il giuridico pedagogico dell’area trattamentale con quattro responsabili”, spiega il garante. Barcaglione e Montacuto avrebbero a disposizione 149 ore per 416 detenuti, Villa Fastiggi 112 per 244, Marino del Tronto 58 per 92, Fossombrone 34 per 85; Fermo 35 per 57. Pesa anche la carenza di polizia penitenziaria: mancano 184 agenti, quando solo la pianta organica di Montacuto ne prevede 176. Cronico anche il sovraffollamento, che a Pesaro sfonda quota 160% ed a Montacuto arriva al 126%. Torino. La relazione annuale del Garante dei detenuti: “In carcere a condizioni degradanti” di Nicolò Fagone Corriere di Torino, 11 aprile 2024 La relazione annuale sul Lorusso e Cutugno: 1.429 detenuti (la capienza è di 1.029) e cinque suicidi nel 2023. La relazione annuale, che analizza la situazione delle persone private della loro libertà personale al Lorusso e Cutugno e all’istituto penale per minorenni Ferrante Aporti, certifica condizioni degradanti: a Torino nel 2023 si sono registrati 5 suicidi (69 in tutta Italia) e quasi 60 carcerati hanno compiuto gesti “anticonservativi”. L’ultimo caso appena 5 giorni fa, quando una ragazza ha cercato di suicidarsi nella sua cella, all’interno della casa circondariale Lorusso e Cutugno. E non si è trattato della prima volta. La 23enne soffre di disturbi psichici, e altre persone detenute hanno raccontato ai propri familiari che avrebbe subito maltrattamenti dagli agenti penitenziari. Saranno le indagini a far luce sul caso, che allo stesso tempo offre comunque uno spaccato fedele sul contesto di disagio e sofferenza che si respira nel carcere torinese (e non solo). La conferma arriva direttamente dalla relazione annuale, che analizza la situazione delle persone private della loro libertà personale al Lorusso e Cutugno e all’istituto penale per minorenni Ferrante Aporti. A Torino nel 2023 si sono registrati 5 suicidi (69 in tutta Italia), l’ultimo il 24 marzo, e quasi 60 carcerati hanno compiuto gesti “anticonservativi”. E nel frattempo il numero delle persone detenute continua a salire, mentre parallelamente peggiorano le condizioni di vivibilità a causa dei tassi di affollamento. Nel carcere torinese al 31 marzo 2024 si contano 1.429 detenuti, a dispetto di una capienza di 1.095 posti. Per tutto il 2023 il numero dei detenuti non è mai sceso sotto i 1.400 e ha toccato anche quota 1.483, mentre gli ingressi sono stati 2.766, ovvero 100 in più del 2022. E così almeno 588 persone vivono in condizioni che la Corte europea dei diritti dell’uomo definisce “inumane e degradanti”. “Numeri così elevati comportano una contrazione dello spazio a disposizione dell’intera comunità penitenziaria - ha affermato durante la presentazione del report Monica Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà di Torino - una riduzione del tempo che gli operatori possono dedicare alle persone detenute, una frammentazione delle proposte trattamentali, maggiori difficoltà per l’accesso alle cure mediche e un aumento della conflittualità interna”. In quanto ai costi, invece: “Spendiamo 16 mila euro al giorno tra acqua, teleriscaldamento ed energia - aggiunge Gallo - e questo soprattutto per le ingenti e persistenti perdite d’acqua che sono causa del degrado e della fatiscenza dei locali doccia per i detenuti”. E gli eventi critici si sprecano. Durante l’anno passato si sono registrati 135 atti di aggressione, 1.857 infrazioni disciplinari e 270 manifestazioni di protesta, tra scioperi della fame e rifiuti della terapia sanitaria. Nel report, curiosamente, sono elencati tutti i dati dei detenuti, ma mancano all’appello gli atti di contenimento e gli isolamenti disciplinari. Al Ferrante Aporti invece ci sono 47 detenuti (dicembre 2023), e ben 35 di questi sono minori tra i 14 e i 18 anni. L’anno scorso si sono registrati 161 ingressi, di cui 48 italiani. Nel Rapporto, inoltre, è contenuto un capitolo dedicato ai giovani: “Il loro malessere è sempre più diffuso - conclude Gallo - anche fuori dal carcere. Nel 2022 i ragazzi sottoposti a tso sono stati 60, a fronte dei 34 nel 2021, con un incremento pari al 76%. In media, a ogni turno in pronto soccorso, almeno 4 adolescenti arrivano dopo un tentativo di suicidio che necessita il ricovero ospedaliero”. Viterbo. Morto in carcere a 26 anni, il pm archivia. L’autopsia: intossicazione da farmaci latinaoggi.eu, 11 aprile 2024 I familiari del giovane detenuto sono pronti ad impugnare la richiesta di archiviazione. Il fascicolo aperto contro ignoti. È morto per un arresto cardiocircolatorio dovuto ad un’intossicazione acuta a causa di una sostanza contenuta in un farmaco. È questa la causa. Cosmin Tebuie, romeno di 26 anni, detenuto nel carcere Mammagialla di Viterbo dove è stato trovato senza vita un anno fa, non era sottoposto a cure farmacologiche e probabilmente non è escluso che qualcuno che le indagini non hanno individuato, gli avrebbe ceduto il farmaco. È questa la conclusione a cui è arrivata la Procura di Viterbo nel chiedere l’archiviazione contro ignoti in merito alla morte del detenuto romeno, residente a Latina, deceduto un anno fa in circostanze che sono tutte da chiarire. Il mistero resta. Era stato il pubblico ministero della Procura di Viterbo, Eliana Dolce ad affidare l’incarico al medico legale per eseguire l’autopsia. L’uomo è morto per un’insufficienza cardiorespiratoria acuta dovuta all’abuso di una sostanza il cui effetto sarebbe simile al metadone. La Procura di Viterbo, a seguito degli accertamenti condotti dai Carabinieri, aveva aperto un’inchiesta contro ignoti per il reato di omicidio colposo. Al termine degli accertamenti non sono emersi profili di responsabilità penale e i margini per esercitare l’azione penale. Sulla scorta della richiesta di archiviazione su cui si dovrà pronunciare il gip del Tribunale di Viterbo, i familiari di Tebuie, sono pronti ad opporsi alla prospettazione della Procura e chiederanno altri approfondimenti investigativi. I fatti contestati erano avvenuti la mattina del 28 marzo del 2023 quando un compagno di cella aveva fatto la scoperta e immediatamente aveva dato l’allarme al personale della Polizia Penitenziaria che era intervenuto. Cosmin Tebuie sarebbe morto nel sonno e in base ai primi riscontri sul corpo non erano stati trovati segni di violenza. In un secondo momento i Carabinieri del Comando Provinciale di Viterbo avevano condotto le indagini. Dagli accertamenti condotti dagli inquirenti è emerso che il ragazzo - poche ore prima di morire - aveva telefonato alla madre: le aveva detto che si sentiva bene. Non c’era stato niente che lasciasse presagire ad una tragedia così improvvisa. Tebuie stava finendo di scontare una condanna a quattro anni per una rapina e un incendio avvenuti a Borgo Grappa nel luglio del 2021. Il giovane aveva manifestato l’intenzione di intraprendere un nuovo percorso di vita una volta uscito dal carcere. Ferrara. Detenuto picchiato, condannati due agenti e l’infermiera del carcere di Federico Malavasi Il Resto del Carlino, 11 aprile 2024 Sette anni e mezzo per i poliziotti penitenziari, un anno per l’operatrice sanitaria. Disposto un risarcimento da cinquantamila euro: anche il ministero pagherà. La vittima era stata denudata, ammanettata e pestata. Le difese: “Faremo appello”. Quelle subite Antonio Colopi, all’epoca detenuto all’Arginone per omicidio, furono torture. O almeno questa è la convinzione a cui, dopo un lungo e articolato processo, è arrivato il collegio giudicante che ieri mattina ha condannato i due agenti di Polizia penitenziaria che si sarebbero resi responsabili del pestaggio e l’infermiera del carcere che li avrebbe ‘coperti’. La corte, dopo un paio d’ore di camera di consiglio, ha letto una sentenza con pene severe. Sette anni e mezzo di reclusione per gli agenti G.C. e M.V. (assistiti dagli avvocati Alberto Bova e Alessandro D’Agostino). Un anno di reclusione per l’operatrice sanitaria Eva Tonini (avvocato Denis Lovison), pena convertita in una multa da 7.300 euro. La professionista è stata inoltre assolta dall’accusa di favoreggiamento. Per lei è stato infine disposto un risarcimento danni da cinquemila euro. Per i due poliziotti il tribunale ha stabilito una provvisionale da cinquantamila euro da versare alla parte civile, in solido insieme al ministero della Giustizia (responsabile civile in questo processo). Per quanto riguarda gli agenti, il verdetto del giudice supera le richieste formulate dal pubblico ministero Isabella Cavallari (sei anni). Per l’infermiera il pm aveva chiesto un anno per il reato di falso e il proscioglimento per l’ipotesi di favoreggiamento. Le accuse discusse nell’ambito del processo (uno dei primi in Italia in cui veniva contestato il reato di tortura, all’epoca delle indagini appena introdotto) erano pesanti. I fatti si sarebbero consumati il 30 settembre del 2017. All’epoca Colopi (difeso dall’avvocato Paola Benfenati) si trovava in isolamento in una cella della casa circondariale estense. Gli agenti avrebbero raggiunto la stanza del detenuto per una perquisizione. Atto eseguito, a dire della procura, in maniera “arbitraria”. Qui, sempre secondo le accuse, si sarebbe consumata la violenza. Uno degli agenti sarebbe entrato mentre altri due (il procedimento contava anche un quarto imputato, che però ha già definito la propria posizione) sarebbero rimasti all’esterno a fare il palo. Dopo aver fatto spogliare il detenuto, il poliziotto lo avrebbe fatto inginocchiare e lo avrebbe ammanettato per poi colpirlo con calci e pugni allo stomaco, al volto e alle spalle. Non solo. Sempre secondo le accuse, Colopi sarebbe stato picchiato anche con uno strumento di metallo utilizzato per il controllo delle inferriate. A quel punto, il carcerato avrebbe avuto una reazione, colpendo l’operatore con una testata. La risposta sarebbero state altre minacce e botte, alle quali avrebbero partecipato pure gli altri due agenti. L’infermiera avrebbe infine ‘retto il gioco’ ai poliziotti, scrivendo il falso nelle comunicazioni ai colleghi. “Sono soddisfatto per la caduta del favoreggiamento - commenta l’avvocato Lovison -. Faremo comunque appello, ci sono margini per perfezionare il risultato”. L’avvocato Bova confidava “in un esito positivo, vista la perizia medico legale. Prendiamo atto e aspettiamo le motivazioni per presentare appello, convinti della nostra estraneità ai fatti”. Napoli. Isaia in salvo ma tanti fragili dimenticati nelle celle di Antonio Mattone Il Mattino, 11 aprile 2024 Alla fine l’accorato appello alla clemenza lanciato da don Mimmo Battaglia per Simone Isaia ha trovato ascolto. Il clochard, che nel luglio scorso incendiò la Venere degli stracci, dopo la riduzione della condanna, scesa da 4 anni a 2 anni e 6 mesi nel processo di appello, potrà scontare la pena in detenzione domiciliare presso il Centro pastorale carcerario della diocesi di Napoli. Don Mimmo, prima delle festività pasquali, aveva scritto una lettera al giudice chiamato a decidere su Isaia. Non si trattava di “un’intromissione indebita volta a influenzare il giudizio”, precisò, ma piuttosto l’assunzione di responsabilità verso “una persona in difficoltà, fortemente fragile, vissuta per diverso tempo in condizioni di marginalità sociale”. E nello stesso tempo l’ammissione di un fallimento: “Ogni qualvolta incontro queste storie - proseguì Battaglia - mi domando dove ero, dov’era la mia Chiesa, dov’era la comunità sociale”. Ancora una volta il ruolo della Chiesa si rivela determinante per cambiare prospettive di vita a persone segnate dalla povertà e dalla fragilità della mente. Il carcere certamente non poteva essere una soluzione per cercare di riabilitare il giovane senzatetto. Lo incontrai a Poggioreale qualche tempo dopo il suo arresto e bastò scambiare poche chiacchiere per capire che la mente seguiva percorsi contorti e fantasiosi a cui era difficile stare dietro. La disponibilità manifestata dalla chiesa di Napoli che, con i preti, le suore e i volontari fa un lavoro straordinario all’interno delle carceri cittadine, ha rappresentato l’aiuto più concreto per Simone. Occuparsene, avere cura, questa l’unica strada possibile per riabilitare. Che in termini laici si traduce con “presa in carico”, un concetto e una prospettiva troppo spesso ignorata e ingoiata dagli iter e dalle procedure burocratiche. Pensando alla storia di Simone Isaia mi è venuta in un’altra storia, finita invece in modo tragico. Moussa Traoré aveva 29 anni e veniva dal Mali. La sua breve esistenza si è spenta nel reparto clinico del carcere di Poggioreale lo scorso 21 marzo. Come Isaia viveva per strada e anche la sua vicenda era finita sulle prime pagine dei giornali. Una mattina dello scorso maggio dopo essere stato svegliato di soprassalto dagli operatori dei servizi sociali del Comune di Napoli e dai vigili urbani che gli avevano intimato di sgomberare, aveva colpito alla testa un casco bianco con una spranga di ferro. Un’arma che teneva con sè per difendersi dai furti e dagli assalti delle baby gang che di frequente subiscono i clochard. “Era salito con i piedi sul mio letto” mi ha ripetuto diverse volte. Il suo letto era il sacco a pelo sotto il quale dormiva. Il vigile, seppur gravemente ferito, estrasse la sua pistola d’ordinanza e sparò sette volte, colpendolo solo con un colpo alla gamba, per fortuna senza gravi conseguenze. Lo ricordo taciturno, con una voce flebile e due occhi che sembravano nascondersi nel viso. Ogni tanto gli portavo del sapone, qualche indumento e un pacchetto di sigarette. Lui timidamente ringraziava ma non sorrideva mai. Lo invitai al pranzo di Natale nella chiesa di Poggioreale ma quel giorno non si presentò. Dopo una settimana andai a trovarlo ma non mi diede nessuna spiegazione sulla sua assenza. Non era di molte parole e alcuni discorsi confusi e in parte inverosimili ci fecero pensare che avesse qualche deficit di natura psichiatrica. Una caduta repentina, era diventato molto magro, si era indebolito per la denutrizione fino a pesare 40 chili e il suo cuore cessò di battere. In generale, nelle carceri italiane, la condizione di tanti detenuti con problemi psichiatrici è davvero drammatica. E sono pochi i baluardi in grado di fronteggiare situazioni così gravi. Se la storia di Simone Isaia apre uno squarcio di speranza, resta un senso di amarezza e il ricordo dello sguardo perso di un ragazzo venuto dal Sud del mondo che ha visto sprofondare la propria vita nell’oblio di una prigione. Roma. Da Rebibbia al lavoro in Vaticano: storia di un detenuto di Claudio Bellumori L’Opinione, 11 aprile 2024 Fuori c’è quell’aria tipica che entra nella pelle dopo ore di pioggia. Dentro, invece, brilla la luce emanata dagli occhi di un detenuto romano, 36 anni, che da qualche mese è impiegato come elettricista in Vaticano. Il suo datore di lavoro è Fabbrica di San Pietro, ente preposto per le opere di manutenzione, appunto, della Basilica di San Pietro. Il racconto di questa esperienza, che si protrarrà ancora (il contratto è rinnovato fino al fine pena, ovvero sino agli inizi del prossimo anno), avviene all’interno della III casa circondariale di Rebibbia, nella Capitale. L’orario di lavoro è 7-13, dal lunedì al venerdì. A seguire, il rientro in cella. Si muove in autonomia con i mezzi pubblici. Esce alle 5,30. Prima sale sulla metro della linea B. Giunto alla Stazione Termini si sposta sul convoglio della linea A. Scende alla fermata Ottaviano. Infine, la passeggiata fino agli incarichi del giorno: quadri elettrici, rete internet e tutto quello che c’è da fare. Sa che deve seguire un determinato protocollo; sa che è sopra un treno da cui non vuole scendere (“ho lavorato tanto su me stesso per arrivare a questo punto”); sa che deve evitare gli assembramenti. Ma è entusiasta. E trasmette ciò che ha dentro con tutta l’energia possibile: “Il primo giorno di lavoro ho pensato subito a una cosa: non voglio arrivare in ritardo”. Senza dimenticare quella strana, particolare sensazione in metropolitana: “Ero in mezzo a tantissime persone, ero un numero. Nessun giudizio, nessun sospetto”. Un passaggio con il mondo in dissolvenza, verso uno spiraglio che fa guardare al domani con un’altra testa. Con i colleghi il rapporto è ottimo: “Simpaticamente mi chiamano Elettro-Rebibbia. Io ci rido sopra, perché so che adesso faccio parte di un gruppo. E per me è molto importante. All’inizio ero più diffidente io nei loro confronti che l’inverso, la detenzione porta anche a questo”. Però arrivare a tale punto non è facile, c’è un percorso che parte da lontano: “La mia forza - racconta - è essere rimasto vivo di testa. Ho fatto il capo-spesino (ovvero colui che raccoglie la spesa per i detenuti), ho seguito corsi di teatro e di sartoria, ho studiato. Sono sempre stato uno sportivo, ho continuato ad allenarmi. Non mi sono arreso. So che ho compiuto un errore. E l’ho pagato. Grazie alla mia forza d’animo, insieme al supporto della psicologa, della responsabile del settore educativo, della direttrice, dell’ispettrice caporeparto del G8, sono arrivato dove sono. Ho avuto di modo di riflettere - prosegue - ho potuto pensare a quanto sia importante la libertà, soprattutto quando ti manca. Il lavoro in Vaticano, in uno dei luoghi più belli del mondo, è un sogno. Che non intendo abbandonare”. Insomma, non c’è l’intenzione di buttare al vento questa seconda chance. E Seconda Chance, peraltro, è l’associazione no-profit - fondata dalla giornalista de La7, Flavia Filippi - che in sostanza procura lavoro a chi ha un ottimo comportamento in carcere ed è vicino al fine pena, facendo ponte con aziende e imprese. E che il 36enne ringrazia: “Sapevo che stavano facendo dei colloqui. È andata bene. Perché ho avuto questa opportunità”. La stessa Filippi, contattata dall’Opinione, commenta: “Questo ragazzo l’ho aspettato il primo giorno di lavoro, già alle 6,30 di mattina, in piazza San Pietro. L’ho visto che correva, con lo zainetto sulle spalle. Ci siamo abbracciati. Quando l’ho portato sul luogo che l’avrebbe visto impegnato, non connetteva dalla felicità. Adesso gli hanno rinnovato il contratto, ha ricominciato pian piano la sua vita: è bravissimo. Grazie a lui - confessa - il Vaticano mi ha richiesto altre due persone: una arriverà a inizio aprile. È un elettricista, in detenzione domiciliare a Latina. L’altro è un ragazzo, calabrese, che è ai domiciliari e che comincerà a lavorare a metà di aprile, al bar della terrazza sotto al Cupolone. Seconda Chance - prosegue - intende strutturarsi con almeno una persona in ogni regione ed essere un tramite, tra le carceri e le aziende. Finora sono oltre 270 le offerte di impiego procurate. I detenuti di Seconda Chance lavorano in più punti: ristoranti di Agrigento, Conad Nord-Ovest, McDonald’s, Terna, Nespresso a Monza, Istituto Superiore di Sanità, Acqua Vera. Alla nostra mail ci contattano da tutta Italia: detenuti, direttori delle carceri, agenti di polizia penitenziaria, educatori”. Jonathan Franzen in uno dei suoi capolavori, scrive: “Usa bene la tua libertà”. Il 36enne romano, elettricista in Vaticano, lo sa. E si tiene stretto questo nuovo capitolo della sua vita. Anche perché di là, ad aspettarlo, c’è un ometto, che adesso è un bambino e che un domani sarà grande. “Un giorno, quando sarà il momento, racconterò tutto a mio figlio. È la mia ragione di vita. Seppur distante non l’ho mai abbandonato. Mi sono perso troppe cose: il dentino caduto, le recite, le attività sportive, l’attesa davanti alla scuola. Devo recuperare il tempo perduto. Voglio accompagnarlo, passo dopo passo. Sperando che un giorno dica: papà, sono fiero di te. Per me significherebbe tanto”. Daria Bignardi: “Un’utopia abolire il carcere? Forse, ma così com’è non serve” di Alessandro Pirina La Nuova Sardegna, 11 aprile 2024 Daria Bignardi: “Un’utopia abolire il carcere? Forse, ma così com’è non serve”. Le serie televisive hanno aperto le porte delle carceri italiane, ma si tratta di fiction, di sceneggiature e non storie vere. Al contrario Daria Bignardi nel suo nuovo libro, “Ogni prigione è un’isola”, edito da Mondadori, racconta quello che accade realmente all’interno delle patrie galere. Una testimonianza diretta, la sua, perché lei le carceri le vive dal di dentro da diversi lustri. Daria, nelle prime pagine del suo libro scrive: il carcere è l’essenza della vita. Come nasce la sua esperienza trentennale nelle carceri italiane? “È come se ci fosse sempre stato, ci vado da tanto tempo, ma scrivendo il libro mi sono accorta che il primissimo contatto l’ho avuto da bambina, a Ferrara, quando ci passavo accanto ogni giorno per andare a giocare da una mia compagna che ci abitava accanto. Il maestro ci aveva detto che in quel carcere era stato rinchiuso anche Giorgio Bassani, il più importante scrittore ferrarese, perché era antifascista, e mi sembrava una cosa strana, che mi incuriosiva”. Nel libro parla dei tanti incontri avuti negli anni. Quali sono quelli che non potrà mai dimenticare? “Tutti quelli di cui scrivo e che sento ancora oggi, ma soprattutto due persone che non ci sono più: il detenuto americano detenuto nel braccio della morte col quale mi scrivevo da ragazza, Scotty, e Manolo, un ex detenuto col quale avevo tenuto diversi incontri nelle scuole”. La situazione nelle carceri italiane è drammatica, ma interessa a pochi, quasi a nessuno. E anche la politica - lo si evince dalla chiacchierata con Luigi Pagano, tra l’altro ex direttore anche di Badu ‘e carros - preferisce glissare. Occuparsi di detenuti fa perdere voti? “Fa perdere voti a chi cerca di proporre amnistie, indulti, pene alternative per cercare di ridurre il sovraffollamento disumano per il quale siamo stati condannati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Ne fa guadagnare a chi dice “inaspriamo le pene” o “buttiamo la chiave”“. Cita “Ariaferma”, il film di Leonardo Di Costanzo girato nell’ex carcere di San Sebastiano a Sassari in cui si affronta il tema del tempo sospeso, della non vita dei detenuti e di quella degli agenti. Dalla sua trentennale esperienza nelle carceri che idea si è fatta del rapporto tra detenuti e guardie? “I detenuti sono i primi a capire i problemi e le difficoltà degli agenti, visto che condividono gli stessi enormi problemi strutturali del carcere. In generale agenti e detenuti si rispettano molto più di quanto si immagini”. Anche lei, come Luigi Manconi e Gherardo Colombo, è favorevole all’abolizione del carcere: è un’ipotesi realistica o un’utopia? “Ci sono utopie che servono ad alimentare riflessioni e cambiamenti. Il carcere, così com’è, non serve, anzi, peggiora le cose. Non lo dico io, lo dicono i dati sulle recidive, i suicidi, i costi umani, economici e sociali”. Ogni carcere ha una storia, una vita a sé. Cosa le è rimasto delle visite all’Asinara o altre carceri sarde? “La prima volta che sono andata all’Asinara è stata indimenticabile. Avevo letto molto di quel carcere, che è stato feroce ma anche luogo di grandi vicende umane. Tanta bellezza, soprattutto quella della natura, e tanta bruttezza insieme fanno uno strano effetto. Ci tornerò in agosto per il Festival, a parlare di questo libro. Sarà emozionante”. “Mare fuori” è una serie di successo che propone una versione un po’ edulcorata della situazione negli istituti minorili. Può essere considerata comunque un contributo a parlare di carceri? “Spero di sì”. Sin dall’epoca di “Tempi moderni” ha portato il tema dei detenuti in tv. Da direttrice di Rai 3 ha voluto il programma “Sono innocente”. Cosa può fare la tv per abbattere quei muri tra chi sta dentro e chi è fuori? “La tv può fare molto quando è fatta bene. È ancora un mezzo molto potente, che arriva a tutti”. Ha scritto questo libro a Linosa, il precedente lo aveva scritto in Gallura. Ancora un’isola. Il titolo del libro è “Ogni prigione è un’isola”. Quali sono le similitudini tra carcere e isola? “Sono luoghi lontani, estremi, pieni di difficoltà ma anche di umanità e grandi identità. Sembra che proteggano ma condizionano”. Se ogni prigione è un’isola, a suo avviso, anche ogni isola è una prigione? “Un po’ sì. Tranne la Sardegna che è un paradiso, come diceva De André”. L’Europa non decide sui migranti: il patto spacca l’Ue che rinuncia a gestire i flussi regolari di Stefano Allievi Il Riformista, 11 aprile 2024 Più rimpatri e sanzioni ai Paesi che non accettano la redistribuzione, ma mancano canali d’ingresso in un’Europa che richiede 2 milioni di lavoratori stranieri all’anno. Il Patto Europeo sulle Migrazioni e l’Asilo non è un compromesso: che sarebbe comprensibile, essendoci in Europa posizioni diverse. È una non scelta, che serve essenzialmente agli uni e agli altri per potersi presentare alle elezioni europee dicendo che si è fatto qualcosa. Solo che non è questa la cura di cui abbiamo bisogno: è un po’ come somministrare a un malato un po’ di farmaci per curare un blando raffreddore, e un po’ contro un invasivo tumore ai polmoni, quando in realtà la malattia in questione è un disturbo al fegato. I veri nodi non si sono voluti toccare: a partire da quei regolamenti di Dublino - che prevedono che del richiedente asilo si faccia carico il paese di primo approdo - sottoscritti all’epoca, per l’Italia, da un governo di centrodestra, e rinnovati da uno di centrosinistra, tanto per chiarire che nessuno è vergine in materia. Oggi, anzi, con il nuovo patto, il ruolo dei paesi frontalieri, come l’Italia, è addirittura rafforzato. L’opzione dovrebbe essere una e una sola: poiché i migranti - ovunque arrivino, via mare o via terra, attraverso il Mediterraneo o i Balcani - cercano di entrare in Europa, e raramente vogliono fermarsi nel paese che casualmente si trova alle frontiere esterne dell’Unione, la questione dovrebbe essere gestita centralmente dall’Unione stessa - accogliendo, redistribuendo, integrando, se del caso respingendo. Parliamo di un’Europa che, per capirci, ha un fabbisogno annuo stimato di manodopera - dovuto al differenziale tra pensionamenti e ingressi di giovani nel mercato del lavoro, e alla crescente voragine tra i due - di circa 2,5 milioni di lavoratori (che significa non meno di 50 milioni di persone da qui al 2050). E quindi avrebbe interesse a gestire dei flussi regolari da essa coordinati e promossi, con linee di indirizzo cogenti. Questo invece non lo si fa, lasciando quindi aperto un sostanzialmente unico canale di ingresso, che è quello irregolare. Con l’unica possibilità (le due cose sono strettamente collegate) della richiesta d’asilo: le cui procedure, con il nuovo patto, diventano più veloci ma anche più sommarie e discutibili, e basate sul paese di provenienza più che sulla situazione della singola persona. Di fatto, per accontentare paesi e partiti anti-immigrati (che si lamentano del mancato ruolo dell’Europa, ma rifiutano di darle le competenze in materia, tenendole strettamente nelle mani degli stati nazionali), si incentiva l’esternalizzazione delle frontiere - e quella che potremmo chiamare la frontierizzazione delle migrazioni - anche in dispregio di alcuni diritti umani fondamentali. Sarà anche vero che l’obiettivo è di arginare le pulsioni xenofobe dell’estrema destra, e si capisce il motivo: anche perché, per evitare di vedersi erodere consenso, le forze moderate e popolari (ma anche quelle progressiste) finiscono per spostarsi progressivamente su posizioni sempre più anti-immigrati, anziché rovesciare la prospettiva e proporre un quadro interpretativo diverso. Evitando di affrontare il nodo dei flussi regolari di ingresso, però (che è quello fondamentale: è la loro mancanza, di fatto, che produce gli arrivi irregolari - la cui regolamentazione dovrebbe quindi, logicamente, venire dopo) si consegna l’egemonia culturale (interpretativa, e dunque politica) proprio a queste destre. Non ci stanchiamo di ripeterlo (o forse un po’ sì: la sensazione è di dover sempre ricominciare dall’abc): finché non si (ri-)apriranno canali regolari di ingresso per quelli che chiamiamo migranti economici, avremo solo canali irregolari di ingresso per presunti richiedenti asilo. Spesso fasulli, è vero: ma è precisamente la nostra normativa, o la sua mancanza, che trasforma gli uni negli altri, aumentando a dismisura il numero di questi ultimi, con un effetto controdeduttivo. Ma su questo il patto non dice praticamente parola. E occupandosi solo di come gestire (malamente) i richiedenti asilo dà una risposta irrazionale e costosa a un problema che ha altre origini. Le migrazioni, sempre più frequenti, in ingresso e in uscita sono diventate fisiologia della società, non sua patologia. Dovremmo considerarle come i trasporti, l’istruzione, la sanità, lo sviluppo economico: se non le governi, ovviamente, è un caos. Se le governi, invece, come doveroso fare, quello che a molti suona come un problema diventa un pezzo della soluzione al problema stesso. Ma è precisamente quello che non si vuole fare: per continuare a sfruttare il dividendo politico della logica del capro espiatorio, della xenofobia e della guerra tra poveri, da un lato dello spettro politico; e per ignavia, e incapacità di pensare diversamente, dall’altro. Migranti. Ecco il patto Ue che divide: rimpatri facilitati e a multe ai Paesi non accoglienti di Marco Bresolin La Stampa, 11 aprile 2024 Ppe e Pse votano sì. Caos nei partiti italiani. Contrari, per ragioni opposte, dem, M5S e leghisti. Dopo otto anni di trattative, il Parlamento europeo ha dato il via libera decisivo al nuovo Patto migrazione e asilo concordato con i governi. Lo ha fatto nell’aula di Bruxelles tra le proteste delle associazioni che sugli spalti hanno denunciato “la fine del diritto d’asilo”. Si tratta di una riforma che rivede profondamente le regole per la gestione interna dei flussi migratori, introduce controlli più rigidi alle frontiere e corregge, ma non supera, le regole di Dublino: la responsabilità resta in capo ai Paesi di primo ingresso, anche se addolcita dall’introduzione del concetto di “solidarietà obbligatoria, ma flessibile”. Tutti dovranno contribuire, ma potranno scegliere se farlo accogliendo o pagando (20 mila euro a migrante). Niente quote obbligatorie, nemmeno nelle situazioni di crisi. L’equilibrio tra solidarietà è stato trovato grazie a un difficilissimo esercizio diplomatico. Prima nei negoziati tra i governi, poi in quelli interistituzionali con il Parlamento Ue e infine tra i gruppi politici dell’Eurocamera, dove la maggioranza Ursula ha mostrato segnali di cedimento per lasciare il posto a una coalizione dai contorni decisamente inediti. Il voto è rimasto in bilico fino alla fine e per tutta la giornata sono andate in scena trattative dell’ultimo minuto, non solo tra gli eurodeputati. Pare che Emmanuel Macron si sia mosso personalmente per cercare di convincere il premier polacco Donald Tusk: invano, visto che gli eurodeputati polacchi del Ppe hanno confermato la loro contrarietà, in dissenso con l’indicazione del gruppo. Il pacchetto era composto da nove diversi provvedimenti legislativi e sarebbe bastata la bocciatura di uno solo per far crollare tutto il Patto. Ma non è andata così. Un momento “storico” per la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, che però ha scatenato dure reazioni di segno opposto e spaccato le famiglie politiche al loro interno. Se per Viktor Orban la riforma aprirà rappresenta “un altro chiodo nella bara dell’Unione europea” perché “aprirà le porte all’immigrazione clandestina”, per Monsignor Gian Carlo Perego della Cei le nuove regole segnano “una deriva nelle politiche Ue sull’asilo e un fallimento della solidarietà europea”. Troppo aperturista per l’estrema destra, troppo disumano per la sinistra. Ma inseguendo le crepe che si sono create si capisce bene che la divisione non è soltanto politica. Dietro le spaccature ci sono anche ragioni geografiche - con una chiara contrapposizione tra i Paesi di primo approdo e quelli destinatari dei movimenti secondari - e dinamiche legate all’essere partito di governo o di opposizione. L’esempio più lampante lo si trova all’interno del gruppo dei socialisti-democratici, dove la delegazione Pd ha votato contro. Un atto in dissenso con la linea ufficiale, sostenuta invece dai socialisti spagnoli, che proprio con il governo Sanchez avevano gestito la fase finale dei negoziati. Discorso per certi versi speculare nel gruppo dei Conservatori, ufficialmente fuori dalla maggioranza europea: i parlamentari di Fratelli d’Italia, forza di governo, si sono distinti per il loro sostegno al Patto (tranne per il regolamento sulla solidarietà obbligatoria), incassando i complimenti del Ppe per il gesto di “responsabilità”. Fedeli alla linea anche i parlamentari di Forza Italia, mentre il M5S ha votato contro. Ma la compattezza della maggioranza di governo si è sgretolata ancora una volta nell’Aula dell’Europarlamento. La Lega ha infatti scelto una strada diversa e non ha voluto sostenere l’accordo negoziato e siglato dal “suo” ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Troppo rischioso lasciare le proprie impronte digitali su una riforma che, una volta in vigore, verrà usata come capro espiatorio per denunciare le inefficienze dell’Ue al primo sbarco utile. “L’Italia è stata lasciata sola” il mantra che ieri sera risuonava negli ambienti leghisti, in contrapposizione alle dichiarazioni di Ursula von der Leyen, secondo la quale “con le nuove regole nessun Paese verrà lasciato da solo”. Per l’entrata in vigore della riforma, ora manca solo l’ultimo via libera del Consiglio, ma si tratta più che altro di una formalità. A regime, le nuove regole imporranno rigide procedure di screening per i migranti che arriveranno alle frontiere esterne oppure che sbarcheranno in seguito a operazioni di ricerca e soccorso in mare. Gli Stati avranno sette giorni di tempo per fare i controlli sanitari, di sicurezza e per raccogliere le impronte digitali e i dati biometrici che poi saranno conservati nel database di Eurodac. I negoziati tra Parlamento e Consiglio, terminati a dicembre, hanno stabilito che anche i bambini dai 6 anni in su dovranno sottoporsi a queste procedure (nella versione precedente era dai 14 in su). I migranti che arrivano da Paesi con un tasso di riconoscimento delle richieste di protezione internazionale inferiore al 20% verranno incanalati verso la nuova procedura di frontiera e trattenuti in appositi centri, dove le loro domande d’asilo dovranno essere vagliate nel giro di dodici settimane. Dopodiché gli Stati avranno tre mesi di tempo per rimpatriarli. Saranno escluse le famiglie con bambini e i minori non accompagnati, “purché non rappresentino una minaccia per la sicurezza”. Questi centri, che secondo le Ong diffonderanno in Europa il contestato modello applicato sulle isole greche, dovranno avere una capienza totale di 30 mila posti in modo da poter ospitare 120 mila migranti l’anno. La responsabilità dei rimpatri resterà in capo ai Paesi di primo ingresso, ma i migranti potranno essere rimandati in Paesi terzi sicuri, i quali li accoglieranno in cambio di denaro. Non è il cosiddetto “modello Ruanda” che vuole il Ppe perché i migranti dovranno avere un legame con quel Paese. Anche se con ogni probabilità il mero transito basterà a giustificare il trasferimento. Da fortezza a prigione, l’Ue sempre più dura con i migranti di Leo Lancari Il Manifesto, 11 aprile 2024 Via libera dell’europarlamento al Patto migrazione. Von der Leyen: “Giornata storica”. Prima del voto Johansson richiama gli eurodeputati: “Un fallimento del pacchetto è un fallimento di tutti”. Centri dove richiudere i migranti ai confini europei, rimpatri ed esame delle richieste di asilo più veloci. Il Pd vota contro in dissenso con il suo gruppo. “Oggi è davvero una giornata storica. Dopo anni di intenso lavoro il Patto di migrazione e asilo diventa finalmente realtà”. Ursula von der Leyen può tirare un sospiro di sollievo. Anche se con alcune divisioni nei gruppi che la compongono, la coalizione che cinque anni fa la elesse a capo della Commissione europea è riuscita ieri a far approvare, a maggioranza relativa e tra mille tormenti, nove regolamenti che detteranno le nuove politiche dell’Ue sull’immigrazione. Un risultato scontato solo fino a un certo punto per le lacerazioni che hanno attraversato i Socialisti dove il Pd ha votato a favore di uno solo dei regolamenti. Divisioni che non hanno risparmiato neanche le destre riuniti nel gruppo Ecr guidato dalla premier Giorgia Meloni, con i polacchi del Pis compatti contro il Patto mentre Fratelli d’Italia ha scelto di votare caso per caso. Aumentando così le divergenze anche nella maggioranza di governo italiana, con la Lega che ha votato contro e Forza Italia a favore. Scelte dettate da motivazioni diverse, ma che hanno contribuito ad alimentare la confusione tanto da far temere ai vertici dell’Ue di vedere uno dei pilastri sui quali von der Leyen ha lavorato in questi anni naufragare a poche settimane dal voto di giugno. Non a caso ieri mattina, intervenendo nel corso della plenaria, la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson non ha esitato a richiamare all’ordine gli eurodeputati: “Se il voto sul pacchetto fallisce, falliamo tutti”, ha ammonito. L’obiettivo del Piano è quello di uniformare le regole tra gli Stati membri superando gli approcci nazionali, rendendo più veloce l’esame delle richieste di asilo di coloro che arrivano in Europa e, in caso di respingimento della domanda, i rimpatri. Le nuove procedure prevedono la creazione alle frontiere di appositi centri dove identificare i migranti entro sette giorni, sottoponendoli a visita medica e ai controlli di sicurezza. Anche ai bambini con più di sei anni potranno essere prese le impronte digitali. Chi proviene da un paese che ha una percentuale di richieste di asilo accolte non superiore al 20% verrà rinchiuso in centri di permanenza speciali dai quali non potrà uscire e la sua richiesta di asilo esaminata entro tre mesi. In caso di respingimento dovrà essere espulso nei successivi tre mesi. Da questa procedura sono escluse le famiglie con figli minori e i minori non accompagnati, a meno che non siano stati ritenuti un rischio per la sicurezza. E’ inoltre previsto che l’Ue accolga fino a 30 mila migranti l’anno e viene introdotta la cosiddetta solidarietà obbligatoria ma ogni stato membro potrà scegliere se farsi carico di una quota di richiedenti asilo oppure aiutare i paesi di primo approdo con un sostegno tecnico operativo oppure con contributi finanziari (è prevista la creazione di un fondo di 600 milioni di euro che gli Stati membri dovranno utilizzare in progetti destinati all’asilo o alla gestione delle frontiere). Infine nel caso dovessero crearsi situazioni di particolare emergenza in seguito a un numero particolarmente alto di sbarchi, un paese può chiedere al Consiglio Ue la dichiarazione di stato di crisi che prevede la distribuzione obbligatoria dei richiedenti asilo tra gli Stati membri. Per chi si rifiuta è previsto il pagamento di 20 mila euro per ogni mancato ricollocamento. Un punto, quest’ultimo, alla base dell’opposizione al Patto da sempre espressa dall’Ungheria di Viktor Orbán che ieri per bocca del ministro degli Esteri Peter Szijjarto ha ribadito di considerare il Patto “essenzialmente un via libera all’immigrazione clandestina”. E sulla stessa linea di Budapest si è detto anche il nuovo premier polacco Donald Tusk, contrario a un meccanismo di ricollocamento obbligatorio dei migranti. Perché il Patto diventi operativo sono necessari però ancora alcuni passaggi, primo fra i quali il via libera da parte del Consiglio Ue che potrebbe avvenire il 29 aprile con un voto a maggioranza qualificata. Dopo di che la Commissione dovrà presentare un piano di attuazione, un impegno che Johansson ha detto di voler rispettare entro il prossimo mese di giugno. Preoccupazione per le possibili conseguenze del Patto è stata espressa da numerose ong che da anni si occupano di immigrazione. Per Refugees Welcome Italia le nuove regole non solo cancellano il diritto di asilo come lo abbiamo conosciuto fino a oggi” ma “causeranno solo più sofferenza. Chi chiederà asilo in Europa non avrà più alcun diritto effettivo all’esame pieno della domanda di protezione internazionale, e potrà essere sistematicamente detenuto alle frontiere esterne dell’Unione”. Migranti. La fortezza che non protegge da guerre e povertà di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 11 aprile 2024 Il Parlamento europeo ha approvato dieci “atti legislativi” tra Regolamenti e Direttive, che dovrebbero attuare il Patto sulla migrazione e l’asilo, in discussione dal 2020. Il voto in aula è stato caratterizzato da una gestione lampo della presidenza, ma occorre ricordare che saranno necessari due anni perché la nuova legislazione sia pienamente operativa. E le prossime presidenze di turno toccheranno all’Ungheria di Orban, da luglio, e poi da gennaio del 2025 alla Polonia. Le nuove norme sulla redistribuzione obbligatoria, ma “flessibile” dei richiedenti asilo (non certo dei naufraghi o degli irregolari) tra i diversi paesi e la nuova disciplina per contrastare i cosiddetti “movimenti secondari” rimane nell’alveo del principio della competenza prevalente del paese di primo ingresso, dettato dal Regolamento Dublino del 2013. E su questi punti si registra una sconfitta del governo Meloni che aveva cercato di fare approvare criteri vincolanti più favorevoli ai paesi di primo ingresso come l’Italia. Tutti i nuovi regolamenti contengono elementi fortemente critici dal punto di vista della tutela dei diritti fondamentali delle persone. Il nuovo Regolamento “screening” sull’accertamento dell’identità, ad esempio, prevede una procedura obbligatoria in frontiera nella quale dovrebbe operare la “finzione giuridica del non ingresso” nel territorio degli stati dell’Unione europea, considerata un “elemento chiave” della nuova normativa, che di fatto si risolverà nell’abbattimento delle garanzie di difesa delle persone bloccate subito dopo l’arrivo in frontiera. Si prospetta quindi il ricorso alla detenzione amministrativa generalizzata, anche per chi viene soccorso in mare, ed anche nel caso di presentazione di una richiesta di asilo. Anche se non sarà agevole giustificare la esternalizzazione del trattenimento amministrativo, sul modello del Protocollo Italia-Albania. La valorizzazione della categoria di “paese terzo sicuro” al centro del nuovo Regolamento sulle procedure di asilo, rischia di compromettere fin dall’arrivo nel territorio l’accesso alla procedura e l’esito dell’istanza di protezione. Il Regolamento sulle situazioni di crisi lascia ampi margini agli stati membri di ottenere deroghe al regime uniforme in materia di protezione internazionale che si va ad introdurre, Il richiamo alla strumentalizzazione della mobilità migratoria rischia di colpire le persone migranti e tutti coloro che prestano loro soccorso ed assistenza. Non mutano le regole sui soccorsi in mare, sancite dal Regolamento Ue 656/2014, anche se proseguiranno i tentativi dei vertici europei di ottenere la modifica delle Convenzioni internazionali di diritto del mare, ormai ostacolo alle politiche di abbandono in acque internazionali e di esternalizzazione dei respingimenti collettivi. Gli atti legislativi, provenienti dall’Unione europea, e la legislazione nazionale derivata, non potranno comunque derogare le norme internazionali di natura cogente, ad esempio quelle che riconoscono il diritto di asilo, che vietano trattamenti inumani o degradanti (come l’articolo 3 della Convenzione Edu), che pongono limiti e garanzie nei casi di restrizione della libertà personale, come l’articolo 5 della stessa Convenzione). L’Italia e l’Unione europea sono già di fronte ad una grave emergenza democratica e, dopo le elezioni europee, si potrebbe arrivare a posizioni ancora più drastiche di sbarramento delle frontiere. Potrebbero essere tuttavia scelte politiche inefficaci, anche se disumane, perché la mobilità umana sarà comunque inarrestabile. La protezione ad oltranza delle frontiere esterne non dà maggiore sicurezza e non allontana guerre e declino economico. Dopo anni di “stato di emergenza” e di propaganda permanente contro le migrazioni, i cittadini europei se ne accorgeranno presto, sulla loro pelle. Migranti. I numeri della polizia che smentiscono il governo di Giansandro Merli Il Manifesto, 11 aprile 2024 Meno 20% degli arrivi con i corridoi umanitari. Calano anche i rimpatri, nonostante gli annunci di Meloni e Piantedosi. Per tutto il 2023 il governo Meloni ha raccontato di essere impegnato, rispetto all’immigrazione, su due fronti: tolleranza zero verso gli ingressi irregolari, gestione dei canali legali. “Saremo noi a decidere chi arriva nell’Ue e non i trafficanti”, ha ripetuto spesso la premier in compagnia di Ursula von der Leyen, inedita partner politica. I numeri pubblicati ieri nel numero di aprile di Polizia Moderna, che esce nell’anniversario della fondazione del corpo e riporta un affresco quantitativo delle sue attività, descrivono però una situazione diversa dagli annunci dell’esecutivo. I titoli di soggiorno emessi dallo Stato sono diminuiti del 3%: 1.523.533 nel 2023, contro i 1.570.183 dell’anno precedente. Più drastico il calo delle persone bisognose di protezione che hanno potuto raggiungere il territorio nazionale in sicurezza grazie ai corridoi umanitari: da 969 a 779. Il 20% in meno per il progetto che secondo l’Italia dovrebbe fare da contrappeso alle politiche securitarie che violano i diritti fondamentali di centinaia di migliaia di migranti, soprattutto in Libia. Non solo i numeri restano bassissimi, quindi, ma addirittura calano. Che gli ingressi via mare siano cresciuti del 50% in un anno è cosa nota: al 31 dicembre scorso erano stati 157.651. Così sono aumentate anche le richieste di protezione internazionale: da 84.399 a 137.954. Resta al palo, invece, la carta su cui il governo aveva scommesso tutto: i rimpatri. Erano stati 4.401 nel 2022, sono scesi a 4.368 lo scorso anno. Di questi, 3.134 riguardano persone transitate dai Cpr. Complessivamente ne sono state trattenute 6.667: una su due è stata quindi privata della libertà senza motivo, non potendo essere riportata nel paese d’origine. In totale le forze dell’ordine hanno emesso 28.983 provvedimenti di allontanamento dal territorio nazionale, tre su quattro sono rimasti parole su fogli di carta. Il rapporto parla poi di “425 provvedimenti restrittivi a carico di scafisti, trafficanti e favoreggiatori nell’ambito del contrasto a immigrazione clandestina e tratta di esseri umani”. Non si possono fare confronti puntuali con l’anno precedente perché questi dati sono aggregati, quelli del 2022 segnavano 147 provvedimenti restrittivi per immigrazione clandestina e tratta e 226 scafisti arrestati. Restano le difficoltà di trasferire dall’Italia i cittadini stranieri nei paesi Ue di primo approdo: su 642 richieste in base al regolamento Dublino ne sono state eseguite 21. Del resto il nostro paese fa altrettanto con i migranti che dovrebbe riprendersi: il governo tedesco ha reso noto che su 15.479 richieste all’Italia ne sono state realizzate 11. Funziona meglio il meccanismo di relocation messo a punto dalla ex ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, sempre attaccato dalle destre di opposizione, che ha reso possibile il trasferimento all’estero di 986 richiedenti asilo: quasi tutti in Germania, dove ne sono andati 886. Questi numeri non parlano della necessità di nuove strette securitarie. Al contrario testimoniano l’irrazionalità, che significa anche inefficacia, delle attuali politiche italiane ed europee di gestione dei movimenti di persone. Una situazione destinata a peggiorare con l’approvazione del Patto Ue su migrazione e asilo. Migranti. Bartolo: “Forniamo veste giuridica a quello che oggi è illegale” di Andrea Valdambrini Il Manifesto, 11 aprile 2024 L’eurodeputato Pd: “Non è possibile che un bambino di 6 anni sia sottoposto al fotosegnalamento, che gli vengano presi i dati biometrici. Si trattano così i delinquenti, non i bambini”. Patto Migrazione, Bartolo: “Forniamo veste giuridica a quello che oggi è illegale”. “Adesso mi tortura un pensiero: quando sarà tutto finito, quando verrà scritto nei libri di storia, e magari ci sarà anche il mio nome, quello del medico di Lampedusa, mi piacerebbe sapere come si risponderà a chi chiede cosa ho fatto per evitare tutto questo. Sono diventato europarlamentare con l’intenzione di prendermi cura delle persone che attraversano il Mediterraneo. Ma dopo quattro anni di lavoro mi sento di dire che ho fallito”. Non potrebbe essere più netta la reazione di Pietro Bartolo, eurodeputato del Pd, visibilmente provato a seguito del voto con cui l’Aula ha approvato il Patto Migrazione e Asilo. “Meglio niente che questa porcheria”, si sfoga. Quali sono le ragioni della contrarietà, sua e di tutto il Pd, nonostante il parere positivo del gruppo S&D al Patto Migrazione e Asilo? È la legge nel suo complesso a essere non accettabile. Non è possibile che un bambino di sei anni sia sottoposto a fotosegnalamento, che gli vengano presi i dati biometrici. Si trattano così i delinquenti, non i bambini. La vita di migranti e richiedenti asilo è destinata a peggiorare? Chi arriva verrà trattenuto senza aver commesso nessun reato in un luogo di reclusione per una settimana, poi scaraventato in un altro centro, di contenimento o prigionia, in ogni caso dei lager. Tutto questo in attesa di essere rimpatriati, se mai ci si riuscirà. E quando questi centri saranno colmi, mi chiedo cosa faranno le autorità, se li lasciano liberi o magari li buttano a mare. Dopo il primo dei voti favorevoli al pacchetto legislativo, dalle tribune del pubblico in Aula è iniziata una contestazione. Un gruppo di giovani ha scandito “This Pact kills”, questo Patto uccide. Hanno ragione? Ne hanno da vendere. Quando si parla di accordi con paesi terzi o di difesa dalle frontiere, mi chiedo: è da loro che si deve difendere l’Europa? Si dice anche che per evitare le morti bisogna bloccare le partenze. Peccato che i trafficanti di essere umani fanno grandi affari quando mancano i canali regolari, quindi così le persone continueranno a morire. Come spesso accade, la macchina europea produce compromessi. Non pensa che un accordo sia comunque meglio di nessun accordo, per governare la migrazione? Se il Patto fa qualcosa, peggiora solo la situazione. Abbiamo fornito un quadro giuridico a quello che oggi è illegale, come i respingimenti e la detenzione immotivata dei richiedenti asilo. Fino a ora almeno si poteva fare ricorso alla Corte di giustizia europea, o magari incalzare la Commissione Ue. Nel futuro no, sarà questa porcheria a legalizzare le nefandezze. “Ogni governante avrà un motivo, nero su bianco, per chiedere soldi all’Ue per bloccare le partenze” Ci sono altri esempi in cui il nuovo quadro giuridico peggiora la situazione? Il fatto che l’immigrazione possa essere considerata un pericolo dai governi, in caso di arrivi massicci, offre un’arma di ricatto ai paesi di partenza verso l’Ue. Che vengano dalla Bielorussia, Libia, Tunisia o dalla Turchia, ogni governante non europeo avrà un motivo in più, scritto nero su bianco, per chiedere soldi a Bruxelles per bloccare le partenze. Il governo Meloni ha solo un vestito buono in Europa, ma ricordiamoci che parla con disinvoltura di sostituzione etnica, un suo ministro definisce i profughi “carico residuale” L’Europa però ha sia un dovere morale verso chi muore in mare cercando una vita migliore, ma anche un’esigenza economica dettata dal crollo demografico. Se lei avesse potuto scrivere le leggi Ue sui migranti, quali sarebbero state le linee guida? Prima di tutto considerarli persone, non numeri o merci. A Lampedusa ne ho conosciuti e curati a centinaia: sono persone che cercano una vita migliore. Di sicuro i terroristi non arrivano su queste vere e proprie bare galleggianti. Mi sa che molta politica non ha visto quello che ho visto io nella mia esperienza di medico, ed è per questo che manca di umanità. Quali forze, anche nazionali, hanno prodotto questo assetto europeo che le ong hanno definito punitivo? Per prima l’Italia. Perché devo cercare fuori, quando l’orrore ce l’abbiamo in casa? Penso ai decreti Cutro, la criminalizzazione delle ong che vanno a salvare le persone. Il governo Meloni ha solo un vestito buono in Europa, ma ricordiamoci che parla con disinvoltura di sostituzione etnica, un suo ministro definisce i profughi come “carico residuale”. Così stiamo tradendo i valori della Costituzione e i principi fondativi dell’Europa. Senza solidarietà e rispetto dei diritti umani, quello che vedo è il baratro. In Albania ci sarà anche un carcere italiano per migranti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 aprile 2024 Nell’accordo tra Italia e Albania per quanto riguarda la gestione dell’immigrazione, è previsto anche un carcere in territorio albanese destinato a ricevere i migranti che dovessero rendersi responsabili di reati durante la permanenza nelle strutture gestite dallo Stato italiano in quel territorio. Per questo motivo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria vuole reperire 45 persone della Polizia penitenziaria da inviare nella futura struttura. Il Dap ha, infatti, emanato una nota nella quale comunica la necessità di individuare personale idoneo per una missione internazionale in Albania. Il contesto di questa iniziativa è dato dal Protocollo tra il governo italiano e il Consiglio dei ministri albanese, finalizzato al rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, ratificato con Legge il 21 febbraio 2024. La richiesta di disponibilità è rivolta ai dirigenti penitenziari, ai funzionari della carriera di Polizia penitenziaria fino alla qualifica di dirigente, e al personale dei ruoli agenti/ assistenti, sovrintendenti e ispettori. Il Protocollo prevede la realizzazione di una struttura penitenziaria in territorio albanese, destinata ad accogliere migranti responsabili di reati durante la loro permanenza nelle strutture italiane per le procedure di frontiera o di rimpatrio. La struttura, situata a Gjader, avrà una capienza di 20 detenuti maschi e sarà diretta da un dirigente penitenziario italiano, con il personale di polizia penitenziaria comandato da un funzionario. Anche membri delle Funzioni centrali saranno inviati in missione, con dettagli ancora da definire. Il Dap rende noto che, oltre al comandante, sono previste 7 unità del ruolo ispettori uomini, 7 unità del ruolo sovrintendenti uomini e 1 unità del ruolo sovrintendenti donne, 23 unità del ruolo agenti/ assistenti uomini e 6 unità del ruolo agenti/ assistenti donne. Il totale del contingente del Corpo ammonta quindi a 45 unità. Dal momento che la struttura penitenziaria sarà conformata sotto il profilo logistico e organizzativo a un Istituto penitenziario (ancorché di piccole dimensioni) del territorio nazionale, in sede di individuazione delle unità da inviare, il Dap specifica che si dovrà tener conto necessariamente anche di specifiche competenze/ esperienze o meglio ancora specializzazioni (ad esempio il matricolista) per l’impiego in determinati posti di servizio. La selezione del personale terrà conto delle specifiche competenze richieste per i vari ruoli, con particolare attenzione alle figure dirigenziali che avranno svolto incarichi di coordinamento e responsabilità, esperienze internazionali e competenze linguistiche. La durata minima del servizio sarà di sei mesi, con possibilità di sostituzioni parziali fino al 10% del personale ogni semestre per garantire la continuità operativa. Gli operatori in missione potranno far rientro in Italia mensilmente a spese dell’Amministrazione, con vitto, soggiorno e trasferimenti garantiti. Le diarie giornaliere lordo varieranno a seconda del ruolo. La disponibilità al servizio dovrà essere dichiarata entro il 16 aprile 2024 mediante l’apposito modulo accompagnato da un curriculum vitae in formato europeo. La selezione avverrà attraverso la valutazione discrezionale dei curriculum, tenendo conto delle esigenze delle sedi di appartenenza. La decisione di inviare 45 membri del Corpo di Polizia penitenziaria in missione internazionale nel territorio di Gjader, in Albania, ha sollevato critiche da parte del segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio. Il sindacalista ha espresso preoccupazione per il fatto che l’operazione non sia stata discussa preventivamente con i rappresentanti degli operatori. De Fazio ha evidenziato la mancanza di informazioni dettagliate sulla missione e ha sollevato dubbi sulla proporzione tra il numero di agenti inviati e la capacità della struttura. Ha sottolineato che, considerando la carenza di personale in Italia, inviare 45 agenti in Albania potrebbe avere un impatto significativo sulle operazioni all’interno delle carceri italiane. Il segretario della Uilpa ha anche sollevato dubbi sul costo dell’operazione per i contribuenti, sia per il mantenimento delle strutture all’estero sia per il finanziamento delle missioni internazionali. Ha quindi invitato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il capo del Dap ad avviare un confronto immediato per chiarire tutti gli aspetti legati a questa decisione. L’annuncio del trasferimento dei detenuti all’estero ha sollevato diverse domande e preoccupazioni, evidenziando la necessità di una discussione approfondita e trasparente sulle implicazioni di questa operazione. Un carcere italiano in Albania per chi commette reati nei Cpr, due agenti per ogni detenuto di Giuliano Foschini La Repubblica, 11 aprile 2024 Il sindacato: “Meglio che da noi”. L’investimento da 36 milioni oltre Adriatico, avrà venti posti. Uilpa: “Siamo basiti, qui manca personale e le strutture con meno di cento detenuti si chiudono”. Consiglio per gli arresti: nel caso, meglio andare in Albania. L’Italia, sull’altra sponda dell’Adriatico, tra qualche mese gestirà un carcere tutto suo, con agenti penitenziari italiani, e con standard molto migliori rispetto a quelli del nostro Paese: celle nuove e spaziose e addirittura due agenti per ogni detenuto, rispetto all’attuale rapporto medio italiano che vuole una guardia carceraria ogni tre, “di giorno. Perché di notte ci sono strutture con otto poliziotti che devono sorvegliare 400-500 detenuti” spiega Gennarino de Fazio, segretario della Uilpa che in queste ore ha denunciato questa incredibile storia albanese. Il tutto nasce con la legge 14 del 2024 che prevede la realizzazione di strutture in Albania per ospitare i migranti che arrivano in Italia: l’hotspot nel porto di Shengjin e il centro per richiedenti asilo e Cpr di Gjader. Come aveva spiegato Repubblica nei giorni scorsi, si tratta di due opere che - seppur assolutamente inutili per contenere e gestire i flussi - stanno facendo gola a chi gestisce il business dell’accoglienza, gli stessi che da anni sono al centro di campagne da parte dei partiti di centrodestra oggi al Governo. Sul piatto ci sono infatti un sacco di soldi: 36 milioni a base d’asta, che inevitabilmente lieviteranno con le spese di trasporto, di assistenza sanitaria e altre voci non quantificate dal bando. Il cui rimborso è addirittura previsto a piè di lista. I Centri dovranno essere aperti a fine maggio, quando dovrebbe partire questo protocollo italo-albanese. Ma non saranno le sole novità. In Albania avremo anche un carcere, a Gjader, che dovrà “ricevere i migranti che dovessero rendersi responsabili di reati durante la permanenza nelle strutture gestite dallo Stato Italiano in quel territorio per effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalle normative”. La capacità massima è di 20 migranti che dovranno essere seguiti da almeno 45 agenti di polizia penitenziaria, oltre probabilmente ad altri uomini delle nostre forze di Polizia. Da qui l’allarme dei sindacati. “Abbiamo appresso la notizia - spiega De Fazio - da una circolare del Dap, il nostro dipartimento. E siamo rimasti basiti: in Italia le carceri con meno di cento detenuti si chiudono, e invece andiamo in Albania a costruirne una con 20 posti appena. Per non parlare della proporzione tra agenti e detenuti, che improvvisamente passa da 1 a 3, come abitualmente è in Italia a 2 a 1”. “Ma la cosa incredibile - continua il sindacalista degli agenti penitenziari - è che dopo tanto dire su migranti e detenuti che saranno inviati a scontare la pena in stati esteri, i primi a partire saranno gli appartenenti alla Polizia penitenziaria, già mancanti, in patria, di 18mila unità”. Il bando è stato appena pubblicato e le richieste sono già tantissime. Perché anche per gli agenti l’operazione è un affare dal punto di vista economico: “Vitto e soggiorno a carico dell’amministrazione” si legge nella circolare, “e una diaria lorda di missione che varia dai 176 euro al giorno per dirigente ai 130 dei semplici agenti”. Seimila euro al mese: stipendio da sogno per gli agenti italiani nel carcere albanese di Nello Trocchia Il Domani, 11 aprile 2024 Un documento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la direzione del personale del ministero della Giustizia, apre al reclutamento di dirigenti, funzionari, agenti e ispettori della polizia penitenziaria “inviati a prestare servizio di missione internazionale presso la idonea struttura penitenziaria da realizzarsi in territorio albanese”. Dopo anni di proteste e promesse elettorali tradite finalmente gli agenti della polizia penitenziaria avranno uno stipendio degno della delicatezza e importanza del lavoro svolto. Per accaparrarsi l’aumento da sogno, però, dovranno trasferirsi in Albania, il luogo prescelto dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per continuare la propaganda sui flussi migratori con l’apertura di due Cpr, centri per i rimpatri, e una struttura di transito. Nell’accordo Italia-Albania si prevede anche la costruzione di una “idonea struttura penitenziaria destinata a ricevere ì migranti che dovessero rendersi responsabili di reati durante la permanenza nelle strutture gestite dallo Stato Italiano in quel territorio”. Tradotto, un carcere. Un’operazione che non solo ha un gigantesco problema di copertura giuridica, ma che è totalmente insensata da un punto di vista del rapporto costi-benefici. Domani ha già rivelato che per costruire i due centri saranno necessari 65 milioni di euro, ora emergono ulteriori dettagli sull’intera operazione. Un documento del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la direzione del personale del ministero della Giustizia, apre al reclutamento di dirigenti, funzionari, agenti e ispettori della polizia penitenziaria “inviati a prestare servizio di missione internazionale presso la idonea struttura penitenziaria da realizzarsi in territorio albanese”. Un documento che chiarisce come l’intera operazione in terra albanese, governata dall’amico Edi Rama, sia un gigantesco spot per la presidente del consiglio, un salasso per le tasche degli italiani, uno schiaffo alla polizia penitenziaria. Lo è ancor di più perché vengono introdotti nuovi rapporti numerici tra detenuti e agenti che varranno solo dall’altra parte dell’Adriatico mentre in Italia negli istituti di pena ci sono sovraffollamento, agenti sotto organico, suicidi, un sistema ormai al collasso. Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è quindi chiamata ad assicurare il personale necessario per l’apertura del nuovo carcere che ospiterà venti detenuti di sesso maschile e sorgerà a Gjader. “La struttura sarà diretta da un Dirigente Penitenziario ed il contingente di polizia penitenziaria sarà comandato da un appartenente alla Carriera dei funzionari. Anche personale del comparto Funzioni Centrali verrà inviato in missione in territorio albanese, ma in merito si fa riserva di determinazioni con successivi atti”, si legge nel documento. Ma come sarà composta la squadra in missione? Servono sette ispettori, sette sovrintendenti uomini e un’ottava donna, 23 agenti uomini e altre sei donne, in totale 45 unità. Già questi numeri hanno scatenato la reazione dei sindacati, uno in particolare, la Uil. “Ma stiamo scherzando, i nostri agenti in Italia lavorano con una media di un agente ogni tre detenuti quando va bene e in Albania uno ogni due, in Italia si chiudono le carceri con meno di cento reclusi e ne apriamo uno con venti ospiti?”, dice il segretario Gennarino De Fazio. La nota dolente arriva alla fine del documento nella parte in cui il ministero fissa le indennità per chi accetterà il trasferimento, cifre da capogiro che gli agenti penitenziari in Italia si sognano. Oltre allo stipendio il dirigente incasserà una diaria lorda pari a 176 euro al giorno, oltre cinque mila euro lordi, i funzionari metteranno in tasca 156 euro al giorno, oltre 4500 euro lordi al mese, un agente, invece, guadagnerà 130 euro lordi al giorno, 4 mila euro circa al mese che si aggiungeranno allo stipendio. Per capirci, un poliziotto penitenziario che in Italia varca la soglia di un istituto per una giornata di lavoro incassa meno di 2 mila euro, in Albania porterà a casa 2 mila più 4 mila e i benefici non sono finiti. Agli operatori sarà garantito il vitto, l’alloggio e tutti i trasferimenti e, in caso di nostalgia di casa, “gli operatori in servizio di missione, compatibilmente con lo stato di attuazione del protocollo, potranno con cadenza mensile far rientro in Italia con oneri a carico dell’amministrazione”. Il personale potrà inviare la candidatura entro il prossimo 16 aprile sperando nel bingo albanese, la valutazione sarà assunta discrezionalmente dall’amministrazione. Gli esclusi dovranno accontentarsi degli istituti di pena italiani e degli stipendi di sempre. Medio Oriente. Save the Children: a Gaza un bambino muore ogni 15 minuti di Costanza Oliva Avvenire, 11 aprile 2024 Quasi tutti gli edifici scolastici e gli ospedali sono stati distrutti. Il sistema sanitario è al collasso e mancano anche le cure più basilari. Negli ultimi sei mesi, a Gaza, ogni 15 minuti circa un bambino ha perso la vita. Significa che in soli 180 giorni, cioè sei mesi da quando la guerra è iniziata, il 2% della popolazione infantile è stato ucciso. I bambini e le famiglie vivono sotto le bombe, costretti spesso a trovare rifugi di fortuna dato che più della metà delle abitazioni non esiste più. La situazione è drammatica. Quasi tutte le scuole sono ormai distrutte e per la maggior parte della popolazione è impossibile ricevere anche le cure più basilari. Il sistema sanitario è al collasso: sono stati bombardati 30 dei 36 ospedali. Lo confermano le immagini arrivate nella notte dopo un attacco aereo israeliano a un edificio residenziale nel campo profughi di Nuseirat, nel centro della Striscia. Tra le 14 vittime, la maggior parte sono donne e bambini. I 30 feriti sono stati portati d’urgenza in ospedale: i medici li esaminano sul pavimento per la mancanza di posto. “Abbiamo provato ad allestire tende per il triage fuori dall’ingresso dell’ospedale, ma anche quella è piena di feriti e la capacità è scarsa”, ha raccontato alla CNN il dottor Khalil Al-Dikran, portavoce dell’Ospedale dei Martiri di Al-Aqsa. Save the Children ha esposto uno striscione vicino alla sede di Roma dell’Organizzazione per diffondere i dati di questa realtà allarmante, insieme ad alcuni giocattoli, scarpine e libri che rappresentano l’infanzia rubata dei bambini che vivono in zone di conflitto. “Pensare che circa ogni 15 minuti un bambino perda la vita, - ha spiegato la direttrice di Save the Children Daniela Fatarella - ci fa capire quanto questa guerra sia tra le più letali e distruttive della storia recente. In sei mesi di conflitto, circa 26 mila bambini sono stati uccisi o feriti, mentre coloro che sono sopravvissuti hanno perso la casa, gli affetti, la scuola, la loro vita quotidiana e oggi stentano a sopravvivere per la fame”. L’iniziativa vuole essere un monito alla comunità internazionale affinché si adoperi per far cessare il conflitto. “Tutto questo è inaccettabile: il mondo deve agire ora per garantire un cessate il fuoco immediato e definitivo e un accesso umanitario senza restrizioni. Ogni oggetto che abbiamo deposto oggi vicino alla nostra sede vuole ricordare queste piccole vite spazzate via, ma al tempo stesso tutto il bello che dovrebbe popolare la vita di un bambino, in cui non dovrebbe esserci spazio per violenza e morte”, ha precisato Fatarella. La popolazione è allo stremo e sull’orlo di una crisi umanitaria senza precedenti. Come riportato dagli ultimi dati dell’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), metà della popolazione sta affrontando un livello catastrofico di insicurezza alimentare, e il nord della Striscia è a rischio carestia. Stati Uniti. Biden apre spiraglio per Assange. “Stop all’azione legale? Lo stiamo valutando” di Antonello Guerrera La Repubblica, 11 aprile 2024 Il presidente americano accenna all’ipotesi di far cadere il procedimento giudiziario negli Stati Uniti contro il fondatore di Wikileaks. Non una grazia ma una sorta di proscioglimento presidenziale, che farebbe dell’australiano un uomo libero. “Stiamo considerando questa possibilità”. Per la prima volta il presidente americano Joe Biden ha ammesso che la sua amministrazione sta valutando l’opzione di far cadere il pesantissimo procedimento giudiziario negli Stati Uniti contro Julian Assange. Ossia l’attivista australiano fondatore del sito Wikileaks, attualmente in carcere a Londra e su cui pendono ben 19 capi di accusa, tra cui “spionaggio”, “furto di informazioni riservate” e “aver messo a rischio la vita” di molti statunitensi per un massimo di 175 potenziali anni di carcere, a causa della pubblicazione negli anni scorsi di una valanga di file top secret dell’intelligence e della diplomazia americane. Non sarebbe tecnicamente una “grazia” visto che Assange non ha sinora ricevuto alcuna condanna su questo caso, ma una sorta di “proscioglimento” presidenziale, che in pratica farebbe dell’australiano un uomo libero. Biden non ha aggiunto altro alla risposta a una domanda di un giornalista di oggi, durante un evento in America. Poche parole che però hanno riacceso la speranza tra i sostenitori del 52enne australiano detenuto da 5 anni oramai nel duro carcere Belmarsh della periferia della capitale britannica. Perché l’Australia, Paese di origine di Assange, da anni oramai chiede alle varie amministrazioni americane di far cadere le accuse contro di lui. Trump non ne aveva voluto sapere, ora Biden lascia la porta aperta a una simile eventualità. Anche perché i rapporti tra gli Usa e Canberra sono sempre più stretti, vista l’attuale situazione geopolitica e alleanze militari strategiche come quella sui sottomarini nucleari “Aukus” in chiave anti-Cina nel Sud Est asiatico. Lo scorso 26 marzo l’Alta Corte di Londra aveva rinviato a un’altra udienza fissata al 20 maggio la decisione sull’estradizione negli Stati Uniti, chiedendo nel frattempo a Washington tre “rassicurazioni”: che Assange non rischi la pena di morte una volta estradato negli Usa, che sia garantito il suo diritto di espressione e che non venga discriminato in quanto cittadino australiano. Se i giudici inglesi saranno soddisfatti, allora a fine maggio il trasferimento di Assange oltreoceano avrà il via libera finale, a meno di improbabili irruzioni della Corte Europea dei Diritti Umani. In caso contrario, Assange avrà il diritto di ripresentare appello contro l’estradizione, già approvata da Londra nel 2022. Insomma, questa lunghissima e divisiva saga di Assange, iniziata dalle decadute accuse di violenza sessuale dalla Svezia nel 2010 fino all’autoreclusione per 7 anni nell’ambasciata ecuadoriana a Londra e l’arresto nel 2019 per violazione della libertà vigilata, si arricchisce di un altro capitolo. L’australiano è oramai angelo o demonio, dopo la pubblicazione dal 2010 sul suo sito Wikileaks di centinaia di migliaia di scottanti file e cablogrammi segreti del governo ed esercito americani, grazie alla complicità di Bradley Manning, ex analista dell’intelligence militare Usa e oggi donna di nome Chelsea, che riuscì a sottrarre tre interi database di documenti elettronici, per poi passarli ad Assange. Quei file hanno messo sotto accusa gli Stati Uniti per metodi, violenze e uccisioni indiscriminate durante le guerre in Afghanistan e Iraq dal 2001 in poi, con massacri di civili e giornalisti sino ad allora mai ammessi. Per i suoi fan e per l’associazione Reporter Senza Frontiere, Assange ha fatto solo il giornalista, scoperchiando atrocità e misfatti americani. Per Washington, invece, almeno ufficialmente, Assange è stato complice di Manning e va punito severamente. Il 20 maggio, si ricomincia. A meno che Joe Biden non decida di chiudere la vicenda nelle prossime settimane, a favore di Julian Assange. Quando l’avevamo incontrato lo scorso 26 marzo a Londra, l’ex leader laburista Jeremy Corbyn, da sempre al fianco dell’australiano, ci aveva detto: “Il rinvio di oggi è un passo in avanti. Ora Joe Biden deve ricordarsi di essere un sincero democratico e far cadere il procedimento di estradizione. Io ci credo”. Sarà profetico? Negli Stati Uniti è sempre far west: sceriffi, killer e forche di Carlo Forte L’Unità, 11 aprile 2024 Era un ragazzo di 26 anni. Nero. Abitava a Chicago. Si chiamava Dexter Reed. È morto ridotto a brandelli da 96 colpi di rivoltella sparati uno dopo l’altro da cinque poliziotti nel corso di 42 secondi. Meno di un minuto per il massacro. Non era ricercato, non era della mala, non era accusato di delitti. Cioè, di un delitto sì, ma uno di quelli che spesso ciascuno di noi commette: guidava senza cintura. Una pattuglia di polizia in borghese, a bordo di un’auto privata, gli ha tagliato la strada, i poliziotti sono scesi, hanno circondato la macchina di Dexter e gli hanno gridato che doveva scendere. Puntandogli le rivoltelle. Lui probabilmente ha avuto paura. Nulla dimostrava che quelli fossero poliziotti, Ha detto che non scendeva. Ha messo la sicura. Secondo la polizia avrebbe estratto una pistola per difendersi e avrebbe sparato un colpo. Uno. La risposta è stata immediata. I proiettili hanno distrutto il finestrino e hanno ferito il ragazzo, lui è sceso dalla macchina a quel punto. Non aveva più la pistola in mano, era ferito gravemente ed è finito a terra. Loro hanno continuato a sparare, almeno altri 50 colpi. È successo il 21 marzo. Ma solo ieri è saltato fuori un filmato ripreso proprio dalla telecamera di un poliziotto. Dal filmato non si capisce se davvero Dexter Reed abbia sparato un colpo. Si capisce che non c’era nessun motivo per ucciderlo. E anche che forse non c’era bisogno di circondare con le rivoltelle in mano un’auto solo perché il guidatore era senza cintura. Se vuoi amare l’America può farlo. Molti di noi la amano. Però devi saperlo che loro sono fatti così. Che c’è una parte vasta della popolazione americana che ritiene che la violenza, la furia, la sopraffazione, siano il sale della civiltà. E magari non guardano più i film western, ma nel vecchio west ancora vivono. Tra loro, ad esempio, c’è il governatore del Missouri Mike Parson, 68 anni, repubblicano. Il quale l’altra sera si è trovato di fronte alla richiesta di clemenza di un detenuto cinquantenne, Brian Dorsey il quale stava per essere portato alla camera della morte. Brian ha trascorso 18 anni in prigione, si era pentito, aveva mantenuto un atteggiamento da detenuto modello, lavorava in carcere, era disperato per avere ucciso, tanti anni fa, sotto l’effetto della droga. A suo favore si erano pronunciate settanta guardie carcerarie, un vescovo, molti educatori e persino uno dei giudici che lo aveva condannato. Tutti chiedevano al governatore di risparmiargli la vita. Il governatore ha detto no. No, non firmo la grazia. E allora hanno preso Mike, l’hanno legato a un lettino e gli hanno detto se voleva dire qualcosa. Lui ha rilasciato una breve dichiarazione di amore per tutti. Poi ha sorriso e loro gli hanno infilato un ago nella vena del braccio e lo hanno imbottito di barbiturici. È morto alle 18 e 15 dell’altra sera poco dopo la mezzanotte italiana. Il governatore Parson è stato informato. Era soddisfatto. È andato a cena. Cena leggera. Poi ha dormito tranquillo.