“Ora svuotate le carceri”. Parola del giudice di sorveglianza di Valentina Stella Il Dubbio, 10 aprile 2024 La magistrata Giovanna De Rosa audita in Parlamento rilancia la norma Giachetti: “La situazione è grave, urgono provvedimenti immediati”. “La situazione detentiva è estremamente grave, rispetto al sovraffollamento e a tutto ciò che comporta” quindi la proposta del deputato di Iv Roberto Giachetti, elaborata insieme a Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, sulla liberazione anticipata speciale “si rivela adatta, congrua, perché ha un effetto immediato di deflazione del carico. La proposta pertanto sotto questo profilo è sicuramente apprezzabile”. Così Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, audita in Commissione Giustizia alla Camera. La magistrata ha aggiunto: “Occorrono sicuramente provvedimenti immediati anche perché a mio avviso quello che manca nella valutazione generale, quando si trattano queste tematiche, è l’attenzione ai ricorsi che vengono proposti dai reclusi, che si trovano in condizioni di sovraffollamento”, in base all’articolo 35-ter dell’ordinamento penitenziario che prevede rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subìto un trattamento in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. “Questi ricorsi, ad esempio, al Tribunale di sorveglianza di Milano sono talmente tanti che nei soli primi due mesi del 2024 hanno superato quelli totali del 2023. Questi ricorsi danno problemi di accoglimento rispetto all’illegalità della carcerazione e risarcimenti del danno in forma o pecuniaria o di riduzione della pena. Il problema di questa situazione deve essere quindi affrontato con un provvedimento immediato e di immediata efficacia”. Opposto il parere della sua collega Vittoria Stefanelli, già presidente facente funzioni del Tribunale di Sorveglianza di Roma: la proposta “presenta criticità. Quanto al primo comma si riporta a 60 giorni la liberazione anticipata per ogni semestre e quindi abbiamo una proposta di riduzione della pena detentiva dall’attuale un quarto ad un futuro un terzo. Questo mi sembra in controtendenza rispetto ad uno Stato che investe sul processo penale, che anche in termini di Pnrr cerca con una riduzione del disposition time di pervenire rapidamente a delle condanne e poi invece queste condanne quando intervengono vengono parzialmente neutralizzate. Già oggi la previsione di riduzione di un quarto della pena, quindi 45 giorni ogni semestre, mi sembra un beneficio di favore che viene concesso per la buona condotta”. Intervenuto anche il presidente dell’Unione Camere penali, Francesco Petrelli: “Sono trascorsi esattamente centoventi anni da quando Filippo Turati pronunciò davanti al Parlamento il suo famoso discorso di denuncia sulle condizioni delle carceri italiane”, ha esordito il penalista, tuttavia “poco sembra essere cambiato da quel tempo per le nostre carceri, la maggior parte delle quali sono segnate da condizioni di vita detentiva del tutto inaccettabili per un paese civile”. Pertanto, “nella impraticabilità di rimedi di maggiore portata che soli apparirebbero idonei a fronteggiare in maniera congrua l’emergenza in corso, quali sarebbero provvedimenti di clemenza generalizzati, tale meritoria iniziativa (proposta in discussione, ndr) risulta essere un concreto contributo alla decompressione del sovraffollamento, con auspicabili ricadute positive sulla riduzione del fenomeno dei suicidi”. Ha preso la parola a favore del provvedimento anche l’avvocato Sergio Schlitzer, dell’associazione Il carcere possibile onlus, fondata da Riccardo Polidoro, recentemente scomparso. Ha però suggerito alcune modifiche: “Si ritiene che la procedura per la concessione del beneficio possa e debba essere semplificata, eliminando un adempimento che nella prassi allunga sensibilmente i tempi, quale quello del preventivo parere del pubblico ministero”. Infine Gennarino De Fazio, segretario generale Uilpa Polizia penitenziaria: “Abbiamo 14 mila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare, con una crescita di 400 detenuti al mese. Siamo prossimi ai livelli che ci portarono alla condanna da parte della Cedu. A questo si aggiunge la mancanza di almeno 18mila agenti penitenziari. Abbiamo avuto 30 suicidi tra i detenuti e 4 tra gli agenti dall’inizio dell’anno. Questi numeri danno una fotografia della crisi del sistema penitenziario. Nelle carceri ci sono situazioni di illegalità diffusa: siamo al paradosso di uno Stato che imprigiona cittadini che hanno violato la legge ma poi esso stesso viola quelle leggi che si è dato”. Sulla proposta Giachetti ha concluso: “C’è necessità di interventi strutturali, sistemici. E occorre intervenire subito con misure deflattive: la pdl di cui stiamo discutendo, seppur con degli aspetti critici, non è solo un modo con cui si può fare ma è anche quello probabilmente di esecuzione più immediata, a costo zero, e indurrebbe anche i condannati ad una maggiore adesione ai programmi trattamentali, pur con delle criticità”. Sulle carceri è scontro tra toghe: nonostante 30 suicidi no ad amnistia e indulto di Angela Stella Il Dubbio, 10 aprile 2024 La spaccatura durante il comitato direttivo centrale del fine settimana. Trenta detenuti suicidi dall’inizio dell’anno ma Magistratura indipendente si oppone perfino al rafforzamento delle pene alternative: “Il nostro sistema penale è sbracato”. Non si ferma l’ondata di suicidi di detenuti nelle carceri italiane. Siamo arrivati a 30 dall’inizio dell’anno. L’ultimo, in ordine di tempo, è quello di un recluso di origine straniera ristretto nella casa circondariale di Vibo Valentia. La posizione del Governo la conosciamo ormai da tempo: Nordio ripete che i suicidi sono un “fardello”, assegna 5 milioni per il potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici negli istituti ma tutti lo criticano perché è il classico pannicello, ribatte su riutilizzo delle caserme e costruzione nuove carceri. Di questo si è discusso animatamente durante l’ultimo ‘parlamentino’ dell’Anm che si è tenuto nel fine settimana. L’Associazione Nazionale Magistrati ha approvato una mozione all’unanimità ma molto al ribasso rispetto alle risposte di cui avrebbero bisogno gli istituti di pena e i detenuti e il dibattito che l’ha preceduta ha fatto emergere la distanza profonda che esiste all’interno della magistratura sul tema. Da una parte Magistratura Indipendente, con una visione carcerocentrica e reazionaria della pena, dall’altra le correnti progressiste, Magistratura Democratica e Area, con un’altra volta a umanizzarla. In mezzo Unicost sempre un po’ ballerina. Enrico Infante di Magistratura indipendente ha detto, e lo si può risentire tutto su Radio Radicale, che “già con la Cartabia le sanzioni sostitutive sono ampliate a 4 anni. Ancora dobbiamo ampliare? Il nostro sistema penale si è eccessivamente illanguidito, sbracato direi”. “Giorgio Marinucci, penalista iscritto a Rifondazione Comunista nel ‘95, diceva che con l’incremento dell’affidamento in prova e delle sanzioni sostitutive il nostro sistema si è disintegrato. L’efficacia deterrente della pena è venuta meno”. Oggi però le statistiche dicono altro: meno carcere, meno recidiva. Secondo diversi studi la percentuale dei recidivi fra coloro che scontano una pena in carcere è del 68,45%, mentre la percentuale scende al 19% se si guarda chi è destinatario di misure alternative. Persino studi d’oltreoceano hanno dimostrato che negli Stati Uniti la pena di morte non fa da deterrente al crimine. Paradossalmente dove viene praticata ancora si delinque di più. Ma tornando all’Anm, diversa la posizione di Luca Poniz di Area: “chi di noi ha chiesto di essere ammesso nelle celle si è reso conto con mano quanto distante sia, più che in ogni altro ambito, la distanza tra i principi costituzionali che noi solennemente proclamiamo su cui giuriamo e la realtà delle persone che subisce quotidianamente delle torture perché questa è la parola più usata”. E poi Stefano Celli di Md che, parlando della circolare del DAP sulla “media sicurezza”, che ha riportato tutti gli istituti al precedente regime c.d. “chiuso”‘ ove i detenuti trascorrono venti ore all’interno di celle sovraffollate, perché le attività trattamentali da svolgere fuori dalle celle non ci sono, ha detto: “durante il Covid siamo stati in un regime paragonabile agli arresti domiciliari per due mesi e sembrava che ci avessero tagliato una mano, due braccia, due gambe e noi stavamo a casa nostra nel nostro letto, cioè non in quattro in un letto, non in otto in una stanza dove normalmente si sta in due”. E dalla platea una esponente di Mi: “ma noi eravamo innocenti”. Vediamo ora uno stralcio della mozione approvata: “La condizione, come tragicamente ci ricorda il numero intollerabile dei suicidi in carcere, è gravissima”. Si è ribadito che la “necessità di ridurre l’accesso al carcere è ben presente nel percorso normativo iniziato con la riforma Cartabia, con il potenziamento delle pene sostitutive. Tuttavia, si assiste ad una sostanziale disapplicazione degli istituti a causa di inadeguatezze organizzative degli uffici chiamati ad interagire nella fase di articolazione dei percorsi rieducativi”. Si segnala quindi “l’opportunità di garantire una più incisiva efficacia ai meccanismi premiali finalizzati alla rieducazione e risocializzazione del detenuto, anche prendendo in considerazione un temporaneo ampliamento degli stessi ed una rivisitazione e razionalizzazione dell’intero sistema. Al Ministro della Giustizia chiediamo quindi di dare corso ad investimenti urgenti e adeguati finalizzati a: aumentare l’organico delle figure direttamente coinvolte nei progetti di recupero e formazione dei detenuti e della polizia penitenziaria, garantendone l’effettiva copertura con investimenti destinati; potenziare gli Uffici di Esecuzione esterna; dare finalmente corso ad un piano di costruzione di nuove carceri moderne e residenze per esecuzione di misure di sicurezza (R.E.M.S.); di promuovere ed attuare convenzioni con aziende e associazioni datoriali e del Terzo settore, al fine di garantire l’effettività del lavoro ad ogni detenuto; di rafforzare l’assistenza sanitaria soprattutto psicologica e psichiatrica”. Per far accettare a Magistratura Indipendente di considerare la proposta del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, elaborata insieme alla presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, sulla liberazione anticipata speciale, ora in discussione in Commissione Giustizia della Camera, si è dovuto mettere in atto un vero e proprio gioco di prestigio linguistico: la norma si è trasformata nell’espressione “temporaneo ampliamento degli stessi (riferito ai meccanismi premiali, ndr) ed una rivisitazione e razionalizzazione dell’intero sistema”. Magistratura indipendente proponeva solo la costruzione di nuove carceri e il riutilizzo delle caserme, perfettamente in accordo con la linea del Ministro Nordio e dell’Esecutivo Meloni. Tanto è vero che durante il Comitato direttivo centrale nella saletta del Palazzaccio mentre intervenivano gli esponenti della corrente conservatrice si sentiva dalla platea un borbottio da parte di quelli di Md e Area con frasi del tipo “buttate via la chiave” e “poi non dite che non siete collaterali al Governo”. Per giungere alla mozione unitaria si sono dovute pertanto sacrificare le proposte delle correnti di sinistra che puntavano ad indulto, amnistia e una seria rivisitazione della legislazione in materia di droghe leggere. Diritti umani violati: “Dai detenuti pioggia di ricorsi” di Angela Stella L’Unità, 10 aprile 2024 Due magistrate di sorveglianza con due opposte visioni dell’esecuzione penale. È quanto chiaramente emerso dalle audizioni in commissione giustizia a Montecitorio che si sono tenute ieri sulla proposta di Roberto Giachetti (Iv) riguardo la liberazione anticipata speciale, elaborata insieme alla presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini. Da una parte Giovanna Di Rosa, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano: “La situazione detentiva è estremamente grave, rispetto al sovraffollamento e a tutto ciò che comporta. Occorrono sicuramente provvedimenti immediati anche perché a mio avviso quello che manca nella valutazione generale, quando si trattano queste tematiche, è l’attenzione ai ricorsi che vengono proposti dai reclusi, che si trovano in condizioni di sovraffollamento”, in base all’art. 35ter dell’Ordinamento Penitenziario che prevede rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subìto un trattamento in violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. “Questi ricorsi, ad esempio, al Tribunale di sorveglianza di Milano sono talmente tanti che nei soli primi due mesi del 2024 hanno superato quelli totali del 2023. Questi ricorsi danno problemi di accoglimento rispetto all’illegalità della carcerazione e risarcimenti del danno in forma o pecuniaria o di riduzione della pena. Il problema di questa situazione deve essere quindi affrontato con un provvedimento immediato e di immediata efficacia” quindi la proposta in esame “si rivela adatta, congrua perché ha un effetto immediato di deflazione del carico. La proposta pertanto sotto questo profilo è sicuramente apprezzabile”. Lascia invece molto perplessi la posizione della sua collega Vittoria Stefanelli, già presidente facente funzioni del Tribunale di Sorveglianza di Roma secondo la quale la norma in discussione “presenta criticità. Quanto al primo comma si riporta a 60 giorni la liberazione anticipata per ogni semestre e quindi abbiamo una proposta di riduzione della pena detentiva dall’attuale un quarto ad un futuro un terzo. Questo mi sembra in controtendenza rispetto ad uno Stato che investe sul processo penale, che anche in termini di Pnrr cerca con una riduzione del disposition time di pervenire rapidamente a delle condanne e poi invece queste condanne quando intervengono vengono parzialmente neutralizzate. Già oggi la previsione di riduzione di un quarto della pena, quindi 45 giorni ogni semestre, mi sembra un beneficio di favore che viene concesso per la buona condotta”. Noi abbiamo sempre pensato che gli obiettivi del Pnrr fossero quelli di ridurre l’arretrato e i tempi dei processi, non di ottenere il più velocemente possibile delle condanne. Intervenuto anche il presidente dell’Unione Camere Penali, Francesco Petrelli: “Sono trascorsi esattamente centoventi anni da quando Filippo Turati pronunciò davanti al Parlamento il suo famoso discorso di denuncia sulle condizioni delle carceri italiane” ha esordito il penalista, tuttavia “poco sembra essere cambiato da quel tempo per le nostre carceri, la maggior parte delle quali sono segnate da condizioni di vita detentiva del tutto inaccettabili per un paese civile”. Pertanto “nella impraticabilità di rimedi di maggiore portata che soli apparirebbero idonei a fronteggiare in maniera congrua l’emergenza in corso, quali sarebbero provvedimenti di clemenza generalizzati, tale meritoria iniziativa (proposta in discussione, ndr) risulta essere un concreto contributo alla decompressione del sovraffollamento, con auspicabili ricadute positive sulla riduzione del fenomeno dei suicidi”. Infine Gennarino De Fazio, segretario generale UILPA Polizia penitenziaria: “siamo al paradosso di uno Stato che imprigiona cittadini che hanno violato la legge ma poi esso stesso viola quelle leggi che si è dato”. Sulla proposta Giachetti ha concluso: “c’è necessità di interventi strutturali, sistemici. E occorre intervenire subito con misure deflattive: la pdl di cui stiamo discutendo, seppur con degli aspetti critici, non è solo un modo con cui si può fare ma è anche quello probabilmente di esecuzione più immediata, a costo zero, e indurrebbe anche i condannati ad una maggiore adesione ai programmi trattamentali pur con delle criticità”. Trenta suicidi in cella: insufficienti i fondi per gli psicologi di Giovanni M. Jacobazzi Il Riformista, 10 aprile 2024 L’incognita del “dopo” determinerebbe una angoscia difficile da superare. Previsti i Consigli di aiuto sociale per il reinserimento ma Nordio ammette: “Mai attivati”. E siamo a trenta. È al momento senza precedenti nella storia repubblicana il numero dei detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri dall’inizio dell’anno. L’ultimo caso lo scorso fine settimana a Vibo Valentia dove un cittadino straniero è stato trovato impiccato alle sbarre della sua cella. Un triste record che, in assenza di interventi strutturali, pare purtroppo destinato a crescere ancora. Uno dei motivi di questa escalation è sicuramente la presenza fra i reclusi di tantissime persone affette da problemi psichiatrici. Un elemento che sta trasformando le carceri nei nuovi manicomi. Secondo gli ultimi dati disponibili, circa il 15 percento della popolazione carceraria è affetta da turbe psichiche che rendono incompatibile la loro detenzione. I fondi previsti per gli psicologi e gli psichiatri sono totalmente insufficienti e non permettono, in media e non in tutti gli istituti, più di un’ora a settimana di terapia. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha firmato l’altro giorno un decreto con cui vengono stanziati 5 milioni di euro per il potenziamento dei servizi trattamentali. L’aumento dei fondi non porterà però ad un reale potenziamento dell’assistenza offerta ai detenuti. Lo scorso febbraio erano stati infatti aumentati i compensi orari degli esperti psicologi: se non fosse intervenuto l’adeguamento delle risorse, il servizio sarebbe stato di fatto dimezzato. Analizzando le statistiche dei suicidi, è emerso che molti di essi avvengano a pochi giorni dalla libertà. L’incognita del “dopo” determinerebbe una angoscia difficile da superare. Sul punto l’ordinamento penitenziario aveva previsto i Consigli di aiuto sociale (Cas), presieduti dal presidente del locale tribunale, e composti da funzionari ministeriali, medici, rappresentanti di categorie professionali, con il compito di facilitare il reinserimento sociale dei detenuti. Lo stesso Nordio ha comunque ammesso che non sono mai stati attivati. Al loro posto, via Arenula ha stipulato intese con la rete locale, utilizzando la Cassa delle ammende come copertura finanziaria. Sul punto va segnalata una disparità di trattamento tra i detenuti. I programmi per il reinserimento sociale escludono ben nove regioni, fra cui il Lazio. Il governo Meloni sulle carceri non pare disponibile a varare i tanto attesi interventi strutturali: più formazione e lavoro, minore affollamento, trasferimento in strutture dedicate di tutte quelle persone che in galera non avrebbero mai dovuto entrarci, a partire dai tossicodipendenti e dai malati psichiatrici. Nordio, a proposito dei suicidi nelle carceri, ha affermato che si tratta di una ‘questione irrisolvibile’ e ‘malattia da accertare’. Non proprio una delle migliori giustificazioni che si potessero dare. In tema di riforme, invece, in Commissione Giustizia al Senato è stata presentata ieri una riformulazione dell’emendamento depositato dalla relatrice Erika Stefani (Lega) al disegno di legge relativo alle “intercettazioni tra l’indagato e il proprio difensore e proroga delle operazioni”, a prima firma del forzista Pierantonio Zanettin. L’emendamento stabilisce che le intercettazioni “non possono avere una durata complessiva superiore a quarantacinque giorni, salvo che l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. L’emendamento della relatrice ha ricevuto il parere favorevole del governo. La proposta di modifica verrà votata in una prossima seduta. Le opposizioni hanno chiesto più tempo per valutare il nuovo testo. Con la nuova formulazione non si farebbe alcun riferimento ai procedimenti relativi al terrorismo, un tema che era stato sollevato nelle scorse settimane dal Partito democratico. Questa mattina, infine, è previsto il voto finale sul sequestro del telefonino. In considerazione dei dati altamente sensibili contenuti, le regole da applicare dovranno essere le stesse delle intercettazioni e la selezione dei contenuti si svolgerà mediante un contraddittorio tra le parti per decidere cosa sia rilevante a fini processuali, anche in relazione alla conservazione dei dati nell’archivio digitale delle intercettazioni. All’interno dello smartphone sono normalmente contenute le chat attraverso i vari social che consentono di ricostruire, anche a distanza di tempo, le conversazioni intercorse fra il possessore dell’apparato e altri soggetti. Per colmare la lacuna verrà dunque inserito l’articolo 254 ter del codice di procedura penale: “Sequestro di dispositivi e sistemi informatici, smartphone e memorie digitali”. A dare manforte all’iniziativa parlamentare era stata la Cassazione che aveva più volte affermato la illegittimità del sequestro di tali dispositivi per violazione del principio di proporzionalità e adeguatezza in caso di mancata indicazione “di specifiche ragioni a un’indiscriminata apprensione di tutte le informazioni ivi contenute”. Piazza Cavour lo scorso anno aveva bocciato il sequestro ‘a strascico’ di tutti i file contenuti su una smartphone di un indagato. Il pm, aveva scritto la Cassazione, deve procedere alla sua immediata restituzione dopo aver proceduto alla ricerca di quanto d’interesse. “Mettiamo in carcere” le imprese digitali di Antonio Palmieri vita.it, 10 aprile 2024 Formare ai mestieri del digitale significa formare a lavori del presente e del futuro. Significa dare una prospettiva solida sia per il periodo di permanenza in prigione sia per il dopo. I casi di Cisco, Linkem e Digital360 e del progetto “Recidiva Zero”. Tre anni fa ero il deputato in carica più longevo a occuparsi (dal 2001) di tecnologia e di innovazione. Per una singolare coincidenza (non casualità, il caso non esiste) nel giro di poche settimane Andrea Rangone, presidente Digital360, Francesco Benvenuto e Agostino Santoni, (il primo responsabile delle relazioni istituzionali di Cisco Italia, il secondo all’epoca amministratore delegato della stessa azienda) mi raccontarono le attività di formazione e di avviamento al lavoro che stavano realizzando in alcune carceri italiane. Di lì a poco, un amico mi segnalò che Davide Rota, (attualmente amministratore delegato di Tiscali e al tempo presidente di Linkem) stava facendo la stessa cosa. Grazie al lavoro di approfondimento fatto insieme a loro ho compreso che il digitale può fare molto per aiutare a risolvere la triste situazione delle carceri italiane. Anzi, lo sta già facendo, semplicemente perché i leader di alcune grandi aziende tecnologiche hanno creduto che ciò fosse possibile. Le attività nelle carceri di Cisco, Linkem e Digital360 sono differenti tra loro, ma hanno in comune un fattore determinante, che non è la tecnologia: è l’umano. È la passione con la quale Rangone, Benvenuto, Santoni (e oggi il suo successore, Gianmatteo Manghi), Rota e le persone che lavorano con loro a questi progetti si sono presi a cuore le singole persone detenute. È ciò che ha spinto Rangone e i suoi a lavorare a Milano per preparare Matteo e Fernando, due detenuti in semi libertà, a diventare imprenditori e a formare la cooperativa sociale Atacama, che sviluppa progetti di comunicazione e realizza video di qualità. La stessa attenzione alla persona che ha portato Rota a essere l’unica persona ad accogliere fuori dal carcere di Lecce Domenico, il primo operatore del laboratorio di riparazione router Linkem a uscire per fine pena, a guidarlo a fare buon uso della ritrovata libertà e a metterlo successivamente a guidare i laboratori nelle carceri dove Linkem opera. È l’impeto con il quale nel 2003 Benvenuto, con l’allora come oggi decisivo contributo di Lorenzo Lento, ha dato il via alla prima Cisco Academy a Bollate, primo carcere al mondo in cui sono stati erogati corsi di alta formazione informatica. Un percorso che Santoni, Manghi, Benvenuto e Lento hanno voluto proseguire da due decenni con tenacia e commozione. La stessa che hanno provato vedendo papa Francesco lo scorso giovedì santo lavare i piedi a Rania, la più brava della classe Cisco a Rebibbia. Come è noto, tutte le professioni legate al digitale lamentano un grande scarto tra la domanda delle imprese e la disponibilità di personale. È quindi evidente - naturalmente con tutto il rispetto per le altre iniziative di formazione e lavoro presenti nelle nostre carceri, che sono ugualmente utili e importanti - che formare ai mestieri del digitale significa formare a lavori del presente e del futuro. Significa dare una prospettiva solida sia per il periodo di permanenza in prigione sia per ciò che può accadere finito di scontare la pena. Così è stato per centinaia di detenuti - due per Digital360, in tre anni, venti per Linkem in quattro, 1.500 persone per Cisco in poco più di venti - che grazie ai mestieri del digitale e della tecnologia e al fatto che qualcuno ha dato loro una opportunità hanno trovato un lavoro, dentro e fuori dal carcere. Questo ha determinato il risultato più importante che ci si deve attendere dalla detenzione: recidiva zero. Un risultato che non è mera statistica, ma significa vite ritrovate, a conferma del fatto che ciascuno di noi non è definito una volta per sempre dalla propria colpa. È possibile cambiare, soprattutto se trovi chi crede in te e non vede semplicemente un carcerato, ma un essere umano. Un essere umano che ha certamente sbagliato, ma che è in grado, se accompagnato, di recuperare quella stima di sé che consente di impegnare per il bene la propria libertà. Ora la sfida è rendere tutto questo una opportunità per tutte le persone, in tutte le carceri. A questo mira il progetto “Recidiva zero” che sarà presentato il 16 aprile al Cnel. Esso è frutto dell’accordo interistituzionale sottoscritto il 15 giugno 2023 tra Ministero della Giustizia e Cnel per dare vita a un’azione sinergica che impatti sulla formazione e sul lavoro dei carcerati. Il lavoro preparatorio svolto in questi mesi consente ora di partire con una iniziativa che parte dalla valorizzazione delle esperienze, delle competenze e dei modelli di intervento esistenti, ma li colloca per la prima volta in un progetto che vuole portare la medesima offerta formativa e lavorativa tutte le carceri italiane. L’obiettivo è avviare un percorso utile per trasformare il carcere da mero “luogo di pena” ad ambito di educazione, formazione e preparazione al reinserimento nella società. Come detto dal presidente del CNEL Renato Brunetta lo scorso 13 dicembre a “Tecnologia solidale 2023”, uno dei punti qualificanti del progetto è che tutte le carceri abbiano almeno un’aula informatica. Brunetta e il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari vogliono usare il digitale come fattore abilitante per ogni tipo di intervento formativo. L’idea è che le attrezzature presenti in questa aula consentano non solo la formazione ai lavori del digitale, ma anche di essere adeguatamente formati ad altri mestieri o di sostenere il conseguimento di qualifiche del normale percorso scolastico. Il 16 aprile saranno presentati i punti del progetto e le modalità operative della sua realizzazione. La adeguata attuazione di “Recidiva Zero” darà finalmente vita al dettato costituzionale sulla funzione della pena e, come ho già detto, ribadirà quel principio iscritto nella nostra tradizione millenaria cristiana per il quale la colpa non è l’ultima e definitiva parola sul destino di un essere umano: vi è sempre una possibilità di riscatto. Naturalmente se la singola persona sceglie di mettersi in gioco e trova attorno a sé le condizioni necessarie per la propria “conversione”, a partire da uno sguardo diverso su di sé, capace di rimettere in movimento la sua libertà. Si può fare, anche in prigione. Anzi, si deve fare. Sport in carcere, Nordio: “Essenziale per la rieducazione” di Marco Belli gnewsonline.it, 10 aprile 2024 Settanta progetti da finanziare nel corso del 2024 e la sottoscrizione di un nuovo protocollo d’intesa per iniziative comuni. Lo sport sempre più al centro dei percorsi di recupero e reinserimento di chi è privato della libertà. Le novità sono state presentate oggi dai ministri della Giustizia, Carlo Nordio, e per lo Sport e i giovani, Andrea Abodi, nell’ambito dell’incontro “Sport per tutti, Carceri 2024”. La presentazione delle misure e delle opportunità a supporto dello sport sono state illustrate insieme al ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, al vicepresidente vicario di Anci, Roberto Pella, al presidente dell’Istituto per il Credito sportivo, Beniamino Quintieri, e al presidente di Sport e salute, Marco Mezzaroma. “In carcere, lo sport è essenziale - insieme al lavoro - per dare attuazione all’indirizzo costituzionale della pena, volta alla rieducazione. Occorre trovare ogni modo per agevolare le attività sportive dei detenuti: ampliandole potrebbe ridursi anche il tristissimo numero dei suicidi. Lo sport, come il lavoro, contribuiscono inoltre anche all’abbattimento della recidiva”, ha sottolineato il Gardasigilli. I nuovi 70 progetti per promuovere l’attività sportiva e formativa rivolta a detenuti adulti, minori e giovani adulti in carico al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ai servizi della Giustizia minorile - che saranno finanziati per un importo massimo singolo di 20mila euro - seguono i 78 già attivati nell’ambito della più ampia campagna “Sport di tutti - Carceri”, avviata nel maggio dello scorso anno dai due ministeri in collaborazione con Sport e Salute Spa e ministero della Difesa. Le progettualità che saranno ammesse al finanziamento riguarderanno attività fisico-sportive e formative sulle discipline e i valori dello sport e saranno proposte da ASD/SSD ed Enti del Terzo settore di ambito sportivo. Oltre a facilitare il reinserimento sociale e lavorativo dei soggetti coinvolti, l’iniziativa punta anche a migliorare la condizione detentiva durante l’esecuzione della pena e a sviluppare competenze in ambito sportivo, educativo e socio-psico-pedagogico. Il Guardasigilli ha rammentato come ogni “attività è orientata alla rieducazione del detenuto: teniamo presente - ha precisato - che la recidiva, ossia il ritorno in carcere di un ex detenuto rimesso in libertà é inversamente proporzionale a quanto questi abbia imparato dal lavoro o dall’aver praticato una attività. Avere recidiva zero, che é il nostro obiettivo, significa anche iniziare quel processo di diminuzione del sovraffollamento carcerario che ci trasciniamo da tempo”. Il nuovo protocollo d’intesa è finalizzato a incentivare l’attività motoria e sportiva e promuovere uno stile di vita attivo nella quotidianità carceraria. Sarà possibile attivare programmi di pratica sportiva individuale e collettiva, organizzare percorsi di avviamento al tirocinio e alla qualificazione tecnica all’interno degli istituti di pena con l’obiettivo di veicolare, attraverso la pratica dello sport, i valori dell’autodisciplina, dell’aggregazione e del rispetto, anche nell’ambito del trattamento rieducativo. Se la giustizia dei giornali giustizia il diritto di Iuri Maria Prado Il Riformista, 10 aprile 2024 Lo stracco dibattito sui rapporti tra l’amministrazione della giustizia e il sistema dell’informazione continua a reggersi sul solito argomento erroneo e fuorviante: e cioè che il presunto “rilievo penale” di un certo fatto determinerebbe di per sé il diritto del cittadino di averne notizia e il dovere del giornalista di dargliela. Questa teoria è autonomamente bacata perché non sta scritto da nessuna parte - e se fosse scritto sarebbe sbagliato - che il criterio debba essere quello, vale a dire che il “rilievo penale” apre un’autostrada di legittimazione alla pratica di mettere in pagina i fatti riguardanti un cittadino coinvolto in un’indagine. Semmai, anzi, il criterio dovrebbe essere l’opposto: perché se emerge che Tizio si mette le dita nel naso, e io pubblico la notizia, infrango soltanto il suo diritto alla riservatezza su quella non elegantissima abitudine esplorativa, mentre se spiattello le faccende di supposta illiceità per cui lo indagano interferisco, compromettendolo, con il suo diritto di vedere discusse nel processo, non altrove, quelle faccende. Nel processo, si badi bene: e cioè nella sede in cui, sia pure in abbozzo, c’è il noioso diritto di difesa che sui giornali trova curiosamente meno spazio rispetto agli ettari editoriali invece dedicati alla propalazione della voce d’accusa. Ma la teoria del “rilievo penale” è poi bacata perché quello, il “rilievo penale”, finisce per coincidere con qualunque bufala, qualunque fantasia romanzesca, qualunque vociferazione, qualunque prodotto di mattinale che si incarti in un provvedimento di indagine o dell’accusa. Le intercettazioni, i messaggini, le chat che puntualmente fanno l’ossatura narrativa di ordinanze e decreti per il resto disastrosamente vacui, finiscono sui giornali proprio sulla scorta di quella finzione, il “rilievo penale” che un fatto assumerebbe giusto perché è scritto su carta giudiziaria, la quale perlopiù ricicla e trasfigura in verbo inquirente le attività investigative del personale mandato a far strascico sui fondali che il pubblico ministero presume ricchi di delitto. Non basta. Il giornalismo che si intesta - spesso su istigazione della giustizia militante che ne reclama l’attivismo - il diritto/dovere di fare lo scrutinio morale dei privilegiati e dei potenti, o in ogni caso di quelli che rivestono cariche pubbliche, eserciterebbe in modo più che legittimo la propria funzione se non si lasciasse andare a quel plateale malcostume contraffattorio, e cioè pescare dalle indagini e dagli atti giudiziari qualsiasi notizia potenzialmente denigratoria con la giustificazione che “lo dicono i pm”. Che non è fare le pulci alla moralità dell’indagato, ma è far leva su quella fonte di presunta certificazione per dare dignità alla requisitoria giornalistica spacciata per neutro riporto del fatto giudiziario. L’argomento secondo cui i giudici fanno i giudici e i giornalisti fanno i giornalisti sarebbe potabile se non fosse contaminato da quell’evidentissima e impurezza, e cioè il fatto che la promanazione giudiziaria è adoperata maliziosamente in faccia al lettore: il quale non la percepisce affatto come una parte di verità o come una verità di parte, ma come un autorevole sigillo di verosimiglianza. Queste banalità sono risapute da tutti, dai magistrati che non si preoccupano dell’andazzo e dai giornali che se ne giovano. Su quanto possa venirne di buono per le vittime di questo bel sistema, nonché per i cittadini in favore dei quali si pretende che sia tenuto in funzione, a nutrimento del loro diritto “di sapere”, è davvero inutile intrattenersi. “Riforme, al governo chiediamo uno scatto” di Alessandro Barbano Il Riformista, 10 aprile 2024 Intervista al presidente delle Camere Penali, Francesco Petrelli. La separazione delle carriere e delle intercettazioni e la necessità di sottrarsi a condizionamenti e pressioni della magistratura: l’avvocatura scuote Nordio e chiede un’accelerazione dei tanti dossier annunciati e mai portati a termine Presidente Francesco Petrelli, il governo annuncia dopo Pasqua la separazione delle carriere e l’approvazione del pacchetto Nordio, ma i tempi stringono e c’è chi pensa che tutto si risolva in un gettare la palla in tribuna. Come la vedono le Camere Penali? “Come spesso accade nel nostro Paese la materia penale e quella del processo finiscono all’interno di contese più o meno ideologiche. Peggio ancora, le riforme di trasformano spesso in falsi bersagli, sui quali politica e magistratura si scontrano, acfrontandosi in apparenti contese che, però, non hanno al loro interno alcuna concretezza e lasciano troppo spesso le cose come sono”. Sta parlando dello scontro sui test psico-attitudinali? “Questo è un esempio paradigmatico di “falso bersaglio”. Si trattava di un tema interessante che poteva essere affrontato sotto un profilo tecnico. Chiedendosi ad esempio: quali test, eseguiti come, da chi, quando, con quali cadenze, con quali finalità e conseguenze? Test psicattitudinali eseguiti per l’ammissione, o anche per le valutazioni quadriennali o per gli avanzamenti in carriera dei magistrati? E invece il tutto si è risolto in una contesa piuttosto lunare, e nella richiesta di sottoporre l’intera classe politica agli stessi test. Come se non ci fosse una differenza tra i diversi poteri dello Stato. Non a caso la Costituzione definisce la magistratura come un “ordine”.I magistrati non vengono eletti, non dovrebbero perseguire il consenso, esercitano un potere diffuso in nome del popolo. La politica invece viene selezionata attraverso competizioni elettorali direttamente dal popolo”. Dietro il falso bersaglio dei test c’erano le pagelle dei magistrati? “Proprio così. Perché mentre si sviluppa la paradossale contesa, le riforme vere, quelle che riguardano la magistratura e la sua organizzazione ordinamentale non si sono fatte, o meglio si sono fatte come piaceva alla magistratura associata. Senza che nessuno gridasse allo scandalo. la magistratura ha ottenuto quello che voleva. Le valutazioni sono rimaste ciò che erano: nessuna seria valutazione di merito a fronte di un interesse del Paese a una magistratura realmente professionale e non valutata solo in base all’eventuale demerito. Per non parlare della questione dei fuori ruolo: piuttosto che la riforma epocale, che era stata annunciata, si è trattato della classica montagna che partorisce il topolino. Una fotografia dello status quo. Il numero dei magistrati fuori ruolo dislocati nel Ministero della Giustizia si è ridotto di poche unità, e per di più gli effetti di questa minima riforma sono stati rinviati al 2026”. E adesso la riforma delle riforme, la separazione delle carriere, viene annunciata dopo Pasqua, in coincidenza con l’autonomia differenziata, il premierato e alla vigilia delle elezioni europee. È possibile far partire due, tre riforme di rango costituzionale con questa tempistica, oppure il destino della separazione delle carriere sarà quello di una bandierina che vedremo sventolare sempre più lontano, per poi scomparire all’orizzonte? “Purtroppo questo è un timore condiviso su più fronti. La sovrapposizione di troppe riforme costituzionali fortemente divisive non induce all’ottimismo. Al tempo stesso si pone un problema di contenuti. Perché noi non sappiamo in che cosa la proposta di riforma costituzionale del governo differisca dalle altre già presenti in Parlamento, e in particolare da quella elaborata dalle Camere Penali. Quando ho chiesto al ministro quali fossero le differenze che giustificassero un nuovo disegno di legge, lui ha risposto che si sarebbe trattato di una riforma molto simile a quella nostra, il che ci incuriosisce ancora di più. Siamo contenti che il governo intenda metterci la faccia, ma resta la curiosità di comprendere quali saranno gli elementi distintivi”. La vostra proposta verteva su due Csm e la garanzia per il pm di non essere sottoposto all’esecutivo? “La finalità della nostra riforma non è quella di indebolire la figura del pm, né di punirlo. Si propone però di restituire autorevolezza e legittimazione alla figura e al ruolo del giudice, che in questo Paese da troppo tempo sono oscurate, lasciando spazio al pubblico ministero. Con tutto quello che ne consegue. Al tempo stesso vi è l’inequivoca necessità di salvaguardare l’indipendenza e l’autonomia del pm, e abbiamo pensato di farlo nel modo più lineare possibile: due Consigli Superiori della Magistratura, una per la giudicante e una per la requirente, un sistema mutuato dall’ordinamento portoghese”. Su un altro tema chiave, Nordio in un’intervista al Messaggero ha detto che il governo si prepara a far approvare un pacchetto importante sulle intercettazioni, che prevede tra le altre cose la giustiziabilità del sequestro dei telefonini, aderendo a una prescrizione della Cedu. Ma ha detto anche che, in fondo, il Trojan è un problema relativo. Che cosa intendeva, secondo lei? E come interpreta questa dichiarazione, anche alla luce del fatto che le inchieste di Bari e di Torino, che leggiamo sui giornali, sembrano costruite con il Trojan, assemblando frammenti di intercettazioni la cui valenza probatoria pare spesso inesistente, ma servono a disegnare un contesto culturale e etico su cui l’azione penale finisce per esercitare una sorta di controllo sociale, e la stampa se ne serve per trarre un giudizio sulla moralità della politica? “I problemi che riguardano l’assetto attuale del sistema delle intercettazioni sono molti. Già partono dalla riforma Orlando, cioè da quando si è impedito ai difensori di estrarre copia dei file delle intercettazioni ritenute irrilevanti, nelle quali tuttavia potrebbe nascondersi la prova dell’innocenza dell’indagato, che finiscono negli archivi della procura. Con una scelta discutibile si è privilegiata la pur sacrosanta tutela del terzo estraneo alle garanzie della difesa. Questo e un primo profilo che noi abbiamo sempre denunciato, su cui bisognerà porre mano. Abbiamo invece salutato in maniera positiva l’introduzione di quelle modifiche che rendono più efficace la tutela della riservatezza delle comunicazioni, e quindi garantiscono il diritto di difesa tra avvocato e assistito. Allo stesso tempo bisogna dire che il governo ha esteso l’utilizzo del Trojan anche nei casi in cui non ricorrono fenomeni di criminalità organizzata, ma soltanto l’aggravante del cosiddetto metodo mafioso. Una circostanza che la giurisprudenza della Cassazione aveva escluso, e che è stata normativamente introdotta dall’esecutivo per una semplice richiesta che veniva dalla procura antimafia”. E invece bisognava abolire la Spazzacorrotti? “Sì, ma in questo Paese l’eccezione della lotta alla criminalità organizzata dilaga, offrendosi come modello per ogni forma di indagine. E così si è passati con un salto ontologico piuttosto sorprendente dalla mafia alla corruzione, che rispetto alla prima ha caratteristiche molto diverse”. Qual è il rapporto con il Ministro della giustizia, a cui avevate fatto una grande apertura di credito? Esiste un’interlocuzione tra la maggioranza che il guardasigilli rappresenta e le Camere Penali, che lasci pensare che si possa portare a compimento questo processo riformatore del Paese, oppure la sensazione che voi avete è che il ministro sia prigioniero delle divisioni tra i partiti della coalizione e delle pressioni della magistratura associata? “Non voglio pensare a questo. Però è indubbio che nel nostro Paese chiunque tenti di chiunque tenti di riformare il processo penale e l’ordinamento giudiziario incappa in una sorta di vischiosità, che rende assai difficile l’impresa. Bisogna essere realisti e prendere atto che la magistratura associata esercita un’indubbia forza condizionante nei confronti della politica. Avevamo sperato che questo governo riuscisse a liberarsi con maggiore disinvoltura da questo genere di problemi, ma vediamo che al contrario delle difficoltà persistono. Questo non vuol dire che il dialogo non ci sia stato e non continui a esserci. Perché la strada da compiere è molto lunga e noi siamo pronti a sostenere un’azione del governo che vada nella direzione del codice accusatorio e del modello di un diritto penale liberale”. È possibile che qualche risultato giunga prima delle Elezioni europee? “La vedo come un’operazione molto complicata, però che si debba perseguire la riforma della separazione delle carriere come pregiudiziale a ogni altra riforma del codice è indubbio. Perché la necessità di avere un giudice davvero terzo influisce sulla funzionalità dell’intero sistema”. La singolare coincidenza tra le inchieste giudiziarie e la vigilia elettorale, che peraltro colpisce indifferentemente la destra e la sinistra, è una fenomenologia che ormai caratterizza la democrazia italiana? “Anzitutto vorrei dire che questo fenomeno ha un effetto frenante rispetto alle riforme. Basti pensare a quello che sta accadendo nelle carceri, colpite dal sovraffollamento e dai suicidi. Una situazione di fronte alla quale il governo stenta ad assumersi una responsabilità”. Gli psicologi sono un palliativo? “No, perché il carcere ha bisogno di molte risorse sul piano sanitario e psichiatrico. E ha bisogno delle Rems. Ma sono tutte cose che, anche trascurando l’irrilevanza dei finanziamenti e delle risorse investite, riguardano modifiche di medio e addirittura di lungo termine. E invece quello di cui si avverte il bisogno adesso sono, per usare una metafora, farmaci salvavita”. Il farmaco salvavita sarebbe l’indulto? “È piuttosto evidente che amnistia e indulto siano le soluzioni più efficaci per abbattere il fenomeno del sovraffollamento delle carceri. Però siamo realisti. Non ci sono in questo momento le condizioni per un provvedimento di clemenza, che richiede maggioranze parlamentari non raggiungibili. Perciò abbiamo aderito alla proposta formulata dall’onorevole Giachetti, riguardante una liberazione anticipata speciale che è uno strumento già conosciuto dal nostro ordinamento. E che resta il modo più efficace per realizzare una decompressione, senza la quale il sovraffollamento funge da catalizzatore di tutti gli altri problemi del carcere”. Ma lei ritiene che questa coincidenza temporale tra le inchieste giudiziarie e le elezioni sia un fatto casuale, oppure c’è una fenomenologia? Sembra quasi un appuntamento che si danno le elezioni con le inchieste, le quali peraltro sembrano scritte proprio per un processo mediatico... “Il momento elettorale esalta quelle che sono le caratteristiche fenomenologiche dei procedimenti mediatici che in continuazione investono questo Paese. In questo caso possiamo dire che c’è un’opportunità. Perché anche quella parte politica che spesso ha visto con favore determinati strumenti eccezionali dell’antimafia è stata colpita dagli stessi. Questo dovrebbe illuminarci su come determinati strumenti possono incidere sulla libertà di tutti e mettere in crisi uno Stato di diritto. Se queste indagini possono servire a far accendere un riflettore su questo rischio, ben venga”. Lei sembra voler dire: attenti a scherzare con l’Antimafia, si rischia di restare bruciati domani. Però la politica pare non averlo capito. Si dispone in maniera polarizzata e la stampa le viene dietro... “Questo è indubbiamente un vizio che cova nelle viscere della nostra realtà nazionale, del quale dobbiamo liberarci, perché la polarizzazione non serve a costruire una democrazia più matura, ma ci fa fare solo passi indietro”. A proposito di leggi speciali, la Cedu ha acceso un faro sulle misure di prevenzione. Questo è un tema del tutto sottovalutato nel dibattito pubblico ma è proprio la porzione più illiberale del sistema... “Non c’è dubbio, abbiamo immaginato non solo un sistema a doppio binario, ma abbiamo anche operato in modo che quel doppio binario finisse con l’occupare sempre più spazio. Perché coglieva un’opportunità evidente, che deriva dal fatto di aver sostituito la prova con il sospetto e di aver quindi aperto spazi nell’aggressione sia alla libertà personale degli individui che ai loro patrimoni, schivando in qualche modo le garanzie del processo penale. Abbiamo così applicato le misure di prevenzione in maniera sempre più estesa, anche in ambiti come quelli della criminalità di genere, che non sembrano davvero appropriati. La luce accesa dall’Europa su fenomeni che sono l’effetto più eclatante di questo allontanamento del doppio binario dalla legalità sostanziale e processuale, nel vedere cioè soggetti assolti nel processo penale assoggettati a misure patrimoniali, costituisce il paradosso che ha fatto accendere quella lampadina. Speriamo che l’Europa colga l’enormità di questa contraddizione”. I dossier hanno terremotato la democrazia italiana, ma dopo la loro epifania sui media sembriamo essercene dimenticati. Sarebbe stato più giusto affrontare il tema in una commissione specifica parlamentare, piuttosto che lasciarlo all’esclusiva della commissione antimafia? “Siamo in una situazione di sospensione. Non c’è dubbio che gli accessi abusivi alle banche dati della procura antimafia, così come denunciati dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone e dal procuratore antimafia Giovanni Melillo, non possono che destare preoccupazione. Non ne conosciamo né l’esatta estensione, né la profondità del fenomeno, però conosciamo in potenza che cosa possa significare disporre di quei dati e di come questo genere di disponibilità possa creare nel Paese lacerazioni e ferite profonde. Soprattutto quando la fruizione di quei dati si collega al processo mediatico giudiziario”. Da Fdi una proposta di legge per mandare in carcere i piccoli spacciatori di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 10 aprile 2024 Aumentare le pene per il reato di produzione, traffico e detenzione di stupefacenti di lieve entità per garantire il carcere preventivo. In vista delle elezioni europee di giugno Fratelli d’Italia accelera sul tema della sicurezza: il partito di Giorgia Meloni giovedì scorso ha chiesto e ottenuto di assegnare alla commissione Giustizia della Camera una proposta di legge contro lo spaccio “di lieve entità” firmata dalla deputata Augusta Montaruli, fedelissima della premier ed ex sottosegretaria all’Università, costretta alle dimissioni per una condanna definitiva a un anno e sei mesi per peculato. La proposta era stata depositata da Montaruli il 12 aprile 2023 provocando le polemiche del centrosinistra, ma adesso Fratelli d’Italia vuole incardinare il provvedimento in Parlamento per non farsi scavalcare a destra dalla Lega sulla sicurezza. La proposta di due articoli, a prima firma Montaruli ma sottoscritta anche da dirigenti di primo piano nel partito come il capogruppo alla Camera Tommaso Foti, Sara Kelany e Carolina Varchi, prevede di andare a colpire non tanto i grandi traffici internazionali di droga ma gli spacciatori da strada, coloro che commettono reati di “lieve entità”. Montaruli chiede l’aumento della pena massima per questo reato: oggi, secondo l’articolo 73 del Testo unico sugli stupefacenti, la pena sarebbe da 6 mesi a 4 anni e una multa da 1.032 a 10.329 euro ma per la deputata è troppo poco e la pena massima deve essere aumentata a cinque anni. Il motivo è semplice: in questo modo si potrà garantire il carcere. Le attuali pene, si legge nella relazione illustrativa alla proposta di legge, rendono “al momento impossibile applicare la misura cautelare in carcere”. Ma questa “si rende tuttavia necessaria allor quando la condotta tipica del reato per le modalità dell’azione determini, nonostante la lieve entità, un fenomeno criminoso comunque grave con il ritorno dello spacciatore, impropriamente definito ‘piccolo spacciatore’, sulla strada”. Per questo Montaruli vuole dare alla magistratura “un ulteriore strumento per arginare la reiterazione del delitto quando gli elementi de facto a seguito di una puntuale e attenta valutazione siano tali da richiederne l’applicazione”. Il secondo articolo, inoltre, introduce la confisca anche per i proventi dello spaccio di “lieve entità”, oggi esclusa dal Testo unico sugli stupefacenti: “La norma attuale risulta irragionevole - si legge nella relazione illustrativa - dal momento che la lieve entità del fatto, seppur caratterizzata da una minore circolazione del denaro, non considera che esso deriva comunque da una condotta criminosa che non può che assumere contorni sempre più gravi quando non viene sottratto all’agente il fine ultimo del delitto ovvero una forma di guadagno proveniente da reato”. Braccialetti elettronici anti stalking, la legge ne chiede di più ma le scorte sono esaurite di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 10 aprile 2024 “I detenuti in attesa restano in cella”. Il contratto vigente non basta più. Persone non scarcerate perché per qualche curiosa contingenza non si trova il braccialetto elettronico voluto dal giudice. Un caso a Firenze, uno a Milano, due a Rimini, un altro a Milano: scollegati l’uno dall’altro, in pochi giorni sembrano solo casi “strano ma vero” di persone non scarcerate perché per qualche curiosa contingenza non si trova il braccialetto elettronico voluto dal giudice. E invece sotto la punta dell’iceberg di un arrestato per stalking sulla ex compagna, che da un mese resta in carcere perché non salta fuori lo strumento voluto dal Tribunale per garantire la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla donna, spunta la più strutturale ragione, probabilmente di interesse generale anche per il Csm: e cioè che i Ministeri dell’Interno e della Giustizia, quando lo scorso 24 novembre nella legge n. 168 il legislatore ha ritenuto di rafforzare l’arsenale del “codice rosso” in anticipo sui comportamenti prodromici alla violenza di genere, non si sono posti il problema dell’incremento di braccialetti che le nuove norme avrebbero richiesto, e della sproporzione con le quantità disponibili in base al contratto vigente con Fastweb (7,7 milioni l’anno per un massimo di 1.200 attivazioni al mese). Risultato? “I ritardi nella pianificazione delle attivazioni - comunica ora Fastweb ai Tribunali - derivano dall’imprevedibile stravolgimento delle tipologie di braccialetti richieste rispetto alle previsioni contrattuali”, e quindi “dal conseguente esaurimento delle scorte disponibili di dispositivi per il tracciamento di prossimità”, esaurimento “dovuto alla modifica della prassi seguita alle normative introdotte dalla legge 168/2023”. La legge Roccella ha infatti ampliato le possibilità per i giudici di ricorrere (quando l’interessato dia il consenso) al braccialetto elettronico con dispositivo di tracciamento (in sostanza un Gps), in grado di allertare la parte offesa (pure dotata di un congegno) e le forze dell’ordine nel caso in cui il soggetto sottoposto a misura cautelare (come gli arresti domiciliari, o l’obbligo di allontanamento, o il divieto di avvicinamento) entri nel raggio di meno di 500 metri dalla parte offesa o dai suoi luoghi di vita e lavoro. Ma da quando è entrata in vigore il 9 dicembre 2023, la legge ha avuto come effetto (non preventivato dal Ministero dell’Interno competente a fornire i braccialetti e dal Ministero della Giustizia) un’impennata delle richieste di questo tipo di apparecchi. Avere dati è sempre difficile sul tema dei braccialetti, come sperimentato ad esempio nel 2022 dall’associazione Antigone quando il Viminale rigettò una richiesta di accesso civico generalizzato paventando un “pregiudizio concreto alla tutela degli interessi-limite inerenti alla sicurezza pubblica e all’ordine pubblico tutelati dall’articolo 5-bis, comma 1, lettera a) del “decreto trasparenza”“. Quello che si sa è che nel 2020 il braccialetto è stato usato nel 3,2% delle 82.199 complessive misure cautelari coercitive emesse nell’anno, e in particolare nell’11,9% dei 21.949 arresti domiciliari. Nel 2021 il Viminale in risposta a una interpellanza parlamentare aveva quantificato (al 31 dicembre 2020) gli apparecchi in uso in 4.215 e quelli usabili in 5.940; mentre due mesi fa un’altra interpellanza ha assunto in premessa l’esistenza di 5.700 braccialetti attivi, di cui 1.019 per casi di stalking. Sta di fatto che, con tutta evidenza, il tetto massimo contrattuale di 1.200 attivazioni l’anno sta venendo ampiamente sfondato dalle richieste attuali, le quali dopo la legge n.168 si aggirerebbero su dieci volte tanto. “Siamo in attesa di ricevere dal produttore i dispositivi già da tempo richiesti per far fronte alle mutate esigenze” vista “la straordinaria modifica nella domanda di braccialetti”, assicura Fastweb, che aggiunge di “stare fattivamente interloquendo con il Ministero al fine di adottare le misure operative possibili per fare fronte a questa situazione”. Orizzonte dello sblocco? Ancora qualche settimana. Decisivo tenere l’Antimafia al riparo dalla contesa tra partiti di Franco Mirabelli* Avvenire, 10 aprile 2024 Nelle ultime settimane si è molto parlato di Antimafia. Per ragioni diverse, dalla vicenda dell’utilizzo indebito delle banche dati su cui sta indagando la procura di Perugia fino alla inedita decisione del ministro degli Interni di inviare una commissione di accesso al comune di Bari su esplicita richiesta dei parlamentari pugliesi di maggioranza, è stata coinvolta la commissione antimafia e si è discusso sulla legislazione per il contrasto della criminalità organizzata. Il modo in cui la politica, o una parte di essa, sta affrontando questi passaggi credo debba preoccupare per diverse ragioni e mettere in allarme chi considera la lotta alle mafie ancora una priorità per il nostro Paese. Le organizzazioni criminali hanno cambiato strategie, privilegiano il riciclaggio, la finanza e il dark web agli aspetti militari e, in questo modo, non sono diventate meno pericolose, inquinando con miliardi di provenienza illecita l’economia e la nostra stessa democrazia, ma suscitano uno scarso allarme sociale. Di fronte a queste novità in queste settimane si è provato a far passare l’idea che la mafia non sia più un’emergenza e che è venuto il momento di smantellare la direzione nazionale antimafia e archiviare le norme speciali che hanno consentito di dare colpi durissimi alla criminalità organizzata. Da tempo ci sono forze nel centrodestra che, in nome di un generico garantismo, propongono di cambiare la legge Rognoni-La Torre sulla confisca preventiva dei beni ai mafiosi, quella sull’esclusione dagli appalti delle imprese legate alle mafie, la stessa legge sullo scioglimento dei comuni in caso di infiltrazioni, fino al 41 bis. Ma oggi queste spinte rischiano di trovare terreno fertile se passa l’idea che, siccome le mafie sparano meno e agiscono sotto traccia e senza clamori, sono meno pericolose e se si usano inchieste, come quella di Perugia, per delegittimare le istituzioni preposte a combattere la criminalità organizzata. Le mafie hanno storicamente subito colpi durissimi quando magistrati e forze dell’ordine sono stati supportati dall’opinione pubblica e da una politica capace dimostrare la volontà comune, al di là degli schieramenti, di sconfiggere le organizzazioni criminali. Tenere l’antimafia al riparo dalla contesa tra partiti è decisivo. Se passa l’idea che si fanno le cose per favorire una parte contro l’altra si indebolisce l’istituzione, si mina la credibilità delle misure. Per questo è grave che sia stata una delegazione del centrodestra a chiedere al ministro di inviare a Bari, in tempi di una rapidità mai visti, in piena campagna elettorale, la commissione di accesso in Comune, senza che lo stesso ministro abbia esplicitato l’inopportunità di quella richiesta. Insomma Commissione e legislazione antimafia servono a combattere la criminalità organizzata ma se diventano, come sta accadendo, strumenti per colpire l’avversario politico vengono screditati e chi lo fa si assume una grande responsabilità in una fase storica in cui le mafie aggrediscono la nostra economia e la nostra democrazia e in cui c’è bisogno di più attenzione e più unità per combatterle. *Vicepresidente dei senatori del Pd Reggio Emilia. Il Garante: “Intervenire per arginare in ogni modo la violenza” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 10 aprile 2024 Il Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri interviene contro la violenza nelle carceri, costituendosi parte civile nel processo contro agenti accusati di tortura. “Bisogna intervenire per arginare in ogni modo la diffusione della violenza nelle carceri, anche quando questa veste la divisa”. Lo dice Roberto Cavalieri, garante regionale E-R dei detenuti dopo che il giudice del tribunale di Reggio ha accolto la sua richiesta di costituzione di parte civile nel processo che vede imputati dieci agenti della polizia penitenziaria accusati, a vario titolo, di tortura, lesioni e falso per il pestaggio ad un detenuto tunisino all’interno del penitenziario reggiano. Oltre a quella del garante regionale sono state accolte le richieste di parte civile della stessa vittima, del garante nazionale e delle associazioni Antigone e Yairaiha. Accolta, poi, la richiesta, sempre da parte della vittima, di citare il ministero della Giustizia come responsabile civile. “Esprimo soddisfazione - sottolinea Cavalieri tramite una nota - per l’inclusione del garante regionale dei detenuti fra le parti civili del processo. Bisogna intervenire per arginare in ogni modo la diffusione della violenza nelle carceri, anche quando questa veste la divisa. Il corpo della polizia penitenziaria è sano e merita tutta la stima per il lavoro che svolge a favore dei detenuti e della sicurezza nel territorio. Ma è necessario capire che per fare questo mestiere serve non cedere ai metodi coercitivi”. Reggio Emilia. Detenuto pestato: cadute le sospensioni degli agenti, potrebbero tornare al lavoro di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 10 aprile 2024 La decisione del Gip nonostante il parere contrario del Pm. Emergono nuovi dettagli sul presunto caso di pestaggio ai danni di un detenuto che presenta analogie con la vicenda del 3 aprile 2023 per cui si contesta il reato di tortura alla Pulce, quest’ultima confluita nell’udienza preliminare a carico di dieci agenti della polizia penitenziaria. Sul nuovo episodio, cui ha fatto accenno lunedì in tribunale il pubblico ministero Maria Rita Pantani davanti al Gup Silvia Guareschi, e riportato dal Carlino, è aperto un fascicolo in fase di indagini preliminari a carico di ignoti per l’ipotesi di reato di lesioni. Il fatto contestato, avvenuto nella prima metà del 2020, vede come parte offesa un altro giovane tunisino, pure lui allora detenuto nel carcere di via Settembrini. Qui, alla Pulce, sarebbe stato incappucciato con una federa, e anche picchiato: modalità che si sono ripetute anche un anno fa per il connazionale 44enne. Nel caso del 2020, il giovane tunisino fu poi trasportato da Reggio al carcere di Piacenza: qui, accompagnato scalzo, fu accolto dagli agenti della polizia penitenziaria che lo videro massacrato, con segni di ferite visibili. A quanto trapela, i poliziotti del penitenziario di Piacenza rimasero impressionati: fecero fotografie al detenuto per documentare il suo stato e lo mandarono al pronto soccorso dell’ospedale, dove le sue ferite furono certificate. Dal carcere di Piacenza partì una denuncia d’ufficio, a cui si aggiunse quella sporta dallo stesso detenuto, per lesioni. Il giovane tunisino è stato sentito dalla Procura e, un paio di mesi fa, ha cercato di fare un riconoscimento dei suoi aggressori, ma ha avuto difficoltà perché il suo volto era coperto, Inoltre in quel punto del carcere mancavano le telecamere: lì, secondo una lettura investigativa, sarebbe stato portato apposta per poi essere aggredito senza essere immortalati. L’episodio è stato citato dal pm Pantani lunedì nel momento in cui si è opposta alla richiesta delle difese di togliere le misure interdittive per gli agenti della penitenziaria imputati per tortura, lesioni e falso in atto pubblico ai danni del detenuto 44enne, tutelato dall’avvocato Luca Sebastiani: ieri il giudice Guareschi ha sciolto la riserva accogliendo la domanda degli agenti, a cui è stata tolta la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio e servizio disposta nel luglio 2023 dal gip Luca Ramponi per una durata variabile tra i 10 mesi e un anno. Secondo il gup Guareschi, non sussistono più né il pericolo di inquinamento delle prove, perché è già stata esercitata l’azione penale, e neppure il rischio di recidiva, perché il tempo trascorso ha avuto un effetto deterrente. Sull’eventuale rientro al lavoro occorrerà però aspettare le decisioni del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Catania. Morti in carcere, l’allarme della Camera penale: “Un triste appuntamento settimanale” livesicilia.it, 10 aprile 2024 La nota sui suicidi carcerari della Camera penale “Serafino Famà”. Morti in carcere, un dato allarmante e un numero che alza sempre di più l’attenzione sulla situazione carceraria dei detenuti in Italia. Sono 30 i suicidi nell’anno appena trascorso, un valore della vita che vola via, che evidenzia disagio e si contrappone al concetto di recupero e qualità della vita da rispettare. Un dato che ha trovato il parere della Camera Penale di Catania “Serafino Famà” che ha voluto consegnare tramite il suo presidente avvocato Francesco Antille e il vice presidente avvocato Vittorio Basile. Morti in carcere, “Serve una commissione” - “È tempo di proporre una commissione di inchiesta - scrive il presidente Antille in un comunicato - troppe carcerazioni e la riforma della cautela è letteralmente fallita e la maggior parte dei detenuti in attesa di giudizio dovrebbe restare ai domiciliari. Altro nodo, non aver più investito nell’edilizia carceraria e i Tribunali di Sorveglianza purtroppo non rispondono alle vere esigenze della domanda di giustizia in esecuzione. Lo Stato deve mostrare i suoi muscoli perché le strutture penitenziarie annoverano condizioni di vivibilità assurde e da quarto mondo, senza dimenticare un cronico sotto-organico delle forze di sorveglianza”. “Se non si vede la luce oltre il tunnel si rischiano altri morti. Ormai è un appuntamento settimanale con i suicidi in cella - conclude il presidente Antille - molti si sono indignati per le catene della Salis in Ungheria. Ma non esiste solo la Salis e dovremmo guardare un po’ a casa nostra”. “L’angolo più buio” - Riflessione che trova il parere anche del vice presidente della Camera Penale di Catania avvocato Vittorio Basile: “Qual è il limite alla nostra vergogna? Quale numero dovrà essere raggiunto per pensare che la misura sia colma? O forse pensiamo che non ci riguardi perché in fin dei conti le persone perbene in carcere non ci finiscono e per essere lì qualcosa avranno pur fatto. Eppure se vogliamo continuare a pensare di essere espressione di uno stato di diritto, di un paese civile, di una democrazia occidentale dobbiamo cominciare a guardare nei nostri angoli bui, e questo è il più buio di tutti”. “La realtà è che il terribile dato dei suicidi - prosegue Basile - e, più in generale, delle morti in carcere ci riguarda direttamente. Le cause sono tante ed è difficile individuarne una che prevalga sulle altre: le strutture sono fatiscenti e sovrappopolate; la gestione sanitaria è certamente difficoltosa, ed è sostanzialmente del tutto assente per coloro che hanno problemi di natura psichica per i quali l’unica soluzione è la prescrizione di psicofarmaci con l’aumento dello sviluppo delle dipendenze”. “L’indifferenza dei governi - conclude Basile - è quella della freddezza dei numeri dei sondaggi politici sulla presa degli argomenti, e nessuno vorrà mai sporcarsi le mani con le carceri fin quando qualcuno in Europa ci richiamerà ai nostri doveri o alle nostre coscienze, o fino a quando la vergogna non ci avrà finalmente sopraffatto”. Ferrara. Parchi più puliti grazie all’impiego dei detenuti del carcere di Mario Tosatti Il Resto del Carlino, 10 aprile 2024 Al via il progetto di Comune, Ferrara Tua, Ial e Casa circondariale. Il tutto durerà in via sperimentale un anno con al massimo sette persone. Lodi e Coletti: “Un’opportunità di reinserimento lavorativo”. Al via il progetto ‘parchi puliti’. Un’iniziativa che unisce il sociale e la pulizia dei principali parchi pubblici della città grazie all’aiuto dei detenuti dell’Arginone. Un piano voluto e finanziato con 30mila euro dall’amministrazione comunale, che vede il coinvolgimento in veste di partner della casa circondariale ‘Costantino Satta’, Ferrara Tua e Ial, l’Istituto apprendimento lavoro. Previsto anche il recupero di due apposite biciclette attrezzate per la pulizia parchi. Il progetto è stato presentato ieri al parco Coletta, presente il vicesindaco Nicola Lodi, l’assessore alle Politiche sociali, Cristina Coletti, Annamaria Romano, funzionario giuridico e pedagogico del penitenziario e Lorenzo Schiavina di Ial. “Le aree verdi della città - così Lodi - saranno tenute pulite dai detenuti. Stiamo parlando di zone che per anni sono state teatro anche di episodi criminosi, e che per questo non erano vissute dalle famiglie come meritavano di essere. Così come abbiamo realizzato diverse iniziative per portare ad un meritato riscatto dei parchi cittadini. Un ringraziamento va a chi ci ha creduto fin da subito, fra cui la comandante della polizia penitenziaria, Annalisa Gadaleta”. Il tutto, operativamente, prenderà il via tra qualche settimana e si svolgerà per un anno grazie al coinvolgimento di un numero massimo di sette detenuti, i quali potranno svolgere la mansione lavorativa a seguito del superamento di un periodo di apprendimento teorico dei temi della sicurezza sul lavoro, articolato attraverso un corso di 3 giornate alla settimana da 4 ore ciascuna sotto la supervisione dei formatori Ial. Ferrara Tua, azienda ospitante, invece, eseguirà un piano di accompagnamento individuale. I beneficiari del progetto saranno costantemente accompagnati e monitorati nell’adempimento del lavoro, che si svolgerà fra i parchi Coletta, Giordano Bruno, Enrico Toti, Urbano, Massari e Pareschi. “Una nuova iniziativa - ha sottolineato l’assessore Cristina Coletti -, per strutturare ulteriori opportunità di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. La detenzione, infatti, deve essere intesa come un periodo rieducativo ed è importante, per il benessere collettivo all’interno delle strutture detentive, prevedere momenti di crescita personale e di confronto con la società esterna in vista di un fine pena. Questo progetto mira a far scoprire ai detenuti nuove possibilità e anche a far cambiare alla cittadinanza la visione del carcere come un luogo isolato. ‘Parchi puliti’ rappresenta un’opportunità sociale colta dalla casa circondariale, da Ferrara Tua e Ial”. Annamaria Romano, infine, sottolinea la valenza di un progetto che “coniuga due aspetti fondamentali dell’inclusione, che sono la formazione e il lavoro”. Modena. Giornata dedicata al trattamento dei detenuti per reati a sfondo sessuale cronacabianca.eu, 10 aprile 2024 Le esperienze del carcere di S. Anna in un convegno in programma giovedì 11 aprile all’Aula magna del Dipartimento di Giurisprudenza di Unimore a Modena. Fra gli organizzatori dell’incontro Roberto Cavalieri, garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna. Una giornata dedicata al trattamento in carcere dei cosiddetti “sex offender”, ovvero persone che hanno commesso reati a sfondo sessuale. Intervengono all’incontro docenti, giuristi, criminologi, psicologi, operatori penitenziari e dei diritti dei detenuti, per dialogare e confrontarsi a partire, soprattutto, dalle esperienze della Casa circondariale S. Anna di Modena. “Il trattamento in carcere delle persone autrici di violenza di genere e di reati sessuali, tra diritti, buone prassi e prospettive future” è il convegno organizzato dalla Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Modena, la professoressa Giovanna Laura De Fazio, insieme al Garante regionale Roberto Cavalieri, in programma giovedì 11 aprile a Modena, dalle 9.30, presso l’Aula magna del Dipartimento di Giurisprudenza di Unimore, in via San Geminiano 3. L’evento è promosso dal Comune di Modena, attraverso l’assessorato alle Politiche sociali, e dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e Marche, con l’Università di Modena e Reggio Emilia --Dipartimento di Giurisprudenza e la Camera penale Carl’Alberto Perroux di Modena. Il convegno si propone di fare luce su chi ha compiuto violenza di genere e reati sessuali e sconta la propria pena in apposite sezioni “protette” del carcere. Si tratta, infatti, di persone che necessitano di percorsi penitenziari differenziati avendo commesso reati contrari all’etica della “sottocultura” carceraria, e quindi invisi agli altri detenuti, con conseguente potenziale pericolo per la loro incolumità. Tuttavia, la collocazione in sezione protette all’interno degli istituti penitenziari comporta il rischio di una loro marginalizzazione e si traduce nella presenza di notevoli difficoltà nella programmazione di interventi trattamentali individualizzati e di prevenzione della recidiva. Un focus specifico dell’iniziativa, quindi, riguarda il carcere di Modena che attualmente ospita nella sezione “protetti” all’incirca un centinaio di persone, dove la situazione di sovraffollamento rende particolarmente complicata la gestione di questi reclusi, che rappresentano una parte ridotta ma non trascurabile nel contesto penitenziario italiano (circa il 4 per cento dell’intera popolazione penitenziaria). Il convegno, in particolare, ha l’obiettivo di mettere in luce gli interventi di trattamento possibili all’interno del carcere, discutendo anche percorsi che possano preludere all’accesso ai benefici e alle misure alternative alla detenzione. I lavori del convegno si svolgono al mattino, dalle 9.30 alle 13.30, e al pomeriggio, dalle 14.30 alle 17.30. I lavori della mattinata, aperti da un intervento del sindaco Gian Carlo Muzzarelli, sono dedicati alla trattazione di problematiche giuridiche e trattamentali, a cura di esperti giuristi e criminologi; la sessione pomeridiana, invece, riguarda l’esposizione dei programmi di trattamento attivi all’interno del carcere di Modena e in alcune realtà penitenziarie regionali e interregionali. Sono già quasi cento (su un totale di 120 posti disponibili) gli operatori, professionisti e cittadini iscritti alle sessioni di lavoro. Il programma completo del convegno è disponibile sul sito www.assemblea.emr.it/garante-detenuti/iniziative. Varese. Formazione e lavoro per i detenuti dentro e fuori il carcere, il convegno interno.gov.it, 10 aprile 2024 Formazione e inserimento lavorativo dei detenuti all’interno e all’esterno dei luoghi di detenzione. Questo il tema della tavola rotonda “Carcere e lavoro: Diritto, Rieducazione, Opportunità”, organizzata nei giorni scorsi con il patrocinio della prefettura di Varese dal distretto Rotary 2042 e dal distretto Lions 108 Ib1 presso la “Casa Don Guanella” di Ispra. Temi collegati a quelli affrontati il 29 maggio scorso nel convegno promosso dalla prefettura e dalla camera di Commercio, Industria, Agricoltura e Artigianato di Varese, ha ricordato il prefetto del capoluogo, Salvatore Pasquariello, aprendo i lavori, introdotti dal governatore Lions Francesca Fiorella, responsabile distrettuale Lions dei rapporti con le istituzioni nonché del progetto “Carcere e lavoro: Diritto, Rieducazione, Opportunità”, e dai saluti dei governatori distrettuali dei due sodalizi Lions e Rotary, Alberto Frigerio e Giuseppe Del Bene. Già in quell’occasione, ha rilevato il prefetto, è emersa la necessità di focalizzare l’attenzione su un patrimonio umano - la popolazione carceraria - che spesso sconta pregiudizi e diffidenza, puntando a valorizzarlo attraverso il lavoro, sia perché restituisce dignità alla persona, sia perché, in una sorta di patto con la società civile, rappresenta un vantaggio per entrambe le parti. Proprio in quest’ottica, alcuni imprenditori che aderiscono ai distretti locali Rotary e Lions hanno preso parte a questa sfida - ha ricordato ribadendo il suo sostegno il prefetto Pasquariello - così come alcuni enti sia pubblici che privati, presenti al convegno di maggio scorso, hanno poi avviato collaborazioni con le case circondariali di Varese e di Busto Arsizio, dando così concreta attuazione a quanto prevede la legge n.193/2000 anche nota come “legge Smuraglia”, che ha introdotto benefici per le imprese che assumono detenuti o ex detenuti. Il sistema delineato dalla legge va reso ancora più efficace, ha osservato il prefetto ricordando i dati forniti nel 2022 dal Consiglio nazionale Economia e Lavoro (Cnel) - secondo i quali l’occupazione lavorativa dei detenuti “abbatte” la recidiva dal 70% al 2% - e sottolineando come il lavoro favorisca la funzione rieducativa della pena, sancita dall’articolo 27 della Costituzione. Per questo è importante favorire rapporti sempre più proficui tra gli istituti penitenziari, le istituzioni - pubbliche e private - e le realtà imprenditoriali, agevolando l’incontro tra domanda e offerta lavorativa, tenuto anche conto del sovraffollamento carcerario, della carenza di organici della Polizia penitenziaria e del calo demografico in atto, con la conseguente riduzione del numero di lavoratori in molti settori produttivi. In questo solco si è sviluppata la tavola rotonda, moderata dal direttore di “Rete 55” Matteo Inzaghi, con l’intervento, tra gli altri, dell’avvocato penalista Riccardo Stucchi, sul quadro normativo della “legge Smuraglia”, e del commercialista Marco Broggini sui vantaggi che comporta per gli imprenditori. Tra gli altri temi affrontati: l’iter amministrativo da seguire per accedere allo sgravio del 95% dei contributi e del credito d’imposta fino a 520 euro mensili per ogni soggetto in esecuzione penale assunto con regolare contratto di lavoro, a cura del rappresentante dell’ordine dei Consulenti del lavoro Raffaele Grillo; in che consiste oggi la restrizione della libertà personale, con le diverse tipologie di misure alternative, e la differenza tra lavoro all’interno e all’esterno del carcere, approfonditi dal difensore civico e garante dei detenuti regionali Gianalberico De Vecchi. Sono seguiti gli interventi di don Domenico Scibetta, responsabile di “Casa Don Guanella”, che accoglie ragazzi che hanno vissuto l’esperienza del carcere, e del cappellano della casa circondariale di Busto Arsizio don David Maria Riboldi, che ha illustrato le attività che si svolgono dentro e fuori il carcere. Intervenuti, con la loro testimonianza, anche un imprenditore florovivaista e un ex detenuto suo dipendente, e, a conclusione dell’evento, le direttrici delle stesse case circondariali di Varese e Busto Arsizio, Carla Santandrea e Maria Pitaniello, che si sono soffermate tra l’altro sui percorsi di formazione per i detenuti, sottolineando la necessità di creare una rete tra amministrazioni pubbliche, terzo settore, enti di formazione, datori di lavoro e sindacati, per dare impulso al loro reinserimento socio-lavorativo. Nuoro. La storia di Daniele De Cotiis, detenuto per droga e oggi poeta e bibliotecario del carcere La Repubblica, 10 aprile 2024 “Nei versi che scrive la storia del suo riscatto”. Ha 45 anni ed è di San Severo, sarà nel carcere di Badu e Carros fino al 2029. In questi hanno ha scritto anche tre libri fra poesie e la storia del rapporto con suo padre. Ed è stato premiato. Ad attenderlo a casa la moglie e i due figli. Da detenuto a bibliotecario del carcere e autore di tre libri. È la storia di Daniele De Cotiis, un 45enne di San Severo nel Foggiano. Dal 2016 per lui si sono aperte le porte del carcere di Foggia prima e poi di altre carceri italiane. Deve scontare una pena che terminerà, salvo aggiornamenti o modifiche con la pronuncia della Cassazione, nel 2029 per una serie di reati tra cui traffico di droga e truffa. Una storia, la sua, che trova il punto di non ritorno in un periodo turbolento vissuto durante l’infanzia difficile, caratterizzata dall’assenza di modelli educativi e da una solitudine che porta, il più delle volte, a scelte sbagliate. “Una pena quasi senza fine quella comminata al mio cliente” spiega il suo legale, l’avvocata Federica Iannarelli. A casa ad attenderlo ha lasciato un bambino di appena sei anni, oltre alle due figlie adolescenti e la moglie. “A un certo punto - continua l’avvocata - Daniele ha deciso che quel tempo sospeso tra angoscia e dolore doveva essere trasformato in tempo utile, spendibile per una giusta causa. Si è rimboccato le maniche e con il supporto dei volontari all’interno della casa circondariale di Foggia ha iniziato a studiare e a giugno sosterrà l’esame di maturità”. Attualmente è si trova nel carcere di Tempio Pausania in Sardegna dove è impiegato come bibliotecario. Dedica cura e pazienza nel riordinare manoscritti e nel sistemare i libri. Gli stessi libri di cui lui è sempre stato innamorato. “Mi ha sempre appassionato la lettura. E più leggevo più crescevano in me sensazioni diverse, strane. Un mix di emozioni che mi ha portato a rivedere le priorità. A dare una rilettura intima alla mia vita. A capire i miei errori, a capire soprattutto le cause che mi hanno indotto a sbagliare” ha confidato Daniele alla sua avvocata. E dalla passione per la lettura alla scrittura il passo è stato davvero breve. Tre i libri che Daniele ha scritto e pubblicato dal 2016 ad oggi. Il primo Diario di Bordo - raccontarsi all’interno del carcere, dalla Puglia alla Sardegna, da via delle Casermette a Badu ‘e Carros racconta in chiave dolceamara i giorni della reclusione, le storie di chi ha condiviso il suo percorso e la voglia comune di non abbattersi. È seguita poi la pubblicazione del manoscritto intitolato Capitan Larsen che si impone come una denuncia verso un sistema carcerario malfunzionante. L’ultimo, nel 2023 Era solo mio padre. “È un manoscritto davvero emozionante - sottolinea l’avvocata Iannarelli. Quando l’ho letto ho capito che Daniele aveva intrapreso il corretto percorso della rieducazione. Ha saputo rielaborare in chiave autentica i suoi errori”. “Con questo romanzo - confida Daniele all’avvocata - ho messo nero su bianco il rapporto lacerato con mio padre e da padre mi sono posto tante domande sul futuro dei miei figli che spero di riabbracciare presto e a cui spero di poter essere utile per il futuro. Spero davvero di poterne far parte”. Daniele è anche vincitore del premio letterario nazionale “Emanuele Casalini” con una poesia inneggiante all’amore. In queste settimane sta studiando tanto. Infatti è stato scelto per dialogare con gli studenti delle scuole che fanno visita alle strutture carcerarie nell’ambito di progetti nazionali e descrivere il percorso di rieducazione intrapreso. E poi ore e ore trascorse in cella con la testa sui libri. Lo attende una prova importante e di cui va fiero: l’esame di maturità. “Quando avevo l’età giusta non ho preso il diploma, ritenevo lo studio inutile. Tempo perso. Ora ne sto apprezzando il valore. Valore che cerco di trasmettere ai giovani quando posso”. “Si parla tanto di rieducazione come fine primario della detenzione carceraria - conclude l’avvocata Iannarelli. Daniele è un detenuto su cui questo concetto sta funzionando con risultati enormi”. “Il Re”, Luca Zingaretti e la violenza della giustizia di Erika Pomella Il Giornale, 10 aprile 2024 È in arrivo la seconda stagione de “Il Re”, serie tv Sky che abbandona la claustrofobia della prima stagione e si avventura nei meandri nerissimi della corsa al potere. Ecco la recensione. Debutterà il 12 aprile con otto nuovi episodi la seconda stagione de Il Re, la serie original in onda su Sky e in streaming solo su NOW che vede l’attore Luca Zingaretti tornare a vestire i panni di Bruno Testori, il direttore del carcere San Michele che usa una sua moralità e una sua personale idea di giustizia per mantenere l’ordine e debellare qualsiasi rischio. Bruno Testori è il re che dà il titolo alla serie, un uomo tutto d’un pezzo che sa come farsi rispettare e soprattutto sa sempre quali decisioni prendere. Tuttavia, dopo la fine della prima stagione, Bruno si trova in una situazione nuova, inedita, incarcerato dietro le sue stesse sbarre. E a parlare di questa situazione è lo stesso Zingaretti che, durante le interviste, spiega come Bruno sia caduto “dalle stelle alle stalle. Questo governava in maniera assoluta su un carcere. Aveva quasi diritto di vita e di morte sulla popolazione carceraria. Improvvisamente si trova dentro un buco di cella con tutti che gli vogliono fare la pelle.” Ed è proprio questo il punto di partenza della seconda stagione de Il Re. Il Re, una storia tutta nuova - Bruno Testori (Zingaretti) non è più il re di San Michele. Il PM Laura Lombardo (Anna Bonaiuto) ha avuto la meglio e ora il direttore del carcere è in arresto, costretto in un ambiente marcio dove i nemici sono pronti ad accerchiarlo e a fargli pagare qualsiasi sopruso subito. Mentre alcuni detenuti cercano di capire come far ripartire il traffico di droga, Testori trova uno strano alleato in Gregorio Verna (Fabrizio Ferracane), capo dei servizi segreti che promette a Bruno una risoluzione molto veloce per il suo caso se, in cambio, il direttore lo aiuterà a scoprire tutto quello che c’è da sapere su Vittorio Mancuso (Thomas Trabacchi), un magistrato molto famoso e molto in vista che è ora accusato di omicidio. Bruno accetta l’incarico e con l’aiuto del comandante Sonia (Isabella Ragonese) e dei suoi pretoriani, cerca di scoprire la verità su Mancuso, fronteggiando anche l’avvocato che lo rappresenta (Caterina Shulha). Ben presto, però, il re di San Michele scoprirà che la realtà non è affatto quella che appare e che lui stesso potrebbe aver mostrato il fianco a un nemico che non ha saputo riconoscere immediatamente. Un mondo nero e dicotomico - Se la prima stagione de Il Re giocava molto sul senso di claustrofobia, spingendo lo spettatore a provare quasi sulla propria pelle il peso delle mura di San Michele che gli si chiudevano addosso, la seconda stagione si apre verso l’esterno, ma lo fa comunque verso un mondo corrotto, pieno di una violenza sotterranea dove è il potere a farla da padrone. Bruno Testori, nella prima stagione, era il re di un microcosmo che aveva le sue regole e le sue eccezioni; all’inizio della seconda è un uomo distrutto, che ha visto crollare le certezze che aveva e che, soprattutto, non può fare altro che guardare la sua vita professionale andare in pezzi come già aveva fatto quella privata. Ed è proprio su questo smarrimento e su questa perdita dei punti di riferimento che si basa il cuore di questa seconda stagione, che punta soprattutto a portare in primo piano l’umanità dei personaggi e anche la loro débacle, le loro incertezze, i loro fallimenti. Lo spettatore diventa dunque, per usare le parole del regista Giuseppe Gagliardi il testimone dello “smarrimento del nostro personaggio in un contesto che ha sempre dominato.” E Testori diventa appunto “un re dimezzato”. Un altro aspetto molto interessante è lo scontro dicotomico tra due verità che non sono mai davvero “giuste”. Nella prima stagione il protagonista si scontrava con la Lombardo: la sua legge contro quella del PM, in uno scontro che non metteva mai in campo la giustizia, ma sempre un’idea personale di cosa essa dovrebbe essere. In questa seconda stagione, invece, l’aspetto dicotomico è dato dalla violenza. Da una parte c’è la violenza di Bruno, quella svolta per ottenere ciò che serve, ma ancora con un piccolo grappolo di moralità. Dall’altra c’è la violenza sorridente e velenosa di Gregorio Verna, che rappresenta il vero antagonista di Bruno, un uomo che potrebbe essere la sua versione più oscura, quella che Bruno potrebbe diventare se si lasciasse andare a quella violenza che, per parafrasare una battuta della serie, è insita nell’essere umano e, per questo, anche nella giustizia. E questo spunto porta alla messa in scena di un mondo dove c’è la totale mancanza di fiducia nella giustizia e nelle istituzioni: una scelta tematica, questa, che fa sì che Il Re sia una serie molto attuale, perché riesce a rimandare proprio lo scontento del cittadino medio che non si sente più rappresentato dalle istituzioni, né protetto dalla giustizia. Gli sceneggiatori Peppe Fiore e Alessandro Fabbri hanno spiegato che “non volevamo essere didascalici nel cercare di spingere un particolare ritratto dell’Italia, però ci interessava raccontare come a certi livelli il gioco sia duro, difficile e tenuto all’oscuro del nostro sguardo.” Il punto, dunque, era raccontare un gioco al massacro di cui le persone non sanno quasi niente, che avviene dietro mura spesse di luoghi su cui nemmeno si focalizza l’attenzione. Luca Zingaretti: “Il carcere è un dramma anche per i carcerieri” di Francesca D’Angelo La Stampa, 10 aprile 2024 Nella seconda stagione de “Il Re”, su Sky da venerdì, il protagonista finisce nella sua prigione circondato da bande che vogliono fargli la pelle. Altro che arancini. La seconda stagione de “Il Re”, su Sky da venerdì, è il De Profundis de Il Commissario Montalbano. Nei nuovi episodi Luca Zingaretti è (se possibile) ancora più tarantolato di due anni fa, quando esordiva nei panni del duro direttore carcerario Bruno Testori. Un uomo che interpreta la legge a modo suo, oggi come allora. “Il re è tornato - chiosa Zingaretti - un monarca assoluto che governa il carcere con metodi a volte discutibili, vantando quasi diritti di vita e di morte sulla sua popolazione”. E ora, però, si ritrova in gattabuia. Il Re ha perso il suo regno? “La storia ricomincia là dove si era interrotta, ossia dalla caduta: Testori finisce in carcere, nel suo carcere, circondato da bande che vogliono fargli la pelle. Deve quindi cercare di sopravvivere e, allo stesso, riorganizzarsi. È un animale in gabbia e in fondo questo è lo spirito della serie: più che una storia di denuncia sociale, Il re sfrutta il forzato isolamento per fare esplodere le dinamiche tra i personaggi”. Cosa pensa però dell’attuale stato delle carceri italiane? “La situazione è drammatica. Siamo stati più e più volte sanzionati da organismi internazionali, così come dalla Ue, sia per le nostre prigioni sia per l’istituzione del 41 bis. Nell’ultimo anno il quadro però è peggiorato: è aumentato in modo esponenziale il numero di suicidi di detenuti che non dovevano trovarsi in prigione, per via della loro salute mentale. Ma c’è un altro dato ancora più eloquente: è cresciuto pure il suicidio degli agenti di custodia”. Come se lo spiega? “Non solo le strutture sono fatiscenti, a mancare è l’idea stessa di carcere come luogo di redenzione al fine di un reintegro sociale. Purtroppo sono solo strutture punitive, dove a volte si vive in maniera bestiale. Uscite da lì, spesso le persone sono indotte solo a delinquere di nuovo…”. Qual è la soluzione? “Servono investimenti, ma onestamente non mi sento ottimista. È da quando sono piccolo che sento parlare di due cose: della crisi del cinema e della giustizia che non funziona”. Testori sostiene che “la violenza fa parte dell’uomo e anche della giustizia”. Questa idea del pugno di ferro è diventata tristemente attuale? “Quando è scoppiato il Covid, tutti ripetevamo che ne saremmo usciti migliori: il lockdown ci aveva fatto riflettere sulle priorità della vita. Purtroppo però non è andata così: siamo più arrabbiati di prima e più consapevoli che il mondo va in una direzione non auspicabile per nessuno. Inoltre, politicamente un po’ ovunque sta prendendo piede il pensiero basico di una destra che dà risposte semplici a problemi complessi”. Avete girato nell’ex carcere torinese Le Nuove, com’è stata l’esperienza? “Girare a Le Nuove ci ha aiutato a calarci nei ruoli: gli accadimenti che succedono in un luogo restano lì attaccati. Li percepisci. Ho poi avuto occasione di parlare con degli ex detenuti scoprendo casi di solidarietà. Per esempio, il primo giorno, quando entri, trovi il letto fatto e la cena pronta. È un gesto per sostenersi”. Scommettere su Il re è anche un modo per affrancarsi da un personaggio ingombrante come Montalbano? “Non ho mai scelto i lavori in base a una strategia. Sono sempre stato un attore incosciente, si figuri che, uscito dall’Accademia, scelsi come primo personaggio in una pièce teatrale un detenuto gay di un campo di prigionia. Erano altri tempi e la gente ci insultava! Ma io sono fatto così: scelgo quel che mi rende felice”. Quarant’anni di Vivicittà: di corsa in 37 città per la pace, i diritti e l’ambiente di Ivano Maiorella* Corriere della Sera, 10 aprile 2024 A questi temi è dedicata l’edizione 2024 che unirà ancora una volta centri storici e istituti penitenziari, periferie degradate e parchi urbani. Domenica 14 aprile Vivicittà spegnerà 40 candeline: sono passati tanti anni da quel 1 aprile 1984 in cui si tenne la prima edizione. A correre per i diritti, l’ambiente la pace e la solidarietà furono in 30mila, in venti città diverse, in ognuna delle quali i Comitati Uisp chiamarono a raccolta le società sportive del territorio, ma anche associazioni ambientaliste e culturali. Vivicittà ha portato vento nuovo nel mondo dello sport. L’Uisp seppe accompagnarla al continuo mutare delle esigenze sportive, adattarla ai temi d’attualità, farne una corsa messaggera di pace e solidarietà nel mondo. Vivicittà si è corsa a Sarejevo, sotto le bombe, e nella Berlino riunificata dopo il crollo del muro, si è corsa a Baghdad e a Korogocho, in Kenya, nella discarica del mondo. A Vivicittà va riconosciuto il merito di aver saputo profetizzare e incarnare l’idea dello sport per tutti, alla “tua velocità”, alla “tua età”, tutti insieme, l’uno al fianco all’altro e all’altra, campioni e non, con la “tua motivazione”: per divertimento, per benessere, per sfida. Quel sapore pionieristico di Vivicittà rimane: qual è il posto di Vivicittà oggi? “È una sorta di lanterna, un testimone che passa di mano in mano - dice Tiziano Pesce, presidente nazionale Uisp - toccando tante città e situazioni diverse. Vivicittà illumina e unisce intorno a valori che attraversano l’attualità sociale: oggi c’è un forte bisogno di pace, di convivenza, di sostenibilità ambientale. A questi temi è dedicata l’edizione 2024 che unirà ancora una volta centri storici e istituti penitenziari, periferie degradate e parchi urbani”. Domenica 14 aprile Vivicittà si correrà in 37 città italiane: da Gorizia a Bari, da Roma a Palermo, sino a Caivano, dove verrà realizzata una prova speciale per la legalità. Il via verrà dato alle 9.30 da Radio 1 Rai. Saranno venti gli istituti penitenziari che ospiteranno la corsa, perché inclusione attraverso lo sport significa che non c’è un dentro e un fuori. Vivicittà non ha confini. *Uisp Migranti. Un carcere da 65 milioni di euro: quanto costano i Cpr in Albania di Marika Ikonomu e Giovanni Tizian Il Domani, 10 aprile 2024 Il ministero della Difesa ha firmato la determina con cui affida le opere al gruppo Genio campale. Ecco le carte: subappalti “senza limiti di spesa”. La fine dei lavori è prevista entro otto mesi. L’ossessione anti migranti del governo costerà molto cara agli italiani. Ma nel walzer di cifre finora filtrate, smentite o confermate, ora una cosa è certa: dai documenti ottenuti da Domani si scopre che per realizzare i centri di trattenimento in Albania saranno necessari 65 milioni di euro. Un tesoretto per costruire strutture dal futuro incerto. La cifra citata nella determina a contrarre della Difesa, è destinata ai soli lavori edili e di cantiere. A questi andranno aggiunti i milioni per gestire le strutture frutto dell’accordo tra Giorgia Meloni e il premier albanese Edi Rama. La Difesa tramite la determina affida così al Ggc, il Gruppo genio campale dell’Aereonautica militare, la costruzione dei centri: “Lavori da eseguirsi a mezzo dei reparti del Genio militare”; “Importo lavori 64.403.144”; “Imprevisti 596.856,00”; “Durata dei lavori 223 giorni”. Oltre 65 milioni di euro, appunto, per due strutture che saranno pronte, secondo cronoprogramma, tra otto mesi. Forse. Perché alcune criticità dei luoghi, segnalate dagli stessi militari, potrebbero frenare la corsa. Sopralluogo pre elettorale - E siccome ballano milioni, martedì 9 aprile e mercoledì 10 si è recato a Tirana il generale ispettore capo Giancarlo Gambardella, nominato lo scorso 28 dicembre direttore della direzione generale dei lavori del ministero della Difesa, la persona che dovrà curare tutta la partita Cpr. Ad accompagnarlo il sottufficiale, brigadier generale, Paolo Rizzetto. Obiettivo: un nuovo sopralluogo, dopo quello del 19 gennaio, sulle aree dei cantieri. Il protocollo Italia-Albania, firmato dai due premier il 6 novembre 2023, prevede che i centri siano destinati alle persone salvate in acque internazionali dalle autorità italiane. Oltre alle incertezze sulla realizzazione, restano i dubbi sul rispetto del diritto internazionale e dei diritti fondamentali. Già il 19 gennaio, a seguito della prima visita degli ufficiali dell’Aeronautica militare, questi avevano fatto sapere in un rapporto che le incognite per costruire le strutture erano troppe. I territori individuati, avevano sottolineato gli ufficiali, non sono semplici da ripulire e potrebbero rallentare maggiormente i lavori. Elementi che potrebbero far aumentare esponenzialmente i fondi pubblici della Difesa a copertura dei centri. Il cronoprogramma delineato dal Genio militare, da quanto risulta dai documenti ufficiali, prevedeva l’inizio dei lavori a fine marzo e fine operazioni tra ottobre e novembre. Termine ben lontano dalla data ipotizzata nella procedura negoziata del ministero dell’Interno per individuare il gestore dei centri: il 20 maggio 2024. Un termine che non è difficile ricondurre all’incombenza delle elezioni europee, previste dal 6 al 9 giugno. Nel cronoprogramma ufficiale e nella determina a contrarre che stanzia i 65 milioni di euro infatti la fine lavori è prevista dopo 223 giorni. Otto mesi. La base militare con i tunnel - I luoghi individuati dalle autorità albanesi e italiane sono due: uno sulla costa, nel porto commerciale di Shëngjin, a 70 chilometri a nord di Tirana, per lo screening sanitario, l’identificazione e la raccolta delle eventuali domande di asilo dei migranti salvati dalle imbarcazioni delle autorità italiane in acque internazionali, senza pernottamento. Tremila metri quadri destinati alle procedure di ingresso. Qui, secondo la relazione redatta successivamente al sopralluogo di gennaio scorso, dovrebbero transitare tra le 150 e le 300 persone. L’altro, a venti chilometri di distanza da Shëngjin e a 80 chilometri da Tirana, si trova a Gjadër, nell’entroterra, in un sedime dell’Aeronautica militare albanese, dove verranno costruite due diverse strutture: un hotspot e un Centro di permanenza per il rimpatrio, con una capienza rispettivamente di 880 e 144 posti. Numeri ben distanti dai 3mila annunciati da Meloni e dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Tutta l’ex area militare sarà allestita con moduli prefabbricati “forniti dal ministero dell’Interno”, che a sua volta dovrà acquistarli da un fornitore esterno. La squadra di tre ufficiali in visita a gennaio ha così definito il sedime militare: un luogo “da dismettere”, posto “ai piedi di un pendio calcareo con pendenza significativa”. Con tanto di foto allegate che raccontano un luogo isolatissimo e in decomposizione avanzata. La base militare ha persino tunnel sotterranei un tempo usati come rifugi o depositi di armi. Per questo, secondo i membri del Genio dell’Aeronautica, non sarà facile metterli in sicurezza: non a caso tra i subappalti da affidare, è scritto nella determina, c’è anche il servizio di “bonifica da ordigni bellici”. Inoltre, il costone della montagna a ridosso dell’area rende complesso realizzare una rete di protezione. Appalti esterni - Dal cronoprogramma ufficiale e riservato, i primi lavori sarebbero dovuti partire alla fine di marzo. Con i cosiddetti “baraccamenti”, cioè la creazione del cantiere. La determina al punto 7 rivela un’altra novità rilevante: una serie di opere, oltre la bonifica da ordigni bellici, verranno affidate a ditte esterne “in ragione dell’urgenza, della rilevanza”. Impianti elettrici, rilevamento antincendio, video sorveglianza e impianto di telecomunicazione, la rete fognaria, realizzazione dei moduli abitativi (container), recinzione del perimetro dell’area. Alcune delle opere da subappaltare. Svariati milioni di euro che verranno pagati ad aziende italiane o albanesi. “Affidamenti, servizi e forniture materiali, nonché i noleggi, avverranno senza limiti di importo, secondo le deroghe previste e con procedure semplificate”, è scritto nella determina. Tradotto: nessuna gara, sarà affidamento diretto e selvaggio. Il Parlamento Europeo approva oggi il nuovo Patto su asilo e immigrazione di Alessandra Ziniti La Repubblica, 10 aprile 2024 Confini blindati e identificazioni anche per i bambini sopra i sei anni. La firma dopo dieci anni. Per l’Italia nessun aiuto sulla redistribuzione dei migranti, il trattato di Dublino resta in piedi. Minato il diritto di asilo e rischio abusi. Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen lo definiscono una svolta nella gestione dei flussi migratori, una strategia comune europea, una (sulla carta) condivisione di responsabilità che però non solleverà per nulla l’Italia o gli altri Paesi di approdo dagli oneri della gestione della prima e seconda accoglienza. Perché la redistribuzione negli altri Paesi europei resta assolutamente volontaria e la solidarietà obbligatoria può concretizzarsi in un semplice aiuto economico. Il trattato di Dublino, la vera iattura per l’Italia, resta lì dov’è. Anzi la responsabilità del Paese di primo ingresso sale a 20 mesi. La difesa dei confini - La filosofia del nuovo Patto asilo e migrazione che Bruxelles approverà oggi dopo un faticosissimo iter durato quasi dieci anni è quella della difesa dei confini che, a medio termine, porterà a nuovi muri, ad identificazioni e rilevamenti biometrici anche per i bambini sopra i sei anni, e che aggredirà in modo considerevole il diritto d’asilo, allargando a dismisura l’applicazione delle procedure accelerate di frontiera a decine di migliaia di persone provenienti da Paesi sicuri, le cui posizioni saranno vagliate sommariamente e rapidamente in poche settimane. Con l’inevitabile crescita di centri di detenzione alle frontiere, modello Albania, per intenderci. Anche se proprio ieri la commissione europea ha precisato che l’accordo Italia-Albania non rientra affatto nel Patto asilo e migrazione. Il meccanismo di solidarietà obbligatoria - Di obbligatorio in realtà c’è solo la condivisione degli oneri per la gestione dei migranti che arrivano, ma non la loro redistribuzione, unica svolta che avrebbe alleggerito il sistema di accoglienza italiano. Solo i Paesi che vorranno (e quando vorranno) accoglieranno persone sbarcate nei Paesi costieri, gli altri dovranno intervenire con un sostegno economico o provvedere agli ipotetici rimpatri. Viene istituita una sorta di pool di solidarietà che ogni anno deciderà quali sono i Paesi sotto pressione migratoria (nel 2024 ad esempio la Spagna ha quasi il 50% di arrivi in più rispetto all’Italia) e dovrà provvedere ad una soglia minima di 30.000 ricollocamenti. Chi non è disponibile ad accogliere dovrà versare 20.000 euro per ogni mancato ricollocamento. La valutazione della “crisi” migratoria - Ogni Paese che riterrà di essere in sofferenza nella gestione dei flussi potrà dichiararsi in stato di crisi migratoria e chiedere l’avvio del meccanismo di solidarietà. Il Patto non stabilisce criteri rigidi e univoci per valutare la “crisi”, verrà valutata anche la possibile strumentalizzazione da parte di Paesi terzi che dovessero utilizzare i flussi a scopo offensivo (una ipotesi questa da cui dopo tanto discutere sono stati esclusi i soccorsi delle Ong). Il Paese che si vedrà riconosciuto lo stato di crisi potrà applicare le procedure accelerate di frontiera a chi arriva da Paesi sicuri e analizzare con meno garanzie le richieste di asilo. Le procedure accelerate di frontiera - È lo strumento con cui l’Europa intende alzare i muri ai cosiddetti migranti economici. Coloro che arrivano da Paesi considerati sicuri, con una percentuale di riconoscimenti dell’asilo inferiore al 20%, potranno essere detenuti in centri di accoglienza modello Albania alle frontiere dove attenderanno in stato di detenzione amministrativa l’esame delle richieste di asilo. Procedure che - secondo le associazioni e i giuristi - ledono di fatto il diritto d’asilo. Impronte e dati biometrici anche per i bambini sopra i sei anni - È una delle novità che più preoccupa. All’arrivo le procedure di identificazione, che siano impronte, rilevazione di dati biometrici e foto del viso, saranno applicate anche ai bambini di età superiore ai sei anni. Dati che verranno immessi nell’Eurodac, il database comunitario che registra tutti i dati dei richiedenti asilo. Non solo, per effettuare queste procedure le autorità potranno anche detenere i richiedenti asilo in attesa di screening. Procedure che, secondo il network European digital rights, porterà ad “un aumento potenziale degli abusi: i dati raccolti saranno utilizzati per controllare i movimenti e giustificare espulsioni rapide e ciò solleva preoccupazioni per l’aumento dei periodi di detenzione dei migranti e delle violenze di cui potrebbero diventare vittime”. Migranti. Il Patto al voto ma la maggioranza traballa di Andrea Valdambrini Il Manifesto, 10 aprile 2024 Oggi a Bruxelles. Pd. M5S, Verdi e Sinistra contrari insieme alle destre. Weber attacca i dem. Giunto ormai in dirittura d’arrivo, il Patto immigrazione e asilo, che per molto tempo è apparso chiuso e blindato, potrebbe riservare una sorpresa, fosse pure dal sapore squisitamente pre-elettorale, nel voto finale. Si vota oggi pomeriggio, nella sessione cosiddetta mini-plenaria (due giorni anziché quattro) dell’Eurocamera convocata nella capitale belga (invece che a Strasburgo), uno dei pacchetti di norme europee più attesi e più controversi della legislatura che si sta per chiudere. Si tratta di 9 file legislativi messi insieme, che nelle intenzioni dovevano riscrivere le regole dell’approccio continentale alla migrazione, riformare il diritto all’asilo (e sulla carta anche superare il regolamento di Dublino) per un continente che, nonostante l’invecchiamento costante e la crisi demografica, è poco propenso ad accogliere, integrare e concedere diritti a chi dovrebbe averne. Il punto è però che l’ecumenica maggioranza che dovrebbe sostenere il Patto, pur avendo partorito un testo mastodontico ma di ampio compromesso, rischia comunque di sfaldarsi. Se uno o più di uno dei file più controversi dovessero essere respinti, mancherebbe di conseguenza anche il consenso da parte dei governi dei 27 riuniti nel Consiglio Ue. E tutta la composizione portata avanti per anni, salterebbe. A segnare una delle linee di smottamento è la dichiarazione del capogruppo dei popolari (Ppe) all’Eurocamera, il tedesco Manfred Weber. Con un invito che sembra più un attacco mirato, Weber chiede specificamente al Pd di esprimersi a favore: “L’Italia è il paese più colpito” dall’immigrazione irregolare e “se il patto migratorio fallisse, causerebbe enormi dall’Europa e in particolare all’Italia”, mentre “c’è bisogno di una procedura ordinata per ridurre l’immigrazione, di controlli rigorosi alle frontiere esterne dell’Unione europea contro il modello imprenditoriale di trafficanti”. E poi l’appello alla pattuglia italiana: “Il voto deciderà se il Pd continuerà ad essere un partito europeista”. Risentita la risposta di Brando Benifei, capodelegazione dem, quando sottolinea l’approccio esclusivamente securitario seguito dal Ppe, accusato di voler “usare fondi europei per costruire mura e recinzioni alle frontiere e esternalizzare il modello Ruanda”. Non potranno essere i popolari “completamente asserviti alla destra nazionalista” a dare lezioni. Rispetto a chi pensa che questo compromesso sia meglio di niente (il gruppo S&D, di cui il Pd fa parte, è schierato complessivamente per il sì), la delegazione italiana annuncia voto contrario. “Il Patto che esce dal Consiglio danneggia l’Italia, perché vuole trasformare il nostro Paese in un Cpr all’aria aperta, spinge verso i paesi terzi la gestione dei rifugiati e dei richiedenti asilo invece che promuovere un’autentica ripartizione delle responsabilità”. Per capire meglio l’incertezza del voto odierno, va detto che contro il patto si sono dichiarati, seppure per motivi diversi, anche M5S, Verdi, Sinistra e, sulla sponda opposta, gli ungheresi di Fidez , i polacchi del Pis, il gruppo Id di cui fa parte anche la Lega. Fratelli d’Italia che appartiene al gruppo Ecr come il Pis, ha deciso invece di votare caso per caso. Un fronte tale da far sorgere qualche dubbio anche alla Commissaria Ue agli Affari Interni Ylva Johansson, che si dice “orgogliosa” di aver prodotto una legge che, a suo avviso, protegge sia i confini che i diritti dei migranti. “Mi aspetto che gli eurodeputati diano l’ok - ammette in serata -, ma non si sa mai”. Chi invece sa con certezza che si tratta di una cattiva legge sono le ong: 161 organizzazioni di tutti i paesi europei - tra cui Oxfam, Amnesty, Sea-Watch e Arci - hanno lanciato un appello agli eurodeputati per respingere un Patto “pericoloso” dato il suo “approccio punitivo”. Questa mattina alle 11,30 inoltre, il gruppo Gue/Left al Parlamento europeo organizza di fronte all’edificio principale dell’Eurocamera a Bruxelles, intitolato ad Altiero Spinelli, un “funerale pubblico del diritto d’asilo”, accusando la maggioranza che sostiene il Patto di “vergognosa capitolazione alla narrativa xenofoba” e del “tradimento dei valori professati dell’Europa”. Migranti. Via libera del Governo agli assalti armati libici, io da Ammiraglio mi vergogno! di Vittorio Alessandro* L’Unità, 10 aprile 2024 La nostra Guardia costiera, piuttosto che contrastare le navi umanitarie, dovrebbe difendere la vita dei migranti non soltanto dal mare, ma anche da quelle incursioni armate. I miliziani libici hanno sparato, da una motovedetta avuta dall’Italia, contro il gommone di soccorso della nave italiana Mare Jonio che stava facendo una operazione di salvataggio di una imbarcazione in pericolo in acque internazionali. In tutto il mondo, quello libico è l’unico soccorso in mare eseguito con l’uso delle armi, e l’Italia ha il pregio di finanziarlo riccamente. Non riconsegnare i naufraghi alla Libia è un modo per contrastare il mercato dei migranti, di cui i miliziani libici sono parte decisiva. La nostra Guardia costiera, piuttosto che contrastare le navi umanitarie, dovrebbe difendere la vita dei migranti non soltanto dal mare, ma anche da quelle incursioni armate. A Lampedusa, intanto, continuano ad arrivare persone con mezzi di fortuna. Si tratta, forse, della terza settimana di mare calmo stabile dall’inizio dell’anno, ma i soloni al governo si erano già affrettati a vendere il minor numero di arrivi rispetto allo scorso anno, sbandierando i “riusciti” accordi con Libia e Tunisia. Sappiamo come li fermano, quando li fermano, i migranti. A Pozzallo, la Guardia costiera (con Polizia e Guardia di Finanza) ha fermato e sanzionato la nave umanitaria Mare Jonio, appena reduce dalle mitraglie libiche in occasione dell’ultimo soccorso. “La motovedetta “Fezzan” - si legge sul verbale di sequestro (il riferimento è alla unità italiana consegnata ai miliziani della Libia) - ha chiesto invano e ripetutamente alla nave e al suo tender di allontanarsi, ma li stessi permanevano in area”. Con prassi inaudita, la nostra Guardia costiera italiana ha così accolto ufficialmente gli argomenti dei miliziani, facendo propri anche i documentati spari libici contro la nave soccorritrice italiana. Faccio mia la dichiarazione del comandante di Mare Jonio in calce al verbale: mi vergogno che il governo del mio Paese finanzi e sostenga questi criminali. *Ammiraglio in congedo delle Capitanerie di porto Egitto. Caso Regeni, il padre in aula: “Finalmente cominciano a diradarsi le ombre” di Edoardo Izzo La Stampa, 10 aprile 2024 “Mio figlio non è mai stato alle dipendenze dei Servizi italiani o stranieri”. Giulio Regeni “non è mai stato alle dipendenze di autorità italiane, inglesi ed egiziane. Né ci ha mai collaborato” ed è stato “tradito da una persona di cui si fidava” il sindacalista Mohamed Abdallah. Sono le parole di Claudio Regeni che, in una testimonianza di circa due ore, ha ricostruito la vita del figlio dalle vacanze in famiglia con il camper agli ultimi giorni di vita in quel maledetto inverno del 2016 quando il giovane ricercatore friulano è stato rapito, torturato e ucciso a Il Cairo. Alla sbarra ci sono i quattro 007 egiziani. Si tratta del generale Tariq Sabir, dei colonnelli Athar Kamal e Uhsam Helmi e del maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif. La procura, rappresentata in aula da Sergio Colaiocco, contesta, a seconda delle posizioni, il concorso in lesioni personali aggravate, l’omicidio aggravato e il sequestro di persona aggravato. Al centro del procedimento anche le torture a cui è stato sottoposto Giulio per nove giorni prima dell’omicidio. “Essere catturato da ufficiali dei servizi segreti egiziani - hanno ricordato nelle precedenti udienze i legali di parte civile in aula -, è già una innegabile violenza fisica e mentale. In quei 9 giorni Giulio non ha potuto parlare con la nostra ambasciata e men che meno con un avvocato: pensiamo che negare questa sofferenza sia discutibile”. Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Colaiocco, Claudio Regeni ha voluto sgombrare, ancora una volta, le ombre su possibili ‘ruoli’ svolti dal figlio per conto di autorità italiane o estere. “Il sogno di Giulio era rendersi indipendente e trovare un lavoro che valorizzasse le sue capacità - ha detto -. La sua grande passione era lo studio: non è mai stato alle dipendenze di autorità italiane, inglesi ed egiziane. Non hai mai neanche collaborato”. Nel corso dell’audizione, il papà di Giulio ha raccontato del figlio e della sua vita. “Lui era appassionato di materie umanistiche, parlava bene l’inglese, l’arabo, il tedesco e stava studiando anche il francese. Fin da piccolo ha viaggiato con noi intorno al mondo”. In aula sono state mostrate foto dell’adolescenza di Regeni e il procuratore aggiunto ha chiesto anche dello stile di vita. “Viveva in modo non sfarzoso, vestiva in modo casual - ha detto il padre -. Dopo la sua morte, sul conto corrente che avevamo cointestato c’erano poco più di 1.400 euro. Poi aveva un conto corrente presso una banca inglese per le spese quando viveva in Inghilterra. Su questo c’erano versamenti della società Oxford Analytica dove aveva lavorato, qualche piccolo rimborso dall’università di Cambridge per il dottorato. Il saldo era di circa 6.000 sterline”. A parlare anche un’amica di Giulio che ha ricordato le conversazioni via chat con la vittima. “Qui c’è moltissima repressione politica e vivo tenendo un profilo molto basso, sono contento di potere tornare a Cambridge”, aveva scritto - il 16 gennaio del 2016, pochi giorni prima che venisse sequestrato e poi brutalmente ucciso -, Regeni alla sua amica. Il legale della famiglia, l’avvocato Alessandra Ballerini, dopo l’udienza si è detta soddisfatta. “Finalmente in una pubblica udienza si inizia a ricostruire la verità processuale su quello che è capitato a Giulio e su chi era. Cominciano ad andar via anche un po’ di ombre che hanno gettato su di lui”, ha affermato. Sulla vicenda Regeni è tornato anche il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. “Non rinunciamo alla ricerca della verità - ha detto il numero uno della Farnesina -. Speriamo di risolvere la vicenda. Stiamo operando con il governo egiziano attraverso la “moral suasion”. Con Zaki siamo riusciti a farlo tornare in Italia, speriamo di avere risultati positivi anche sulla vicenda Regeni”. Dal canto suo la segretaria del Pd, Elly Schlein, si è recata davanti alla cittadella giudiziaria della Capitale per manifestare solidarietà ai genitori del ricercatore. “Siamo al loro fianco - ha detto -. Questo è un processo importantissimo ed è una questione che riguarda la nostra Repubblica e non solo una singola famiglia. Non dobbiamo dimenticare che questo processo ha incontrato enormi ostacoli anche per i rapporti con l’Egitto”. Medio Oriente. Morto in carcere Walid Daqqa, decano dei detenuti palestinesi di Carlo Renda huffingtonpost.it, 10 aprile 2024 In 38 anni vissuti in una prigione israeliana per partecipazione alla lotta armata si è laureato in scienze politiche; ha scritto saggi e romanzi; si è preso altri due anni per traffico di cellulari in carcere; ha concepito una figlia; e ha vissuto fino in fondo, sulla sua pelle, gli effetti della guerra di Gaza. Togliere ogni aggettivo non rende meno crudo il racconto della morte di Walid Daqqa, il decano dei detenuti palestinesi nelle prigioni israeliane. Arrestato dal marzo 1986 per aver condotto come responsabile del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) il rapimento e l’omicidio di un soldato israeliano, Moshe Tamam, ha trascorso 38 anni in carcere ed è morto a 62 anni allo Shamir Medical Center, a sud-est di Tel Aviv, per una forma rara di cancro al midollo osseo che gli era stata diagnosticata nel dicembre 2022, qualche anno dopo la prima diagnosi di leucemia. Condannato all’ergastolo per la sua appartenenza alla cellula armata, un’accusa che ha sempre respinto - la corte accertò però che Daqqa non era stato l’autore materiale del rapimento e dell’omicidio del soldato - la sua pena è stata commutata successivamente a 37 anni di reclusione. Nel 2018, però, i tribunali lo hanno condannato ad ulteriori due anni di detenzione per aver cercato di introdurre cellulari in carcere, con lo slittamento del suo rilascio fissato a marzo 2025. Una vita passata in carcere, in quello che chiamava il “luogo senza porta”. Walid Daqqa si è laureato in scienze politiche; ha scritto romanzi per bambini (“The tale of the oil’s secret” ha vinto l’Etisalat Award nel 2018), saggi sulla politica palestinese e sulla psicologia dei carcerati, piece teatrali, di fatto affermandosi come intellettuale; ha concepito a distanza la figlia, con lo sperma trafugato fuori dal carcere - una pratica a cui i detenuti palestinesi ricorrono da anni. La piccola Milad, 4 anni, ha già un fascicolo aperto dai Servizi segreti israeliani a suo nome. I legali di Daqqa non sono riusciti a ottenere un rilascio anticipato per motivi medici: diverse volte hanno ricevuto un rifiuto, negli anni si sono mossi la Croce Rossa internazionale, l’israeliana Physicians for Human Rights, Amnesty International (da ultimo sabato) e diverse altre ong chiedendo che venisse liberato. L’ultimo appello per la libertà condizionata è stato respinto dalla Corte suprema. Amnesty ha sostenuto che dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 in Israele le condizioni di Walid Daqqa erano peggiorate sensibilmente, perché “torturato, umiliato, privato” delle visite dei familiari - la moglie Sanaa Salameh e la figlia Milad - e di cure mediche adeguate. Negli ultimi sei mesi è stato ricoverato due volte, ha visto il suo legale una volta sola. La sua morte è “un crudele promemoria della sistematica incuria medica israeliana e del disprezzo per i diritti dei prigionieri palestinesi”, denuncia Amnesty. Fonti palestinesi riferiscono che dal 7 ottobre 2023 sono 15 i detenuti morti in carceri israeliane; che altre 27 vittime si contano nei campi di detenzione aperti dopo l’ingresso nella Striscia di Gaza. Un bilancio di guerra, che non si vedeva dal 1967. Il nome di Walid Daqqa non era finito neanche negli scambi che sono stati negoziati fra Israele e Hamas, che hanno portato al rilascio di 80 ostaggi in cambio di 240 prigionieri palestinesi. Il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir si è messo di traverso, pubblicamente. Ancora, domenica sera su X Ben Gvir ha scritto di dolersi del fatto che Walid Daqqa fosse morto naturalmente perché avrebbe preferito vederlo condannato alla pena di morte dovuta ai terroristi. La famiglia attende di riavere il corpo, la polizia israeliana ha vietato il raduno funebre ed è intervenuta per disperdere chi si stava recando nella casa dei familiari di Walid Daqqa a Baqa al-Gharbiyye, arrestando cinque persone. Scriveva Walid Daqqa: “Fin dai primi istanti della loro vita i nostri figli comprendono la realtà dei muri, delle barriere e dei posti di blocco. Lo fanno molto prima che venga loro introdotta la parola occupazione. Ci poniamo quindi una domanda fastidiosa, della massima importanza per la loro educazione: come trasformare il sentimento opprimente creato da questa realtà in una forza per un’azione positiva, che potrebbe contribuire alla crescita costruttiva delle loro personalità giovani e in via di sviluppo? Mentre pensavo se avrei dovuto usare la parola prigione con Milad, i ricordi dei miei anni di prigionia cominciarono a risuonarmi nella mente. In questi anni mi sono ritrovato a convivere non solo con una, ma con tre generazioni di prigionieri: il Padre, il Figlio e il Nipote. Forse è la pervasività del carcere nella vita dei bambini, attraverso le loro frequenti visite ai familiari incarcerati, che li riporta ai confini del carcere come prigionieri stessi. In una delle mie storie dalla vita in prigione, intitolata “Zio, dammi una sigaretta”, un bambino detenuto di 12 anni mi ha chiesto una sigaretta. In circostanze normali, fuori dalle mura del carcere, avrei detto di no. Non vogliamo che i bambini fumino. Ma in questo ambiente mi colpì che il bambino volesse con questa richiesta crescere in fretta per poter meglio affrontare gli anni di reclusione che ormai si profilavano davanti a lui o magari riprendersi dalla violenza del suo arresto. Con l’atto di fumare, sembrava proclamare “eccomi, un adulto”. Così ho dato una sigaretta al bambino. E in presenza di Milad ho finalmente pronunciato la parola prigione. Alla fine, ho seguito il suggerimento di Milad. Mi aveva insegnato l’importanza dell’onestà e della sincerità quando si allevano i figli. Alla fine, non importava se mi sentiva usare la parola prigione. Nel suo cuore aveva già sentito cosa significasse. È un luogo senza porta”. Droghe, consumi e controlli in Cina di Marco Perduca Il Manifesto, 10 aprile 2024 Il Paese più popoloso del mondo non fa mai notizia quando si parla di stupefacenti o di guerra alla droga: sarà perché i cinesi la stanno vincendo? Per ragioni storiche e culturali che risalgono all’Ottocento quando la Cina fu vittima di due guerre per il controllo del mercato (legale e illegale) dell’oppio, l’approccio cinese è poco tollerante nei confronti delle droghe illecite. In linea con il sistema pervasivo di misure di controllo tipico di uno stato totalitario digitale, la Cina ha sviluppato leggi antidroga prima molto severe - per il traffico di più di 50 grammi di eroina, metanfetamine o cocaina c’è persino la pena di morte, oggi non più sistematica come 20 anni fa anche se non si conoscono dati ufficiali - poi progressivamente volte al controllo dei comportamenti individuali. Documenti ufficiali segnalano che nel 2022 “le autorità di controllo della droga hanno raggiunto traguardi significativi attuando pienamente la strategia di affrontare le cause profonde della domanda e dell’offerta di droga”. Secondo i dati della Commissione nazionale per il controllo dei narcotici, nel 2022 “35.000 casi legati alla droga sono stati risolti con successo portando all’arresto di 53.000 sospetti, e il sequestro di 21,9 tonnellate di sostanze stupefacenti diverse, mentre 197.000 sono state le persone identificate come tossicodipendenti”. Cifre importanti ma poco credibili visto che assomigliano più a quelle italiane che alle possibili dimensioni del fenomeno in un paese di 1.4 miliardi di persone. La prevenzione della droga e la campagna Care for Drug Users lanciata neanche una decina di anni fa, avrebbero concorso a contenere le conseguenze negative dell’uso di droghe. Le persone registrate ufficialmente per consumo sono 1,124 milioni (in Italia dove non esiste altrettanta registrazione, si stima che circa 8 milioni usino abitualmente sostanze illecite, mentre le segnalazioni ai prefetti hanno superato ormai 1,4 milioni), circa lo 0,8‰ della popolazione, una diminuzione su base annua del 24,3%. Le politiche di disintossicazione coatta hanno fatto sì che 3,79 milioni di cinesi siano oggi “liberi dalla droga” da più di tre anni, un aumento dell’11,4% su base annua; a queste si sommano 71.000 nuovi consumatori di droga, un calo del 41,7% rispetto all’anno precedente. Anche per quanto riguarda le politiche di contrasto all’Hiv/Aids la filosofia resta quella dell’approccio legge e ordine, con qualche raro programma di scambio di siringhe e metadone nelle grandi città. Per il governo si registrano solo successi, eppure perfino le Nazioni unite, dove la Cina è pressoché intoccabile, hanno lanciato preoccupati allarmi sulle politiche di “Sistema di Controllo Dinamico” per chi usa le sostanze illecite. Le persone vengono infatti inserite nel sistema indipendentemente dal fatto che siano tossicodipendenti o soggette a detenzione penale o amministrativa, a queste si aggiungono i fermati dalle forze dell’ordine ma non formalmente detenuti. Le informazioni personali dei registrati sono condivise all’interno dei database di pubblica sicurezza. Quando usano i documenti di identità, ad esempio per registrarsi in albergo, o si presentano in un ufficio governativo o una banca, attivano un telefono cellulare, fanno domanda per un’istruzione terziaria o viaggiano, scatta un allarme di polizia con spesso interrogatorio e test antidroga. Al netto della veridicità delle dimensioni ufficiali del fenomeno, va ricordato che le mafie cinesi sono presenti in tutto il mondo ed è irragionevole pensare che vivano esclusivamente di corruzione, racket o riciclaggio di danaro. Si conferma che il sistema di controllo delle “droghe” è una giustificazione per il controllo delle persone, a prescindere che le usino o no. E non si tratta di una primizia cinese.