Sovraffollamento e suicidi, l’esposto contro il governo di Valentina Stella Il Dubbio, 9 agosto 2024 La denuncia è stata presentata dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti e i dirigenti di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, Presidente, Sergio D’Elia, Segretario ed Elisabetta Zamparutti, Tesoriera. “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. A questa previsione del codice penale (Art. 40) hanno fatto riferimento il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti e i dirigenti di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, Presidente, Sergio D’Elia, Segretario ed Elisabetta Zamparutti, Tesoriera, nell’esposto-denuncia che, con il patrocinio dell’avvocato Maria Brucale, hanno depositato oggi pomeriggio presso la stazione dei carabinieri di Piazza San Lorenzo in Lucina a Roma. L’esposto è rivolto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma perché - hanno spiegato - “a fronte della gravità della situazione nelle carceri, descritta con dovizia di particolari nelle 11 pagine di denuncia, e a fronte dei probabili ulteriori pericoli che incombono sulla comunità penitenziaria, verifichi la sussistenza di eventuali responsabilità penali a carico del Ministro della Giustizia on. Carlo Nordio e dei Sottosegretari on. Andrea Delmastro Delle Vedove e sen. Andrea Ostellari i quali, avendo specifici obblighi di custodia dei ristretti, non vi adempiono cagionando loro un danno evidente alla salute, fisica o psichica, e alla loro stessa vita”. Il documento fa riferimento in particolare agli accadimenti gravi quali i suicidi e altre morti in carcere per malattia e assenza di cure. A questo proposito, i denuncianti richiamano le 65 persone private della libertà che si sono tolte la vita quest’anno, al 5 agosto 2024, a cui vanno aggiunti 7 agenti della polizia penitenziaria e altri 97 detenuti che sono morti per cosiddette “cause naturali”. Il documento fa riferimento inoltre alla grave mancanza di risorse interne agli istituti di pena derivante dall’ingestibile sovraffollamento che, al 29 luglio 2024, era quantificabile in 61.134 persone detenute in 47.004 posti regolarmente disponibili. Negli ultimi sei anni i magistrati di sorveglianza hanno riconosciuto 24.301 (circa 4.700 nel solo 2023) rimedi risarcitori per condizioni di detenzione contrarie all’umanità della pena. Gli oltre 4.000 risarcimenti ogni anno certificano in modo inequivocabile una situazione di endemica e sistematica violazione della dignità umana e delle condizioni minime di vivibilità e di rispetto dei diritti individuali nei nostri istituti di pena. In tale situazione, hanno rilevato i denuncianti, “sono fortemente pregiudicati anche i diritti e la vita dei servitori dello Stato, dei direttori, degli educatori, dei poliziotti penitenziari. Perché, a fronte di oltre 14 mila detenuti in più, ci sono ad esempio 18 mila agenti della polizia penitenziaria in meno rispetto alla pianta organica prevista”. Di fronte alla tragedia che si consuma ormai sotto gli occhi di tutti, secondo l’esposto-denuncia, “il Ministro della Giustizia e i sottosegretari competenti sulle carceri, ad esempio, hanno, all’unisono, opposto un netto rifiuto alla sola proposta di legge concreta, quella di Nessuno Tocchi Caino depositata in parlamento da Roberto Giachetti, volta ad aumentare con effetto retroattivo i giorni di liberazione anticipata e, quindi, a incidere nell’immediato sul sovraffollamento carcerario che è all’origine di ogni illegalità nell’esecuzione della pena”. All’uscita della caserma Roberto Giachetti e gli esponenti di Nessuno tocchi Caino hanno tenuto una conferenza stampa per illustrare l’iniziativa. Per Sergio d’Elia, “la nostra è una denuncia politica pur in presenza di fatti penalmente rilevanti sui quali la magistratura, in base all’obbligatorietà dell’azione penale, dovrebbe procedere. Non sono un amante del diritto penale, tant’è che, per quanto mi riguarda, dovesse la nostra denuncia arrivare davanti ad un tribunale, non mi costituirò parte civile”. Ha aggiunto Elisabetta Zamparutti: “Questo non è che il primo atto di denuncia della gravità di una situazione che non può limitarsi allo spazio giuridico nazionale ma deve arrivare davanti agli organismi politici e giudiziari sovranazionali, a partire da quelli del Consiglio d’Europa”. “Con un sovraffollamento medio che supera il 130% - ha stigmatizzato Rita Bernardini - unito al grave deficit degli organici di ogni tipo, compreso quello del personale ASL, la violazione dei diritti umani diviene sistematica. Ciò implica un obbligo immediato di intervento da parte del decisore politico che, invece, con il decreto Nordio (il nulla vestito di niente), abbandona la comunità penitenziaria alla sua disperazione nell’estate più rovente di sempre”. “Tutta la comunità penitenziaria vive una condizione costante di prostrazione - ha concluso l’avvocato Maria Brucale - Chiediamo alla Procura di verificare le responsabilità penali di coloro che avendo specifici obblighi nella custodia dei ristretti non vi adempiano determinando un danno grave e verificabile alla salute, fisica o psichica, e alla vita”. Sovraffollamento e suicidi, Giachetti denuncia Nordio e sottosegretari di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 agosto 2024 Con la conversione in legge del decreto “Carcere sicuro”, promulgato ieri dal presidente Mattarella, il Parlamento ha chiuso per ferie. Anche il capo dello Stato si è trasferito per qualche giorno a Castelporziano e il ministro Nordio parte oggi per le vacanze. Perciò perfino la richiesta di incontro al Quirinale, annunciata dal Guardasigilli dopo il vertice con Meloni a Palazzo Chigi, è rinviata a settembre. Nel frattempo ci si può intrattenere con il dibattito sulla “custodia cautelare”: sulla modifica della carcerazione preventiva, che interessa quasi il 30% della popolazione penitenziaria ancora in attesa di giudizio definitivo, è tutto un convergere di intenti e promesse, da Forza Italia ai centristi di Renzi e Calenda. Buoni propositi certo non ostacolati dall’opposizione ma che non rappresentano la soluzione immediata per l’emergenza che detenuti e agenti soffrono in questo preciso momento. Motivo per il quale il deputato di Iv Roberto Giachetti e i dirigenti di Nessuno tocchi Caino hanno denunciato ieri ai carabinieri di Roma il ministro Nordio e i sottosegretari Delmastro e Ostellari, perché “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Spiega l’associazione radicale che “l’esposto è rivolto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma perché, a fronte della gravità della situazione nelle carceri - descritta con dovizia di particolari nelle 11 pagine del testo - e a fronte dei probabili ulteriori pericoli che incombono sulla comunità penitenziaria, verifichi la sussistenza di eventuali responsabilità penali” di chi, “avendo specifici obblighi di custodia dei ristretti, non vi adempiono cagionando loro un danno evidente alla salute, fisica o psichica, e alla loro stessa vita”. Nell’esposto-denuncia si fa riferimento ai 65 detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno, al sovraffollamento tornato a livelli intollerabili con 14 mila reclusi in più dei posti disponibili, alla carenza di organico con 18 mila agenti penitenziari in meno rispetto alla pianta organica, e al fatto che “negli ultimi sei anni i magistrati di sorveglianza hanno riconosciuto 24.301 (circa 4.700 nel solo 2023) rimedi risarcitori per condizioni di detenzione contrarie all’umanità della pena”. Di fronte a questa “tragedia che si consuma ormai sotto gli occhi di tutti”, spiegano i querelanti, “il Ministro della Giustizia e i sottosegretari” hanno, tra l’altro, “all’unisono opposto un netto rifiuto alla sola proposta di legge concreta, quella di Nessuno Tocchi Caino depositata in parlamento da Roberto Giachetti, volta ad aumentare con effetto retroattivo i giorni di liberazione anticipata e, quindi, a incidere nell’immediato sul sovraffollamento carcerario che è all’origine di ogni illegalità nell’esecuzione della pena”. La destra s’indigna ma Giachetti, che con Rita Bernardini ha “fatto quasi due mesi di sciopero della fame”, ricorda che “sono circa 7.000 i nuovi ingressi in carcere da quando il governo si è insediato”. Anche l’associazione Luca Coscioni ha diffidato tutte le Asl italiane affinché garantiscano il diritto alla salute nei 189 istituti di pena, vista “la totale mancanza di attenzione dedicata alla salute nell’ultimo decreto del Governo in materia di carceri”. Ma a Nordio rispondono anche alcuni giudici come Giovanni Pavarin, ex responsabile del Coordinamento nazionale magistrati di Sorveglianza, che stima in mille la carenza di magistrati nei 29 tribunali “chiamati a decidere su un numero altissimo di fascicoli”. Secondo Pavarin, “sono circa 100 mila le posizioni al vaglio, solo per quanto riguarda i condannati in stato di libertà che devono espiare pene uguali o inferiori a 4 anni. Gente che attende di conoscere il proprio destino, se il carcere o le pene alternative”. Mentre per Marcello Bortolato, presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze, “il decreto appena approvato non migliora minimamente la situazione e anzi è fattore di complicazioni”. Carcere. Alla gente svela di che lacrime gronda e di che sangue di Franco Corleone L’Unità, 9 agosto 2024 La Circolare sulla disponibilità facile dei mezzi antisommossa con tanto di simulazioni è preoccupante. Sembrano prove di guerra civile in carcere. Il decreto carcere è stato approvato senza esame in commissione e con il voto di fiducia in Aula nonostante la scadenza fosse ai primi di settembre. Uno sfregio ulteriore al ruolo e alla dignità del Parlamento. La discussione sugli ordini del giorno e le dichiarazioni di voto finali hanno però avuto il merito di far emergere gli spiriti animali della maggioranza senza cuore e senza umanità. Il deputato Vinci di Fratelli d’Italia ha ringraziato il ministro per l’aumento dei detenuti, ovviamente di quelli che sono espressione delle leggi criminogene contro i poveri, gli stranieri e i consumatori di sostanze illegali, in nome della sicurezza dei cittadini bianchi e perbene. L’on. Matone della Lega, già magistrata e ospite del salotto di Vespa, si è gloriata di una norma di stampo razzista (presente nel disegno di legge sicurezza) contro le donne rom, sostenendo che la previsione peggiorativa del Codice Rocco sulle detenute incinte è fatta a fin di bene per salvarle dall’inferno dei campi dei gitani. Dalla padella alla brace si potrebbe dire. La pretesa salvifica giustifica la persecuzione dei soggetti deboli, in primis dei cosiddetti tossicodipendenti che si vorrebbero togliere dal carcere per rinchiuderli in comunità chiuse, di stampo autoritario. Questa norma è stata contestata dal Cnca, il Coordinamento delle comunità accoglienti, che raccoglie più di duecento strutture educative aperte. Le reazioni di Elena Boschi, di Riccardo Magi e di Debora Serracchiani sono state all’altezza della provocazione e hanno mostrato che si comincia a capire, come ammoniva Ugo Foscolo, di che sangue grondi l’azione del governo. È sempre più evidente l’ossessione del sesso che perseguita le forze politiche che pretendono di comandare senza limiti, dimostrata dal boicottaggio del diritto alla affettività e ai colloqui senza controllo visivo sancito dalla Corte Costituzionale da sette mesi con motivazioni becere e pornografiche e addirittura per il timore di gravidanze. Alla faccia della preoccupazione della denatalità! Dopo anni di battaglia culturale della Società della Ragione si era riusciti a parlare di architettura per una concezione degli spazi dei corpi reclusi non costrittivi e invece si torna a proporre l’edilizia penitenziaria come fatto quantitativo. Addirittura nominando un commissario esautorando l’ufficio tecnico del Dap e offrendo consulenze ad esperti amici. Occorre però fare chiarezza sul sovraffollamento: bisogna smetterla di dire che mancano celle perché questa affermazione legittima la costruzione di nuove galere fiammanti, come diceva Margara. Va imposta la necessità di eliminare la detenzione sociale che oggi occupa 30.000 posti a causa diretta o indiretta della legge antidroga, privilegiando le misure alternative (anche concesse dal giudice della cognizione), i lavori di pubblica utilità, la Messa alla Prova (Map), gli affidamenti in prova. Questa prospettiva coinvolge già oggi più di ottantamila persone che potrebbero facilmente aumentare con risorse inferiori a quelle che occorrerebbero per nuove prigioni. Semmai si potrebbe investire sulla ristrutturazione degli edifici esistenti (il caso di Udine è illuminante). Anche per i problemi di salute, anche mentale, va cambiato il paradigma. La tutela di questo diritto fondamentale è attribuito al Servizio sanitario nazionale e quindi è responsabilità delle Regioni, delle Asl e dei Dipartimenti di salute mentale. Non esiste più la sanità penitenziaria e occorre difendere una riforma basata sui diritti di cittadinanza, individuando l’interlocutore giusto. Le cose da fare sono note e sull’Unità del 31 luglio ho segnalato sette punti essenziali. Certo il bilancio è sconsolante, perché di fronte a un carcere senza speranza, la maggioranza ha prodotto il nulla, il vuoto pneumatico. Per buttare sabbia negli occhi ha scritto modifiche confuse che creeranno problemi di interpretazione e lungaggini ulteriori. Ci deve essere un motivo oscuro se addirittura hanno impedito l’approvazione di una legge istitutiva delle case per le detenute madri e i loro bambini che sono solo 26 e sarebbe un problema facilmente risolvibile. Viene il sospetto che si vogliano fare esplodere le carceri per dare il via a repressioni legittimate: dalle torture all’uso della forza indiscriminato. In questa condizione delle carceri in cui l’art. 27 della Costituzione è un miraggio, dovrebbero essere i sindacati della Polizia penitenziaria a pretendere un provvedimento di amnistia e indulto, in realtà le organizzazioni corporative vogliono il potere al Dap e negli Istituti, ad ogni costo e strumentalizzano le difficoltà di gestione a questo obiettivo (ma la Cgil non ha nulla da dire?). La circolare sulla disponibilità facile e immediata dei mezzi antisommossa (caschi, scudi, guanti, ecc.) con la previsione di simulazioni per dare un avviso ai prigionieri è assai preoccupante. Viene il sospetto che si vogliano fare prove di guerra civile in carcere. Poi chissà. Decreto Carceri, una scatola vuota contro suicidi e sovraffollamento di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 9 agosto 2024 Il decreto approvato dal Parlamento non porterà alcun rimedio alla condizione degli istituti di pena, come ci conferma l’ex Garante dei detenuti Mauro Palma. Il Parlamento vara a colpi di fiducia il decreto sulle carceri, soffocate dal sovraffollamento e dove i suicidi tra i detenuti aumentano di giorno in giorno, arrivati ieri a 64 in soli sette mesi. Un provvedimento che, secondo il governo, vorrebbe porre rimedio a un’emergenza che è in realtà un problema strutturale, il sovraffollamento e la carenza di personale all’interno degli istituti. Norme valutate più che insufficienti dal mondo dell’associazionismo, dagli operatori, dalla Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone sottoposte a misure restrittive, anche perché non pongono rimedio alla disperata vita nelle carceri. Disagio aggravato - Nelle carceri italiane, in questi mesi, a incidere fortemente sul numero dei suicidi ci sono anche il caldo e la riduzione del personale a causa delle ferie estive, ma non solo: “Io aggiungerei il fatto che il carcere attuale è molto più chiuso che non nel passato per situazioni convergenti - ci dice Mauro Palma, già Garante nazionale delle persone carcerate -. La prima è che una circolare emanata circa due anni fa tendente a stimolare nei direttori carcerari la progettazione e a diminuire incidenti, e la cui ratio è far stare i detenuti fuori dalle stanze di pernottamento per partecipare a iniziative come i corsi di istruzione o la formazione, ha avuto in realtà l’esito di determinare maggiori chiusure, perché i progetti non vengono fatti”. I motivi, per Palma, sono l’inerzia, ma anche la circostanza secondo la quale “quando le persone sono tante, troppe, il direttore non riesce a progettare perché non ha gli spazi, perché deve pensare innanzitutto alla sussistenza. Quindi la progettazione è minore e maggiore la chiusura. Se io dovessi definire il carcere attuale con tre aggettivi direi affollato, chiuso e teso. È quindi comprensibile anche il malessere degli operatori del personale di polizia penitenziaria”, tra il quale, ricordiamo, si sono verificati 6 casi di suicidi. Il decreto del governo - Davanti a situazioni che comunque si reiterano nel tempo e si aggravano arriva un provvedimento dell’esecutivo sulle carceri che Palma definisce “inadeguato, con alcune norme che sono frutto della non conoscenza del sistema penitenziario e dell’esecuzione penale. Ad esempio, ora il magistrato di sorveglianza, laddove funziona, non è solamente un magistrato che alla scadenza dei 6 mesi va a verificare i giorni di beneficio da dare o non dare, ma è un magistrato di accompagnamento”. Invece, continua, “avere introdotto quella norma procedurale per cui al detenuto inizialmente gli si dice l’entità della sua pena, ma che, se si prende tutti i semestri, viene ridotta, e aver chiesto al magistrato di sorveglianza di verificare solo a tali scadenze, toglie quella linea di accompagnamento che prima esisteva e l’elemento di prossimità col detenuto. Norme come queste non c’entrano proprio niente con l’urgenza attuale. Poi ci sono norme ininfluenti e ‘complicanti’ e anche queste non hanno il requisito della necessità d’urgenza per affrontare il problema di oggi”. Male anche per il personale carcerario - In testa al provvedimento ci sono le norme per aumentare il personale, e, anche in questo caso, Palma ci spiega che se si va a leggere nel dettaglio “quel personale che viene incrementato di mille unità per la metà entrerà in servizio nel 2025 e per l’altra nel 2026. C’è anche l’aumento dei direttori fino a un massimo di 20 nuove figure, ma questa era già nell’accordo per l’ultimo concorso, per il quale sono rimasti in 19 a non avere avuto la nomina. Insomma è robetta”. “Viene poi riesumato il commissario per le carceri - prosegue -, quello che fu introdotto da un precedente governo di centro-destra, un mito che non ha funzionato in passato e non si capisce come possa funzionare oggi. Sull’immediato il detenuto disperato in carcere ottiene il messaggio culturale che non si vuole deflazionare, non si vuole agire per ridurre, nemmeno con un provvedimento di durata definita” che affronti le criticità attuali. Privazione affettiva - Dopo tanto tempo sono state aumentate il numero delle telefonate che passano da 4 a 6 al mese: “Una presa in giro - dice Palma -, se si vuole davvero ristabilire il legame con gli affetti perché possa diminuire la disperazione. La norma dice che questo avverrà entro sei mesi, ma che nel contempo i direttori possono cominciare a incrementare le telefonate, tuttavia non in maniera generalizzata, ma solamente se vengono richieste per casi particolari”. C’è poi una norma di forte segno culturale che, attacca l’ex Garante, “trovo sgradevolissima e che riguarda il 41 bis, terreno sul quale diventa difficile intervenire e io non ho nessuna inclinazione a essere buonista; però se il governo decide che alla giustizia riparativa non possono accedere i detenuti sottoposti al 41 bis, vuole dire che non ha capito proprio niente”. Probabilmente “nessuno di loro avrebbe accesso perché deve esserci anche il consenso della vittima, ma è una questione di norma simbolica e quello che si vuole dire è chiaro: ‘Guardate che noi vogliamo essere tosti, facciamo un provvedimento sulle urgenze di un sistema malato, però lo facciamo aumentando i poliziotti, dando due telefonate in più. E, comunque, faremo più carceri e ci interessa il percorso soggettivo, e dare il messaggio che voi siete fuori da tutto’”. Per Palma si tratta dunque di “un provvedimento da buttare, o comunque da cambiare, ma senza illudersi che il governo abbia risolto il problema carcerario. È un provvedimento fatto per non fare, per non portare avanti quella che era la proposta Giachetti (la proposta di legge sostenuta da Nessuno tocchi Caino per elevare la detrazione di pena per la liberazione anticipata, ndr) e, votandolo ponendo la questione di fiducia, fanno in modo che non ci sia qualcuno all’interno della stessa maggioranza, per esempio in Forza Italia, che possa dare aperture diverse”. Insomma, conclude, “intervengono per annullare qualunque speranza” di una legge migliorativa. Recidiva zero: dignità in carcere di Giacomo Galeazzi interris.it, 9 agosto 2024 Allarme sovraffollamento. La Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale invoca da tempo “misure anche temporanee volte ad alleggerire la popolazione carceraria”. Il portavoce nazionale del Conferenza, Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, aveva lanciato un appello alle istituzioni a fare presto. “Le carceri sono una polveriera a miccia corta, una desertificazione affettiva, sociale e Costituzionale. Una discarica sociale ed uno ospizio dei poveri - afferma Ciambriello-. Chiediamo che le 7954 persone che hanno un residuo pena al di sotto di un anno siano i primi ad avere un beneficio. 4303 detenuti devono scontare fino ad 8 mesi di carcere, non sono reati ostativi”. Una mobilitazione di civiltà che vede impegnata anche la Chiesa italiana. “Il sovraffollamento e le condizioni di vita nelle carceri sono un problema urgente da risolvere con umanità- sostiene il cardinale Matteo Zuppi. L’arcivescovo di Bologna e presidente Cei ha visitato il carcere del capoluogo emiliano. “Giustizia, assistenza sanitaria, rieducazione e umanità devono incontrarsi per restituire alla pena quella sua funzione di ricostruzione di una nuova vita. Una funzione che pare essersi persa tra sovraffollamento e mancanza di speranza”, aggiunge il cardinale. Sos carcere - Prosegue monsignor Zuppi: “Recidiva Zero sembra un sogno, su un tema che vede il mondo in questo momento in grande difficoltà, in tanti paesi occidentali e anche in Italia le persone che tornano in carcere dopo aver scontato tutta la pena sono molte, sei, sette su dieci, e la seconda volta quasi sempre per reati più gravi. ‘Recidiva Zero’ è una bellissima prospettiva. Anche perché senza sogni non si cambia la realtà. Il Cnel mette al servizio del paese un luogo di confronto per far parlare le istituzioni con i vari soggetti per far parlare insieme chi se ne occupa, e ancora di più se si parla di carcere”. Il presidente della Cei è intervenuto al convegno organizzato dal Cnel dal titolo “Recidiva zero”. Un confronto che “permette di uscire da una certa rozzezza che poi fa anche giustizia di due secoli di storia giuridica italiana. Il carcere che serve a far marcire, le agitazioni di coloro che pensano che la sicurezza sia alzare i muri. Anche chi lavora in carcere sa bene che recidiva zero significa, invece, un approccio intelligente per capire il vero ruolo del carcere”. Aggiunge il cardinale: “Alzare i muri può diventare sintomo di maggiore insicurezza, per questo le istituzioni, il governo, il mondo del lavoro, gli operatori, gli imprenditori, i responsabili dell’educazione e della formazione si sono ritrovati per cercare delle soluzioni, per indicare anche a chi di dovere delle possibili vie di cambiamento”. Un punto importante è quello del sovraffollamento. Atti di autolesionismo - “Tanti che potrebbero godere di misure alternative ma non hanno alloggi, la troppo scarsa comunicazione con gli affetti familiari, il tema dei suicidi, di atti di autolesionismo. Abbiamo bisogno di molti sguardi perché gli sguardi diversi ci aiutano. Quelli di coloro che lavorano dentro il carcere e che vedono una situazione che non muta e quelli esterni che non devono essere solo un rapido giro ma devono entrare nella profondità, visitare con sguardo utile per osservare e formulare indicazioni e raccomandazioni e così cambiare - spiega il leader dei vescovi italiani-. Il lavoro e la presenza della società civile all’interno del carcere è dare maggiori opportunità. Dare un lavoro vero, una formazione vera per un lavoro vero e guarire la ferita attraverso la dignità. Il carcere dovrebbe diventare un luogo anche di speranza nel futuro. Solo così si potrà arrivare realmente a ‘recidiva zero’. Serve una giustizia riparativa che ridia dignità all’uomo. Particolarmente grave la situazione carceraria in alcune regioni. Oltre 5.300 “eventi critici” - tra cui 3 suicidi e 80 tentati suicidi - e poi un consistente sovraffollamento a fronte di una grave carenza di personale. Sono alcuni dei dati più significativi dell’ultima relazione semestrale del Garante dei detenuti della Regione Calabria, Luca Muglia, relazione presentata nella sede della Giunta a Catanzaro. Il report copre l’arco temporale gennaio-giugno 2024. “Dati che - precisa Muglia - non solo confermano il trend di quelli precedenti, ma indicano in alcuni settori anche un aggravamento della situazione generale”. Per quanto riguarda gli eventi “critici”, che per la precisione sono 5.306 dall’inizio dell’anno, vanno censiti anche 225 atti di autolesionismo e 75 aggressioni ad agenti penitenziari. Altro dato negativo, secondo Muglia, è il fatto che il 40% dei detenuti nelle carceri calabresi non sconta in carcere una pena definitiva ma una misura cautelare. Con riferimento al sovraffollamento, nei dodici istituti penitenziari in Calabria sono presenti 2.998 detenuti a fronte di una capienza di poco più di 2.700 detenuti, con un indice di affollamento pari a 114,78, con punte drammatiche a Locri (147) e Castrovillari. Tensione in cella - Momenti di tensione anche nel carcere a Udine per il sovraffollamento e il caldo. Diversi detenuti hanno urlato e battuto con le stoviglie sulle sbarre, uno ha anche appiccato un incendio a suppellettili. Per precauzione, gli ospiti sono stati spostati nel cortile. Per vigilare, oltre agli agenti di Polizia penitenziaria, sono state inviate sul posto pattuglie di polizia e carabinieri, oltre all’automedica e a un’ambulanza. Uno dei detenuti è stato visitato sul posto per aver inalato del fumo, ma non è stato necessario del ricovero in ospedale. Terminata l’emergenza, i reclusi hanno fatto rientro nelle loro celle. Nei giorni scorsi le proteste per sovraffollamento avevano riguardato altre case circondariali della regione. In tutta Italia si registra un suicidio in cella ogni tre giorni. Ma anche proteste, rivolte ed aggressioni al personale di polizia penitenziaria. È un’estate ad alta tensione nelle carceri italiane sovraffollate (circa 14mila detenuti in più rispetto ai posti letto regolamentari). “L’attenzione e l’impegno di tutti noi sono massimi”, assicura il ministero della Giustizia, citando un piano di investimenti straordinario per migliorare le condizioni di esecuzione della pena. Nel 2024 il budget è più che triplicato, passando da 4,4 a 14,9 milioni di euro. A breve partirà poi il piano straordinario per l’edilizia penitenziaria. E si muove anche la Chiesa, che ha donato 2.200 ventilatori per gli istituti penitenziari. “Talvolta, anche un semplice e lieve soffio d’aria può aiutare a vivere meglio il periodo di detenzione”, si legge nella lettera inviata dal segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Baturi, al capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo. Intanto, la cronaca continua a segnalare episodi critici nelle carceri. In quello di Rieti due agenti sono stati sequestrati da un detenuto e poi rilasciati. A Biella sette detenuti si sono rifiutati di rientrare in cella. Disordini nell’istituto di Velletri, con telecamere rotte dagli ospiti ed altri danneggiamenti prima dell’intervento della penitenziaria con il rinforzo di carabinieri e polizia, per sedare il tentativo di rivolta. Anche a Terni un gruppo di detenuti si è rifiutato di rientrare in cella. Forze speciali sono intervenute per sedare la protesta. Sette detenuti sono stati posti in isolamento prima di essere trasferiti in un’altra struttura. A Cuneo un padiglione è stato devastato. Emergenza umanitaria - Un 27enne italiano si è tolto la vita nella sua cella a Prato. Il giorno prima era stato un trentenne, anche lui italiano, ad impiccarsi a Rebibbia. Il ministero ha chiesto ai suoi uffici una ricognizione degli interventi messi in atto in questo anno e mezzo. E tutti i numeri sono positivi: gli educatori sono passati da 905 a 1.089; i mediatori culturali da 3 a 61. I dirigenti penitenziari da 226 a 260. Dall’ottobre 2022 ad oggi sono stati immessi negli istituti 3.333 agenti assistenti di Polizia penitenziaria. Preoccupata la Conferenza nazionale dei Garanti dei detenuti, che ha chiesto ed ottenuto un incontro con il ministro della Giustizia. Per il portavoce della Conferenza, Samuele Ciambriello, “le carceri sono una polveriera a miccia corta, una desertificazione affettiva, sociale e costituzionale. Una discarica sociale ed uno ospizio dei poveri. Chiediamo che le 7.954 persone che hanno un residuo di pena al di sotto di un anno siano le prime ad avere un beneficio. Siamo in piena emergenza umanitaria. Madri in carcere, tutelare i bambini di Paolo Siani La Repubblica, 9 agosto 2024 Mercoledì 7 agosto poche ore prima della pausa estiva la Camera dei deputati ha affrontato di nuovo il tema dei bambini innocenti detenuti con le loro madri, attraverso un ordine del giorno di Marco Lacarra che chiedeva un impegno al governo per finanziare altre case famiglie protette per detenute madri, ne esistono soltanto due in Italia. Odg prima accettato dal governo con riformulazione poi bocciato. Non sono giorni facili per i bambini nel mondo, vittime di guerre, 26 mila sono quelli morti o feriti in sei mesi a Gaza, e 35 uccisi tra gennaio e aprile, 24 in Ucraina. Bambini poco considerati anche dalla politica. Premesso che non si chiedono sconti di pena, né si vogliono lasciare libere “pericolose borseggiatrici”, come alcuni esponenti del governo hanno affermato, ma il supremo interesse del minore va rispettato e dichiarare che gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri) sono luoghi adatti a un bambino è una sciocchezza. Basta andare negli Icam per rendersene conto oppure guardare le foto di Anna Catalano, della mostra “senza colpe”, e guardare dentro gli “appartamenti” delle detenute madri degli Icam, ambienti, che vogliono somigliare a una casa, ma che la sera vengono chiusi, con le sbarre alle finestre, e le luci sempre accese. Stiamo assistendo a una situazione paradossale perché mentre lo Stato cerca di rieducare una donna che ha commesso un reato, condanna il suo bambino, innocente, a trascorrere i primi anni della sua vita, quelli decisivi per lo sviluppo psicofisico, in un carcere. Gli psicologi ci dicono che bambini detenuti possono sviluppare difficoltà nel gestire le emozioni, e senso di inadeguatezza, di sfiducia, di inferiorità, che si accompagnano a un tardivo progresso linguistico e motorio, causato dalla ripetitività dei gesti, dalla ristrettezza degli spazi di gioco, dalla mancanza di stimoli. I bambini hanno il diritto di essere allevati dalla propria madre anche se detenuta, in un ambiente che può offrire una positiva preparazione alla vita adulta. Negli Icam questo è impossibile. Le case famiglie protette, previste già nel nostro ordinamento, ma non finanziate, invece, rappresentano il luogo ideale dove la mamma può scontare la sua pena e il bambino non soffrire le restrizioni del carcere. Questo si chiedeva il 7 agosto, solo questo, nessuno sconto di pena, nessuna indulgenza per “pericolose borseggiatrici”, solo riaffermare i diritti dei bambini. Infine la domanda che una politica attenta e con uno sguardo rivolto al futuro, si dovrebbe porre è: chi si prenderà cura di queste bambine e di questi bambini che hanno avuto un inizio di vita così sfavorevole? Domanda che in realtà si dovrebbero porre anche i mezzi di informazione che continuano a mostrare immagini delle abili borseggiatrici della metropolitana presentandole come un grave pericolo per l’intera comunità. Se nessuno si prenderà cura di questi bambini sarà molto difficile che non seguiranno le orme delle madri e dei padri e ce ne occuperemo poi quando più grandi incapperanno nelle maglie della giustizia minorile, o le troveremo nelle metropolitane delle nostre città come borseggiatrici molto più esperte e abili delle loro mamme. La vera sfida quindi per la società è offrire delle opportunità a questi bambini e non rinchiuderli in un carcere. Si tratta di difendere l’interesse supremo delle bambine e dei bambini e mi indigno nel vedere così poca sensibilità, tanta atrocità nei loro confronti ma anche una grave e pericolosa miopia politica. E chiedo che si rispetti la convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza di cui l’Italia è firmataria insieme ad altri 194 paesi e in particolare l’articolo 3 dove si afferma che in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del bambino/adolescente deve avere la priorità. Ma il carcere è davvero riformabile? di Angelo Palmieri* orvietonews.it, 9 agosto 2024 Siamo realmente persuasi che il decreto “carcere sicuro” del ministro Nordio determini un cambiamento strutturale del problema riferito al sovraffollamento delle carceri e un miglioramento complessivo delle condizioni di reclusione? Dalle attuali statistiche sui suicidi dei detenuti dall’inizio dell’anno, ben 59, oltre ai comportamenti autolesivi messi in atto allo scopo di richiamare ad una sofferenza emotiva, ci sembra di poter affermare che il decreto assurga, con motivato sospetto, ad intervento palliativo dello “stato di crisi” della classe politica che rischia di incorrere nuovamente in condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Il provvedimento rischia di reiterare situazioni di degrado e disperazione che minano alle fondamenta lo stato di diritto. Il tema del sovraffollamento non può più dirsi “emergenziale”. A Regina Coeli, a Roma, il tasso è del 180%, e siamo ad una media nazionale intorno al 130%. Ma veniamo ad alcune misure contenute nel decreto: l’assunzione di nuove mille unità per il corpo della polizia penitenziaria, lo snellimento delle procedure per un’uscita in anticipo dal carcere per coloro che ne hanno diritto, più telefonate per i detenuti, l’istituzione di un albo delle comunità idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale per coloro che hanno i requisiti. Da un’attenta analisi della legge è possibile evidenziare alcune criticità, ad esempio il problema generale della salute, assolutamente misconosciuto, come sostiene Michele Miravalle, coordinatore dell’osservatorio dell’Associazione Antigone, la questione della salute mentale (più del 40% dei detenuti fa uso di psicofarmaci) e di un mancato allargamento delle figure come gli psichiatri e tecnici della riabilitazione psichiatrica (problema cronico), l’assunzione di mille agenti di polizia, pur necessari, senza considerare altre figure professionali rilevanti, quali quelle degli educatori e dei mediatori culturali significa precipitare verso una visione di ordine pubblico da ristabilire, ovverosia una sorta di “securitizzazione” del carcere. È bene sottolineare che l’inserimento di mediatori risulterebbe di fondamentale importanza, in ragione del fatto che in carcere circa il 30% delle persone sono straniere, come il coinvolgimento di altre figure innovative quali gli educatori sportivi, portatrici di linguaggi nuovi, magari facendo leva anche sull’esperienza del terzo settore. Sull’istituzione di un albo delle comunità, (a dire il vero su questo punto il decreto è confusivo), soprattutto per stranieri e coloro che non hanno una residenza ufficiale, può costituire indubbiamente un passo in avanti come luogo di espiazione della pena, infatti molti detenuti avrebbero i requisiti normativi per la detenzione domiciliare ma non ci vanno perché sprovvisti di domicilio, ma è altresì vero che il nostro Paese attualmente, ad eccezione di qualche buona pratica messa in campo dall’associazionismo sociale, non credo sia dotato di residenze con standard alti, sia in termini di spazi che di qualità degli interventi. E a tal proposito, il rischio di replicare contenitori di disagio, ad esempio per stranieri, fortemente ghettizzanti e poco inclusivi è più che una suggestione. Sulla possibilità di scontare la pena in comunità per le persone con problemi di dipendenza che di per sé già esiste, sarebbe auspicabile, tuttavia, una revisione significativa dei modelli di presa in carico, pur nel rispetto degli approcci terapeutici. Quanto all’ inserimento lavorativo, pur menzionato nelle ipotesi del decreto, sarà possibile misurarlo in termini di risultati raggiunti? Ora la palla passa al legislatore, ma ahimè, forse un po’ realisticamente il decreto del governo Meloni non sarà sufficiente a spezzare la catena di morte e disperazione che strazia le nostre prigioni. *Sociologo Nordio promette più giudici, i magistrati di sorveglianza: “Ne servono almeno mille” di Giovanni Rossi La Nazione, 9 agosto 2024 Bortolato (Tribunale di Firenze): quasi la metà dei posti sono vacanti. E mancano i soldi Il garante dei detenuti umbri lancia l’allarme: “Nelle nostre carceri manca davvero tutto”. Il Dl carceri appena approvato, finalizzato alla certezza della pena e assai meno focalizzato sulle condizioni penitenziarie, incendia il dibattito politico. Slitta a dopo le vacanze il colloquio chiesto a sorpresa dal Guardasigilli Carlo Nordio al presidente della Repubblica Sergio Mattarella sul sovraffollamento degli istituti di reclusione, materia che vede l’Italia inadempiente di lungo corso. Il Capo dello Stato promulga il decreto, mentre Nordio lavora all’aumento degli organici nei tribunali di Sorveglianza (oggi 236 magistrati in 29 sedi) e a una parallela modifica della custodia cautelare affinché i detenuti tossicodipendenti scontino la pena in comunità. Ma senza fatti concreti la realtà della magistratura di sorveglianza “può essere definita drammatica”, afferma Giovanni Maria Pavarin, già responsabile del Coordinamento magistrati di sorveglianza. “Servirebbero sulla carta almeno 1000 magistrati in più”, è la stima dal campo. Un settore complesso con criticità specifiche nei distretti di Napoli e Milano ma anche a Roma (chiamata a decidere sul 41 bis). Per Marcello Bortolato, presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze, “il decreto appena approvato non migliora minimamente la situazione e anzi è fattore di complicazioni”. Altro che facili slogan. “Il problema principale è la mancanza di personale amministrativo - aggiunge Bortolato: nel mio distretto ho una percentuale di ‘vacanza’ del 43,6%”. Poi c’è la cronica mancanza di fondi: “Siamo in difficoltà anche per le auto di servizio e la benzina per raggiungere le case circondariali, spesso in località remote, e fare i colloqui coi detenuti”. Problema ulteriore “l’informatizzazione da anno zero”. Le voci contro il decreto carceri mobilitano Garanti dei detenuti, associazioni, opposizioni. Arriva persino la denuncia del Guardasigilli in sede penale per inadempienza rispetto alla situazione penitenziaria. In mattinata Matteo Hallissey, Filippo Blangino e Pietro Borsari (segretario, tesoriere e membro di Direzione di Radicali Italiani) si manifestano in via Arenula con la maschera di Nordio e le mani sporche di sangue, per poi essere fermati dalle forze dell’ordine. Poco dopo Roberto Giachetti (Italia Viva) presenta con Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti, esponenti di ‘Nessuno tocchi Caino’, un esposto denuncia ai carabinieri di piazza San Lorenzo in Lucina contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio e i sottosegretari Andrea Del Mastro e Andrea Ostellari per la situazione in cui versano le carceri. Il documento fa riferimento “alla grave mancanza di risorse interne agli istituti di pena derivante dall’ingestibile sovraffollamento che, al 29 luglio 2024, era quantificabile in 61.134 persone detenute in 47.004 posti regolarmente disponibili”. “Negli ultimi sei anni - prosegue l’esposto - i magistrati di sorveglianza hanno riconosciuto 24.301 (circa 4.700 nel solo 2023) rimedi risarcitori per condizioni di detenzione contrarie all’umanità della pena. Gli oltre 4.000 risarcimenti ogni anno certificano in modo inequivocabile una situazione di endemica e sistematica violazione della dignità umana e delle condizioni minime di vivibilità e di rispetto dei diritti individuali” in carcere. Di qui la chiamata sul banco degli accusati di tutte le figure apicali ministeriali perché “non impedire un evento equivale a cagionarlo”. Atti “campati in aria e deboli dal punto di vista giuridico”, reagisce l’ex magistrato e parlamentare leghista Simonetta Matone. Ma i 62 suicidi (60 uomini e 2 donne) ufficialmente censiti da inizio anno nei penitenziari italiani (nel frattempo già diventati 66) sono un grido di dolore. Secondo i dati diffusi dal Garante nazionale dei detenuti, 33 vittime sono italiane, 29 straniere. Le fasce d’età più colpite sono tra i 26 e i 39 anni (29 persone) e tra i 40 e i 55 anni (16 persone). Età media dei suicidi 40 anni. Eclatante anche il fatto che 24 vittime (quasi il 40% del totale) fossero in attesa di giudizio. “La responsabilità - spiega Giuseppe Fanfani, Garante detenuti della Toscana - è di chi si riempie la bocca di parole senza avere il coraggio di affrontare la situazione per quello che è: caldo estremo, sovraffollamento, cimici, blatte, violenza, solitudine”. Si associa Giuseppe Caforio, Garante detenuti dell’Umbria: “Nelle carceri manca tutto: scuole, laboratori, fabbriche interne, collegamenti esterni per produzioni o servizi”. E ancora: “Mancano poliziotti e quelli che ci sono fanno miracoli, improvvisandosi assistenti sociali, psicologi, con uno spirito di solidarietà umana che purtroppo a volte li travolge”. Sette suicidi nel 2024 sono il terribile prezzo pagato dagli agenti di custodia. Decreto Carceri, Miravalle: “La riforma? Inutile. Hanno dipinto i muri, ma la casa crolla” di Giovanni Rossi La Nazione, 9 agosto 2024 Il ricercatore critica il decreto carceri per non affrontare le questioni strutturali, ma solo superficiali. Antigone vede negativamente l’approccio differenziato ai detenuti al 41 bis e preferirebbe interventi sulle carceri esistenti anziché nuove costruzioni. Michele Miravalle, ricercatore dell’università di Torino e coordinatore dell’osservatorio dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, come giudica il decreto carceri appena approvato? “Il tema carcerario è come una casa che ha dei problemi alle fondamenta che rischiano di comprometterne la tenuta. Con questo decreto, invece di intervenire sulle fondamenta in maniera strutturale, si interviene sui davanzali o sull’abbellimento delle finestre”. Fuor di metafora? “È un decreto che fa alcune cose di buonsenso, ad esempio l’assunzione dei nuovi agenti e lo scorrimento delle graduatorie dei direttori. Ma se si vuole risolvere una situazione di sovraffollamento cronico e una situazione drammatica sotto il profilo della emergenza suicidi, non sono queste misure necessarie. Dunque il decreto non danneggerà il sistema penitenziario, ma non lo migliorerà neanche. Sarebbero servite misure più coraggiose che però, evidentemente, non sono state prese in considerazione”. Pensa alla depenalizzazione? “Non ci si può occupare di carcere senza occuparsi di sistema penale, è un po’ paradossale che da una parte si tenti a parole perlomeno di affrontare il problema dell’umanizzazione della pena e poi a settembre con tutta probabilità ci troveremo ad esempio con un decreto sicurezza che reintroduce nuovi reati, è una contraddizione”. Cosa pensa Antigone dell’abolizione della giustizia riparativa per i detenuti al 41 bis? “I detenuti al 41 bis sono meno di 1.000 unità, quindi stiamo parlando di poche persone. È passata l’idea, e questo decreto lo conferma, che nei confronti di queste persone ci sia in qualche modo un sistema penitenziario parallelo, per cui non valgano le regole che valgono invece per tutti gli altri. E questo è un po’ paradossale, perché rischia da una parte di comunicare un valore ovviamente afflittivo e molto negativo dell’appartenenza ad un’organizzazione criminale che è condivisibile dal punto di vista politico. Ma il rischio è che a forza di escludere e di far percepire come diversi e più afflitte queste persone poi in termini di sicurezza, di dissociazione, di possibilità di un cambiare, queste misure finiscono per produrre l’effetto contrario, quello di disincentivare”. È stato istituito un commissario sull’edilizia carceraria. È positivo almeno questo? “È uno degli aspetti peggiori del decreto. Costruire nuove carceri costa, è complicato, ha degli oneri in termini di personale da assumere che sono insostenibili per il sistema giustizia. La struttura commissariale costerà 1 milione di euro e la nostra proposta è di utilizzare quelle risorse per intervenire sulle strutture fatiscenti”. Giachetti: “L’Esecutivo vuole far esplodere le carceri per poi usare il pugno duro”. di Valentina Stella Il Dubbio, 9 agosto 2024 “Secondo me governo e maggioranza hanno un disegno ben preciso, che è quello di far esplodere la situazione nelle carceri per poi mettere in atto e giustificare un’opera di repressione molto appariscente”: è molto duro nei confronti di governo e maggioranza il deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, che in questa intervista spiega bene perché ha deciso di denunciare insieme a Nessuno tocchi Caino il ministro Nordio e i sottosegretari Ostellari e Delmastro. Che bilancio fa rispetto a tutto quanto accaduto rispetto alla sua proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale, in particolare in riferimento all’ennesimo rinvio? Non faccio un bilancio per me, bensì per l’oggetto della questione, ossia la drammaticità che si sta vivendo nelle nostre carceri. Basti pensare agli ultimi suicidi di due ragazzi. Da un lato è del tutto evidente che si sono inventati un decreto finto e il fatto che fosse finto l’ha certificato ieri (mercoledì, ndr) la presidente del Consiglio Meloni facendo una riunione a Palazzo Chigi per occuparsi dell’emergenza. Una emergenza niente affatto affrontata nel provvedimento appena approvato. Dall’altro lato hanno respinto e affossato la mia proposta nonostante fosse l’unica al momento in grado di affrontare la situazione ormai insostenibile negli istituti di pena, che riguarda detenuti e detenenti. Io non ho mai preteso che venisse approvata la pdl, elaborata insieme a Nessuno tocchi Caino: se mi avessero detto che avevano un altro progetto di legge utile lo avrei sostenuto e invece nulla. Che idea si è fatto di questo modo di procedere? Secondo me governo e maggioranza hanno un disegno ben preciso, che è quello di far esplodere la situazione nelle carceri per poi mettere in atto e giustificare un’opera di repressione molto appariscente. Vogliono dimostrare di essere securitari, di avere il pugno duro, tanto lo fanno a scapito degli ultimi, di delinquenti abbandonati a loro stessi nelle mani dello Stato. Se mettiamo in fila alcuni elementi, la conclusione non può che essere questa: hanno previsto nel ddl sicurezza il reato di resistenza passiva. Tale ultima, scellerata previsione traduce in condotta penalmente rilevante qualunque resistenza o contrapposizione a un ordine, neppure definito legittimo dal testo normativo, rendendo reato il comportamento negativo, omissivo, nonviolento, quale lo sciopero della fame, il rifiuto di rientrare in una cella bollente e sovraffollata o di assoggettarsi a una indebita perquisizione intima. E non si dimentichi che qualche settimana fa è arrivata la notizia che avevano costituito i reparti speciali della polizia penitenziaria, il cosiddetto Gio. Lei in Aula mercoledì sera si è scontrato con la deputata di Fd’I Varchi che ha chiesto il ritorno in commissione della sua pdl... Ho detto che si dovrebbe provare pudore, forse anche vergogna per come si è gestito il tutto. Il 24 luglio scorso, Varchi era intervenuta in Aula per chiedere l’ennesimo rinvio, spiegando che era legato al fatto che tutti potessero prendere visione del decreto che abbiamo appena approvato. Appena concluso, cosa fa? Chiede un nuovo rinvio! Intanto tra un rinvio e l’altro ci sono stati una cinquantina di suicidi. Ma si è approvato un decreto che è una buffonata e si è rinviata la mia pdl. Come ho detto a Varchi e a tutta la maggioranza, abbiate il coraggio di votare la pdl, bocciatela, almeno assumetevi la responsabilità, non solo dentro il Parlamento, ma anche di fronte a tutti quelli che ogni giorno, compresa la Polizia penitenziaria, sono in una condizione inaccettabile. Lei ha criticato anche l’atteggiamento di Forza Italia... Sono stato in maggioranza anch’io. Se mi avessero detto “non ce l’abbiamo fatta, purtroppo stiamo in maggioranza e non possiamo farla saltare su questo” io ovviamente non sarei stato d’accordo, ma quantomeno avrei apprezzato l’onestà. Invece in questo caso prima si sono schierati sulla mia proposta e poi hanno ingannato il mondo, dicendo che la mia proposta era stata superata dal decreto e dall’emendamento di FI. Ma sappiamo tutti in cosa consiste quell’emendamento che riguarda gli ultrasettantenni. Su oltre 61.000 reclusi, ne sono 1.244. Tra questi ci sono gli ergastolani, che non potranno mai usufruire della liberazione anticipata speciale, poi ci sono quelli che hanno la recidiva, esclusi anche loro. In pratica quella norma se va bene interessa massimo 300 persone. Ma è serietà questa? Non solo sono in mala fede sul piano politico, ma anche irriguardosi perché fuggono dalle loro responsabilità e fanno credere all’intero sistema penitenziario e a chi gravita intorno ad esso che hanno risolto il problema. Ingannare così le persone è gravissimo. Dal punto di vista metodologico come giudica il fatto che due giorni fa mentre nell’Aula della Camera erano ancora in corso le dichiarazioni di voto sul dl carceri il ministro Nordio si riuniva a Palazzo Chigi per discutere dello stesso tema con la premier Meloni? Mentre discutevamo sono mancati per diverso tempo anche i sottosegretari, anche loro a Palazzo Chigi, insieme a Meloni, Nordio e l’anima grigia dietro a tutto questo, il sottosegretario Mantovano. Bene ha fatto il presidente della Camera Fontana a ribadire la centralità del Parlamento come sede di discussione. Invece, dal punto di vista del merito, come interpreta questa iniziativa del Guardasigilli che annuncia di volersi recare da Mattarella per discutere di altri provvedimenti in materia? Vorrei ricordare a Nordio che il presidente Mattarella ha già parlato sul tema. Il giorno del suo insediamento, quando ha convocato il capo del Dap, quando ha ricordato la lettera dei detenuti di Brescia. Non occorre salire al Quirinale, basta ascoltare il Capo dello Stato. Quello del ministro è un semplice rilancio comunicativo per far vedere che si sta facendo qualcosa, quando in realtà non è così. E questo dovrebbe essere meglio evidenziato dalla stampa. Per tutto questo lei insieme a Nessuno Tocchi Caino presenta un esposto contro Nordio, Ostellari, Delmastro? È una provocazione o crede davvero che ci possa essere un magistrato pronto a perseguirli? Prima di arrivare a questo, io ho provato in tutti i modi sul piano politico e parlamentare a discutere con l’Esecutivo e la maggioranza parlamentare. Mi sono sempre reso disponibile ad incontri e rinvii, ho messo in campo tutto il possibile. Tuttavia hanno scelto un’altra strada. E gli aspetti peggiori sono che si rendono perfettamente conto di quello che sta succedendo negli istituti di pena e scientemente non fanno nulla per affrontare adeguatamente l’emergenza; anzi, come dicevo prima, stanno mettendo in atto una serie di azioni per inasprire la situazione. Non si tratta di una provocazione, la nostra. Come recita l’art. 40 cp, “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. E noi nell’esposto abbiamo appunto sottolineato che, a nostro parere, il ministro e i due sottosegretari, pur avendo specifici obblighi di custodia dei ristretti, non vi adempiono cagionando ai detenuti un danno verificabile alla salute, fisica o psichica, e alla vita. Poi sarà il Tribunale dei Ministri e i magistrati a giudicare. Sulle carceri Meloni scongiura la rottura nel governo. Forza Italia fa provine di crisi di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 agosto 2024 Solo la premier evita lo strappo tra gli alleati. Sulle carceri, Tajani e la famiglia Berlusconi non si accontentano del decreto Nordio, che non risolve l’emergenza. I diritti adesso valgono un governo. Il via libera definitivo della Camera al decreto carceri, oltre a porre seri interrogativi sull’utilità del provvedimento (che, a detta di tutti gli esperti del settore auditi in Parlamento, non contiene alcuna misura capace di intervenire nell’immediato sul sovraffollamento carcerario, pari a 14 mila detenuti, tra le cause del record di suicidi dietro le sbarre), si è accompagnato a un caso politico. Proprio mentre a Montecitorio si votava per la conversione in legge del decreto, infatti, mercoledì pomeriggio a Palazzo Chigi si teneva un vertice di governo incentrato sulle carceri. Un paradosso, dietro il quale si cela una frattura vera nel governo. Per capire da dove è nato il vertice bisogna tornare indietro di alcuni giorni. Precisamente al 24 luglio: il “momento critico”, viene definito da fonti del ministero della Giustizia, nel senso che quel giorno la maggioranza di governo ha rischiato di saltare per aria. Nei giorni precedenti, Forza Italia alla Camera si era detta pronta a votare a favore (con alcune correzioni) della proposta Giachetti, che prevede di alzare da 45 a 60, per ogni semestre, i giorni per la liberazione anticipata, ritenendola l’unica misura capace di ridurre il grave sovraffollamento negli istituti di pena. L’ipotesi dei forzisti viene bocciata nettamente da Fratelli d’Italia e Lega, come già era successo ai tempi dell’elaborazione del decreto carceri. La spaccatura è profonda e la mattina del 24 luglio nello studio di Giulia Bongiorno si tiene un vertice con Nordio, il viceministro forzista Sisto e i sottosegretari Ostellari (Lega) e Delmastro (FdI). La trattativa è “complessa”, Sisto prova a far passare le proposte “umanocentriche” di FI, ma va contro un muro. Alla fine FI è costretta a cedere, incassando il via libera a due soli emendamenti marginali. La maggioranza sopravvive, ma tra mille tensioni. La premier Meloni lo sa e il 31 luglio fissa l’incontro che si è poi tenuto mercoledì pomeriggio, per ristabilire unità tra gli alleati. Al termine del vertice Nordio promette “soluzioni a breve e medio termine per il sovraffollamento carcerario”. Un annuncio che fa a botte col decreto appena approvato, ma che serve a tenere a bada FI. Insomma, il vertice di governo era stato convocato una settimana prima, quindi il fatto che si sia svolto in concomitanza col voto finale della Camera sul decreto carceri non è assolutamente da intendersi, come ha sostenuto qualcuno dall’opposizione, come uno sgarbo al Parlamento. Piuttosto, a sorprendere è la promessa di Nordio di soluzioni nel breve periodo per rispondere all’emergenza carceri (a dispetto di chi pensava che l’obiettivo del decreto, per definizione urgente, dovesse essere proprio quello). Le soluzioni individuate da Nordio sono sostanzialmente tre: modifiche alle norme sulla custodia cautelare, così da ridurre il numero di detenuti in attesa di giudizio, una maggiore copertura della pianta organica dei giudici di sorveglianza e prevedere che i detenuti tossicodipendenti possano scontare la pena in comunità. Nordio ha anche fatto sapere di aver chiesto un incontro al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ancora non è chiaro come Nordio intenda muoversi su queste tre strade. Quella più incisiva è senz’altro costituita dalla magistratura di sorveglianza, che però vive una situazione drammatica: i giudici di sorveglianza sono soltanto 236, impiegati in 29 tribunali, e decidono su un numero altissimo di fascicoli. Basti pensare che sono circa 100 mila le posizioni al vaglio solo per quanto riguarda i condannati in stato di libertà che devono espiare pene uguali o inferiori a quattro anni, come ha sottolineato Giovanni Maria Pavarin, a lungo responsabile del Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza (Conams). Ciò che serve è un miracolo, e la sveglia di Nordio giunge forse con colpevole ritardo. Intanto in Forza Italia, chissà, sarà anche per la sensibilità di Pier Silvio e Marina Berlusconi sul tema dei diritti, c’è chi giura che la battaglia sulle carceri è solo cominciata. Mulé (FI): “Basta giustizialismo sulle carceri. Che serve stare al governo se non incidiamo?” di Luca Roberto Il Foglio, 9 agosto 2024 Il vicepresidente della Camera: “Forza Italia ha l’obbligo di invitare gli alleati a ragionare. Dei suicidi nelle carceri siamo tutti responsabili. Nordio? È condizionato dai giudici che lavorano con lui al ministero”. “È ora di uscire da questa discarica giustizialista. Se il problema del sovraffollamento carcerario non riusciamo a risolverlo, allora che ci stiamo a fare al governo?”. Il vicepresidente della Camera Giorgio Mulé, esponente di Forza Italia, non è tipo da esternazioni timide. Nelle stesse ore in cui a Montecitorio si dava l’ok al decreto carceri, si suicidava il 66esimo detenuto dall’inizio dell’anno: il 39 per cento di loro, secondo la Caritas, era in attesa di giudizio. “A febbraio, quando i suicidi erano 18, era un’emergenza. Adesso non lo è più. È la constatazione che siamo stati incapaci di gestire l’emergenza”, ragiona Mulé col Foglio. “Preso atto di questo, bisogna sapersi interrogare su quel che non sta funzionando. Perché i continui suicidi nelle carceri sono un disonore per la politica tutta. A mali estremi, estremi rimedi”. Quali? “Non un’amnistia, ma il coraggio di procedere a un intervento sulla custodia cautelare. In Italia circa il 20 per cento dei detenuti è ancora in attesa di un giudizio di primo grado. In migliaia soffrono le pene dell’inferno e saranno poi giudicati innocenti. Lega e Fratelli d’Italia hanno sensibilità diverse, va bene, ma noi come Forza Italia abbiamo l’obbligo di invitarli a ragionare”. Il ministro della Giustizia Nordio dovrebbe fare molto di più? “Il Nordio che vedo io dice delle cose giuste. Poi faccio la tara con le misure licenziate ed è evidente che c’è qualcosa che non va. Ne devo ricavare che è condizionato da alcuni magistrati che lo circondano al ministero”. Mulé riconosce che il sovraffollamento carcerario “è un problema antico. Sicuramente qualcosa s’è fatto con le assunzioni nella polizia penitenziaria, gente che vive quotidianamente un dramma indicibile. Poi certo scontiamo l’assenza di una programmazione nella costruzione di nuove carceri. Ma non possiamo non rivendicare un approccio garantista, che è la semplice difesa dei princìpi della Costituzione”. Il deputato azzurro spiega che da parte di Forza Italia c’è già stato un lavoro di mediazione. “Qualche settimana fa abbiamo avuto una riunione drammatica al Senato con le altre forze di maggioranza. Sul decreto carceri abbiamo fatto una scrematura degli emendamenti. Il viceministro Sisto ci ha provato. Ma se non riusciamo a incidere su materie così delicate e così importanti per la nostra storia, ripeto, che ci stiamo a fare al governo?”. Alla Camera un ordine del giorno del deputato di Azione Enrico Costa ha chiesto al governo di rivedere le norme sulla custodia cautelare. Il vero elefante nella stanza di tutta la discussione. “Non si tratta di pretendere amnistie o svuota-carceri, ma di ragionare su una stortura tutta italiana. Sul totale di tutti i detenuti, circa il 25 per cento di loro è ancora in attesa di un giudizio definitivo. Si capisce allora come una discussione su questo punto, pur avendo i nostri alleati sensibilità diverse dalla nostra, sia necessaria”, ragiona ancora il forzista. Secondo cui “Forza Italia alla coalizione deve essere in grado di indicare anche un percorso. Se alla fine dell’anno arriveremo, Dio non voglia, alla cifra enorme di 100 suicidi non siamo autorizzati a scandalizzarci, a piangere, perché le nostre responsabilità sono evidenti. Dietro questi morti ci sono orfani, vedove, famiglie distrutte. Ecco perché ci vuole un’assunzione di responsabilità collettiva per un cambio di rotta vero, repentino”. A proposito di responsabilità, c’è una catena in particolare che non sta funzionando? Pensiamo soprattutto al Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap), con a capo Giovanni Russo. “Già a febbraio il presidente della Repubblica Mattarella convocò il capo del Dap perché la situazione stava esplodendo. È del tutto evidente che da allora in poi un cambio di passo non c’è stato, anzi. L’incapacità di gestire l’emergenza è sotto gli occhi di tutti”. Torniamo a Nordio, che proprio mercoledì è tornato a Palazzo Chigi a discutere con la premier Meloni di nuovi interventi in materia carceraria. “Molte delle cose che dice Nordio sono condivisibili, ha una cultura garantista. Però c’è una scarsa corrispondenza con quello che finisce nei decreti. Mi viene da pensare che ci sia, tra coloro che lo circondano nell’attività al ministero, qualche magistrato che lo condiziona”, analizza ancora Mulé. Riuscirete a far cambiare idea a Lega e FdI? “È quello che deve fare Forza Italia”. Anastasia: “Decreto carceri insufficiente, per svuotare le celle serve l’indulto” di Valeria Di Corrado Il Messaggero, 9 agosto 2024 “Bisogna discutere con un minimo di serenità e obiettività della necessità di un provvedimento di clemenza come l’indulto. Nei decenni passati l’Italia ne ha abusato, adesso non ne fa uso nemmeno quando è indispensabile”. Stefano Anastasìa, dal 2016 Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale per la Regione Lazio, traccia la strada da percorrere per provare ad uscire dall’emergenza in cui si trovano le nostre carceri. Cosa pensa del decreto legge approvato mercoledì dalla Camera con 153 sì? “Contiene misure condivisibili ma che non centrano a pieno l’obiettivo della necessità e dell’urgenza: ossia ridurre il numero delle presenze in carcere, facilitando innanzitutto l’uscita delle persone che hanno condanne minori o hanno scontato quasi tutta la loro pena. Questa scelta non si è voluta fare perché si è detto “no” agli indulti mascherati, ma io penso che i provvedimenti di clemenza - tra l’altro previsti dalla Costituzione - se servono vanno adottati senza neanche mascherarli. Non si è voluto adottare nemmeno una misura necessaria prevista dalla famosa proposta di Roberto Giachetti: la liberazione anticipata speciale, che aumenta lo sconto di pena per chi si comporta bene in carcere e quindi facilita l’uscita di chi è a fine pena. Da questo punto di vista per me il decreto è insufficiente, e credo sia questa la ragione dell’improvviso vertice a palazzo Chigi di ieri (mercoledì, ndr), in cui noi garanti siamo stati convocati dal ministro Nordio. Un vertice che andava fatto prima dell’approvazione del decreto e che credo sia la conseguenza del richiamo del Presidente della Repubblica di qualche settimana fa. Il governo forse ha preso coscienza che deve fare qualcos’altro, che questo Dl non basta. Spero il vertice preluda a iniziative ancora più efficaci”. Quali sono gli effetti immediati che produrrà il decreto? “Al momento l’unico effetto immediato è la facoltà concessa ai direttori degli istituti penitenziari di riconoscere ai detenuti un maggior numero di telefonate con i propri familiari. L’attuale regolamento concede infatti 10 minuti alla settimana, una modalità di comunicazione che ricorda il tempo delle cabine telefoniche e dei gettoni. Poi ci sono altre previsioni i cui effetti, però, si misureranno nel tempo. È prevista l’entrata in organico di un contingente di personale di polizia penitenziaria. Ma questi mille agenti di cui si parla nel decreto saranno assunti tra il 2025 e il 2026. Poi c’è l’albo delle comunità e delle strutture residenziali idonee ad accogliere persone che potrebbero godere di misure alternative al carcere ma non hanno un domicilio. Si è deciso di istituire questo albo presso il dicastero della Giustizia, ma deve essere ancora disciplinato da un decreto ministeriale. Prima di un anno non si porterà a termine. Tra l’altro le risorse stanziate per l’inserimento in queste strutture sono modeste rispetto alle necessità e coinvolgeranno solo 206 persone, un numero residuale. Qual è la stima del sovraffollamento nelle carceri? “Noi oggi abbiamo 61.500 reclusi a fronte di una capienza effettiva di 47mila posti; quindi abbiamo 14.500 detenuti in più di quanto gli istituti penitenziari possano ospitare e una carenza di decine di migliaia di agenti. Se noi avessimo un provvedimento di amnistia-indulto anche solo di due anni, quindi per le pene o i residui di pene inferiori ai due anni, non avremmo più il sovraffollamento e sarebbe molto più facile riorganizzare il sistema penitenziario. Un provvedimento di amnistia-indulto richiede però un’assunzione comune di responsabilità di maggioranza e opposizione, per ottenere il quorum previsto dalla Costituzione. Nel 2006 l’allora premier Romano Prodi e l’allora leader dell’opposizione Silvio Berlusconi acconsentirono a che ci fosse un indulto votato dall’una e dall’altra parte”. Quanto pesa il sovraffollamento sull’escalation di suicidi? “In queste condizioni le fragilità passano inosservate. Se gli operatori sono adeguati rispetto al numero dei detenuti, si riesce a intervenire in tempo. Senza contare che il sovraffollamento crea condizioni di vita inumane: a Cassino ho trovato 7 persone chiuse nella stessa cella. Siamo già a 62 suicidi dall’inizio del 2024, un numero che in passato si raggiungeva alla fine dell’anno”. I morti in custodia dello Stato di Ennio Stamile* Corriere della Calabria, 9 agosto 2024 Una situazione che diventa sempre più drammatica quelle delle carceri italiane. Sono in continuo aumento i casi di detenuti che si tolgono la vita: ad oggi sono 61, uno ogni tre giorni. Oltre 600 sono le persone che, negli ultimi anni, hanno perso la vita in carcere. L’età media dei suicidi è di circa 40 anni, ma il bollettino mortale di quest’anno conta un ultrasessantenne e sei ragazzi. Nel recente focus del Garante dei detenuti emerge che circa una persona su due si è tolta la vita nei primi sei mesi di detenzione: di queste sei entro i primi 15 giorni, tre delle quali addirittura entro i primi cinque dall’ingresso. Solo il 38% dei morti risulta condannato in via definitiva. Sempre secondo i dati resi noti dal Garante, sono 61.140 i detenuti presenti nelle carceri italiane: i posti regolarmente disponibili ammontano a 46.982, rispetto alla capienza regolamentare di 51.269, per un indice di sovraffollamento del 130,06% a livello nazionale. Sono 150 (pari al 79%) gli istituti con un indice di affollamento superiore al consentito che in 50 casi risulta superiore al 150%, con il picco record del 231,15% per l’istituto milanese di San Vittore. Nel silenzio dei media, giorno dopo giorno, si sta consumando una vergognosa tragedia umana - denunciano gli avvocati dell’Unione delle camere penali - si tratta di morti in custodia dello Stato, nel silenzio generale, senza che nessuna TV nazionale accenda i riflettori del Paese per sollecitare immediati interventi a un governo e a un parlamento distratti e insensibili rispetto al dramma delle carceri”. Per questo l’associazione che riunisce i penalisti italiani ha promosso una “maratona oratoria itinerante” nelle piazze delle città italiane, da Nord a Sud, “per dare voce a tutti coloro che, dentro le carceri, non hanno più diritti”. A rendere ancora più drammatica la situazione sono i diversi casi i cui un detenuto ha uno dei genitori con gravi disabilità. Se le barriere architettoniche sono difficili da abbattere nel nostro vivere quotidiano, per mancanza di sensibilità politica, figuriamoci nelle carceri. In questi giorni mi è capitato di ascoltare il caso del papà di Spanò Mattia, detenuto presso la Casa Circondariale di Catanzaro, affetto da gravi disturbi psichici che lo rendono incompatibile con qualsia forma di detenzione carceraria. Questo padre che fa i conti con una forma di grave disabilità che lo costringe, da molti anni ormai, a stare in una sedia a rotelle, nel mentre si recava a far visita al figlio si è rotta una ruota della sedia a Rotelle, finito quasi per terra, è stato costretto a raggiungere l’auto distante diverse centinaia di metri con le stampelle sotto un caldo davvero asfissiante. Prima di qualsiasi norma sulle barriere architettoniche, penso venga quella sana sensibilità verso le fragilità altrui, che rende tutti più umani e meno egoisti. D’altronde a fronte di una sempre più crescente fragilità, si registra paradossalmente una sempre maggiore disattenzione verso le persone fragili. Il nostro mondo opulento, distratto dai Media e dai Social, tende sempre più a rifuggire da ciò che è invece il destino di ognuno di noi: la fragilità. Alessandro D’Avenia molto opportunamente ci aiuta a riflettere su come la prima “arte da imparare in questa vita non è quella di essere invincibili e perfetti, ma quella di saper essere come si è, invincibilmente fragili e imperfetti”. A fronte, dunque, dell’arte della forza, della perfezione, del tutto e subito, occorre imparare con urgenza l’arte di essere fragili, perché solo essa ci rende semplicemente più autenticamente umani, capaci di riconoscere le proprie e le fragilità altrui e con esse rendere anche i luoghi di detenzione più corrispondenti a quanto previsto dalla nostra Costituzione a proposito di quella pena, che deve sempre tendere alla rieducazione del condannato, non istigarlo al suicidio per la situazione disumana delle carceri”. *Rettore UniRiMI Il dramma carceri tra suicidi, aggressioni e ipocrisia di Andrea Manunza L’Unione Sarda, 9 agosto 2024 In tutta Italia si ripetono episodi di violenza, il sovraffollamento è un problema diffuso, le condizioni di detenzione peggiorano la situazione e il Governo sembra incapace di intervenire con provvedimenti davvero utili attirandosi le critiche di avvocatura e magistratura. Al 7 agosto 2024: sessantacinque suicidi in carcere in Italia da inizio anno, tre a Cagliari (un uomo arrestato tre giorni prima per un furto su un veicolo, un suo coetaneo recluso da due mesi e in attesa di giudizio, un ragazzo che sarebbe tornato in libertà tra due anni) e due a Sassari (un 52enne fino alla sera prima in ospedale e un 44enne ricoverato nel servizio assistenza intensificata); 17 atti di autolesionismo ogni 100 ospiti delle patrie galere; una bassa percentuale di reclusi che lavorano (il 31,5 per cento); pochi agenti di Polizia penitenziaria (il 16 per cento in meno rispetto al previsto); tanti detenuti con patologie psichiatriche gravi (8,4 per cento), altri che assumono farmaci di vario genere quali sedativi, ipnotici, antipsicotici, antidepressivi (il 56 per cento); oltre 61mila “inquilini” a fronte di 47mila posti disponibili; quasi 4mila in più solo nell’ultimo anno; un tasso di recidiva del 68 per cento. Situazione drammatica - Non solo numeri e fredda statistica ma dati che inquadrano la situazione esplosiva degli istituti di pena italiani e sollevano, inascoltati, i tanti problemi vissuti dalla popolazione carceraria. Un mondo di fatto abbandonato dalle istituzioni, che poco e comunque non abbastanza si preoccupano di uomini e donne spesso ritenuti scarto della società. Nonostante la detenzione serva, secondo intenzioni e Costituzione, alla loro riabilitazione e al loro reinserimento nella società civile. Non a chiudere la porta e “buttare la chiave” come qualcuno vorrebbe accadesse in base al proprio tornaconto politico. Occuparsi degli ultimi però è complicato e poco remunerativo in termini di voti. Non si parla di chi commette reati davvero gravi quali omicidi, femminicidi, violenze sessuali, stragi mafiose, assalti armati ai furgoni portavalori e alle banche (ci sono anche persone irrecuperabili che, in casi specifici, giustamente non dovrebbero tornare in libertà); ma di chi, grande maggioranza, si rende responsabile di violazioni di legge minori (quali spaccio, scippi, furti, aggressioni e così via) o magari ha solo commesso un errore. Per non parlare dell’altissima presenza tra i detenuti di immigrati irregolari, tossicodipendenti e persone con patologie psichiatriche a volte gravi, persone che non dovrebbero stare in cella ma in luoghi adatti a garantire loro le dovute cure. I numeri - Penitenziari numericamente inadeguati (ormai si utilizzano per l’espiazione della pena anche quelli destinati a chi è solo in attesa di giudizio), ambienti ridotti, sovraffollamento medio del 130,11 per cento che in un caso, quello di San Vittore a Milano, è arrivato al 226,34 per cento e ora si attesta al 148,3 (il Regina Coeli di Roma è al 178,5). “Si salvano solo 38 istituti su 190”, è spiegato nel documento riassuntivo della situazione nazionale preparato dal Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Uta non fa eccezione, coi suoi 682 detenuti (28 donne, 163 stranieri) rispetto a una capienza di 561 e un sovraffollamento del 121,6 per cento. Male anche Bancali a Sassari, con 454 posti e 500 detenuti, mentre gli altri istituti sardi (Oristano, Nuoro, Alghero, Onanì-Mamone, Isili, Lanusei) rientrano nei limiti previsti. Accade che nelle carceri manchino psicologi ed educatori, le condizioni igieniche siano carenti, gli spazi personali ridotti, quelli comuni insufficienti. Trascorrere l’intera giornata sulla brandina a fissare il muro senza alcuna alternativa, senza poter lavorare, dividendo spazi angusti con più persone tanto da essere costretti a volte a dormire su tappetini stesi a terra, non aiuta. Due lettere inviate al quotidiano “la Repubblica” (pubblicate il 24 luglio) da chi è ristretto negli istituti di Agrigento e Opera (a Milano) sono chiarificatrici, in parte, della situazione: nel primo caso tre detenute spiegano di condividere una cella nella quale sono costrette a usare il bidet per pulire le stoviglie e parlano di una sola doccia funzionante delle due in comune, dell’alta presenza di blatte e formiche, di materassi pieni di muffa e di topi in bagno, dell’assenza di acqua e luce; nel secondo sono alcuni detenuti a spiegare di dover stare spesso chiusi in cella per quasi tutto il giorno con 50 gradi di temperatura senza possibilità di usare un ventilatore. I risarcimenti - Condizioni che si ripetono in tutta Italia, compresa Cagliari come da lettera (una delle tante) arrivata alla nostra redazione di recente e che pubblichiamo a fine articolo (vi si denunciano pestaggi, isolamenti, acqua da bere intrisa di cloro, condizioni di detenzione diciamo complicate). Eppure la Convenzione europea per i diritti dell’uomo prevede la presenza di almeno tre metri quadrati a disposizione di ogni ospite: spazi minimi di dignità che invece, secondo il rapporto di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale nata alla fine degli anni Ottanta, mancano in un terzo degli istituti. Carenza riscontrata nel 27,3 per cento delle 88 carceri visitate nell’ultimo anno. Tanto che nel 2023 contro la reclusione in condizioni disumane sono stati discussi nel Tribunali di sorveglianza italiani poco più di 8mila ricorsi, il 57,5 per cento dei quali è stato accolto ed è sfociato in risarcimenti e sconti di pena a vantaggio dei carcerati (tra loro c’è anche Beniamino Zuncheddu, che a inizio anno ha ottenuto circa trentamila euro per aver trascorso anni in celle piccole e sovraffollate ed essere stato in vari penitenziari non a norma, senza nemmeno lo spazio minimo previsto per ogni detenuto). Antigone - Le prigioni scoppiano. Oggi ospitano il numero di detenuti più alto dal 2013, aumentato solo nell’ultimo anno di 3.995 unità. Situazione, secondo Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, “frutto delle politiche governative di questi due anni, con l’aumento dei reati e delle pene per molte fattispecie. Si colpiscono le fasce più vulnerabili quali minorenni, tossicodipendenti e pazienti psichiatrici che avrebbero bisogno di cure e non di prigioni”. Un “sistema usato per ottenere consenso nel breve periodo” e il disegno di legge attualmente in discussione in Parlamento “potrebbe peggiorare la situazione”, perché “colpisce la marginalità sociale e chi per condizioni sociali ed economiche è già più a rischio”. Per fare un esempio sui provvedimenti promulgati dal 2022: i decreti Rave e Cutro. La normativa - E ora si lavora su due fronti. Il disegno di legge “sicurezza” che, dopo il via libera del Senato, sarà discusso alla Camera a settembre: prevede la messa fuorilegge della cannabis light (nonostante uno dei problemi principali sia l’altissima percentuale di detenuti accusati di spaccio) e punizioni molto più severe contro i blocchi stradali, chi boicotta opere infrastrutturali ritenute strategiche (le così dette grandi opere quali Tav e ponte di Messina), l’accattonaggio, l’occupazione delle case; e il decreto “carcere sicuro”, provvedimento sul quale il Governo ha posto la fiducia approvato proprio il 7 agosto dal Parlamento, che nelle intenzioni porterà all’assunzione di mille agenti nei prossimi 2 anni, a misure a favore dei detenuti come la possibilità di fare più telefonate e, per i tossicodipendenti detenuti, a una maggiore possibilità di scontare la pena in comunità anziché in carcere. Ma “in un carcere sovraffollato”, ribadisce Gonnella, “non sono garantiti gli spazi né l’accesso alle attività, prima di tutto quelle lavorative, e gli operatori fanno più fatica. Le fragilità non vengono intercettate, il detenuto è sempre più anonimo. Un numero e non una persona”. Il primato negativo di suicidi in cella è del 2022: furono 85. Il 2024 potrebbe superarlo. “Non si rieduca, la recidiva è altissima”. Sorveglianza - Tesi non dissimile da quella espressa sul quotidiano Avvenire il 21 luglio da Cristina Ornano, presidente del Tribunale di sorveglianza di Cagliari. L’alto magistrato proprio sul decreto legge carceri parla di “attese alte” e dunque di “delusione bruciante”. A suo dire il provvedimento in discussione “non diminuirà il sovraffollamento ma anzi rischia di aggravarlo” perché “complica la procedura di accesso alla liberazione anticipata e alle misure alternative e ai benefici penitenziari”. Il problema vero è la carenza di magistrati di sorveglianza (“il 40/50 per cento in meno”): ogni sei mesi di detenzione, in caso di buon comportamento il carcerato ha diritto a uno sconto di 45 giorni sulla pena e sono proprio loro a dover valutare le richieste dei detenuti, “spesso presentate a distanza di tempo rispetto ai semestri passati in carcere”. Ma su questo fronte “dal Pnrr non è stata stanziata alcuna risorsa e il decreto legge non aggiunge fondi ma cambia solo la procedura”. In sostanza saranno le singole Procure a indicare nell’ordine di esecuzione il termine reale della pena e quello virtuale, cioè comprensivo degli sconti. Un ulteriore “dilatamento dei tempi”, anche considerato che i calcoli “sono fatti a mano dal singolo magistrato” visto che “il sistema informatico a disposizione di procure, magistrati e penitenziari è inadeguato”. In questo modo “non si arriva alla umanizzazione della pena, i cui effetti sono rinviati a regolamenti ancora inesistenti quali l’aumento di telefonate o l’assunzione di mille agenti di penitenziaria che non saranno in servizio prima di 3 o 4 anni”. A tutto questo si deve aggiungere la “mancanza di servizi quali il Serd e la rete col territorio, che rende difficili i programmi riabilitativi terapeutici individuali. In molte regioni non ci sono le articolazioni di tutela della salute mentale per pazienti con gravi patologie psichiatriche, gestiti invece nelle sezioni ordinarie. Le strutture per l’accoglienza di soggetti indigenti avrebbe bisogno di fondi adeguati, ma nel decreto Carcere sicuro non c’è assolutamente nulla”. Le violenze - Nel frattempo nelle carceri aumentano scioperi della fame, atti di autolesionismo, risse, rivolte, aggressioni alla Polizia penitenziaria. A Uta, dove oltre ai suicidi si sono verificati 46 casi di tentato suicidio, mancano 38 agenti; a Sassari 128; a Massama ne servirebbero 55. Nell’istituto cagliaritano il 26 luglio un detenuto ha tentato di infilzare con una penna il volto del vice direttore, salvato dal provvidenziale intervento degli agenti, e il 5 agosto un carcerato ha appiccato il fuoco in una cella (è morto un suo compagno di 26 anni per un malore). “Dati allarmanti” secondo Irene Testa, garante per i diritti dei detenuti in Sardegna: “Gli istituti di pena nell’Isola sono sovraccarichi di persone malate. Il disagio psichiatrico si registra in quasi l’80 per cento dei casi. Sono tantissimi gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi, 96 in totale nel 2023, che grazie alla Polizia penitenziaria e spesso ai compagni di cella riescono in qualche modo a essere sventati”. Ma c’è dell’altro. “Il lavoro è poco diffuso e le persone che vivono nelle celle sono molto spesso tossicodipendenti, con gravi fragilità, persone che non dovrebbero stare in una cella perché non possono essere curate in un istituto carcerario”, anche perché “la polizia penitenziaria non ha né le competenze, né dovrebbe essere il suo ruolo, per gestire i malati”. Gli avvocati - Una preoccupazione condivisa dagli avvocati delle Camere penali di Cagliari, che a luglio hanno preso parte allo sciopero nazionale contro le condizioni delle carceri, mentre i sindacati della Polizia penitenziaria sostengono che “il carcere di Uta è nel caos, ormai assistiamo quotidianamente a poliziotti che ricorrono alle cure sanitarie poiché vittime di vili aggressioni. La situazione ha raggiunto una situazione di non ritorno e coloro che devono tutelare il personale, ovvero le massime istituzioni dell’amministrazione penitenziaria, davanti a questi episodi non applicano le circolari dipartimentali trasferendo i detenuti protagonisti di tali violenze”. L’iniziativa - Infine, si deve rilevare che Andrea Delmastro delle Vedove, avvocato, sottosegretario alla Giustizia, pensa di aver trovato la soluzione: “Mandare nei loro Paesi i 19.213 stranieri detenuti in Italia farebbe risparmiare tra i 137 e i 150 euro al giorno: facendo il calcolo per 365 giorni, troveremmo i fondi per costruire carceri, assumere agenti e personale”. L’uovo di Colombo. C’è da aggiungere che, “cancellando” quel numero di carcerati, la relativa popolazione (in base ai dati del 22 luglio) scenderebbe a 41.934 rispetto ai 46.996 posti disponibili. Quindi, niente più sovraffollamento. E niente più necessità di nuovi penitenziari, evidentemente. Magari i fondi in avanzo potrebbero essere usati per altre imprese. Come il ponte di Messina, con chiarezza più importante del futuro di persone in carne e ossa dimenticate in una cella. La popolazione carceraria non è di interesse. Eppure esiste. La lettera - Di seguito la lettera inviata all’Unione Sarda da alcuni detenuti a Uta (firmata: l’Unione ha le generalità dell’autore e delle persone citate nella missiva, che risultano tutte ristrette nel carcere. Si tratta di una sintesi priva di alcuni passaggi più duri) e, nella parte in corsivo, la risposta da parte di persone che nel carcere lavorano tutti i giorni e sono a conoscenza della situazione. “Scriviamo all’Unione Sarda con la speranza che ci dia voce per tutto quello che accade dietro queste mura di gomma dove niente si sa all’esterno. Riepilogheremo alcuni dei fatti che accadono purtroppo quotidianamente all’interno di questo istituto partendo dai più recenti accaduti nella sezione di transito che invece viene usata come isolamento punitivo. Proprio lì accadono cose che la nostra società non dovrebbe permettere, in quanto la detenzione dovrebbe servire, con l’aiuto di agenti, educatori eccetera, alla rieducazione di ogni soggetto e al loro reinserimento nella società. Tutto quello che rendiamo noto proviene da fonti interne, da detenuti che svolgono un’attività lavorativa. Se ne parla solo qui per paura di ritorsioni da parte di alcuni agenti, un gruppetto. Da poco hanno picchiato un ragazzo straniero che ha accusato forti dolori al petto, poi trasferito dopo più di otto mesi di duro isolamento e vari pestaggi. Nel rapporto si parla sempre di scivolamento sotto la doccia o caduta rovinosa dalle scale. Nella sezione le finestre sono state smontate e poi rimontate all’esterno, oltre le sbarre, in modo tale che possa aprirle o chiuderle solo l’agente, così che in base al grado di punizione inflitta l’individuo sia lasciato al totale isolamento, privo anche della luce del sole, o completamente al freddo durante la notte. C’è il caso di un ragazzo con gravi problemi psichiatrici detenuto in carcere anziché in una struttura idonea ai suoi problemi mentali: viene picchiato perché non è in grado di capire che deve usare il bagno, gli viene tolta l’elettricità per giorni e a volte in pieno inverno viene colpito da un getto gelido di acqua ad altissima pressione dall’idrante. C’è un ragazzo che vive perennemente nudo e sporco, tanto che l’hanno rinchiuso nelle celle della matricola isolandolo da tutti in modo che non rechi disturbo. Chi avesse bisogno di lavorare è costretto a subire continue pressioni con richieste di informazioni su traffici interni: ma così si mette a rischio l’incolumità di chi accetta il ricatto per necessità economica, familiare eccetera. C’è la gestione del sopravvitto, che dovrebbe garantirci una qualità dei beni acquistati a un prezzo di concorrenza. Ma ci ritroviamo a pagare il più delle volte prezzi anche doppi su alimenti come il caffè. L’acqua dovrebbe essere per legge potabile ma l’impianto è fuori norma: dalla condotta di Abbanoa passa all’interno di cisterne di plastica senza l’aiuto di uno sfangatore e di un filtro per abbattere la presenza di batteri, così c’è cloro in quantità e alcuni di noi lamentano periodicamente la presenza di pelle secca. I boiler sono quasi sempre in manutenzione a causa dei fanghi trasportati e non filtrati, se apriamo il rubinetto dell’acqua calda questa esce di colore marrone chiaro. Tanti soffrono di calcoli renali. Infine, a metà marzo scorso c’è stato un tentativo di evasione per un errore degli agenti di turno, che non hanno chiuso a chiave il cavedio di servizio idraulico. Il ragazzo vi ha avuto accesso e da lì, forzando una grata metallica obsoleta, ha potuto accedere ai sotterranei per poi uscire su un’altra grata (anche questa obsoleta, visto che il ragazzo non disponeva di alcun arnese da scasso). Dalle 17 si sono accorti solo alle 22 della sua mancanza. E meno male che a momenti apriranno il reparto di massima sicurezza. La replica - Si chiama sezione di transito ma è un reparto di isolamento, luogo dove i detenuti vengono inviati da un apposito Consiglio di disciplina e non per decisioni unilaterali. A Uta ci sono tanti detenuti psichiatrici ingestibili, molti dei quali si rendono responsabili di gravi aggressioni a compagni di cella e agenti della penitenziaria (alcuni hanno avuto prognosi di 30 giorni). Come si possono mettere tutte assieme persone che vivono situazioni simili, di disagio psichiatrico ma anche personale, come i carcerati? A volte alcuni battono sulle sbarre della cella per tutta la notte impedendo agli altri di dormire o si rendono responsabili di atti di violenza anche solo per essere trasferiti. Si deve garantire la sicurezza, e poi all’interno dell’istituto ci sono le telecamere ed è tutto filmato: ogni violenza viene registrata e denunciata. L’acqua è controllata costantemente da una ditta specializzata. Quel che si dice nella lettera non è vero. Dieci minuti dal carcere di Giacomo Spinelli Il Manifesto, 9 agosto 2024 La fila, la scheda, l’attesa, le emozioni e la paura degli squilli a vuoto, il fischio che annuncia la fine. Storia delle telefonate dei detenuti. Sempre troppo poche, quattro o sei al mese che siano. Per ogni piano della sezione a metà corridoio c’è una piccola stanza angusta e sporca: è la stanza delle telefonate. Dentro c’è uno sgabello, un tavolo bianco di plastica e un telefono fisso, un vecchio apparecchio dove i numeri sono spariti dai tasti, consumati dalle dita dei detenuti. La telefonata è un momento speciale al quale nessun detenuto vuole rinunciare, chi rinuncia è perché non ha nessuno da chiamare e vive in solitudine sia dentro che fuori. Di fronte alla stanza del telefono, dall’altro lato del corridoio, c’è una finestra a quattro ante, dove gli uomini si appoggiano mentre fanno la fila. Nell’attesa del fatidico momento si fuma e si chiacchiera. Generalmente, nel mondo fuori, la fila si fa a ridosso del posto dove si deve entrare, in carcere invece la fila per telefonare inizia più o meno ad otto passi dalla porta, dall’altro lato del corridoio. Stare alla finestra prima di telefonare aiuta a rilassarsi, distrarsi e smorzare la tensione che precede ogni telefonata. Qualcuno guarda aldilà delle sbarre, dove non può essere guardato, mentre riannoda e prepara parole e pensieri. Quattro uomini, di ogni età, amici e nemici, tutti in attesa. Gli occhi di tutti volano alla stessa altezza e le chiacchiere durante l’attesa sono leggere, dalla stanza il ragazzo che sta telefonando grida alla figlia: “passami la mamma sbrigati che sta finendo la telefonata!”. È bello pregustare il piacere di un contatto con una voce che ti parla da casa, magari dalla cucina o da una strada affollata: ascoltare un ambiente diverso dove i rumori non sono sempre tristemente uguali. Uno su quattro, a rotazione, è sempre sfortunato: dall’altra parte non risponde nessuno, meglio riprovare più tardi. Quando il prossimo sei tu, saluti il mondo fuori, il “buona telefonata” dei compagni risuona alle spalle mentre già entri: accosti il blindo, qualcuno ha fumato dentro, la cornetta è bagnata di sudore, passi la tessera magnetica sull’apparecchio, il codice pin e finalmente chiami uno dei pochi numeri autorizzati. Alla prima parola che viene dall’altra parte non ci si fa mai l’abitudine, è sempre una bellezza. Poi subito vuoi dire tutto senza perdere tempo ma il tempo scorre: parole, parlare, sapere, ascoltare, raccontare, ecco che senza dire nulla sono già passati due minuti e la conversazione ancora non sa dove andare. Ne passano tre, quattro, cinque, e ancora senti che vuoi di più, arrivare da qualche parte ma hai paura di non essere sulla stessa lunghezza emotiva, altre domande e altre risposte, veloce, poi d’improvviso senti che qualcosa ha funzionato e anche se si parla del più del meno il dialogo come una nave è uscito dal porto, naviga in mare, nel vento. Capita anche che le telefonate si trasformino in litigate ed è un guaio perché quasi mai si riesce a chiarire in tempo. L’orologio non sbaglia, sei a nove minuti, ormai manca meno di un minuto, ancora trenta secondi poi si inizia con i saluti e le raccomandazioni. Un campanello avverte da entrambi i lati della cornetta che mancano trenta secondi, lo sai e lo aspetti, quello dei trenta secondi alla fine è un momento che deve arrivare. Meglio cosi, un altro momento rituale, quando non senti la scampanellata è peggio. I saluti, poi la domanda finale: chi chiami per la prossima telefonata? La risposta purtroppo non è mai richiamo te, cosi mi finisci di raccontare, perché le telefonate sono poche, pochissime, e anche gli altri hanno bisogno di una boccata d’ossigeno, di sentire almeno la tua voce. Metti giù cinque secondi prima, prima che lo facciano loro per te. Qualche secondo in più dentro, per tirare il fiato ed uscire con calma da altro universo temporale. Chi viene dopo ti viene incontro sorridente come per prendere la staffetta e non perdere minuti preziosi, anche se sa, che quando uscirà da quella sala fumosa avrà ovunque una malinconia amara. Ma non importa, ci sono sempre dieci minuti per uscire dal porto, odorare la normalità ed essere abbandonati in alto mare. Chiudere una telefonata è molto peggio di quel che sembra, è diversamente ma altrettanto difficile che terminare un colloquio visivo. Al colloquio quantomeno ci si può toccare, guardarsi e abbracciarsi, stringersi. Con una telefonata lanci tutto quello che hai sperando che l’emozione nella voce possa arrivare dove tu vorresti arrivare. Quando esci torni a fare le ultime due battute magari a raccontare le cose belle o brutte che sono successe fuori. Provi a far continuare i dieci minuti, ma sono stati solo dieci minuti e tutti, sempre, nei giorni nei mesi e negli anni, lo sanno ma non lo vogliono raccontare. Sembra inutile continuare a ripensare alla telefonata, eppure è un passaggio da fare: un dolore ingestibile che pian piano inizi a gestire. È il “carcere sicuro” al quale è meglio non pensare. La sorpresa del Quirinale per la richiesta di Nordio, apparsa inusuale. L’incontro slitta a settembre di Marzio Breda Corriere della Sera, 9 agosto 2024 L’ennesima puntata della guerra dei nervi tra governo e opposizione andata in scena mercoledì a Montecitorio non è una novità, quando si toccano i temi della giustizia. Ma se poi a sovrastare la politica ci si mette la cronaca, con una catena ininterrotta di morti nelle carceri, allora può capitare che nello stress collettivo dell’Aula ci sia qualche scivolata, come la richiesta di un incontro urgente con il capo dello Stato da parte del ministro Nordio. Per parlare - così era trapelato da via Arenula - di come affrontare “a breve e medio periodo” quell’emergenza e aumentare subito i giudici di sorveglianza. Materia che non può coinvolgere nel vespaio politica/giustizia la presidenza della Repubblica. La richiesta, insomma, era inusuale, tanto da aver generato sorpresa sul Colle, dove pure c’è grande sensibilità e attenzione su tale problema. Con il risultato che, a Parlamento ormai verso la chiusura estiva, quel faccia a faccia slitterà a settembre. In ogni caso, il decreto carceri (insieme ad altri decreti) Sergio Mattarella l’ha promulgato ieri. Contestato dal centrosinistra come un guscio vuoto, e dunque poco efficace per il dramma in corso nei nostri istituti di pena, il provvedimento contiene però una norma sul “peculato per distrazione” che può in parte compensare il vuoto creato dal disegno di legge concepito dal governo per cancellare il reato di abuso d’ufficio. E ciò è stato valutato e soppesato, dallo staff presidenziale. Difficile non ricordare che quella legge era stata presentata alle Camere l’anno scorso dall’esecutivo come “l’anticipo” di una ben più corposa riforma sulla giustizia che ancora non si è vista. Una miniriforma. Varata dopo un lungo stop and go parlamentare, tirando spesso la corda anche con il fronte della magistratura, al termine del quale, 29 giorni fa, il testo definitivo sull’abuso d’ufficio è arrivato sulla scrivania del capo dello Stato. Mattarella lo firmerà oggi, ultimo giorno utile, ciò che ha alimentato fra i partiti voci infondate e un ansiogeno pressing della maggioranza. A lui, tuttavia, parve giusto segnalare fin dal luglio 2023 che l’abrogazione di quella particolare forma di illegalità, accompagnata dalla drastica riduzione della portata del cosiddetto traffico d’influenze, poteva aprire qualche rischio concreto per l’Italia. Specie nei rapporti con l’Ue. Dubbi e riserve, non criticità costituzionali, di cui aveva esplicitamente parlato pure con la premier. Ragionava infatti che, considerato il crescente orientamento anticorruzione della legislazione europea, eliminare dal codice questi reati potrebbe esporre l’Italia a tensioni e critiche da parte di Bruxelles. Alcune motivate, dato che già un anno fa il centrodestra bocciò la direttiva europea sulla lotta alla corruzione, nella quale non a caso si ribadiva che “l’abuso d’ufficio non può essere abolito”. Un passo dirompente. Quasi una sfida. E sul Colle si ha ben chiaro come il nostro Paese non abbia assolutamente bisogno di nuove prove di forza, in Europa e non solo. Il complicato intreccio tra via Arenula, palazzo Chigi e Quirinale su dl carceri, scudo penale e abuso d’ufficio di Simona Musco Il Dubbio, 9 agosto 2024 Nordio ha annunciato di voler incontrare il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che però potrebbe manifestare qualche perplessità sulla possibilità di uno “scudo penale” per gli amministratori, come chiesto dal leader della Lega Matteo Salvini. Ridurre il sovraffollamento ed evitare nuovi “casi Toti”. È questa la nuova mission del ministro della Giustizia Carlo Nordio, stretto, in questo momento, tra due esigenze: quella di alleviare il problema delle carceri stracolme e dei suicidi dietro le sbarre e quella di rispondere a chi, tra le fila del suo governo, chiede di ristabilire l’equilibrio tra esigenze di giustizia e continuità dell’azione amministrativa. La strada è stretta e complicata e proprio per questo Nordio ha annunciato di voler incontrare il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che, però, potrebbe manifestare qualche perplessità sulla possibilità di uno “scudo penale” per gli amministratori, come chiesto dal leader della Lega Matteo Salvini. L’idea è quella di muoversi con cautela. E per ora solo accennata: l’intenzione, si legge in una nota, è quella di “rendere più veloce questo percorso che riguarda, sia a livello normativo che organizzativo, la modifica della custodia cautelare necessaria per evitare la carcerazione ingiustificata”. Parlare di una bozza di testo, al momento, sarebbe “prematuro”, fanno sapere dalla maggioranza. Ma la strada potrebbe essere quella tracciata con la riformulazione dell’ordine del giorno presentato dal deputato di Azione Enrico Costa, che impegna il governo, “anche tenuto conto degli effetti che l’applicazione delle misure di custodia cautelare può produrre sulla consistenza della popolazione carceraria, a valutare, nel solco delle iniziative già adottate con il ddl Nordio, un intervento normativo finalizzato a una rimodulazione delle norme sulla custodia cautelare, con particolare riferimento alle esigenze cautelari di cui all’articolo 274, comma 1, lettera c) c.p.p. finalizzato a un puntuale bilanciamento tra presunzione di non colpevolezza e garanzie di sicurezza”. L’idea è la stessa avuta dal deputato di Forza Italia Tommaso Calderone: incidere sul pericolo di reiterazione del reato. Quello, per intenderci, che ha tenuto Toti tre mesi ai domiciliari, fino alle dimissioni. Tale esigenza cautelare, si legge nel testo riformulato, deve “conciliarsi con il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, che assume maggior forza laddove ci si trovi ad operare la prognosi su un soggetto incensurato. Un sospetto basato su un sospetto”. Per questo motivo, dunque, “occorre un puntuale bilanciamento tra presunzione di innocenza e garanzie di sicurezza, che consentano il sacrificio della libertà personale con custodia cautelare per pericolo di reiterazione nei confronti di incensurati solo in caso di reati di grave allarme sociale e di reati che compromettano la sicurezza pubblica o privata o l’incolumità delle persone”. Nordio ha deciso di annunciare il nuovo intervento proprio mentre alla Camera era in corso l’approvazione definitiva del dl Carceri. E lo ha fatto dopo aver incontrato alcuni membri del Coordinamento della Conferenza nazionale dei Garanti, guidati da Samuele Ciambriello, Garante della regione Campania. Durante l’incontro, infatti, è stato sottoposto al ministro un documento con tutte le criticità relative alle carceri. Che deve aver colpito il guardasigilli, secondo Ciambriello, al punto da comprendere l’inefficacia delle misure previste dal dl Carceri. “Le opposizioni hanno molto criticato la sua assenza in aula - ha commentato al Dubbio il Garante - Invece io la vedo da un altro punto di vista: se è avvenuto questo vuol dire che il ministro si è accorto che è minimale quello che è stato fatto con quel decreto”. Appuntamento a Palazzo Chigi, dunque, mentre in Aula infuriava la polemica. E mentre Lega e Forza Italia, fuori dal Palazzo, si davano man forte sulla volontà di evitare nuovi “interventi a gamba tesa” della magistratura nella politica. Per questo il punto di caduta potrebbe essere l’odg Costa. L’idea, però, non convince del tutto Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che parla del rischio di una giustizia classista. “La custodia cautelare deve essere residualizzata il più possibile”, ha sottolineato, ma “la cosa che non deve più accadere è che la custodia cautelare risponda al principio selettivo un po’ classista del sistema penale, cioè, invocarla nel caso delle classi più povere, dei delitti di strada, e invece negarla per tutti i casi dei colletti bianchi. Noi dobbiamo riportare il sistema del garantismo penale ad un garantismo universalista e quindi vanno bene norme più avanzate, ma per tutti”. Nordio, per il momento, ha calendarizzato un nuovo appuntamento con i Garanti da qui a un mese, “per un aggiornamento su quanto discusso” e “per mettere in campo il potenziamento di figure sociali, circolari che aiutano i detenuti ad uscire dalle celle”. Cioè con un investimento immediato per assumere psicologi, mediatori linguistici ed educatori per prevenire il rischio suicidario. Ma non solo: Nordio ha assicurato “che circa 5.000 persone detenute potrebbero uscire immediatamente dal carcere se la Magistratura di sorveglianza decide qui e ora su misure alternative o liberazione anticipata”, spiega Ciambriello. E proprio questo è uno dei temi che Nordio affronterà con Mattarella prima e col Csm poi: la necessità di mettere in campo procedure agili e veloci per il completamento delle piante organiche. Ci sono infatti 8mila persone in Italia con pene residue inferiori all’anno di carcere per reati non ostativi. Persone alle quali i magistrati non rispondono, a causa dell’elevato numero di fascicoli da trattare, e che avrebbero potuto trovarsi già fuori dal carcere, alleggerendo il peso che attualmente grava sugli istituti penitenziari. Ma per Nordio il primo passo è un altro: l’entrata in vigore del ddl che porta il suo nome, col quale, ha spiegato durante l’incontro, si eviterebbe l’ingresso in carcere di circa 1500-2000 persone, grazie all’interrogatorio preventivo e al gip collegiale. Il testo non è ancora in Gazzetta Ufficiale, circostanza che ha suscitato, nella giornata di mercoledì, accese polemiche dopo che il ministro della Difesa Guido Crosetto ha condiviso il tweet di Enrico Costa: “28 giorni fa è stato approvato definitivamente dal Parlamento il ddl Nordio con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio - scriveva il deputato di Azione - Non è ancora in Gazzetta Ufficiale”. Per molti, il retweet di Crosetto ha rappresentato un pressing sul Quirinale. Alimentato dalla voce - già smentita nelle scorse settimane dal Dubbio - di una possibile lettera di Mattarella alle Camere. “Non attaccherei mai Mattarella, che considero un pilastro della nostra nazione, non solo per il ruolo istituzionale che riveste in questi anni ma per la sua storia e per l’amicizia che mi lega a lui”, ha replicato Crosetto. La lettera, ha confermato il Quirinale, non ci sarà. E non ci sarà nemmeno una firma “congiunta” del ddl Nordio col dl Carceri, per consentire la “staffetta” tra abuso d’ufficio e peculato per distrazione, reato, quest’ultimo, previsto dal dl approvato mercoledì. Mattarella “firmerà entro la scadenza”, spiegano dal Quirinale. Che ora dovrà gestire con Nordio la partita sulla custodia cautelare. Riforme al palo, Costa (Az): “Tempi lunghi, così il garantismo muore” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 9 agosto 2024 Il Dl Carceri, con il discutibile titolo di Carcere Sicuro, è stato approvato a Montecitorio mercoledì sera. Abbiamo chiesto a Enrico Costa (Azione), già viceministro alla Giustizia, un commento. Nordio e il Dl Carceri. Avremmo preferito “Carcere umano” a “Carcere sicuro”… “Si, purtroppo a destra si confonde la certezza della pena con la certezza del carcere. Sono il primo a sostenere la certezza della pena: al termine del percorso processuale non può evaporare la sanzione. Ma il carcere molto spesso ottiene l’effetto contrario. Non c’è rieducazione, non c’è formazione, non c’è dignità, al contrario di quanto prevede la Costituzione”. Che giudizio dà del Dl approvato ieri dalla maggioranza? “Il decreto incide su passaggi marginali. Su profili burocratici. Ci saremmo aspettati francamente molto di più. Anche il Campo largo della sinistra si è opposto, ma questo schieramento è del tutto incoerente. Mai garantisti durante il procedimento. Mai garantisti con chi è in custodia cautelare. Sensibili solo dopo la condanna definitiva. Invece occorre essere lineari con i principi della presunzione di innocenza, della finalità rieducativa della pena, della certezza della pena che è cosa diversa dalla certezza del carcere. Penso che questo decreto non risolverà il sovraffollamento delle carceri. La maggioranza pensa di essere rigorosa perché non fa uscire nessuno dal carcere. È un errore. Lo Stato rigoroso deve lavorare perché chi commette un reato non ricada nella recidiva: quella sarebbe un risultato da Paese civile”. Il suo ordine del giorno sui “colletti bianchi” ha fatto molto discutere... “Non è affatto sui colletti bianchi! Recupera la mia pdl del 2022, parte dal principio che l’esigenza cautelare della reiterazione del reato è prognostica e molto soggettiva, nella sua valutazione e favorisce gli abusi. Penso vadano messi dei paletti normativi. Come si fa a pronosticare - su un soggetto incensurato, che non ha mai commesso reati - che ripeta una condotta per cui è presunto innocente?”. Chiaro. E quindi come interverrebbe? “Si devono poter applicare misure cautelari diverse per i reati di minor allarme sociale. Deve esserci un bilanciamento. C’è già stato un referendum su questo tema, che purtroppo non ha raggiunto il quorum. Abbiamo un gigantesco abuso della custodia cautelare che rappresenta il 25% delle detenzioni nel nostro Paese. Io ho posto questa questione con un ordine del giorno. Mi stupisce che una parte dell’opposizione non lo abbia votato, forse perché più attenta a cavalcare le scorciatoie giudiziarie che i principi garantisti: parlano di applicazione al caso Toti, ma io avevo presentato la pdl due anni fa”. L’Abuso d’ufficio che fine ha fatto? Anche Crosetto ha rilanciato il tweet in cui lo chiedeva. Mattarella sarebbe restio a firmare? “Nessuno ha fatto critiche o osservazioni. Mi sono posto la stessa domanda che fa lei. In occasione di un provvedimento che fa rientrare dalla finestra un pezzo dell’abuso d’ufficio, sono andato a contare i giorni che sono trascorsi dalla sua votazione in Parlamento. Erano 28 ieri. Se arriverà la promulgazione a questo punto magari arriverà dopo la conversione del decreto”. Sulla riforma della giustizia a settembre riprende l’esame della separazione delle carriere? “Sì, riprende a settembre. Prima di novembre non passa alla Camera, se va bene. Poi deve andare in Senato, in primavera 2025. Poi torna alla Camera, autunno 2025. Poi deve tornare al Senato, inizio 2026. Sempre se va tutto bene e non cambia neanche una virgola… Tra la data di approvazione definitiva di un provvedimento e il referendum, si arriva al 2027. Quand’anche il referendum avesse esito favorevole, è previsto un anno per l’adeguamento normativo. Il prossimo Csm sarà identico a quello attuale. Non vedremo per molto tempo nascere i due Csm distinti come prevede la riforma”. Spataro: “Aumentare il peso del controllo politico, ecco il piano del governo sulla giustizia” di Giuseppe Legato La Stampa, 9 agosto 2024 L’ex procuratore di Torino: “La separazione delle carriere? Un’impostura: non l’attribuiscano a Falcone”. Armando Spataro, già procuratore di Torino, non le manda a dire sul tema giustizia: “Ravvedo - dice - un succedersi incontrollato di una inaudita quantità di provvedimenti che non ha eguali nella nostra storia recente. Ma non si può attribuire confusione alla maggioranza parlamentare e di governo, il cui disegno è invece molto chiaro: nessuna di tali iniziative potrebbe risolvere i veri problemi della giustizia ma insieme servono a contenere l’indipendenza della magistratura e ad aumentare il peso del controllo politico sulla giustizia. Più che di riforme parlerei di controriforme”. L’abolizione dell’abuso d’ufficio, dice il governo, libererà i sindaci dalla paura della firma. È cosi? “L’abolizione dell’abuso di ufficio farà saltare migliaia di processi e condanne mentre il traffico di influenze perderà consistenza nonostante il tentativo di limitare tale effetto attraverso l’inutile previsione del peculato per distrazione, peraltro inserito in un decreto legge che riguarda la materia penitenziaria: una sorta di emendamento a se stesso del Governo! Il tutto, come hanno sottolineato importanti giuristi e non solo magistrati finirà per favorire i reati dei “colletti bianchi” e l’espansione della criminalità mafiosa”. Vede alternative? “Alcuni sindaci vogliono evitare incriminazioni per abuso d’ufficio? La risposta non è la cancellazione del reato, ma - semmai - una sua ulteriore messa a punto e condotte trasparenti dei pubblici ufficiali in modo che i cittadini non siano lasciati senza tutela dagli abusi di potere”. Ha definito la separazione delle carriere “un’impostura”. Perché? “Perché è una controriforma improponibile, in quanto inutile, anacronistica e in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento, non solo costituzionale. Siamo di fronte ad un tentativo preoccupante di riaffermazione della teoria governo-centrica, fortunatamente non condivisa da molti importanti avvocati e giuristi. Al di là delle limitazioni già ora esistenti che consentono, a certe stringenti condizioni, un solo mutamento dall’esercizio delle funzioni di giudice a pm e viceversa, oltre quello possibile dopo la prima destinazione, la proposta dei “separatisti” come disse Francesco Saverio Borrelli, è offensivo il sospetto artificioso di “gratuita proclività” del giudice a simpatizzare per le tesi dell’accusatore, un sospetto fondato su “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni”. Né si può ignorare che in altri Paesi dove esiste la separazione - tranne che in Portogallo - il pm dipende dall’esecutivo e che il Consiglio d’Europa ha già nel 2000 auspicato la possibilità di “passerelle” tra una funzione e l’altra, cioè come in Italia, a maggior garanzia dei cittadini”. Dall’esecutivo e dalla maggioranza di governo hanno rispolverato Giovanni Falcone come uno dei teorizzatori della separazione delle carriere. Lei, come tanti non è d’accordo. Perché? “È un’altra furbesca affermazione, smentita innanzitutto da chi ha lavorato con lui, come gli ex magistrati Grasso, Ayala, Natoli ed altri. Si estrapolano frasi di Falcone da suoi testi ben più ampi la cui lettura completa dimostra che lui teorizzava in modo assolutamente condivisibile, la necessità di una più accentuata specializzazione del pm nella direzione della Polizia giudiziaria. E del resto Falcone stesso cambiò più volte funzioni”. L’ulteriore stretta sulle intercettazioni è un provvedimento che viaggia sulla linea della necessità? “Il tema delle intercettazioni e della doverosa tutela della privacy è storicamente oggetto di strumentalizzazioni interessate. Non è accettabile alcuna forma di “bavaglio” che finirebbe con il limitare il diritto-dovere di informazione rispetto al contenuto di atti processuali non segreti. Ma, al di là dell’illogico progetto in itinere di limitare a 45 giorni il limite temporale entro cui autorizzare le intercettazioni, ecco che spunta un’impensabile novità che rischia di limitare le scelte dei pm e dei giudici” Su quale punto? “In ordine all’utilizzo in provvedimenti formali di certe tipologie di conversazioni intercettate, ampliando ulteriormente il divieto di pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni a tutti i casi in cui esso “non è riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento. Non mi meraviglierei se prima o poi saltasse fuori un disegno di legge che preveda il visto di assenso del Ministro della Giustizia a tali decisioni!”. Carceri: situazione drammatica. I suicidi sono 66 in sette mesi, l’anno scorso furono 70 in 12 mesi... “La mia sensazione è comunque quella di trovarci dinanzi ad una serie di “pannicelli caldi” per rimediare ad una situazione drammatica che questo Governo dice di avere ereditato da altri. Un primo passo nella direzione di ridurre l’uso del carcere si trova nella riforma Cartabia che ha ampliato l’ambito di applicazione di pene sostitutive come la semilibertà, la detenzione domiciliare, lo svolgimento di lavori di pubblica utilità. Bastano mille unità in più di poliziotti, l’aumento delle videochiamate coi familiari e qualche strumento per agevolare l’uscita anticipata di alcuni detenuti per risolvere il problema? “Non basta l’aumento previsto per il personale della polizia penitenziaria, tra l’altro mentre continua ad essere insufficiente il numero dei magistrati di sorveglianza che lo hanno recentemente denunciato. Il tema del vivere ed operare dignitosamente in carcere, evidentemente, non riguarda solo i detenuti, ma anche la polizia penitenziaria”. In definitiva? “Un provvedimento criticabile ed insufficiente”. Un emendamento impegna l’esecutivo a valutare “nel solco delle iniziative già adottate con il ddl Nordio un intervento normativo finalizzato ad una rimodulazione delle norme sulla custodia cautelare”. E il nome di Giovanni Toti è risuonato più volte nell’Aula della Camera. Che ne pensa? “Sono ormai già legge, al di là di altre limitazioni da tempo intervenute, l’obbligo per alcuni tipi di reato di un interrogatorio preventivo dell’indagato prima di emettere un provvedimento cautelare a suo carico. Ora si vuole ancora intervenire addirittura prevedendo una sorta di scudo per pubblici amministratori contro la possibilità di essere sottoposti a custodia cautelare: garanzie per i cittadini e per la loro eguaglianza di fronte alla legge o comoda via di fuga per i potenti di turno?”. Firenze. Cronaca di un suicidio di Stato: morte e rimpatrio di Fedi Ben Sassi di Matteo Garavoglia Il Domani, 9 agosto 2024 Il ragazzo ha lasciato la Tunisia a dieci anni per venire in Italia. Dieci anni dopo si è tolto la vita nel carcere di Sollicciano, il 4 luglio scorso. La madre lo ha scoperto dai social. I famigliari hanno accolto la salma rientrata a Tunisi e aspettano gli esami per capire cosa sia accaduto. Il volo di linea che collega Roma a Tunisi è in perfetto orario. Sono le 13 e 30 di mercoledì 31 luglio e la temperatura dell’aria è rovente. Tuttavia per la famiglia Ben Sassi è fondamentale attendere sotto il sole l’arrivo di Fedi, di rientro in Tunisia dopo dieci anni di lontananza. Mentre i passeggeri si recano ai controlli di frontiera, le due sorelle di Fedi, la zia, la nonna e una decina di familiari lo aspettano a qualche centinaio di metri di distanza, di fronte alla sezione dedicata alle merci. Un’area isolata dal resto della confusione tipica di un aeroporto. Per quasi un’ora il silenzio regna sovrano. Poi nel giro di pochi istanti un camion scarica un carrello con una bara all’interno dell’area protetta e i famigliari di Fedi si avvicinano al cancello cercando di intuire se possa essere il loro caro. Da Sollicciano a Tunisi - “Me lo hanno riportato come se fosse una valigia”, è l’urlo di disperazione della nonna Henda Mateli alla vista della salma del nipote, morto suicida nel carcere di Sollicciano a Firenze lo scorso 4 luglio. Le grida di dolore durano diversi minuti prima che il corpo di Fedi venga trasportato in un ospedale della capitale per l’autopsia e gli accertamenti del caso. Minuti che sono sembrate ore con il primo abbraccio arrivato dopo dieci anni solamente attraverso una bara di legno. Vent’anni compiuti da poco e originario di Tunisi, in Italia Fedi Ben Sassi è una delle 65 persone che da inizio 2024 si è tolto la vita nelle carceri del paese. L’ultimo suicidio è avvenuto nella serata del 7 agosto nell’istituto penitenziario di Prato, anche lui era un cittadino tunisino (aveva 35 anni). In Tunisia Fedi Ben Sassi è un figlio partito all’età di dieci anni “per fare contenta la mamma e non vederla più lavorare”. Oggi, a casa della famiglia Ben Sassi nella periferia est di Tunisi, quello che resta del ragazzo è un murale fatto da un giovane del quartiere dopo la notizia della morte. Restano anche i ricordi di un bambino che fin da piccolo si divertiva ad andare al porto de La Goulette insieme agli amici e immaginare di saltare su una delle navi in direzione dell’Italia. “All’epoca vivevamo vicini al mare in un hammam abbandonato perché non ci potevamo permettere una casa”, è il racconto della madre, Yosra Ben Sassi. Occhi costantemente rigati dalle lacrime, per quattro giorni dal rimpatrio di suo figlio al giorno del funerale, Yosra ha condiviso il suo lutto collettivamente, insieme alle figlie e a sua sorella, alla nonna di Fedi e a tutta la cerchia allargata di parenti e amici. Un rituale lungo e doloroso in una casa popolare al piano terra che la famiglia è riuscita a ottenere dopo anni di fatiche e lavori saltuari, fatta di poche stanze da condividere per tante persone. “Fedi è morto di povertà”, sono le parole della nonna Henda raccolte da Domani. Dal suo racconto si può dedurre che si tratti di una doppia povertà. Una è quella più evidente e si trova in Tunisia. Cresciuto senza il padre, di cui si sono perse le tracce pochi anni dopo la sua nascita, Fedi aveva un fratello e due sorelle. È diventato grande in una famiglia dove i soldi scarseggiano, così come le opportunità di lavoro in un paese che da decenni soffre di un’importante crisi economica e sociale. “È dovuto diventare grande troppo presto. Nonostante tutte le difficoltà che abbiamo vissuto è sempre rimasto un bambino sorridente e pieno di vita”, continua a raccontare Henda Mateli. Un’infanzia trascorsa a guardare sua mamma e la nonna passare da un lavoro all’altro in cerca di uno spiraglio di stabilità mai arrivato. Fedi ha trascorso metà della sua vita nel piccolo Stato nordafricano e metà in Italia. Un viaggio reso possibile grazie a un salto all’interno di un camion di olio e alla traversata in uno dei numerosi traghetti che collegano Palermo e Tunisi. Era il più grande di quattro fratelli. Uno è Seif, anche lui in Italia da qualche anno che oggi vive in una comunità a Firenze. Le due sorelle sono le più piccole e i ricordi di Fedi piano piano sono sbiaditi con il passare del tempo. Tasnime ha 16 anni e qualcosa se lo ricorda ancora. Quando parla di suo fratello, gli occhi brillano e le lacrime spariscono: “Mi ricordo che andava sempre dai vicini a cercare del cibo. Prima chiedeva qualche panino per sé e poi con calma convinceva le persone a farsi dare qualcos’altro anche per noi. Faceva sempre così e tornava con qualche baguette e le uova sotto il braccio”, racconta la sorella. Anche lei, prima insieme ai fratelli e poi con gli amici, è andata spesso al porto di Tunisi: “Mi è capitato di aiutare i miei amici ad attraversare le barriere ma non ho mai avuto il coraggio di farlo anche io. Oggi rimpiango di non averci provato”. La seconda povertà per cui è morto è più istituzionale e riguarda l’Italia, in particolare le sue carceri. Fedi si trovava nella prigione di Sollicciano per alcuni reati commessi da minorenne e un furto avvenuto quando aveva poco più di 18 anni. Una vita in Italia che gli ha presentato un conto durissimo, lontano dai suoi affetti e da un’integrazione che spesso risulta complicata. Ciononostante in carcere era riuscito a ottenere un diploma di cucina. Era qualcosa di cui andava fiero e la mamma Yosra ancora oggi mostra le foto che conserva gelosamente nel telefono di suo figlio con un cappello da chef in testa e le dita a fare il segno di vittoria. Da Sollicciano sarebbe dovuto uscire nel maggio del 2025 ma tutto sembra precipitato dopo una chiamata mancata con la famiglia e una detenzione in carcere diventata insopportabile dopo numerose violenze subite all’interno dell’istituto: “Una persona straniera che arriva in Italia conosce difficoltà e ostacoli nel rapporto con gli altri. Questo è moltiplicato per dieci e per cento all’interno del carcere che è un universo separato. Ci sono leggi e convenzioni che sono difficili da conoscere e da mettere in atto, sono problemi che per uno straniero diventano insuperabili”, è il commento di Luigi Manconi, sociologo dei fenomeni politici. L’avviso via social - I familiari hanno saputo della morte di Fedi attraverso i social network, come racconta Majdi Karbai, ex deputato tunisino e punto di riferimento per la comunità nordafricana presente in Italia: “Nessuno in Tunisia si è occupato di avvisare la famiglia, io sono venuto a sapere dell’accaduto perché sono in contatto con diverse associazioni che lavorano nelle carceri e nei centri per il rimpatrio. Non è la prima volta che succede e in generale ricevo tante segnalazioni di tunisini in situazioni di difficoltà. L’ultima è stata per il caso di tortura all’interno del carcere minorile di Milano”. Prima di tornare a casa per il funerale e la sepoltura, il corpo di Fedi è rimasto tre giorni a disposizione delle autorità tunisine per l’autopsia. Per la famiglia Ben Sassi credere alla tesi del suicidio è difficile. La mamma Yosra, così come gli altri familiari, sostengono che Fedi abbia altre ferite sul corpo ed è impossibile che un ragazzo come lui abbia potuto commettere un gesto del genere. In attesa di conoscere i risultati degli esami per capire se possano dare un esito diverso rispetto a quelli effettuati in Italia, lo scorso sabato Fedi è stato salutato per l’ultima volta. Un lungo corteo da quella casa che non è mai riuscito a vedere fino al cimitero del quartiere Le Kram, a pochi passi dal porto de La Goulette dove dieci anni fa, intrufolatosi quasi per gioco in una cisterna d’olio, era partito per cercare un futuro migliore per sé e la sua famiglia. Prato. Consiglio comunale straordinario sui suicidi alla Dogaia di Giorgio Bernardini Corriere Fiorentino, 9 agosto 2024 La sindaca di Prato Ilaria Bugetti torna ad invitare il ministro Nordio dopo l’ennesimo suicidio in carcere. L’inferno del carcere di Prato cerca risposte. All’indomani del quarto suicidio di un detenuto negli ultimi 8 mesi - un uomo tunisino di 35 anni, che si è impiccato mercoledì pomeriggio - la struttura continua a “non avere né un direttore né un comandante titolare”, inoltre “ha una gravissima carenza di organico e si trova in una condizione di sovraffollamento”. Le parole con cui la sindaca di Prato Ilaria Bugetti aveva chiesto al ministro della Giustizia Carlo Nordio di visitare “La Dogaia” diventano ancora più urgenti. E si arricchiscono di un nuovo passaggio: un Consiglio comunale straordinario sul tema. “Rinnovo l’invito al ministro Nordio a venire qui per trovare soluzioni alla drammatica situazione in cui si trova La Dogaia”, dice Bugetti. “Il ministero è informato e si fa carico di valutare la richiesta”, fanno sapere dallo staff del Guardasigilli, sottolineando che in via Arenula non è passata inosservata l’escalation drammatica della casa circondariale di Prato. La sindaca chiede ora “risposte concrete per ristabilire dentro quelle mura il rispetto della dignità umana”. “Che a violarla - sottolinea - sia lo Stato è semplicemente inaccettabile”. Ma quali sono gli ostacoli per alzare gli standard di dignità di quel carcere? “Quel posto - sostiene la Cgil - è un vero e proprio ghetto penitenziario, il carcere più problematico della Toscana”. Il riferimento è al fatto che la struttura continua a ricevere detenuti di difficile gestione e ospita vari circuiti penitenziari complessi: collaboratori di giustizia, Alta Sicurezza, sex offender, sezione protetta. Non solo: è anche l’istituto con il rapporto più basso tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria. Secondo il garante dei detenuti della Toscana Giuseppe Fanfani “c’è il rischio di assuefarsi a questa realtà e di finir per considerare le tragedie dei numeri sui quali fare statistiche”. Per lui “la responsabilità è di chi ha tralasciato per decenni di affrontare il problema sul presupposto che non produca consenso; di chi oggi si rifiuta di cogliere la gravità del momento, poiché prima o poi le situazioni estreme esplodono”, oltre che “di chi fa finta di non vedere o non comprende ciò che vede”, dice rispetto alle recenti dichiarazioni della deputata pratese di Forza Italia Erica Mazzetti. Ieri una delegazione dei garanti territoriali ha incontrato il ministro Nordio, “ciononostante - conclude Fanfani - un qualsiasi provvedimento immediato per affrontare una situazione incandescente e per ridare speranza non c’è”. Durissime le parole del coordinatore nazionale della polizia penitenziaria per la funzione pubblica Cgil, Donato Nolè, secondo cui l’ennesimo suicidio alla Dogaia “è il tragico risultato di una politica miope da parte dell’amministrazione penitenziaria. Da anni denunciamo alle autorità competenti la grave situazione di quella casa circondariale: le segnalazioni sono rimaste inascoltate. Non sappiamo più come esprimere il nostro allarme”. Il sindacalista segnala che “il personale è esausto e la situazione complessa”, avvisando che “se non si registra un cambio di rotta immediato, la situazione è destinata a implodere”. Secondo la Cgil l’apice delle problematiche risiede nella “mancanza di un direttore titolare”: attualmente la casa circondariale è infatti guidata da una figura ad interim, quella di Vincenzo Tedeschi. Che raggiunto al telefono spiega “di non voler commentare la vicenda, per ora”. A complicare un quadro drammatico concorre il caldo asfissiante che lì non si può combattere: a causa di un guasto “ormai cronico” all’impianto di condizionamento, infatti, il personale sanitario in servizio alla Dogaia è costretto a lavorare in ambienti dove le temperature spesso superano i 35 gradi. È quanto denunciato, in una nota, dal Nursind: “Una situazione intollerabile”, spiega il segretario territoriale Roberto Cesario. Torino. Rivolte in carcere, otto indagati di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 9 agosto 2024 Sotto accusa per resistenza, lesioni e minacce i detenuti del Lorusso e Cutugno. Si contano i primi indagati nell’ambito delle inchieste che raccontano i disordini avvenuti nella notte tra l’1 e il 2 agosto nelle carceri Ferrante Aporti e Lorusso e Cutugno. Sono otto i nomi che compaiono nel fascicolo relativo all’istituto di pena degli adulti: le ipotesi di reato - contestate a vario titolo - sono resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e minacce. Le iscrizioni sono avvenute dopo l’invio delle relazioni di servizio degli agenti che hanno descritto la scansione degli eventi e il ruolo giocato dai detenuti. I disordini sono avvenuti nel padiglione B, già palcoscenico di proteste nelle settimane precedenti. E lo stesso giorno, alla stessa ora, è iniziata anche la rivolta al Ferrante Aporti. Si contano i primi indagati nell’ambito delle inchieste che raccontano i disordini avvenuti nella notte tra l’1 e il 2 agosto nelle carceri Ferrante Aporti e Lorusso e Cutugno. Sono otto i nomi che compaiono nel fascicolo relativo all’istituto di pena degli adulti: le ipotesi di reato - contestate a vario titolo - sono resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e minacce. Le iscrizioni sono avvenute dopo l’invio delle relazioni di servizio degli agenti che hanno descritto la scansione degli eventi e il ruolo giocato dai detenuti. Al Lorusso e Cutugno i primi problemi si sono registrati intorno alle 18, quando c’è stata una rissa tra stranieri e una lama artigianale è stata puntata alla gola di una guardia. “Volevano che aprissi i cancelli della sezione”, ha raccontato l’agente. Più tardi sono stati dati alle fiamme alcuni materassi: sono rimasti lievemente intossicati due ospiti e due guardie. La situazione è rimasta esplosiva fino a notte fonda: per domare la rivolta sono stati chiesti rinforzi al carcere di Ivrea, a quello di Saluzzo e ad altri istituti del Piemonte. Durante la sommossa, molti dei protagonisti erano ubriachi e sono stati anche sfondati alcuni cancelli. I disordini sono avvenuti nel padiglione B, già palcoscenico di proteste nelle settimane precedenti. E lo stesso giorno, alla stessa ora, è iniziata anche la rivolta al Ferrante Aporti. Dopo la Procura dei minori, anche quella ordinaria ha avviato le indagini. Il procuratore aggiunto Patrizia Caputo ha aperto un fascicolo per devastazione e incendio: entrambe le inchieste sono affidate al pm Davide Pretti. In particolare, si sta cercando di verificare se c’è un collegamento tra le due sommosse: il sospetto è che i detenuti del Lorusso e Cutugno possano aver innescato la protesta per favorire i ragazzi rinchiusi al minorile, che avevano progettato un’evasione di massa. Da giorni si sta procedendo all’identificazione di coloro che hanno partecipato alla devastazione: sono quasi tutti giovani adulti - ragazzi di età compresa tra i 18 e i 25 anni -, ma ci sono anche alcuni minorenni. I loro volti compaiono a più riprese nei filmati registrati dalle videocamere di sorveglianza prima che la sala regia venisse presa d’assalto e distrutta. Altri elementi si ricavano invece dal video che i detenuti hanno girato con un tablet (di cui si sono impossessati durante la rivolta) e poi postato sui social. Intanto, da giorni è in corso nei locali di corso Unione Sovietica un’ispezione ministeriale per valutare i danni. Torino. L’incredibile telefonata dalla cella: “Ti racconto come viviamo. Qui non curano i malati” di Paolo Coccorese Corriere della Sera, 9 agosto 2024 Un detenuto racconta la realtà della casa circondariale: “Qui è uno schifo tutto”. “Pronto, buongiorno. Come va?”. Con queste parole, sentite mille volte, parte la chiamata dall’interno del carcere. A parlare è un ospite del Lorusso e Cutugno. È quasi l’una di mercoledì. Sul profilo Instagram di un giovane detenuto si è appena conclusa una delle “dirette”, brevi videochiamate condivise con migliaia di follower iscritti al profilo social, fatta con un cellulare nascosto che gira indisturbato da giorni nell’istituto penitenziario. Così, d’impeto, gli scriviamo un messaggino in direct. “Vuoi fare un’intervista per raccontare la dura realtà carceraria?”. Passano neanche dieci minuti e il nostro cellulare si mette a vibrare. Da dietro le sbarre, qualcuno ha deciso di raccontarsi. “Mi vedi o no?”. La prima preoccupazione del nostro interlocutore è il nome. Dall’altra parte dello schermo, risuona la voce di un uomo preoccupato di tenere segreta la sua identità. “Io non sono il proprietario del profilo. Sono un altro. Quando hai scritto il messaggio, lo abbiamo letto e sono stato l’unico che si è dato disponibile a parlare. Voglio spiegarti come viviamo qua”. Di sottofondo si sentono altre voci, più volte la chiacchierata sembra rallentare. Forse, è colpa della rete o per via di altri disturbi. “Chiudi, chiudi”, grida ad un tratto il nostro interlocutore. Sembra rivolgersi a qualche compagno di cella per assicurarsi di non essere visto. Ancora meravigliati, chiediamo: sei cosciente di cosa rischiate usando un cellulare all’interno del penitenziario? “Si, ma non ce ne frega nulla. Qui fa schifo, è arrivata l’ora di raccontare cosa viviamo. Io sono qui da anni e mi mancano solo pochi mesi. Ma questo posto è un inferno”. Ancora più colpiti, facciamo presente che così potrebbe arrivare un ulteriore aggravamento della pena carceraria. “Ehi amico, guarda che anche tu stai commettendo un reato. Non solo noi. Io non ho paura. E tu?”. La chiacchiera va avanti. Si accenna all’articolo uscito sul Corriere Torino dove si racconta l’uso “libero” dei telefoni. “Quell’articolo ha provocato un gran casino”, risponde il detenuto. Gli smartphone in carcere sono una cosa illegale. “Lo sappiamo bene, ma noi li usiamo per chiamare le famiglie. Le nostre mogli, i figli. Se ci dessero la possibilità di parlare più spesso con loro, non lo utilizzeremmo”. Le comunicazioni dal carcere verso l’esterno sono complicate. Tolti i colloqui, una volta alla settimana, lunghi e faticosi per i parenti costretti a interminabili attese ai cancelli della casa circondariale, ci sono dei telefoni da usare solo se autorizzati. Ma per parlare è necessario pagare la ricarica e chi non ha soldi deve chiedere una mano al prete o a qualche compagno di cella. Le chiamate illegali con i cellulari nascosti sembrano diventate una normalità. Nei mesi scorsi, un detenuto ha pensato bene di minacciare la moglie che lo aveva denunciato per stalking. “Voglio raccontare la merda di questo posto -, dice il mittente della chiamata -. Perché non vieni a vedere tu stesso, chiedi un ingresso a sorpresa. Perché altrimenti ripuliscono tutto e non vi fanno vedere la verità”. Ma quale problema lamentate? L’acqua fredda delle docce, le temperature infernali in cella, il cibo scaduto? “Qui fa schifo tutto, fa schifo l’assistenza medica. Per quelle medicine che ti danno per farti stare buono. Chi sta male non è seguito. Qua dentro ci sono persone che aspettando da due anni di essere operate. A loro chi ci pensa?”, chiede prima che la telefonata si interrompa all’improvviso. Torino. La diretta Instagram dei detenuti: “Ora condividete il video e parlate di noi” di Paolo Coccorese e Alberto Giulini Corriere della Sera, 9 agosto 2024 Dopo le rivolte e le polemiche, continua l’uso illegale dei cellulari all’interno del Lorusso e Cutugno. “Vedete il carcere com’è? Vedete dove viviamo? Guardate il vetro della finestra, è rotto. Ragazzi dovete parlare, dovete fare qualcosa per noi. Così non si può vivere”. È una richiesta di aiuto e, allo stesso tempo, l’ennesimo guanto di sfida gettato alla società. A parlare in diretta sul suo profilo Instagram è un detenuto. Si tratta di uno degli aspiranti trapper di Barriera di Milano rinchiusi al Lorusso e Cutugno. Si è già fatto notare per aver pubblicato video social girati con uno dei tanti cellulari introdotti illegalmente all’interno. Anche questa volta si riprende in volto, senza timori. Sembra a sua agio su questo palcoscenico virtuale con decine di follower a fare da spettatori. Ma qui nessuna commedia. A scorrere sono le immagini della polveriera del penitenziario cittadino. “I ragazzi che stanno qua non stanno bene. I muri sono scrostati. La gente vive di m... perché non ha la famiglia, c’è chi non ha nulla. Voi andate a casa, vi svegliate e guardate le storie su Instagram, qua c’è gente che non ha un c... Condividete nelle storie, parlate di quello che succede nelle carceri italiane”. Mentre si continua a discutere del problema degli smartphone usati di nascosto dietro le sbarre, tanto da far sospettare agli investigatori che le rivolte scoppiate in contemporanea al minorile Ferrante Aporti e nella casa circondariale delle Vallette siano partite dopo una serie di telefonate illegali, anche oggi c’è qualcuno che fa rimbalzare al di fuori il suo volto e la sua voce. Su Instagram, il detenuto è una piccola star per via della sua musica da milioni di view. Questa volta non canta ma si lancia in uno strano reportage. “La capienza minima delle Vallette è 1.200 detenuti e, invece, siamo 1.600. La gente qua è piena”. Sullo sfondo si sentono gli applausi e gli incoraggiamenti degli altri compagni di cella. Sembra il collegamento di uno dei tanti talk show alla Michele Santoro, quelli con il giornalista che in piazza intervista i cittadini arrabbiati. “Qui vivi bene, frà?”, chiede il giovane inquadrando un altro ospite della cella. L’educatrice l’hai vista? “No”. Il direttore l’hai mai visto? “No”. I tuoi permessi te li danno? “No”. Da quanto sei qua? “Quattro mesi”. Sullo schermo scorrono altri volti. Il clima è leggero, c’è chi sorride e chi ride. Eppure, la richiesta di aiuto è seria e il rischio di un aggravamento di pena in agguato. La diretta Instagram, tra un’interruzione e l’altra, dura tre minuti. Le guardie penitenziare? Neanche l’ombra. In carcere spesso i telefoni impiegati sono forniti dall’amministrazione. Dal Covid in avanti sono stati resi disponibili i cellulari per favorire i contatti con le famiglie dato che gli incontri erano vietati. E poi ci sono ovviamente anche quelli clandestini. “Il problema più importante è che non sono intercettati - dice Leo Beneduci, sindacalista della polizia penitenziare dell’Osapp, -, non si sa chi effettivamente venga chiamato. All’inizio pensavo fosse una strategia studiata per favorire delle indagini, perché è inconcepibile che si riescano ad usare così tanto. E non solo per i video che circolano su TikTok: i detenuti hanno la possibilità di fare quello che vogliono”. Siena. Il riscatto dell’ex detenuto: “In carcere volevo uccidermi, ora sono laureato” di Maddalena De Franchis La Nazione Ernest finì per sei mesi in cella dopo la condanna per furto. Ora ha scritto un libro dove racconta la rinascita attraverso gli studi all’Ateneo. Il suo nome poteva comparire nel triste elenco, ormai sterminato, delle persone, che si sono tolte la vita nelle carceri italiane: a salvarlo è stato un desiderio di riscatto più forte delle vicissitudini della sua giovane vita. Ha anche un capitolo senese la lunga, incredibile, odissea di Ernest Dan Azobor, nato in Nigeria e attualmente residente in città. Com’è arrivato in Italia? “Dopo un viaggio in mare dalla Libia, come tanti altri connazionali, perché ero perseguitato nel mio Paese di origine. In Italia speravo di rifarmi una vita, magari sfruttando la mia laurea in Scienze della comunicazione, conseguita in Nigeria. Quando sono arrivato in un centro di accoglienza a Latina, però, ho capito che tutte le mie speranze erano vane”. In che senso? “Lì non c’era nulla, a parte il posto per dormire. Passavamo le giornate abbandonati a noi stessi: non c’erano progetti di inserimento né corsi di lingua, niente. La mia colpa è stata fidarmi di una persona che aveva promesso di aiutarmi, per poi accusarmi ingiustamente di furto”. Cos’è successo poi? “All’epoca non sapevo parlare bene la vostra lingua, non sono riuscito a dimostrare la mia innocenza. Così sono finito in carcere a Forlì, dove sono rimasto per sei mesi. Li ricordo come uno dei periodi più brutti della mia vita, sono arrivato persino a tentare il suicidio”. Per quale motivo? “Il problema di Forlì, come di tutte le carceri italiane, è il sovraffollamento. Si è in troppi ed è difficile, in quelle condizioni, garantire la sicurezza di tutti. La polizia penitenziaria fa quel che può, ma le risorse sono scarse rispetto al numero dei detenuti, quindi anche più stressate, costantemente sotto pressione. Non ho avuto neppure la possibilità di parlare con uno psicologo, sebbene lo avessi richiesto più volte. Periodicamente ci facevano visita i volontari: ma un’intera struttura carceraria non può fare affidamento solo su queste figure”. Chi, allora, l’ha aiutata? “Oltre al mio avvocato Luca Sebastiani, anche Palma Mercurio, ex direttrice della casa circondariale di Forlì: si è spesa molto per me, anche al momento di uscire, quando la mia innocenza è stata finalmente dimostrata”. Cosa ha fatto uscito dal carcere? “Grazie al mio avvocato e al sostegno della signora Maria Claudia Agrippa, che aveva appreso la mia storia, mi sono iscritto all’Università di Siena e in due anni, studiando e lavorando, ho conseguito la laurea magistrale in Public and cultural diplomacy. Sono stato ammesso a un dottorato di ricerca e, nel frattempo, lavoro come receptionist in un resort in Toscana”. Negli ultimi tempi, la drammatica situazione delle carceri è tornata d’attualità per i suicidi. Cosa ne pensa? “Penso di essere stato fortunato, perché stavo per fare la loro stessa fine. Sono convinto che il sistema italiano debba cambiare: non si può continuare a usare il carcere come ‘parcheggio’ per persone che non si sa dove collocare, magari perché straniere o senza documenti. Desidero portare a tutti la mia testimonianza, mettendoci la faccia: ho raccontato la mia storia in un libro, si chiama ‘Pariah’ e parla dell’Africa, laddove tutto è cominciato”. Varese. Il Governo s’impegna per trasferire il carcere Miogni in una nuova sede Il Giorno, 9 agosto 2024 Un ordine del giorno fatto inserire dal deputato leghista Candiani chiede di mettere finalmente mano a una struttura sovraffollata e vetusta, che era già stata dichiarata dismessa nel 2001. Uno studio di fattibilità per esplorare la possibilità di trasferire il carcere varesino dei Miogni in una nuova sede, più moderna e adeguata: con questo ordine del giorno fatto inserire dal deputato della Lega Stefano Candiani nel decreto carceri varato dal Governo, potrebbe delinearsi una svolta per il penitenziario del capoluogo, fra i più disastrati d’Italia e dichiarato, da decenni, inadeguato. Il Miogni è stato dichiarato dismesso nel 2001, ma ancora oggi ospita circa il doppio dei detenuti rispetto alla sua capacità regolamentare di 53 posti. Parliamo di un edificio molto vecchio, costruito nel 1893, che solo nel 2017 ha avuto i bagni delle camere del piano terra dotati di acqua calda e docce. Anche il resto della struttura è in uno stato di forte vetustà: una situazione che rende la carcerazione e il lavoro della polizia penitenziaria ancora più difficili, tanto più considerando il sovraffollamento. Candiani: “Una promessa non mantenuta dal Governo Amato” - “Un miglioramento necessario sia per il benessere dei detenuti sia per quello del personale che vi lavora - dichiara Candiani. Tuttavia, assurdamente, Dem e 5Stelle, pur di prendere posizione contro la maggioranza, si oppongono al superamento di questa situazione di degrado. C’è comunque un dato di fatto sconcertante: Partito democratico e Cinque Stelle rifiutano uno studio di fattibilità per realizzare un nuovo carcere al posto del Miogni. Il che è ancora più assurdo tenuto conto che, lo ripeto, l’attuale complesso è stato dichiarato dismesso addirittura nel 2001, previa costruzione di un nuovo istituto, con un decreto emesso da un loro governo (il governo Amato, ndr), e mai revocato nel corso degli ultimi vent’anni”. Quella tragica nostalgia dei manicomi di Franco Corleone L’Espresso, 9 agosto 2024 Nel centenario della nascita di Basaglia, un colpo di mano riscrive la 180 e fa rivivere gli Opg. Appare sempre più evidente la pulsione profonda del governo Meloni. Non c’è solo la lotta allo stato di diritto e al garantismo e l’opposizione a nuovi diritti di cittadinanza, si vogliono anche cancellare le conquiste civili e sociali come la chiusura dei manicomi. Nel centenario della nascita di Basaglia è stato presentato un disegno di legge al Senato (n. 1179) che colpisce nel profondo la 180, raddoppiando i giorni del Tso (da farsi anche in carcere), prevedendo forme ulteriori di coercizione e di contenzione, nuove strutture psichiatriche speciali con prevalenza di trattamenti farmacologici legati a una visione strettamente biologica della malattia. Si tratta di una proposta legittima ma da contrastare. Per questo è stato lanciato l’appello: “Fermare una tragica nostalgia di manicomio. E reagire”. Appartiene invece alla categoria del colpo di mano la presentazione di un emendamento al Senato al decreto legge sul carcere (n. 92 del 4 luglio), per riaprire sotto mentite spoglie i manicomi giudiziari, gli orrendi Opg. La storia di quella che ho definito una rivoluzione gentile va ricordata. Fummo in pochi per anni in Parlamento e nella società a denunciare quella istituzione totale. Finalmente la Commissione Marino al Senato svelò la vergogna civile dei sei manicomi e iniziò la campagna di Stop Opg di denuncia nel Paese. Le parole del presidente Napolitano dettero la spallata definitiva. Il Parlamento approvò prima la legge 9 e poi la legge 81 per la chiusura degli Opg che si realizzò anche per l’azione del Commissario ad hoc nel 2017. Negli anni successivi, anche il Consiglio superiore della magistratura e il Comitato nazionale di bioetica approvarono documenti importanti. Un modello di politica alta, radicata nelle coscienze. Le inevitabili difficoltà sono stati affrontate dagli operatori con passione e con la consapevolezza di compiere un lavoro di civiltà e di umanità. Le opposizioni fino ad oggi sono state respinte e la Corte Costituzionale ha difeso la scelta della chiusura degli Opg, pur sollecitando un intervento del Parlamento per sciogliere alcuni nodi. La riforma infatti deve essere completata con l’eliminazione del “doppio binario” previsto dal Codice Rocco, superando la non imputabilità per gli autori di reato considerati incapaci di intendere e volere in forza di una perizia psichiatrica e contestualmente dichiarati pericolosi socialmente: da internare con una misura di sicurezza che spesso si trasformava in un “ergastolo bianco” nell’Opg. Tornando all’emendamento al decreto carcere presentato inopinatamente dai due relatori Bongiorno e Rastrelli, esso riscriveva la norma che ha chiuso gli Opg, facendoli rinascere sotto forma di strutture a gestione sanitaria/giudiziaria con la presenza della “polizia interforze”. Non era detto quanti sarebbero stati questi piccoli manicomi e dove, rinviando il tutto a un decreto amministrativo. Le proteste per questo scippo di legalità hanno bloccato la manovra, che voleva approfittare di un decreto approvato (senza discussione) con due voti di fiducia, per cancellare una riforma epocale. Allarme scampato? Sì, però ora sappiamo che cosa ci aspetta e dobbiamo creare un movimento perché in Parlamento si discuta davvero e nella società civile si apra un confronto sui contenuti della proposta di 2 legge Magi (Camera dei Deputati, n. 1119), elaborata dalla Società della Ragione. Migranti e homeless nascosti per il Giubileo di Luciana Cimino Il Manifesto, 9 agosto 2024 Associazioni e operatori sociali contrari alle misure del Campidoglio, “non risolvono”. La destra cavalca la polemica per il decoro. Lontani dalla vista, ma non abbastanza per la destra. La questione dell’accoglienza dei senza fissa dimora in occasione del Giubileo sta diventando la cartina di tornasole dei paradossi di questa epoca, con amministrazioni di sinistra che inseguono la destra nelle politiche per il decoro, mischiandola con l’emergenza abitativa. Questi i fatti: il Comune di Roma realizzerà, in vista dell’apertura della Porta santa, quattro tensostrutture (a Termini, Ostiense, Tiburtina e a San Pietro) più alcuni punti mobili come siti di accoglienza a bassa soglia per i senza tetto. Una di queste, quella prevista nella zona della stazione Termini, è stato oggetto di polemiche da parte della destra capitolina, supportata da quella nazionale. I parlamentari Federico Mollicone di Fratelli d’Italia (anche componente del Comitato Giubileo) e Simonetta Matone della Lega hanno cavalcato la protesta di alcuni commercianti di piazza dei Cinquecento, antistante l’ingresso principale della stazione, preoccupati per l’impatto sulla sicurezza e sull’immagine della città che veniva offerta ai turisti. Di fronte a queste pressioni, il sindaco Roberto Gualtieri ha deciso di modificare il progetto iniziale: la tensostruttura non si farà, al suo posto saranno attivati 100 posti letto giusto qualche decina di metri più in là, in un palazzo di Via Marsala che però va ristrutturato per questo uso. Il presunto problema del decoro lanciato dalla destra è stato scongiurato, quello dell’accoglienza delle persone fragili, no. Difatti le associazioni laiche e cattoliche che si occupano stabilmente di povertà estrema hanno criticato l’intero piano del Campidoglio. Come la Caritas di Roma che ha espresso delusione per le misure “del tutto emergenziali e temporanee” mentre da anni invocano interventi strutturali. “Queste non sono risposte alle esigenze sociali, è metterci una pezza”, dice Giovanna Cavallo, che, come legal aid dello Sportello Immigrazione dello spazio sociale Spin Time, va in missione a Termini una volta al mese. “L’errore più grande quando si parla di senza fissa dimora - spiega Cavallo - è considerarli come un unico target sociale e questo non corrisponde alla realtà complessa che c’è intorno alle stazioni. Bisognava fare un’analisi delle criticità che portasse a una rinnovata azione politica per superare criticità: le tensostrutture come unica risposta, a pochi mesi dal Giubileo, non possono che essere prese come spot e come un modo per confinare soggettività che possono apparire scomode e non digerite dal sistema urbano, una contraddizione con gli scopi dell’Anno santo”. Per l’attivista la situazione capitolina ricorda quella di Parigi, dove in occasione delle Olimpiadi il governo “ha voluto “ripulire” il centro deportando i migranti e i senza casa in strutture fuori dalla città, una cosa che fa sorridere dato che ai Giochi è stata ammessa una squadra composta da rifugiati ma poi si usa la faccia feroce quando si trovano per strada”. In Francia però ci sono state imponenti manifestazioni di sostegno ai fragili che a Roma, ancora, non si sono viste. “Al momento la capitale non dà il giusto peso alle politiche sociali in un contesto di gravissima emergenza abitativa trasversale a tutti, italiani e stranieri, e che oggi si è acutizzata a causa anche della chiusura ermetica del mercato della locazione privato, sempre più classista, sessista e razzista”, ragiona Cavallo. Anche l’antropologo Federico Bonadonna, ai servizi sociali nelle amministrazioni Rutelli e Veltroni, è scettico. “Le tensostrutture sono servizi di bassa soglia utili d’inverno per i senza dimora ma non per i nuclei familiari e per i bambini”, spiega. “Peraltro - continua l’antropologo - poche centinaia di posti di fronte a 22mila persone che vivono per strada sono niente, non servono neanche a toglierli dalla vista. La fretta nasce sempre dall’esigenza del decoro ma per garantirlo davvero servono i bagni pubblici per cittadini, turisti e senza tetto, serve un piano per il disagio psichico, a prescindere dal Giubileo. Questa sinistra vagheggia invece di tensostrutture, di recintare le aree verdi della città cancellando per la cittadinanza porzioni essenziali di territorio, senza fare riferimento alla via maestra che è la politica per la casa”. Tutta l’operazione costerà 5 milioni di euro. A marzo 2026 le tensostrutture saranno dimesse e affidate alla Protezione Civile. “Auspichiamo da parte di governo e Parlamento un intervento per dare più risorse a chi deve affrontare un problema gigantesco”, ha detto il sindaco Gualtieri. Intanto si pagano i costi sociali. Stati Uniti. Guantánamo, la Casa Bianca fa saltare l’accordo tra avvocati e giudici militari di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 9 agosto 2024 L’amministrazione americana ha fatto un deciso dietrofront con l’intervento diretto del segretario alla Difesa, Lloyd Austin, che ha fatto saltare l’accordo preso in precedenza dagli avvocati dei terroristi dell’11 settembre 2001 e i giudici. Nessun patteggiamento tra gli Stati Uniti e la difesa di tre detenuti nel carcere di Guantánamo per evitare la pena di morte. L’amministrazione americana ha fatto un deciso dietrofront con l’intervento diretto del segretario alla Difesa, Lloyd Austin, che ha fatto saltare l’accordo preso in precedenza dagli avvocati dei terroristi dell’11 settembre 2001 (tra questi Khalid Sheikh Mohammed, ritenuto la mente degli attentati) e i giudici militari. Un’entrata a gamba tesa che ha provocato le critiche di alcune organizzazioni di avvocati e ha creato, a distanza di 23 anni, una situazione di incertezza sul definitivo trattamento da riservare a chi si trova a Guantánamo in merito a processi non ancora celebrati. L’accordo di patteggiamento è stato redatto dopo circa due anni di lavoro con la regia del generale Susan Escallier (ora fuori ruolo) e ha previsto che Khalid Sheikh Mohammed dichiarasse la propria colpevolezza. Una scelta suggerita anche dai difensori di Walid bin Attash e Mustafa al-Hawsawi, volta ad evitare la pena di morte, in caso di accertamento definitivo della colpevolezza, e commutarla in ergastolo. L’intervento diretto di Austin è avvenuto a seguito delle proteste delle associazioni dei familiari delle vittime dell’11 settembre, che non hanno risparmiato dure critiche direttamente al presidente Joe Biden. In campagna elettorale meglio evitare passi falsi e scelte impopolari; meglio ingraziarsi la simpatia e l’attenzione del maggior numero di elettori. Da qui, con tutta probabilità, la decisione di stralciare il patteggiamento. Ad Austin è stato chiesto di intervenire per fare celebrare i processi senza intoppi o scorciatoie. “Credo - ha affermato il responsabile della Difesa - che le famiglie delle vittime, i nostri militari e tutti gli americani meritino di vedere al lavoro le commissioni militari e che i processi vengano regolarmente svolti”. I ritardi che hanno caratterizzato alcuni processi che vedono alla sbarra i terroristi delle stragi del 2001 (oltre 3mila vittime) sono imputabili all’intrecciarsi della normativa ordinaria e a quella speciale connessa all’intervento dei tribunali militari, oltre che a questioni meramente organizzative. Le commissioni militari, che hanno una durata temporanea, vennero istituite dall’ex presidente statunitense, George W. Bush, con l’affidamento della competenza direttamente al ministero della Difesa. Questi tribunali speciali, come è stato rilevato dai giudici statunitensi, devono comunque rispettare la Convenzione di Ginevra e garantire un processo equo. Un punto su cui insistono gli avvocati dei terroristi riguarda le prove degli interrogatori, condotti dai cosiddetti “clean teams” della Cia e dell’Fbi, considerate non genuine poiché raccolte sotto tortura con l’estorsione delle confessioni. In particolare il trattamento riservato a Mohammed, a Guantánamo dal 2006, è stato spesso criticato. L’ideatore degli attentati dell’11 settembre è stato sottoposto al waterboarding (tortura che simula l’annegamento) per ben 183 volte. Il suo avvocato, Gary Sowards, ha affermato che nei confronti Khalid Sheikh Mohammed è impossibile assistere ad un giusto processo. Walter Ruiz, avvocato di un altro imputato, Mustafa al Hawsawi, ha affermato che l’intervento del segretario alla Difesa Austin “è un’interferenza illecita ai massimi livelli del governo”. Ruiz ha sollevato dubbi sulla possibilità che la commissione militare possa agire con equidistanza: “Non so se possiamo continuare eticamente a impegnarci davanti a questo tribunale, gestito dal Pentagono dopo un’azione che va dritto al cuore dell’integrità del sistema di garanzia dei diritti per tutti”. Gli avvocati annunciano battaglia. Impugneranno l’ordine di Lloyd Austin e hanno annunciato che sospenderanno la partecipazione alle udienze fino a quando le contestazioni relative alla sospensione dell’accordo non verranno prese in considerazione. Inoltre, hanno sottolineato che l’accordo di patteggiamento è da ritenersi ancora valido.