L’inerzia del Governo che non vede l’abbandono di Mauro Palma Il Manifesto, 8 agosto 2024 Il decreto che servirebbe, quello sì necessario e urgente, dovrebbe ampliare la liberazione anticipata, e la detenzione domiciliare e favorire sul serio il dialogo con i propri affetti. Bisogna riprendere un po’ il fiato, prima di scrivere sul carcere di questi giorni. Non aiuta il caldo, non aiuta la sensazione di difficoltà estrema che emerge da quelle mura non più in grado di non far vedere all’esterno quale segnale di abbandono si viva in quegli spazi. Soltanto chi non vuole vedere può dire di non sapere, perché obiettivamente i mezzi d’informazione stanno rendendo visibile in vario modo, ciò che invece amministrazione e talune istituzioni vorrebbero riparato da sguardi intrusivi. Anche chi pensa che alla sofferenza intrinseca alla privazione della libertà, quale misura a volte inevitabile e doverosa, possa aggiungersi un supplemento di sofferenza materiale, non vede o vedendo pensa che così la pena produca uno spendibile consenso. Solo costoro - e ce ne sono anche in chi ha responsabilità istituzionali - non vedono o vedono in modo annebbiato. Ma, bisogna ritrovare il fiato necessario. Per comprendere l’inerzia di un agire politico che non è in grado di dare una direzione positiva per affrontare le maggiori difficoltà di una collettività sociale, limitandosi a registrarne le paure o a coltivarle; che non è in grado di riconoscere che anche chi ha sbagliato ed è in carcere è parte del suo stesso corpo e che è suo interesse, quale gestore della cosa pubblica, dare spazio per progettare un ritorno diverso dopo l’esecuzione di una pena, in grado di diminuire il rischio di recidiva: perché è interesse della collettività, della sua sicurezza e della sua economia investire perché il tutto non si riduca a sottrarre un po’ o molto tempo vitale. Invece siamo ancora qui, alla paura anche di quei timidi provvedimenti che potrebbero dare maggiore beneficio a coloro che la magistratura di sorveglianza ha stabilito o stabilirà esserne meritevoli: la proposta di un ampliamento dei giorni di liberazione anticipata è riassumibile in questo e nulla più. Eppure spaventa; qualcuno si è azzardato a definirla un cedimento dello Stato e di corsa ha previsto un decreto - quello ormai nel rush finale della conversione in legge - che si limita a proporre alcuni lenitivi e qualche aumento di personale; non solo, ma complica le stesse procedure per ottenere ciò che già c’era, lasciando intravedere possibili idee future di cooperazione con altre agenzie da certificare a cui affidare alcuni casi. Il coniglio dal cappello è poi il ritorno alla figura del Commissario per l’edilizia penitenziaria - ipotesi già sperimentata nel passato e non certo con successo. Quindi più posti per detenere, nulla per valorizzare percorsi intrapresi, un po’ di operatori in più, ma lentamente e secondo previsioni che in molti casi erano già in corsa. Conviene allora essere chiari: la sofferenza del sistema è drammaticamente evidenziata dal contatore dei suicidi che non trova pause - in media due ogni sette giorni fino a oggi e proprio ieri un altro ancora - è data dal parallelo contatore dei suicidi degli agenti di polizia penitenziaria - in media, a oggi, uno al mese - dalla mancanza eclatante di spazio vitale - 14.537 posti regolamentari in meno - dalla prevalente chiusura delle celle per molte ore della giornata, laddove non vi siano progetti o altro che consentano di uscire da questi densi luoghi nel corso del giorno; nonché dalla tensione interna che si esprime in ripetuti episodi di disordini all’interno di molti Istituti e dal personale, sempre chiamato a constatare, a cercare di ridurre e a volte a salvare. Tutti insieme questi fattori descrivono una pena che è nei fatti impossibilitata a rispondere a qualsiasi finalità rieducativa; non solo, ma che spesso è al di sotto del livello che rende il trattamento “contrario al senso di umanità”. Partiamo da qui, allora, al di là di tentativi di aggirare il tema. Perché solo partendo da qui si capisce la rispondenza ai requisiti previsti dall’articolo 77 della Costituzione: la necessità e l’urgenza perché non si decreta relativamente alla libertà personale per proporre cervellotiche modifiche di procedura, a volte riprese da esperienze di altri Paesi e quasi sempre ignare delle reali difficoltà vissute oggi dalle persone ristrette, da chi deve amministrarle e da chi deve gestire l’accesso a possibili modulazioni dell’esecuzione penale. Perché un provvedimento è necessario e urgente solo se realmente avvia il percorso per riportare l’esecuzione penale nel solco della civiltà del nostro Paese, oltre che della Costituzione. Da qui, innanzitutto alcune azioni di emergenza e immediate: l’ampliamento della liberazione anticipata rientrerebbe in queste, insieme alla ripresa un po’ irrobustita dei provvedimenti timidamente adottati durante il periodo della pandemia circa la detenzione domiciliare per le persone fragili e la possibilità per semiliberi di non rientrare la sera in carcere e ai detenuti in permesso di prolungare la loro contingente situazione. Il tutto con il potenziamento della comunicazione con i propri affetti: un aspetto, questo che non è stato colto, se non nella misura ristretta di qualche telefonata in più al mese, in caso di necessità. Non sarebbero certamente misure risolutive. Sarebbero però certamente distanti da quanto invece si discute nel nostro Parlamento, perché aprirebbero alla possibilità di ridisegnare nel medio periodo la fisionomia dell’esecuzione penale, incidendo sulla sua attuale connotazione che è prevalentemente configurabile come “detenzione sociale” - ho rubato il termine al sempre compianto Alessandro Margara. Per poi prevedere nel lungo periodo la messa a punto ai temi di fondo: a chi destinare residualmente la pena della privazione della libertà, quindi quale sia la capienza prevedibile e quale sia la progettualità per gli autori di reati gravi; quale sia il concetto di “sicurezza” che si vuole stabilire, recuperando la dimensione dinamica, ineludibile del controllare, interpretare e comprendere e la fisionomia professionale di chi deve esercitare questo ruolo. Solo allora il tema di un impianto architettonico ed edilizio capace di rispondere a queste esigenze, data l’estrema inadeguatezza di molte carceri, riacquisterebbe significato; non certo presentandolo ora in versione emergenziale, con l’implicito messaggio che tutto il tema si riassume soltanto nell’avere un numero maggiore di posti. Punti di un programma di ripensamento: questo si voleva dal governo e questo avrebbe dato un segnale di comprensione della drammaticità che si vive oltre quelle mura. Questo non è quello di cui si è discusso nell’aula del Parlamento: neppure si è avuta una discussione ampia perché la paura di piccole lesioni lungo il muro di collaborazione della maggioranza ha fatto sì che si procedesse con il voto di fiducia, nonostante i tempi relativamente non stretti che separano dalla scadenza del decreto. E non vale la pena invece sprecare parole di dettaglio sui singoli provvedimenti, capziosi, inadeguati e inefficaci; anche se li si vorrebbe rivestire - così come paradossalmente ha richiesto il Dipartimento riunendo tutti i direttori e i provveditori - con una narrazione amica, che si nutra di selezionati interlocutori e di rassicuranti rappresentazioni di ciò che non è. Richiedere, come è stato fatto in una riunione recente, alle proprie diramazioni territoriali, in particolare ai direttori e ai comandanti, di andare all’interno delle sezioni per parlare spiegare, illustrare i timidi (e insufficienti) passi compiuti è condivisibile; ma chiedere di essere compartecipi di una rappresentazione edulcorata, citando anche associazioni amiche e altre ostili, giornali amici e giornali ostili, come anche è stato fatto, è intollerabile. Forse un’eco dello stesso vizietto che su temi politici generali veniva esplicitato in una conferenza stampa in estremo oriente dalla presidente del Consiglio. Bisogna vedere. Le celle tornino aperte ai media di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 8 agosto 2024 Centosessantadue detenuti morti dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane. Un numero impressionante se si considera che in tutto il 2023 i morti sono stati 157. In soli sette mesi il sistema penitenziario ha cumulato più morti di tutto lo scorso anno. Nel nostro tragico pallottoliere il numero dei suicidi arriva fino a sessantacinque, più almeno cinque con cause di decesso da accertare. Da decenni, e non si capisce perché, l’amministrazione penitenziaria prova a ridurre la portata numerica dei suicidi segnalando come morte da accertare o da overdose ogniqualvolta una persona muore dopo avere inalato il gas del fornelletto usato per cucinare. È questa una modalità con la quale le persone si tolgono la vita da sempre negli istituti di pena. Non si capisce come possa accadere ancora che solo in pochissime prigioni siano messe a disposizione le più sicure cucine a induzione e nella restante gran parte, invece, si continuino a usare i fornelletti da campeggio. È uno dei tanti segni della premodernità nella quale versa il sistema penitenziario, refrattario a innovarsi. I morti sono anche l’effetto di una pena che si vuole sia espiata in forma medievale, che sia vendetta pubblica. Ogni conteggio al ribasso dei suicidi serve solo a gettare polvere per evitare che si veda in quali condizioni drammatiche versano le carceri. Una condizione disumana nella quale manca lo spazio vitale (sono 14mila le persone in più rispetto alla capienza regolamentare), i detenuti sono costretti a stare chiusi nelle loro celle strapiene e senza adeguata ventilazione e refrigerazione fino a 20 ore al giorno, mancano psichiatri, psicologi, mediatori culturali, operatori sociali che possano prendere in carico i mille problemi di persone con problemi psichici, disagio, dipendenze da sostanze, solitudine e abbandono socio-sanitario. Il numero dei suicidi è dunque elevatissimo. In un Paese, l’Italia, che ha tra le persone libere un basso tasso suicidario, nelle galere ci si ammazza quasi venti volte di più che in libertà. Dunque, un fallimento per chi ha il dovere di custodia legale delle persone ristrette. Di fronte a questo fallimento, alle proteste dei detenuti, alla fatica immensa del personale penitenziario, a partire da direttori, poliziotti ed educatori, il governo reagisce criminalizzando ogni forma di protesta, anche nonviolenta, e disobbedienza. Se tutti coloro che hanno protestato nelle scorse settimane, minori o adulti, dovessero incorrere nel nuovo delitto di rivolta nonviolenta inserito dal governo nell’ultimo pacchetto sicurezza e rivendicato in ogni incontro pubblico del sottosegretario Delmastro, avremmo alcune migliaia di detenuti, una parte dei quali ragazzini, che rischiano di scontare fino a otto anni in più di galera. Altro che svuotacarceri. Dall’altro lato le misure proposte nel decreto legge non cambieranno sostanzialmente il volto e i numeri del carcere. Un decreto nel quale è comparsa la solita norma propagandistica sull’edilizia penitenziaria. Viene stanziato oltre un milione per finanziare la nuova struttura commissariale per l’edilizia carceraria. In sostanza si tratta di soldi per pagare consulenti e mobili da ufficio. Se non ci saranno inchieste (come è accaduto più volte nel passato), se il commissario e i suoi consulenti, ben retribuiti, saranno particolarmente efficienti, forse tra un lustro avremo qualche centinaio di posti. Un bluff, così come è un bluff raccontare la bufala del trasferimento dei detenuti stranieri nei loro Paesi. A parte che nell’area della Ue, per quanti ne possiamo trasferire altrettanti detenuti italiani all’estero verrebbero rimandati in Italia, va detto che non ci sarà Paese povero che si riprenda persone da custodire nelle proprie galere. Nel frattempo nelle carceri c’è sofferenza, morte, fatica. In un agosto che in carcere si presenta feroce si spera che almeno due cose possano accadere. La prima riguarda la Polizia penitenziaria. Si sentono voci importanti da parte di alcuni sindacati che si differenziano dalla narrazione proposta da altre organizzazioni molto vicine alle destre di governo. Queste voci e quelle dei tanti operatori di frontiera devono moltiplicarsi: no a un sistema che toglie dignità a custoditi e custodi. Una dignità che non si riacquista con qualche decina di euro o con un numero insufficiente di assunzioni. La seconda riguarda il mondo dei media. Insieme al manifesto anni addietro lanciammo una campagna perché i giornalisti potessero entrare in carcere e documentare le condizioni tragiche di vita dentro gli istituti. Il carcere aperto ai media è durato qualche anno. Ora siamo tornati all’opacità, alla negazione per le telecamere di entrare nelle sezioni. Ci appelliamo all’Agcom, a tutte le forze parlamentari perché spingano il ministero della giustizia a far entrare i giornalisti, anche con le telecamere, nelle sezioni di Regina Coeli a Roma, San Vittore a Milano, Dozza a Bologna, Poggioreale a Napoli, Sollicciano a Firenze e raccontare cosa significa vivere in un carcere affollato che degrada le persone a cose, che produce morte e inutile sofferenza. *Presidente Associazione Antigone Il dramma carceri senza amnistia di Michele Ainis La Repubblica, 8 agosto 2024 Ecco il tabù che nessuno osa più infrangere. Dall’abuso al disuso. Alle nostre latitudini succede di frequente, non ci piacciono le mezze misure. Ma in questo caso la misura estrema - per eccesso o per difetto - colpisce un istituto regolato dalla Costituzione, e colpisce altresì i principi costituzionali sulla funzione rieducativa della pena, sulla dignità che spetta anche ai detenuti, sul divieto di trattamenti disumani. Amnistia, ecco il tabù che nessuno osa più infrangere. Anche se i suicidi in carcere hanno toccato un picco (60 già quest’anno), il sovraffollamento pure (130 per cento, con punte del 177 per cento nelle prigioni minorili), mentre crescono gli atti di autolesionismo (184 in più rispetto al 2023), le risse, le rivolte. Una condizione che il presidente Mattarella ha definito “straziante”, oltre che indegna d’un popolo civile. Del resto lo diceva già Voltaire: “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Ma si misura anche dai rimedi che lo Stato sappia offrire rispetto all’emergenza, ed è qui che viene in soccorso l’antico istituto dell’amnistia. I romani lo mutuarono dall’esperienza greca, sicché nei libri di storia si ricorda quella decretata da Trasibulo dopo aver liberato la Grecia dai trenta tiranni, o quella che propose Cicerone per sedare gli effetti delle guerre tra Cesare e Antonio. Amnistie politiche, come il provvedimento di clemenza approvato in Spagna a fine maggio, a beneficio degli indipendentisti catalani. O pochi giorni fa nel Nordest della Siria, per ridurre le pene inflitte ai cittadini imprigionati per terrorismo, spesso senza accusa né processo. Ebbe un timbro politico, d’altronde, anche la prima amnistia della nostra storia nazionale, concessa il giorno stesso dell’unificazione: 17 marzo 1861. Così come la celebre amnistia firmata da Togliatti il 22 giugno 1946, con cui fu battezzata la Repubblica italiana. Seguita poi da un nuovo provvedimento di clemenza nel 1948, quando l’Assemblea costituente concluse il suo lavoro. Ma il perdono di Stato, in Italia, non cadeva soltanto nei giorni di festa. Per molto, molto tempo l’uso diventò un abuso, sovvertendo la massima di Jeremy Bentham, che ammoniva a fare buone leggi anziché creare “una verga magica che abbia il potere di annientarle”. E infatti: quante amnistie vennero elargite nei primi 150 anni di storia patria? 333, una ogni semestre. E a scartabellare fra i loro destinatari, fra i reati perdonati, se ne trovano della più varia risma. Come l’”esportazione interprovinciale degli animali bovini” (condonata nel 1920). Il taglio degli ulivi e l’abbattimento dei gelsi (sempre nel 1920). La “coltivazione di tabacco nell’isola di Sicilia” (nel 1867). Le infrazioni alla legge sulla requisizione dei quadrupedi (amnistie del 1890 e del 1891). L’evasione dell’imposta sul consumo di vino (nel 1921). Il furto di legna, su cui il giovane Marx scrisse nel 1842 una pagina indignata, e che cinquant’anni dopo venne amnistiato dal nostro giovane regno. O infine come il tormentone che ha messo in fila sei provvedimenti di clemenza, dal 1871 al 1951: il matrimonio dei militari “contratto senza la prescritta superiore autorizzazione”. Del resto persino il fascismo, nonostante la sua faccia cattiva, non fece mai mancare agli italiani la loro dose di perdono: in vent’anni le amnistie, gli indulti, le sospensioni della pena furono in tutto 51. Dopo di che interviene una cesura, un taglio netto. Dal troppo al nulla, com’è nei nostri costumi. Succede nel 1992, quando le Camere riscrivono l’articolo 79 della Costituzione. In precedenza, nel testo firmato dai costituenti, per licenziare un’amnistia o un indulto bastava un decreto del presidente della Repubblica, dopo una legge di delegazione. Ora occorre una decisione parlamentare adottata a maggioranza dei due terzi. Attenzione: è una soglia più alta di quella richiesta per qualsiasi revisione costituzionale. Significa che il Parlamento può trasformare il presidente del Consiglio in un monarca, basta raggiungere la maggioranza assoluta; ma deve coinvolgere buona parte delle opposizioni per contrastare il sovraffollamento carcerario con una misura di clemenza. Un paradosso costituzionale, forgiato sulla scia di Tangentopoli, nel clima giustizialista che si respirava in quegli anni. Ma intanto l’ultima amnistia risale al 1990, l’ultimo indulto al 2006. E nel frattempo l’amnistia è divenuta una parola impronunziabile, sia a destra che a sinistra. Eppure non si tratta di liberare con qualche mese d’anticipo schiere di rapinatori e d’assassini. In galera ci vanno per lo più tossici e immigrati, per reati minori. O per i nuovi reati che il governo in carica sta fabbricando a giorni alterni (almeno 15, ma il conto è viziato per difetto). Mentre un disegno di legge all’esame della Camera vorrebbe aggiungervi il delitto di “rivolta” carceraria, punendo un gruppo di tre detenuti che non rientri in cella perché vorrebbe rappresentare al direttore una condizione di disagio. E mentre la cancellazione dell’abuso d’ufficio si risolve in un’amnistia di fatto per 3 o 4 mila pubblici ufficiali, come ha denunziato l’Anm. Facciamone dunque una campagna, una lotta, una battaglia. I diritti o sono di tutti o di nessuno. Quei bimbi in cella in nome dell’ideologia di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 8 agosto 2024 Nelle carceri italiane spezzate dal sovraffollamento, dal caldo torrido, dalla mancanza di servizi ci sono, in questo momento, in tempo di vacanze estive, sole, mare, montagna, 24 bambini. Ventiquattro bambini piccoli e anche piccolissimi: 6 all’Icam delle Vallette a Torino, due in quello di Venezia, due nella sezione nido di Rebibbia, quattro nell’Icam di Lauro in Campania, sei in quello di San Vittore, tre nel carcere di Bollate, uno in quello di Lecce. È un conteggio che la Stampa non si stanca di tenere perché è un conteggio disumano. Significa questo, il carcere, per un bambino: una cella come casa, sbarre che si chiudono a un’ora predefinita, entrate e uscite - quando un po’ più grandi - regolate dalla presenza dei volontari e delle associazioni. Una a settimana, spesso. Ma ve lo immaginate un bambino che esce dal carcere solo una volta a settimana? Magari verso il mare e la spiaggia, un paio d’ore, ma poi si torna indietro. Significa vista rovinata dalla luce artificiale, dimensione dello spazio alterata, legame con la madre messo a rischio per sempre quando si realizza - succede negli Icam, dove i bambini possono restare fino a dieci anni - che quella che si sta espiando è la sua colpa. Che il motivo per cui si è rinchiusi sono i suoi errori. Finora in carcere si poteva entrare, tranne casi particolari, a partire da un anno. Adesso, con le norme volute dalla maggioranza guidata dalla Lega di Salvini, ossessionata dalle borseggiatrici incinte, può accadere prima. Quando si è ancora in pancia, o nei primi dodici mesi di vita: il ddl sicurezza ha cancellato l’obbligo del differimento della pena in questi casi. Il risultato è che, quando entrerà in vigore, il numero di bambini in carcere tornerà a crescere. Era diminuito in tempi di Covid, quando si è capito che le norme cui appellarsi per far scontare alle madri le pene in posti più umani di una prigione c’erano. Solo che nessuno le applicava. A marzo scorso una ragazza di ventisei anni ha perso il suo bambino nel carcere di Sollicciano, a Firenze, per complicazioni della gravidanza. Era successo a San Vittore nel 2022. Nel 2019 a Pozzuoli. A Rebibbia nel 2021 una donna ha partorito in cella aiutata dalla compagna di stanza. Nel 2018 un’altra che in carcere non avrebbe dovuto stare, perché malata di mente, non era stata visitata in tempo. L’hanno messa in cella con i figli di 19 e 6 mesi: li ha uccisi scaraventandoli dalle scale. Ho visto quelle scale, ho visto quelle celle e i bambini che giocano con le chiavi delle assistenti e implorano: “Apri”. Come me le hanno viste i parlamentari che chiedono da anni di fare quello che le leggi già consentirebbero: permettere a quelle donne di scontare la loro pena, tutta la loro pena, in case famiglia protette. Ce ne sono due per ora, una a Roma e una a Milano. Lì i bambini possono essere inseriti in un tessuto urbano normale, non ci sono celle, sbarre, chiavi. E no, non ci sono evasioni, ma c’è spesso una seconda possibilità per donne a loro volta, quasi sempre (parlate con le operatrici in carcere, se non ci credete) vittime di tratta, abusi, sfruttamento. Ieri lo hanno ripetuto in aula Debora Serracchiani, Maria Elena Boschi, Riccardo Magi. Il Pd aveva presentato un ordine del giorno al decreto carceri che impegnava il governo a finanziare le case famiglia e permettere di scontare la pena alle detenute madri - e ai loro figli - in contesti più sani per loro. Non si stava chiedendo di liberarle, non si chiede di annullare le pene, solo di fare uno sforzo di civiltà. Il governo aveva inizialmente dato “parere positivo con riformulazione”, la leghista Simonetta Matone, che in commissione aveva strenuamente difeso le ragioni della stretta, ha chiesto di sottoscrivere quello stesso ordine del giorno, ma era una provocazione. Il deputato Lacarra non l’ha raccolta, lei è esplosa tra gli applausi dei suoi: “È meglio stare dentro la metropolitana a rubare, al settimo mese di gravidanza, o è meglio stare in un Icam, con il medico, il puericoltore, il ginecologo?”. Risultato: il governo ha ritirato il parere positivo, si torna a fare la guerra sui più fragili tra i fragili, senza neanche provare a venirsi incontro. Matone dipinge un mondo in cui tutte le detenute madri sono ladre di etnia rom, falso, come si potesse farne una questione razziale. E in cui gli Icam - gli istituti nati proprio per loro, ma che sempre carceri restano - sono posti tutto sommato niente male. Falso, e se potessero glielo spiegherebbero quei bambini, le loro sofferenze, la loro vita segnata dal dolore e dalla colpa. Nella battaglia ideologica di norme come questa, che servono solo alla propaganda cattivista tanto in voga, ci si dimentica che mentre i parlamentari sono pronti a partire per le vacanze, nelle celle italiane resteranno 24 bambini e altri ne entreranno. Il ministro della Giustizia Nordio ha chiesto al presidente Mattarella un incontro sulla situazione fuori controllo nelle carceri. Chissà se di quei bambini stavolta si ricorderà, o se continuerà a proporre ricette che non aiutano nessuno. Carcere, l’impresa più difficile del tempo presente di Nicola Boscoletto Avvenire, 8 agosto 2024 Uno dei fondatori della Cooperativa sociale Giotto di Padova, che da oltre 30 anni da lavoro ai detenuti, interviene sulla grave situazione dei penitenziari italiani. Scusate, ma non me la sento di parlare del decreto carceri nel suo complesso, anche perché vorrebbe dire praticamente parlare del nulla, se non addirittura del peggio, almeno in alcune parti. Una sola cosa spero possa trovare una sua giusta e rapida soluzione che è la previsione delle comunità, cosa tra l’altro non nuova in sé. Per chi conosce questo mondo, è a dir poco evidente che il decreto è stato pensato e scritto da chi di carcere non sa niente e da chi ha qualche interesse da giocare, anche il non cambiare niente può esprimere degli interessi. A queste persone chiedo di avere il coraggio di fare l’esperienza vera (e non una gita di qualche ora) di trascorrere il mese di agosto in una “camera di pernottamento” (cella) da 2 dei nostri resort penitenziari. Non dico in una camera di pernottamento da 16, anche perché chiedere un mese sarebbe troppo. Una maggior conoscenza, unita alla consapevolezza che il carcere non aiuta minimamente a diventare migliori, farebbe capire perché siamo in molti a ripetere che oggi “in carcere meno si entra e prima si esce” meglio è, perché aiuterebbe la persona a non diventare peggiore e a non andare ad ingrossare la pattumiera dei recidivi. Capite quanto grave sia che ad alimentare la delinquenza, a rendere più brutte e cattive le persone, sia lo Stato stesso, quello stesso Stato che invece dovrebbe prendersene cura. È una evidenza palpabile e visibile anche ad un cieco il fatto che il carcere invece di guarire fa ammalare e che se vi entri con un raffreddore ti fa uscire con la broncopolmonite (meglio rimanere raffreddati). Chi agisce senza aver capito questa cosa produce tanto male e tanta sofferenza a tutti non solo alle persone detenute. Il carcere è diventato “una cloaca che non spurga”: pensate che oggi, pur rimanendo cloaca, c’è chi chiede semplicemente di spurgarla! Incredibile, ma andiamo avanti: “un carcere quando è così abbandonato diventa un lager”. Sono parole che ho preso in prestito da un dirigente dell’amministrazione penitenziaria (speriamo faccia carriera). Questa espressione si aggiunge a tante altre, in particolare a quella che ultimamente ritorna più spesso e che uso anch’io: cioè che “il carcere oggi è diventato una discarica indifferenziata”. Perfino i rifiuti li differenziamo per recuperare il più possibile da essi ciò che si può riciclare, riducendo al massimo gli scarti, cercando di buttarli via il meno possibile (non si fa altro che parlare di economia circolare e generativa, di criteri ambientali e sociali, di governance: ESGR). In carcere ahimè c’è una unica e grande pattumiera che è quella del secco, che normalmente va a finire nell’inceneritore, un po’ come avveniva nei campi di concentramento. Le responsabilità dei politici Era così anche prima di questo governo? Certo che sì, è da decenni che le carceri sono abbandonate a sé stesse (dalla politica e da chi è messo a governarle), tranne quando sono utili a portare avanti alcuni interessi. Ad esempio, alla politica (sarebbe più corretto dire ai politicanti) servono per crearsi consenso parlando alle pance della gente (qualcuno in queste settimane ha definito la necessità di punire una “dipendenza”: ricordiamoci però che dalle dipendenze bisogna curarsi. Se le carceri non sono ancora esplose del tutto dobbiamo ringraziare un manipolo di persone per bene, preparate e dedite al compito loro affidato: questo in ogni settore dell’amministrazione penitenziaria, della magistratura di sorveglianza, della sanità, dell’istruzione e dell’università, degli organi di controllo e permettetemi da ultimo, ma di fondamentale importanza, grazie alla grande muraglia del terzo settore cui, anziché togliere gli ostacoli per meglio operare, viene invece resa difficile la vita (povero art. 3 della Costituzione). Servire lo scopo cui le carceri sarebbero vocate è rimasto residuale, nella sostanza oggi non ha alcuna priorità. Ricordo il titolo di un libro proprio sul carcere e la pena uscito alcuni anni fa scritto da un giornalista e da un magistrato di grande spessore professionale e umano: “Vendetta pubblica”. Ma significativa risulta essere anche la più recente nota del vescovo di Trieste Enrico Trevisi il giorno dopo la rivolta scoppiata al carcere a Trieste: “Le persone sono in carcere perché non hanno rispettato la legge, ed ecco che è un controsenso se poi lo Stato non rispetta le Leggi che regolamentano il carcere e i carcerati. Ora occorre agire”. “La situazione dei carcerati in Italia è impressionante, occorre invertire la tendenza di aumentare i reati a cui corrispondono pene detentive per inventare altre modalità di pene, che meglio corrispondono a quanto previsto anche dalla nostra Costituzione”. O come non ricordare il lavoro preciso, qualificato, puntuale e super partes, svolto ahimè fino a poco fa, dal Garante Nazionale Mauro Palma. Non è un problema di destra o di sinistra, è da almeno 34 anni che opero in questo mondo e tutti più o meno, fatta eccezione per poche persone, se ne sono serviti. Alcuni per la propria carriera, altri per interessi di parte e altri purtroppo non sono proprio adeguati. Nei decenni precedenti a questo governo si sarebbero potute fare tantissime cose che non si sono fatte o si sono fatte in maniera tiepida. Non si ha avuto il coraggio di farle fatte bene e inoltre le persone che venivano coinvolte in ruoli importanti e decisivi quasi sempre erano semplicemente fuori posto (esattamente come oggi), creando in alcuni casi gravi danni al sistema, penso ad esempio al tema del lavoro. Ognuno deve “fare, fare bene e saper far fare bene” quello in cui è preparato e ancora non basta perché questo è un ambito in cui serve fortemente crederci ed avere una grandissima motivazione: un grande amore per quello che si fa. Amare sé, amare gli altri e amare il proprio lavoro. In tutti questi decenni (secoli) tutto sembra cambiare, ma in realtà in carcere nulla cambia a livello del riconoscimento della dignità della persona, tanto detenuta quanto operatore penitenziario (è di questi giorni il settimo suicidio di un agente della polizia penitenziaria). Ma oggi una piccola differenza c’è tra tutti quelli che hanno governato e gestito le carceri in questo trentennio ed il governo attuale: prima, pur nel disastro più totale, ogni tanto un po’ di acqua quando la casa bruciava veniva buttata, oggi sul fuoco si sta buttando in maniera irresponsabile e colpevole solo benzina. Hai trovato una situazione fallimentare? Parti da lì, salva il buono e inizia a cambiare piano piano tutto il negativo. Piano piano, consapevoli che, se si partisse oggi con cambiamenti coerenti con lo scopo (dettato costituzionale), ci vorrebbero 30/50 anni. Non può essere che il perseguimento di un bene sia così totalmente diverso schieramento da schieramento, salvo che ad essere perseguiti, anziché il bene delle persone e della società, siano invece interessi e convenienze di parte in base alla “banda” cui appartieni. C’è un punto importante di cui nessuno vuole parlare e che riguarda “la GOVERNANCE”. Il che equivale a mettere in discussione tutto il sistema per trovare una soluzione più adeguata e rispettosa della mission. Per essere chiari: non ci si può non porre una domanda se oggi la cosa più corretta sia che si continui ad affidare la gestione delle carceri al Ministero della Giustizia, o solo al Ministero della Giustizia. Questi decenni hanno dimostrato che ha fallito. Come pure che il sistema DAP ha miseramente fallito, come pure non possiamo non porci la domanda se sia o no adeguato affidare ai magistrati la gestione delle carceri. Porsi delle domande e non scaricare sugli altri, in modo particolare quando le cose non funzionano o addirittura si rivelano un fallimento, è segno di sanità mentale. Serve una svolta È il continuo porsi delle domande che alimenta la ricerca continua di soluzioni e di soluzioni nuove, modalità capaci di tirarti fuori dalla “malattia della autoreferenzialità”. Se non è questa la modalità ad essere messa in pratica, succede quello che spesso ricorda papa Francesco: “L’isolamento è pericoloso. Bisogna fare molta attenzione a preservarsi dalla malattia dell’autoreferenzialità ... “Siete ben consapevoli di trovarvi tutti sulla stessa barca” ... “sorella acqua, che è utile, umile, preziosa e casta quando è acqua corrente, ma che, se ristagna, imputridisce e puzza”. L’esecuzione penale è altra cosa dal processo penale, dall’accertamento della verità e della colpa (anche se in questo ambito ci sarebbe bisogno di un approccio e di una testimonianza di spessore come fu quella del giudice Rosario Livatino): nel percorso dell’esecuzione penale le uniche figure del mondo della giustizia che hanno un senso sono i magistrati di sorveglianza, a patto che siano preparati ma soprattutto che amino questo lavoro (e fortunatamente ce ne sono) e che abbiano la consapevolezza che la vita di altri uomini e donne (famigliari compresi, spesso vittime innocenti) sono nelle loro mani. Tutti o quasi tutti, e qui metto anche quelli che cercano di cambiare in meglio il sistema carcere, tutti rimaniamo concentrati su tutte le conseguenze, sui singoli problemi, che per il mondo del carcere sono infiniti. Ci concentriamo di fatto su singole problematiche, in un approccio verticale cosiddetto a silos, che nulla ha a che vedere con la natura del problema che oggi stiamo vivendo. Invece, occorre prioritariamente concentrarsi sulle cause di una gestione fallimentare che va, ripeto, sotto il nome di Governance. La responsabilità di ciascun cittadino Non si può dire ed essere tutti d’accordo che il sistema è malato, che ha fallito ed il minuto dopo girarsi dall’altra parte e fare finta di niente. Se da un ospedale nove pazienti su dieci escono morti, se in una scuola nove studenti su dieci vengono bocciati, se ogni dieci ponti o case costruite nove crollano, non sarà mica colpa dei malati, degli studenti, delle case e dei ponti? Nel calcio vale il detto “squadra che vince non si cambia”: non credo che per la giustizia valga quello contrario “squadra che perde si valorizza”. Se non si interviene a questo livello il male che verrà fatto alla società in termini di sicurezza sociale (educazione, rispetto, crescita del bene comune, etc.) e di costo economico sarà devastante. Ciò che da tempo è avvenuto nel resto del mondo a questo livello, cioè in negativo, sembra non aver insegnato niente e, sia chiaro, non mi sto riferendo a concezioni diverse di carcere ma a dati statistici della realtà: è un problema di ragione, di un utilizzo corretto della ragione, perché se uno prima di me ha già abbondantemente sperimentato una cosa di cui si vedono i risultati (come numeri, come diversità di territori e nel tempo), non usare e fare tesoro di questi risultati è proprio diabolico. Ora parlare di formazione e lavoro (vedi gli slogan: “tutti devono lavorare così si abbatte del tutto la recidiva”), come pure di trattamento più in generale, senza partire dall’affrontare le cause e perciò leggere correttamente il contesto in cui versano le carceri e ciò di cui c’è veramente bisogno, equivale a parlare tanto per parlare o ad andare avanti a slogan ormai vecchi e consumati. Dico questo perché non è che mi voglio sottrarre dall’affrontare questi temi, ma perché sono consapevole che serve parlarne con conoscenza e competenza. Solo dopo che è stato affrontato il tema della causa delle cause e cioè della GOVERNANCE sarà più facile affrontare i singoli problemi. Per riuscire ad affrontare veramente e non per finta il problema della governance occorre una svolta epocale che si può fare a partire dalle piccole cose che ciascuno di noi può fare e deve fare, non è più il momento delle procedure, dei protocolli, delle circolari (per carità facciamole più giuste possibili e coerenti con lo scopo), ma oggi è più che mai necessario prioritariamente che a cambiare siano le persone, il cuore di ciascuno di noi, solo così poi si sarà in grado di cambiare e correggere veramente il sistema. A questo proposito mi viene alla mente un pensiero di una grande donna, Etty Hillesum “Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza avere prima fatto la nostra parte dentro di noi”. Non si lavora per star male, per ammalarsi, fino ad uccidersi e per farsi la guerra: si lavora e si fatica per star bene ed essere felici, se non è così rimane solo l’inferno. Sia chiaro che quello che dico si riferisce a quello di cui ho conoscenza ed esperienza e cioè la vita in carcere, non mi permetterei mai di dire cose così precise e a tratti dure se non ne avessi contezza. Non faccio parte della schiera dei tuttologi o di chi in carcere va a fare le gite cercando di farsi un po’ di pubblicità. Il mio giudizio non è su tutto né tantomeno a favore o contro la destra o la sinistra e, siccome la responsabilità è personale, ognuno risponderà delle proprie azioni e scelte tanto alla storia che a Dio. Dobbiamo concepire le nostre scelte, tutte le scelte sempre perfettibili e non assolute, nessuno ha la verità in tasca, l’unica cosa certa è che ci si salva assieme. Le cose nel tempo possono cambiare al cambiare di tantissimi fattori. Sono convinto che nella vita tutto è un tentativo, ripeto perfettibile, e che per stare assieme e per essere amici non è necessario pensarla su tutte le cose sempre allo stesso modo, anche perché sarebbe impossibile e disumano. Da ultimo faccio un appello ad alcuni amici o persone che conosco che sono impegnati in politica praticamente in quasi tutti i partiti o con ruoli dirigenziali importanti: non rinunciate per la carriera alle vostre idee, ai vostri valori, agli ideali (dai quali se non oggi almeno da giovani eravate mossi) cioè alla vostra dignità e tantomeno non cadete mai nell’errore di pensare di salvare il mondo. Quando si entra in politica o si arriva a determinati incarichi la prima cosa di cui preoccuparsi è di non perdere sé stessi e la propria dignità. Torna alla mente una frase del vangelo più attuale che mai che vale tanto per chi crede e chi no: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina sé stesso?”. Più persone con questa statura, a prescindere dalla loro appartenenza politica, sono la vera possibilità di creare un mondo dove poter cercare di vivere con meno problemi e con un po’ di più di serenità. L’articolo sul sito di Avvenire: https://www.avvenire.it/attualita/pagine/carcere-fare-bene-il-bene Affettività, governo pronto a “riconoscere il diritto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 agosto 2024 L’odg presentato da Magi (+Europa) prima accantonato e poi modificato. Sventato un incidente costituzionale senza precedenti: il governo aveva chiesto a Magi di escludere le premesse dell’odg sull’affettività. Scampato un vero e proprio incidente costituzionale senza precedenti. In una mossa che ha suscitato stupore, martedì notte il governo ha chiesto al Parlamento di escludere le premesse dell’ordine del giorno sull’affettività dei detenuti presentato dal deputato Riccardo Magi di +Europa, impegnandosi nel “valutare la possibilità” di rispettare o meno le indicazioni dalla Corte Costituzionale. Questa richiesta è avvenuta nel contesto della discussione sul “Decreto Carceri”, ritenuto da più parti completamente inefficace per risolvere l’emergenza penitenziaria, su cui l’esecutivo ha posto la fiducia, impedendo di fatto la discussione degli emendamenti proposti in commissione. Magi ha risposto al sottosegretario Delmastro sottolineando che probabilmente si è trattato di una svista, visto che l’ordine del giorno non prevede altro che il rispetto della sentenza della Consulta, ed è “davvero incredibile che il governo intenda chiedere al Parlamento di essere autorizzato a valutare l’opportunità di rispettarla”. A quel punto, c’è stato un accantonamento per una rivalutazione, e grazie all’osservazione del deputato di +Europa, il governo lo ha riformulato con l’impegno a “garantire ai detenuti e agli internati il diritto a una vita affettiva”. Sarebbe stata la prima volta che l’esecutivo chiede non solo di rimuovere le premesse dell’ordine del giorno, ma anche di modificare il dispositivo in modo da impegnare il governo semplicemente “a valutare la possibilità” di attuare quanto stabilito dalla sentenza della Corte Costituzionale. Parliamo della n. 10/2024 che ha rappresentato una svolta significativa nel riconoscimento del diritto all’affettività dei detenuti. Vale la pena ricordare le affermazioni di principio riportate dai giudici costituzionali: “L’impossibilità per il detenuto di esprimere una normale affettività con il partner si traduce in un vulnus alla persona nell’ambito familiare e, più ampiamente, in un pregiudizio per la stessa nelle relazioni nelle quali si svolge la sua personalità, esposte pertanto ad un progressivo impoverimento, e in ultimo al rischio della disgregazione. Una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa. Da questo punto di vista si evidenzia la violazione dell’articolo 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa. L’intimità degli affetti non può essere sacrificata dall’esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all’obiettivo della risocializzazione. Il perseguimento di questo obiettivo risulta anzi gravemente ostacolato dall’indebolimento delle relazioni affettive, che può arrivare finanche alla dissoluzione delle stesse, giacché frustrate dalla protratta impossibilità di coltivarle nell’intimità di incontri riservati, con quell’esito di “desertificazione affettiva” che è l’esatto opposto della risocializzazione”. Affermazioni contenute nella motivazione della sentenza n. 10 del 2024 della Consulta, investita dal magistrato di Sorveglianza di Spoleto della questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) “nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia”: ciò in riferimento agli art. 2, 3, 13, primo e quarto comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, 32 e 117, primo comma, della Costituzione. L’accoglimento della questione da parte della Corte costituisce una vera e propria rivoluzione culturale nella concezione stessa della pena detentiva, vista non più come una necessaria e totale privazione dei diritti del condannato, ridotto ad essere una non-persona quanto alla dimensione affettiva della sua stessa esistenza. Non va infatti taciuto che la Corte ha significativamente considerato non solo la sfera sessuale, ma l’intera sfera affettiva delle persone condannate e delle persone che con esse hanno rapporti di coniugio, di unione ed anche di semplice convivenza. Osserva infatti la sentenza che la compressione - sino all’annullamento - del diritto all’affettività dei detenuti si riverbera necessariamente sui loro partner, costretti a subire, anche per periodi lunghi di tempo, una restrizione senza avere avuto colpa alcuna. La Corte ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che i detenuti possano avere colloqui senza il controllo a vista del personale di custodia con il coniuge, il partner dell’unione civile o la persona stabilmente convivente. L’ordine del giorno di Magi, basandosi su questa sentenza e sul confronto con altri ordinamenti europei più avanzati in materia, impegnava il governo a garantire ai detenuti, in tutti gli istituti penitenziari, il diritto a una visita mensile di almeno sei ore con le persone autorizzate ai colloqui, in apposite unità abitative senza controlli visivi e auditivi. La richiesta iniziale del governo di modificare sostanzialmente questo impegno appariva alquanto singolare e sarebbe apparsa come un tentativo di diluire l’efficacia della sentenza della Consulta e di rallentare l’implementazione di misure concrete per garantire il diritto all’affettività nelle carceri italiane. Riccardo Magi ha espresso forte disappunto, e fortunatamente il governo lo ha recepito, riformulando l’ordine del giorno. D’altronde non si sta parlando di una possibilità da valutare, ma di un diritto che deve essere garantito nel più breve tempo possibile. La questione si inserisce in un più ampio dibattito sulla riforma del sistema carcerario italiano e sul rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. Mentre altri paesi europei, come Francia, Spagna e Germania, hanno già implementato misure simili, l’Italia sembra faticare ad adeguarsi agli standard internazionali in materia di diritti dei detenuti. La Corte Costituzionale sancisce come il riconoscimento effettivo del diritto all’affettività sia cruciale non solo per la dignità dei detenuti, ma anche per il loro percorso di reinserimento sociale. Benzoni: “I veri problemi sono ignorati. Nessun intervento su lavoro e salute” di Matteo Marcelli Avvenire, 8 agosto 2024 Intervista al deputato di Azione: “Tradite le funzioni che la Costituzione assegna alla pena. Con nuovi reati ogni giorno la situazione non cambierà”. Fabrizio Benzoni, deputato di Azione, da tempo attivo sul tema carceri, cosa non la convince di questo decreto? Non affronta il problema vero e per la situazione che abbiamo questo è inaccettabile. E non parlo del sovraffollamento, che è solo la punta dell’iceberg. L’emergenza suicidi non è frutto del sovraffollamento, ma di un sistema carcerario che non risponde alle funzioni che gli assegna la Costituzione. Per tante ragioni, alcune storiche, altre riconducibili all’attuale governo. Questo decreto non ne affronta nessuna. Può indicarne alcune? Quando usciamo dai numeri, parlo dei 64 suicidi nell’arco dell’anno, ed entriamo nelle storie, capiamo che c’è qualcosa che non va. Tra questi decessi c’è qualcuno che si è suicidato il giorno del suo compleanno a 3 settimane dalla scarcerazione. Se dopo 3 anni di detenzione non riesci a sopportare gli ultimi giorni, significa che hai paura di uscire, perché il carcere non ti ha dato gli strumenti per rifondare la tua vita. Faccio poi notare che di questi 64 suicidi, 15 si sono verificati nei primi 15 giorni di detenzione, 5 nei primi 3. In molti casi i detenuti erano in attesa di giudizio, quindi innocenti fino a prova contraria. Cos’altro manca nel testo? Non si citano mai le parole “lavoro” e “formazione”. Secondo il Censis, il 70% di chi esce dal carcere reitera il reato nell’arco di pochi mesi. Ma solo il 2% di chi ha avuto la possibilità di lavorare e formarsi ci torna. Se ti formi, il giorno che esci hai una cooperativa che ti conosce, un mestiere. Puoi trovare lavoro, ricominciare a vivere. Altrimenti l’unico approdo che hai è il compagno di cella uscito prima di te. Un decreto che vuole affrontare il problema del carcere ma non immagina e non nomina neanche il lavoro e la formazione è destinato al fallimento. Perché sono così pochi quelli che possono lavorare? Prima di tutto non ci sono incentivi adeguati per poter inserire le aziende all’interno delle carceri. Poi non ci sono gli spazi, perché le strutture sono vecchie, non sono immaginate per questo. Infine, anche dove ci sono i laboratori, spesso non sono aperti perché non c’è un numero adeguato di operatori di polizia penitenziaria per sorvegliarli. Ma il decreto prevede nuove assunzioni? È l’unica parte buona, tenendo conto del fatto che gli agenti sono sottodimensionati in tutte le carceri italiane. Anche le risorse sono inadeguate? Sì e soprattutto non finanziano le misure che servono. A parte il reinserimento, manca tutto ciò che riguarda la sanità e la salute psichiatrica. In tutte le carceri in cui siamo andati i problemi maggiori sono due: la mancanza di un presidio sanitario adeguato e l’altissima percentuale di dipendenze, non solo da stupefacenti ma anche da psicofarmaci. Le diagnosi psichiatriche sono tantissime, ma gli psichiatri in alcuni casi ci sono solo una volta a settimana e cambiano continuamente, questo non garantisce la continuità terapeutica. Nel dl c’è l’idea di finanziare qualche casa di comunità, le Rems. Ma è una soluzione tampone e per i numeri che vediamo l’obiettivo che si dà è distante anni luce da quello che dovrebbe essere. Cosa ne pensa della pdl Giachetti e dell’ennesimo rinvio del governo? Era una grande occasione per una risposta immediata anche se non sistemica. Era necessario votarla, almeno per dare un segnale. Perché possiamo anche svuotare le carceri, ma se ogni giorno il governo crea nuovi reati o penalizza comportamenti, non farà che aumentare la popolazione carceraria e torneremo presto alla situazione attuale. I Garanti territoriali incontrano il ministro Nordio garantedetenutilazio.it, 8 agosto 2024 La Garante di Roma Capitale, Calderone: “Apprezziamo la disponibilità, ma le misure urgenti di cui il sistema penitenziario ha bisogno adesso non sono state prese in considerazione”. Dopo la richiesta di un incontro con il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, da parte del Portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello, oggi il ministro, insieme al viceministro Francesco Paolo Sisto, hanno ricevuto il Portavoce e alcuni membri del Coordinamento della Conferenza nazionale dei Garanti, vale a dire il Garante regionale del Piemonte, Bruno Mellano, la Garante comunale di Roma Capitale, Valentina Calderone, e la Garante comunale di Parma Veronica Valenti. Per il Portavoce della Conferenza nazionale, nonché Garante della regione Campania delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello: “È stato un momento importante di dialogo, gli abbiamo presentato il nostro documento, elencando le criticità rispetto al sovraffollamento, al numero di suicidi e ai tentativi di suicidio, ai diritti e alla dignità dei diversamente liberi, alla carenza del personale anche degli Istituti penali per i minorenni, ai ritardi della magistratura di sorveglianza per le misure alternative al carcere. Il Ministro Nordio ci ha dato un nuovo appuntamento, da qui a un mese, per vederci di nuovo al Ministero della Giustizia per un aggiornamento su quanto discusso, per mettere in campo il potenziamento di figure sociali, circolari che aiutano i detenuti ad uscire dalle celle. Vedendo i dati che ci ha prospettato, ha confermato che circa 5.000 persone detenute potrebbero uscire immediatamente dal carcere se la Magistratura di sorveglianza decide qui e ora su misure alternative o liberazione anticipata. Su questa proposta, su come dialogare di più ed essere più efficaci con la magistratura, il ministro Nordio ha accettato di essere presente ad un convegno nazionale indetto dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali per discutere sulle misure alternative al carcere, insieme ai magistrati di sorveglianza, agli operatori del terzo settore e al mondo del volontariato”. Le dichiarazioni dei membri del coordinamento della Conferenza All’uscita del ministero della Giustizia i membri del coordinamento della Conferenza hanno dichiarato quanto segue. Il Garante regionale del Piemonte Bruno Mellano, coordinatore del Forum dei Garanti regionali: “Abbiamo potuto dire al Ministro Nordio e al Viceministro Sisto che c’è una fiducia e un’attesa della comunità penitenziaria, fatta di detenuti e detenenti, in particolare rispetto alle loro figure, le loro spalle, le loro teste, le loro responsabilità. Trovare qui ed ora gli strumenti straordinari ed urgenti di intervento. La situazione delle carceri per sovraffollamento, per tensioni per difficoltà di gestione con il caldo estivo e con la sospensione di fatto delle attività di questo periodo, il numero dei suicidi crescenti, chiede a loro in primo luogo come responsabili apicali della struttura, degli interventi che possono essere messi in campo con l’ordinamento attuale, con le norme attuali. In attesa di ulteriori riforme più generali e più innovative ed efficaci di quelle messe in campo oggi, credo che ci sia una responsabilità dell’Amministrazione penitenziaria di intervenire. Come Garanti regionali abbiamo anche ricordato che c’è la necessità di un’interlocuzione nuova, più forte e più propositiva con le regioni, proprio sulla sanità penitenziaria e su questo aprire una alleanza di dialogo di confronto. Occorre riuscire ad essere puntuali sul sull’azione da mettere in campo”. La Garante comunale di Roma Valentina Calderone: “Apprezziamo la disponibilità all’incontro di oggi. Registriamo però che le misure urgenti di cui, noi siamo convinti, il sistema penitenziario abbia bisogno adesso, non sono state prese in considerazione. C’è molto da fare in assenza di un minimo gesto di civiltà, cioè di un provvedimento deflattivo immediato che possa fare uscire quantomeno le persone che hanno una pena sotto i tre anni o di provvedimenti che riportino le carceri ad uno stato di legalità, visto che ci sono quasi 15.000 persone in più della capienza regolamentare. Ci sembra importante però rivedere immediatamente la circolare sulla media sicurezza, almeno in questo periodo, in cui le attività sono quasi tutte ferme e i molti istituti le persone stanno all’interno delle loro stanze anche per 20 ore al giorno. Bisogna prendere provvedimenti urgenti per quanto riguarda le condizioni igieniche sanitarie e soprattutto in alcuni istituti, fare quello che è possibile per rendere le condizioni di caldo e di sofferenza di questo momento più accettabili e riportare un minimo di vivibilità all’interno degli istituti penitenziari”. La Garante comunale di Parma Veronica Valenti: “Oggi all’incontro abbiamo parlato anche delle condizioni detentive in cui si trovano moltissimi detenuti in diversi istituti italiani. Abbiamo parlato delle condizioni igienico sanitarie, e dei diritti e delle aspettative dei detenuti, tra cui in particolare la necessità di dare immediata attuazione alla sentenza della Corte costituzionale (n. 10 del 2024). Una sentenza rivoluzionaria, in quanto rende il diritto all’affettività intramuraria ad avere i colloqui con la propria famiglia (convivente, moglie o viceversa marito, compagno) senza il controllo visivo. Questa è una necessità ed è una misura che può essere attuata nell’immediato. Così come abbiamo posto al Ministro la necessità di rivedere l’applicazione della circolare introdotta nel 2022, che pur con l’intento di superare la dicotomia tra celle chiuse e eccelle aperte come disposto in precedenza, ha di fatto reintrodotto un regime per la maggior parte dei detenuti di celle chiuse. La comunità dei Garanti ha notato che da quando è entrata in vigore questa circolare, negli istituti italiani sempre più sovraffollati, ciò porta al rischio concreto di esporre i detenuti a tentativi di suicidio, se non a veri e propri suicidi”. All’incontro era presente anche il Garante nazionale delle persone private della libertà personale Maurizio Felice D’Ettore. Il ministro Nordio incontra i Garanti dei detenuti (gnewsonline.it) Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio e il garante nazionale dei detenuti, Maurizio D’Ettore, hanno ricevuto questa mattina via Arenula i componenti del coordinamento dei garanti territoriali. Erano presenti il portavoce e garante della regione Campania, Samuele Ciambriello, Valentina Calderone, garante del comune di Roma, Bruno Mellano, garante della regione Piemonte e Veronica Valenti, garante del comune di Parma. L’incontro è stata l’occasione per fare il punto sul sistema carcerario. I Garanti hanno sottoposto al Ministro alcune richieste in materia di contrasto al sovraffollamento carcerario, prevenzione dei suicidi e, in generale, sulla condizione carceraria, sottolineando l’esigenza di intervenire con un aumento dei turni d’aria, più telefonate e colloqui familiari, maggiori investimenti sull’area penale esterna, incremento dei fondi già stanziati da via Arenula sul sostegno psicologico. Per il ministro Nordio si è trattato “di un incontro proficuo, un’occasione di confronto costruttivo durante il quale abbiamo confermato la volontà di mantenere alta l’attenzione, come dimostrato in questo anno e mezzo di governo, durante il quale, solo nel 2024, sono stati stanziati 10,5 milioni di euro aggiuntivi - più che triplicato il budget previsto in bilancio di euro 4,4 milioni - per uno stanziamento totale di euro 14,9 mln, di cui 9,5 mln per gli psicologi ed 1 mln per i mediatori culturali, destinati ad aumentare il numero dei professionisti psicologi negli istituti penitenziari, in modo da migliorare la qualità dei percorsi di trattamento dei detenuti e colmando per la prima volta nella storia le piante organiche di queste figure”. “Siamo consapevoli - ha dichiarato Nordio - che tutto questo non basta ad alleviare la condizione carceraria ma siamo contrari a qualunque forma di scarcerazione lineare o amnistia mascherata perché rappresenterebbero una resa dello Stato, con conseguenze, fra l’altro, negative in termini di recidiva confermate dalle statistiche”. Quello che si può fare è sicuramente intervenire sulla carcerazione preventiva, ha spiegato il Guardasigilli: “ad oggi contiamo circa un 20% di detenuti in attesa di giudizio e questo è inaccettabile per chi come noi ritiene la presunzione d’innocenza un valore assoluto così come deve essere la certezza della pena, una volta ricevuta la condanna definitiva. Proprio per questo con le riforme promosse dal governo abbiamo introdotto, ad esempio, l’interrogatorio di garanzia prima dell’arresto e l’istituzione del tribunale collegiale per la conferma del provvedimento di detenzione. Si tratta di iniziative che avranno certamente un effetto deflattivo sul numero di persone incarcerate”. Quanto al tema delicato dei detenuti tossicodipendenti Nordio ha ricordato che con il Dl Carceri è prevista l’istituzione presso il Ministero della giustizia di un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale dei detenuti adulti. “Stiamo sottoscrivendo accordi con le Regioni perché il contributo delle organizzazioni locali, che hanno strutture e strumenti idonee sia dal punto di vista sanitario che per la sicurezza dei detenuti, è fondamentale per consentire l’esecuzione esterna della pena”, ha concluso il Ministro. Il decreto carceri è legge, scontro sul vertice Nordio-Meloni durante il voto di Alessandro Di Matteo La Stampa, 8 agosto 2024 Le madri detenute sono un caso. La segretaria del Pd Schlein: “Accecati dalla foga punitiva”. Comincia male e finisce peggio l’ultimo giorno di lavori della Camera dei deputati prima della pausa estiva. Dopo ore di scontri sugli ordini del giorno, Montecitorio - tra le polemiche - converte in legge il “decreto-carceri”, ma proprio mentre l’aula vota il ministro della Giustizia Carlo Nordio - facendo infuriare ulteriormente le minoranze - partecipa ad un vertice con Giorgia Meloni in cui si decide che altre misure sul tema verranno messe a punto. Inaccettabile per le opposizioni, che denunciano la “violazione delle prerogative del Parlamento” e chiedono al presidente della Camera Lorenzo Fontana di intervenire. La tensione è alta fin dalla mattinata, quando si arriva al corto-circuito sull’ordine del giorno presentato dal Pd per affrontare il tema delle detenute incinte e dei bambini costretti a stare in carcere con le madri. Il governo inizialmente dà parere favorevole, sia pure chiedendo una riformulazione del testo. Poi, però, a sorpresa l’ex magistrata e ora parlamentare della Lega Simonetta Matone chiede di firmare l’ordine del giorno, ottenendo un no dal deputato dem Marco Lacarra, presentatore del documento. La deputata leghista protesta: “Io so di cosa parlo: sono stata per 17 anni pm per i minori a Roma, ho visitato più volte i campi rom”. Commenta il Pd Giuseppe Provenzano: “La sua era solo una provocazione, è la protagonista dell’affossamento di tutte le norme che avrebbero consentito ai bambini di uscire di galera”. Finisce con il capogruppo Fdi Tommaso Foti che chiede al governo di ritirare il parere favorevole e l’ordine del giorno viene bocciato. Attacca la segretaria Pd Elly Schlein: “Siete accecati dalla vostra foga punitiva, da questo uso - per non dire abuso! - del diritto penale per fini sensazionalistici e propagandistici”. Lo scontro viene replicato al momento della discussione dell’ordine del giorno presentato da Enrico Costa, un documento che impegna il governo a rivedere le norme sulla custodia cautelare. Il testo passa, ma le opposizioni accusano. Dice Angelo Bonelli, portavoce di Europa Verde: “Si apre la strada allo scudo penale per i politici, annunciato da Salvini in relazione al caso Toti. L’ordine del giorno di Enrico Costa è un falso garantismo”. Si va avanti così per tutto il giorno, mentre il ministro Nordio è impegnato in una serie di incontri. Il primo, in mattinata, con i Garanti territoriarli dei detenuti. Il guardasigilli, in una nota, ricorda nuovamente gli investimenti del governo sulle carceri ma chiarisce: “Siamo contrari a qualunque forma di scarcerazione lineare o amnistia mascherata perché rappresenterebbero una resa dello Stato. Ma, appunto, la riunione che scatena definitivamente il caos è quella che trapela a fine pomeriggio, proprio mentre Montecitorio vota il decreto. Nordio va da Meloni a palazzo Chigi, al tavolo siedono anche il sottosegretario Alfredo Mantovani, i due sottosegretari alla Giustizia Andrea Ostellari e Andrea Delmastro, il viceministro Francesco Paolo Sisto e i presidenti delle Commissioni Giustizia di Senato e Camera, Giulia Bongiorno e Ciro Maschio. Al termine del vertice il Guardasigilli annuncia di avere “prospettato soluzioni a breve e medio termine contro il sovraffollamento nelle carceri” (compresa la “modifica della custodia cautelare necessaria per evitare la carcerazione ingiustificata”) e aggiunge che chiederà “un incontro al Presidente della Repubblica, che ha sempre manifestato grande attenzione al riguardo”. Parole che, appena rilanciate dalle agenzie, scatenano le opposizioni. Debora Serracchiani, responsabile giustizia Pd, al telefono parla di “sfregio alle istituzioni”. La capogruppo Chiara Braga in aula definisce il vertice un “insulto al Parlamento” e la dimostrazione che il decreto appena convertito in legge “era solo propaganda”. È la linea di tutte le minoranze, da M5s a Iv, con Maria Elena Boschi che chiede a Meloni e Nordio di riferire alle Camere. Il Guardasigilli fa rispondere al ministero con una nota: “L’incontro ha avuto come oggetto una programmazione futura che ovviamente non intende in alcun modo interferire né sovrapporsi con i lavori in corso presso il Parlamento sovrano”. Alle opposizioni non basta, chiamano Fontana. Il presidente della Camera a sua volta diffonde una dichiarazione per ribadire la “centralità del Parlamento le cui prerogative devono essere garantite da parte di tutti i soggetti interessati”. Ok della Camera al decreto carcere, duro scontro con l’opposizione di Valentina Stella Il Dubbio, 8 agosto 2024 La segretaria del Pd Elly Schlein è intervenuta per criticare il decreto: “Le carenze delle strutture colpiscono tutti: detenuti e chi ci lavora”. Via libera definitiva alla Camera con la fiducia al dl Carceri con 153 voti favorevoli, 89 contrari e un astenuto. Maggioranza compatta ma forti scontri con l’opposizione. A tenere banco le dichiarazioni della deputata leghista Simonetta Matone che aveva chiesto di mettere la sua firma “a titolo individuale” all’odg a favore delle detenute madri presentato dal dem Marco Lacarra. In particolare, si chiedeva al Governo di “incrementare di almeno 10 milioni di euro annui” “il fondo per le case famiglia protette al fine di contribuire alla tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori nonché al fine di incrementare l’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case-famiglia”. Dopo la riformulazione del governo accettata da Lacarra, quest’ultimo ha però dichiarato di “non voler accettare la sottoscrizione della collega, pur stimandola personalmente, perché è in palese contraddizione con quanto da lei dichiarato nel corso della Commissione che esaminava gli emendamenti del ddl sicurezza”. Simonetta Matone non ci è stata: “La Lega non ha mai voluto mandare i bambini in carcere, bensì proteggere le donne costrette dall’organizzazione che vige all’interno dei campi nomadi, proteggere queste donne sfinite dalle gravidanze e massacrate di botte se non tornano con il bottino a casa”. Le sue parole hanno suscitato la protesta dell’opposizione con urla e gesti. “Oggi noi abbiamo assistito a un’affermazione in quest’Aula di una gravità storica. Oggi noi non abbiamo solo assistito a una teorizzazione, come spesso avviene, di quello che viene definito il diritto penale del nemico. Questa è ormai purtroppo moneta corrente. Oggi noi abbiamo assistito a un salto di qualità nell’idea dello Stato etico, perché, secondo la collega Matone, la pretesa punitiva dello Stato potrebbe essere esercitata anche per intervenire in situazioni di particolari difficoltà, che una persona vive”, ha dichiarato il deputato del Pd Andrea Orlando. Pure Maria Elena Boschi, deputata di Iv, ha difeso Lacarra: “Con quale coraggio state cambiando, con il decreto-legge sicurezza, una norma del 1930, che era più garantista di quello che andate a fare voi oggi? Una norma che prevede il rinvio del carcere per le donne incinta e quelle con bambini sotto un anno. Voi, invece, con il ddl Sicurezza le mandate in carcere, e con orgoglio, come ha rivendicato l’onorevole Matone, come se il carcere fosse un centro termale, una Spa, in cui si sta meglio che nei campi rom”. Il governo così ha trasformato il suo iniziale parere positivo in negativo, su proposta del capogruppo di Fd’I Tommaso Foti. Mentre era in corso la discussione, una nota congiunta di Roberto Giachetti (Iv) e di Nessuno Tocchi Caino ha annunciato che si recheranno, assistiti dall’avvocato Maria Brucale, alla stazione dei carabinieri di Piazza San Lorenzo in Lucina a Roma per presentare un esposto denuncia rivolto alla procura della repubblica di Roma “perché, a fronte della gravità della situazione nelle carceri - descritta con dovizia di particolari nelle 11 pagine del testo - e a fronte dei probabili ulteriori pericoli che incombono sulla comunità penitenziaria, verifichi la sussistenza di eventuali responsabilità penali a carico del ministro della Giustizia onorevole Carlo Nordio e dei sottosegretari onorevole Andrea Del Mastro Delle Vedove e senatore Andrea Ostellari i quali, avendo specifici obblighi di custodia dei ristretti, non vi adempiono cagionando loro un danno evidente alla salute, fisica o psichica, e alla loro stessa vita”. Anche la segretaria del Pd Elly Schlein è intervenuta per criticare il decreto: “Le carenze delle strutture colpiscono tutti: detenuti e chi ci lavora”. I suicidi, il cui numero aumenta in maniera preoccupante, “sono per lo più 20enni” che “spesso manomettono le serrature delle celle per ritardare i soccorsi”. La segretaria dem ha puntato il dito contro il centrodestra che “accecato da foga punitiva” e “abusando del diritto penale” dimentica “che quando si riempiono le carceri è un fallimento di tutti”. Ha aggiunto, “anche l’appartenenza alla comunità rom e sinti è diventato un reato da espiare”. Ha replicato Andrea Delmastro delle Vedove, deputato di Fratelli d’Italia e sottosegretario alla Giustizia: “Condivido la fotografia impietosa di Schlein sulle condizioni carcerarie che abbiamo ereditato da una sinistra che ha governato per anni pur senza mai vincere una sola elezione” e ancora: “Possono cambiare i leader, ma non cambia la sostanza: la sinistra sa sempre cosa fare, quando governano gli altri, ma se ne dimentica quando le tocca il governo”. “Un buon punto di arrivo, anche se Forza Italia avrebbe voluto di più. Da una parte garanzia per i cittadini che chi sbaglia sconti la pena fino in fondo. Ma dall’altra parte servono garanzie e tutele per detenuti e agenti. E tutele anche per chi lavora nelle carceri in condizioni spesso difficili”, ha detto il deputato Paolo Barelli, capogruppo alla Camera di Forza Italia. Di diverso parere la vicepresidente del M5S Chiara Appendino: “Lo possiamo dire chiaramente: viviamo in uno Stato incivile se in tutta Italia le carceri cadono letteralmente a pezzi; se nella stessa piccola, sporca e caldissima cella scontano la loro pena 15 persone costrette a cucinare attaccate allo sciacquone del bagno; se 65 detenuti, l’ultimo ieri, e 7 agenti di polizia penitenziaria si sono suicidati da inizio anno”. Approvato l’odg presentato dal deputato di Azione Enrico Costa che impegna il governo a rivedere le norme sulla custodia cautelare. L’odg è stato sottoscritto anche da FI, Nm e Iv. Il testo originario di Costa puntava a limitare il ricorso alla custodia cautelare “per pericolo di reiterazione nei confronti di incensurati solo per reati di grave allarme sociale e per reati che mettono a rischio la sicurezza pubblica o privata o l’incolumità delle persone”. Cioè, se uno è incensurato, secondo il parlamentare, non si dovrebbe ravvisare nei suoi confronti il pericolo di reiterazione del reato se non per reati gravissimi, tra i quali non rientrerebbero quelli contro la Pa. Il governo ha proposto però una riformulazione che di fatto “lo trasforma nell’enunciazione di un principio”, come ha commentato lo stesso Costa. L’impegno che assume il governo è cioè quello di valutare, “nel solco delle iniziative già adottate con il ddl Nordio, un intervento normativo finalizzato ad una rimodulazione delle norme sulla custodia cautelare con particolare riferimento alle esigenze cautelari finalizzato ad un puntuale bilanciamento tra presunzione di non colpevolezza e garanzie di sicurezza”. Scontro poi in Aula tra destra e sinistra sugli odg del forzista Tommaso Calderone e del leghista Davide Bellomo, che prendendo spunto dal caso Toti, avevano chiesto di riformare la normativa sulla custodia cautelare, in particolare per quanto riguarda la reiterazione del reato per i pubblici amministratori. Gli odg sono stati poi approvati, anche con l’appoggio di Iv, nella stessa riformulazione dell’odg Costa. Dl carceri, il vuoto è legge. Nordio cerca Mattarella di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 agosto 2024 Ancora un suicidio in cella. Vertice a Palazzo Chigi con Meloni durante il voto alla Camera. Bagarre sugli odg dopo la fiducia. Imbarazzato, il ministro si rivolge al presidente. Il decreto “Carcere sicuro”, come lo ha ribattezzato il ministro Nordio pur senza alcuna autoironia, è legge. Un contenitore vuoto che mette in imbarazzo lo stesso governo chiamato d’urgenza a raccolta a Palazzo Chigi, per affrontare l’emergenza sovraffollamento e suicidi, mentre la Camera era ancora impegnata nelle ultime operazioni di voto. Dopo aver incassato nella notte precedente la fiducia posta dal governo con 186 sì, 127 no e 2 astenuti, l’Aula di Montecitorio ieri sera ha definitivamente convertito in legge il decreto Nordio, in seconda lettura, con 153 voti favorevoli e 89 contrari. Sul testo, che d’altronde è aria fresca talmente rarefatta da lasciare praticamente intatto lo status quo e semmai destare solo alcune preoccupazioni riguardo il rischio di privatizzazione dell’esecuzione penale, c’è stato quindi poco da discutere. Gioco forza, il confronto tra maggioranza e opposizione è finito per accendersi sugli Ordini del giorno, malgrado la loro assoluta mancanza di incisività. Addirittura la bagarre è scoppiata su un odg del dem Lacarra in difesa delle detenute madri, penalizzate attraverso una norma contenuta non nel testo in discussione ma nel ddl Sicurezza. Il governo ha ritirato il suo parere positivo dopo che Lacarra ha rifiutato di accettare la leghista Simonetta Matone come cofirmataria dell’odg, per incompatibilità di posizioni. Lei l’ha buttata sul panpenalismo etnico, scoprendo il vero significato di quella norma: colpire le donne rom. Botta e risposta anche sull’odg di Riccardo Magi (+Europa) che ricalcava la sentenza della Consulta sull’affettività: per il governo al massimo si può “valutare l’opportunità di rispettarla o meno”. Nel frattempo dal carcere di Prato arrivava la notizia del suicidio di un giovane tunisino di 35 anni con problemi psichiatrici che si è impiccato mentre era in isolamento. Il conto si perde ormai: 65 o 66 suicidi dall’inizio dell’anno, a seconda che si annoveri nel triste elenco anche il detenuto che martedì si è tolto la vita nel bagno del Tribunale di Salerno. Che la situazione nelle carceri sia ben oltre il limite della tollerabilità - e della sostenibilità davanti all’Europa - non sfugge però neppure al governo. Tanto che ieri, mentre alla Camera era ancora in corso il voto, a Palazzo Chigi si è tenuto un incontro al vertice tra Giorgia Meloni, i ministri Nordio, Tajani e Giorgetti, i sottosegretari Mantovano, Ostellari e Delmastro, il viceministro Sisto e i presidenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, Maschio e Bongiorno. Incontro del quale ai deputati nulla era dato sapere. “Ma il Parlamento a cosa serve se tutto si decide a Palazzo Chigi, se alla fine non contate niente nemmeno voi della maggioranza?”, ha protestato la responsabile dem della Giustizia Serracchiani. Così il Guardasigilli ha comunicato subito dopo di aver prospettato alla premier “soluzioni a breve e medio termine per il sovraffollamento carcerario”. “Su questo tema chiederò un incontro al Presidente della Repubblica che ha sempre manifestato grande attenzione al riguardo”, afferma Nordio aggiungendo di voler proporre al Csm “di considerare la copertura di organico per la magistratura di sorveglianza, garantendo da parte del Ministero agili e veloci procedure per il completamento della pianta organica degli amministrativi presso i Tribunali di sorveglianza”. Ma l’unica ricetta che l’esecutivo riesce a raffazzonare è “l’impegno a moltiplicare gli sforzi per rendere operativi in tempi celeri gli accordi con gli Stati interessati, al fine di garantire l’esecuzione della pena nei Paesi d’origine” dei detenuti stranieri. I quali rappresentano circa un terzo della popolazione penitenziaria ma l’esecuzione della pena fuori dai confini italiani prevede accordi bilaterali con i Paesi di provenienza niente affatto a portata di mano. Dunque per il momento il lavoro dei deputati ha portato in dote all’Italia un testo di legge che istituisce il nuovo reato di peculato di distrazione (di fatto un abuso d’ufficio più morbido di quello cancellato alcune settimane fa); stabilisce l’assunzione di mille agenti penitenziari nel biennio 2025-26; aumenta da 4 a 6 le telefonate mensili da concedere ai detenuti; istituisce un commissario straordinario all’edilizia penitenziaria; snellisce l’iter per concedere la normale liberazione anticipata (quella speciale della pdl Giachetti giace di nuovo in commissione) facendo sì che vada comunicata al detenuto non la concessione del beneficio ma l’eventuale mancata concessione o la revoca. E infine, soprattutto, “entro sei mesi” si dovrà mettere a punto l’”elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale” dei detenuti tossicodipendenti nonché i requisiti, anche di reddito, di coloro che vi potranno accedere per scontarvi la pena ai domiciliari. Una norma, questa, che giustamente ha suscitato la protesta del Coordinamento delle comunità di accoglienza, perché rischia di aprire la strada alla privatizzazione delle prigioni. Nordio vuole altre misure: vertice lampo con Meloni, “presto ne parlerò al Colle” di Errico Novi Il Dubbio, 8 agosto 2024 A darne notizia è una nota di via Arenula. E c’è un aspetto per certi versi sorprendente: il responsabile della Giustizia dichiara di aver “prospettato”, al Capo del governo, “soluzioni a breve termine per il sovraffollamento carcerario”. Di fatto, è l’ammissione che l’opera dell’Esecutivo non può fermarsi al decreto appena convertito in legge ieri. E, cosa ancora più significativa, lo stesso Nordio ha aggiunto che, sempre sul tema del sovraffollamento, chiederà “un incontro al presidente della Repubblica, che ha sempre manifestato grande attenzione al riguardo. Del pari”, assicura ancora il guardasigilli, “proporrò al Csm di considerare la copertura di organico per la magistratura di sorveglianza, garantendo da parte del ministero agili procedure per il completamento della pianta organica degli amministrativi presso i Tribunali di sorveglianza”. E qui siamo a uno dei temi emersi in un incontro che ha preceduto di poche ore quello di Palazzo Chigi e che il guardasigilli ha avuto con i Garanti territoriali dei detenuti: loro stessi hanno ricordato la valanga di istanze che sommerge i non abbastanza numerosi giudici di sorveglianza e che rallenta la concessione dei benefici. Nordio poi ha puntualizzato, a proposito dell’”elevato numero di detenuti stranieri”, il proprio “impegno a moltiplicare gli sforzi per rendere operativi in tempi celeri gli accordi con gli Stati interessati, al fine di garantire l’esecuzione della pena nei Paesi d’origine”. Fino al passaggio che parte da una stilettata all’opposizione ma in realtà sembra anticipare una delle ulteriori (rispetto al decreto) misure “prospettate” da Nordio a Meloni: “Auspico che l’opposizione, invece di polemizzare su posizioni sedimentate nei decenni, possa collaborare fattivamente per rendere più veloce questo percorso che riguarda, sia a livello normativo che organizzativo, la modifica della custodia cautelare, necessaria per evitare la carcerazione ingiustificata, ma soprattutto per affermare la detenzione differenziata dei tossicodipendenti presso le comunità di recupero”. Insomma: il decreto è andato, ma ora serve altro. Deve esserne convinto, Nordio (che pochi minuti dopo preciserà, ancora, di non voler interferire coi lavori del Parlamento), e devono averlo rafforzato, nella sua convinzione, proprio i garanti territoriali, incontrati insieme con il viceministro Francesco Paolo Sisto. Il colloquio, richiesto dal portavoce della Conferenza dei Garanti, Samuele Ciambriello, ha visto la partecipazione anche di Bruno Mellano (Piemonte), Valentina Calderone (Roma) e Veronica Valenti (Parma). Ciambriello ha definito l’incontro “interlocutorio”, anche se il ministro Nordio ha mostrato “apertura al dialogo”, e ha fissato un nuovo appuntamento entro un mese per valutare i progressi sulle questioni discusse ieri. Il coordinatore dei Garanti ha ricordato che circa 5.000 reclusi potrebbero uscire immediatamente dal carcere se la magistratura di sorveglianza decidesse tempestivamente su misure alternative o liberazione anticipata. Ed è toccato a Calderone ribadire la preoccupazione per l’assenza di misure deflattive. Nordio da Meloni per “tagliare” i detenuti in attesa di giudizio. Ma non c’è l’intesa tra gli alleati di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 8 agosto 2024 Manca l’accordo su possibili modifiche alle norme sulla custodia cautelare. Alle sette di sera, quando si diffonde la notizia che Carlo Nordio ha avuto un faccia a faccia con Giorgia Meloni, ma soprattutto dopo che il ministro fa sapere di voler parlare con il capo dello Stato su possibili modifiche alle norme sulla custodia cautelare, si capisce che nel governo c’è stata un’accelerazione improvvisa e in parte imprevista. Il decreto del ministro che viene votato in Parlamento rafforza la sicurezza degli istituti penitenziari, ma non interviene sulla sofferenza dei detenuti dovuta al sovraffollamento. L’argomento nella maggioranza scotta: Forza Italia ha un tavolo aperto con il Partito radicale per arrivare a misure drastiche di intervento sul gap strutturale di posti negli istituti di pena, ha proposto misure contro il sovraffollamento, ma finora Lega e Fratelli d’Italia si sono resi disponibili solo ad approvare norme per dare maggiori garanzie alla polizia penitenziaria, maggiori risorse umane e finanziarie, ma - lamenta l’alleato - senza misure incisive sul problema dei suicidi, delle rivolte, di condizioni di vita che molto spesso non sono degne di un Paese civile. È un tema che in estate è sempre più in risalto, ed è un dossier su cui il capo dello Stato ha fatto diversi interventi, sollecitando l’esecutivo ad intervenire. Nordio discute con la premier delle sue idee, in primo luogo quella di modificare le norme sulla custodia cautelare, riducendo il numero di detenuti in attesa di giudizio, in secondo quella che porterebbe una fetta di popolazione carceraria fuori dagli istituti: gli esperti la chiamano detenzione di “marginalità”, ovvero detenuti che potrebbero avere i domiciliari, ma che non li ottengono perché non hanno condizioni abitative e familiari adatte. E qui potrebbe scattare il coinvolgimento di comunità di recupero di tipo diverso, molte cattoliche, che potrebbero fungere come contenitore alternativo al carcere. Di sicuro nella maggioranza andrebbe trovata un’intesa preventiva, cosa che al momento appare lontana. E del resto la giornata politica sino alla notizia dell’incontro era trascorsa quasi in sordina. Durante il Cdm, l’ultimo prima della pausa estiva, Meloni quasi non parla. Interviene su alcune questioni tecniche e lascia la riunione prima della fine. È Alfredo Mantovano, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, a spiegare ai colleghi perché nelle ore precedenti la riunione fosse stata imposta a tutti i ministri, una sorta di “cura dimagrante” del decreto omnibus che nel corso delle ultime settimane era diventato un veicolo dove tutti i membri dell’esecutivo avevano inserito norme di diverso genere. Non tutte però con il carattere dell’urgenza, come vuole la Costituzione e come non si stanca di ricordare il capo dello Stato. Questa volta sia i richiami del Quirinale, sia quelli dei presidenti delle Camere, hanno avuto la precedenza rispetto alle esigenze di proroghe striscianti o di norme eterogenee non urgenti. Il dl omnibus è arrivato dunque a Palazzo Chigi con uno spessore che alla fine si è notevolmente ridotto, in uno spirito di cooperazione istituzionale che il silenzio di Meloni ha solo rimarcato e avallato. Cautela sulla custodia cautelare di Claudio Cerasa Il Foglio, 8 agosto 2024 Approvato un odg di Costa sul “pericolo di reiterazione” di incensurati. Gli unici a scalmanarsi con la bava alla bocca sono stati i manettari del Fatto, ancor prima che il fatto si verificasse: “Non si fermano più - Niente carcere per i colletti bianchi ancora incensurati”, in prima pagina, dove a far rabbrividire è quell’”ancora” di sapore davighiano. (Per Repubblica si tratta di “un altro tassello ‘contro’ la custodia cautelare”, “approfittando” del dl Nordio. Manca solo il favore delle tenebre). E dopo l’approvazione dell’ogd dell’onorevole Enrico Costa il titolo è diventato “Casta alla riscossa dopo il caso Toti”. Tanto furore fa persino ridere, se non nascondesse tragedie. E soprattutto se si tiene conto che l’ordine del giorno votato ieri alla Camera ha un significato più che altro simbolico: la strada del garantismo, per evitare altri orrori alla Toti, resta lunga. Ma bene ha fatto il deputato di Azione a proporre e ottenere l’approvazione di un odg relativo al decreto Carceri, contro gli abusi della custodia cautelare. La proposta riguarda la possibilità di valutare la misura cautelare per pericolo di reiterazione nei confronti di incensurati solo in caso di “reati di grave allarme sociale e di reati che compromettano la sicurezza pubblica o privata o l’incolumità delle persone”. Esclusi dunque i reati di corruzione e tutti quei delitti di solito commessi da chi ha cariche pubbliche. Ha spiegato Costa: “L’esigenza cautelare del pericolo di reiterazione del reato deve combinarsi con la presunzione di innocenza e non può essere uno strumento per privare disinvoltamente della libertà”. Ovvio che l’attenzione mediatica si sposti subito sul grave caso di forzatura della procura di Genova nel prolungato arresto del governatore Toti, ma la modifica che Costa propone riguarda un alleggerimento delle misure per tutti gli incensurati. E non si tratta soltanto dei “colletti bianchi”. Oggi “il 25 per cento dei detenuti non ha subito una condanna definitiva, dal 1992 a oggi oltre 30 mila persone sono state risarcite in quanto arrestate ingiustamente. Il carcere prima del processo deve essere l’extrema ratio”. Ma questo a qualcuno fa paura. Abuso d’ufficio, i dubbi del Colle. Slitta ancora la firma sul ddl Nordio di Francesco Olivo La Stampa, 8 agosto 2024 Nervosismo nel governo per i ritardi della promulgazione. Crosetto condivide il tweet di Costa: “28 giorni e ancora niente”. Un tweet, un semplice tweet, porta alla luce una tensione che covava da giorni. La mancata firma del presidente della Repubblica sul disegno di legge Nordio che contiene l’abolizione dell’abuso d’ufficio, ha causato malumori nel governo. Formalmente non ci sono anomalie, il Presidente ha un mese per promulgare la legge e nelle ultime settimane è stato impegnato in missioni all’estero, in Brasile e Francia. E molto probabilmente il sigillo verrà posto nelle prossime ore. Ma il fatto che il Quirinale stia usando tutto il tempo a disposizione viene letto nell’esecutivo come un messaggio che genera sospetti e un certo nervosismo. Sentimenti vissuti in silenzio, per non turbare l’equilibrio di un rapporto sempre molto delicato, specie negli ultimi mesi. Così, ci ha pensato un parlamentare d’opposizione, Enrico Costa di Azione, a esprimere quei dubbi che covano da qualche tempo nella maggioranza: “Ventotto giorni fa è stato approvato definitivamente dal Parlamento il ddl Nordio con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Non è ancora in Gazzetta Ufficiale”. Costa, capofila dei parlamentari garantisti, sui temi della giustizia è più affine ai partiti della maggioranza, come Forza Italia (dove potrebbe approdare presto). Niente di strano, quindi, se non per il fatto che il post di Costa di critica al Quirinale poco dopo la pubblicazione venga condiviso dal ministro della Difesa Guido Crosetto sul proprio profilo. In Transatlantico ci si passa lo schermo degli smartphone: “Hai visto Crosetto?”. Il fondatore di Fratelli d’Italia ha per status la licenza di andare fuori linea e, in particolare sulla giustizia, dice quello che pensa senza chiedere il permesso ai custodi del verbo meloniano. Eppure, un po’ di imbarazzo si respira, non tanto per l’opportunità del tweet, quanto per il nervo scoperto che Crosetto è andato a toccare. Il ddl Nordio, infatti, ha vissuto vicende travagliate: approvato dal Consiglio dei ministri nel giugno del 2023 è rimasto in Parlamento per oltre un anno prima di essere approvato in via definitiva. Sul Colle poi è arrivato il nuovo stop. La questione che più preoccupa la presidenza della Repubblica è il possibile conflitto con l’Unione europea, visto che la Commissione ha sollevato dubbi sull’abolizione dell’abuso d’ufficio. Per venire incontro a queste perplessità, Giorgia Meloni e Carlo Nordio hanno concordato di inserire nel decreto carceri un nuovo reato, “peculato per distrazione” che andrebbe a colmare il vuoto lasciato nel codice dalla cancellazione dell’abuso d’ufficio. Inoltre, in Parlamento, la maggioranza ha approvato un emendamento per coordinare la nuova norma con la direttiva europea contro la corruzione. Dopo una giornata di nervosismo, soprattutto al ministero della Giustizia, da Fratelli d’Italia viene fatta trapelare la linea ufficiale: è tutto concordato. Secondo questa teoria, Mattarella per firmare starebbe aspettando il via libera del Parlamento al decreto carceri (arrivato ieri) e quindi della norma che supplisce l’assenza dell’abuso d’ufficio. Una fonte di governo alimenta anche una voce che si diffonde pericolosamente: “Il presidente al momento della promulgazione invierà una lettera di raccomandazioni all’esecutivo”. Un gesto dall’alto contenuto politico che non sarebbe però inedito in questa legislatura: nel febbraio 2023 insieme nel momento di firmare il decreto milleproroghe Mattarella scrisse una missiva al governo con l’invito di mettere a gara le concessioni balneari, come richiesto dalla Commissione europea e dal Consiglio di Stato. Anche stavolta quindi la preoccupazione arriverebbe dall’applicazione del diritto comunitario. Dal Quirinale, però, viene smentita questa ipotesi: nessuna lettera in arrivo. Anche perché, ragionano i dirigenti di Fratelli d’Italia, l’interlocuzione tra il governo e la presidenza della Repubblica non si è mai interrotto su questa materia. Un’occasione per discutere di questi temi potrebbe arrivare presto: Nordio ha annunciato di voler salire presto sul Colle. L’oggetto della riunione è la condizione drammatica delle carceri italiane. Ma la discussione si può allargare. “Magistrati militanti e politica disattenta: ecco perché non c’è equilibrio tra i poteri” di Simona Musco Il Dubbio, 8 agosto 2024 “Le misure cautelari debbono essere proporzionate: sono scelte da organi di giustizia, ma non sono ancora giustizia”, spiega Sabino Cassese. “Non bisogna dimenticare che l’aggressività penale è spesso dovuta ad una concezione sbagliata della giustizia come controllo della virtù. Né bisogna dimenticare gli effetti prodotti da tale aggressività”. Proprio per questo motivo “le misure cautelari debbono essere proporzionate: sono scelte da organi di giustizia, ma non sono ancora giustizia”. A dirlo è Sabino Cassese, giurista, già ministro della Funzione pubblica e giudice emerito della Corte costituzionale, che ha redatto, nelle scorse settimane, un parere per la difesa di Giovanni Toti, l’ex presidente della Regione Liguria rinviato a giudizio per corruzione che ha trascorso tre mesi ai domiciliari. Una misura cautelare revocata solo dopo le dimissioni dalla carica di governatore, spingendo molti a parlare di “ricatto” della magistratura. Proprio per questa vicenda il ministro Matteo Salvini, nei giorni scorsi, ha ipotizzato l’esigenza di uno “scudo” legislativo per i governatori. “Credo sia giusto pensarci - aveva affermato il leader della Lega in un’intervista a La Verità -. A Genova l’invasione di campo di una magistratura politicizzata è stata clamorosa e preoccupante, inaccettabile. È stato liberato solo quando ha scelto di dimettersi”. Professore, Matteo Salvini ha proposto, prendendo spunto dal caso Toti, uno scudo penale per i governatori e i sindaci. Cosa ne pensa di questa proposta? È davvero necessario “proteggere” i vertici delle amministrazioni locali? Per rispondere a questa domanda, bisogna fare un passo indietro e ricordare quello che c’era scritto nella Costituzione del 1948, all’articolo 68, che fu modificato nel 1993. La versione originaria dell’articolo 68 prevedeva un regime di immunità del personale politico, riferito ai membri del Parlamento. Disponeva che, senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale. Eguale autorizzazione era richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile. A partire dal 1993, l’autorizzazione è prevista per limitazioni minori e cioè per perquisizione personale o domiciliare e per intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e per sequestro di corrispondenza. Questa era la linea di demarcazione tra politica e giustizia, che è stata poi modificata. Perché ci dovrebbe essere differenza tra questo tipo di amministratori e altri? Dopo il 1993, vi sono stati tre cambiamenti importanti. Il primo riguarda la moltiplicazione degli interventi della magistratura, in particolare delle procure, con riguardo al personale politico e amministrativo. Il secondo consiste nell’attribuzione di una maggior quantità di compiti a livello regionale e locale, compiti che riguardano scelte di indirizzo e che richiedono decisioni politiche, cioè ponderazioni di interessi pubblici, con accentuata discrezionalità. Il terzo la moltiplicazione dei controllori pubblici, che insistono nello stesso campo: accanto ai giudici amministrativi e ai magistrati contabili, l’Autorità anticorruzione. Le voci critiche, soprattutto a sinistra, non si sono fatte attendere: c’è chi parla di ritorno del lodo Alfano e di privilegi per i colletti bianchi. È davvero così? In un’arena politica come quella italiana, ce lo si poteva aspettare. Il punto critico riguarda l’equilibrio tra i poteri, quello esecutivo e quello giudiziario, o - come si dice correntemente - tra politica e magistratura. Non bisogna dimenticare che i funzionari, sia elettivi, sia di carriera, sono già sottoposti sia a controlli interni, sia a controlli esterni, come quelli dei giudici amministrativi, della Corte dei conti, dell’Autorità anticorruzione, e che, quindi, l’intervento della magistratura penale dovrebbe essere l’”extrema ratio”. Né bisogna dimenticare che l’aggressività penale è spesso dovuta ad una concezione sbagliata della giustizia come controllo della virtù - su cui si possono leggere le pagine critiche scritte da uno dei nostri maggiori studiosi, Alessandro Pizzorno -. Né bisogna dimenticare gli effetti prodotti da tale aggressività in termini di “burocrazia difensiva”, “fuga dalla firma”, preminenza della “non decisione”, con grave danno per la collettività, fuga di investitori stranieri, arretramento dell’iniziativa privata, scarso sviluppo economico. Indipendentemente dal merito dell’inchiesta, è un fatto che in determinate indagini si crei una trappola con una sola via d’uscita, le dimissioni. Ritiene che in un caso come quello ligure ci fosse motivo di sostenere che senza le dimissioni sarebbe perdurato un pericolo, in questo caso potenzialmente infinito, visto che era legato agli appuntamenti elettorali? Non sono in grado di rispondere. Quel che si può dire è che la magistratura che deve decidere le misure cautelari, quindi in una fase nella quale non c’è ancora giustizia, ma solo accusa, quindi prima del processo, deve ponderare attentamente numerosi elementi: la presunzione di innocenza, il buon andamento, il rispetto delle scelte elettive dirette, l’interesse nazionale a non ripetere continuamente elezioni, con le spese che comportano, che sono tutti elementi costituzionalmente prescritti. Questo perché le misure cautelari debbono essere proporzionate, quindi frutto di un bilanciamento. Ripeto, le misure cautelari sono scelte da organi di giustizia, ma non sono ancora giustizia. C’è chi ha sostenuto, soprattutto all’inizio dell’inchiesta ligure, che riaffiora seppur in proporzioni diverse il malcostume pubblico che degenerò in Tangentopoli. A prescindere dall’accertamento giudiziario sulla vicenda in questione. Che ne pensa? Mi pare che vi siano molte differenze: nel ‘92-’94, si trattava di un sistema diffuso; non vi era l’attuale disciplina del finanziamento privato; questo si dirigeva alla politica e alle persone. Ora il finanziamento privato è previsto e regolato; da quel che si sa, era diretto solo alla politica, non all’arricchimento personale; non si tratta di un sistema diffuso. Lei ha scritto un parere per la difesa di Toti. Come può essere trovato il bilanciamento di cui lei parla tra esigenze di giustizia e continuità dell’attività amministrativa? Semplicemente adottando misure cautelari che consentano la continuità dell’azione amministrativa. Il pericolo di reiterazione del reato concede al giudice, secondo il deputato Calderone, “un potere infinito, consentendo di trasformare la misura cautelare in pena anticipata”. È un punto da riformare? Come? Bisognerebbe evitare che diventasse un “potere infinito”, altrimenti il sistema giudiziario, invece di essere il palladio delle libertà, diventa il potere dal quale difendersi. Salvini ha definito la magistratura “l’ultima vera casta di questo Paese”. Ritiene che ci sia uno squilibrio tra poteri dello Stato? Mi pare che non vi sia dubbio sullo squilibrio che si è andato producendo, a causa dei magistrati militanti, ma anche a causa della mancata attenzione del corpo politico sia alle proprie prerogative, sia alle proprie competenze: ad esempio, perché il Parlamento non esercita i poteri di controllo che spettano ad esso, grazie anche alla Corte dei conti, occhio del Parlamento, così sollevando la magistratura penale dal compito, che si è ampliato, di controllore dell’amministrazione? Prima che si arrivi a ripristinare la garanzia dei funzionari (un istituto nato e sviluppatosi in Francia, poi introdotto in Italia, poi abolito), sia per funzionari elettivi, sia per funzionari di carriera, è bene che si faccia una attenta analisi dei punti di frizione fisiologici e di quelli patologici. Veneto. Carceri, una rete per aiutare i figli minori dei detenuti di Angiola Petronio Corriere del Veneto, 8 agosto 2024 Si chiama “Liberi di crescere” ed è un progetto triennale di cui è capofila Caritas Verona con la coop sociale “Il Samaritano”, che coinvolge 25 tra associazioni e realtà no-profit venete, che nelle carceri di Montorio, Venezia, Treviso e Verona svilupperà azioni “volte a tutelare la dignità dei minori figli di detenuti e aiutarli ad essere protagonisti della loro crescita”. Il monito è quello biblico de “le colpe dei padri non ricadano sui figli”, che da esortazione diventa colonna vertebrale di un progetto che per quei figli vuole un futuro non solo consapevole ma libero dagli stigmi. E che renda le carceri e la pena non solo un incubatoio di vite, ma un percorso riabilitativo e di riparazione anche di quel rapporto genitoriale che la detenzione spesso sgretola. “Ci sono molte sfide”, come ha detto don Andrea Malosto direttore della Caritas e referente del servizio diocesano per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, in “Liberi di crescere”, il progetto vincitore del bando nazionale de “Con i bambini”, impresa sociale del fondo per il contrasto delle povertà educativa minorile. Progetto che si snoderà in tre anni e che vede capofila Caritas Verona con il suo braccio operativo, la cooperativa Il Samaritano - in una rete di 25 tra associazioni e realtà no profit - prendendo in carico i minori figli di detenuti sia delle sezioni maschili che di quelle femminili nelle carceri di Montorio, Venezia, Treviso e Vicenza. Centodieci tra bambini e ragazzi figli di detenuti, 110 genitori reclusi che saranno segnalati al progetto dalle case circondariali e 35 tra educatori e insegnanti, “Liberi di crescere”. Che si muoverà su un orizzonte di fronti. Il sostegno alla genitorialità e il supporto psicologico con attività sia all’interno delle carceri per le persone in detenzione sia all’esterno per le persone in misura alternativa o di fine pena che si concretizzeranno in gruppi e laboratori di supporto, uno sportello interno alle carceri e sessioni formative. C’è poi la presa in carico personalizzata dei figli minorenni con la mediazione familiare e colloqui individuali con psicologi e altri professionisti e gruppi di parola per l’elaborazione della propria storia di figli di detenuti. E ancora, la costruzione di un sistema di supporto all’intero nucleo familiare con colloqui psicologici e accompagnamenti educativi per le famiglie, laboratori per figli e compagne o compagni e sportelli esterni alle carceri dedicati. “Con un’altra linea d’azione - spiega Daniele Dal Corso, referente del progetto per Caritas Verona quella che riguarda la comunità. Quindi riconoscere che questo che è un aspetto di cui nessuno parla, ma che è un problema che fa parte della nostra società, con la comunità che può avere un ruolo attivo”. “Uno dei diritti fondamentali per i minori - le parole di don Malosto - ma forse per tutti è la possibilità di avere gli strumenti per non essere definiti nella loro identità da quello che gli capita nella vita, ma di poter esprimere il loro potenziale a prescindere da quello che gli è successo. Il primo obiettivo forse può essere questo: dare a questi ragazzi l’opportunità di non essere definiti dal fatto di essere figli di detenuti ma di essere figli, semplicemente figli. Poi vedo molto forte in questo progetto la cura dei genitori. Sappiamo che nessun carcere ad oggi è capace di agire secondo una pena che sia riabilitativa ed educativa. Poter essere ancora genitori e poter recuperare la propria genitorialità anche se magari in forme diverse da quelle ordinarie è una forma di riabilitazione molto forte per coloro che vivono. Poi c’è l’aspetto della società, di recuperare quella valenza di “squadra” che permette di essere incisiva anche nell’aiutare le persone che la abitano”. Ripristinare e riparare relazioni interrotte, “Liberi di crescere” che sarà operativo “sul campo” da settembre e che ha visto la sottoscrizione del partenariato da parte dell’amministrazione penitenziaria regionale, delle quattro carceri coinvolte e di vari enti locali. “Credo che questa sia la sfida principale - analizza Silvio Masin, direttore si Fondazione Don Calabria e referente per il monitoraggio tecnico del progetto -. Per le persone che sono coinvolte ma anche per un sistema giustizia che non si prende cura della persona nella sua interezza, ma è semplicemente esecutore di una pena. E la sfida è anche per noi del terzo settore: riuscire a porci come mediatori, come riparatori di queste relazioni all’interno del sistema penitenziario”. Calabria. Il Garante e il dramma dei detenuti: “Condizioni di vita pessime” di Antonio Alizzi acnews24.it, 8 agosto 2024 L’avvocato Luca Muglia denuncia la presenza di pannelli in plexiglass negli istituti penitenziari della nostra regione. Le barriere, che intende far rimuovere anche rivolgendosi alla Cedu, soffocano i reclusi sistemati nelle case circondariali di Reggio Calabria e Cosenza. Il bilancio dei suicidi in carcere si aggrava. Sono 64 da gennaio ad oggi. L’ultimo nella casa circondariale di Biella, a cui si aggiungono i sette decessi tra gli agenti penitenziari. Un’emergenza senza fine. In Calabria, ad esempio, nel 2024 tre reclusi hanno deciso di togliersi la vita. Senza dimenticare i tentativi di suicidio e gli atti autolesionistici e le condizioni di vita dietro le sbarre. In alcuni istituti penitenziari - vedi Reggio Calabria e Cosenza - i detenuti sono murati da pannelli in plexiglass. Un fatto denunciato in passato dalla Camera Penale di Cosenza e oggi rilanciato in maniera forte dal Garante regionale dei detenuti Luca Muglia. L’avvocato, negli studi di Cosenza Channel, ha sviscerato numeri preoccupanti, ribadendo la sua posizione rispetto alle barriere, su cui medita di fare una battaglia a tutto campo. Tra i temi affrontati anche la presenza di bambini in carcere e il diritto alla genitorialità anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale sul diritto all’affettività. L’inferno delle carceri calabresi - “Ho pubblicato il 31 luglio un aggiornamento di relazione semestrale come Regione Calabria con i dati aggiornati e la situazione, devo dire la verità, è non solo la medesima ma è ancora di più aggravata da tutta una serie di situazioni. Decreto Nordio sulle carceri? Misure sicuramente condivisibili tutte però a medio e a lungo termine che purtroppo nell’immediatezza serviranno a ben poco. La situazione calabrese, abbiamo avuto nei primi sei mesi ben tre suicidi nel 2024 a fronte dei quattro suicidi dell’intero anno del 2023”, ha detto l’avvocato Luca Muglia. Cosenza e non solo, le condizioni di vita in carcere - Come dicevamo, le condizioni di vita in carcere hanno un effetto negativo sui detenuti. “Purtroppo - afferma Luca Muglia - è un argomento, un tema, questo che interessa poco è a mio avviso invece quello centrale, cioè le condizioni di vita significa quante ore all’interno della camera detentiva trascorrono le persone detenute per tutte queste problematiche, riguardano la presenza o meno di barriere in plexiglass sulle finestre delle camere detentive, purtroppo in tre istituti continuano ad esserci, riguardano la mancanza di acqua, la presenza di ventilatori a fronte delle temperature estive così elevate, di frigoriferi, sembrano banalità ma condizionano fortemente la vita delle persone detenute, piuttosto che la presenza all’interno di una camera detentiva di 2, 4, 6 addirittura fino a 8 detenuti con i letti a castello, sono queste le questioni poi che incidono”, prosegue il Garante regionale dei detenuti calabresi. “Allo stesso modo la difficoltà di accedere alle misure alternative determinata appunto da un numero spaventoso di popolazione detenuta che finisce per ingolfare le aree educative che già hanno poche unità ma anche i tribunali di sorveglianza”, dice Muglia. Ricorso alla Cedu per i pannelli in plexiglass - La questione dei pannelli in plexiglass, secondo Muglia, deve essere risolta nel più breve tempo possibile. Altrimenti, il Garante calabrese andrà fino in fondo. “Ho più volte rinnovato richieste di rimozione al Dap, se in questi giorni, ed è trascorso un anno dalle prime richieste, non otteniamo delle risposte e dei risultati, io attiverò da una parte la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato e della Repubblica in Italia, dall’altra il Comitato europeo di prevenzione della tortura, perché ritengo, l’ho detto e lo ripeto, che murare in cella, in una camera detentiva, con delle barriere, con queste temperature, delle persone detenute, quando i rimedi alternativi potrebbero essere tantissimi, va a violare l’articolo 3 della Cedu e va a determinare dei trattamenti disumani, degradanti e, aggiungo io, veramente crudeli, in un anno, il 2024, in cui queste cose non dovrebbero esistere”, conclude l’avvocato Luca Muglia. Prato. Detenuto si impicca in cella: in Toscana è il terzo suicidio in un mese di Giorgio Bernardini Corriere Fiorentino, 8 agosto 2024 La vittima è un 35enne trasferito da poco da Pisa: “Aveva problemi psichiatrici”. Esposto in Procura. Un uomo di 35 anni si è tolto la vita nel carcere di Prato. È successo il 7 agosto, poco dopo le 15: s’è impiccato con il laccio che usava come cintura. I suicidi di detenuti alla casa circondariale della Dogaia salgono a 4 negli ultimi 7 mesi, 3 in un mese in Toscana. La vittima è un tunisino, era recluso nel reparto di isolamento. L’uomo era stato trasferito sabato scorso da Pisa, “per motivi di ordine e sicurezza” e aveva quasi certamente “problemi di natura psichiatrica”. Alla Dogaia l’ultimo suicidio è avvenuto 10 giorni fa. Sale così a 65 la conta dei detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno in Italia, a cui vanno aggiunti 7 agenti di Polizia penitenziaria. “Nel giorno in cui il Parlamento varerà un provvedimento vuoto il boia invisibile continua a infliggere la pena di morte di fatto”, commenta durissimo il segretario generale Uilpa, Gennarino De Fazio. Ed effettivamente, proprio il 7 agosto, il decreto Carceri è diventato legge (153 voti favorevoli, 89 contrari e un astenuto). Tra le novità introdotte ci sono l’assunzione di mille agenti di polizia penitenziaria e procedure più snelle per concedere di uscire dal carcere in anticipo a chi ne ha diritto. Nelle ore della discussione del provvedimento è stato bocciato un ordine del giorno presentato dal deputato dem Marco Furfaro, che chiedeva attenzione e interventi sul carcere pratese: “Evidentemente la situazione di difficoltà del personale, la mancanza di ruoli apicali tra cui il comandante, le blatte e le cimici nei materassi, le celle senza docce o senz’acqua, la mancanza di carta igienica, le temperature roventi, non sono abbastanza per il governo che considera Prato una città di serie B”, ha detto Furfaro. La situazione in Toscana - Del resto la situazione è drammatica anche nel carcere fiorentino di Sollicciano, dove il 6 luglio si è tolto la vita un ventenne. Secondo il Garante nazionale sono stati registrati lì, dall’inizio dell’anno, 38 tentativi di togliersi la vita da parte dei detenuti: uno ogni sei giorni. Il portavoce del Pd della Toscana Diego Blasi attacca la deputata di Fi Erica Mazzetti, protagonista solo pochi giorni fa di una visita al carcere che era stato definito “in buone condizioni”. “Alla Dogaia la mancanza di adeguato supporto psicologico e il sovraffollamento stanno contribuendo a una situazione insostenibile. Le parole della deputata Mazzetti - dice Blasi - sono sconcertanti”. L’esposto in Procura - A seguito dell’ultimo suicidio di Prato, il deputato di IV Roberto Giachetti e i dirigenti di “Nessuno tocchi Caino” hanno annunciato che presenteranno un esposto alla Procura di Roma “perché verifichi la sussistenza di eventuali responsabilità penali a carico del Ministro della Giustizia Carlo Nordio e dei Sottosegretari Andrea Del Mastro Delle Vedove e Andrea Ostellari”. Il presidente del Consiglio comunale di Prato, Lorenzo Tinagli, esprime così tutta la sua amarezza, chiedendo un cenno dal governo: “Dieci è il numero di giorni che sono passati da quando, con la sindaca Ilaria Bugetti, abbiamo scritto al ministro Nordio per denunciare la situazione di grave difficoltà nella quale si trova il carcere. Ancora attendiamo risposta”. Milano. Nel carcere di Opera un solo medico per 1.385 detenuti di Ilaria Carra e Rosario Di Raimondo La Repubblica, 8 agosto 2024 L’allarme: “C’è una emergenza psichiatrica, questo è un cimitero di persone vive”. Visita dei Radicali nell’istituto milanese al centro di un’inchiesta della procura di Milano per presunti maltrattamenti sui detenuti. Ci sono detenuti, soprattutto nel reparto ad alta sicurezza, che stanno chiusi in cella tutto il giorno. Qui c’è un caldo asfissiante, la turca è accanto al cibo cucinato, c’è un medico solo per 1.385 persone ed è pieno di anziani, con un recluso di 80 anni che non riesce nemmeno ad alzarsi dal letto e sono gli altri carcerati che lo aiutano, lo imboccano persino. “È un cimitero ma di persone vive” sentenzia, lasciandosi il portone alle spalle, la delegazione di Radicali che ieri ha visitato il carcere di Opera. Condizioni igienico sanitarie discutibili, segnala chi è entrato. Un caldo devastante: “Su metà dell’istituto picchia il sole da mezzogiorno alla sera - denuncia il tesoriere dei Radicali, Filippo Blengino - i detenuti provano a mettere teli e lenzuoli sulle finestre ma non funziona. Di giorno si muore, e la sera fa effetto termosifone. Ci sono tre docce per 50 persone”. E poi c’è il drammatico problema dell’assistenza sanitaria in un luogo sovraffollato. Ci sono oggi 1.385 detenuti quando dovrebbero essere al massimo 918. Il che si traduce che le piccole celle, che in questa casa di reclusione nascono singole perché le persone ci trascorrono anni se non decenni, diventano doppie. E la seconda guardia medica è stata eliminata a giugno. Una questione non secondaria in una struttura dove l’età media dei carcerati è piuttosto alta. “Ci sono centinaia di persone ammassate, che non escono dalla cella, senza speranza nè adeguato supporto. E c’è un’emergenza psichiatrica drammatica. È recupero questo? È dignità?” denuncia il radicale assieme a Patrizia De Grazia, presidente Radicali Italiani e a Raffaella Stacciarini di Radicali Milano, che stanno girando molte carceri italiane per verificarne le condizioni. Due giorni fa era toccato a San Vittore, prima a Poggioreale, poi ci saranno Parma e Bologna. Proprio sul carcere di Opera la magistratura ha acceso un faro. C’è un fascicolo aperto in procura, non più contro ignoti e senza ipotesi di reato, ma per maltrattamenti, dopo le segnalazioni (almeno due) di alcuni detenuti, affidato alle pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena, le magistrate già al lavoro sulle presunte torture al minorile Beccaria. Segnalazioni come questa, raccolte dal garante dei detenuti, Francesco Maisto: “Qui la situazione è peggiorata. Violazione totale dei diritti umani. Ci trattano come animali. Non vedo cambiamenti. Ieri sera hanno picchiato uno in venti con manganelli e asta di ferro. Non avrei mai pensato né immaginato una cosa del genere. Vorrei fare dei reclami tramite Antigone. Da otto giorni non vedo un medico e sto molto male”. Sul tema i Radicali chiedono chiarezza: “Rispettiamo il lavoro della magistratura che farà luce - dice Blengino - osserviamo che purtroppo in questo paese assistiamo a maltrattamenti in varie prigioni: in questa calda estate bisogna riporre il tema al centro dell’attenzione politica”. E, aggiunge, “i detenuti ci hanno ringraziato, uno si è anche commosso nel vederci. Ci hanno chiesto di continuare in questa battaglia e di tentare di riaccendere nella politica un’attenzione alle loro condizioni”. Infine, un attacco al governo: “Il decreto Nordio prevede assunzioni ma sono previste solo tra tre anni, sono manovre spot purtroppo. Vediamo una sistematica tortura nei confronti dei detenuti costretti a vivere in piccoli spazi, angusti, con muffa, anziani, non accettati dai medici, né rieducati. Abbiamo già denunciato Carlo Nordio in quanto ministro: l’omissione di atti volti a eliminare sistematiche violazioni di diritti crediamo abbia responsabilità penali”. Venezia. “A Santa Maria Maggiore un educatore ogni 60 detenuti” di Alice D’Este Corriere del Veneto, 8 agosto 2024 Nel carcere maschile di Venezia, il sovraffollamento è tra i più elevati a livello nazionale: supera infatti il 158% (la media regionale è al 137%, quella nazionale al 130%) . Ci sono 251 detenuti in uno spazio in cui la capienza massima è di 159 posti. A presentare i dati dopo la sua visita di ieri alla casa circondariale di Santa Maria Maggiore a Venezia, è Erika Baldin, consigliera regionale del Movimento 5 Stelle cha aggiunge: “A complicare ulteriormente le cose c’è il fatto che la polizia penitenziaria è fortemente sotto organico: dei 174 agenti previsti, ce ne sono soltanto 146 - spiega - Gli educatori sono 4, quindi uno ogni 63 detenuti. In un carcere dove il 66% dei detenuti è di origine straniera, c’è soltanto un mediatore culturale e da febbraio manca l’interprete per l’arabo: in queste condizioni, è veramente difficile pensare a una funzione rieducativa della pena”. E il problema, così come in molte altre carceri, riguarda anche la salute (in particolare quella mentale). “Da poco è attivo un percorso di terapia di gruppo per alcuni detenuti, coordinato da uno psichiatra - dice Baldin - l’Usl 3 Serenissima garantisce solo uno psicologo per quattro ore a settimana, quando sono già due i suicidi che si contano quest’anno dentro le mura di Santa Maria Maggiore. In Italia sono già 65 i detenuti che, dall’inizio dell’anno, si sono tolti la vita: il 2024 rischia così di segnare un nuovo, macabro record”. Ieri intanto il Ministro della Giustizia Carlo Nordio e il Garante nazionale dei detenuti Maurizio D’Ettore hanno ricevuto una delegazione dei Garanti territoriali dei diritti delle persone private della libertà personale. “Siamo consapevoli che tutto questo non basta ad alleviare la condizione carceraria ma va sottolineato che sono stati stanziati 10,5 milioni di euro aggiuntivi per uno stanziamento totale di 14,9 milioni, di cui 9,5 per gli psicologi, destinati ad aumentare il numero dei professionisti inseriti negli istituti penitenziari, in modo da migliorare la qualità dei percorsi di trattamento dei detenuti”, ha detto il ministro. Monza. Viaggio nella fabbrica dei detenuti: dalle borse in pelle ai rosari con le barche dei profughi di Alessandro Salemi Il Giorno, 8 agosto 2024 Su 700 ospiti nella casa circondariale di Monza, la metà è impegnata in attività lavorative. C’è chi si occupa della mensa e delle pulizie dell’istituto e chi è assunto da ditte esterne. La casa circondariale di Monza non è solo l’istituto di detenzione che ospita circa 700 detenuti a fronte di 408 posti di capienza massima, ma è anche un laboratorio di speranza, una “fabbrica” di lavoro, con tante sfaccettature e diramazioni, nonostante i limiti del caso. Dirigenti, operatori carcerari, rappresentanti delle istituzioni politiche, detenuti, sembrano tutti convenire sul fatto che il lavoro sia il primo antidoto alla vita dura del carcere e soprattutto la soluzione migliore per evitare di tornarci. “Stiamo cercando di incrementare sempre più le attività lavorative interne, cioè alle dipendenze dell’istituto penitenziario e anche quelle esterne, alle dipendenze delle imprese, puntando a trovare nuovi accordi con gli imprenditori - chiarisce la direttrice del carcere di Monza, Cosima Buccoliero -. Il lavoro permette ai detenuti di emanciparsi a livello sia economico sia morale. Il nostro è un carcere dove i detenuti sono poveri e hanno oggettivo bisogno di lavorare per avere una fonte di sostentamento”. L’istituto penitenziario, con una crescita costante nel tempo, è arrivato a occupare circa la metà dei detenuti in attività di lavoro, formazione o studio. Un risultato significativo, considerando che in tutto si parla di circa 350 persone, seppur l’altra faccia della medaglia dica che un’altra metà è inoccupata (una buona parte, fatta da circa 200 persone, non è nemmeno occupabile perché in stato di patologia mentale). Dalle mani dei detenuti escono prodotti anche pregevoli: borse in pelle, valigette da scuola, prodotti di cancelleria confezionati. A dare loro lavoro sono la cooperativa Pandora, che li impiega nell’assemblaggio di articoli di cartoleria della Balmar2000, come valigette da educazione artistica e tecnica, astucci, copertine per quaderni e buste in materiale plastico di alta qualità; l’azienda Mivan di Seregno per la minuteria metallica tra bulloni, ganci e componenti per l’assemblaggio; la cooperativa 1 Out per servizi di digitalizzazione di documenti cartacei e per la pulitura di documenti, libri, disegni, fotografie da muffe, funghi e polvere; la cooperativa Zerografica di tipografia, che per i detenuti allestisce un laboratorio di assemblaggio e confezionamento conto terzi di prodotti di cancelleria e cartotecnica. E infine la cooperativa sartoriale Alice, per attività di pulitura e cucitura di pelletteria per la produzione in conto terzi di borse da donna, borse da viaggio e articoli come portachiavi, agende, beauty case. In tutto sono una cinquantina gli ospiti della casa circondariale che lavorano per le ditte internamente al carcere e una trentina coloro che vengono accompagnati per lavorare all’esterno. I lavoratori interni, invece, assunti direttamente dall’amministrazione penitenziaria, sono 210 e si occupano di cucina, pulizia degli ambienti e giardinaggio. Almeno un’altra cinquantina mediamente segue corsi di formazione interni, proposti dalla casa circondariale, da Regione Lombardia, Cpia o Comune di Monza (soprattutto di ristorazione, barbering e giardinaggio), e due costanti sono tenuti dall’Ipssec Olivetti di Monza per i lavori alberghieri (cucina, sala), e dall’Iis Meroni di Lissone per la falegnameria. Il carcere dispone, infatti, anche di una falegnameria attrezzata con macchine professionali, dove oltre ai corsi del Meroni, i detenuti producono oggetti religiosi, come i rosari, con il legno delle barche dei migranti del Mediterraneo arenate a Lampedusa: un’iniziativa pensata e coordinata dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti. Altri cento detenuti poi, sono impegnati nello studio, chi semplicemente per conseguire una certificazione di italiano, chi per arrivare a un titolo di studio. Spesso, però, chi intraprende un percorso di studio, lascia, preferendo il lavoro, proprio per la condizione di povertà. Forlì. “Carcere vecchio e inadeguato. Ma il lavoro può cambiare i detenuti” di Maddalena de Franchis Il Resto del Carlino, 8 agosto 2024 Anche a Forlì, a Pasqua, uno degli oltre 60 suicidi nel 2024 in Italia. I sindacati si lamentano della struttura, mentre si aspetta quella nuova. Da circa vent’anni Techne organizza tirocini che costruiscano un futuro. Le carceri italiane scoppiano e, in questa bollente estate, a fare notizia sono soprattutto i suicidi dei detenuti: uno stillicidio drammatico, che conta già oltre 60 vittime dall’inizio dell’anno. Una di queste era a Forlì, si chiamava Mohamed Medi Cherif, aveva 29 anni ed era padre di una bambina. Scontava una misura cautelare per una rapina commessa a Jesi, in provincia di Ancona, il 24 aprile 2023, per la quale era stato condannato a tre anni di reclusione, con sentenza ancora non definitiva. È stato trovato morto la notte di Pasqua nella sua cella della casa circondariale di Forlì, dov’era stato trasferito circa tre mesi prima, dopo una permanenza temporanea ad Ancona. Sebbene il recente rapporto dell’associazione Antigone, riguardante anche gli istituti di pena emiliano-romagnoli, non collochi la casa circondariale forlivese tra quelle con le più gravi criticità (la maglia nera spetta a Bologna, con un tasso di affollamento pari al 168%, e a Rimini, 130%), le condizioni strutturali del penitenziario non sono certamente delle migliori. Se n’è riparlato anche in occasione dell’ultima rivolta dei detenuti, scatenatasi lo scorso novembre, mentre erano in servizio solo 6 agenti di polizia penitenziaria su un totale di 160 detenuti: a detta del Sinappe (Sindacato nazionale autonomo polizia penitenziaria), all’annosa carenza di organico si aggiungono i problemi di una struttura ormai fatiscente, vetusta e non più idonea all’uso detentivo. Torna così d’attualità il nodo del nuovo carcere cittadino, il cui primo progetto fu depositato in Comune nel 2003: un cantiere con mille problemi burocratici, per il quale dovrebbe essere arrivata la svolta nei mesi scorsi. Oltre al sovraffollamento e alle pessime condizioni di detenzione, “il sistema carcerario italiano è piagato dalla recidiva, segno di un carcere che non risponde alla finalità costituzionale sancita dall’articolo 27 - evidenzia ancora il rapporto Antigone -: le istituzioni dovrebbero dare maggiore importanza e supporto reale nel delicato momento della scarcerazione e del ritorno alla vita libera”. A questo proposito, a Forlì c’è chi ha scommesso da circa vent’anni sull’integrazione di detenuti ed ex-detenuti, con interventi che fungano da stimolo per il loro reingresso nella legalità: è l’ente di formazione Techne, guidato dalla direttrice generale Lia Benvenuti. “In carcere, la priorità è il contrasto all’ozio - spiega -: un detenuto che lavora è un detenuto che può mandare dei soldi ai familiari o fare un piccolo regalo al figlio per il suo compleanno. Sono quei gesti che ti rendono umano, facendoti riacquistare pian piano dignità e fiducia in te stesso”. Negli istituti di pena è complesso portare avanti progetti di formazione e accompagnamento al lavoro, poiché ci si scontra con difficoltà di ogni tipo: “Dall’inadeguatezza degli spazi, vecchi e non pensati per laboratori o tirocini, al turnover elevato dei detenuti. Per questo apprezziamo ancora di più il coraggio e la lungimiranza di quegli imprenditori che hanno firmato il nostro protocollo per l’inclusione socio-lavorativa delle persone in esecuzione penale. Il 43° firmatario del protocollo sarà Cia-Conad, la cooperativa di dettaglianti che associa gli imprenditori Conad delle province di Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini”. La firma di Cia-Conad dovrebbe aprire un nuovo ventaglio di opportunità per i detenuti nelle attività interne alla grande distribuzione, dalla gastronomia alla logistica, fino all’ortofrutta e all’allestimento dei reparti. Udine. “Un frigo per ogni cella”, raccolta fondi per i detenuti di Hubert Londero ilfriuli.it, 8 agosto 2024 Azione di solidarietà civile e umanitaria lanciata dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e dalle associazioni La Società della Ragione e Icaro. Un frigo per ogni cella. Si chiama così la raccolta di fondi lanciata dal garante dei detenuti del Comune di Udine, Andrea Sandra, per migliorare la dignità e i diritti delle persone recluse nel carcere cittadino. Una struttura afflitta dal sovraffollamento, afferma Sandra, nella quale tutte le celle sono dotata di televisore, ma molte sono sprovviste di frigorifero dove conservare cibo e bevande. Un problema che si fa più acuto con il gran caldo agostano, nonostante i ventilatori procurati dal cappellano del Carcere. Per questo il garante, assieme all’Associazione La Società della Ragione e all’Associazione Icaro Volontariato Giustizia ODV, hanno lanciato la raccolta fondi. Obiettivo, acquistare 35 frigoriferi al costo di 150 euro l’uno per un totale di 5.250 euro. Donazioni possono essere effettuate su paypal o con un bonifico. A chi donerà più di 30 euro sarà regalato un libro. Paypal https://www.paypal.com/donate/?campaign_id=D95FZELYA7PHS, oppure con un bonifico al C/C intestato a la Società della Ragione presso Intesa San Paolo, IBAN IT40F0306909606100000106293 causale “Un frigo per ogni cella”. Quelle falsità che spingono chi ha paura a provare odio di Walter Veltroni Corriere della Sera, 8 agosto 2024 I media, che sembravano sepolti dalla invadenza gioiosa della comunicazione fai da te, tornano ad avere un ruolo decisivo, di presidio liberale di spazi di conoscenza sottratti ai più funerei e distorsivi messaggi che oggi avvelenano la Rete e sono fondati sulla falsificazione della realtà a fini di propaganda. “La guerra civile è inevitabile”. Queste parole - a metà tra una profezia, un desiderio e una sollecitazione - le ha scritte uno dei guru dell’innovazione di questo tempo, Elon Musk. Le ha pubblicate sul social di sua proprietà e le ha riferite alla situazione della Gran Bretagna, un Paese democratico per eccellenza, uno dei pochi, in Occidente, in cui non si siano mai conosciute le dittature. In questi giorni l’Inghilterra è straziata dal dolore per tre bambine uccise da un ragazzo di diciassette anni mentre partecipavano a un campo estivo. Nel giro di poche ore i social hanno diffuso la notizia che il responsabile era un immigrato clandestino, ovviamente musulmano, arrivato con un barcone. Questo è bastato per scatenare notti di follia, di caccia allo straniero, di assalto alla polizia. Protagonisti i giovani, peraltro in una zona del Paese, Rotheram, dove la popolazione bianca è il novanta per cento del totale. Aizzati dall’estrema destra, i ragazzi inglesi sono scesi in piazza per attaccare moschee, negozi e ristoranti etnici. Ci sono stati 450 arresti, molti feriti, si è creato un clima davvero pericoloso. Il tutto, non lo si sottovaluti, fondato su una notizia falsa. L’assassino delle tre bambine non è infatti un musulmano arrivato con i barconi. È un ragazzo di 17 anni, nato a Cardiff da genitori ruandesi, Paese, chi lo conosce lo sa, in larga parte cristiano. Quel Rwanda che fu devastato da una guerra civile, una di quelle che piace a Musk, in cui due etnie, che avevano sempre convissuto, furono, dai belgi occupatori coloniali del territorio, contrapposte violentemente fino a scatenare un genocidio che portò alla morte di circa 800.000 persone. A Kigali un museo con fotografie appese con dei sottili fili al soffitto, documenta in modo emotivamente insopportabile lo sterminio di intere famiglie, di migliaia di bimbi, per una violenza indotta da potenze straniere. Forse quello che sta accadendo in Inghilterra a prendere per buone, non c’è ragione per non farlo, le parole di Downing Street che fanno riferimento a una campagna di disinformazione e di incitamento alla violenza “aizzata da paesi stranieri” utilizzando i social. L’estrema destra inglese soffia sul fuoco cercando di utilizzare il disagio sociale esistente, e reale, come leva per suscitare odio, sapendo che aprire conflitti devastanti all’interno delle società democratiche, oggi molto fragili, può assestare ad esse un colpo definitivo. Ma è molto diverso ciò che è successo con la storia della ragazza algerina che ha incrociato i suoi guantoni con una ragazza italiana? Anche in questo caso è partito immediatamente lo shit storm sulla identità sessuale della ragazza: si è detto che fosse un transgender o un uomo travestito da donna. Trump e molti politici della destra europea hanno scatenato un putiferio su questo tema che, come quello usato in Inghilterra, ha a che fare con una grande questione che tutti, anche la sinistra, farebbero bene a non sottovalutare: il rapporto tra identità e inclusione in società multietniche. Affrontarlo compiutamente comporta due radicalità: l’adozione, senza equivoci, di una politica di razionale e aperta inclusione e, al tempo stesso, la severa capacità di far rispettare a chiunque le regole della convivenza civile e della tutela della serenità e sicurezza personale di ogni cittadino. Il razzismo, diciamolo chiaramente, è il segno di queste rivolte. Il razzismo di cui parlava Primo Levi in Se questo è un uomo: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager”. Lungo la faglia del razzismo le società democratiche possono infatti crollare, specie in una fase in cui dimostrano lentezza e fragilità. Bisogna sempre tenere sul comodino Come si diventa nazisti, il libro di William Sheridan Allen dedicato alla trasformazione di una città tedesca, Northeim, da luogo a forte prevalenza socialdemocratica a territorio convintamente nazista. Tutto nel giro di pochi mesi. Utilizzando gli effetti della grande depressione, il partito di Hitler scelse di indirizzare la rabbia sociale verso ogni sorta di nemico: in primo luogo gli ebrei ma poi anche i socialisti, il potere delle élite che avevano sottoscritto gli accordi di Versailles e mortificato la Germania. Sembra di rivivere quella stagione. Allen scrive infatti che la trasformazione di quella piccola comunità da socialdemocratica a nazista fu “prima di tutto un problema di percezione”. La percezione del reale, oggi, è alterata dall’uso di strumenti altamente invasivi che consentono di alimentare in breve tempo tsunami di odio, di rancore, di intolleranza. È davvero assurdo che le democrazie abbiano rinunciato in questi due decenni a porsi il problema di regolamentare la più grande rivoluzione cognitiva e comportamentale che l’umanità abbia conosciuto in tutta la sua storia. Regolamentare non significa limitare libertà, che devono essere sempre salvaguardate e sono il portato migliore di questa innovazione, ma definire misure atte a proteggere i più deboli, a evitare la distorsione dei percorsi formativi degli adolescenti, a tutelare i cittadini dalla diffusione, oggi possibile con livelli tecnologicamente elevatissimi, di false notizie che possono suscitare ingiustificati riots e il sacrificio inutile della vita di innocenti. Torna d’attualità il ruolo dell’informazione, del suo pluralismo, della affidabilità di testate che garantiscano la veridicità delle notizie, l’attendibilità delle fonti. I media, che sembravano sepolti dalla invadenza gioiosa della comunicazione fai da te, tornano ad avere un ruolo decisivo, di presidio liberale di spazi di conoscenza sottratti ai più funerei e distorsivi messaggi che oggi avvelenano la Rete e sono fondati sulla falsificazione della realtà a fini di propaganda. Le parole di Musk, per la potenza di chi le ha pronunciate, devono far pensare. La “guerra civile”, la più odiosa delle guerre, è diventata una possibilità e, per qualcuno, evidentemente, un auspicio. Nel grande disegno - nessun complotto segreto, ma una lucida e dichiarata intenzione politica - di destrutturazione della democrazia, nulla è evidentemente escluso. Se ne parla, come fosse normale. Migranti. Calano gli sbarchi. Piantedosi: “Merito nostro” di Giansandro Merli Il Manifesto, 8 agosto 2024 Nel Mediterraneo centrale gli arrivi diminuiscono del 63%. Il governo esulta. La stessa dinamica si registra nei Balcani: -72%. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha parlato ieri di immigrazione nel question time alla Camera. Con l’assist di un paio di deputati della maggioranza ha snocciolato i numeri che dimostrerebbero l’efficacia dell’azione governativa: -63% di sbarchi rispetto all’anno record del 2023 e ora anche -20% sul 2022, quando in carica c’era l’esecutivo Draghi. Complessivamente sono stati 34.762 (contro i 93.467 e 44.637 dei due anni precedenti). Il governo è sicuro che il calo dipenda dalla cooperazione con i partner della sponda sud del Mediterraneo: il regime tunisino di Kais Saied e le milizie libiche. Cooperazione che, spiega Piantedosi, consiste sia in formazione del personale e fornitura di strumenti operativi, sia nei rimpatri assistiti realizzati insieme a Oim e Unhcr. Quest’anno sono stati 5.111 dalla Libia e 3.800 dalla Tunisia. In pratica le persone migranti sono rispedite a casa in maniera “volontaria” direttamente dai paesi di transito. Le virgolette indicano che diversi attori impegnati nella tutela dei diritti umani, tra cui l’Asgi, nutrono forti dubbi sul fatto che chi si trova nei centri di tortura libici o è perseguitato dai militari tunisini possa optare per il rimpatrio in maniera libera. Poco importa, dal punto di vista del governo Meloni. La sua ipotesi di lavoro è tutt’altra: il concetto di “deterrenza”. Ovvero rendere più difficile il viaggio verso l’Italia e complicare la vita a chi, nonostante tutto, riesce ad arrivare. In questo senso Piantedosi sottolinea: l’aumento del 20% rispetto al 2023 dei rimpatri forzati dal nostro paese (3.080) che avrebbero, appunto, un “effetto deterrente”; l’arresto di 144 presunti “scafisti” (16 in più dell’anno scorso quando, però, gli sbarchi erano stati più del doppio); l’apertura dei centri in Albania. Su quest’ultimo punto il titolare del Viminale afferma che il ritardo nella partenza del progetto dipende dalla natura del terreno dove è in corso la realizzazione delle strutture detentive e dall’ondata di “caldo anomalo” che ha fatto rallentare i turni degli operai. Il ministro non risponde sulla data di inaugurazione dei centri, che comunque si sta avvicinando. “L’obiettivo è gestire lì un cospicuo numero di procedure accelerate di frontiera, che da gennaio 2026 costituiranno un obbligo per gli stati membri in virtù del Patto su immigrazione e asilo”, afferma Piantedosi. Un altro tassello della strategia anti-migranti di cui il governo si ritiene soddisfatto, soprattutto alla luce dei numeri che renderebbero il successo oggettivo. Non è d’accordo il deputato Pd Matteo Mauri: “Degli sbarchi record del 2023 avete dato la responsabilità a “ragioni esogene”. Ora dite che i flussi sono diminuiti grazie alle leggine che avete approvato. Ma i motivi che spingono le persone a partire non dipendono dalla vostra propaganda o dalle politiche degli Stati nazionali”. Un calo analogo a quello del Mediterraneo centrale si registra anche sulla rotta balcanica: -72%, ha detto martedì il ministro degli Interni serbo, rivendicando l’azione del suo governo.