Le cose come stanno Ristretti Orizzonti, 7 agosto 2024 Agosto, il momento peggiore per la condivisione; ognun per sé, sognando California. Però intanto in galera la gente muore, e chi governa chiude gli occhi, facendo finta di niente. Meglio la coerenza: “garantisti nel processo” (che poi non è vero), “la certezza della pena dopo” (marcire). Così, da una parte si dice: siamo contro provvedimenti tampone, chi sbaglia deve pagare, mentre qualcun altro invece osserva che non ci sono le condizioni politiche, mancano le risorse, ci vorrebbe una riforma organica, e ancora che occorre lasciare intatta la percezione sociale e politica che la limitazione della libertà personale prosegua “senza sconti”, sia pure al di fuori delle strutture penitenziarie ormai giunte al collasso. Allora vediamo, le cose come stanno. Ad Agosto in prigione si crepa di caldo, e manca tutto. Poi a ferragosto qualcuno si fa vivo, a portare un segno di attenzione e solidarietà, che va bene, ma sempre più spesso dalle grate penzolano corpi. Grate di che? Ad Agosto parli al muro più del solito, perché ci sono le ferie e il mondo fuori vive tempi diversi da quelli delle sezioni, sempre più chiuse. Sempre più soli, sempre più deboli, nessuno che spieghi veramente a donne e uomini (e ragazzini) che niente cambierà con questo bel decreto legge in via di conversione, e anzi aumenterà il contenzioso, e nessuno ne trarrà benefici. Eppure ci audiscono, ci chiedono di dare un contributo. Commissioni, tavoli, protocolli, accordi. Eppure fanno finta di ascoltare, e vengono a dirti che faranno, che hanno presente la situazione. Nel frattempo, fai la fila per la doccia, quando l’acqua arriva, quando è consentito. Nel frattempo stai in coda per il bagno, e com’è stato di recente ricordato se ti scappa da cagare sono solo fatti tuoi. Nel frattempo, ovviamente, la sentenza costituzionale 10/24 resta una petizione di principio; niente amore in carcere, abbiamo cose più serie a cui pensare. Questa non è un’elegia, la mesta nostalgia dell’epoca che fu, e neanche l’eresia contrapposta al linguaggio del tempo corrente. Una fotografia, piuttosto, con una didascalia: ora basta, not in my name. Mentre il vento fa il suo Gir(o) e si guarda alla Francia per istituire corpi speciali, con il nascituro reato di rivolta corredato di nuove preclusioni, mentre anche le carceri minorili scoppiano e bruciano, non è più possibile limitarsi alla critica isolata, più o meno avvertita, né vicariare le scelte criminogene con rassicuranti rinvii a tempi migliori. Chi ha ancora a cuore la Dignità dell’Uomo, e il rispetto di sé, non può più chiamarsi fuori o accettare di fare il pompiere per conto terzi. Gli incendiari sono altri, e gli idranti scarseggiano. Sottoscrivono Michele Passione, Avvocato del Foro di Firenze Antonella Massaro, Università di Roma Cosimo Palumbo, Avvocato del Foro di Torino Laura Cesaris, Università di Pavia Antonio Vallini, Università di Pisa Serena Quattrocolo, Università di Torino Paolo Borgna, Presidente dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea Simone Spina, Magistrato del Tribunale di Siena Emilia Rossi, Avvocata del Foro di Torino Luisa Ravagnani, Garante dei detenuti del Comune di Brescia Stefano Anastasia, Garante dei detenuti della Regione Lazio Francesco Maisto, Garante dei detenuti del Comune di Milano Antonella Calcaterra, Avvocata del Foro di Milano Annamaria Alborghetti, Avvocata del Foro di Padova Valerio Spigarelli, Avvocato del Foro di Roma Ornella Favero, Direttrice Ristretti Orizzonti Marella Santangelo, Università di Napoli C’è stato il sessantaquattresimo suicidio nelle carceri. Ormai si può parlare di “omicidi” di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 agosto 2024 L’ultimo detenuto morto è un cittadino albanese di 55 anni: dall’inizio del 2024 si è suicidato un carcerato ogni tre giorni, davanti a un governo che ha approvato il Decreto Carceri, nei fatti inadeguato alla tragedia in corso. Era un cittadino di origini albanesi, aveva 55 anni, si è impiccato martedì sera in una cella della Casa circondariale di Biella. Nella tragica contabilità degna di Antigone che le associazioni della galassia radicale aggiornano ogni giorno, è il 64esimo detenuto suicida dall’inizio del 2024, uno ogni tre giorni. Il suicidio numero 63 era avvenuto solo lunedì, un 48enne originario di Montecorvino Rovella che si è impiccato nel bagno della camera di sicurezza del tribunale di Salerno. A queste vittime, che ormai si possono a buon diritto definire di “omicidio”, vanno inoltre aggiunti i sette agenti del Corpo di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita nello stesso periodo. Il segretario generale di UilPa Polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio, ha commentato: “Nella sostanziale indifferenza del governo, non si ferma la carneficina nelle carceri del paese e siamo a un numero di morti assurdo, mai visto in precedenza”. Un tempo l’emergenza carceri esplodeva col calore dell’estate, ora non fa distinzioni di stagioni. Anche se proprio domenica scorsa è ripartita da Torino, dalla casa circondariale Lorusso e Cutugno, l’azione “Estate in carcere” promossa dal Partito radicale contro il sovraffollamento e le condizioni incostituzionali di detenzione. Proprio a Torino, alle Vallette, qualche giorno fa era esplosa una violenta protesta e ormai simili episodi avvengono anche nelle carceri minorili. Che il governo e tutti governi del passato siano sordi davanti al problema è noto, ma non giustificabile. Anche se proprio nei giorni scorsi il Senato ha approvato la conversione in legge del decreto Carceri. Nel quale però, oltre a provvedimenti necessari come l’assunzione straordinaria di agenti (mille) e altri interventi palliativi mancano le misure di impatto e quelle di “umanizzazione carceraria”, per usare le parole del Guardasigilli Nordio, sono inadeguate alla tragedia in corso. Che, vale la pena ricordarlo, soprattutto al governo e al Parlamento, non è solo umanitaria ma è uno sfregio allo stato di diritto e alle funzioni costituzionali della pena. Il “tutti dentro” fa altri morti: sono 64 i detenuti suicidi, 7 gli agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 agosto 2024 Il coordinamento nazionale dei Garanti territoriali oggi incontra il guardasigilli Carlo Nordio. Non se ne può più. Come segnalato dal Segretario generale Gennarino De Fazio della Uilpa, si sono verificati altri due suicidi nel giro di 24 ore. Uno è avvenuto nel bagno della camera di sicurezza del Tribunale di Salerno, dove il detenuto era stato condotto per la convalida dell’arresto per maltrattamenti in famiglia. L’altro lunedì sera nel carcere di Biella. Dall’inizio dell’anno, si contano 64 suicidi tra i detenuti, ai quali vanno aggiunti i 7 appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Un numero senza precedenti in sette mesi. A ciò si aggiunge il sovraffollamento che, unito al caldo torrido insostenibile nelle strutture prive d’aria, sta scatenando diverse rivolte. Di fronte a questa situazione, il governo e in particolare il ministro della Giustizia sembrano inerti, limitandosi a emanare un decreto carcere che non può essere nemmeno paragonato a un’aspirina. È recente il grido d’allarme lanciato dal Garante nazionale delle persone private della libertà che ha avuto l’onestà intellettuale di presentare i dati, evidenziando la gravità della situazione. Eppure, nella seduta di lunedì scorso, l’esecutivo ha posto la fiducia alla conversione, con modificazioni, del decreto carcere. L’unica soluzione che potrebbe arginare l’emergenza è la proposta di legge Giachetti / Nessuno Tocchi Caino, che promuove la liberazione anticipata speciale. Tuttavia, questa è stata affossata dalla maggioranza e dai 5 Stelle, in sintonia con una visione carcerocentrica della società. Il motto che li accomuna è “tutti dentro”, perfezionando il carcere. Antiche proposte fallimentari. Il Garante regionale del Lazio, Stefano Anastasìa, su Huffington Post, lancia un appello su più fronti per affrontare l’emergenza carceraria in Italia, in un momento di forte tensione segnato da proteste e suicidi. Si rivolge innanzitutto ai detenuti, esortandoli a non cedere alla disperazione e a evitare azioni violente che potrebbero solo peggiorare la loro condizione. Li invita invece a continuare a manifestare pacificamente il loro disagio. Il secondo appello è rivolto all’Amministrazione penitenziaria, sollecitata a gestire con umanità e intelligenza la sofferenza dei reclusi, garantendo quanto previsto dall’ordinamento: dalle comunicazioni con l’esterno all’apertura delle celle, dalle dotazioni di comfort minimo agli incontri con i familiari. Stefano Anastasìa suggerisce anche al capo del Dap di sospendere temporaneamente la circolare che limita l’uscita dalle celle. Alla magistratura di sorveglianza, il garante chiede di accelerare l’esame delle istanze pendenti per benefici e misure alternative. Infine, esorta i parlamentari a visitare gli istituti penitenziari durante l’estate, per rendersi conto di persona della situazione e poterne discutere con cognizione di causa alla ripresa dei lavori. L’obiettivo di fondo è ripensare il sistema carcerario italiano, riservandolo solo ai reati più gravi e investendo su servizi esterni di reinserimento sociale per gli altri casi, in linea con l’articolo 27 della Costituzione. Anastasìa sottolinea l’urgenza di interventi concreti, criticando l’apparente indifferenza del governo di fronte all’emergenza in corso. Il Coordinamento nazionale dei garanti territoriali, guidato da Samuele Ciambriello, si prepara a un importante incontro con il ministro della Giustizia Carlo Nordio, previsto oggi, mercoledì 7 agosto. L’incontro, richiesto nelle scorse settimane, rappresenta un’opportunità cruciale per affrontare la crisi nel sistema carcerario italiano. In vista del colloquio, Ciambriello rivela che i garanti porteranno al tavolo un documento operativo ricco di proposte concrete, accompagnato da un quadro realistico della situazione attuale. L’intento è duplice: comprendere la strategia del ministro per affrontare l’emergenza e sondare quali direttive verranno impartite al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per tutelare i diritti e la dignità dei detenuti. Le proposte avanzate nascono dal contatto diretto con la realtà delle carceri e si pongono come antidoto all’apatia che sembra permeare politica e società civile. Tra i punti chiave figurano: la cronica carenza di personale, che va dagli agenti di polizia penitenziaria agli educatori, dai mediatori agli psicologi; l’anomala situazione di circa 10.000 detenuti che, pur scontando pene inferiori a un anno e senza reati ostativi, rimangono in carcere; l’estensione dei giorni di liberazione anticipata speciale; e l’introduzione di un sistema di “numero chiuso” negli istituti per contrastare il sovraffollamento. Ciambriello sottolinea anche la preoccupante situazione nelle carceri minorili, dove il sovraffollamento ha raggiunto livelli critici. I garanti si pongono come interpreti dei numeri e delle statistiche, con l’obiettivo di stimolare un’azione politica concreta e immediata per migliorare le condizioni nei penitenziari italiani. Nel frattempo, i detenuti del carcere di Brescia annunciano una “battitura” per domani, giovedì 8 agosto. Si tratta di coloro che sono stati citati dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante il suo discorso, in cui ha posto l’accento sulle insostenibili condizioni nelle carceri. Un’iniziativa che potrebbe coinvolgere altre strutture. L’associazione Yairaiha Ets fa sapere che tale protesta verrà replicata il 15 agosto, dalle 12: 00 alle 12: 30. L’azione, che vedrà i detenuti battere oggetti contro le sbarre delle celle, mira a denunciare le condizioni disumane e degradanti presenti nel sistema penitenziario del Paese. Questa manifestazione coordinata, che coinvolgerà i reclusi di tutti gli istituti italiani, nasce dalla crescente preoccupazione per le condizioni di vita all’interno delle strutture e dalla necessità di attirare l’attenzione pubblica su questa problematica urgente. Yairaiha Ets ha già manifestato il suo pieno appoggio all’iniziativa, rispondendo alla richiesta di sostegno proveniente direttamente dai detenuti. L’organizzazione sta ora lanciando un appello a tutte le realtà sensibili al tema, invitandole a unirsi e amplificare il messaggio della protesta. “È fondamentale che la voce dei detenuti e delle detenute raggiunga l’opinione pubblica e il governo con la giusta risonanza”, afferma l’associazione in un comunicato. “Non possiamo permettere che queste istanze vengano sminuite o dimenticate”. Yairaiha ETS invita altre organizzazioni e associazioni a esprimere il proprio supporto attraverso varie forme di solidarietà. Suicidi in carcere, è emergenza Italia: oltre 60 morti, a un passo dal record di Gigi Di Fiore Il Mattino, 7 agosto 2024 I numeri sono da emergenza. Nei primi otto mesi di quest’anno, secondo il Garante nazionale dei detenuti sono stati ben 61, 33 italiani e 28 stranieri, i suicidi nelle carceri italiane. L’associazione Antigone ne conta invece 64. L’ultimo, in ordine di tempo, è un 55enne di origini albanesi che si è impiccato in cella a Biella. Il giorno prima, un 48enne di Montecorvino Rovella in attesa di interrogatorio si è ucciso nella camera di sicurezza del Tribunale di Salerno. Nelle ultime ore, nel carcere di Ariano Irpino un detenuto ha cercato di impiccarsi, salvato da un agente della polizia penitenziaria. Disperazione, gente rinchiusa in strutture lontane dalle zone dove vive la famiglia o priva di legami familiari e con poche risorse economiche per permettersi un avvocato di fiducia. Secondo le statistiche del Dipartimento amministrazione penitenziaria (il Dap), le 190 carceri italiane hanno una capienza di 51.207 detenuti. A fine luglio, nelle celle ce ne erano invece 61.133, di cui 19.150 stranieri e 2.682 donne. È sovraffollamento, con 9.926 detenuti oltre i limiti di capienza delle carceri. I record a Foggia, Varese, Verona e al Regina Coeli di Roma. In estate, significa condizioni di vivibilità impossibili per il caldo, a volte carenza d’acqua e condizioni igieniche approssimative per i servizi da condividere tra più persone. In Campania, nelle 15 strutture carcerarie i detenuti dovrebbero essere 6.228. A fine luglio erano invece 7.531, che fanno 1.303 oltre la capienza. L’iceberg del sovraffollamento è a Poggioreale, con 2.072 detenuti presenti rispetto a una capienza di 1.624. Celle che scoppiano, vivibilità precaria, aggressioni e spesso liti che il caldo esaspera. Dice Samuele Ciambriello, garante dei detenuti in Campania: “La fotografia è impietosa, con sovraffollamento, assenza di psichiatri e psicologi e, soprattutto, un tasso di suicidi venti volte superiore a quello delle persone libere”. Nei primi tre mesi dell’anno, in Campania si erano suicidati già 5 detenuti. Tra loro, Robert L., che nel 2019 era riuscito a evadere da Poggioreale per essere poi ripreso. Ed è proprio il carcere di Poggioreale, insieme con Pavia, Verona e Teramo, la struttura con il più alto numero di morti “per cause da accertare”. L’alta percentuale di detenuti stranieri non facilita le cose. Bisogna fare i conti con culture e abitudini diverse, in molti casi con difficoltà di comunicazione per la scarsa conoscenza dell’italiano. Nelle carceri italiane, l’anno record dei suicidi fu il 2022, con 85 casi accertati. Sono stati 70 l’anno successivo. Si legge nel dossier annuale dell’associazione Antigone: “Dalle biografie dei detenuti suicidi emergono in molti casi situazioni di grande marginalità. Molte le persone giovani e giovanissime tra i 26 e i 39 anni, molti gli stranieri. Molte anche le situazioni di presunte o accertate patologie psichiatriche. Alcuni provengono da passati di tossicodipendenza, altre erano persone senza fissa dimora”. Il decreto carceri, approvato al Senato a inizio mese, sta per diventare legge. Ma oltre a mille nuove assunzioni di agenti penitenziari, per la vivibilità dei detenuti prevede solo un aumento mensile di telefonate ai familiari da quattro a sei. Nulla invece sulla richiesta di più operatori, come psicologi e assistenti sociali, che da tempo sono in cima alla lista degli interventi sollecitati dal Garante dei detenuti. Spiega Ciambriello: “La Campania è la seconda regione italiana, dopo la Lombardia, per indice di sovraffollamento. La metà dei detenuti deve scontare meno di due anni. Basterebbe applicare per questi le misure alternative previste dal nostro ordinamento”. L’esasperazione che sfocia nei suicidi esplode nel primo periodo di detenzione. Nella statistica dei suicidi di inizio anno, in 24 casi erano persone in cella da meno di sei mesi, in nove casi erano ai primi 15 giorni di detenzione, mentre, dato che fa riflettere, in 17 casi si trattava di persone in attesa di giudizio. Insomma, l’esasperazione non nasce quasi mai tra chi deve scontare una pena definitiva, ma tra chi vive l’incertezza di un processo in corso o è da poco detenuto. Da qui l’analisi di Ciambriello: “Servono figure di ascolto, con finanziamenti ministeriali per assumere psicologi, psichiatri, assistenti sociali, pedagogisti, tecnici della riabilitazione. I suicidi non sono prevedibili, ma si possono prevenire e non solo con teorici protocolli”. Con il caldo, la vivibilità nelle carceri potrebbe migliorare garantendo frigoriferi e ventilatori, con le celle tenute aperte fino alle 20. Ma se il Garante dei detenuti nazionale, Maurizio D’Ettore, parla di “dignità della pena accanto alla certezza della pena”, i vincoli dei regolamenti possono essere sciolti solo da provvedimenti del Dap o da norme ministeriali. E il Consiglio dei ministri potrebbe oggi discuterne, al di là del decreto carceri in approvazione. Misure necessarie per il disagio mentale dietro le sbarre di Robero Galullo Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2024 Il problema, non emergenziale ma strutturale. È poco censito e affligge oltre il 40% dei detenuti. Nel dibattito ricorrente sulle condizioni nelle quali la popolazione carceraria è condannata a sopravvivere c’è sempre un convitato di pietra: il disagio mentale. L’emergenza psichiatrica negli istituti di pena - che colpisce i reclusi ma si riflette su direttori, agenti, funzionari giuridico-pedagogici, personale medico e volontari - è presenza incombente ma invisibile, che tutti conoscono ma che pochi nominano. Per molti analisti, esperti e politici, l’argomento è tabù perché, a 11 anni dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e di fronte all’agonia delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza - che ne hanno preso il posto -, nessuno o quasi sa cosa fare. Eppure, nel manuale del 2009 sui detenuti con bisogni speciali, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, ha identificato a livello mondiale otto gruppi di detenuti con bisogni speciali motivati da una situazione di particolare vulnerabilità: al primo posto ci sono quelli con bisogni (al plurale) di assistenza psichiatrica. Poco o nulla è cambiato negli ultimi anni. Anche perché - nella rimozione del problema che non è emergenziale ma strutturale - molto incide il fatto che le statistiche per i detenuti con bisogni di assistenza psichiatrica non sono raccolte in modo sistematico. E così nessuno sa in realtà quanti siano i reclusi con disagio mentale e psichiatrico e il loro tasso di gravità. Nell’ultimo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione si legge che il disagio mentale è maggiore tra le donne che tra gli uomini. Le recluse con diagnosi psichiatriche gravi rappresentavano, negli istituti visitati dall’Associazione, il 12,4% delle presenze, contro il 9,2% della rilevazione complessiva. Le donne che facevano regolarmente uso di psicofarmaci rappresentavano il 63,8% delle presenze, contro il 41,6% complessivo. Può, dunque, quel dato complessivo - 9,2 diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti - essere attendibile? Assolutamente no, perché se così fosse - su una popolazione che oggi oscilla intorno alle 61mila presenze contro una capienza massima di 51.234 posti - ci sarebbe poco o nulla da preoccuparsi. Invece - come ricorda Antigone - “sta diventando un carcere di matti”. Le Aziende socio-sanitarie - che dovrebbero gestire l’area sanitaria negli istituti - raramente assumono o convenzionano psichiatri a tempo pieno e sfuggono alle diagnosi migliaia di casi. L’aleatorietà di alcune statistiche, di fronte alla nuda realtà, è testimoniata anche da quanto scrive il magistrato Roberta Palmisano - ex direttore dell’Ufficio studi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - nel n. 3 del 2015 di “Rassegna penitenziaria e criminologica”. Palmisano ricorda che uno studio che coinvolse sei regioni sui bisogni di salute di 16mila detenuti (1/3 della popolazione penitenziaria di allora) rivelò che il problema della salute mentale affliggeva oltre il 40% dei detenuti. I numeri, dunque, dicono poco se non hanno alla base sistematicità, impegno continuo nella raccolta, capacità di analisi e progettualità, oltre alla realizzazione delle strutture previste, la formazione degli operatori, l’ingresso di figure preparate (e non che siano agenti o funzionari giuridico-pedagogici ad affrontare le patologie) e sponde politico/sociali. È ancora il lavoro di Antigone - nell’aggiornare le schede dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione - a svelare le troppe falle del sistema. Leggiamo cosa dicono quelle di Bolzano e Reggio Calabria. Nord e Sud. Partiamo da Bolzano. Alla voce “Numero settimanale complessivo di ore di presenza degli psichiatri” la risposta è “non disponibile”. Stessa risposta alle voci “Quante persone presentano diagnosi psichiatriche gravi?” e “Persone con diagnosi psichiatriche gravi”. Infine, non esiste un’articolazione per la salute mentale o un reparto per i detenuti con infermità psichica. Nella casa circondariale Panzera di Reggio Calabria, il Reparto di osservazione psichiatrica, che prevede al massimo la presenza di 5 detenuti, è stato definitivamente chiuso e in attesa di lavori di ristrutturazione per spostarci alcuni ambulatori. È ora che il convitato di pietra diventi visibile a tutti. A partire dalla politica. Quel silenzio assordante dell’Ispettorato dei cappellani penitenziari di Don Vincenzo Russo* Il Dubbio, 7 agosto 2024 Sempre più si sentono voci che si alzano dall’universo carcere e giustizia per porre all’attenzione dell’opinione pubblica il tema della drammatica condizione nella quale versano i detenuti rinchiusi negli istituti italiani. Tanti i problemi, troppi, per un sistema ormai al collasso e che, nonostante ciò, rimane in vita inalterato producendo morti con il trascorrere dei giorni. Ogni ora che passa è un tempo infinito di tormento e lesione della dignità per tante persone che, anche per cause di certo non estranee alle mancanze e alle contraddizioni della nostra attuale società, sono ammassate in sovrannumero in luoghi dove, come essi temono, sono confinati quasi per essere dimenticati e puniti. Inutile dire che tante, troppe volte, le comunicazioni che appaiono nei vari organi di stampa lasciano trapelare, nemmeno troppo velatamente, un sentimento di vendetta profondo, agli occhi del quale, evidentemente, il carattere puramente afflittivo della pena così come oggi si sconta, non può apparire del tutto fuori luogo e inopportuno. Tra le tante voci che si alzano per denunciare il problema e che per fortuna non mancano (Camere penali, magistrati, esponenti politici, associazioni di volontariato ecc.) si sente però una stonata assenza. È quella di una voce che, invece, proprio per la sua natura e finalità, ci si aspetterebbe di sentire con forza ed in prima fila. Mi riferisco alla voce dei cappellani del carcere nel loro insieme e, particolarmente, a quella di tutta la struttura che ne presiede il coordinamento e li rappresenta: l’Ispettorato Generale dei cappellani penitenziari. Proprio chi è vicino, ogni giorno, alle persone detenute e le accompagna nei loro difficili percorsi, non può non essere completamente immerso nel dramma in cui vivono e non può non inorridire di fronte alle ripetute violazioni di diritti e dignità che subiscono. Chi annuncia la vita, una vita da difendere ad ogni costo perché sacra e dono di Dio, non può non ingaggiare un duro confronto con tutto quanto, invece, va in direzione contraria. Eppure, senza minimamente sminuire l’importante servizio reso da ogni singolo cappellano, che certamente sa farsi vicino alle persone cui è inviato, non sento una voce unica, strutturata ed autorevole che, in rappresentanza di questa figura, si alzi per denunciare ciò che accade e per chiedere con vigore immediati interventi. L’Ispettorato Generale, sul tema, appare proprio silente. Non ho memoria di pronunciamenti, di interventi, di fatti concreti attraverso i quali questa struttura - appunto solo struttura! - abbia affermato con forza quanto per prima essa dovrebbe servire, cioè l’inviolabilità della dignità umana e l’inaccettabilità di condizioni e trattamenti disumani all’interno del carcere. Chi per vocazione annuncia l’amore e il perdono, come può tacere quando a trionfare sono la vendetta e la distruzione dell’altro? Chi per sua missione porta la vita, come può rimanere in silenzio o comunque sottotraccia, quando questa è calpestata per mezzo di situazioni umilianti capaci di condurre persone alla morte? Quanto è sconcertante l’elefantiaco e ipocrita modo di agire delle Istituzioni quando, nate per essere al servizio di una causa importante, finiscono per trovare nel proprio esistere e autoconservarsi le ragioni del proprio operare. Questo non sarebbe mai dovuto accadere per l’Ispettorato! Proprio così. È inaccettabile che manchino azioni serie, determinate e coraggiose in favore delle vittime vere del sistema carcere, che sono i poveri lì stritolati all’interno in un ammasso soffocante, mentre abbondano, semmai, incontri paludati e cortesie istituzionali nei luoghi dove si prendono le decisioni e, così facendo, non si agisce per affrontare realmente il problema. Tutto questo sembra proprio andare in direzione contraria alle indicazioni, coraggiose e forti, che Papa Francesco ripetutamente dà alla Chiesa nel suo insieme, una Chiesa chiamata a farsi vicina ai poveri, a vivere nei luoghi della povertà per portare lì il suo annuncio, ad ogni costo. Non c’è posto, ci ricorda sempre il Santo Padre, per atteggiamenti volti a servire posizioni di privilegio e ambizioni personali, ma solo per un esclusivo servizio a chi ogni giorno fa i conti con ingiustizie e sofferenze. Le visite del Pontefice in alcuni istituti di pena hanno incontrovertibilmente detto ciò che è cristianamente scontato; al centro delle attenzioni vi devono essere i detenuti, non le strutture di governo. Così, ad esempio, se si organizzano convegni sul tema carcere sono loro a dover intervenire ed essere considerati protagonisti di ogni riflessione. Eppure, nei convegni nazionali organizzati dalla Cappellania Penitenziaria, proprio i detenuti e la loro voce sono mancati, mentre hanno abbondato illustri rappresentanti della gerarchia ecclesiastica e del potere politico. Non so se, nell’Ispettorato, si dà prevalenza e giusto risalto a quella cultura dello spirito che deve necessariamente guidare ogni operato che possa dirsi cristiano, o piuttosto non si lasci campo ad una sottocultura che, di cristiano, ha solo la veste e, in realtà, è più strettamente ancorata a piccolezze umane. Tutto questo si rende evidente allorché manca una vera partecipazione e vicinanza alle condizioni dei detenuti e anche il necessario sostegno all’attività dei singoli cappellani, troppe volte lasciati soli contro le avversità del sistema e non aiutati quando colpiti dalle violente reazioni di quest’ultimo, capace di allontanare per ridurre al silenzio distruggendo la voce scomoda. Se l’Ispettorato non è vicino ai detenuti, ai cappellani e a tutti gli altri operatori che lavorano in carcere - cominciando dagli agenti di polizia penitenziaria - quale la sua funzione allora? Non voglio emettere giudizi verso le persone ma solo esprimere una sensazione generale, che preoccupa, perché fa mancare nel sistema carcere la forza di una rappresentanza autorevole quale potrebbe essere quella della cappellania. Quest’ultima appare oggi significativamente indebolita, complice anche, probabilmente, la scelta delle persone chiamate a far parte dei vari consigli, non fondata sull’impegno ed il carisma ma sulla opportunità di costituire rappresentanze sterili, facilmente gestibili, non interessate a dare scossoni a tutto il sistema e a rompere i delicati equilibri. Aggiungo un’amara riflessione. Negli ultimi mesi, con il contributo della Cei, sono stati donati ad alcuni istituti dei ventilatori, quale sostegno ai detenuti nell’affrontare gli infernali mesi estivi in mezzo a temperature che, nelle carceri, si fanno davvero roventi. Ben vengano i ventilatori, ma questi non siano solo quelli che muovono l’aria! Giunga, piuttosto, una ventilata di dignità, che allontani il clima asfissiante di abbandono e di morte, una ventilata capace di portare vita e speranza. Quasi inutile donare oggetti che muovono un’aria destinata a rimanere stagnante, per creare una torbida illusione di sollievo; ben più importante è introdurre in carcere la forza di una vita rigenerata, un cambiamento che ponga fine ad un sistema che, oltre ad essere inutile, è profondamente ingiusto. La voce che sento assente non può assolutamente mancare. È vero, dire con forza ciò che è in verità, porta a contrarietà ed esclusioni, come ho provato su di me subendo l’allontanamento dal mio servizio quale cappellano. Ma non vi è alternativa. Ogni altro atteggiamento è complicità con un’istituzione che genera morte. *Ex Cappellano di Sollicciano Il Dl carceri al traguardo. Liberazione anticipata e Comunità per riabilitare di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2024 Il decreto carceri dopo il voto di fiducia di ieri sera, si avvia oggi a completare il suo iter, con la decretazione d’urgenza, pur non contenendo nessun disposizione immediatamente operativa. Un vulnus che aveva portato la minoranza a presentare una eccezione di costituzionalità, respinta dall’Aula di Montecitorio. Il Dl prevede l’assunzione di mille unità per il personale del Corpo della Polizia penitenziaria: 500 nel 2025 e 500 nel 2026. E incrementa, in linea con il Pnrr, di 30 unità anche la dotazione organica del personale dirigenziale penitenziario e autorizzando al tempo stesso lo scorrimento delle graduatorie relative agli ultimi concorsi per allievi commissari e per allievi vice ispettori del Corpo della polizia penitenziaria le cui graduatorie sono state già approvate. Nell’ottica di velocizzare l’immissione in servizio viene ridotta la durata del corso per la nomina ad agente di polizia penitenziaria. Si interviene poi - anche in questo caso con un regolamento da dettare entro i sei mesi dall’entrata in vigore - sulla liberazione anticipata. Nessuna ulteriore riduzione di pena - non è infatti passata la proposta delle opposizioni di portare da 45 a 60 i giorni da scontare ogni semestre - ma un iter, almeno sulla carta, più snello e trasparente. La pena da espiare sarà indicata nell’ordine di esecuzione, sia con le detrazioni sia senza, con l’avvertenza che il beneficio, che può essere revocato dal magistrato di sorveglianza, è subordinato alla buona condotta e alla partecipazione ai corsi di rieducazione. Prevista la liberazione anticipata per gli over 70 che sono in condizioni di salute molto gravi, se con una pena residua con un tetto di quattro anni. In realtà un’opportunità che riguarda 1.244 detenuti, su una popolazione carceraria di circa 6imila. Si rimanda a un regolamento, da adottare a sei mesi dall’operatività della norma, anche per l’aumento delle telefonate concesse ai condannati, che passano dalle quattro mensili a sei. All’insegna della semplificazione la procedura per accedere alle misure penali di comunità. Per agevolare il reinserimento sociale dei detenuti - compresi quelli con dipendenze o disagi psichici che non richiedono riabilitazione - viene istituito presso il ministero della Giustizia un “albo” delle strutture abilitate, che dovranno garantire assistenza e una riqualificazione professionale in vista di un ingresso nel mondo del lavoro. Nel Codice penale debutta il nuovo reato di indebita destinazione di denaro o cose mobili, punito con la reclusione da sei mesi a tre anni, che salgono a quattro se ad essere pregiudicati sono gli interessi dell’Unione europea. Uno stop viene dato al sequestro e al pignoramento del denaro, di titoli e altri valori che siano riserve valutarie di Stati esteri. E che le banche centrali o le autorità monetarie estere detengono o gestiscono per conto proprio o dello stato a cui appartengono che sono depositati in Bankitalia in conti dedicati. Slitta infine di un anno l’operatività del Tribunale per le persone per i minorenni e per le famiglie. L’albo delle Comunità È istituito presso il ministero della Giustizia un “albo” delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale dei detenuti. Per entrare nell’elenco è necessario garantire servizi di assistenza, di riqualificazione professionale e reinserimento socio-lavorativo dei soggetti residenti, compresi quelli con problematiche derivanti da dipendenza o disagio psichico che non richiedono trattamenti specializzati. La liberazione anticipata Cambia l’iter della liberazione anticipata, già prevista da tempo. Ora nell’ordine di esecuzione la pena da espiare deve essere indicata considerando le detrazioni, se ci sono, o il periodo residuo senza i “tagli”. Il destinatario viene poi avvisato, sempre nell’ordine di esecuzione, che il beneficio è subordinato alla buona condotta e alla partecipazione all’opera di rieducazione. Da comunicare sia la mancata concessione del beneficio sia la revoca. Telefonate con i familiari Il decreto-legge richiama ancora una volta una modifica necessaria del regolamento di esecuzione, concedendo sei mesi per provvedere, per ampliare il numero delle conversazioni telefoniche autorizzatili, parificandole ai colloqui visivi. Il numero di telefonate per i detenuti per reati diversi da quelli ostativi, salgono a sei mensili rispetto alle attuali quattro. Non è passata la proposta di lasciare le regole dettate nel tempo del Covid che prevedeva un numero nettamente superiore. Interventi sul personale Oltre al reclutamento di mille agenti di polizia penitenziaria, 500 nel 2025 e 500 nel 2026, per raggiungere gli obiettivi di efficienza e innovazione, in coerenza con le linee progettuali fissate dal Pnrr, il decreto prevede anche un aumento dell’organico del personale dirigenziale penitenziario destinato a salire di 30 unità. Nell’ottica di un più rapido ingresso in servizio viene tagliata anche la durata dei corsi di formazione per la Polizia penitenziaria. L’allarme del CNCA: il Decreto Carceri stravolge il ruolo delle Comunità di Fulvio Fulvi Avvenire, 7 agosto 2024 Secondo Caterina Pozzi, presidente Coordinamento delle Comunità di accoglienza, il dl Nordio rischia di trasformare le strutture di recupero e reinserimento dei detenuti in “piccole prigioni private”. Altro che misure alternative: con il “decreto svuota carceri” in via di approvazione da parte del Parlamento, esiste il rischio che le strutture residenziali di recupero e reinserimento sociale dei detenuti si trasformino in una specie di “piccole prigioni private” dove finire di scontare la condanna. Nessuna risposta concreta, cioè, al sovraffollamento degli istituti, nessun paso avanti rispetto alla necessità, imposta dall’articolo 27 della Costituzione, che la pena abbia sempre una finalità emendativa. “Che differenza c’è tra l’attuale sistema di assistenza, cura e accompagnamento delle persone in stato detentivo, presente in Italia da circa 40 anni, e quell’elenco speciale delle Comunità da accreditare previsto dall’articolo 8 del provvedimento?”, si chiede la presidente del Cnca (Coordinamento nazionale delle Comunità di accoglienza), Caterina Pozzi. “Si vogliono forse riproporre spazi simili ai Centri di permanenza per i rimpatri degli immigrati, che sono dei veri e propri luoghi di segregazione e come tali, disumani?”. La denuncia del Cnca è arrivata sul tavolo del ministro Guardasigilli Carlo Nordio attraverso un articolato documento nel quale si spiegano dubbi e perplessità dell’associazione rispetto alle “misure urgenti in materia penitenziaria” contemplate nel provvedimento voluto dal governo e che fra qualche ora sarà legge dello Stato. Nel mirino del Coordinamento, che riunisce 240 organizzazioni del Terzo settore impegnate in progetti di intervento sociale tra cui anche il recupero dei detenuti, l’articolo 8 del decreto legge. “Di cosa stiamo parlando? Si tratterà di un’implementazione della rete esistente o di una lista alternativa di comunità accreditate? A quale tipologia di strutture si fa riferimento?”. Se l’intento è quello di definire una nuova rete con spazi che ospitino indistintamente tutte le persone, a prescindere dai singoli bisogni, commenta Pozzi “si scardinerebbe il sistema pubblico-privato che garantisce interventi socio-sanitari specialistici, a favore di situazioni probabilmente con più alto numero di utenti, fuori dal sistema a gestione completamente privata di cui non sono chiare le finalità né le modalità di intervento e custodia”. C’è, inoltre, il problema dei finanziamenti e delle risorse economiche da destinare al nuovo sistema: il decreto, infatti, non ne prevede. “La situazione delle carceri è grave e richiede decisioni coraggiose - rileva il Cnca - e noi mettiamo a disposizione la nostra esperienza e capacità di gestione di housing sociali ai quali possano accedere i detenuti che ne abbiamo diritto, con l’attivazione di progetti condivisi con le risorse presenti nei vari territori”. Per questo l’associazione delle Comunità di accoglienza guarda con interesse alla proposta di legge presentata alla Camera (la n. 1.064) per l’istituzione delle Case territoriali di Reinserimento sociale che potrebbero diventare “un perno per la realizzazione di programmi di riabilitazione e reinserimento sociale, lavorativo e formativo, oltre che eventuali percorsi di giustizia riparativa”. Ma non si nascondono le difficoltà. “Nella classe politica del nostro Paese - conclude la presidente del Cnca - c’è una tendenza ad affrontare problematiche sociali attraverso il ricorso a norme penali, come è stato fatto con il cosiddetto “decreto sicurezza”, e così ci ritroviamo, per esempio, gli istituti minorili sovraffollati come mai prima d’ora, e quando il sociale non trova risposte concrete e diventa solo detenzione, la conseguenza inevitabile è appesantire l’uno e l’altro, senza risolvere i problemi alla radice”. Decreto Carceri: mille agenti in più servono a poco di Ilaria Dioguardi vita.it, 7 agosto 2024 “Vedo solo una serie di piccoli ritocchi alla normativa esistente”, dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Invece di aumentare gli agenti, che non coprono neanche il numero di quelli che vanno annualmente in pensione, si dovrebbe investire in figure sociali che sono determinanti per cercare di contrastare la situazione attuale: ricordiamo che ci sono 14mila persone detenute in più rispetto alla capienza regolamentare. Le misure sono piccoli ritocchi alla normativa esistente. Sono del tutto inefficaci rispetto alla tragicità del problema, ai numeri del sovraffollamento, a un tentativo minimale diretto a modernizzare, umanizzare, innovare la vita in carcere”, dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Gonnella, perché le misure previste nel decreto sono del tutto inefficaci? Ciò che riguarda la detenzione domiciliare per chi ha più di 70 anni ed è affetto da gravi patologie, l’affidamento in prova ai servizi sociali o la previsione della costruzione di un albo di comunità dove poter ospitare persone in detenzione domiciliare sono misure non sostanziali. Sono piccoli ritocchi alla normativa esistente, così come il tentativo di sburocratizzare la liberazione anticipata: non creano effettivamente le premesse per scendere di migliaia di unità del numero dei detenuti. Il sovraffollamento nelle carceri italiane è al 130,4% (al netto dei posti conteggiati dal Ministero della Giustizia ma non realmente disponibili). In 56 istituti penitenziari, oltre un quarto di quelli presenti in Italia, il tasso di affollamento è superiore al 150% con punte di oltre il 200% negli istituti di Milano San Vittore maschile e Brescia “Canton Mombello”. I suicidi tra i detenuti dall’inizio dell’anno sono 63 (di cui uno al Cpr di Roma, dati Dossier Morire di carcere di Ristretti, aggiornato al 5 agosto 2024)... Il numero dei detenuti oggi è di 14mila in più rispetto alla capienza regolamentare. Ci vorrebbero misure deflattive che prevedano un aumento nel numero dei giorni di sconti di pena, un aumento delle possibilità di accesso alle misure alternative e una possibilità per i semi liberi di stare fuori anche la notte. Bisognerebbe allargare le maglie dell’affidamento rispetto al residuo pena. Per quanto riguarda l’assunzione di mille agenti di Polizia penitenziaria, cosa ne pensa? Sono numeri insufficienti, che non coprono neanche il numero degli agenti che vanno annualmente in pensione. Non si pensa di aumentare le altre figure sociali che sono determinanti per cercare di contrastare la situazione nelle carceri com’è quella di oggi, che non si era mai vista: negli istituti c’è altissima tensione. Il decreto prevede l’introduzione di un commissario straordinario dell’edilizia penitenziaria... Questa misura fa sorridere. È la terza o quarta volta che si crea una figura del genere, c’è stato un passato di corruzione o costruzione di carceri dopo 10 o 15 anni, in seguito all’istituzione del relativo commissariato. Non ci sono dei buoni precedenti, soprattutto da parte del Governo delle destre. Inoltre, si investono tantissimi soldi per costituire questa nuova unità commissariale (oltre un milione di euro per il prossimo anno e mezzo), che sarebbe potuto servire per alleviare la vita delle persone detenute in questi mesi estivi. Nelle carceri il problema caldo si ripresenta ogni anno, senza riuscire a trovare soluzioni... Mancano l’acqua, i ventilatori, l’aerazione, la refrigerazione. Si sarebbe potuto investire a partire da tutto ciò. Cosa potrebbe fare l’amministrazione penitenziaria, subito, per migliorare la situazione nelle carceri italiane? Tornare al sistema delle celle aperte. Le celle chiuse hanno prodotto più suicidi, più tensioni, più morti, più violenze. Bisogna assumersi la responsabilità di tornare indietro: i detenuti con questo caldo non possono stare 20-22 ore su 24 nelle celle. Questa decisione ideologica non ha senso pratico ed è una decisione presa per accontentare alcune sigle sindacali: si torni indietro rispetto a quanto è stato deciso con il modello di sistema a celle chiuse. E si deve anche ridurre ogni forma di isolamento. (La circolare 3693/6143 del 18/07/2022, a firma dell’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi, prevede per le persone detenute che occupano le sezioni ordinarie del circuito della media sicurezza, la maggior parte della popolazione detenuta, la possibilità di uscire dalle celle solo per tre ragioni: la fruizione della socialità in appositi locali comuni, la permanenza all’aria aperta e la partecipazione ad attività trattamentali, ndr). Per quanto riguarda l’aumento delle telefonate da quattro a sei al mese per i detenuti, previsto nel decreto? L’aumento delle telefonate da quattro a sei al mese, in realtà, è qualcosa che già esiste nell’ordinamento penitenziario. Quello che chiedevamo erano telefonate quotidiane, e non sei telefonate mensili. È una misura anche questa del tutto inefficace. “Indulto nascosto: sarà una valanga di sconti di pena” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 7 agosto 2024 Sebastiano Ardita: “Si vuole risolvere il problema con norme che liberano gente pericolosa. La questione è una matassa imbrogliata rispetto alla quale chi ci mette mano rischia di complicarla ancor di più. Esiste un problema di qualità della vita in carcere, uno di precarietà delle strutture, un terzo di sicurezza e agibilità del personale. Chiunque pensi di affrontarli separatamente o in modo ideologico non risolve il problema, e mette a rischio la sicurezza della società. Finisce per essere indirettamente il responsabile dei morti dentro - prodotti dalla condizione di inciviltà delle carceri - o dei morti fuori, frutto di affrettate scarcerazioni di personaggi pericolosi per risolvere il suo affollamento”. Ma le scarcerazioni le decidono i giudici, come quella di Salvatore Raimondi, condannato per il sequestro di Tommaso Onofri… Ci sono, però, scarcerazioni che sono frutto di interventi legislativi, quindi di scelte politiche, come la liberazione anticipata speciale o gli indulti. Con il ddl Giachetti ci sarà un “liberi tutti”? Il testo che ho esaminato non prevede l’esclusione del beneficio per i mafiosi. E sarebbe la prima volta nella storia della Repubblica. Ma sarebbero scarcerati anche altri detenuti pericolosi, senza nessuna valutazione sulla concreta pericolosità. Si assiste a una crescita esponenziale delle pene edittali da un lato e dall’altro a una sistematica demolizione degli effetti concreti della pena. La liberazione anticipata è stata trasformata in uno sconto di pena automatico, che prescinde dal cambiamento reale della persona. Una sorta di 6 politico che si accompagna all’autogestione delle carceri. Da cosa dipende l’invivibilità che porta alle proteste violente o ai suicidi in questi ultimi dieci anni? Da due fattori collegati: avere abbandonato il carcere all’autogestione dei detenuti, o meglio, alla gestione dei capi bastone, aprendo le celle, e la rinuncia dello Stato al prendersi cura dei reclusi. L’autogestione ha prodotto sofferenza negli stessi detenuti, oltre che reati. Le statistiche ci dicono che si sono moltiplicati i casi di autolesionismo e di suicidio e si sono intensificati i reati di ogni genere. In passato i penitenziari erano stazioni di controllo dei tossicodipendenti e cercavano di curarli con progetti ad hoc. Oggi le carceri, grazie all’autogestione degli spazi, sono diventate piazze di spaccio. I gruppi mafiosi si dividono il mercato e vendono potenzialmente a chiunque sia recluso la sostanza stupefacente. È evidente che così sfugge di mano il fenomeno dei suicidi. Se la soluzione non è lo “svuota-carceri”, qual è la strada per avere carceri civili e sicurezza per i cittadini? Il governo avrebbe facilità ad affrontare la questione partendo da un’analisi approfondita di come si sia potuto arrivare a questo disastro di mancanza di controllo delle carceri e di assistenza. E invece rinuncia all’analisi e subisce la pressione politica di chi vorrebbe risolvere il problema con indulti mascherati che farebbero uscire, come detto, anche personaggi pericolosi. La sicurezza è compromessa dal disagio della popolazione detenuta, che non dipende solo dal sovraffollamento, ma da una mancanza di equilibrio tra assistenza individuale, trattamento e sicurezza che può avvenire solo nel rispetto della legge. La sicurezza in 13 reati. Ddl senza correzioni in Aula a settembre di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 agosto 2024 Le Commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera licenziano il testo governativo. Si suicidano altri due detenuti. Un uomo in sciopero della fame si è impiccato in cella a Biella, un altro nel bagno del Tribunale di Salerno. Il nuovo crimine della “rivolta” è perseguito sia negli istituti penitenziari che nelle strutture per rifugiati con protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati. L’ultima possibilità di correggere almeno un po’ il furioso ddl governativo sulla “Sicurezza” nelle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera, prima del suo approdo il Aula fissato per il 10 settembre, si è inabissata proprio mentre si registravano i suicidi di altri due detenuti - 65 dall’inizio dell’anno, a cui vanno aggiunti 7 agenti penitenziari: un uomo di 55 anni di origine albanese, in sciopero della fame per ottenere il trasferimento in un carcere più vicino ai suoi familiari, si è impiccato nella sua cella a Biella e un altro si è suicidato nel bagno del Tribunale di Salerno. Nelle stesse ore a Potenza un giovane migrante di 19 anni è morto nel Cpr, ucciso o per colpa di qualcuno - secondo la stessa procura che ha aperto un fascicolo - che non lo ha preso in cura, perché appena qualche giorno fa il ragazzo aveva tentato di togliersi la vita ingerendo pezzi di vetro. Paradossalmente però la macchina repressiva contro la protesta che si è scatenata subito dopo - “rivolta”, secondo la “nuova fattispecie delittuosa” introdotta nel codice penale con l’articolo 18 del disegno di legge Piantedosi -Nordio-Crosetto - era perfettamente oliata. Nelle Commissioni l’opposizione ha tentato di ridurre il danno ma gli emendamenti hanno trovato un muro, e così nei 28 articoli del ddl Sicurezza compaiono ben 13 nuove fattispecie di reato più un certo numero di aggravanti, alla faccia del sovraffollamento penitenziario. E se all’articolo 18 ci si inventa il reato di rivolta in carcere, con pene da 1 a 5 anni di reclusione per chi non obbedisce agli “ordini impartiti” anche mediante “resistenza passiva”, all’articolo 19 la stessa fattispecie si estende anche alle strutture di accoglienza per minori stranieri non accompagnati e per rifugiati titolari di protezione internazionale. “Ho tentato di ricordare alla maggioranza di governo, in preda ad una furia ideologica, - riferisce la capogruppo M5S in commissione giustizia Valentina D’Orso - che i destinatari di questa norma sono soggetti liberi, non detenuti, ospiti di quelle strutture finalizzate all’accoglienza e all’integrazione. Come si può pensare che possano essere applicate anche a loro quelle norme? Che tipo di ordini possono essere impartiti a soggetti liberi, per lo più minorenni, in quel contesto? E da quale autorità? I nostri emendamenti che tentavano una qualche correzione sono stati bocciati. È la prova che per loro l’ideologia cieca va oltre tutto, anche la Costituzione”. Sarà un bel lavoro, quello dei relatori Alessandro Colucci (Noi con l’Italia) e Augusta Montaruli (FdI) della commissione Affari costituzionali, e Ingrid Bisa (Lega) e Pietro Pittalis (FI) della Giustizia, che hanno il compito di difendere in Aula il ddl. Tanto per dirne una, il provvedimento mette sul lastrico quasi 3 mila aziende che in Italia si occupano di coltivazione e trasformazione di cannabis light (la marijuana con Thc pari o inferiore allo 0,2% è equiparata a quella psicotropa), dando lavoro a quasi 11 mila persone e generando un fatturato annuo di circa 500 milioni di euro. Nell’articolo 20, poi, vengono autorizzati ufficiali, magistrati e agenti - non solo quelli di pubblica sicurezza - a portare con sé senza licenza alcune tipologie di armi (da fuoco, escluse quelle d’assalto) quando non sono in servizio. Non è invece obbligatoria la bodycam che viene data in dotazione alle forze dell’ordine: gli agenti potranno decidere se e quando usarla. Diventa reato l’”occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui” (da 2 a 7 anni); reclusione fino a un mese per il blocco stradale o ferroviario commesso da un singolo e da 6 mesi a 2 anni se il reato viene commesso da più persone riunite (aggravato se consumato nelle stazioni o nelle loro vicinanze). Le pene previste agli articoli 336 e 337 del codice penale (Violenza, minaccia o resistenza a un pubblico ufficiale) sono aumentate di un terzo se il reato è volto ad impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di una infrastruttura strategica. Il pacchettO di nuovi reati che non renderà l’Italia più sicura arriverà dunque in Aula dopo il mese più triste e difficile da trascorrere in galera, mentre questa mattina verrà trasformato definitivamente in legge il decreto “Carcere sicuro”, dopo il voto di fiducia accordato nella notte. Un provvedimento che non ci prova neppure ad intervenire sul sovraffollamento carcerario, come ha spiegato lo stesso ministro di Giustizia Carlo Nordio che ieri si è recato in visita nel centro clinico di Regina Coeli, a Roma. Mentre la proposta di legge del renziano Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale - l’unica che permetterebbe di alleviare un poco la pressione dentro le carceri e anche sulla polizia penitenziaria - è stata rinviata in commissione. Se ne riparlerà a settembre. Amen. Il lodo Costa sulla custodia cautelare: stop al carcere per gli incensurati se il reato non è grave di Liana Milella La Repubblica, 7 agosto 2024 Si vota alla Camera l’ordine del giorno al decreto carceri (in linea con il referendum sulla giustizia del 2022 che avevano tra i promotori proprio il Guardasigilli Nordio. Un altro tassello “contro” la custodia cautelare. Approfittando del decreto legge Nordio sulle carceri (votata la fiducia stanotte con 186 sì, 126 no e due astenuti) che, da quando è stato varato, non ha evitato un solo suicidio. Siamo a 64. Erano 49 il 3 luglio quando il consiglio dei ministri lo ha approvato. E 15 suicidi in 34 giorni non sono proprio un niet. Ma il decreto serve per altro. Per Enrico Costa di Azione è l’occasione buona per uno dei suoi ben noti ordini del giorno, che aprono la porta a un desiderata della maggioranza. Ricordate? Il bavaglio ai giornalisti è venuto fuori così. Ma anche la presunzione d’innocenza, poi divenuta legge Cartabia, fu frutto di un ordine del giorno di Costa. Degli escamotage parlamentari lui sa tutto dopo vent’anni di Camera. E lo dimostra pure stavolta. Il clima - vedi il lodo Salvini sullo scudo penale ai governatori - è quello giusto. E che fa Costa? Ieri ha ottenuto il via libera per un suo odg sulla custodia cautelare, un cadeau succulento per la maggioranza che certo lo accoglierà a braccia aperte. Perché lui propone di negare al pm la richiesta e al gip il via libera di una custodia cautelare per chi - e queste sono parole di Costa - non ha commesso “reati di grave allarme sociale o che compromettano la sicurezza pubblica o privata o l’incolumità delle persone”. Una frasetta finale che suona come una pietra tombale per qualsiasi reato che abbia a che vedere con la pubblica amministrazione. Perché sarebbe difficile per un magistrato dimostrare che c’è “allarme sociale” o “compromissione della sicurezza pubblica o privata o l’incolumità delle persone” nelle manine di chi propone o intasca una tangente, o maschera per finanziamento pubblico una dazione di denaro. Costa veste ancora i panni del politico “garantista”. Pronto a sfruttare qualsiasi fessura di una legge per infilarci una proposta “garantista”. Ed eccolo qui a piazzarne una anche nel decreto carceri, su cui da un mese esatto piovono i fulmini di tutti coloro che si occupano di galere e hanno a cuore anche la sicurezza dello Stato. Invece Costa lo sfrutta. Il mood della maggioranza è quello giusto. Nordio che rimette in pista la vecchia prescrizione. Che taglia le intercettazioni. Che pretende l’interrogatorio di garanzia prima dell’arresto. Matteo Salvini che lancia lo scudo per i governatori, dal lodo Alfano al “lodino Salvini”. Forza Italia che con i radicali visita le carceri, perfino con Tajani, ma poi vota l’inutile decreto Nordio (mille secondini in più, ma nel 2026, e chissà perché serve un decreto…). La Lega che vuole riscrivere i reati contro la pubblica amministrazione. Costa in poche righe - non più di una ventina - mette in mostra tutti i suoi “must”. Eccoli: 30mila casi di ingiusta detenzione dal 1992 costati allo Stato 874 milioni di euro. Un codice di procedura penale che consente la custodia cautelare se il reato può essere ripetuto. Però ecco l’undicesimo comandamento Costa, la presunzione d’innocenza, di cui, a suo dire, bisogna tener conto se il soggetto in questione è incensurato. Il responsabile Giustizia di Azione spiega a chi si rivolge la sua proposta: “Qualcuno la cui responsabilità non è ancora stata accertata, che sia dunque sospetto, ma goda della presunzione di non colpevolezza e non abbia mai subito condanne, e che subisce una misura cautelare sulla previsione che possa reiterare un reato non ancora accertato”. E arriviamo al passaggio forte del suo ordine del giorno, che suona come un calembour: “Un sospetto basato su un sospetto: sospetto di reiterazione del reato nei confronti di chi è solo sospettato di aver commesso quel reato, ma non è ancora stato dichiarato colpevole - anzi è presunto innocente - né lo è stato in passato”. Il 20 giugno del 2022, quando i cittadini italiani furono chiamati a votare sui quesiti radical-leghisti, tra cui pure quello sulla custodia cautelare, c’era proprio l’attuale Guardasigilli Carlo Nordio tra gli sponsor dei referendum. Che fallirono miseramente, compreso quello in questione. Quorum non superato, solo poco più del 20% al voto, ovviamente con una maggioranza di sì, il 56,1%, a fronte del 43,9% per il no. E adesso Costa vuole “impegnare” il governo a limitare la custodia cautelare per gli incensurati “solo per reati di grave allarme sociale e per reati che mettono a rischio la sicurezza pubblica o privata o l’incolumità delle persone”. Troverà sicuramente le porte aperte di Nordio, della Lega, di Forza Italia. Forse uno scrupolo a dire sì se lo porranno i meloniani “in memoria” del loro passato carcerocentrico. Nuova proposta salva-politici: “Niente carcere ai colletti bianchi se incensurati” di Valeria Pacelli e Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 7 agosto 2024 Dopo la legge sulla presunzione di innocenza (la norma che, tra le altre cose, impone ai procuratori di parlare con la stampa solo tramite comunicati ufficiali con tanto di conseguenze per il diritto dei cittadini a essere informati), il deputato di Azione, Enrico Costa, prova a riscrivere anche le norme sulla custodia cautelare. E lo fa con un Ordine del giorno al decreto Carceri. Verrà votato oggi alla Camera e riguarda la possibilità di valutare la misura cautelare per pericolo di reiterazione nei confronti di incensurati solo in caso di “reati di grave allarme sociale e di reati che compromettano la sicurezza pubblica o privata o l’incolumità delle persone”. Questo vuol dire che un incensurato rischia di finire dentro solo se accusato di reati come - per citarne alcuni - mafia, reati sessuali, terrorismo, omicidio o anche furti in abitazione. Non sembrano contemplati però i pur odiosi reati di corruzione e tutti quei delitti commessi dai colletti bianchi. Secondo quanto risulta al Fatto, questo Ordine del giorno troverà terreno fertile tra le file di Forza Italia e Lega. Un po’ indecisi i deputati di Fratelli d’Italia, anche se molti sono pronti votare a favore. L’Odg arriva dopo uno dei casi di cui più si è occupata la stampa e la politica: quello del governatore ligure Giovanni Toti, finito l’8 maggio ai domiciliari per l’accusa di corruzione: è stato scarcerato alcuni giorni fa dopo le dimissioni da presidente della giunta regionale. Con questa nuova proposta, dunque, Costa vuole incidere sulla lettera C dell’articolo 274 del codice di procedura penale che norma proprio le esigenze cautelari disposte in caso di pericolo di reiterazione del reato, chiedendo un alleggerimento per gli incensurati. Scrive il deputato nel proprio Ordine del giorno: “L’esigenza cautelare di cui all’articolo 274, comma 1, lettera c), del codice di procedura penale prevede una prognosi di reiterazione del reato che solo la misura del carcere o dei domiciliari può scongiurare. Tale esigenza cautelare deve tuttavia conciliarsi con il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, che assume maggior forza laddove ci si trovi ad operare la prognosi su un soggetto incensurato”. “In altre parole - continua l’Odg - qualcuno la cui responsabilità non è ancora stata accertata, che sia dunque sospetto ma goda della presunzione di non colpevolezza e non abbia mai subito condanne, subisce una misura cautelare sulla previsione che possa reiterare un reato non ancora accertato. Un sospetto basato su un sospetto”. Per questo il deputato di Azione chiede al governo di “valutare un intervento normativo finalizzato a una rimodulazione delle norme sulla custodia cautelare (…) finalizzato a un puntuale bilanciamento tra presunzione di innocenza e garanzie di sicurezza”. Una proposta che potrebbe trovare l’appoggio di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. Partito che solo qualche tempo fa, tramite il suo capogruppo in Commissione giustizia alla Camera, Tommaso Calderone, aveva presentato una proposta di legge (che firma Calderone da solo, senza altri esponenti forzisti) il cui obiettivo era quello di far rivalutare al giudice il rischio di reiterazione di reato, dopo due mesi dall’ordinanza di misura cautelare, che sia in carcere o ai domiciliari. Nell’idea di Calderone: se non sopraggiungono esigenze nuove e diverse da quelle che hanno portato inizialmente ad emettere la misura, tutti fuori. Anche in questo caso la norma non riguarderebbe mafia, reati sessuali, omicidi, terrorismo e così via. Ma - anche in questo caso - invece può essere applicata ai casi di corruzione e delitti dei colletti bianchi. Un ulteriore balzo rispetto a quanto stabilito dalla riforma Nordio che ha passato la decisione dell’emissione di misura cautelare non più a un singolo giudice ma a un collegio di tre, con tutto ciò che ne consegue in termini di tempo e di capacità (inteso come numero di giudici applicati nei Tribunali). Adesso l’Ordine del giorno di Costa: pronto a essere appoggiato dalla maggioranza. “La polizia giudiziaria non stabilisca più la rilevanza o meno di una conversazione” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 agosto 2024 Il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia alla Camera, Tommaso Calderone, anticipa al Dubbio il contenuto di una proposta di legge che depositerà a breve e che ha al centro il tema delle intercettazioni. Onorevole, vorrei innanzitutto delineare con lei qual è il contesto entro il quale ci muoviamo, per poi capire le differenze rispetto alla sua pdl... Il concetto è che in questo momento storico, purtroppo, viene assegnato alla polizia giudiziaria un potere di vita e di morte sugli indagati, perché nella fase delle indagini preliminari è solo la polizia giudiziaria a considerare rilevanti o meno alcune conversazioni, in quanto essa sola procede all’ascolto senza contraddittorio. Qual è il pericolo sotteso a ciò? Che l’ufficiale di Pg potrebbe ascoltare un’intercettazione che magari è decisiva e influente, anche per la stessa libertà personale dell’indagato, ma la ritiene non rilevante e l’archivia in un server temporaneamente, non trascrivendo però il contenuto e trasferisce al pubblico ministero solo le intercettazioni che secondo il suo giudizio sono rilevanti. Quindi poi che succede? Nel frattempo per tutte le altre intercettazioni c’è il cosiddetto ritardato deposito e la difesa non ne può venire a conoscenza. Quando ne viene a conoscenza? Quando si apre la discovery, magari dopo l’arresto. Quindi viene a conoscenza di quelle che la polizia giudiziaria aveva ritenuto erroneamente non rilevanti soltanto dopo che se ne va in sala di ascolto e si mette le cuffie per mesi, perché ci sono decine di migliaia di conversazioni, e se ha la fortuna trova quella che può essere rilevante per il proprio assistito. Tengo a precisare che di questo non ha alcuna responsabilità il pubblico ministero, in quanto ignaro della selezione. Invece noi mettiamo il destino di tutti gli indagati italiani nelle mani della polizia giudiziaria e così non va bene. Non ha fiducia nella Pg? La quasi totalità degli agenti sono onesti, ma ce ne può essere uno che o non è onesto o non è in grado di capire quanto può incidere favorevolmente quella conversazione per l’indagato. Allora come incide la sua proposta? La mia proposta prevede che prima di chiedere la proroga delle intercettazioni e, comunque, alla fine del periodo di conversazioni intercettate, la polizia giudiziaria debba redigere una specifica informativa con la quale indica al pubblico ministero l’elenco delle conversazioni ritenute non rilevanti, l’oggetto specifico degli argomenti e i nomi dei colloquianti. L’informativa non deve contenere ovviamente le conversazioni private e familiari. Se io parlo con mia moglie o con mia cugina, quelle conversazioni non devono finire nell’informativa. Però anche all’interno di queste ultime ci potrebbero essere elementi rilevanti... L’obiezione è giusta. Le faccio un esempio: se io parlo con mio figlio di una moto non è rilevante, se parlo di un processo o di un fatto legato all’indagine allora anche quella conversazione deve essere considerata rilevante, sempre se lo è. Una volta che il pm ha ricevuto l’informativa completa che fa? Il pubblico ministero, verificata la rilevanza di conversazioni contenute nella informativa, dispone, dopo attento controllo, la acquisizione delle sole ritenute rilevanti disponendo, per il resto, la restituzione della informativa che sarà custodita negli archivi ed estratta solo per comprovate ragioni indicate dalla difesa e su autorizzazione del giudice. Fermo restando che il difensore avrà la possibilità di sentire tutto nella sala d’ascolto. Quindi qual è la ratio di questa norma? Che non può essere concesso alla polizia giudiziaria il potere enorme di stabilire se una conversazione è rilevante o non è rilevante. Con questa pdl si vuole obbligare il pm a fare un controllo serio attraverso la informativa che la Pg deve trasmettere. Inoltre ci sarà la possibilità immediata per la difesa di avere accesso alle intercettazioni ritenute non rilevanti dalla Pg ma rilevanti dal pm, anche a favore dell’indagato. Allo stesso tempo non può essere il pm, nella fase successiva, a stabilire cosa è rilevante o cosa non lo è. In che senso? La difesa avrà un diritto diretto a estrapolare le conversazioni senza chiedere il permesso al suo antagonista processuale, e cioè il pm. La difesa entrerà in interlocuzione direttamente con il giudice sul giudizio di rilevanza senza passare dal pm. Oggi cosa succede? Io avvocato sento le intercettazioni: a parer mio dieci, ad esempio, sono rilevanti; vado dal pm che però non le ritiene tali e non ne dispone la rilevanza. Allora sono costretto ad andare dal giudice. Con la mia proposta inverto il ragionamento. Io vado dal pm e mi dovrà dare tutte le intercettazioni che io ritengo rilevanti, non potrà rifiutarsi. Casomai deve essere il giudice a dirmi perché non me le può dare tutte. Quindi toglie un potere al pm? Sì, perché il pm è un mio avversario. Mentre il mio interlocutore deve essere il gip che autorizzerà le intercettazioni. In questo modo si velocizzano i passaggi e si dà più garanzia all’indagato e al suo avvocato che non devono uscire pazzi per convincere il pm della rilevanza delle intercettazioni, a cui poi deve seguire, in caso di rifiuto, il ricorso al gip. Noi dobbiamo far sì che l’ascolto nella fase delle indagini preliminari non sia più terra di nessuno. Perché? Perché dobbiamo uscire fuori dall’ipocrisia che tanto è la polizia giudiziaria che fa le indagini. Essa purtroppo qualche volta si innamora dell’indagine e della propria ipotesi accusatoria e vengono archiviate troppe volte intercettazioni ritenute non rilevanti che invece si sono dimostrate decisive. La mia quarantennale esperienza professionale mi ha insegnato che è capitato in molte circostanze che conversazioni ritenute non rilevanti dalla polizia giudiziaria e ascoltate soltanto dopo l’attivazione del procedimento 268 cpp primo comma, sono risultate decisive. Intanto magari era stata arrestata una persona ed erano stati sottoposti a procedimento penale persone innocenti. Biella. Detenuto si toglie la vita impiccandosi: stava facendo lo sciopero della fame di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 7 agosto 2024 Stava facendo lo sciopero della fame e più volte aveva chiesto di lasciare il carcere di Biella ed essere trasferito nel penitenziario in cui viveva precedentemente, più vicino ai propri familiari. Lunedì sera si è impiccato nella propria cella. A.S. aveva 55 anni, era di origine albanese ed era rinchiuso nel padiglione che ospita i cosiddetti sex offender: avrebbe finito di scontare la condanna nel 2034. Con la sua morte salgono a 64 i suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, almeno 21 in più rispetto allo stesso periodo del 2023. Un triste e drammatico elenco al quale vanno aggiunti i 7 agenti della polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Numeri che raccontano, ancora una volta, come gli istituti di pena sparsi sul territorio nazionale stiano vivendo una crisi senza precedenti. Il 55enne albanese aveva trascorso un periodo di detenzione nel carcere di Vercelli, poi era stato trasferito a Biella: un istituto troppo lontano dai parenti, che non riuscivano a fargli visita come avrebbero voluto. Per questo aveva chiesto di essere riportato nel precedente istituto. E perché la sua istanza venisse ascoltata, aveva iniziato lo sciopero della fame. Era monitorato e le sue condizioni di salute erano sotto controllo. Nei giorni scorsi era stato portato in ospedale e sottoposto a una visita psichiatrica per valutare il suo stato mentale. Nulla lasciava presagire un gesto estremo: secondo i medici, il 55enne non era a rischio suicidio. Lunedì sera si è impiccato: gli uomini della polizia penitenziaria lo hanno soccorso, ma per l’uomo non c’era più nulla da fare. Il tragico epilogo di Biella è l’ennesimo di una serie di casi che, secondo sindacati e associazioni, sarebbero più di quelli ufficialmente dichiarati. Per Antigone sono 64 i suicidi che si contano dall’inizio anno e “dal 1992 ad oggi solo in tre momenti, a fine anno, si erano registrati numeri più alti”: lo spiega il presidente dell’associazione Patrizio Gonnella, che parla di “un sistema penitenziario al collasso tra suicidi, sovraffollamento e proteste”. Critiche arrivano anche dal segretario del Sindacato di polizia penitenziaria (Spp) Aldo Di Giacomo: “Al cosiddetto conteggio ufficiale bisogna considerare, ad oggi, i 21 decessi le cui cause sono ancora in corso di accertamento, molti dei quali noi sosteniamo siano per inalazione di gas. La prima cosa che chiediamo all’amministrazione penitenziaria è proprio un’operazione-verità per superare quella cifra ignota che ha un forte peso di inciviltà”. Per il segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp) Leo Beneduci si tratta di “un disastro che non ha precedenti nella storia penitenziaria del Paese in termini di suicidi in meno di otto mesi, di cui sette anche tra il personale. A questa emergenza si somma quella delle rivolte orchestrate con precisione militare grazie a una rete sommersa di smartphone”. Le ultime due sommosse sono avvenute a Torino: al minorile Ferrante Aporti e al Lorusso e Cutugno. Le rivolte si sono verificate lo stesso giorno e alla stessa ora: per gli inquirenti i due eventi sono collegati. Milano. Maltrattamenti sui detenuti, dopo il Beccaria ora i pm indagano anche su Opera di Federica Zaniboni Il Giorno, 7 agosto 2024 La Procura di Milano indaga per presunti maltrattamenti nel carcere di Opera, trasformando il fascicolo “modello 45” in “modello 44”. Segnalazioni di violenze e condizioni disumane portano all’attenzione delle autorità. C’è stato un passo avanti nell’inchiesta sui presunti pestaggi nel carcere di Opera, per i quali adesso la Procura di Milano indaga per maltrattamenti. Il fascicolo cosiddetto “modello 45”, senza indagati né ipotesi di reato, si è quindi trasformato in un “modello 44”. Sul caso sono al lavoro le pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena, le stesse che indagano sui presunti maltrattamenti e torture nel carcere minorile Cesare Beccaria, per i quali lo scorso aprile 13 agenti della polizia penitenziaria erano stati arrestati e altri otto sospesi dal servizio. L’indagine su Opera ha preso il via alla fine di luglio, quando il Garante per i diritti dei detenuti Francesco Maisto ha depositato una lettera anonima scritta a mano da un carcerato: “Qui la situazione è peggiorata - spiegava -, violazione totale dei diritti umani. Ci trattano come animali. Non vedo cambiamenti. Ieri sera hanno picchiato uno in venti con manganelli e asta di ferro. Non avrei mai pensato né immaginato una cosa del genere. Vorrei fare dei reclami tramite Antigone. Da otto giorni - aggiungeva il detenuto - non vedo un medico e sto molto male. Se va avanti così faccio lo sciopero della fame”. Oltre alla missiva, era stata depositata anche una denuncia di dieci righe, nella quale si riportava il nome della presunta vittima. Nei giorni successivi, era poi arrivata una seconda segnalazione. “Ne arrivano un paio al giorno”, aveva detto Maisto. “Si parla di situazioni gravi, di pestaggi per atti di rimostranza, a volte basta anche la minima reazione di protesta individuale o collettiva. Ma c’è modo e modo di sedare e reprimere”. Al Carcere di Opera oggi faranno visita il tesoriere e la presidente dei Radicali, Filippo Blengino e Patrizia De Grazia. “Le condizioni dei detenuti sono disumane - affermano -, nelle nostre visite abbiamo riscontrato delle strutture fatiscenti, un personale che purtroppo non riesce a gestire l’inferno quotidiano dei suicidi, delle rivolte, del diffuso disagio psichico. Abbiamo già denunciato Nordio per tortura, domani (oggi per chi legge, ndr) verificheremo le condizioni del carcere di Milano. Non escludiamo nuove denunce”. Brescia. Protesta a Canton Mombello? La lettera dal carcere: “Nessun detenuto lo sapeva” Giornale di Brescia, 7 agosto 2024 I detenuti del carcere di Brescia prendono le distanze dall’annuncio della “battitura” fissata per questo giovedì e per Ferragosto: “Noi pensiamo a strategie di dialogo”. “La totalità della popolazione detenuta è ignara della decantata protesta”. Le persone detenute a Canton Mombello prendono distanza con fermezza dall’annuncio di una protesta (la “battitura”) in programma già questo giovedì e poi nel giorno di Ferragosto. “Nessun detenuto ne era assolutamente a conoscenza”, assicurano nella lettera inviata alla redazione del Giornale di Brescia tramite la Garante dei diritti dei detenuti di Brescia, Luisa Ravagnani. Non solo, ma dopo che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha parlato in un recente discorso delle condizioni proibitive in cui si vive nel carcere bresciano, i detenuti hanno promosso una raccolta firme interna, una sorta di referendum, per decidere come portare avanti le loro richieste: o con la protesta o con il dialogo. Trecentoventi detenuti hanno optato per il dialogo. Nella lettera inviata al GdB si ribadisce che i detenuti “non intenderebbero in alcun modo partecipare” alla protesta in programma in alcune carceri italiane. “Ora però, grazie a questa informazione, ciò potrebbe realmente accadere - dicono -. Perché le persone con problematiche psichiatriche e qualche giovane facilmente influenzabile (persone che qui sono molte) possono essere negativamente fomentate”. Non si esclude quindi che qualcosa a questo punto accada, anche se è ritenuto “altamente improbabile”. “Quello che è certo, e teniamo a ribadirlo - concludono -, è che nessuna organizzazione di protesta era o è ad oggi in atto, poiché all’interno di questo istituto di pena si stanno pensando unicamente strategie volte al dialogo”. Trapani. Grido di aiuto dal carcere: giovane detenuto in condizioni di salute critiche tp24.it, 7 agosto 2024 Un drammatico appello è stato lanciato dalla famiglia del giovane petrosileno G.M., classe 1997, che da oltre un anno è detenuto nel carcere di Trapani. La sua famiglia, preoccupata per le gravi condizioni di salute del loro caro, ha deciso di rivolgersi alla nostra redazione per denunciare la situazione e chiedere aiuto. G.M. ha subito un intervento chirurgico ortopedico alcuni anni fa, con l’applicazione di protesi alla gamba. Tuttavia, durante il periodo di detenzione, ha sviluppato seri problemi: le protesi si sono spostate, provocando fuoriuscite evidenti, dolori intensi e gravi difficoltà di deambulazione. Le immagini scioccanti che ci sono state inviate mostrano i “ferri” che spuntano sotto la pelle, suscitando preoccupazione anche tra gli altri detenuti. Nonostante la gravità della situazione, gli operatori sanitari del carcere si sono limitati a somministrare blandi antidolorifici, ignorando la necessità di interventi più adeguati. Solo dopo una caduta del giovane e una vibrata protesta dei compagni di cella, G.M. è stato trasportato d’urgenza all’Ospedale di Trapani. Qui è stato sottoposto a un intervento chirurgico tampone per rimuovere la protesi, ma i medici hanno comunicato che era necessario un intervento più complesso presso un centro di alta specializzazione ortopedica. Il paradosso è che, dopo l’intervento, senza alcuna degenza ospedaliera, G.M. è stato riportato in una cella affollata e priva di accorgimenti igienico-sanitari. Questo ha comportato un alto rischio di infezioni, che si sono puntualmente verificate. Nonostante due urgenti ricoveri ospedalieri per i forti dolori alla gamba operata, il giovane è stato sempre riportato in una cella promiscua. G.M. ha sporto denuncia contro i sanitari del carcere per le cure tardive e inappropriate. Tuttavia, il paradosso è che ora dovrebbe essere curato e seguito dagli stessi operatori contro cui ha denunciato. Ad oggi, quasi due mesi dopo l’ultimo intervento, non è stato ricoverato in una struttura ospedaliera adeguata. Il suo difensore ha presentato ben cinque istanze al magistrato di sorveglianza per chiedere la sospensione della pena o il ricovero in una struttura ospedaliera, ma non ha ricevuto alcun riscontro. Si è rivolto anche al Garante per i diritti dei detenuti della regione Sicilia, che ha chiesto chiarimenti alle autorità preposte. La situazione è rimasta immutata e G.M. soffre di una gravissima infezione che, se non trattata adeguatamente, potrebbe degenerare in cancrena. La famiglia denuncia la più assoluta indifferenza delle istituzioni e allega foto che mostrano la gravità dell’infezione. Non bisogna essere medici per rendersi conto della serietà della condizione di G.M. L’articolo 32 della Costituzione italiana garantisce il diritto alla salute per tutti, inclusi i detenuti. Ma sembra che per G.M. questo diritto sia stato completamente ignorato. La famiglia di G.M. lancia un appello urgente: “Abbiamo bisogno di aiuto. Nostro figlio sta soffrendo e rischia la vita. Chiediamo che venga trattato con la dignità e le cure che ogni essere umano merita”. Ferrara. Garante comunale dei detenuti, aperto il nuovo bando Il Resto del Carlino, 7 agosto 2024 Le domande dovranno essere presentate entro le 13 del 30 settembre. L’assessore Coletti: “Pronti a completare l’iter sulla prossima nomina”. Tra le attività, uno sportello sociale e di mediazione e un giornalino. Aperta la procedura che porterà all’individuazione del nuovo garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Gli interessati potranno presentare la propria richiesta di candidatura, tramite Pec, all’indirizzo comune.ferrara@cert.comune.fe.it oppure con consegna della documentazione a mano al Protocollo generale del Comune, in piazza Municipale 2, entro le 13 del 30 settembre. “Nelle prossime settimane - spiega l’assessore alle Politiche sociosanitarie Cristina Coletti - andremo a selezionare e presentare il nuovo garante. L’amministrazione comunale arriva a questo passo con un regolamento nuovo, aggiornato rispetto alle indicazioni espresse dal garante nazionale all’Anci. Ad inizio anno ci siamo attenuti alle nuove linee guida riguardanti questa figura e ora siamo pronti a completare l’iter sulla nomina”. Numerose sono le progettualità realizzate, fra queste: un progetto, attraverso il Centro servizi alla persona, per il reinserimento dei detenuti prossimi al rilascio; la realizzazione di uno sportello sociale che impegna operatori esperti di psicologia e sportello di mediazione; la produzione di un giornalino che coinvolge i carcerati e lo svolgimento di diverse iniziative socializzanti. In collaborazione con enti del terzo settore, il Comune gestisce anche un progetto di attività motoria e azioni per consentire l’effettuazione di incontri in tema di genitorialità, nel cui ambito si darà modo ai figli di avere colloqui con i genitori detenuti, così come la realizzazione di laboratori teatrali e attività di tirocini lavorativi. Nello specifico, questi ultimi prendono forma grazie al progetto ‘Parchi Puliti’, che coinvolge sette detenuti il cui compito, dopo un accurato corso formativo e con l’aiuto di tutor, è tenere in ordine i parchi Coletta, Urbano, Giordano Bruno, Massari, Pareschi ed Enrico Toti. Il progetto, finanziato con 30mila euro, ha come partner la casa circondariale Costantino Satta, Ferrara Tua e Ial. “È stato confermato - conclude l’assessore Coletti - anche quest’anno un impegno economico che ammonta a quasi 200mila euro, volto a finanziare le tante progettualità. L’attenzione nei confronti della struttura penitenziaria di Ferrara è costantemente alta, in quanto è un luogo di rieducazione e necessita di azioni specifiche. Ringrazio l’amministrazione carceraria, con la quale sono stati attuati progetti innovativi apprezzati anche a livello nazionale, e gli addetti che lavorano con responsabilità e dedizione all’interno del carcere”. L’avviso integrale e il facsimile della domanda di candidatura sono pubblicati sul sito del Comune (www.comune.fe.it), nella sezione Bandi. Salerno. L’emarginazione si è fermata a Eboli. Qui i detenuti ripartono dalla terra di Antonio Maria Mira Avvenire, 7 agosto 2024 Da 15 giorni alcuni uomini del penitenziario campano lavorano in un’azienda agricola di Buccino. L’amministratore delegato: “C’è spazio per un’economia eticamente sostenibile”. Detenuti e immigrati insieme al lavoro in una grande azienda agroalimentare. Da quindici giorni quattro detenuti escono dal carcere di Eboli e raggiungono la Icab La Fiammante di Buccino, 350 dipendenti, tra i quali 50 immigrati, tutti con regolare contratto. Da due anni anche 9 assunti grazie al progetto di filiera etica NoCap ideato da Ivan Sagnet, attivista camerunense, nominato cavaliere della Repubblica dal presidente Sergio Mattarella per il suo impegno in difesa dei diritti dei lavoratori. Un progetto frutto di una bella squadra con due diocesi, quella di Teggiano-Policastro, attraverso le iniziative Presidio e Sipla della Caritas, e quella di Salerno, con la Fondazione Migrantes, assieme all’associazione Frontiera Sud. Con la convinta adesione dell’azienda che ogni anno trasforma un milione di quintali di ortaggi, soprattutto pomodori, per produrre 60 milioni di “pezzi’,’ con un fatturato che supera i 50 milioni di euro. “Ogni anno siamo in crescita a doppia cifra. C’è dunque spazio per un’economia eticamente sostenibile, non è che uno per crescere deve per forza delinquere”, dice l’amministratore delegato Francesco Franzese. Due anni fa, nel pieno del boom degli aumenti dei costi energetici, fece notizia la sua dichiarazione: “Non risparmieremo sui lavoratori, continueremo ad assumere immigrati. Per noi i lavoratori sono una risorsa da rispettare “. E non ha cambiato idea. “Abbiamo avuto problemi ma li abbiamo superati. Lo sfruttamento dei lavoratori riduce il costo di 10 centesimi a pezzo, così per risparmiare pochi centesimi si creano disastri”. E quest’anno il nuovo progetto coi detenuti. “Cerchiamo di aiutare questi ragazzi nel loro percorso. Li ho incontrati, ho ascoltato le loro storie, alcune molto dure. Persone nate in contesti sociali dove era difficile non delinquere, famiglie fragili”. I detenuti hanno tra i 30 e i 50 anni, uno di loro sapeva guidare il muletto ma non aveva il patentino così gli è stato fatto fare il corso e ora potrebbe andare a lavorare anche in altre aziende, è una qualifica molto richiesta che si spende bene sul mercato. “Con queste scelte - sottolinea Franzese - noi vogliamo ribadire come il mondo della solidarietà e quello del lavoro possono e debbono trovare un terreno comune di azione per affrontare le emergenze di questi anni, come il problema delle carceri. Restituire valore al lavoro è centrale per immaginare soluzioni realistiche ai drammi della marginalità e del disagio sociale, vissuti ogni giorno da tanti cittadini italiani così come dai migranti”. Le sue sono parole attualissime. “Ci siamo abituati ai discorsi di chi innalza steccati, scovando di volta in volta un nuovo nemico da additare come responsabile di questo o quel malessere, invece noi da anni ci impegniamo a fare rete, convinti che le soluzioni siano reali solo quando i problemi sono condivisi, lavorando per costruire ponti a partire dal concetto di filiera, di relazioni autentiche, di valori condivisi”. Il progetto è stato possibile grazie alle “Legge Smuraglia” del 2000 che agevola l’assunzione di detenuti da parte di aziende e cooperative. E si inserisce, come sottolinea la direttrice del carcere Concetta Felaco, “in un lavoro di squadra dell’Istituto, ed è il frutto di un intenso lavoro nell’obiettivo di favorire opportunità di inserimento sociale, soprattutto lavorativo dei detenuti”. E Franzese si rivolge ai colleghi imprenditori. “Molti cercano manodopera. Quale occasione migliore di crearla attraverso gli istituti penitenziari? Il nostro potrebbe essere un modello che ogni azienda potrebbe attuare. Se ogni azienda ne prende quattro, svuotiamo il carcere di Eboli ogni mattina. Ed evitiamo che dopo aver scontato la pena tornino a delinquere. Se me ne mandano altri quattro io li prendo. Se loro quattro dopo aver scontato la pena tornano da me da uomini liberi, per loro la porta è aperta”. Pontremoli (Ms). Parte dall’Istituto penale per minorenni il progetto Agia “Dalla mia prospettiva” garanteinfanzia.org, 7 agosto 2024 Iniziativa di ascolto dell’Autorità garante. Coinvolti in laboratori fotografici ragazze e ragazzi di cinque istituti minorili. Ha preso il via ieri nell’istituto penale per i minorenni (Ipm) di Pontremoli in provincia di Massa Carrara - l’unico interamente femminile in Italia - il progetto dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Dalla mia prospettiva. Ascoltare, partecipare, costruire. Si tratta di una serie di laboratori fotografici pensati per offrire a ragazze e ragazzi tra i 14 e i 17 anni la possibilità, sin dalla scelta dei temi, di esprimere il loro “punto di vista” sull’esperienza che stanno vivendo in Ipm. “Vogliamo lasciare spazio alla creatività attraverso l’uso della fotografia per porci in ascolto di quanto questi adolescenti hanno da trasmettere attraverso le immagini. E saranno anche gli stessi ragazzi a proporre i temi da affrontare” dice l’Autorità garante, Carla Garlatti. “In ambito penitenziario la fotografia può svolgere una funzione significativa nell’aiutare i giovani detenuti a esprimere la propria identità, a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, a favorire l’autostima e a proiettare la dimensione del ‘futuro’ oltre le sbarre”. Il progetto si svolgerà, oltre che a Pontremoli, in altri quattro istituti di tutta Italia. A guidare le attività Valerio Bispuri, fotoreporter pluripremiato che vanta una lunga esperienza nel mondo carcerario, affiancato dagli educatori, agenti di polizia penitenziaria e mediatori linguistico culturali degli Ipm. L’iniziativa è realizzata con il supporto del personale dell’Istituto degli Innocenti. Più casi psichiatrici dovuti al disagio sociale di Matteo Maria Macrì Il Fatto Quotidiano, 7 agosto 2024 Sono un medico rianimatore ospedaliero e da circa un anno svolgo mensilmente alcuni turni in ambulanza nel servizio 118. Questa esperienza mi ha dato modo di addentrarmi nel cuore della mia città. Entrare per brevi momenti nella vita delle persone e osservare il tessuto sociale nella sua varietà, da una prospettiva completamente diversa da quella della vita di tutti i giorni. Perché in un modo o nell’altro tendiamo a vivere all’interno di bolle sociali, composte da persone culturalmente ed economicamente simili a noi. Vorrei condividere la cosa che mi ha colpito di più nella mia breve esperienza. Uno dei servizi più comuni si chiama “Giallo 5”. Giallo 5 è il codice che sta per patologia psichiatrica scompensata che necessita di assistenza medica. I casi sono variegati. I motivi per cui è richiesto l’intervento medico, semplificando, sono riconducibili a due fattispecie: minacciato o tentato suicidio, aggressività e violenza verso gli altri e/o verso se stessi. Per capirne di più sul fenomeno dei pazienti psichiatrici, ho iniziato a “intervistare” gli infermieri con cui lavoro e che prestano servizio in ambulanza da molti anni. Loro hanno potuto osservare come i “gialli 5” si siano modificati nel corso del tempo, sia in termini quantitativi che qualitativi. Gli infermieri, che rappresentano la memoria storica del 118, hanno unanimemente dichiarato che non solo i casi di “giallo 5” sono nettamente aumentati rispetto a 10-20 anni fa, ma che è cambiata drasticamente anche la tipologia di pazienti. Se prima era tipico il paziente psichiatrico puro (con diagnosi nota di disturbo psichiatrico severo), oggi è molto più comune il disagio sociale, che sfocia in comportamenti aggressivi, autolesionisti e depressivi. Molti di questi pazienti “psichiatrici” altro non sono che persone profondamente sole, senza famiglia, senza lavoro, senza mezzi economici né aiuti, senza casa, con storie di abusi e dipendenze. Molti sono giovanissimi totalmente in balia di ansia, depressione e della mancanza di riferimenti e prospettive. Purtroppo anche dopo aver attivato il sistema dell’assistenza il percorso di questi pazienti non è certo dei più rosei. Il motivo è che la loro presa in carico è particolarmente complessa e richiedente e le risorse a disposizione sono totalmente inadeguate. Si dovrebbe agire sia a monte che a valle e questo richiede uno sforzo che la società di oggi sembra non prendere minimamente in considerazione. A monte bisogna prevenire il nascere di questi stati di disagio, dando lavoro, salari adeguati, istruzione, accesso alle cure. Costruendo una società piu inclusiva, senza lasciare indietro pezzi sempre più grandi di popolazione. A valle creare apparati efficaci che intercettino e aiutino per davvero, senza mettere toppe inefficienti. Il fenomeno del “giallo 5” non è altro che lo specchio e la conseguenza dei cambiamenti sociali in peggio degli ultimi 20 anni. Il risultato di una società sempre più divisa in vincitori e perdenti. Di una fiscalità regressiva, che lascia briciole alle casse pubbliche. Di una rinuncia da parte dello Stato a fare da garante dei diritti che abbiamo ritenuto fondamentali almeno sulla carta. Cose come casa, lavoro, salute, educazione, dignità. Sono sempre più convinto che se non riusciremo ad arginare tutto questo, ognuno di noi potrebbe diventare un giallo 5, divorato dalle stesse cause che stanno erodendo il benessere sociale di chi ora sta ai margini, che si stringono sempre più. Ogni volta che torno a casa dopo un turno di 118 ho sentimenti contrastanti. Da un lato il sollievo di non fare ancora parte di quelli lasciati indietro, dall’altra l’amarezza nel rendermi conto di essere impotente davanti a questa marea di sofferenza. Spesso la mia utilità trova il suo culmine in una parola gentile o una carezza ai “gialli 5” che li rende molto più collaborativi e sereni ed è come una medicina che dà vigore anche a me. Forse potremmo almeno iniziare da questo, fa bene a tutti e non costa niente. Migranti. Davvero in Italia è stata abolita la condanna a morte? di Frank Cimini L’Unità, 7 agosto 2024 Ennesima violenza scoppiata in un Cpr ed ennesima vittima. Il suo nome era Osama ed era originario dell’Africa. Lui, come tutti i suoi compagni, era in un carcere senza aver commesso alcun reato. Morto poche ore dopo la fine della rivolta nel Cpr di Palazzo San Gervasio, in Basilicata. Forse per un infarto ma non è chiaro. Sarà l’autopsia a stabilire le cause del decesso di Osama, 19 anni, africano. I medici e un’autoambulanza non hanno potuto fare nulla per salvarlo. La sera prima c’era stata una rivolta con incendio. I vigili del fuoco sono intervenuti insieme a una sessantina di agenti della polizia penitenziaria. Il Cpr ospita un centinaio di immigrati e circa 70 operatori. Il procuratore di Potenza, Francesco Curcio, dice che le indagini sono in corso che non si esclude l’omicidio probabilmente colposo perché il giovane non sarebbe stato picchiato. Questo non esclude secondo i pm alcuna fattispecie di reato. Intanto divampano le polemiche politiche. Il Pd ha depositato una interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, per chiedere delucidazioni su quanto accaduto l’altro ieri nella struttura del centro di Permanenza e Rimpatrio di Palazzo San Gervaso. Il ragazzo poi morto sarebbe stato bersaglio di violenze senza aver ricevuto le cure necessarie, nonostante le specifiche richieste provenienti da altri ospiti della struttura. Nell’interrogazione a firma dei deputati Enzo Amendola e Raffale Scarpa si fa osservare che il Cpr sarebbe già oggetto di iniziative da parte della magistratura, rispetto a presunte violenze consumate ai danni degli immigrati e alla somministrazione di psicofarmaci. Al ministro si chiede di fornire spiegazioni e di dire quali iniziative intende assumere al riguardo. “Mentre nei Cpr si muore, la destra vota il nuovo reato di rivolta specifico per le strutture di “accoglienza” che in realtà sono centri di detenzione amministrativa. Questa modalità repressiva di affrontare i fenomeni sociali porterà solo maggiore conflittualità e più rivolte” - affermano Devis Dori e Filiberto Zaratti, capigruppo di Verdi e sinistra nelle modsiini affari costituzionali e giustizia della Camera. - “Siamo indignati, tutta la destra si sta piegando al giro di vite leghista, nessuno nella maggioranza apre bocca”. Vito Bardi, presidente della regione Basilicata, dice che l’obiettivo è quello di fornire un’accoglienza dignitosa a favore dell’integrazione. La questione sarebbe al centro dell’agenda della Regione. Secondo i sindacalisti della Cgil di Potenza, il Cpr di Palazzo San Gervaso “va chiuso perché la situazione rimane esplosiva. Questi episodi di rivolta possono verificarsi da un momento all’altro, mettendo a rischio la vita degli ospiti e di chi li deve sorvegliare”. Ma non sembra che la volontà politica vada in direzione della chiusura dei centri dove sono detenute persone che non sono accusate di aver commesso alcun reato ma vengono private della libertà e vessate. L’opposizione ora protesta, ma va ricordato che i Centri Cie - come si chiamavano in precedenza - vennero istituiti dai governi di centrosinistra. Una storia drammatica che parte da Prodi a Palazzo Chigi arrivando per ora a Palazzo San Gervaso. Migranti. Belmaan Oussama, 19 anni, un’altra vittima del sistema dei Cpr di Gabriella Debora Giorgione vita.it, 7 agosto 2024 Di nuovo morte nei Centri per il rimpatrio. Questa volta in Basilicata, dove i detenuti per protesta appiccano il fuoco alla struttura. Il Procuratore di Potenza Francesco Curcio: “Non si esclude alcuna fattispecie di reato, compreso l’omicidio doloso, colposo”. Aveva solo 19 anni. Il suo nome era Belmaan Oussama, di nazionalità algerina. Era detenuto nel Cpr di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza. Sono le 21:00 del 5 agosto 2024, la Rete Mai più lager - NO ai CPR riporta “la notizia, tutta da verificare, di un morto a Palazzo San Gervasio: si parla di un ragazzo di 23 anni, di percosse da parte degli agenti e di dosi massicce di sedativi da giorni”. Dopo poco, la conferma del decesso del giovane Oussama e lo scoppio di una rivolta all’interno della struttura detentiva, sedata solo dopo circa tre ore e dopo che un incendio appiccato dai detenuti ha avvolto un intero modulo della struttura e lo ha carbonizzato. L’incendio appiccato all’interno del Cpr di Palazzo San Gervasio nella notte tra 5 e 6 agosto, dopo la morte di Osama | foto Basilicata24 Da una prima ricostruzione, Oussama è morto per via di un arresto cardiaco, ma fin da subito sul suo decesso ci sono stati diversi dubbi. Alcuni testimoni hanno riferito di un pestaggio, ma Francesco Curcio, il Procuratore della Repubblica di Potenza, nella conferenza stampa tenuta nel primo pomeriggio del 6 agosto ha dichiarato: “Non è stato picchiato, ma ciò non esclude alcuna fattispecie di reato, compreso l’omicidio doloso, colposo e un atto autolesionistico”. Curcio ha disposto l’autopsia che, ha detto, “è un punto fermo a tutela di tutti, sia dei trattenuti nel centro sia di chi deve tutelarli”. Il giovane Oussama era nel Cpr di Palazzo San Gervasio dal 24 maggio scorso ed alcuni giorni fa aveva tentato di suicidarsi ingerendo alcuni pezzi di vetro. Per questo era stato ricoverato nell’ospedale “San Carlo” di Potenza, dal quale era stato dimesso alcuni giorni dopo: “In teoria”, ha commentato Curcio, “su di lui nel Cpr doveva esserci un controllo, ma al momento dei rilievi fatti ieri era presente un solo infermiere, deputato al controllo di 104 ospiti, e nessun medico”. Di diversa opinione Nicola Cocco, medico delle Rete “Mai più lager - NO ai CPR”: “Quello che è accaduto purtroppo ci conferma quanto siano pericolose queste strutture per la vita delle persone. Ieri a Palazzo San Gervasio, durante alcune proteste per le gravissime condizioni di vita, ultimamente peggiorate con il caldo, ci è stato riferito dalle persone, che si trovano al momento detenute nel centro, che la persona è morta in seguito al mancato soccorso dopo le percosse da parte delle forze di polizia. Sicuramente Oussama sarà stato senz’altro valutato come “idoneo” alla vita nel Cpr, per cui non presentava patologie in atto degne di nota. Sarà necessario portare occhi indipendenti all’interno di quella struttura. Parlano di arresto cardiaco, ma bisogna capire causato da cosa. Cercheremo di fare tutto il possibile per far emergere la realtà. Ma l’opinione pubblica, i professionisti della salute e del diritto, tutti devono prendere coscienza del fatto che non è più tollerabile mantenere aperte strutture di questo tipo. In Basilicata, tutto questo è reso ancora più intollerabile per il fatto che manca il Garante regionale dei detenuti ed è assordante il silenzio del Garante nazionale che non ha ancora fatto alcuna dichiarazione. Vedremo nelle prossime ore”. Prove tecniche di Stato di Polizia di Vincenzo Vita Il Manifesto, 7 agosto 2024 Qualche giorno fa la sede del Corriere Fiorentino e l’abitazione del suo giornalista Simone Innocenti sono stati oggetto di perquisizione per un articolo su una vicenda amara e scabrosa. Si tratta del suicidio avvenuto lo scorso marzo della carabiniera Beatrice Belcuore, a causa - aveva denunciato la famiglia - delle vessazioni subite nella Scuola per allievi e marescialli. Di che si tratta? Rivelazione di segreti di ufficio? Sembra assurdo che si sia ancora a questo punto. Al riguardo vi è, oltre alle prese di posizione delle organizzazioni sindacali, un’interrogazione parlamentare rivolta alla Commissione di un bel gruppo di parlamentari di Strasburgo, a partire dalla vicepresidente Pina Picierno. Tra l’altro, fa giurisprudenza la sentenza del 2018 della Corte di Cassazione su un’omologa vicenda che colpì Marco Lillo del Fatto quotidiano. I giudici ordinarono di restituire tutto quello che era stato sequestrato, vietando di trattenere le copie dei dati acquisiti. Non solo. Esiste ormai una vasta e chiarissima letteratura nel e del contesto europeo, che supera con nettezza simili pratiche: si legga, al riguardo, il comma 3b dell’articolo 4 dell’European Media Freedom Act. E si consultino le decisioni della Corte Europea per i Diritti umani o della stessa Corte costituzionale italiana. Per di più, vi è un flusso univoco sulla materia della libertà di informazione e di cronaca. Basti pensare al Documento di Bruxelles (quello che ha irritato Giorgia Meloni) sullo stato di diritto, ai contributi univoci del Consiglio d’Europa, nonché del Media Freedom Rapid Response o dell’European University Institute redatto insieme al Robert Schuman Centre for Advanced Studies. Il capitolo cruciale del diritto dei diritti è salito finalmente nelle priorità dell’agenda. Come mai, quindi, accadono vicende come quella di Firenze, su cui ha alzato la voce anche l’Ordine professionale? La risposta è elementare, per citare il famoso investigatore. Il clima culturale è profondamente cambiato. Intendiamoci. Non che le cose andassero benissimo pure in precedenza. Ma la parabola negativa ha aumentato velocità e potenza. L’accurata pubblicazione proprio dell’Ordine “Informazione e giustizia” passa in rassegna i punti dolorosi che incidono sull’autonomia e sull’indipendenza di coloro che operano nel sistema mediale. Si va dal D.Lgs del 2021 (decreto Cartabia) che limita la conoscenza dei procedimenti penali e dall’ampliamento del cosiddetto diritto all’oblio (con discutibili automatismi una storia viene deindicizzata), alla pericolosa permanenza nell’ordinamento del reato della diffamazione con inclusa pena del carcere, al ricorso abnorme al ricatto delle querele temerarie, ai vincoli posti all’utilizzo delle intercettazioni e alle costanti minacce verso chi mette il naso in faccende di potere, all’oscuramento dei nomi e delle sentenze, alla corretta rappresentazione delle materie giudiziarie in televisione. E altro ancora. Giornalismo di inchiesta e attività della magistratura sono nel mirino di una destra che mira alla manomissione degli aspetti essenziali della Carta antifascista. L’occupazione spavalda di una significativa parte dei mezzi di comunicazione è funzionale a interferire nelle stesse prossime scadenze referendarie sul lavoro e sull’autonomia differenziata. Tutto ciò scalda i motori per preparare l’appuntamento cruciale della controriforma del premierato. Ecco, allora, che l’episodio di Firenze non va relegato ad una veniale patologia, mentre è una traccia di un clima che si erge a tendenza generale. Colpirne uno per educarne cento, al solito. Sono prove tecniche, come si usa dire, di regime. Naturalmente, vale il rovescio. Comincia ad essere evidente che l’aria serena del governo si è increspata. Forse, mettendo insieme tanti sintomi, è legittimo pensare che sia iniziata la parabola discendente di una destra incapace di recidere i legami con il passato e alla ricerca spasmodica di momenti identitari. Le iniziative europee, soprattutto per la pluralità di fonti e voci, non possono rimanere chiusi nei cassetti. È il momento di fare rumore. Molto e sul serio. Cybercrime e sorveglianza globale di Stefano Bocconetti Il Manifesto, 7 agosto 2024 Entro metà agosto l’Onu approverà il trattato contro i crimini digitali, ma i criminali c’entrano poco: obblighi securitari, diritti facoltativi, dati personali a disposizione degli Stati e delle polizie. Quando i cyber-criminali diventano solo un pretesto. Quando tre anni di discussioni, di negoziati, di “sessioni riservate” saranno servite solo a firmare un trattato che non ha più nulla a che fare con lo scopo dichiarato ma che ora disegna un futuro orwelliano. Per il mondo, per tutto il mondo. Nel drammatico silenzio di tanti, non di tutti ma di troppi. Si parla del Cybercrime Treaty dell’Onu, la convenzione globale che, al termine dell’ennesima sessione al Palazzo di Vetro di New York, dovrebbe essere approvato entro la prima metà di agosto. Ci sarebbe ancora tempo per bloccarlo, almeno modificarlo ma nessuno si fa illusioni. Perché su tutte le questioni più spinose - e più drammatiche per i diritti - c’è da tempo un accordo fra la stragrande maggioranza degli Stati. Loro continuano a chiamarlo “Trattato universale contro il cybercrime” ma anche solo il titolo è una bugia. Il documento, lo sterminato documento non si occupa di chi viola la privacy delle persone, rubando le credenziali, di chi entra nei sistemi digitali pubblici o privati, corrompendoli o bloccandoli, chiedendo tanti soldi di riscatto per tornare a farli funzionare. No, il Cybercrime Treaty considera sua competenza anche l’uso di uno strumento digitale per qualsiasi reato. Per capire: chi ruba una macchina e scrive un messaggio ad un complice per dire che il furto è andato a buon fine, rientra nelle casistiche del Cybercrime Treaty. Già ma a che serve avere esteso quasi all’infinito i propri ambiti? La risposta la danno le associazioni per i diritti digitali - appunto fra i pochi che non sono rimasti in silenzio - a cominciare da una delle più autorevoli nel mondo: l’Electronic Frontier Foundation (Eff). Che non usa mezzi termini: quel trattato serve soprattutto “a rimodellare drasticamente le leggi sulla sorveglianza globale”. Tutto ma proprio tutto spinge in quella direzione. Che era esattamente l’obbiettivo della Russia nel 2021 - prima quindi dell’invasione dell’Ucraina - che è stata la protagonista, l’animatrice, la vera promotrice delle prime sessioni della convenzione all’Onu. Obbiettivo poi assecondato - se non cambieranno le cose all’ultimo minuto - anche da tutti gli altri Paesi. Frasi esagerate? Per esaminare l’intero trattato - che sarà vincolante per i paesi che lo sottoscrivono - occorrerebbero centinaia di pagine (cosa che hanno fatto comunque tutte le associazioni, fin da quando hanno cominciato a trapelare i primi documenti). Bastano però alcuni esempi. C’è l’articolo 28 per dirne uno, sul quale da tempo c’è il consenso unanime. Consente alle autorità dei vari paesi la ricerca e il sequestro dei “dati elettronici”. Singolare definizione che - com’è spiegato anche nell’ultima versione - presuppone anche tutto ciò che è nel nostro computer, cellulare, hard disk. Anche se non è stato condiviso con nessun altro, mai inviato né ad amici, né sui social. A disposizione delle autorità insomma potrebbero esserci anche semplici riflessioni personali. Ma anche questo, anche l’autorizzazione a violare i messaggi criptati, è ancora poco. Più preoccupante è l’articolo 24, sulla cooperazione internazionale fra le forze di polizia. Prevede la possibilità che uno Stato chieda dati e notizie ad un altro governo. Senza neanche l’autorizzazione di un giudice del paese che riceve la richiesta. Per capire: le autorità del Myanmar - se firmatarie del trattato - potrebbero chiedere “dati” su chi scrive e pubblica notizie contro la giunta militare, perché quei contenuti sono considerati reato lì, nel paese asiatico. Senza neanche che l’interessato lo venga a sapere, perché il Cybercrime Treaty garantisce la segretezza delle comunicazioni fra polizie e non c’è possibilità di promuovere un ricorso. E la difesa dei diritti umani, dei diritti personali che fine hanno fatto? Qui il trattato compie uno spaventoso salto all’indietro: la loro “salvaguardia” non avviene più con regole generali, universali ma viene affidata alla legislazione dei singoli Stati. C’è solo un invito ai paesi sottoscrittori a varare “norme appropriate” al tema. Non vincolanti, appropriate. E in Uganda - e anche un po’ in Ungheria - oggi è “appropriato” il divieto a parlare di omosessualità. Come dice forse il più famoso scrittore di fantascienza americano Cory Doctorow, da sempre impegnato nella battaglia per democratizzare la rete, il “trattato è insomma vincolante per la sorveglianza e facoltativo sui diritti”. Ma non è ancora tutto. C’è anche il capitolo che suona grottesco. Quello che vieta ai ricercatori e ai giornalisti di rendere pubblici eventuali bug informatici, quegli errori, quei “buchi” che poi permettono agli hacker di entrare nei sistemi. Le big tech - tutte - hanno chiesto ed ottenuto il diritto di veto: le notizie a riguardo dovranno essere comunicate a loro e solo a loro. Perché “se rese pubbliche, metterebbero a rischio la sicurezza”. Tutti sanno che invece è vero il contrario. Per dire, poco più di dieci anni fa, le autorità statunitensi (la Nasa e la Cia) scoprirono una vulnerabilità nei sistemi Windows. Non comunicarono subito il dato, lo tennero segreto, sperando che questo avrebbe permesso loro di “spiare” concorrenti e nemici. Nessuno corse ai ripari, il bug fu trovato anche da hacker malevoli che crearono l’Eternalblue, il virus - esattamente si tratta di un exploit - che ancora oggi infetta centinaia di migliaia di computer. Lo stesso potrà avvenire domani quando il Cybercrime Treaty entrerà in vigore, mettendo a rischio penale ricercatori indipendenti e giornalisti. L’ultima, ma non certo in ordine di importanza. Il trattato obbliga anche chi sia “in possesso di competenze utili alle indagini” a collaborare con le autorità. Significa che un ricercatore, uno studioso, un consulente potrebbero essere obbligati a spiegare come si viola un file criptato. Come si forza una password, magari sul loro stesso computer. Tutto questo e tanto altro ancora lo chiamano appunto trattato contro il cybercrime. A conti fatti, però quello sterminato documento fornisce qualche arma in più solo a quei criminali ma tanti strumenti in più alla sorveglianza dei governi. Si dovrebbe decidere il 9 agosto o nei giorni successivi a New York. Le conseguenze però dureranno decenni. Droghe nel mondo, poche idee su cosa fare di Marco Perduca Il Manifesto, 7 agosto 2024 Da 35 anni l’Onu dedica il 26 giugno alla lotta alle dipendenze e al narcotraffico. Tema di quest’anno “L’evidenza parla chiaro: investire in prevenzione”. Un’ovvietà da non dare mai per scontata - e non solo nei regimi autoritari che prevedono la pena di morte per uso personale di stupefacenti. L’Ufficio per le droghe e il crimine dell’Onu (Unodc), diretto dall’ex ministra egiziana Ghada Waly (prima di lei solo russi o italiani) si barcamena tra il rispetto dei diritti umani e i desiderata degli Stati membri refrattari alla ricerca di un bilanciamento tra attenzioni sociosanitarie e lotta al narcotraffico. “Dalle persone con disturbi legati all’uso di sostanze alle comunità alle prese con le conseguenze del narcotraffico e della criminalità organizzata - si legge nel comunicato di Waly - l’impatto delle droghe è di vasta portata e complesso. Per affrontare questa sfida è fondamentale adottare un approccio basato su evidenze scientifiche che diano priorità a prevenzione e trattamento”. Per l’Unodc le “politiche efficaci devono fondarsi su scienza, ricerca, pieno rispetto dei diritti umani come su compassione e una profonda comprensione delle implicazioni sociali, economiche e sanitarie del consumo di droga”. Questo “dovere” e le realtà a livello nazionale non sempre combaciano. Il Rapporto mondiale sulla droga (al singolare, sic!), quest’anno si concentra in particolare sull’emergere di nuovi oppioidi sintetici e sugli aumenti record di offerta e domanda di tutte le altre droghe che aggravano l’impatto mondiale del problema, portando a un aumento dei disturbi legati all’uso delle sostanze e a danni sociali e ambientali. Nel 2022 le persone che hanno fatto uso di sostanze illecite nel mondo sono state 292 milioni, un aumento del 20% negli ultimi dieci anni. Cannabis 228 milioni di persone, oppioidi 60 milioni, anfetamine 30 milioni, cocaina 23 milioni ed ecstasy 20 milioni. Non solo non si hanno i numeri relativi al policonsumo ma in generale si tratta di cifre elaborate sulla base di quanto condiviso volontariamente dai governi: numeri che coprono (forse) il 60% della popolazione mondiale. Sebbene si stimi globalmente che 64 milioni di persone soffrano di disturbi legati all’uso problematico di stupefacenti, solo una su 11 è in cura. Le donne hanno meno accesso alle cure rispetto agli uomini: una su 18 rispetto a un uomo su 7. Sono circa 7 milioni le persone - cifra molto probabilmente sottostimata - che nel mondo hanno avuto contatti formali con la polizia per reati di droga (arresti, multe, ammonizioni), di cui circa due terzi dovuti al possesso per uso personale, financo alimentare (!) di semi di papavero o canapa. Inoltre 2,7 milioni di persone sono state perseguite per reati di droga e oltre 1,6 milioni condannate, con differenze significative per quanto riguarda il tipo di pene. Il Rapporto contiene capitoli sulla messa al bando dell’oppio in Afghanistan, in parte responsabile dell’invasione degli oppiacei sintetici; nuove sostanze psicoattive e questioni di genere; impatti della legalizzazione della cannabis - non ancora metabolizzati a livello Onu -, “rinascimento” psichedelico; diritto alla salute in relazione al consumo di droga e collegamento tra traffico di droga nel Triangolo d’Oro (Myanmar, Thailandia, Laos) e altre attività illecite e al loro impatto non solo regionale. Il documento si conclude con decine di raccomandazioni tra cui “sostenere politiche basate su evidenze a livello nazionale e internazionale, garantendo che esse siano fondate sulla ricerca scientifica e informate dalle migliori pratiche”. Nelle stesse ore in cui l’Onu presentava il Rapporto, in Italia si suonava l’allarme dipendenze individuando nel principio attivo non stupefacente del Cbd il nuovo nemico da battere, contro la letteratura scientifica e le raccomandazioni dell’Oms. In Norvegia umanizzare la detenzione è una priorità di Enrico Varrecchione linkiesta.it, 7 agosto 2024 In un contesto alienante come quello del carcere è fondamentale preservare la vita sociale e i rapporti umani. Il sistema norvegese prevede incontri settimanali con i familiari, attività ricreative e la presenza di funzionari penitenziari altamente specializzati. Le porte del carcere di Oslo si spalancano per fare entrare il nostro ipotetico detenuto, giunto al terzo episodio dell’inchiesta dedicata al sistema correzionale norvegese. Il carcere cittadino è anche quello forse più iconico, con l’ingresso nel braccio “A” (ora chiuso) che si affaccia sul quartiere multietnico di Tøyen, non lontano dal centro. Poco lontano vi è la moschea cittadina, e il lungo viale che taglia in due la città vecchia è costellato da ristoranti e negozi esotici. Con i suoi duecento quarantatré detenuti, è il secondo carcere più popolato del paese. La parte destinata alle visite ricorda in parte un asilo o un’aula di una scuola elementare: arredamento spartano, nel braccio “B” c’è una libreria, una piccola sezione dedicata ai giochi per i bambini e alcune poltrone e tavolini per gli incontri a contatto, mentre fuori c’è un giardino con un dondolo a ridosso di un murales. Gli incontri nel braccio “A” avvengono solamente con un vetro a separare i detenuti dai visitatori, esattamente come nei film o nelle serie tv. Normalmente ai detenuti è consentito un incontro a settimana (durante i quali possono essere consentiti rapporti sessuali), mentre per i detenuti con figli è previsto un incontro aggiuntivo a settimana. I contatti telefonici sono di massimo venti minuti a settimana nelle carceri ad alta sicurezza, mentre normalmente non ci sono limiti di tempo per gli altri detenuti. “In Italia abbiamo centottantanove carceri per adulti e diciassette per minori”, informa Alessio Scandurra dell’Osservatorio per la Detenzione del gruppo Antigone. “Il carcere più grande. Poggioreale a Napoli, ospita duemilacinquantacinque persone. Il più piccolo, Sciacca in Sicilia, ne ospita ventuno, ma la dimensione media di un carcere italiano è intorno alle trecentoventi presenze”. La detenzione, in Norvegia, è divisa in quattro soluzioni: alta sicurezza, bassa sicurezza, casa di transizione e arresti domiciliari. Le case di transizione vengono utilizzate da quei detenuti che hanno la possibilità di lavorare durante l’orario diurno, ma che devono sottostare a un regime di detenzione durante le ore notturne. In Norvegia ve ne sono otto, ospitano circa centotrenta detenuti. Senza tenere conto delle case di transizione, un carcere in media ospita settantaquattro detenuti. Qui Scandurra ci spiega la differenza fra Italia e Norvegia: “La gran parte delle persone in Italia è in regime di media sicurezza, ma abbiamo poi tre livelli di Alta sicurezza (circa novemilacinquecento persone) ed infine quelli in 41bis (settecentotrentatre persone). I detenuti in media sicurezza possono effettuare fino a sei telefonate al mese, di dieci minuti ciascuna, e fino a sei colloqui al mese, di un’ora ciascuno, in presenza o in videochiamata”. Gli incontri sono, comprensibilmente, una componente fondamentale per il mantenimento della vita sociale in carcere. Lo spiega Bente Grambo, consulente dell’Organizzazione per i Parenti dei Detenuti: “La maggior parte dei familiari che ci contattano, desiderano mantenere un rapporto con i detenuti, sono pochi i parenti che si rivolgono a noi pur interrompendo i rapporti, abbiamo gruppi di supporto per i casi di violenza sessuale o domestica e assistiamo i partner o ex partner, specialmente quando i figli invece mantengono contatti con il genitore detenuto”. Anche i parenti spesso seguono un pattern demografico: sono prevalentemente madri e coniugi, in larga parte si tratta di donne. “Maria”, la detenuta incontrata nell’articolo precedente, descrive così le condizioni nel carcere di alta sicurezza: “Ritengo ci sia un grado molto basso di contatto con i parenti più stretti, specialmente nelle carceri ad alta sicurezza”. A suo avviso, il ricorso all’alta sicurezza è eccessivo: “Il contenuto della detenzione è più importante della sua lunghezza o delle condizioni. Ci sono casi di persone in carcere per reati non violenti e che non hanno problemi di abusi, che finiscono in un carcere di alta sicurezza solo perché hanno una detenzione più lunga e non ci sono risorse sufficienti”. Gli incontri possono avvenire sia di persona che a livello digitale, una soluzione introdotta durante le restrizioni per la pandemia e che ha continuato ad esistere anche dopo. Molte informazioni sul carcere emergono dalle voci che si alternano a Røverradio, il programma realizzato dai detenuti del carcere centrale di Oslo e dalle detenute del carcere femminile di Bredtveit. È indubbiamente una maniera creativa per passare il tempo e condividere informazioni con un pubblico che, altrimenti, non avrebbe motivo di entrare in contatto con numerosi aspetti del carcere. C’è chi racconta, ironicamente, della volta più ridicola in cui è stato arrestato, o chi fornisce consigli agli ascoltatori per evitare i furti in auto o in appartamento, ma una delle costanti è la discussione sulla tossicodipendenza e sulle possibili misure per limitarla o combatterla. I contenuti sono originali e, con il passare delle puntate, emerge anche l’esperienza con cui i detenuti riescono a gestire i tempi radiofonici o sottoporre le domande agli ospiti, talvolta celebri. Della permanenza in carcere raccontano questo: “La cosa più importante è lavorare su se stessi e mostrare spirito di iniziativa, soprattutto se si pensa che questo è un posto dove tutti i giorni qualcuno ti serve il cibo e la tua cella viene pulita”. Poi c’è il rapporto con le guardie. “Nel sistema correzionale norvegese non ci sono poliziotti, a differenza di altri paesi europei”, spiega la criminologa Vanja Lundgren Sørli. “I funzionari del carcere sono inquadrati come una professione a parte rispetto alla polizia, anche se entrambi sono alle dipendenze del Ministero della Giustizia”. La formazione è essenziale: “Sia per la polizia che per i funzionari delle carceri, riteniamo che oggi il percorso di formazione biennale sia troppo breve, dovrebbe essere prevista almeno una laurea triennale per caricarsi di questa complessa responsabilità nei confronti della società”. Di quali competenze c’è bisogno? “È noto che i detenuti siano caratterizzati da dipendenze e/o da una bassa scolarizzazione e altri problemi di natura psichiatrica, per questo sono necessarie molte competenze per un compito così complesso”. Secondo Bente Grambo, le condizioni sono cambiate in positivo, ma ci sono ancora margini di miglioramento: “In generale è successo molto durante gli ultimi quindici anni. Ad esempio siamo riusciti a influire a livello politico per permettere ai minori di quattordici anni di poter visitare i genitori in carcere, prima non potevano. Siamo parte di un’organizzazione europea e rispetto ad altri paesi possiamo dire che le condizioni siano buone, però qui ci sono ancora molte differenze fra un carcere e l’altro”. Si verificano violenze? “Rispetto ad altri paesi, gli episodi di violenza avvengono in misura molto ridotta. Può succedere, certo, ma i funzionari vengono formati proprio per limitare la violenza sia fra i detenuti e da parte dei funzionari stessi”. Questo aspetto viene confermato anche da Lundgren Sørli: “I funzionari possono utilizzare la forza fisica in caso di necessità, ma deve essere circostanziata e non deve mai eccedere lo stretto necessario”. I problemi che emergono durante la detenzione, variano a seconda della sua natura: “Chi è ai domiciliari, deve fare rientro normalmente alle 18 e indossa un braccialetto elettronico alla caviglia per tracciare i movimenti. In questo caso, ci possono essere situazioni domestiche non adatte, ad esempio per chi abita in un dormitorio e ha uno spazio molto ristretto in cui vivere”, spiega la criminologa, che poi si sofferma sull’isolamento, talvolta anche volontario, dei detenuti: “In alcuni casi sono le misure previste dall’Istituto Correzionale a richiedere l’isolamento per brevi periodi, anche perché si tratta di un elemento di particolare stress per i detenuti, altri decidono loro stessi di non voler condividere lo spazio con altri e uscire, cosa che è tra l’altro prevista per minimo due ore al giorno, altrimenti viene classificata come tortura”. “Maria”, che attualmente si può spostare fra la casa di transizione e il lavoro, spiega così gli effetti dell’isolamento: “A volte diamo scontate troppe cose prima di entrare in un carcere, ad esempio la possibilità di comunicare con un telefono o tramite internet. Quando sono entrata, anche solo per riuscire a richiedere la revisione del mio processo e accedere ai documenti a mio carico, ho dovuto aspettare ottanta giorni”. Racconta poi di un episodio che ha particolarmente traumatizzato le detenute del carcere di Bredtveit: lo scorso anno, una ragazza si è tolta la vita davanti a loro e la polizia ha disposto che le detenute fossero confinate nelle proprie celle durante i rilievi, durati diverse ore, in un contesto che altrimenti avrebbe richiesto assistenza psicologica o spirituale. Non essendo previsto l’ergastolo, per tutti i detenuti arriva il momento di uscire, fatta eccezione per quei casi in cui, ogni cinque anni, può essere estesa la detenzione nel caso il condannato dovesse ancora rappresentare una minaccia per l’esterno. E quando si aprono le porte del carcere, inizia un altro capitolo, quello che la prossima settimana concluderà questo viaggio. Medio Oriente. L’arma della fame per svuotare Gaza di Francesca Mannocchi L Stampa, 7 agosto 2024 Per l’estrema destra israeliana il disimpegno dalla Striscia è una ferita da rimarginare. Così il ministro Smotrich vorrebbe impedire che entri il cibo. Lunedì migliaia di persone si sono radunate in piazza a Tel Aviv per celebrare il quinto compleanno di Ariel Bibas, il festeggiato assente, rapito il 7 ottobre dal kibbutz di Nir Oz, insieme a sua madre, suo padre e il fratello minore di nemmeno un anno. I manifestanti avevano palloncini arancioni a rappresentare il colore dei capelli di Ariel Bibas, il cui volto è diventato uno dei simboli di questi mesi, e delle proteste che ogni sabato portano in piazza decine di migliaia di israeliani che chiedono le dimissioni del primo ministro Netanyahu e un accordo che riporti indietro gli ostaggi ancora in vita e i corpi di chi non ce l’ha fatta. Nel video che mostra il loro rapimento si vede la mamma di Ariel, Shiri, 33 anni, che tiene i bambini stretti in una coperta e viene trascinata via da uomini armati. Né lei né i bambini sono stati rilasciati durante i negoziati di novembre, in cui Hamas restituì alle famiglie 105 ostaggi, tra cui donne e bambini. Hamas ha poi sostenuto che i bambini fossero morti ma le forze di sicurezza israeliane hanno sempre sostenuto che non ci fossero prove per queste affermazioni, e che quello di Hamas fosse solo “terrore psicologico”. La nonna dei bambini, Pnina Bibas, poche ore prima della manifestazione di ieri, ha diffuso una lettera pubblica indirizzata al piccolo: “Il mondo intorno a noi continua a girare, ma il tempo sembra essersi fermato senza di te”. Poi ha di nuovo fatto appello a Netanyahu: “Il loro destino è nelle tue mani. Sul tavolo c’è un accordo che hai accettato. Non apportare modifiche, non stabilire nuove linee rosse. Non esitare e non ritardare. Riportali a casa”. La “soluzione” - Lo stesso giorno il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich è tornato a delegittimare ogni possibilità di negoziato, parlando degli ostaggi ha detto: “Abbiamo una responsabilità, vogliamo riportare indietro gli ostaggi, ma un accordo restituirebbe solo pochi prigionieri e sigillerebbe il destino della maggior parte di loro, che resterebbe prigioniera a Gaza”. Lunedì si è svolta l’annuale conferenza Katif (Kenes Katif), che prende il nome da Gush Katif, il blocco di diciassette insediamenti israeliani nella Striscia di Gaza, smantellato durante il piano di disimpegno unilaterale deciso nell’agosto del 2005 dall’allora primo ministro Sharon. Per l’estrema destra israeliana il disimpegno da Gaza è una ferita da rimarginare. Un’analoga conferenza si era svolta a gennaio a Gerusalemme e anche lì in prima fila e sul palco c’erano i ministri dell’ultradestra sionista del governo Netanyahu. Allora Smotrich dal palco disse: “È ora di riprenderci Gaza, dopo l’errore fatale dell’abbandono del 2005”. Due giorni fa è tornato ancora sul reinsediamento di Gaza: “Se ci fosse stato un insediamento ebraico a Gush Katif il massacro del 7 ottobre non sarebbe avvenuto. Dove non c’è insediamento c’è terrore”. Per questo, ha detto, l’impegno è ricostruire l’area di confine di Gaza e renderla una parte inseparabile di Israele, cioè occuparla. Smotrich sa che gli obiettivi dichiarati della guerra sono lo smantellamento di Hamas e il ritorno degli ostaggi, e non ha perso occasione di attaccare chi da nove mesi manifesta per ottenere un accordo. Ancora lunedì ha definito i manifestanti israeliani come persone “irresponsabili che da mesi indeboliscono la posizione israeliana” perché vogliono un accordo che riporti a casa gli ostaggi “ora e a qualsiasi costo”. Ma Netanyahu, almeno pubblicamente, ha più volte preso le distanze dallo scenario di un ritorno dei coloni a Gaza, definendolo irrealistico. Sugli ostaggi Smotrich ha una soluzione, mai espressa tanto esplicitamente. L’accordo, per lui, è solo un modo per mettere in pericolo Israele, vorrebbe dire il ritorno a casa di pochi ostaggi, e consentire l’accesso di aiuti umanitari non farebbe altro che rafforzare Hamas. Per far tornare gli ostaggi Israele Smotrich vede un’unica via: impedire che entri cibo per due milioni di persone a rischio carestia. “Stiamo portando aiuti perché non c’è scelta”, ha detto nella conferenza a Yad Binyamin, “nessuno ci permetterà di causare la morte di fame di 2 milioni di civili, anche se potrebbe essere giustificato e morale finché i nostri ostaggi non saranno restituiti”. Giustificato e morale. I precedenti - Non è la prima volta dall’inizio della guerra che Smotrich usa parole impronunciabili. Ad aprile aveva invocato “l’annientamento totale” delle città di Rafah, Deir al-Balah e Nuseirat nella Striscia di Gaza. Ha detto che Israele aveva bisogno di attaccare Rafah “il più velocemente e con la massima forza possibile, e poi continuare con la Striscia fino alla sua completa distruzione”. Ben prima del 7 ottobre e prima dell’inizio dell’offensiva israeliana su Gaza, Smotrich non ha mai nascosto il suo desiderio di annientare i palestinesi. Caso eclatante fu, il 26 febbraio del 2023, quando centinaia di israeliani di estrema destra incendiarono decine di case, ovili, negozi e mezzi di trasporto a Hawwara, nella Cisgiordania occupata. Molti residenti della cittadina fuggirono per evitare di essere bruciati vivi. Tre giorni dopo l’attacco Smotrich, già ministro, disse: “Il villaggio di Huwwara deve essere spazzato via. Ma penso che sia lo Stato di Israele che deve farlo, non i privati cittadini”. Due anni prima, da membro della Knesset e non ancora del governo disse che i palestinesi erano ancora presenti in Israele “per sbaglio”, perché Ben Gurion non aveva portato a termine il lavoro del ‘48. Nel 2016 ha giustificato l’omicidio di un adolescente palestinese, Mohammed Abu Khdeir, come parte di “una giusta vendetta”, sostenendo che gli ebrei possono compiere azioni drastiche, sì, ma che non agiscono per razzismo, bensì a causa di un vuoto lasciato dallo Stato che non “esegue rappresaglie in modo legittimo”. Dunque le dichiarazioni dell’altro giorno, la fame dei palestinesi come scelta “giustificata e morale” per liberare gli ostaggi, si inseriscono in un progetto più ampio, che Smotrich non chiama quasi mai “annessione” ma che non prevede mai l’esistenza di uno Stato palestinese. Come ha detto al quotidiano Haaretz in un’intervista di sette anni fa, uno Stato palestinese equivarrebbe a dividere Israele; assorbire la Cisgiordania in Israele è “unificazione”. Per unificare, oggi, guarda da un lato a Gaza, col sogno di un ritorno a Gush Katif, dall’altro alle colonie in Cisgiordania, su cui ha le deleghe. Il suo obiettivo è ampliare la presenza dei coloni e disintegrare l’Autorità Palestinese. Sul primo fronte protegge gli insediamenti (meno di un decimo dei 395 casi registrati di edilizia illegale dei coloni, nel 2023, ha portato alla demolizione di un edificio) e non condanna né chiede di sanzionare la violenza dei coloni contro i palestinesi, sul secondo fronte l’intento esplicito è quello strangolare finanziariamente l’Autorità Palestinese e più della metà delle entrate su cui l’Ap fa affidamento proviene da dogane e altre tasse che Israele riscuote prima di trasferire il denaro a Ramallah. Dopo l’inizio della guerra a Gaza, Smotrich ha triplicato le detrazioni mensili fino a 600 milioni di shekel, circa il 60 percento del trasferimento mensile complessivo. Ieri, invece, ha ordinato la confisca di altri 100 milioni di shekel dell’Autorità Palestinese: “La lotta contro il terrorismo non è solo sul piano militare ma include una guerra contro i fondi per il terrorismo”. I vertici della Difesa sono da sempre molto critici sulle misure di Smotrich, considerandole - a ragione - le micce di una nuova Intifada, ma Netanyahu sa che ha bisogno del supporto del partito di Smotrich (che conta sette seggi alla Knesset) per continuare ad avere la maggioranza e restare al potere. Il dilemma del prigioniero - A descriverlo, in un editoriale di un mese fa, il quotidiano israeliano Jerusalem Post che, riferendosi all’influenza dell’ultradestra sul primo ministro Netanyahu ha scritto: “[Smotrich e Ben Gvir] stanno approfittando di un primo ministro debole e completamente cinico, che farebbe di tutto per restare al potere, incluso sacrificare 120 ostaggi e danneggiare mortalmente gli interessi più vitali di Israele”. Colombia. I genitori di Mario Paciolla vogliono solo la verità. Ma tutto va in direzione opposta di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 7 agosto 2024 Ho negli occhi gli occhi di Anna e Pino Paciolla incontrati venerdì sera a Latina: vogliono una cosa semplice e giusta, che rischia però di apparire sempre più “strana”, la verità sulla morte di Mario. L’occasione è stata una importante iniziativa pubblica promossa da Articolo 21 a Latina venerdì scorso (vigilia dell’anniversario della strage di Bologna), insieme ad Anpi, Cgil e diverse realtà locali, con la proiezione dell’inchiesta giornalistica “Gioventù Meloniana”: nella speranza che di città in città, questa modalità diventi una vera e propria “carovana” permanente per la libertà di informazione, tanto minacciata, quanto essenziale. Anna e Pino Paciolla, con i quali mi sono fermato a parlare al termine della manifestazione, stanno aspettando la decisione del Tribunale sulla seconda richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura, a cui si sono comprensibilmente opposti. Mario non si è ucciso, Mario è stato ucciso perché diventato un testimone scomodo di dinamiche indicibili interne alle Nazioni Unite in Colombia: questo è quanto chi ha approfondito fino a qui i fatti certi e disponibili pensa senza dubbio (me compreso), ma altro è che questi fatti vengano messi a fondamento di un processo che certifichi le responsabilità personali di natura penale di coloro che hanno provocato la morte di Mario e tra questi, molto probabilmente, personale Onu. Si direbbe: tra il “dire” e il “fare” ci sta di mezzo, ancora una volta, quell’ingombrante principio di legalità, che presuppone l’uguaglianza difronte alla legge, che a sua volta muove dalla idea dirompente che ogni persona sia portatrice di una medesima dignità, incomprimibile. L’impegno dei familiari di Mario Paciolla, così come di quelli di Luca Attanasio, di Giulio Regeni, di Andy Rocchelli, riveste un valore universale per tutti i democratici rimasti in circolazione proprio perché esige che la verità venga cercata e trovata (!) attraverso l’applicazione della legalità, cioè attraverso indagini e processi. Cercare verità attraverso la legalità democratica è oggi un atto rivoluzionario che merita non soltanto rispetto e commozione, ma anche concreta mobilitazione. Perché è un atto rivoluzionario? Perché tutto (o quasi) va nella direzione opposta. La “verità” non esiste: la narrazione della realtà è appannaggio della propaganda di chi ha più forza con conseguenze devastanti a monte e a valle. A monte, perché sostituire la ricerca della verità con la propaganda significa mortificare in ogni modo il giornalismo serio attraverso le querele e le azioni civili intimidatorie, la caccia alle fonti, la concentrazione delle proprietà editoriali, il controllo politico del servizio pubblico radiotelevisivo, la confusione tra potere mass mediatico e potere politico… tutte cose che accadono copiosamente in Italia, tanto da far sprofondare il nostro Paese nelle classifiche internazionali sulla qualità dello stato di diritto. Significa inoltre mortificare l’indipendenza e l’efficacia della magistratura, esercizio anche questo tanto caro a questa destra di “eredi-al-quadrato” (del Duce e di Berlusconi). A valle, questa sostituzione tra ricerca della verità e propaganda produce da un lato spiegazioni “tossiche” di fatti importanti, recenti o passati, dall’altro produce una crescente diffidenza proprio nelle procedure democratiche dedicate alla ricerca della verità, in un circolo vizioso che si autoalimenta e finisce con l’avvelenare i pozzi: nessuno più crede alla onestà di un giornalista, di un giudice, di uno scienziato. Ma quando non c’è più nessuno di cui ci si può fidare, cessa di esistere la possibilità stessa di uno spazio pubblico, di una re-pubblica, resta soltanto il “clan” di appartenenza come origine e garante di una “verità” e di un ordine, prodotti e imposti attraverso la nota sintassi fatta di arbitrio, obbedienza, vendetta. Alzando gli occhi dalle meschine vicende della destra italiana che fa sistematico ricorso a queste “sostituzioni”, non è forse questo il tratto caratteristico dello scenario internazionale nel quale viviamo, che seppellisce ogni giorno di più la ricerca di composizione legale dei conflitti a vantaggio del più spiccio ricorso alla guerra, alla rappresaglia, al terrorismo? Non va forse in questo senso anche lo spettacolare scambio di prigionieri tra Usa e Russia? Non importa chi sia buono, chi cattivo, chi innocente, chi colpevole, chi eroe, chi infame, importa la volontà del “principe” di derogare ad ogni regola pur di trovare un accordo vantaggioso per la conservazione del proprio potere. Davanti all’irruzione dell’arbitrio che fa saltare ogni regola per convenienza, restano sconcertati Anna e Pino Paciolla, ma anche i rappresentanti sindacali dei Carabinieri italiani che, per bocca di Unarma, hanno sollevato il sospetto inquietante che pure il rientro in Italia di Chico Forti sia stato barattato con la riduzione di pena dei due americani che hanno assassinato il collega carabiniere Mario Cerciello Rega. Senza fiducia salta la democrazia: i neri (e i loro amici) scommettono proprio su questo. *Presidente Art. 21 Piemonte ed ex deputato del Partito Democratico