Lo stato delle carceri e il Volontariato a cura di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 6 agosto 2024 Il 18 luglio il direttivo della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ha incontrato per la seconda volta online il Capo del DAP, Giovanni Russo. All’inizio dell’incontro è stata ribadita la concezione del ruolo del Volontariato nell’ambito della Giustizia a cui la Conferenza tutta si ispira. Il ruolo del Volontariato nell’ambito della Giustizia è per noi quello di promuovere il confronto, di condividere proposte innovative, di essere una realtà credibile, competente, pronta a dare il suo apporto in tutti gli ambiti della vita detentiva e dei percorsi rieducativi. Ma è un ruolo che richiede autonomia rispetto all’amministrazione penitenziaria, che significa capacità di confrontarsi e dialogare alla pari e coinvolgimento su tutte le questioni che hanno a che fare con l’esecuzione della pena e il reinserimento, nella consapevolezza che il volontariato in carcere presenta innegabili aspetti di complessità, legati in particolare al tema della sicurezza, che non possono comunque diventare un alibi per l’immobilismo. La circolare sulla media sicurezza Al Capo del DAP, Giovanni Russo, abbiamo chiesto di iniziare il confronto dai temi “caldi” di questa difficile estate, a partire dalla necessità di una riflessione a proposito della circolare sulla media sicurezza, che parla molto del ruolo del Volontariato, ma per ora si è tradotta nella chiusura di troppe sezioni, nessun ampliamento degli orari delle attività, nessuna formazione specifica riguardante il trattamento dei detenuti collocati nelle sezioni ex art. 32. Secondo la CNVG è proprio dal regime di chiusura di molte sezioni che nascono i più grandi conflitti, le insofferenze, la rabbia, le rivolte anche, di questi giorni. Tra l’altro, molti detenuti fanno notare che prima nelle sezioni aperte c'era anche, rispetto al tema dei suicidi, un modo un po’ di guardarsi, di sostenersi a vicenda e una piccola forma di responsabilizzazione che oggi non c'è più là dove è avvenuta questa chiusura, che ha complicato le cose invece che renderle più semplici. L’obiezione di Giovanni Russo all'ipotesi di consentire un regime di apertura delle camere detentive anche indipendentemente dall'esistenza di attività comuni laboratoriali e formative è che “la realtà della Casa di reclusione di Padova e altre realtà simili forse sarebbero in grado di assorbire e di gestire bene una situazione del genere, però ci sono altri istituti dove questo può determinare una condizione di prevaricazione di detenuti più forti sui più deboli”. Secondo la CNVG per anni le sezioni erano aperte e la conflittualità non ci risulta fosse più alta, non ci pare che il problema siano le possibili prevaricazioni, tanto più che sono state chiuse delle sezioni “sulla carta” e non perché c'erano elementi particolarmente violenti o situazioni a rischio, perché per quello c'è già la sezione ex articolo 32. Forse le questioni disciplinari dovrebbero essere affrontate in modo diverso, nuovo, perché attualmente vengono affrontate con trasferimenti per motivi di sicurezza, rapporti disciplinari, perdita della liberazione anticipata, e anche questo noi riteniamo che non sia un modo efficace. E a proposito dei conflitti varrebbe la pena provare ad affrontarli, per esempio, con gli strumenti della giustizia riparativa. La mediazione quando c'è un conflitto in carcere sarebbe strumento molto migliore degli strumenti che si usano adesso, con una logica per cui invece che trovare una soluzione al conflitto si tende ad esasperarlo. Potrebbero a tal fine essere coinvolti mediatori dei Centri per la mediazione presenti in molte città, che sono figure terze rispetto all’Amministrazione penitenziaria. Quello che si può fare per prevenire i suicidi Una delle poche forme di prevenzione dei suicidi è che dovrebbero essere ampliate al massimo le misure che hanno a che fare con gli affetti, quindi rafforzare il più possibile tutto quello che costituisce i rapporti con le famiglie, vale a dire telefonare e colloqui. Le due telefonate in più al mese di cui parla il decreto “Carcere sicuro” secondo la CNVG non sono quello che basta, ma il Capo del DAP ha sostenuto che “oltre alle quattro telefonate che diventano sei il direttore può concedere un numero illimitato di telefonate. C’è il richiamo all'articolo 39 che equipara totalmente la disposizione in materia di colloqui telefonici con i colloqui di persona. E nella disposizione relativa ai colloqui di persona era già prevista la possibilità per il direttore di autorizzare colloqui senza alcun limite”. Al nostro invito a dare con una circolare disposizioni chiare invitando i direttori ad estendere al massimo le telefonate, Giovanni Russo ha risposto: “Lo faremo senz'altro anche nel corso di una riunione nei prossimi giorni che organizzeremo verso i direttori. Ricordo che già nell'imminenza del periodo estivo abbiamo fatto una nota per i direttori invitandoli ad assicurare un'attenzione particolare ai colloqui di persona, quindi invitando a garantire soprattutto in questo periodo una maggiore ampiezza nella possibilità di rinvigorire questi rapporti relazionali. E già i direttori automaticamente attraverso questa parificazione normativa potrebbero interpretare questa nota anche per le telefonate, ma sarà nostra cura di precisare, specificamente in dettaglio, l'impegno in questa occasione ulteriore per ampliare il numero delle telefonate”. Le circolari sulle Best Practices Una trattazione particolare meritano, secondo la CNVG, le circolari sulle Best Practices, che per le associazioni dovrebbero significare che le buone pratiche realizzate in un carcere vengano estese se possibile agli altri istituti, quindi le situazioni più avanzate farebbero da traino a quelle dove invece è tutto difficile, tutto è rallentato in modo esasperato dalla burocrazia. Ma queste circolari vengono spesso interpretate negli Istituti come una limitazione e un controllo sui contenuti delle attività proposte dal Volontariato. Giovanni Russo ha chiarito in modo inequivocabile la questione delle Best Practices, che “costituiscono un'attività ricognitiva. È stata molto confusa questa mia circolare perché alcuni istituti, in qualche caso anche quello di Padova, hanno inteso come se l'avvio di un progetto, di un'iniziativa abbisognasse di un'autorizzazione o di un nullaosta del DAP, cosa che non è. E quindi la best practice è quando io ho insistito sul fatto che voglio esserne messo a conoscenza fin da quando nasce l'idea, è una comunicazione che il direttore del carcere fa al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Cosa diversa invece è la stipula delle convenzioni dalle quali possono derivare oneri anche solo organizzativi o anche obblighi di fare non economici per l'amministrazione penitenziaria, in quel caso il DAP ha stabilito che debba dare un nullaosta. Per il resto nelle Best Practices viene suggerito ad altri istituti, diversi da quelli dove sono realizzate, di immaginare attività dello stesso tipo quindi questo già avviene normalmente”. Il Volontariato e il rapporto con i direttori Uno dei temi proposti per il confronto proprio dal DAP è, secondo quanto spiegato da Giovanni Russo, un approfondimento su “come devono agire i direttori, in questa nostra visione di vicinanza maggiore alla popolazione detenuta oltre che agli operatori, non solo i nostri ma anche quelli volontari. Però proprio per questo vogliamo sapere le eventuali difficoltà che incontrano il Volontariato e il Terzo Settore, ci può essere utile in senso critico ad alimentare una nostra riflessione… Anche perché io, avendo registrato quest’anno un aumento delle iniziative, delle attività e delle presenze della società esterna, immaginavo che ci fossero porte aperte, spalancate ai volontari e al Terzo Settore”. Per la CNVG il rapporto con i direttori significa anche che il Volontariato possa partecipare alla elaborazione del Progetto di istituto e che il suo ruolo sia riconosciuto e rafforzato, non subito con fastidio. Il Capo del DAP ha chiesto che gli siano segnalati i casi riguardanti carceri in cui c’è l’impossibilità di mettere a disposizione personale di Polizia penitenziaria in ore pomeridiane o in determinate giornate, in modo che vengano suggerite caldamente ai direttori forme alternative di organizzazione, anche “invitando i direttori stessi a prendersi qualche rischio in più. Perché un periodo di attività lavorativa laboratoriale, ma anche solo di scambio di idee, di dialogo in più con soggetti che abbiano una consolidata esperienza e quindi presentino una affidabilità indiscussa, per me vale di più del rischio del passaggio di una pennetta, che comunque è un fenomeno che ci troviamo a contrastare, quindi non voglio certo incentivare traffici illeciti negli istituti ma metto in conto che ci sia questo rischio, altrimenti non dovremmo far entrare estranei, non dovremmo far entrare i medici gli infermieri i ministri di culto… Quindi sarebbe proprio l'antitesi dell'apertura alla società”. Quanto invece alle attività giornalistiche, nonostante il Capo del DAP abbia sostenuto di aver dato in un anno e mezzo solo 2 o 3 pareri contrari su un migliaio di domande di ingresso, il Volontariato ha segnalato che il rallentamento di tutto quello che riguarda l'ingresso della società civile, che siano giornalisti o che siano ospiti, che sia la presentazione di un libro o altro è diventato la norma. Tra gli altri suggerimenti, c’è quello che, nel rapporto con i direttori, è bene che gli stessi direttori vengano richiamati alla trasparenza degli atti che regolamentano la vita interna del carcere, questo è un fatto semplice, importante, che non costa nulla. Gli orari e gli spazi che non permettono il coinvolgimento vero delle persone detenute Il Volontariato chiede che le persone nella loro vita detentiva abbiano più possibilità di stare in spazi aperti. Sappiamo che le carceri hanno pochissimi spazi per le attività e quindi solo se si ampliassero gli orari delle attività le associazioni potrebbero recuperare anche un volontariato qualificato e potrebbero fare più attività senza ostacolarsi a vicenda, cosa che succede regolarmente ed è spiacevole, perché poi un direttore è costretto a dire che l'università è più importante di un’altra attività, che questa attività a sua volta è più importante di un'altra, ma la realtà è che ci sono pochi spazi, orari ridotti e si possono coinvolgere nelle attività davvero poche persone. Secondo il Capo del DAP, non è tanto un problema di spazi, quanto il problema dell'ampliamento dell'orario e la difficoltà di reperire personale a tal fine: “Noi abbiamo un personale che per un terzo in media è assente per ragioni sanitarie, di malattia o di ferie e su una pianta organica che è scoperta di circa 6000 7000 unità rispetto ad una platea di detenuti che richiederebbe 18.000 unità di Polizia penitenziaria in più. Quindi non è una cattiva volontà dell'Amministrazione non far entrare, anche se capisco che è frustrante raccogliere le disponibilità e la generosità di chi dedicherebbe alle persone detenute la cosa più preziosa, il tempo personale, però su questo io non me la sento di prendere impegni fino a che non vedrò rimpolpato l'organico. Però almeno abbiamo riempito per la prima volta nella storia moderna dell'esecuzione della pena la pianta organica degli educatori, abbiamo 1089/10 99 funzionari giuridico-pedagogici”. Una formazione congiunta, che metta a confronto sguardi diversi Per quel che riguarda la formazione, il Volontariato ha segnalato che un’altra buona prassi, quella per cui da anni la scuola di formazione della Polizia penitenziaria di Parma invitava il Volontariato a svolgere delle ore gratuite di formazione ai giovani assistenti pronti all'ingresso in carcere, cosa che creava un clima di scambio, aperto e leale con questi giovani poliziotti, e permetteva di accogliere anche da parte loro obiezioni e diffidenze e mettersi a confronto in una maniera adulta, quest'anno, con la riduzione degli orari di formazione, non è stata possibile, ma vogliamo ribadire che il Volontariato ha bisogno di rapporti onesti e franchi con la Polizia penitenziaria, che per noi sono basilari, per cui è fondamentale una formazione congiunta, che mette insieme sguardi diversi, perché la formazione, anche fosse perfetta nei contenuti, della Polizia penitenziaria o di altri operatori penitenziari, fatta separatamente non serve a niente. Giovanni Russo a sua volta ha sottolineato le difficoltà legate alla formazione del personale: “Purtroppo abbiamo dovuto ridurre, e spero che si inverta poi nel prosieguo questa tendenza, anche altri tipi di lezioni, di insegnamenti, di discipline, ovviamente però ignoravo che siano stati esclusi questi incontri col Volontariato, era importante mantenerli almeno a livello simbolico, anche poche ore, proprio per legittimare una presenza, riconosciuta, validata e promossa dalle istituzioni e dall'amministrazione penitenziaria, del Volontariato in quella sede. Su questo vediamo come rafforzare ancora questa buona pratica, per esempio a Bollate è stato positivo il lavoro fatto sulla mediazione dei conflitti non solo con le detenute, ma anche con la Polizia penitenziaria. Ci sono stati dei risultati eccellenti riconosciuti anche dal direttore e dagli educatori, quindi ci sono delle possibilità di collaborazioni notevoli”. La richiesta avanzata dal Capo del DAP alla CNVG è stata di favorire una visione, una conoscenza, una rappresentazione strutturata delle buone prassi messe in atto in diversi istituti dal Volontariato, delle schede su queste buone prassi da condividere proprio per portarle a modello di formazione. Utilizzare gli strumenti che fornisce la giustizia riparativa Un tema che sta a cuore al Volontariato è quello della giustizia riparativa applicata però anche alla vita in carcere, è un tema particolarmente importante rispetto ai percorsi di rieducazione delle persone detenute. Il progetto A scuola di libertà per esempio è molto centrato su questi temi, a tutte le attività che la CNVG organizza online con le scuole italiane partecipano molto spesso autori di reato e vittime ed è un percorso molto importante, per cui si chiede che il DAP supporti questo progetto. Il Capo del DAP ha affermato di sostenere con forza il progetto, ma ha anche chiesto cosa può fare il DAP per promuoverlo. La nostra risposta è stata di poter utilizzare di più uno strumento come la videoconferenza, coinvolgendo anche in questi incontri le scuole in carcere, che potrebbero avere un ruolo, cioè non essere soltanto rinchiuse negli istituti, ma aprirsi sperimentando un'apertura maggiore anche in istituti che hanno difficoltà a proiettarsi verso l'esterno. Lo strumento della videoconferenza dovrebbe diventare di uso comune in queste situazioni perché permette tante esperienze importanti. L’idea è stata accolta con grande interesse dal Capo del DAP: “Per me è un'idea buona e innovativa, utilizzare la videoconferenza per consentire agli studenti in carcere di confrontarsi o di partecipare a distanza a una conferenza, che potrebbe essere anche un evento della società come la presentazione di un libro, un film quello che sia, dove venga ammessa anche la partecipazione da remoto di una comunità che “incidentalmente” è una comunità detentiva”. Il problema, secondo il Volontariato, è superare le difficoltà e le diffidenze a usare strumenti tecnologici, anche i più semplici come il registratore e le videoconferenze, questa sì che dovrebbe diventare una buona pratica in tutti gli Istituti. Usando questi strumenti, un altro ambito di intervento significativo del Volontariato è quello della sensibilizzazione e dell’informazione, temi cruciali oggi, perché serve davvero un cambiamento culturale forte nella società per vincere l’illusione che pene più dure e tanta galera creino più sicurezza. La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia propone in tal senso un rafforzamento dell’attività di sensibilizzazione del mondo della scuola con il progetto A scuola di libertà, e promuove a ottobre nel carcere di Opera il Terzo Festival della Comunicazione sulle pene e sul carcere. Una riflessione finale sul tema al centro delle attività del Volontariato, gli affetti Si è detto di quanto è importante aumentare le telefonate, i colloqui coi famigliari, i colloqui anche con terze persone: bisogna stimolare i direttori ad aprire al massimo queste opportunità, perché per esempio i colloqui con terze persone sono fondamentali se un detenuto non ha relazioni affettive o ha la famiglia lontana, ma può avere un amico, un cugino, una persona vicina, che dovrebbero essere autorizzati quasi automaticamente, come in altri Paesi. Sempre riguardo agli affetti, dopo la sentenza della Corte Costituzionale il Volontariato ha chiesto più volte di essere coinvolto, perché da anni porta avanti la battaglia per i colloqui intimi. La sentenza della Corte Costituzionale parla di una desertificazione affettiva in carcere, per questo è importante avere notizie del tavolo istituzionale, istituito per attuare la sentenza 10/2024. Questa la risposta di Giovanni Russo alla richiesta di notizie da parte della CNVG: “I lavori del tavolo sono appannaggio di chi partecipa, ma ho già assicurato che noi prima di procedere a qualunque definizione organizzativa contiamo di raccogliere l’esperienza che avete maturato nel tempo, contiamo di interloquire con il Volontariato, con le associazioni. Ne ho parlato personalmente con il vice capo del Dipartimento che mi ha assicurato che è già stato programmato un contatto con voi. Non so in quale forma, se sia un'audizione, vi invito a venire in delegazione in modo che vi possiate confrontare de visu anche con gli altri partecipanti e fare in modo che sia una interlocuzione vera, non monodirezionale, su questo però non posso anticipare lo stato delle riflessioni che sono in corso”. L’incontro si è chiuso con l’impegno di fare un'agenda dei prossimi incontri più regolare, con una cadenza bimestrale, con la facoltà per la CNVG in prossimità della scadenza del bimestre di sollecitare l’incontro. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Decreto Carceri blindato alla Camera. Ma senza soluzioni al sovraffollamento di Giulia Merlo Il Domani, 6 agosto 2024 Il decreto legge arriva alla Camera per il via libera definitivo in settimana. FI ha dovuto capitolare davanti al no di Lega e FdI alle modifiche. Si introduce invece un nuovo reato: il peculato per distrazione. L’imperativo della maggioranza è convertire il decreto legge sulle carceri, senza modifiche e con la fiducia, entro la fine della settimana e dunque in tempo per la chiusura estiva del parlamento ed entro il termine del 2 settembre. Per questo, alla Camera è in corso una marcia forzata: oggi il testo arriverà in aula, ieri invece la commissione Giustizia ha dato il via libera al testo approvato in Senato e conferito mandato al relatore, il presidente Ciro Maschio di Fratelli d’Italia, bocciando tutti gli emendamenti presentati dalle opposizioni. Eppure, come hanno denunciato tutti gli operatori del settore - dagli avvocati penalisti alla magistratura di sorveglianza, fino ai garanti territoriali dei detenuti - il decreto legge è un guscio vuoto davanti all’emergenza carceri in corso ormai da mesi. Dall’inizio dell’anno si è toccato il numero record di 62 suicidi di detenuti, l’ultimo dei quali si è impiccato nel carcere di Cremona, e il sovraffollamento è fuori controllo (61.480 detenuti, a fronte di una capienza effettiva delle carceri di poco più di 51mila posti letto), con rivolte all’ordine del giorno, l’ultima delle quali avvenuta nel carcere minorile di Torino. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, lo aveva descritto come un “intervento vasto e strutturale”, in realtà l’unica norma sostanziale contenuta nel decreto riguarda l’assunzione di mille agenti entro il 2027, mentre l’articolo 5 prevede un teorico snellimento delle procedure per ottenere il beneficio della liberazione anticipata, ma senza cambiare l’ammontare degli attuali 45 giorni ogni sei mesi. Vengono poi aumentate le telefonate mensili per i reclusi e si istituisce un registro di strutture per l’accoglienza di detenuti che possono accedere alle misure alternative. I restanti articoli, invece, non riguardano le carceri: viene introdotto il nuovo reato di peculato per distrazione (necessario per tentare di scongiurare la procedura di infrazione Ue dopo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio) e la proroga dell’entrata in vigore del nuovo tribunale della famiglia introdotto dalla riforma Cartabia. Proprio l’articolo 5 è stato oggetto di scontro anche dentro la maggioranza durante la fase di conversione al Senato. Forza Italia, infatti, si era inizialmente detta d’accordo con la proposta del senatore di Italia Viva Roberto Giachetti, che proponeva di portare a 60 i giorni di liberazione anticipata ogni sei mesi, e aveva presentato un pacchetto di nove emendamenti tra i quali uno che prevedeva di portare a 4 anni il limite di pena per ottenere gli arresti domiciliari. La presa di distanza di FI dalla linea di Lega e FdI ha però provocato più di uno scossone, tanto che prima del sì al Senato è servito un vertice di maggioranza per evitare lo scontro. FI ha dovuto cedere e gli emendamenti sono stati falcidiati: sette emendamenti eliminati e i due rimasti sono stati riformulati, di fatto introducendo solo la possibilità di ottenere la detenzione domiciliare anticipata solo per gli ultrasettantenni che abbiano una pena residua da scontare tra i due e i quattro anni, eccetto quelli condannati per reati gravi, o per i detenuti che si trovano in gravissime condizioni di salute. Poco più di qualche centinaio di detenuti, quindi. Anche sulla proposta Giachetti, infine, è arrivato il passo indietro e il testo rimane per ora fermo in commissione. Unico piccolo segnale di attenzione è l’iniziativa di FI con il Partito radicale “Estate in carcere”, “per monitorare la situazione e individuare i punti di criticità” visitando le carceri per incontrare i detenuti e gli operatori, ha detto il deputato Pietro Pittalis, membro della commissione Giustizia. Il treno per intervenire subito in modo concreto, però, è stato perso e anche ieri il via libera in commissione è arrivato nel silenzio di dichiarazioni da parte di esponenti di FdI e Lega. Il risultato, infatti, è un testo blindato che non interviene nè sull’emergenza suicidi nè su quella del sovraffollamento e per questo le opposizioni, in segno di protesta, non hanno partecipato ai lavori di commissione e hanno sollevato - respinta- anche la questione pregiudiziale di costituzionalità per mancanza dei requisiti di necessità e urgenza del decreto legge. “Tardivo e inutile”, è stato l’attacco del Pd con il senatore Alfredo Bazoli. Paradossalmente, il dl carceri si caratterizza quindi soprattutto perché introduce un nuovo reato. Ovvero quel peculato per distrazione che va a colmare il vuoto di tutela lasciato dall’abrogazione (ancora non promulgata dal Colle) dell’abuso d’ufficio, con la pratica - discutibile perché rischia di produrre discrasie di sistema - di usare la decretazione di urgenza per creare un nuovo reato. Per i detenuti, invece, si prospetta un agosto all’insegna dell’emergenza e la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente, se continuerà ad essere ignorata. Serracchiani: “Nordio nega il dramma delle prigioni” di Angela Stella L’Unità, 6 agosto 2024 “Il Decreto Carceri era l’unico davvero necessario, ma ha mancato completamente l’obiettivo. Il dietrofront di Forza Italia sulla legge Giachetti? La convenienza ha prevalso sulla coscienza”. Dl carceri, Ddl sicurezza, caso Natoli, affaire Toti: ne parliamo con Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Partito democratico. Ha detto il prof. Giostra: ‘Il dl cd carceri ha lo sgradevole sapore di una presa in giro: usa la decretazione d’urgenza per non intervenire con urgenza’. È d’accordo? Assolutamente sì. Questo Governo ha battuto tutti i record sull’uso della decretazione d’urgenza. E dei tanti, troppi, decreti legge fatti, questo era forse l’unico la cui necessità e urgenza era giustificata dalla drammatica emergenza delle carceri italiane. E ciò nonostante, il decreto non è assolutamente all’altezza dell’obiettivo annunciato dal Ministro: nessuna delle misure previste infatti interviene nell’immediato e migliora la situazione. E la prima a rendersene conto è stata la maggioranza che ha prodotto una quantità enorme di emendamenti che ne hanno aumentato la portata, senza aumentarne l’efficacia. Siamo arrivati a 62 suicidi. Eppure il Ministro Nordio continua a fare lunghi comunicati su investimenti e risorse senza mai nominare la parola suicidi. Che ne pensa? 62 suicidi fra i detenuti e 6 fra gli agenti di polizia penitenziaria. Le condizioni di vita e di lavoro nelle carceri sono intollerabili e indecorose, ma questo non sembra un problema per il Ministro che continua a dare numeri e a non fare alcuna azione concreta. Anzi, ascoltando il Ministro, si ha la sensazione che non colga la drammaticità della situazione e che addirittura la neghi. Del resto ritiene anche che non vi sia alcuna diretta correlazione fra suicidi e sovraffollamento. Secondo Marco Travaglio non esiste il sovraffollamento carcerario. Puro populismo mediatico? Il sovraffollamento esiste e basta entrare in un carcere per rendersene conto. Dall’inizio della legislatura i parlamentari del PD si recano costantemente in carcere per effettuare visite ispettive nell’ambito dell’iniziativa che abbiamo chiamato “Bisogna aver visto”. E noi abbiamo visto: in tutte le celle da 3 detenuti ne vengono accolti fino a 6 o 8, assenza di spazi e progetti trattamentali, materassi messi a terra senza reti, stanze senza acqua calda, strutture fatiscenti e inadeguate. Preferiamo ascoltare la voce del Presidente della Repubblica che ci richiama ad “interventi urgenti contro i suicidi in cella”. Forza Italia aveva mostrato aperture verso il ddl Giachetti e poi fa marcia indietro. La convenienza politica ha prevalso sulla convinzione? Dispiace che i colleghi di FI abbiano fatto non uno ma diversi passi indietro. Evidentemente la convenienza politica ha prevalso sulla coscienza. L’impressione è che il garantismo valga solo per i colletti bianchi. Cosa fare qui ed ora per le carceri? Noi abbiamo presentato diversi emendamenti. Tutti respinti. Nell’immediato riteniamo sia necessario approvare la liberazione anticipata come proposta ad es. dall’on. Giachetti, e cioè una riduzione di pena ai detenuti che se ne sono dimostrati o se ne dimostreranno meritevoli; ripristinare le misure già previste durante il Covid per stemperare la tensione come i permessi, le licenze premio, l’incremento di telefonate e videochiamate; dare attuazione alla riforma Cartabia in materia di pene sostitutive; far espiare i fine pena brevi fuori dal carcere; ragionare seriamente sui luoghi in cui far scontare la detenzione domiciliare. Il governo abroga abuso d’ufficio e fa rientrare il peculato in un decreto con altra materia. Che ne pensa? Abbiamo detto da subito che abrogare l’abuso d’ufficio era un errore politico e giuridico. Non solo non si dà una risposta alla paura della firma dei sindaci, ma si violano normative internazionali già recepite dall’Italia: con il rischio per i primi cittadini di essere chiamati ora a rispondere per ipotesi di reato più gravi e per il Paese di essere esposti a procedure di infrazione. Avevamo ragione noi. Con il dl carceri il governo è dovuto correre ai ripari e ha creato la nuova fattispecie del peculato per distrazione. Una toppa raffazzonata che dimostra soltanto l’incapacità di un ministro in balia di indirizzi politici contrastanti in una materia complessa come la giustizia. In Senato come alla Camera sono stati bocciati tutti gli emendamenti delle opposizioni al dl carceri e posta la fiducia. Alla Camera sul ddl sicurezza è stata repressa la voce sempre dell’opposizione. Il Parlamento è sempre più svilito? Mi pare evidente purtroppo. Non ci diamo per vinti però. Continuiamo a difendere le prerogative del Parlamento: tutti i parlamentari, inclusi quelli di maggioranza, devono poter lavorare ed esaminare i provvedimenti correttamente. Impedirlo è un atto di violenza su cui ci opporremo sempre con forza come abbiamo fatto, da ultimo, con il pacchetto sicurezza, che senza alcuna scadenza si pretendeva di portare in aula in fretta e furia e che invece siamo riusciti a rinviare a settembre. C’è stata una polemica tra il presidente dell’associazione familiari vittime della strage di Bologna che ha contestato anche la separazione delle carriere e la presidente Meloni che ha definito quelle parole gravi. Lei cosa ne pensa? Meloni la smetta di fare la vittima e di stare sempre in trincea. Chi ricopre alte posizioni istituzionali ha il dovere di evitare che montino polemiche e di alimentare drammatizzazioni personali. Questa destra ha il problema di non riuscire a scindere le sue battaglie partitiche dal ruolo di garanzia che dovrebbero assicurare a tutti stando al governo, a prescindere dalle posizioni che esprime chi non la pensa come loro. Mi pare poi grave che si mettano in discussione fatti accertati con sentenze passate in giudicato. È calato il silenzio sulla consigliera del Csm Rosanna Natoli. Mattarella ne vorrebbe le dimissioni. Ma la laica al momento non cede. Per il PD dovrebbe dimettersi? I fatti che le sono contestati sono molto gravi. Stupisce che Fdi, che l’ha indicata, non senta il bisogno di chiederle un passo indietro, ma abbiamo perso il conto nei casi di favoritismo per gli amici nella destra di governo. Molti hanno sottolineato come la manifestazione del Pd a Genova strida con la sua cultura garantista. Come replica? Il garantismo non è in discussione e non lo usiamo “a semaforo” come fa la destra. La richiesta di dimissioni è stata a garanzia della regione Liguria paralizzata nella sua attività amministrativa e anche dello stesso presidente Toti che come tutti i cittadini è innocente fino a condanna definitiva. Potrà dimostrare nel luogo istituzionalmente deputato, ossia il dibattimento penale, la sua innocenza, esercitando tutte le prerogative della difesa, senza sovrapposizioni tra cariche politico-amministrative e iter giudiziario. Il Garante nazionale lancia l’allarme: carceri al collasso di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 agosto 2024 Nel rapporto si parla di 58 suicidi da inizio anno, altre fonti ne contano 62: l’ultimo sabato a Cremona. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Felice Maurizio D’Ettore, ha recentemente lanciato un grido d’allarme sulla situazione delle carceri italiane. Il quadro che emerge dai dati aggiornati a fine luglio 2024 è profondamente preoccupante. Il sovraffollamento, che ha raggiunto livelli record in molte regioni, si rivela un fattore determinante nell’aumento degli eventi critici, in particolare dei suicidi. Il dato più sconcertante è sicuramente quello relativo al sovraffollamento. Con un indice nazionale che supera il 130%, molte carceri si trovano a operare in condizioni di estrema criticità. Milano San Vittore, con un picco del 231,15%, rappresenta un caso emblematico. Questo sovraffollamento cronico ha gravi ripercussioni sulla qualità della vita dei detenuti, limitando la possibilità di accedere a programmi di rieducazione e di trattamento. A livello regionale, le differenze sono notevoli. Alcune regioni, come Puglia, Basilicata, Lombardia, Veneto e Lazio, mostrano indici di sovraffollamento particolarmente preoccupanti. D’altra parte, solo poche regioni si collocano al di sotto della soglia regolamentare, tra cui Sardegna, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta. Notevoli le differenze a livello locale: Puglia (165,37%), Basilicata (150,99%), Lombardia (151,50%), Veneto (145,54%) e Lazio (144,05%) mostrano, secondo il Garante nazionale, un “preoccupante indice di sovraffollamento”. Questa situazione critica, come sottolinea il Garante, deriva principalmente dalla notevole discrepanza tra la capienza regolamentare e i posti effettivamente disponibili. Di fronte a questo scenario, il Garante evidenzia la necessità di interventi legislativi mirati in materia di edilizia penitenziaria. Tuttavia, precisa che non è possibile considerare una soluzione semplicistica come la redistribuzione uniforme dei detenuti su tutto il territorio nazionale. Questa strategia si scontra con l’esigenza fondamentale di mantenere i detenuti vicini ai propri nuclei familiari, un aspetto cruciale per il loro benessere e il processo di riabilitazione. Il Garante fa notare che, sebbene alcune regioni come la Sardegna, il Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta presentino indici di affollamento inferiori, non è praticabile un trasferimento automatico dei detenuti in queste aree. Tale approccio, infatti, comprometterebbe il legame essenziale tra il detenuto e la propria famiglia, un elemento chiave nel percorso di reinserimento sociale. Un altro aspetto rilevante riguarda la presenza di detenuti stranieri, che rappresentano una quota significativa e della popolazione carceraria. Attualmente, si contano 19.151 detenuti stranieri, pari al 31,33% del totale. Di questi, 2.787 provengono da paesi dell’Unione Europea, mentre 16.364 sono di origine extracomunitaria. Questa elevata percentuale di detenuti stranieri, secondo il Garante, offre un’opportunità per alleggerire la pressione sul sistema carcerario. La maggior parte di questi detenuti, infatti, è stata condannata per reati contro il patrimonio. Considerando questa caratteristica, il Garante suggerisce la possibilità di adottare misure alternative alla detenzione in carcere. In particolare, si propone un intervento legislativo mirato a individuare domicili idonei per concedere la detenzione domiciliare a questi detenuti. Attualmente, questa opzione esiste in teoria ma è difficilmente applicabile nella pratica. Il principale ostacolo è la mancanza di alloggi adeguati e sicuri che possano fungere da alternative al carcere. Implementare questa soluzione potrebbe avere un effetto significativo nel ridurre il sovraffollamento carcerario. Tuttavia, richiede un approccio legislativo innovativo e la creazione di infrastrutture adeguate per garantire che la detenzione domiciliare sia una misura efficace e sicura. Questo approccio non solo allevierebbe la pressione sulle strutture carcerarie, ma potrebbe anche favorire un percorso di reinserimento sociale più efficace per i detenuti stranieri. Uno degli aspetti più drammatici della situazione carceraria italiana è l’aumento dei suicidi tra i detenuti. Dall’inizio dell’anno in corso, il numero di persone che hanno deciso di togliersi la vita all’interno delle strutture penitenziarie ha raggiunto livelli preoccupanti, superando significativamente le cifre registrate negli anni precedenti. Questo fenomeno drammatico non fa distinzioni di genere, nazionalità o età, colpendo trasversalmente la popolazione carceraria. Le statistiche rivelano un quadro desolante: dei 58 suicidi registrati finora (sebbene altre fonti suggeriscano un numero ancora più elevato, ovvero 62 suicidi con l’ultimo avvenuto sabato in una cella del carcere di Cremona), la stragrande maggioranza, 56, riguarda uomini, mentre solo 2 sono i casi che coinvolgono donne. La nazionalità delle vittime si divide quasi equamente tra italiani (32) e stranieri (26), con questi ultimi provenienti da ben 15 Paesi diversi, evidenziando la natura multiculturale della popolazione carceraria italiana. L’analisi delle fasce d’età coinvolte in questi tragici eventi mostra una concentrazione significativa tra i giovani adulti e gli adulti di mezza età. In particolare, 27 persone appartenevano alla fascia 26- 39 anni, mentre 14 avevano un’età compresa tra i 40 e i 55 anni. Non mancano, tuttavia, casi che coinvolgono fasce d’età più giovani (7 persone tra i 18 e i 25 anni) e più anziane (9 persone tra i 56 e i 69 anni, e un caso di un ultrasettantenne). L’età media di coloro che hanno scelto di porre fine alla propria vita in carcere si attesta intorno ai 40 anni, un dato che fa riflettere sulla perdita di vite nel pieno della maturità. La posizione giuridica dei detenuti che hanno compiuto questo gesto estremo offre ulteriori spunti di riflessione. Il 39,66% (23 persone) era stato condannato in via definitiva, mentre un altro 39,66% era in attesa di primo giudizio. Sette detenuti si trovavano in una posizione ‘ mista con definitivo’, avendo almeno una condanna definitiva e altri procedimenti penali in corso. I restanti casi riguardavano ricorrenti, appellanti e un internato provvisorio. Per quanto concerne i reati contestati o per i quali erano stati condannati, emerge una prevalenza di crimini contro la persona (31 casi, pari al 53,45%). Tra questi, spiccano 13 casi di omicidio (tentato o consumato), 8 di maltrattamenti in famiglia e 4 di violenza sessuale. Seguono i reati contro il patrimonio (18 casi) e quelli legati agli stupefacenti. Un aspetto particolarmente allarmante riguarda il momento in cui avvengono questi suicidi. Più della metà (30 persone, pari al 51,8%) ha compiuto il gesto estremo nei primi sei mesi di detenzione. Di questi, 7 lo hanno fatto entro i primi 15 giorni, e addirittura 3 nei primi 5 giorni dall’ingresso in carcere. Questi dati evidenziano una grave difficoltà di adattamento al contesto carcerario e un profondo disagio psicologico che si manifesta fin dai primissimi giorni di reclusione. Il Garante nazionale D’Ettore ha sottolineato come l’aumento del sovraffollamento nelle carceri possa essere correlato a un incremento degli eventi critici all’interno delle strutture. Negli ultimi anni, infatti, si è registrato un aumento significativo di episodi quali aggressioni, atti coercitivi, autolesionismo e manifestazioni di protesta, che contribuiscono a creare un ambiente sempre più teso e difficile da gestire. Questa situazione drammatica pone l’accento sulla necessità urgente di interventi strutturali nel sistema carcerario italiano. È evidente che le attuali condizioni di detenzione, caratterizzate da sovraffollamento e carenze nei servizi di supporto psicologico, non sono in grado di garantire il benessere e la sicurezza dei detenuti, soprattutto nei momenti più critici come l’ingresso in carcere. Il decreto carceri licenziato dal Senato, secondo l’opposizione, i garanti territoriali rappresentati da Samuele Ciambriello e le associazioni come Antigone, non aiuta. Un appello per superare la lunga calda estate delle carceri italiane di Stefano Anastasia huffingtonpost.it, 6 agosto 2024 Bisogna restare vicini alla sofferenza delle detenute e dei detenuti e fare ciò che è possibile, con le armi spuntate che abbiamo, in attesa che i nodi tornino al pettine. Non sono valsi a nulla (per ora) le manifestazioni della sofferenza dei detenuti, la fatica degli operatori penitenziari, le denunce dei garanti, il richiamo del presidente della Repubblica: il decreto-legge firmato dal ministro Nordio è rimasto, più o meno, così com’era, prima che una pioggia di critiche gli si riversasse sopra. La Camera timbrerà ciò che è stato imposto al Senato e ogni altra discussione sarà rinviata a settembre. Ma di fronte a questo mesto esito dell’unica possibilità di fare qualcosa in questa estate, costellata di suicidi e proteste in carcere, non ci si può abbandonare alla frustrazione o alla disperazione. Bisogna restare vicini alla sofferenza delle detenute e dei detenuti e fare ciò che è possibile, con le armi spuntate che abbiamo, in attesa che i nodi tornino al pettine. Il primo appello è rivolto alle persone detenute: fermatela voi, se potete, questa strage diluita nel tempo. Non una delle vostre vite vale l’indifferenza che in questi giorni è stata mostrata dal Governo nei confronti vostri, del personale e dell’intero sistema penitenziario. Continuate, se volete, a manifestare la vostra sofferenza, nei mille pacifici modi che l’interlocuzione con le autorità e l’opinione pubblica consente, ma senza cadere nel tranello di azioni violente contro cose o persone, utili solo a caricarvi di sanzioni e ulteriori pene, e a trasformare l’indifferenza del Governo in un “ve lo avevamo detto noi: non sono altro che criminali”. Il secondo appello è all’Amministrazione penitenziaria, ai suoi dirigenti, ai suoi operatori: nella indifferenza dell’autorità politica, a voi tocca gestire la sofferenza dei detenuti, con intelligenza e umanità, evitando - per esasperazione - di esasperarla, aiutandola ad esprimersi, garantendo tutto ciò che l’ordinamento penitenziario già garantisce: dalle comunicazione telefoniche, ai video-colloqui, dall’apertura delle celle almeno per otto ore al giorno a quella delle porte blindate di notte, dai ventilatori ai frigoriferi, dagli incontri con i familiari nelle aree verdi a quelli riservati con i partner. Un bel segnale sarebbe se il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria volesse sospendere, almeno per l’estate, quella parte di una recente circolare che costringe in cella chi non abbia attività da fare durante il giorno (e quali attività ci sono in carcere d’estate?!?). Il terzo appello è alla magistratura di sorveglianza, perché assicuri tutto quello che può, anche nei turni feriali, recuperando le istanze pendenti di liberazione anticipata e di altri benefici che aspettano di essere decise da mesi, se non da anni. Infine, l’ultimo appello è ai parlamentari, ad andare in carcere in queste settimane, fin dentro le celle sovraffollate, a vedere e a sentire le voci dei detenuti e degli operatori penitenziari, in modo da farsi la propria opinione sullo scandalo delle carceri italiane ed essere pronti a discuterne, liberamente, alla ripresa dei lavori parlamentari, quando i nodi torneranno al pettine e si dovrà decidere se continuare ad affollare questo ospizio dei poveri, senza diritti e dignità, che sono diventate le nostre carceri o dare attuazione all’articolo 27 della Costituzione, riservandolo esclusivamente agli autori di gravi reati contro la persona o in associazione criminale, e investendo su servizi abitativi, educativi, lavorativi, sanitari esterni, capaci di farsi carico della sofferenza sociale che ci siamo tolti dalla vista chiudendola in carcere. Le carceri della vergogna dove vengono cancellati diritti e dignità umana di Enzo Brogi* Il Tirreno, 6 agosto 2024 Ne ho scritto tanto e continuerò a farlo, ma sempre più con rabbia. In questi giorni torridi poi, nelle nostre galere, tutto è ancor più insostenibile. Per non parlare degli edifici costruiti negli anni del ministro Nicolazzi e delle carceri d’oro. Ne cantarono le odi anche gli irriverenti Squallor. Enormi casermoni in cemento armato spesso scadente, nelle piane più assolate, per la compiacenza dei costruttori farabutti, di politici corrotti e dell’architettura gongolante. Passato qualche anno tutto cadeva a pezzi. L’unica sicurezza le anguste stanzette di 15 metri quadrati, con dentro quattro, anche cinque detenuti. “È il sovraffollamento bellezza, il sovraffollamento!”. Celle come altiforni dove adesso fuggono, loro che possono, anche le cimici e i topi. In molti casi, la scarsità di acqua complica ulteriormente la situazione, rendendo difficile l’accesso a docce e acqua potabile. Per non parlare dell’acqua calda che “non è un diritto in cella”, ha sentenziato un magistrato fiorentino. È recente il rapporto di Antigone, “Nodo alla gola”, sulle condizioni di detenzione nelle carceri del nostro Paese. Una vergogna che ci fa balzare agli ultimi posti delle graduatorie di vivibilità. Le analisi danno delle nostre prigioni un quadro drammatico. Nel luogo dove la nostra Costituzione dice che, con la pena, si dovrebbero rieducare le persone alla legalità, tutto si trasforma nel luogo ove ogni diritto e condizione umana vengono calpestati. Il sistema carcerario dovrebbe avere una funzione rieducativa. Tuttavia, in molte carceri italiane, i programmi di formazione professionale e istruzione sono limitati o inesistenti. Questo porta a un ciclo di recidiva molto alto. I detenuti, una volta scontata la pena, faticano a trovare una collocazione lavorativa e a reintegrarsi nella società, spesso ricadendo in comportamenti criminali. Non è migliore neppure la condizione di chi nel carcere ci lavora e deve garantire sicurezza. Scarso il personale di polizia, quello degli educatori, figure professionali essenziali per le loro funzioni di rispondere ai molti bisogni dei detenuti come l’accesso a percorsi formativi e di avviamento al lavoro o ancor più ai sistemi di cura e di diagnostica. Pure le famiglie appartengono all’altro grande problema della detenzione, spesso lontane per residenza e raramente avvicinabili anche con il telefono, figuriamoci con le videochiamate. I dannati della terra, dove i sussulti sono sempre più i suicidi. Oltre sessanta dall’inizio dell’anno. Gli ultimi tre in Toscana, che ha abolito per prima pena di morte e la tortura, il paradosso. La mancanza di supporto psicologico, la disperazione derivante dalle condizioni di vita e di prospettive sono tra le principali cause di questo fenomeno. Insufficienti gli interventi preventivi e i programmi di sostegno psicologico. Il Papa, il Presidente Mattarella alzano la voce desolati e inascoltati dalle istituzioni. Vergogna. *Attivista per i diritti e scrittore Quando leggerete, purtroppo, sarà stato superato il numero di 62 suicidi in carcere di Emilio Robotti* goodmorninggenova.org, 6 agosto 2024 “Ristretti Orizzonti” ha raccolto una storia di vita di un detenuto, che spiega come avrebbe potuto togliersi la vita, e come invece è stato salvato che si può riassumere con queste sue frasi: “Cinque minuti per suicidarsi purtroppo si trovano facilmente: per questo racconto cos’ho vissuto quando mi è stata revocata la liberazione condizionale, che per me ha significato il ritorno alla pena dell’ergastolo, e come l’ascolto attento degli operatori e la collocazione in una “cella aperta” mi abbiano davvero “salvato la vita”. I suicidi in carcere continuano a non far parlare di sé, tranne che da parte degli addetti ai lavori, eppure i numeri sono terribili: 62 suicidi mentre scriviamo, cioè in media 2 suicidi a settimana, 20 suicidi ogni due mesi. A fronte di 85 suicidi nel 2023, con questo trend a fine anno saremo certamente oltre i cento suicidi in carcere. Ai suicidi dei detenuti, si aggiungono i suicidi delle guardie penitenziarie (sette, dall’inizio del 2024), a dimostrazione del fatto che il carcere è una fabbrica di morte e di negazione dell’essere umano, un non luogo che produce patologia mentale. Il carcere è un territorio nel quale, da innocente, può entrare chiunque di noi, come dimostrano diversi casi celebri, ma anche meno celebri. Un luogo dal quale ti difendi togliendoti la vita, o ribellandoti in altro modo: al 22 luglio 2024 il DAP (il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) ha registrato 87 rivolte, alle quali vanno aggiunti i disordini nella casa circondariale di Velletri, le proteste nelle carceri di Terni e di Biella, l’occupazione dei passeggi di Regina Coeli. E alcune tragiche vicende degli ultimi anni per le quali è in corso l’accertamento giudiziario, come i pestaggi nel carcere minorile “Beccaria” e le torture nel carcere di Reggio Emilia (ma Antigone riporta altri casi degli ultimi anni nei suoi rapporti). L’ultimo rapporto di Antigone è inequivocabile: il carcere in Italia è la negazione della nostra Costituzione, dello Stato di Diritto, il superamento di ogni limite consentito in un paese che voglia definirsi civile, che non sottoponga i detenuti a trattamenti inumani e degradanti, a tortura. Riporta Antigone che al 30 giugno 2024, le carceri italiane ospitavano 61.480 detenuti a fronte di soli 51.234 posti regolamentari. Il tasso di affollamento ufficiale è del 120%, ma la situazione è ancora più grave se si considerano i posti effettivamente disponibili. Tenendo conto dei 4.123 posti non utilizzabili, il tasso reale di affollamento sale al 130,6%, ma in 56 istituti supera il 150% ed in 8 è superiore al 190%. Record negativo al carcere di Milano San Vittore (sezione maschile) con un incredibile 227,3% di sovraffollamento, Brescia Canton Monbello (207,1%) e Foggia (199,7%). Anche gli Istituti Penali per Minorenni, grazie alla politica machista del governo Meloni, per la prima volta sono sovraffollati. Al 15 giugno 2024, erano infatti presenti 555 giovani (25 le ragazze) a fronte di soli 514 posti ufficiali (nel 2023, un anno prima, i detenuti minorenni erano 406). Il 64,1% dei detenuti non ha ancora una sentenza definitiva. Che le carceri italiane “offrano ai loro ospiti” condizioni inumane e degradanti vietate dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU), come accertato dalle condanne allo Stato Italiano della Corte di Strasburgo, lo dimostrano le visite dell’Osservatorio di Antigone. Effettuate in 88 istituti negli ultimi 12 mesi, hanno dimostrato che nel 27,3% delle carceri visitate ci sono celle che non garantiscono il minimo di 3 metri quadri di spazio calpestabile per ogni detenuto. Oltre la soglia del limite minimo di dignità per la persona detenuta. E il sovraffollamento si riverbera, negandolo, sull’accesso ad attività in carcere, ma anche sul diritto alla salute e a qualsiasi standard minimo di dignità e di sopravvivenza: il rapporto di Antigone cita celle con 50 gradi di temperatura, senza servizi igienici funzionanti, infestazioni di topi ed insetti, mancanza di qualsiasi attività ricreativa e formativa. Ai cultori del carcere duro, a quelli che “il carcere non è un albergo di lusso”, il rapporto ricorda che il sovraffollamento carcerario costituisce anche una minaccia alla sicurezza dei cittadini, perché aumenta il tasso di recidiva, come dimostrano i dati: al 31 dicembre 2021 solo il 38% delle persone detenute era alla prima carcerazione, mentre il 62% ne aveva già subita almeno un’altra. Addirittura, il 18% dei detenuti aveva alle spalle almeno cinque carcerazioni precedenti. Il sovraffollamento carcerario in Italia è un problema storico, ma il governo Meloni ha contribuito e sta contribuendo ad aggravarlo, anche attraverso l’introduzione di nuovi reati e l’inasprimento delle pene. Le proposte di Antigone per fermare la strage la negazione della dignità di chi è in carcere prevedono il rigetto del pacchetto sicurezza in fase di approvazione, che introduce nuove fattispecie di reato relative al carcere come la rivolta penitenziaria e la detenzione per donne incinte o con bambini piccoli. Al contrario, Antigone propone invece di ampliare la liberazione anticipata a 75 giorni per semestre, telefonate quotidiane ai detenuti, dotare tutte le celle di ventilatori o aria condizionata e frigoriferi, il ripristino del sistema di celle aperte durante il giorno, la modernizzazione della vita carceraria con accesso controllato a internet e l’assunzione di 1000 giovani mediatori culturali e 1000 educatori e assistenti sociali, un maggiore impegno sul fronte sanitario con l’aumento di psichiatri, etno-psichiatri e medici, e un sistema sanzionatorio più premiante si propone di ampliare i consigli di disciplina e introdurre misure alternative come premi. È generalmente attribuita a Voltaire la frase “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”. Di chiunque sia, è una grande verità. Il grado di civiltà dell’Italia certamente non è dimostrato solo dalla condizione dei detenuti, perché si muore troppo anche sul lavoro o nel Mediterraneo per cercare di raggiungere l’Italia, o negli incidenti stradali (prima causa di morte tra i giovani in Europa). Ma certo è dimostrato anche dalla condizione delle carceri e dalla totale assenza di dibattito sulla situazione carceraria, come dimostra la stessa vicenda della intercettazione dei colloqui tra il femminicida (presunto, perché non condannato definitivamente, nonostante sia reo confesso) Filippo Turetta ed il padre. Molti hanno giustamente rilevato che l’intercettazione del colloquio poteva essere inutile, ma certamente era inopportuna ed illegittima la sua pubblicazione. Quasi nessuno ha affermato “Ehi, sono le parole di un padre ad un figlio in carcere, dove siamo oltre ogni record di suicidi, di sovraffollamento, di negazione della dignità” dei detenuti! Sono le parole di un genitore ad un figlio, che teme si suicidi ora che è in carcere, un figlio che si è macchiato di un crimine gravissimo, che ha già perduto, ma che non vuole muoia!”. Quasi nessuno ha riportato quelle dichiarazioni di un genitore disperato alla situazione, inaccettabile, delle carceri italiane, all’ennesimo, ripugnante, “decreto sicurezza” che produrrà, ancora una volta, solo insicurezza accanto ad un ulteriore aumento dei detenuti. Eppure, non c’è più tempo: il carcere non aspetta, a giorni il record di suicidi sarà nuovamente superato, e poi ancora, e poi ancora. Giustamente Antigone ha intitolato il suo rapporto “Nodo alla gola” richiamando l’atto dell’impiccagione. Ma se non lo proviamo noi, fuori dal carcere, un nodo alla gola, di fronte al numero dei suicidi in carcere ed ai dati sul sovraffollamento, possiamo ancora dirci umani e persino liberi? *Avvocato di strada Sovraffollamento, si provi almeno con i domiciliari allargati di Oliviero Mazza* Il Dubbio, 6 agosto 2024 La maratona oratoria e l’astensione dalle udienze promosse da Ucpi hanno avuto il grande merito di porre la drammatica situazione delle carceri al centro del dibattito politico, richiamando anche l’attenzione dell’opinione pubblica rispetto a una questione etica di solito rimossa. L’opera di sensibilizzazione ha finora prodotto un decreto- carceri che, a dispetto della roboante denominazione, non incide in alcun modo sul sovraffollamento, e i proclami sulla futuribile edilizia penitenziaria da realizzare, forse, nel prossimo decennio. Quando la casa brucia non si può disquisire su quali siano le migliori misure antincendio da adottare, occorre intervenire subito e mettersi in gioco per spegnere il fuoco, rimandando a tempi migliori ogni ragionamento sui massimi sistemi. Lo dico con rammarico, dato che non ho mai creduto nelle soluzioni tampone o di compromesso, ma il dramma che stanno vivendo i detenuti nel nostro Paese è tale per cui bisogna scendere a patti anche con una politica ideologicamente indisponibile ad affrontare in modo sistematico i problemi dell’esecuzione penale. D’altro canto, si deve ammettere che le proposte avanzate finora, dall’amnistia all’indulto fino alla liberazione anticipata speciale, pur condivisibili sul piano dei principi, sono irrealistiche nell’attuale quadro politico. Qualsiasi provvedimento di natura clemenziale, teso a ridurre la durata della pena detentiva, non avrebbe il sostegno dell’attuale maggioranza parlamentare e di Governo. Non solo per coerenza con le proclamate politiche securitarie del centro- destra, ma soprattutto per una questione di consenso. Non dobbiamo infatti dimenticare che anche il centro- sinistra, quando c’è stata la possibilità di varare una seria riforma penitenziaria, peraltro commissionata dall’allora Ministro della Giustizia Orlando, ha fatto repentinamente marcia indietro poco prima della scadenza elettorale. Il problema, dunque, non è l’ideologia law and order, e se così fosse avrebbe certamente una sia pure contestabile dignità politica, ma un mero calcolo elettorale, vizio italico trasversale a tutti i partiti, sul presupposto, forse sbagliato, che l’opinione pubblica non premierebbe chi avesse il coraggio di una riforma non carcerocentrica. Avendo ben chiaro il contesto politico di riferimento, bisogna sforzarsi di proporre una soluzione che sia concretamente praticabile e che consenta di ottenere nell’immediato il risultato di alleggerire significativamente l’intollerabile sovraffollamento penitenziario. Andando per esclusione e accantonando tutte le proposte che incidono sulla durata della pena, in quanto sarebbero subito bollate come irricevibili, scartando anche l’eventualità di trasformare la pena carceraria in forme alternative non detentive che sarebbero viste come un inaccettabile cedimento rispetto alle esigenze punitivo- securitarie, non resta che valorizzare il più possibile la detenzione domiciliare in luogo di quella carceraria. Il tema è molto complesso, ma si possono ipotizzare alcuni interventi minimali che avrebbero un impatto considerevole in tempi brevissimi, lasciando intatta la percezione sociale e politica che la limitazione della libertà personale prosegua “senza sconti”, sia pure al di fuori delle strutture penitenziarie ormai giunte al collasso. Si potrebbe prevedere che, fatte salve le solite ostatività (distinzione ripugnante, ma oggi politicamente indiscutibile) e compatibilmente con altri benefici già maturati, ogni pena in corso di esecuzione, il cui residuo sia inferiore a quattro anni, si trasformi ex lege in detenzione domiciliare (da scontare, per chi non disponesse di un domicilio idoneo, presso strutture messe a disposizione dallo Stato, magari le famose caserme dismesse del Ministro Nordio), nelle more dell’eventuale decisione in ordine ad altre misure alternative. Verrebbero così sterilizzati gli endemici ritardi che si registrano nell’accoglimento delle richieste di affidamento in prova dei detenuti. La previsione dell’art. 656 comma 10 c. p. p. andrebbe estesa anche agli ordini di esecuzione per pene che superino i quattro anni in ragione di un provvedimento di cumulo materiale, consentendo al condannato di rimanere agli arresti domiciliari in attesa della definizione dell’incidente d’esecuzione per il riconoscimento della continuazione o del concorso formale e stabilendo un termine per la proposizione della relativa istanza (ma si potrebbe imporre il dovere di iniziativa d’ufficio del pm). Con più “coraggio” politico e con un po’ di lungimiranza, si potrebbe modificare il regime della detenzione domiciliare, portandolo al di sopra dell’affidamento in prova ordinario, ad esempio fino a 6 anni di reclusione, così da renderlo la forma di esecuzione della pena da applicare in via generale a tutti i reati di medio-bassa gravità, salve ovviamente le misure alternative più favorevoli da adottarsi con i tempi della sorveglianza. Parallelamente, sarebbe opportuno cambiare le modalità di calcolo delle pene residue, stabilendo il principio per cui la liberazione anticipata si computa automaticamente, in mancanza di una decisione negativa dei giudici di sorveglianza, ribaltando l’attuale impostazione che scarica sul detenuto i ritardi nel riconoscimento giurisdizionale di un suo diritto. La custodia cautelare in carcere dovrebbe, a sua volta, essere limitata ai soli reati del doppio binario (art. 275 comma 3 secondo periodo c. p. p.), sempre nella logica in sé aberrante della difesa sociale rispetto a un presunto innocente, stabilendo che in ogni altro caso la massima restrizione della libertà personale per chi è in attesa di giudizio siano gli arresti domiciliari. Infine, ma non da ultimo, sarebbe auspicabile un risoluto intervento di moral suasion sui magistrati di sorveglianza da parte del Csm, un invito alla “supplenza” tante volte praticata in altri ambiti dalla magistratura, questa volta per garantire la massima espansione delle misure alternative alla detenzione, principio di sicura matrice costituzionale. Troppo spesso decisioni di carattere formale negano i benefici penitenziari a chi ne avrebbe pieno diritto ed è un vero scandalo che ciò accada per mano di giudici che dovrebbero avere come unica guida la Costituzione in cui la pena retributiva non ha diritto di cittadinanza. Sono proposte certamente insoddisfacenti nell’ottica di una complessiva riforma del sistema punitivo, ma avrebbero il pregio di una loro pronta attuazione, senza per forza implicare un messaggio politico di benevolenza nei confronti dei detenuti. Nella prospettiva della realpolitik, la detenzione domiciliare allargata presenterebbe notevoli vantaggi: si potrebbe attuare con strumenti di controllo elettronico in grado di tacitare ogni istanza di difesa sociale, avrebbe un connotato afflittivo (durata e tipologia della limitazione della libertà personale) equivalente al carcere, quindi senza benevoli sconti, al netto dell’illegittimo surplus oggi inflitto dalle condizioni inumane e degradanti del sovraffollamento penitenziario, e consentirebbe un contenimento significativo della spesa pubblica, considerati i costi pro capite del mantenimento dei detenuti negli istituti di pena. Sono tutti argomenti spendibili in questa disgraziata contingenza storico- politica poco incline a ragionamenti fondati su principi di civiltà del diritto. Di solito il mese di agosto porta con sé le peggiori riforme del sistema penale, se quest’anno venisse adottato un decreto- legge sulla detenzione domiciliare allargata sarebbe un unicum degno di nota. *Ordinario di Diritto processuale penale alla Università Bicocca di Milano Giudice della Corte costituzionale, si vota a partire dal 17 settembre di Alessandro Di Matteo La Stampa, 6 agosto 2024 Il Parlamento ci prova, almeno formalmente. Il 17 settembre Camera e Senato si riuniranno in seduta comune per tentare l’impresa che non riesce da mesi, cioè eleggere il giudice costituzionale che deve sostituire Silvana Sciarra, il cui mandato è scaduto lo scorso novembre. Da allora è stallo, perché il quorum richiesto per l’elezione impone di fatto un accordo tra diverse forze politiche che finora non è stato possibile raggiungere. Una situazione che aveva spinto lo stesso capo dello Stato, una decina di giorni fa, ad intervenire duramente durante la cerimonia del Ventaglio: la mancata elezione costringe la Consulta ad operare con 14 componenti, invece dei 15 previsti dalla Carta: “Un vulnus alla Costituzione compiuto dal Parlamento”, aveva detto Sergio Mattarella. Un richiamo che aveva portato già il giorno dopo il presidente della Camera Lorenzo Fontana ad annunciare sedute ogni settimana, a partire da settembre, per risolvere la questione. Ieri la conferenza dei capigruppo di Montecitorio ha fissato la data della prima seduta, appunto il 17 settembre alle 15.30. Il problema, però, sarà trovare l’accordo politico. Le opposizioni accusano la maggioranza di voler tirare la questione per le lunghe, in modo da arrivare a dicembre, quando scadranno altri tre componenti della Corte costituzionale, l’attuale presidente Augusto Barbera, e i giudici Franco Modugno e Giulio Prosperetti. Di fatto - secondo le minoranze - si andrebbe ad una trattativa complessiva, con il centrodestra in posizione di forza. Insomma, il timore del centrosinistra è che la maggioranza voglia cogliere l’occasione per spostare a destra l’asse della Consulta. Certo non è un caso che proprio Mattarella, al Ventaglio, abbia sottolineato: “Ricordo che ogni nomina di giudice della Corte costituzionale - anche quando se ne devono scegliere diversi contemporaneamente - non fa parte di un gruppo di persone da eleggere, ma consiste - doverosamente - in una scelta rigorosamente individuale, di una singola persona meritevole per cultura giuridica, esperienza, stima e prestigio di assumere quell’ufficio così rilevante”. Stragi neofasciste, Santalucia: “Pericoloso appellarsi al ministro per rivedere sentenze definitive” di Liana Milella La Repubblica, 6 agosto 2024 Intervista al presidente dell’Anm: “Pregiudizi politici. Siamo al solito refrain dei giudici di parte”. Gli attacchi alla magistratura non finiscono mai. Prima l’inchiesta Toti, ora il caso Mollicone. Mentre Nordio si libera dei reati scomodi come l’abuso d’ufficio. Proprio a lui il meloniano Mollicone chiede di riscrivere le sentenze sulle stragi neofasciste in Italia. È mai possibile? “È del tutto sorprendente - risponde il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia - anche perché c’è una grande e pericolosa confusione su quali siano le competenze di un ministro di Giustizia e quale sia la forza di una sentenza irrevocabile, necessaria per mantenere l’assetto democratico dell’Italia. Una cosa è la critica delle sentenze, altro lo spettacolo cui si assiste da tempo, il sistematico disconoscimento del ruolo e della funzione della giurisdizione”. Mollicone vuole che Nordio smonti i processi sulle stragi neofasciste per lui frutto del pregiudizio di toghe di sinistra contro la destra... “Non spetta certo al ministro revisionare i contenuti delle sentenze o stabilire se siano state rispettate le garanzie del giusto processo. Questo lavoro si fa impugnandole davanti alle Corti deputate al controllo, come la Cassazione o la Corte europea dei diritti dell’uomo”. All’interno del processo dunque... “Certo, e sarebbe semmai un’iniziativa degli imputati, e non certo di osservatori politici esterni, e meno che mai di rappresentanti delle istituzioni. Le affermazioni fatte invece, vista l’impossibilità di realizzare il proposito, non fanno che gettare discredito sul lavoro faticoso e complesso compiuto dall’autorità giudiziaria di Bologna. Per di più potrebbero ingenerare il convincimento che le sentenze da rispettare siano solo quelle che piacciono. Mi sembra chiara la ricaduta negativa sul discorso pubblico sulla giustizia”. Mollicone, e non solo lui viste le adesioni che riscuote tra i meloniani, punta al totale discredito sulla magistratura che ha indagato sulle stragi, in quanto di parte... “È solo un refrain quello dei magistrati politicizzati che emettono provvedimenti o sentenze sgradite a seconda della prospettiva politica da cui si guardano. In quest’atteggiamento ormai dilagante vedo uno scarsissimo, o addirittura inesistente senso istituzionale. E mi appello alla razionalità di tutto il mondo politico perché si metta fine a un approccio ai temi della giustizia logorante non solo per noi magistrati, ma per l’assetto democratico del Paese”. Antonio Scurati a Repubblica dice che la destra vuole riscrivere “la verità storica e giudiziaria delle stragi di matrice neofascista”... “Voglio dire con chiarezza che giudico al di fuori di ogni logica coltivare la pretesa di sostituirsi ai tribunali e alla Corti nell’accertare la verità dei fatti e le responsabilità individuali. Ritengo fortemente denigratorio che quanto hanno stabilito tribunali e Corti non abbia alcun valore in forza di un pregiudizio politico genericamente evocato per screditare l’importanza di molti processi, ormai definiti con sentenze irrevocabili”. La tesi di Mollicone è chiara, i giudici non avrebbero cercato la verità giudiziaria ma perseguito solo “un teorema politico”... “Detta così non è una tesi, ma solo un’illazione gratuita”. Usata per gettare discredito su voi toghe... “Glielo ripeto ancora una volta, io sono molto preoccupato dal dilagare di un metodo del tutto insensato di affrontare in generale le questioni della giustizia. Ma se quel metodo viene applicato per disconoscere lunghi e complessi accertamenti giudiziari su una delle più grandi tragedie della storia repubblicana allora la mia preoccupazione si trasforma in un gigantesco allarme”. Considera quest’interrogazione al Guardasigilli del tutto irricevibile? “Le interrogazioni al ministro sui processi non possono mascherare il tentativo di esercitare un controllo politico sul lavoro giudiziario. Nel senso che, come del resto è noto, non possono assolutamente mirare alla revisione dei contenuti di una sentenza, perché questo può avvenire solo nelle aule di giustizia”. Filippo Turetta e il padre, il garante della Privacy: “Eccessivo pubblicare i colloqui tra loro” di Maria Rita Graziani Corriere della Sera, 6 agosto 2024 L’Autorità avvia delle istruttorie e richiama i giornalisti sul principio di essenzialità dell’informazione: “Violata la privacy e le regole deontologiche”. Il garante della Privacy richiama i media sulla diffusione delle conversazioni tra Filippo Turetta e il padre Nicola in carcere. “La pubblicazione di conversazioni private, intercorse in un contesto di particolare delicatezza, quali i colloqui in carcere tra detenuti e parenti, vìola la normativa sulla privacy e le regole deontologiche dei giornalisti”, fa sapere l’Autorità. Nello specifico il riferimento è alla pubblicazione di stralci di intercettazioni effettuate, il 3 dicembre scorso, durante il primo colloquio in carcere tra Filippo Turetta e i genitori, dopo l’arresto del giovane in Germania per l’omicidio dell’ex fidanzata Giulia Cecchettin. Il Garante rende inoltre noto di aver avviato istruttorie nei confronti di varie testate e “richiama i media e i social al rigoroso rispetto del principio di essenzialità dell’informazione e della dignità delle persone coinvolte in fatti di cronaca”. Le parole di Nicola Turetta - “Eh va beh, hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza... Quello è! Non sei un terrorista, voglio dire... Devi farti forza. Non sei l’unico... Ci sono stati parecchi altri... Però ti devi laureare”. Sono queste le frasi, pubblicate con la foto che ritrae l’incontro nella sala colloqui del carcere Montorio, ad avere generato un polverone mediatico e, adesso, anche il richiamo del garante della Privacy. A commentare le dichiarazioni di Antonio Turetta era stata anche Elena Cecchettin, sorella di Giulia, che sui social aveva invitato a rifiutare la normalizzazione del femminicidio: “Di mostri non ce ne sono, c’è però una normalizzazione sistematica della violenza, e in quanto sistematica non dipende dalla nostra società, dipende da tutti”. Ad intercettare le parole di Nicola Turetta sono state le microspie degli investigatori. La conversazione è poi stata depositata agli atti del procedimento contro Turetta. Le scuse - Poco dopo la diffusione delle conversazioni, Nicola Turetta ha chiesto scusa in lacrime per quanto dichiarato. Aveva paura che suo figlio Filippo si suicidasse ecco perché “gli ho detto solo tante fesserie. Non ho mai pensato che i femminicidi fossero una cosa normale. Erano frasi senza senso”, le sue parole ai giornalisti. Sul caso il padre di Giulia Cecchettin, Giulio, in questi giorni in giro per l’Italia per presentare il libro che le ha dedicato, “Cara Giulia” e parlare di educazione affettiva e sentimenti, ha invitato alla comprensione, invitando a non “Accanirsi contro un papà che sta vivendo un momento di grande difficoltà. Noi tutti dovremmo pensare a questa famiglia, a come aiutarla. Noi come singoli e come società dovremmo porci questo tema. Hanno un altro figlio questi genitori e devono poter andare avanti al meglio. Il nostro compito è costruire valore”. Le intercettazioni come esca da talk-show Ma è un errore usarle come “sonda etica” di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 6 agosto 2024 Il problema non è solo il rapporto tra magistratura e stampa: in gioco c’è anche la responsabilità collettiva nel rapporto con il processo penale. Le dichiarazioni del padre di Giulia Cecchettin, in difesa del padre di Filippo Turetta, ci inducono a tornare ancora una volta sul tema delle intercettazioni dei colloqui in carcere, allargando lo sguardo agli scenari all’interno dei quali la polemica si è sviluppata. Quello dell’uso improprio delle intercettazioni al di fuori della finalità processuale è infatti un problema che riguarda certamente la magistratura e l’informazione, ma che investe anche la responsabilità dell’intera collettività ed il suo modo di porsi di fronte al processo penale e ai suoi strumenti. E più in genere di fronte al delitto. Riguarda certamente l’Informazione e la magistratura perché la riservatezza dei colloqui per la nostra Carta costituzionale è inviolabile e solo la ricerca della prova - e solo a determinate condizioni può giustificarla all’interno di un processo penale. Ammesso che l’intercettazione avesse nella mente di chi indagava quello scopo, è chiaro che non ha dato alcun risultato e che, pertanto, quelle conversazioni non dovevano essere neppure trascritte. Non vi era nulla che assomigliasse ad una “prova” concernente il reato nelle parole dei due genitori del giovane detenuto. Dovrebbe essere oramai chiaro a tutti che quei dialoghi non dovevano essere neppure oggetto di intercettazione e tanto meno di trascrizione e di pubblicazione. Due genitori che in un momento drammatico della loro esistenza cercano di sostenere il proprio figlio, che ha già confessato di essere autore di un gravissimo fatto di omicidio, non possono essere a loro volta processati e sottoposti ad una indecente gogna mediatica. Si tratta di contenuti insindacabili, frutto dell’intrusione in una sfera così fragile e misteriosa che non può essere violata con tanto barbara e tracotante protervia, con il solo fine di dissentirne nel nome di una improbabile etica universale. So bene che questa obiezione incontra una prevedibile opposizione (ben venga il materiale di risulta dell’indagine: se anche non ci consegna alcuna “prova” è comunque qualcosa di interessante per la “cronaca”), ma occorrerà, per questo, ancora una volta, fare chiarezza su quell’assurdo deragliamento alimentato e sancito da un perverso rapporto fra media e processo penale. Se l’intercettazione è infatti un “mezzo di ricerca della prova”, non può essere intesa come un dispositivo da calare alla ricerca delle opinioni personali dell’indagato, o magari di persone non implicate affatto nel reato, come se si trattasse di una sonda fatta per poter poi discutere della moralità dei colloquianti, della adesione dell’indagato o dei suoi amici e parenti ad uno stile di vita o al pensiero confacente ai più. Se solo l’acquisizione della “prova” giustifica la lesione della inviolabilità della riservatezza, tutto ciò che è stato altrimenti acquisito non può essere mai trascritto e tantomeno pubblicato. L’argomento che viene utilizzato in questi casi, secondo il quale questa o quella conversazione “trovata in atti” interessa comunque l’opinione pubblica, è un argomento francamente insostenibile, perché l’intercettazione non è l’esca per un talk- show, non è una sonda etica utile per sviluppare dibattiti o fare indagini sociologiche. Credo che questo resti al fondo il punto della questione. Avallare argomenti di quel genere significa sostanzialmente affermare che sia lecito utilizzare ogni mezzo intrusivo che il processo ci consente, perquisizioni, sequestri informatici, intercettazioni, non per acquisire la conoscenza di un reato, ma per cercare informazioni sul modo di vivere e di pensare dei cittadini. È comprensibile che anche questo sia un sogno per molti di coloro che non hanno una visione liberale della convivenza civile e che coltivano per questo un clamoroso equivoco nel disegnare i rapporti fra trasparenza e democrazia. L’equivoco consiste nell’immaginare un inesistente conflitto fra trasparenza e riservatezza che vada populisticamente inesorabilmente risolto in favore della prima. È infatti sempre consolatorio spiare nel fondo dell’animo degli altri con la sicurezza che il male si annidi nelle opinioni nascoste, negli errori e nelle debolezze altrui. In quei luoghi non sempre cristallini del mondo dell’altro, dove si è al riparo dalla pericolosa cognizione del dolore e dei limiti esistenziali di ogni essere umano e dunque dei propri. È rassicurante proiettare il male in un altrove che non ci tocca e non ci coinvolge, assolvendo ogni nostro cattivo pensiero e consentendoci di aggredire con la necessaria ferocia le debolezze altrui. Se alla base di questa “catena alimentare” dell’indignazione ci sono magistrati che hanno pensato di fare il loro dovere intercettando e c’è poi qualcuno, fra gli operatori del diritto e dell’informazione, che ha pensato che diffondendo e pubblicando quei colloqui si potesse fare una proficua opera di epurazione morale, c’è attorno questo pubblico plaudente, pronto a giudicare prima di comprendere, a dare risposte prima di porsi le domande. Si tratta di una “catena alimentare” che tende alla distruzione dell’ambiente in cui viviamo. Non si fa, infatti, un buon servizio al progresso civile e sociale del Paese ed alla soluzione di nessuno di quelli che chiamiamo di solito “problemi culturali”, come quello che riguarda il rapporto di genere, impegnandoci in quella sorta di linciaggi collettivi del capro espiatorio di turno (colpevole o innocente che sia), pieni di indignazione e di esecrazione e vuoti di pensiero e di pietà. Se questo è il mondo “civile” che ci attende, credo che ci si debba interrogare sui rimedi possibili, e credo che occorre farlo in fretta, perché il precipizio non è poi così lontano. *Presidente dell’Unione delle Camere penali italiane Marche. Il Garante Giulianelli: “Carceri fatiscenti e sovraffollate. Si lavori a una nuova struttura” di Paola Pagnanelli Il Resto del Carlino, 6 agosto 2024 I numeri: nelle Marche quasi mille detenuti, tanti in attesa di giudizio. Pesa la discrezionalità del giudice “Un nuovo penitenziario? Purtroppo dopo le parole di Nordio il progetto è finito nel dimenticatoio”. “La riforma Nordio fa almeno un passo avanti, aumentando il diritto alle telefonate per i detenuti. Si poteva fare di più, ma è già qualcosa in una situazione che va affrontata cambiando per prima cosa, noi cittadini liberi, il nostro approccio al tema”. Il Garante regionale Giancarlo Giulianelli interviene sulle carceri, tornate in primo piano dopo le proteste a Sollicciano e non solo. Il primo problema è il sovraffollamento. Nelle Marche ci sono 926 detenuti, 285 sono stranieri, 21 donne. Ad Ancona, Montacuto ha 316 detenuti su una capienza di 256; Barcaglione 100 detenuti su 100 posti disponibili. Ad Ascoli, a Marino del Tronto i detenuti sono 131 su 103 posti autorizzati. A Fermo 48 su 43 posti. A Villa Fastiggi di Pesaro 241 (di cui 21 donne) su una capienza di 153: è la situazione più critica. A Fossombrone, con posti dimezzati per i lavori, ci sono 90 detenuti. Che fine ha fatto il progetto del carcere a Macerata? “Non se ne è più parlato, dopo che il ministro Nordio ha risposto in Parlamento all’interrogazione dell’onorevole Manzi, condividendo l’idea di realizzarlo a Macerata. Forse l’ideale sarebbe costruirlo tra Macerata e Fermo, per chiudere quest’ultimo e avere una struttura, nuova e adeguata, per le due province”. Che altro si può fare contro il sovraffollamento? “A Montacuto, su 316 detenuti solo 145 sono condannati in via definitiva. In tutta Italia su 61mila detenuti, 19mila sono in attesa di giudizio. L’Italia è il paese occidentale con il maggior numero di detenuti in attesa di giudizio. Se a questi 19mila si aggiungono quelli che possono accedere a misure alternative, si arriva a 30mila persone che potrebbero tornare in libertà”. E invece? “Pesa molto la discrezionalità del giudice che, per quante riforme si possano fare, non può essere eliminata. Il magistrato valuta chi possa essere scarcerato e chi no. Questo non è un problema di per sé, lo diventa di fronte a un sovraffollamento così grave. A Montacuto c’è un caso paradigmatico. Tammaro Iavarazzo è in carcere da oltre 20 anni. Ha perso la vista, non può fare niente e ha bisogno sempre di un piantone. Gli sono rimasti due anni di pena e non si riesce a portarlo in detenzione domiciliare. Il sistema penitenziario ancora teme che un cieco, dopo 25 anni di galera, possa commettere reati della stessa specie di quelli per cui è stato condannato, e per i quali ha pagato il conto”. Non pesano anche le scelte politiche? “Non del tutto, perché alla fine chi tiene in carcere le persone sono i giudici, che applicano codici e leggi. La riforma epocale in materia fu tentata con il ministro Orlando, con gli stati generali dell’ordinamento penitenziario e la commissione Giostra. Ma quel governo non ebbe il coraggio di varare la riforma per timore delle ricadute elettorali. Il governo attuale è l’unico che in 30 anni ha messo mano alla questione quanto meno delle telefonate ai familiari, importanti per alleviare le sofferenze di chi è detenuto, che deve pagare una pena ma una soltanto. Su questo si deve riflettere: il detenuto non è un reietto”. Funziona la legge Smuraglia, che prevede agevolazioni per chi assume ex detenuti? “Nelle Marche è quasi impossibile applicarla. È fondamentale offrire una possibilità di lavoro, per ridurre la recidiva. E lo Stato, come impone la Costituzione, deve tendere alla rieducazione del detenuto”. Altro tema dolente è la sanità... “I detenuti scontano le difficoltà della sanità generale, con la complicazione ulteriore di dover essere scortati in ospedale dalla polizia penitenziaria, anche questa sotto organico. Sto cercando di introdurre la telemedicina, ma ci sono difficoltà legate soprattutto al gestore”. Come è la situazione a Fermo, a corto di spazi per le attività? “Abbiamo fatto un progetto di pet therapy, ora ne partirà uno finanziato dall’ufficio del garante per alcuni detenuti con Sviluppo Europa Marche e Confindustria, che si è data da fare per reperire calzaturifici dove i detenuti faranno formazione”. Ci sono qui casi come quelli denunciati a Firenze? “La situazione dell’edilizia penitenziaria non è delle migliori. Montacuto, nella parte non visibile ai più, è in condizioni pietose, ci sono infissi che rischiano di cadere sui detenuti, infiltrazioni di acqua. A Villa Fastiggi peggio. Marino del Tronto ha ancora i presidi del 41 bis. Gli unici in condizioni più che dignitose sono Fossombrone e il Barcaglione. Il primo risponde davvero al dettato costituzionale. Al Barcaglione metà dei cento detenuti lavorano grazie all’opera meritoria di un agronomo in pensione, Sandro Marozzi di Treia. Ci sono l’orto, ulivi, ovini, il caseificio. Ma anche quel carcere ha bisogno di manutenzione”. Biella. Detenuto 55enne di origine albanese si impicca in cella La Repubblica, 6 agosto 2024 “Si è impiccato ieri sera presso la Casa Circondariale di Biella il 64esimo detenuto suicida dall’inizio dell’anno, cui bisogna aggiungere i 7 appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Aveva 55 anni, di origini albanesi, a nulla sono valsi i soccorsi”. Ne dà notizia il segretario generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Gennarino De Fazio. “La situazione nelle carceri italiane continua a peggiorare, con un numero di morti che non ha precedenti. La risposta del Governo è stata finora caratterizzata da una sostanziale indifferenza, mentre la carneficina nelle carceri del Paese non accenna a fermarsi. Il problema dei suicidi nelle carceri italiane è una questione di grave preoccupazione. Le condizioni di vita all’interno delle strutture penitenziarie, spesso sovraffollate e con risorse limitate, contribuiscono a creare un ambiente di disperazione per molti detenuti. La mancanza di supporto psicologico adeguato e di programmi di reintegrazione efficaci aggrava ulteriormente la situazione. Le autorità penitenziarie e il Governo sono chiamati a intervenire con urgenza per affrontare questa crisi. È necessario implementare misure preventive e di supporto per ridurre il numero di suicidi e migliorare le condizioni di vita all’interno delle carceri. La formazione del personale penitenziario e l’aumento delle risorse destinate alla salute mentale dei detenuti sono passi fondamentali in questa direzione. La comunità internazionale osserva con preoccupazione la situazione nelle carceri italiane. Organizzazioni per i diritti umani hanno più volte sollecitato il Governo italiano a prendere provvedimenti concreti per migliorare le condizioni di detenzione e prevenire ulteriori tragedie. In conclusione, il suicidio del detenuto di Biella rappresenta un ulteriore campanello d’allarme sulla necessità di un intervento immediato e deciso da parte delle autorità competenti. La tutela della vita e della dignità dei detenuti deve diventare una priorità per il sistema penitenziario italiano”. Salerno. Si impicca nel bagno del tribunale: era in attesa della convalida dell’arresto di Carmine Landi La Città di Salerno, 6 agosto 2024 Ha deciso di togliersi la vita in tribunale. Un cappio al collo nel bagno della cittadella giudiziaria: è l’ultima cosa che Luca Di Lascio, classe 1976, assai noto nella sua Montecorvino Rovella e nell’intero comprensorio stretto tra i Picentini e la Piana del Sele, ha visto sulla terra. La penultima è stata un’aula di tribunale, all’interno della quale, ieri mattina, il giudice delle indagini preliminari aveva appena accolto la richiesta di convalida degli arresti avanzata da Katia Cardillo, pm di turno nella notte tra venerdì e sabato. Quella nel corso della quale il 48enne montecorvinese era stato tradotto in carcere: i carabinieri della locale Stazione, agli ordini del maresciallo Francesco Grimaldi, coordinati dalla Compagnia di Battipaglia, temporaneamente retta dal capitano Donato Recchia, lo avevano trovato in casa della madre. Il provvedimento - Di Lascio non poteva essere lì, perché due settimane prima gli era stato notificato un ordine d’allontanamento: divieto d’avvicinamento alla donna, ch’era accusato d’aver picchiato, e di dimora nella sua città. Aveva preso a bazzicare tra Bellizzi e la fascia costiera di Battipaglia: spesso lo trovavano ai piedi d’un albergo vista mare, nella capofila della Piana del Sele, mentre chiedeva danaro agli automobilisti che parcheggiavano per godersi la tintarella estiva. Aveva problemi di tossicodipendenza, il montecorvinese, già noto alle forze dell’ordine per disparati precedenti di polizia giudiziaria. Proprio a causa dell’ingente bisogno di danaro aveva avuto quei problemi con la donna che lo aveva messo al mondo. Cagliari. Detenuto muore nell’infermeria del carcere dopo due infarti di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 6 agosto 2024 Tragedia nel primo pomeriggio di ieri, 5 agosto, nel carcere di Uta dove un detenuto è morto a seguito di due arresti cardiaci avvenuti consecutivamente in circostanze drammatiche: accusato un malore in cella, gli agenti hanno immediatamente contattato il medico di turno ma nel mentre il compagno di cella ha appiccato un incendio che ha reso impossibile l’accesso immediato al locale. I poliziotti penitenziari hanno quindi dovuto spegnere le fiamme ed a fatica sono riusciti a mettere in salvo i quattro detenuti, compresi quello che aveva accusato il malore e quello che aveva appiccato il fuoco. Con l’utilizzo di una barella, il detenuto infartuato è stato quindi trasportato nell’infermeria del carcere, dove pero è deceduto poco dopo a seguito di un secondo arresto cardiaco che è risultato fatale. A rendere nota la tragedia è il segretario generale regionale della Uil Pa Polizia Penitenziaria Michele Cireddu: “Quello che è avvenuto oggi nel carcere di Uta - afferma il sindacalista - è surreale. Di fatto un detenuto ha impedito, provocando un incendio, che si soccorresse il proprio compagno di camera ed il ritardo causato non ha consentito una tempestiva assistenza medica”. L’incendiario rischia di essere perseguito penalmente per omicidio colposo. Altri momenti di tensione sarebbero avvenuti questi giorni nella casa di reclusione di Uta. “Anche nella sera di ieri 4 agosto - dice Michele Cireddu - ci è stato riferito che in una sezione alcuni detenuti hanno fatto esplodere delle bombolette di gas nei corridoi delle sezioni ed oggi questo dramma del detenuto morto per il ripetersi di malore quando un altro ha impedito i soccorsi. Arrivare addirittura ad impedire un soccorso per un detenuto che aveva urgente bisogno di assistenza medica è di una gravità unica, con un intervento tempestivo probabilmente si poteva salvare”. “Siamo estremamente preoccupati - prosegue il segretario regionale di Uil Polizia penitenziaria - perché il Governo ed il Dipartimento stanno rispondendo alla grave e straordinaria emergenza, a nostro avviso la più, grave degli ultimi 30 anni, con provvedimenti nemmeno ordinari. Nel carcere di Uta ormai gli eventi gravi hanno raggiunto un numero più che allarmante. gli eventi critici che si verificano in questo istituto sono il triplo rispetto al totale di tutti gli altri della Sardegna. In proporzione al numero dei detenuti, detiene il triste primato in tutta Italia”. Anche dal punto di vista delle presenze detentive, si sarebbe raggiunto un allarmante percentuale di sovraffollamento. “Sono più di 150 i detenuti oltre la capienza regolamentare - prosegue Michele Cireddu -. La carenza organica della polizia penitenziaria ha superato le 100 unità dati significativi che continuano ad essere ignorati”. Firenze. “Il carcere di Sollicciano va commissariato” di Luca Gasperoni Corriere Fiorentino, 6 agosto 2024 La richiesta di Palagi (Sinistra) e Lensi (Progetto Firenze): “Serve trasparenza”. Commissariare il carcere di Sollicciano, da settimane al centro della cronaca cittadina per le condizioni degradanti in cui versa e per il recente suicidio del detenuto tunisino Fedi, favorendo l’arrivo di un commissario per velocizzare i lavori di risanamento del penitenziario. Sotto lo sguardo vigile dell’Unione delle Camere Penali italiane che il 22 agosto visiterà il carcere fiorentino per tenere alta l’attenzione sul tema. Ad avanzare al Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) la proposta di commissariamento sono il consigliere di Sinistra Progetto Comune, Dimitrij Palagi e il presidente dell’associazione Progetto Firenze, Massimo Lensi, a poche ore di distanza dall’apertura di un procedimento disciplinare a carico della direttrice di Sollicciano, Antonella Tuoni. Ultimo capitolo della tempesta perfetta che si è abbattuta sul penitenziario fiorentino a luglio con la doppia visita degli ispettori del Dap: apertura di un fascicolo in Procura per le responsabilità di Tuoni sul degrado della struttura, una sanzione di oltre 25mila euro e la richiesta di rimediare a tutte le carenze igienico-sanitarie nell’arco di tre mesi. Troppe, infatti, le criticità registrate a Sollicciano: infiltrazioni di umidità, cadute di intonaco, eccesso di caldo o freddo, cimici, blatte in un contesto di sovraffollamento e carenza di attività. Oltre alle tensioni sfociate in casi di autolesionismo/suicidio oppure in rivolte dei detenuti. “Occorre trasparenza amministrativa, politica e contabile sui progetti che vedono coinvolti la direzione, il volontariato e tutto il mondo che ruota attorno a Sollicciano. Per questa ragione, noi che abbiamo a cuore la relazione tra carcere e città, chiediamo al Dap il commissariato mento e l’arrivo di un commissario ad acta, dotato di poteri e risorse economiche, per iniziare velocemente i lavori di ristrutturazione dell’istituto”, esortano Dimitrij Palagi e Massimo Lensi. “Il gravissimo problema che vive Sollicciano non può più essere rimandato”, si accoda il capogruppo Fi in Consiglio comunale, Alberto Locchi, annunciando l’adesione all’evento organizzato dall’Unione delle Camere Penali italiane. “Il 22 agosto visiteremo Sollicciano per continuare a “dare voce a chi voce, purtroppo non ne ha”. Interverrò per testimoniare vicinanza e farò leva a livello centrale perché il problema delle carceri italiane venga finalmente affrontato”. Brescia. A Canton Mombello protesta dei detenuti, giovedì via alla “battitura” di Nicole Orlando Corriere della Sera, 6 agosto 2024 I sindacati: “Basta false promesse, servono i fatti” per dichiarare finalmente chiusa l’era di un carcere che non tutela i diritti né chi deve scontare una pena né di chi ci lavora. Fare rumore, non solo metaforicamente, per mantenere alta l’attenzione sulle condizioni in cui versa uno delle carceri più sovraffollati d’Italia. I detenuti di Canton Mombello hanno organizzato per due giovedì, l’8 e il 15 agosto alle 12, una protesta rumorosa, al suono di pentole e stoviglie battute su porte e inferriate. La “battitura”, come viene tradizionalmente chiamata, è accolta con qualche preoccupazione: “Spero non degeneri in altro perché queste situazioni sono sempre pericolose”, commenta la garante dei detenuti Luisa Ravagnani. Per Antonio Fellone, segretario generale aggiunto del Sinappe, il sindacato nazionale autonomo di polizia penitenziaria, “i politici che fino a ieri disconoscevano il mondo del carcere rischiano ora di mettere a repentaglio la sicurezza negli istituti penitenziari aizzando la popolazione carceraria, come già sta accadendo in molti carceri d’Italia”. Da qui l’invito a “evitare allarmismi e false illusioni e cercare di parlare con i fatti anziché gettare benzina sul fuoco”. Secondo Fellone “per dare risposte non serve urlare promesse impossibili perché si rischia solo di creare allarmismo e aspettative che possono portare poi a situazioni pericolose”. Calogero Lo Presti, coordinatore della Fp Cgil Polizia penitenziaria, sottolinea “il senso di responsabilità dei detenuti che hanno avvisato la direzione della protesta che speriamo rimanga pacifica” e invita le istituzioni coinvolte “a dare risposte coerenti, perché sul destino del carcere ognuno dice cose diverse”. Intanto l’attenzione, anche in vista delle annunciate proteste, “è come sempre massima. Tutti gli operatori cercano di fare la propria parte per garantire diritti ai detenuti e mantenere ordine e sicurezza pur in condizioni difficili e con forze sottodimensionate”, sottolinea Fellone. Perché la situazione tra le mura del carcere cittadino è - non da oggi - insostenibile. Dopo mezzo secolo di denunce, promesse e polemiche il cerchio sembra stringersi ancora una volta: quel carcere, è la convinzione espressa da più parti, va chiuso. Ne sono convinti gli operatori che lì lavorano, ne è convinta la sindaca Laura Castelletti, recentemente tornata sulla questione. E ne è convinta la garante nazionale dei detenuti Irma Conti, che pochi giorni fa ha visitato la struttura descrivendola come “davvero fatiscente. Sono entrata in una cella dove ci sono quindici persone e un bagno, nel quale si cucina”, ha raccontato ai cronisti. Ora l’impegno delle istituzioni è rivolto al potenziamento del personale di polizia penitenziaria ma soprattutto allo sblocco del cantiere di Verziano, indispensabile per poter dichiarare finalmente conclusa l’epopea di Canton Mombello. Altri miglioramenti potrebbero arrivare con l’alleggerimento delle pratiche di scarcerazione e l’avvio delle misure alternative alla detenzione previsti dal Ddl Nordio, sottolinea ancora Fellone. Intanto chi abita Canton Mombello intende tenere alta l’attenzione, anche con la protesta, su una condizione che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, riferendosi alla lettera di uno dei detenuti del carcere bresciano, ha definito “straziante”. Belluno. Violenza e danneggiamenti nel carcere, un poliziotto ferito Corriere delle Alpi, 6 agosto 2024 Alcuni detenuti hanno acceso fuochi, distrutto vetrate e telecamere. Ancora violenza e danneggiamenti nel carcere di Belluno, un poliziotto ferito domenica notte, 4 agosto. Sono le federazioni territoriali di Belluno dei sindacati della polizia penitenziaria Sinappe, Osapp, Uspp, Cisl Fns e Cgil Fp Pp a denunciare gli episodi capitati all’interno dell’istituto penitenziario bellunese. “Nelle serate di giovedì primo agosto, sabato 3 e domenica 4 agosto”, si legge in una nota diramata oggi, lunedì 5 agosto, “alcuni detenuti hanno messo in atto violente manifestazioni di protesta, appiccando fuochi, distruggendo impianti di videosorveglianza, vetrate, locali doccia, videocitofoni e impianto elettrico, provocando danni per migliaia di euro. In tutte e tre le occasioni è stato chiesto il supporto dei poliziotti penitenziari liberi dal servizio o in ferie per sedare le proteste. Domenica, in particolare, gli agenti sono stati impegnati fino a notte fonda per riportare l’ordine e la sicurezza all’interno dell’istituto. Nel corso dei disordini di domenica sera, un poliziotto ha dovuto fare ricorso alle cure del Pronto Soccorso cittadino, dove gli sono stati riscontrati traumi con una prognosi di cinque giorni”. Le organizzazioni sindacali denunciano l’inadeguatezza della struttura che ospita i detenuti comuni: “La logistica obsoleta era valida per i regimi penitenziari di cento anni fa, ma non più idonea ai regimi di oggi” affermano Luca Garrisi del Sinappe, Giuseppe Ongaro dell’Osapp, Pietro Falletta dell’Uspp, Robert Da Re della Cisl Fns e Pasquale Testa della Cgil Fp Pp, “È necessaria una ristrutturazione radicale del padiglione, per garantire il rispetto delle regole essenziali relative alla sicurezza nei luoghi di lavoro e, contestualmente, locali idonei ad una detenzione più umana, così come una organizzazione che non comprometta, qualora si verifichino eventi critici importanti, la regolare vita dei ristretti ligi ai regolamenti interni. Considerata altresì la carenza cronica di personale che costringe i poliziotti penitenziari a svolgere quotidianamente lavoro straordinario, si fa un plauso al personale di polizia penitenziaria che negli ultimi giorni è stato costretto ad un ulteriore tour de force massacrante per garantire l’ordine e la sicurezza all’interno dell’istituto bellunese. Al poliziotto ferito, un augurio di pronta guarigione”. Firenze. Caso Sollicciano, il Garante dei detenuti: “Non c’è volontà politica di agire” novaradio.info, 6 agosto 2024 Prima una sanzione da 25 mila euro da parte del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) per non aver tutelato la salute dei lavoratori del carcere di Sollicciano, poi l’apertura di un fascicolo di indagine in procura, e infine l’annuncio di un provvedimento disciplinare ancora del Dap per “grave negligenza in servizio” e il “contegno scorretto verso i superiori, i colleghi, i dipendenti e il pubblico”. Nel giro di poche settimane tre atti formali che rappresentano un fuoco di fila dell’amministrazione centrale penitenziaria verso la direttrice Tuoni. Che però per molti non è che un capro espiatorio usato per coprire le annose carenze e il di interesse della politica. Tra questi anche il Garante dei detenuti, Giuseppe Fanfani, che su pure Sollicciano non fa sconti: tra le carceri toscane, dice stamani a Novaradio, “Sollicciano insieme a Prato e Livorno sono le più problematiche, ma Sollicciano più di ogni altra”. Ma non si sente di dare la croce addosso alla direttrice Tuoni: “È veramente un carcere che non si presta ad essere gestito meglio di come lo è attualmente, più volte ho detto che costerebbe meno abbatterlo e magari ricostruirlo evitando assembramenti che negli anni hanno superato 1.000 persone”. Non una missione impossibile per Fanfani: “Se si avesse idea di cosa farci seriamente si potrebbe cominciare da una parte, visto che Sollicciano ha enormi spazi inutilizzati” ma il fatto è che “non c’è alcuna volontà politica di farlo, preferiscono sfogarsi con la direttrice”. E punta il dito sull’ipocrisia della gestione politica delle carceri: “L’affollamento normale arriva a 3 metri quadri, in celle spesso con 5 letti in cui si mangia e con un unico bagno in cui viene stipato di tutto”. Per alleviare la situazione il governo è portato in Parlamento il decreto “svuota-carceri”. “Questo decreto non affronta nessuno dei problemi” taglia corto Fanfani: “Non si parla di amnistia, di condono”. Ad esempio? “C’è tanta gente che deve fare meno di un anno di carcere, circa 10mila secondo i dati del coordinatore nazionale di garanti” spiega: “Mi sembra siano circa 3.500 cui mancano meno di 8 mesi da scontare: per questi si potrebbe pensare ad un provvedimento deflattivo”. E invece in parlamento si discute dell’uscita dei detenuti anziani (il criticatissimo emendamento “salva-Verdini”): “Il vero problema non sono gli anziani. Sono gli psichiatrici, sono i giovani che non hanno prospettive di futuro” insiste Fanfani. E torna a ribadire l’importanza di “come” si esce dal carcere: “Il problema è che molti di questi detenuti hanno bisogno di un sostegno sociale. Nelle carceri non si costruisce un percorso di speranza verso l’esterno. Quando si spendono 300 euro il giorno per mantenere un detenuto, se dopo 10 anni fa uscire una persona peggiore di quando è entrata ha buttato via tanti soldi ma soprattutto un dovere di speranza. Bisogna creare un reinserimento sociale e lavorativo, altrimenti ritornano dove erano prima”. Firenze. L’inferno nelle carceri, insorge anche Solliccianino: “Per noi neanche la Messa” di Stefano Brogioni La Nazione, 6 agosto 2024 Lettera al Garante dei detenuti: “Sovraffollamento al duecento per cento”. Nonostante una sezione chiusa, sono arrivati otto nuovi. “Manca anche il conforto religioso”. Ottanta detenuti anziché cinquanta, in quattro sezioni invece che in cinque, perché una è chiusa in quanto inagibile. Non possono neanche pregare affinché la situazione migliori perché “da innumerevoli mesi non viene celebrata la Santa Messa in carcere”. Scoppia anche l’istituto Gozzini, struttura “soft” accanto a Sollicciano (il cosiddetto Solliccianino) e i suoi ristretti hanno firmato una lettera indirizzata al garante dei detenuti di Firenze, Eros Cruccolini, in cui denunciano il peggioramento delle loro condizioni di vita e gli chiedono di dar voce presso le autorità preposte, del “disagio della popolazione carceraria”. I detenuti del Gozzini hanno appreso “con non poco stupore e profonda costernazione”, si legge nel documento, “della decisione della Direzione carceraria di aumentare ancora la presenza dentro la struttura”. Decisione che, sottolineano, “avviene a pochi giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dello Svuota-carceri, con il quale si dovrebbe dare risposte al grande numero di suicidi in carcere - ben oltre 60 dall’inizio dell’anno - dovuti in massa parte all’endemico sovraffollamento delle prigioni italiane ed alle condizioni di vita all’interno delle stesse che hanno già portato la Corte Europea, negli anni scorsi, a condannare l’Italia per trattamenti inumani e degradanti”. I ristretti del Gozzini evidenziano che recentemente sono arrivati altri 8 detenuti: adesso sono 80, “in quattro sezioni in quanto una è inagibile”. Un’aggiunta che “porta la capienza del medesimo al 200 per cento di quella prevista; il tutto senza alcun incremento di personale tra gli agenti di polizia penitenziaria e nell’area educativa e sanitaria”. Il sovraffollamento “che supera abbondantemente il livello di guardia, si ripercuote anche nell’utilizzo degli spazi comuni dedicati alla formazione, alla socializzazione ed alla ricreazione”, in quanto tali spazi sono tarati sulla metà dei presenti. “Si pensi che il sabato e la domenica lo spazio destinato all’ora d’aria è di circa 260 metri quadri che se fosse frequentato contemporaneamente da tutti gli ottanta ristretti avrebbe una disponibilità di appena tre metri quadri ciascuno, senza tenere in conto che tale spazio è privo di sedute e che pertanto i detenuti anziani, che sono numerosi all’interno dell’Istituto, possono usufruire dell’aria per periodi molti limitati”. I detenuti, in polemica con una recente ordinanza di un giudice del tribunale di sorveglianza che ha paragonato a un hotel di lusso il carcere con l’acqua calda, affermano che acqua corrente calda e fredda, lavabo e doccia nelle celle, “non sono presenti al Gozzini”. Dove non c’è più neanche il prete a dir la Messa, nonostante l’articolo 26 dell’Ordinamento penitenziario preveda invece il conforto religioso. E così (non) sia. Prato. Polveriera Dogaia: “Scuola e formazione mancano del tutto. Sopralluoghi periodici” di Laura Natoli La Nazione, 6 agosto 2024 La commissione consiliare 5 ha incontrato il Garante dei detenuti: “La Regione spende solo per Sollicciano”. Fra i problemi emersi la difficoltà a reperire mediatori linguistici. “Prima verifica a settembre”. Sovraffollamento in alcune sezioni, carenze di organico e di figure apicali, mancanza di corsi di formazione professionale, di scuole, laboratori e della biblioteca (chiusa da prima del Covid), oltre agli oggettivi problemi strutturali, fra cui le celle fatiscenti, molte delle quali senza docce, con materassi vecchi pieni di buchi e macchie, solo per citarne alcuni. Il “problema” carcere della Dogaia è stato affrontato ieri in commissione consiliare 5, presieduta dalla consigliera di maggioranza Rosanna Sciumbata, alla presenza del garante dei detenuti di Prato, Margherita Michelini. Un tema di attualità, e portato alla ribalta a causa dell’alto numero di suicidi fra i detenuti registrato negli ultimi mesi: 62 dall’inizio dell’anno in tutta Italia, fra cui tre a Prato (l’ultimo tre settimane fa quando a perdere la vita è stato un giovane di 27 anni di origini sinti). Alla seduta erano presenti Edoardo Carli e Martina Cacciato del Pd, i consiglieri di minoranza Rita Pieri, Claudio Belgiorno e Leonardo Soldi. La garante dei detenuti ha fatto il punto della situazione: “I posti a disposizione sono 589, tre in più di quelli occupati - ha detto - Il sovraffollamento si registra solo nelle sezioni ordinarie dove sono in 65 a dividersi 40 posti, mentre dei 68 presenti in semilibertà sono occupati solo 24, per fare un esempio”. Per quanto riguarda la struttura la garante ha sottolineato come “non ci sono gli aspiratori in bagno e le celle sono piene di scarafaggi e blatte mentre i materassi sono pieni di uova di cimici. Le docce nelle celle ci sono solo nella prima sezione”. E poi la formazione: “La scuola soffre per la carenza di personale, spesso i detenuti arrivano tardi alle lezioni perché nessuno li accompagna e sono costretti ad andare via prima perché alle 11 c’è il pranzo”. La commissione, dopo aver riassunto i problemi del carcere, ha chiesto di attivarsi per fare dei sopralluoghi periodici a partire da settembre in modo da tenere sotto controllo la situazione. “Abbiamo intrapreso un iter importante e significativo - ha detto la consigliera di Forza Italia Rita Pieri - I sopralluoghi periodici serviranno a monitorare la situazione”. Fra le problematiche sul tavolo quello della totale assenza delle figure apicali, a cominciare dal direttore, di un organico che è in affanno e sottodimensionato rispetto alla struttura e al numero di detenuti. Ma la garante ha aggiunto che la Regione spende più soldi per “Sollicciano e meno per altri istituti penitenziari”. Il confronto con Pistoia è impietoso: “Pistoia è stato ristrutturato di recente - spiega Michelini - e spesso i detenuti vengono inviati a Prato anziché essere trattenuti lì”. Rita Pieri ha contestato il fatto che non ci sono mediatori linguistici. “Se il 50% dei detenuti è straniero come fanno a seguire le lezioni?”, ha chiesto. La garante ha risposto che i mediatori linguistici “sono spesso neo laureati che non hanno esperienza nella mediazione culturale”. Insomma un cane che si morde la coda. “Forza Italia ha intrapreso una campagna a livello nazionale ‘Estate in carcere ‘, insieme ai radicali - prosegue Pieri - per tenere alta l’attenzione sul tema. In Italia il carcere non è un luogo punitivo, ma rieducativo. Se manca questo aspetto il sistema non regge”, ha concluso. Motivo per cui la commissione si è presa l’impegno di effettuare i sopralluoghi periodici. Cremona. Carcere, situazione esplosiva: sovraffollamento al 141% cremonaoggi.it, 6 agosto 2024 La Camera Penale “Sandro Bocchi” di Cremona e Crema ha chiesto autorizzazione al Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero dell’Interno) in attesa di riscontro, per effettuare una visita al carcere di Cà del Ferro, teatro sabato scorso della morte per suicidio di un detenuto 31enne. La visita è prevista per il prossimo 13 agosto alle ore 9:30 e sono stati invitati a partecipare i parlamentari del nostro territorio. Fin da subito la Camera Penale attraverso la sua presidente avvocato Micol Parati, ha ribadito le fortissime preoccupazioni per la situazione nel carcere di Cremona. “La grave situazione della lunga scia dei suicidi in carcere è stata denunciata ovunque, da tutti coloro che a vario titolo hanno contatti con questa tremenda realtà che sono i luoghi di detenzione”, si legge in una nota diffusa oggi. “Resta tuttavia un’emergenza che non ha ancora trovato alcuna soluzione. E non c’è più tempo. L’Unione delle Camere Penali Italiane ha dato voce a coloro che non possono parlare con una lunga maratona oratoria organizzata a staffetta dalle singole camere penali sui rispettivi territori, conclusasi con una manifestazione nazionale a Roma l’11 luglio scorso, in concomitanza con l’astensione proclamata per i medesimi motivi: denunciare pubblicamente la mancanza di un programma di serie riforme strutturali e di ripensamento dell’intera esecuzione penale e l’irresponsabile indifferenza della politica di fronte al dramma del sovraffollamento delle carceri e alla tragedia dei fenomeni suicidari. Lo denunciamo ancora, con il peso di un’altra vita in custodia allo Stato che è stata persa sabato sera. In occasione della maratona oratoria a Cremona lo scorso 11 giugno, un detenuto esprimeva così il suo pensiero: “Mi rendo purtroppo conto che la situazione è questa; molte persone non reggono e si arrendono a se stessi facendosi del male e dando fine alla loro vita, attaccandosi a una corda, pur avendo magari vent’anni o poco più: una vita distrutta prima di iniziare la possibilità di cambiare”. Quella possibilità che non è una concessione ma uno dei principi fondativi della nostra società civile, scritto nella nostra Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Gli aderenti alla Camera Penale di Cremona e Crema - Il carcere di Cremona è arrivato ad avere una situazione tra le più critiche della Lombardia: con una capienza di 394 posti, risulta ospitare attualmente 557 detenuti: il tasso di sovraffollamento è del 141 per cento. Il personale penitenziario è carente, sia per quanto riguarda gli agenti di polizia sia per quanto riguarda il personale delle aree educativa e sanitaria”. “Noi avvocati della Camera Penale ci siamo sempre stati - continua la nota - ci siamo in questo drammatico presente e ci saremo sempre, accanto ai nostri assistiti e per promuovere e tutelare il rispetto della legge e in particolare dei diritti fondamentali dell’uomo come riconosciuti e descritti nella Costituzione e nelle convenzioni internazionali, vigilando sulla loro concreta applicazione. Per questo ora combattiamo affinché meno persone possibile oltrepassino le porte del carcere e affinché più persone possibile ne possano comunque uscire vive. Esortiamo nuovamente le forze politiche sia del nostro territorio sia a livello nazionale a porsi concretamente il problema della drammatica situazione carceraria italiana e a trovarne soluzioni, con interventi immediati che possano rendere il carcere un luogo in cui resta viva la parola “futuro”. Crotone. Sovraffollamento, la Casa circondariale di Passovecchio tra le peggiori Gazzetta del Sud, 6 agosto 2024 La casa circondariale di Crotone svetta tra le carceri calabresi per sovraffollamento con una percentuale del 130,30%. Un dato che fa il paio con la cronica carenza di organico della polizia penitenziaria. È quanto emerge dalla relazione semestrale del Garante regionale dei detenuti, Luca Muglia, sullo stato delle 12 carceri calabresi e sulle loro criticità. Crotone è tra i primi quattro istituti penitenziari calabresi per indice di affollamento carcerario. Al primo posto figura Locri con un indice del 147, 67%, seguito da Castrovillari con il 136,13%, Cosenza con il 130,59% e al quarto posto Crotone con il 130,30%. Nella Casa circondariale di Passovecchio la capienza è di 99 detenuti, mentre attualmente sono recluse 129 persone. Tra le criticità vi sono anche le carenze di organico: a fronte di una dotazione effettiva di 85 unità, risultano 68 componenti dell’organico amministrativo e uno scoperto di 17 unità. “Un dato che mi preoccupa particolarmente, specie in questi giorni di calura estiva, con temperature che superano costantemente i 30 gradi”, afferma il garante comunale dei detenuti di Crotone, Federico Ferraro. “Mi chiedo se sia questo uno Stato di diritto e se questa condizione rispetti la dignità umana delle persone. Rinnovo, congiuntamente al garante regionale e a tutti colleghi territoriali della conferenza nazionale un forte appello a che le istituzioni legislative e la politica nazionale agiscano senza indugio”. Parma. Formazione digitale in carcere per 10 detenuti dell’Alta Sicurezza gazzettadiparma.it, 6 agosto 2024 È partito Pro.Digi: progetto pilota di formazione digitale in carcere per sostenere l’inclusione sociale e lavorativa Formazione digitale in carcere per favorire l’inclusione sociale e il reinserimento lavorativo. È stato presentato il 19 luglio agli Istituti Penitenziari di Parma, Pro.Digi, il progetto di formazione digitale, rivolto principalmente a persone in esecuzione penale interna o esterna, o sottoposte a misure di comunità in Emilia-Romagna, che punta a creare una seconda opportunità per 100 persone in situazione di fragilità, accompagnandole a maturare competenze digitali per la cittadinanza e l’inclusione, oltre che finalizzate al reinserimento lavorativo. Il progetto, promosso da AECA (capofila), CEFAL Emilia-Romagna e CIOFS FP Emilia-Romagna ETS, e selezionato e sostenuto dal Fondo per la Repubblica Digitale - Impresa Sociale, si avvale della indispensabile collaborazione del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (PRAP) Emilia-Romagna e Marche e dell’Ufficio Interdistrettuale per l’Esecuzione Penale Esterna (UIEPE) Emilia-Romagna e Marche, che hanno sposato il progetto. Alla conferenza stampa di presentazione che si è svolta oggi, 19 luglio 2024, presso la sala Teatro degli Istituto Penitenziari di Parma, hanno preso parte il Dirigente dell’Ufficio III del PRAP Emilia-Romagna e Marche, Marco Bonfiglioli; Laura Torre, Direttrice dell’UDEPE di Parma, Reggio Emilia e Piacenza; la Direttrice Generale del Fondo per la Repubblica Digitale - Impresa Sociale, Martina Lascialfari; Giacomo Sarti di AECA e CEFAL Emilia-Romagna; Silvia Biglietti, Presidente di CIOFS FP Emilia-Romagna ETS e il Comandante della Polizia Penitenziaria di Parma, Massimo Bertini. La fase operativa di Pro.Digi ha preso il via in queste settimane proprio presso gli Istituto Penitenziari di Parma dove, all’interno del reparto di alta sicurezza, e all’esterno nel Comune di Fidenza presso una comunità socioriabilitativa, sono state allestite due aule di informatica e avviata l’attività formativa con due classi complessivamente di 21 persone in esecuzione penale. Ad ottobre sarà organizzato un ulteriore corso per detenuto Media Sicurezza, per ulteriori 10 persone, che potrebbero effettuare anche uno stage esterno. Il coordinamento del progetto in carcere è curato da Giuseppe La Pietra e da Giada Cicchiello di CEFAL. Nel reparto di alta sicurezza l’attività formativa è stata avviata con una classe di dieci detenuti, selezionati dall’Area Giuridico-Pedagogica e dallo sportello di orientamento di AECA, attivo da tempo nell’istituto. In questo caso sono state coinvolte persone con fine pena lunghi, nel tentativo di innescare percorsi per la “cittadinanza digitale” anche in carcere, e per formare comunque persone che possano successivamente lavorare, anche se recluse, negli “spazi lavoro/imprese digitali” interne alle carceri o - se nei termini - accedere alle misure alternative alla detenzione in imprese esterne. Parallelamente alle attività avviate all’interno degli Istituto Penitenziari di Parma, una seconda classe ha iniziato il proprio percorso formativo a Fidenza, presso una comunità socio-riabilitativa. Il gruppo è composto da 11 persone, sia uomini che donne, di cui 6 in pena esecutiva esterna (in carico a UIEPE) e 5 in carico ai servizi sociosanitari (SERT). In futuro, in collaborazione con altri istituto di detenzione, saranno coinvolte soprattutto persone in scadenza di pena, che potranno godere di un accompagnamento personalizzato al reinserimento sociale e lavorativo. Il direttore degli Istituti Penitenziari di Parma, Valerio Pappalardo, primo in Emilia-Romagna, ha accolto con grande convinzione il progetto pilota, e durante la conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa ha riferito: “Sono orgoglioso di dirigere gli Istituti Penitenziari di Parma individuati quali attuatori del progetto pilota di formazione digitale in carcere, per il Provveditorato dell’Emilia Romagna e Marche. Ben lungi dall’essere il solito corso di informatica, Pro.Digi consentirà ad una rosa di detenuti di acquisire non solo nozioni di alfabetizzazione informatica ma, altresì, competenze propedeutiche alla creazione e consultazione del fascicolo personale digitale per la cittadinanza e l’inclusione. Il progresso avanza e l’obiettvo è quello di restituire alla società soggetti migliori, in grado di inserirsi in un contesto esterno senza sentire il peso dell’isolamento causato dal periodo trascorso in carcere, luogo in cui talvolta pare fermarsi il tempo, mentre tutto fuori cambia e si evolve”. Per raggiungere gli obiettivi prefissati, la proposta formativa di Pro.Digi si articola in tre distinte fasi: La prima consiste nell’intercettare e selezionare i beneficiari dei corsi, costruire i percorsi (individuali, o di gruppo) per livello di competenza e riallineare le competenze dei partecipanti con corsi di lingua italiana o di pre-alfabetizzazione digitale; Nella seconda fase vengono sviluppati i moduli di formazione digitale: i percorsi sono svolti in presenza da esperti formatori digitali, presso aule e laboratori informatici attrezzati, tramite sessioni di micro-learning. Sono previsti anche cicli di accompagnamento orientativo: skills balance, consolidamento delle autonomie, ricerca attiva del lavoro; Infine, nella terza fase, viene garantito supporto ai corsisti nel loro percorso di inserimento lavorativo, in collaborazione con gli enti partner e le Agenzie per il lavoro ad essi collegate. Il progetto è stato selezionato e sostenuto dal Fondo per la Repubblica Digitale - Impresa sociale. Il Fondo per la Repubblica Digitale è nato da una partnership tra pubblico e privato sociale (Governo e Associazione di Fondazioni e di Casse di risparmio - Acri) e, in via sperimentale per gli anni 2022-2026, stanzia un totale di circa 350 milioni di euro. È alimentato da versamenti effettuati dalle Fondazioni di origine bancaria. L’obiettivo è accrescere le competenze digitali e sviluppare la transizione digitale del Paese. Per attuare i programmi del Fondo - che si muove nell’ambito degli obiettivi di digitalizzazione previsti dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) e dall’FNC (Fondo Nazionale Complementare) - a maggio 2022 è nato il Fondo per la Repubblica Digitale - Impresa sociale, organizzazione senza scopo di lucro interamente partecipata da Acri. Per maggiori informazioni www.fondorepubblicadigitale.it. “Secondo l’ultimo report Istat sulle competenze digitali, nel 2023 nel nostro Paese solo il 45,9% degli adulti possiede competenze digitali adeguate, oltre un terzo (36,1%) ha competenze insufficienti e il 5,1%, pur essendo utente di Internet, non ha alcuna competenza. Questa carenza da un lato limita i diritti di cittadinanza di buona parte della popolazione, dall’altra penalizza i processi di crescita del Paese, che affronta la transizione digitale con un ampio digital skill mismatch. Per contribuire a contrastare questi effetti negativi e coglierne tutte le opportunità è nato il Fondo per la Repubblica Digitale, una virtuosa partnership tra pubblico (Governo) e privato sociale (Fondazioni di origine bancaria), che si prefigge l’obiettivo di migliorare le competenze digitali del Paese. In par-colare il bando Prospettive, nell’ambito del quale è stato selezionato e sostenuto il progetto Pro.Digi, mira ad accompagnare lo sviluppo delle competenze digitali di donne e uomini ai margini del mercato del lavoro - disoccupati e inattivi, tra i 34 e i 50 anni, per offrire loro migliori opportunità e condizioni di inserimento e permanenza nel mondo del lavoro. Affinché il digitale sia davvero un’opportunità per il Paese ci impegniamo affinché nessuno rimanga indietro: per questo sosteniamo un progetto come Pro.Digi, che si rivolge principalmente a persone in esecuzione penale o sottoposte a misure di comunità” - ha dichiarato Martina Lascialfari, Direttrice Generale del Fondo per la Repubblica Digitale - Impresa Sociale, che è intervenuta personalmente alla conferenza stampa. “Crediamo fortemente nella funzione sociale di questo progetto - racconta il direttore dell’area Formazione Adulti e Servizi per il Lavoro di AECA, Massimo Peron -. AECA associa 13 enti di formazione professionale in Emilia-Romagna, promossi da enti di ispirazione cristiana, alcuni di origine secolare. Attraverso le attività dei suoi centri associati, AECA favorisce l’ingresso nel mondo del lavoro di persone fragili e vulnerabili in raccordo con i servizi territoriali di riferimento. Il lavoro che s-amo conducendo attraverso i nostri associati CEFAL Emilia Romagna e CIOFS FP Emilia-Romagna nell’ambito di Pro.Digi va proprio in questa direzione: lo strumento digitale può essere centrale nel dare una seconda opportunità - a livello sociale e lavorativo - alle donne e agli uomini che ne beneficeranno, integrandosi con le diverse attività di formazione professionale che da anni conduciamo in diversi carceri e servizi di esecuzione penale esterna sul territorio emiliano-romagnolo. Contiamo così di poter contribuire a dar vita a tanti “nuovi inizi digitali”“. Complessivamente sono stati finanziati dal Fondo per la Repubblica Digitale - Impresa Sociale, nell’ambito di Pro.Digi, 10 percorsi formativi da 183 ore ciascuno (più 10 individuali), che andranno a intercettare complessivamente 100 destinatari. Dopo le prime due classi attivate nel territorio parmense e dopo quella che partirà in autunno, Pro.Digi verrà realizzato in altre aree della Regione Emilia-Romagna, grazie al lavoro condotto in sinergia con il PRAP e l’UIEPE Emilia-Romagna e Marche. In autunno partiranno nuovi corsi nelle carceri di Bologna, Ferrara, e a Modena, Reggio Emilia e Piacenza in esterno. Da gennaio 2025 saranno coinvolti anche gli Istituti di Reggio Emilia e Castelfranco Emilia e l’UEPE di Bologna. Un dialogo è stato intavolato anche con gli Istituti Penitenziari di Rimini e Ravenna. Ogni Istituto/UEPE formerà una classe composta da dieci persone in esecuzione penale di età compresa tra i 34 e i 50 anni. Sassari. Storie di detenuti e di riscatto: a Ploaghe i fratelli Gazale presentano il loro libro di Mariangela Pala L’Unione Sarda, 6 agosto 2024 Il lavoro racconta oltre 10 anni di attività dentro e fuori dalle sbarre di un gruppo di detenuti. Mercoledì 7 agosto, alle ore 21, presso l’anfiteatro del Convento a Ploaghe, nell’ambito delle manifestazioni dei Candelieri e del Ferragosto Ploaghese, si terrà un evento di grande interesse sociale con la presentazione del volume “Liberamente a teatro, percorsi di vita tra carte d’archivio e colonie penali”, appena pubblicato da Carlo Delfino Editore, curato dai due fratelli Vittorio e Alessandro Gazale, il primo direttore del Parco Nazionale dell’Asinara, e già direttore del Parco di Porto Conte, ed il secondo insegnante, attore e regista. L’incontro, moderato da Giovanni Salis, oltre agli autori, vedrà la partecipazione del sindaco di Ploaghe Carlo Sotgiu per i saluti istituzionali e di Antonello Pilo che presenterà diverse esperienze di volontariato in carcere. Una serata dedicata ai temi del carcere tra immagini e testimonianze che ricorderà oltre 10 anni di attività un po’ dentro e un po’ fuori svolte da un gruppo di detenuti e che vede la centralità dell’area educativa della casa circondariale di Sassari con il coordinamento della responsabile dell’area educativa Ilenia Troffa ed il coinvolgimento della casa di reclusione di Alghero. Si parlerà dell’esperienza dello studio dei vecchi archivi delle ex Colonie penali di Tramariglio e dell’isola dell’Asinara, attraverso l’attivazione di decine di borse di lavoro che hanno coinvolto una cinquantina di detenuti. L’avvio di una compagnia teatrale nata all’interno della struttura detentiva che ha impegnato una ventina di attori nella scrittura di un copione prima e nella messa in scena dopo. La recita richiama il lavoro archivistico, integralmente documentato nel volume. Tutta l’attività è inserita anche all’interno delle proposte dell’associazione “Oltre i muri”, che raggruppa e legittima i volontari che operano all’interno del carcere. Tutto il lavoro svolto è dedicato alla memoria della direttrice del carcere di San Sebastiano e di Bancali Patrizia Incollu, recentemente scomparsa durante lo svolgimento del suo servizio, che ha seguito e incoraggiato il progetto dai primi studi archivistici sino alle rappresentazioni teatrali. “La Lunga Discesa”: un racconto a fumetti per spezzare la catena della violenza di Kento* Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2024 La prima regola è: non piangere. Le emozioni non vanno mai palesate, ma tenute dentro finché non esplodono nella rabbia più cieca. La seconda regola è il silenzio: silenzio che vuol dire omertà di fronte alla polizia ma che diventa anche lo strumento per rendere le tue prossime mosse imprevedibili da parte dei rivali. La terza e ultima regola è: vendicarsi sempre. Nonostante i dubbi, nonostante le incertezze. Vendicarsi sempre. Non spezzare mai la catena della violenza fin quando tu stesso non ti ritroverai ad esserne vittima, e a perpetuare la maledizione su chi lascerai dietro di te a soffrire. L’aspetto più reale e angosciante di queste tre spietate regole, intorno alle quali gira il graphic novel tratto dal romanzo La Lunga Discesa di Jason Reynolds, è che potrebbero essere applicate ovunque. Nei quartieri afroamericani delle metropoli statunitensi così come nei paesini a poca distanza dalla mia Reggio Calabria, quelli martoriati dalle faide e decimati dalla lupara. Altrettanto preoccupante è rendersi conto che, purtroppo, la storia dalle tinte shakespeariane raccontata nel libro è senza tempo, e che i fantasmi amletici del giovane protagonista si aggirano ancora troppo spesso nelle celle delle carceri minorili ma anche per le strade e nei campetti accanto a cui passiamo ogni giorno. Il fumetto diventa uno strumento straordinario per asciugare il racconto e renderlo essenziale, con le illustrazioni di Danica Novgorodoff che danno una terza dimensione sognante e poetica alle parole crude e affilate di Reynolds. La musica che sembra di sentire in sottofondo è ovviamente il ritmo incessante del rap: un altro elemento che, al giorno d’oggi, rende La Lunga Discesa un’opera assolutamente trasversale dal punto di vista geografico. Tratto dal romanzo bestseller celebrato in maniera corale dalla stampa e dagli esperti d’oltreoceano e vincitore di riconoscimenti tra cui il Coretta Scott King Honor, istituito in onore della vedova di Martin Luther King, il libro arriva oggi in Italia per Tunuè in un’edizione a fumetti ricca e accuratissima, con la bella postfazione del rapper Amir Issaa che aggiunge un’ulteriore prospettiva alla lettura. Per quanto mi riguarda, ne sono stato colpito già dalla dedica iniziale ai giovani detenuti. Nei miei laboratori di scrittura dentro le carceri minorili ho spesso riconosciuto queste stesse interiorità sofferenti, questa stessa incapacità di spezzare il cerchio della violenza. Soltanto lavorando insieme a questi ragazzi, non scordandoci di loro, cercando di creare e di dare percorribilità a una vera alternativa potremo aiutarli prima che la loro lunga discesa arrivi alla consueta, tragica, conclusione. *Rapper e scrittore Luci e ombre: un test rapido per la nostra democrazia di Sabino Cassese Corriere della Sera, 6 agosto 2024 I governi inseguono il consenso immediato e facile, mettendo da parte problemi e scelte importanti. Dobbiamo preoccuparci per lo stato della democrazia in Italia? Un giudizio all’ingrosso non si può dare: è consigliabile passare in rassegna analiticamente aspetti positivi e negativi, e poi trarre un bilancio finale. La democrazia, in Italia, si declina al plurale: i cittadini possono scegliere liberamente i loro governanti locali, regionali, nazionali ed europei, e possono farlo optando per soluzioni diverse ai diversi livelli, e quindi attivando una produttiva dialettica tra gli enti, che possono autogovernarsi, dandosi indirizzi politici differenti l’uno dall’altro. Ne beneficiano democrazia e pluralismo. In secondo luogo, c’è una sufficiente poliarchia, intesa come opportunità di opporsi ai detentori dei posti di governo, per cui tra i poteri si attivano conflitti (talora eccessivi): basti pensare a quelli tra politica e giustizia. In terzo luogo, sono attivi contropoteri, come quello della Corte costituzionale, organo a composizione eterogenea (a differenza della Corte suprema americana), che non ha mai rinunciato al suo ruolo di attivo controllore delle leggi. Quarto: si è sempre fatta sentire la voce, talora più forte, altre volte più discreta, dei poteri neutri, a cominciare da quella del presidente della Repubblica. Poiché - come ha dimostrato esaurientemente, di recente, Alessandro Mulieri (Contro la democrazia illiberale. Storia e critica di un’idea populista, Roma, Donzelli) - non esiste una democrazia illiberale, in quanto la democrazia è costruita sulle libertà, si può annoverare tra gli aspetti positivi della democrazia italiana il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, a cominciare da quella di manifestazione del pensiero e da quella di associazione. Contro l’attivo del bilancio, c’è il passivo, a cominciare dalla partecipazione dei cittadini, che è andata decrescendo nel corso della storia repubblicana: i partiti, una volta potenti macchine di trasmissione della volontà popolare, hanno perduto iscritti e sono divenuti gusci vuoti, incapaci di un’autentica democrazia interna e di presentare un’offerta politica consistente in programmi che convoglino la domanda politica popolare. Oggi, purtroppo, sull’arte del governare predomina l’arte del guadagnare voti, con la conseguenza che i rapporti tra interessi organizzati e governo non sono più filtrati dalla politica e che quindi prevale il corporativismo. I poteri, al centro, non sono separati: il governo è diventato legislatore, e il Parlamento, che non è mai riuscito a svolgere il ruolo di controllore dell’esecutivo, si limita a convertire in legge i decreti del governo; la magistratura, che dovrebbe essere indipendente, è invece dappertutto, impegnata in ogni ruolo, normativo, esecutivo, di decisione, onnipresente nello spazio pubblico, incapace di coltivare le “virtù passive”, con la conseguenza che non è più la least dangerous branch. Il principio del merito, che dovrebbe assicurare al Paese una burocrazia imparziale ed efficiente, è rispettato a fasi alterne, con la conseguenza di politicizzare la macchina dello Stato e di diminuirne il tasso di epistocrazia (cioè la competenza). Quanto ai diritti, vi sono aree nelle quali è troppo fitta la tela repressiva (così nei confronti degli immigrati, di cui l’Italia ha sempre più bisogno); aree nelle quali non è rispettato il criterio costituzionale del “senso di umanità” (così nei confronti dei carcerati); aree nelle quali i diritti civili di ultima generazione incontrano difficoltà ad essere riconosciuti; aree nelle quali il dissenso non è accolto con quel grado di tolleranza che una democrazia matura dovrebbe assicurare; aree nelle quali sarebbe auspicabile una maggiore distanza dalla politica dei partiti (così per le televisioni); aree nelle quali troppe sono le diseguaglianze o troppo grandi le disparità. Il lettore avrà compreso che non tutti questi tratti della democrazia sono ascrivibili al disegno istituzionale, perché alcuni dipendono dai cittadini stessi (ad esempio, la scarsa partecipazione elettorale e politica in generale), e che meriti e demeriti non possono essere assegnati ad un solo governo (ad esempio, la penetrazione della magistratura all’interno degli altri poteri, le sue esondazioni, hanno almeno un quarantennio di vita e dipendono in parte dall’abbassamento delle garanzie costituzionali di immunità). Provo a tirare le fila di questa rassegna di luci ed ombre. La democrazia italiana merita un punteggio migliore di quello attribuitole dall’Economist Intelligence Unit, di 7,69 su 10, che la colloca tra le democrazie imperfette, al trentaquattresimo posto nella graduatoria dei 167 regimi esistenti al mondo. Ma questo non vuol dire che non sono necessarie correzioni, come quelle suggerite da Mario Monti, autore di un libro significativamente intitolato Demagonia. Dove porta la politica delle illusioni (Milano, Solferino 2024), in cui lamenta che i governi inseguono il consenso immediato e facile, mettendo da parte problemi e scelte importanti. Il fatto è che a questa seconda trasformazione della democrazia italiana si è arrivati fin qui senza una direzione, senza la consapevolezza di uno scopo da raggiungere. In questa situazione, l’allarme lanciato da alcuni sulle riforme in corso, il premierato al centro e le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia regionale (il cosiddetto regionalismo differenziato) in periferia, sembra eccessivo, anche perché non considera i benefici che da esse possono conseguire. Migranti. Fiamme all’interno del Cpr di Palazzo San Gervasio (Pz) dopo la morte di un 19enne di Carlo Vulpio Corriere del Mezzogiorno, 6 agosto 2024 “Picchiato e lasciato morire”. Tensione al Centro di permanenza per i rimpatri, già oggetto ti un’inchiesta sugli psicofarmaci somministrati agli ospiti più problematici. Scoppia la protesta. L’incendio divampato intorno alle 21 di questa sera nel Cpr di Palazzo San Gervasio (Potenza) ha avvolto un intero modulo della struttura e lo ha carbonizzato. Il fuoco è stato appiccato dagli immigrati internati nel Cpr per protesta a causa della morte di un ragazzo di 19 anni, di cui al momento si conosce solo il nome, Osama. Il quale sarebbe deceduto, secondo le prime testimonianze di alcuni altri internati, “per le botte ricevute” e per la mancanza di cure, nonostante le invocazioni di aiuto da parte degli immigrati del Cpr. Sul centro di Palazzo San Gervasio, dopo lo scoop di Striscia la Notizia sulle violenze e la somministrazione di psicofarmaci agli internati, la magistratura potentina ha già chiuso una inchiesta che vede indagate 27 persone. Migranti. Albania, slitta ancora l’apertura dei Centri di detenzione italiani di Alessandra Ziniti La Repubblica, 6 agosto 2024 Lavori in ritardo, il via sarà solo alla fine di un’estate con pochi sbarchi. Il 20 agosto arriverà il contingente italiano che gestirà le due aree. Il primo collaudo del Genio militare, per aprire solo una parte del centro di detenzione di Gjader, è fissato per il 20 di agosto, il secondo che invece dovrebbe dare l’ok alla consegna definitiva al Viminale per l’1 settembre. E per il 20 agosto è prevista anche la partenza del primo contingente di 500 uomini tra polizia, carabinieri e guardia di finanza che dovrà assicurare l’operatività del protocollo Albania. Dunque, rispetto alle prime date, quella dell’1 agosto annunciata dalla premier Giorgia Meloni nella sua visita a Tirana, e quella successiva del 10 agosto comunicata ai vari tavoli tecnici che da settimane si susseguono ai ministeri dell’Interno e della giustizia, si continua a slittare. L’estate della non emergenza - Poco male visto che questa non è certo un’estate di emergenza per i flussi migratori in calo consolidato del 63 % (il dato più basso dall’estate del Covid) e negli hotspot e nei centri di accoglienza italiani c’è posto ovunque. Basti pensare che a settembre 2023 a Lampedusa arrivarono in un sol giorno 5.000 persone, tante quante ne sono sbarcate ora in tutto luglio. Dunque le premesse meno adatte a giustificare una spesa da quasi un miliardo di euro, quanto è previsto che costino i centri in Albania nei prossimi cinque anni. Lavori ancora indietro a Gjader - Ma cattiva qualità del terreno e caldo remano contro. Nell’area di Gjader le imprese che stanno lavorando alla realizzazione del centro di trattenimento dei richiedenti asilo, del Cpr e del piccolo carcere hanno enormi problemi ancora con le opere di urbanizzazione e l’1 agosto i pochi moduli abitativi montati non avevano neanche l’allaccio della corrente elettrica. Di pronto non c’è neanche la stradella che porterà direttamente alle casette in cui verranno detenuti i richiedenti asilo provenienti da Paesi sicuri, quattro per stanza in due letti a castello come si intravede nei prefabbricati dove, al momento, non c’è traccia di aria condizionata. E a queste temperature all’interno dell’Albania, che costringono gli operai a lavorare solo all’alba o dal tardo pomeriggio, la permanenza sarebbe proibitiva. Nessuna informazione sull’operatività - “I centri italiani in Albania stanno per diventare operativi”ha garantito il 30 luglio in commissione antimafia il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Ma proprio sull’operatività dei centri quasi nessuno sa nulla. Non le forze di polizia che a Shengjin da due mesi vigilano sull’hotspot pronto ma deserto, con una spesa da 50.000 euro al mese tra diaria, vitto e alloggio in due hotel che (per loro fortuna) non sono come le navi del G7 in Puglia. I tavoli tecnici non hanno ancora comunicato nessuna informazione su come funzionerà la quotidianità nei due centri: a Shengjin dovrà essere garantita una identificazione approfondita dei migranti portati lì dopo il primo smistamento che invece avverrà direttamente sulle navi militari italiane dove, non si sa bene come e chi potrà essere in grado di stabilire se le persone soccorse in mare provengano realmente dai cosiddetti Paesi sicuri e non presentino condizioni di vulnerabilità. Nell’hotspot le persone dovranno essere rifocillate, fatte lavare nelle dieci docce installate, visitate in infermeria, dovrà essere loro chiesta l’intenzione di presentare richiesta d’asilo e notificato il decreto di fermo del questore di Roma. E poi, passando dal territorio albanese, bisognerà effettuare le traduzioni dei migranti che nel frattempo verranno posti in stato di detenzione amministrativa sempre che, entro 48 ore, i giudici della sezione immigrazione di Roma convalidino il fermo con i migranti collegati in videoconferenza. Dieci gli schermi già montati nelle aule del tribunale di Roma, al momento nessuno in Albania. I soccorsi in mare - Anche chi dovrà operare in mare è ancora in attesa di istruzioni. Chi dovrà soccorrere e soprattutto dove i migranti da portare in Albania? Presumibilmente i mezzi della nostra guardia costiera che operano sulla rotta tunisina dove è più probabile intercettare persone che arrivano da Paesi sicuri piuttosto che su quella libica dove la maggior parte dei migranti sono stati torturati e dunque sono vulnerabili o arrivano da Paesi non sicuri. Ma è proprio dalla Libia che ormai si registra il 70 % delle partenze e dunque, per paradossale che sembri, non sarà facile mettere insieme un gruppo di uomini adulti non vulnerabili da destinare all’Albania. Dove, verranno portati da navi militari italiane ma solo fino al 15 settembre, poi entrerà una nave privata appositamente noleggiata. Sempre che si faccia a tempo ad esaudire il desiderio di Giorgia Meloni: un viaggio, almeno uno, prima della fine di agosto. Costi quel che costi. Migranti. A Tripoli c’è una prigione a cielo aperto per i profughi eritrei di Paolo Lambruschi Avvenire, 6 agosto 2024 Nella capitale libica rastrellamenti di massa da parte dei miliziani per estorcere con violenze e torture i riscatti alle famiglie. L’altra faccia del blocco delle partenze e dei respingimenti in mare. Profughi eritrei braccati nei quartieri ghetto di Tripoli dalle milizie, come nel terribile 2017. Costretti a vivere in trappola, senza sbocchi verso il Mediterraneo o la Tunisia, chiusi in casa per evitare l’arresto nei rastrellamenti di massa e torturati nei centri di detenzione per estorcere riscatti alle famiglie. Il silenzio calato sulla capitale libica negli ultimi mesi e il calo delle partenze che da questa sponda del Mediterraneo è reputato un successo celano una realtà dimenticata di sofferenze e disumanità destinata a peggiorare, come confermano le testimonianze raccolte in Italia dal gruppo di oppositori del regime Eritrea democratica. Va sempre ricordato che dal paese del Corno d’Africa si fugge da una dittatura spietata. “La guerra in Tigrai prima - spiega l’attivista Abhram Tesfay -, poi le tensioni in Etiopia e da oltre un anno la guerra civile in Sudan hanno spinto un grande flusso di rifugiati eritrei sulla rotta verso la Libia. Ma dopo aver pagato i trafficanti per uscire dal Sudan sono bloccati da mesi a Tripoli. Chi parte sui barconi rischia infatti di venire ripreso dalla guardia costiera libica e finire in prigione dalla quale si esce solo pagando un riscatto. Anche la Tunisia è chiusa, le guardie sparano sui migranti al confine e chi infine passa in Egitto rischia di finire in cella a tempo indeterminato e poi di venire rimpatriato inEritrea dove lo attende la prigione”. La presenza a Tripoli di un numero crescente di profughi eritrei, le cui famiglie notoriamente pagano sempre i riscatti, ha scatenato una vera e propria caccia da parte dei miliziani in cerca di guadagni. Secondo le loro testimonianze la libertà dalle galere tripoline costa almeno 2.000 dollari. L’odissea di Selam Negasi, 27 enne fuggita dalle campagne eritree e dalla leva a vita è una sintesi eloquente. È stata ingannata insieme ad altre compagne di viaggio da un trafficante eritreo, Dejen, che aveva promesso di portarla in Italia per 6.000 dollari passando dal Sudan. Ma a Kufra, prima oasi in Libia, il prezzo del viaggio è lievitato a 7.500 dollari e chi come lei non poteva pagare è stato rinchiuso, torturato e violentato fino al pagamento della somma che l’ha portata a Tripoli. “Qui - racconta la giovane - ho fatto un’altra raccolta di soldi tra parenti e conoscenti e ho dato 3.000 dollari a Ibrahim, un altro trafficante eritreo, per attraversare il Mediterraneo”. Ma il criminale la porta a Zwara, la spiaggia delle partenze, per rinchiuderla in una casa per tre mesi finché la polizia libica non l’arresta durante una retata e la porta ad Abuselim, centro di detenzione tripolino. “Eravamo circa 300 eritree - aggiunge -. Le poliziotte erano cattive e razziste, ci trattavano come animali. Mi sono ammalata e quando pensavo di morire finalmente mi hanno ricoverato nell’ospedale del carcere. Ho provato a condividere le mie sofferenze con una poliziotta, ma mi ha detto che mi avrebbe fatto uscire solo pagando 2.000 dollari e mi ha fatto chiamare i parenti. Dopo aver preso il denaro, la poliziotta mi ha fatto uscire di nascosto. Sono andata in città a cercare i miei connazionali che mi hanno accompagnato all’ufficio dell’Unhcr dove non hanno potuto aiutarmi, ma mi hanno registrato. Rischiamo tutti i giorni di essere arrestati nei rastrellamenti continui. Vorrei partire dalla Libia, ma non so come fare”. Nemmeno Berhe lo sa. Vive in Libia dal 2020 ed è stato imprigionato così tante volte da aver perso il conto. “Ho speso 25.000 dollari per tornare libero, ma non riesco mai ad attraversare il mare”. Berhe è uno dei sopravvissuti agli orrori delle gang dei trafficanti di organi del Sinai quando la chiusura delle coste della Libia fatta da Gheddafi su richiesta italiana aveva spostato le rotte in Egitto. È stato in Israele dal 2011 al 2018. Dopo è stato espulso dal governo in Ruanda, ma da lì è tornato nel paese nordafricano nel 2019. “Sono registrato dall’Unchr. L’ultima volta che mi hanno arrestato? Il 30 giugno. Di notte è arrivata la polizia e ho pagato.2.000 euro per non venire arrestato. Vivo nascosto in casa, per la paura non dormo più. Conosco almeno 20 persone impazzite. Tanti hanno la tbc, ma gli ospedali non ci curano”. Yorsalem vive a Tripoli da tre anni e anche lei ha pagato più di 20.000 dollari poliziotti e trafficanti per restare libera. “L’ultimo rastrellamento è stato a maggio 2024 - ricorda - mi hanno portato ad Abuselim e sono uscita pagando 2.000 dollari”. L’unica speranza per questi disperati sono i corridoi umanitari verso l’Italia o i paesi occidentali, ma i posti sono pochi. In Turchia, intanto, paese che in Tripolitania ha un peso sempre crescente. 200 detenuti eritrei in cella da 11 mesi ad Aydin per immigrazione illegale hanno scritto una lettera ai connazionali in cui denunciano il rischio di venire deportati nell’Eritrea dalla quale sono fuggiti. Una violazione palese dei diritti umani, ma nessuno nella Ue così solerte verso diritti delle minoranze osa dire nulla a Erdogan e al suo sodale di Asmara Isayas Afewerki. Medio Oriente. Il rapporto sugli abusi sistematici contro i palestinesi nelle carceri israeliane ilpost.it, 6 agosto 2024 Lo ha diffuso l’ong B’Tselem dopo aver parlato con più di 50 ex detenuti, e dice che la situazione è peggiorata molto dopo gli attacchi del 7 ottobre. L’ong israelo-palestinese B’Tselem ha diffuso un lungo rapporto sulla situazione nelle carceri israeliane, definite “campi di tortura”, e sui sistematici abusi subiti dai prigionieri palestinesi. Il rapporto è intitolato “Benvenuti all’inferno” e si basa sulle testimonianze di 55 persone palestinesi detenute dopo lo scorso 7 ottobre, nella maggior parte dei casi senza accuse e senza processo (il 7 ottobre fu il giorno del feroce attacco di Hamas in Israele a cui seguì l’invasione israeliana nella Striscia di Gaza). Queste persone sono state poi rilasciate. Le conclusioni di B’Tselem non sono così sorprendenti, visto che già negli scorsi mesi erano state pubblicate inchieste sulle condizioni dei detenuti palestinesi in alcune carceri israeliane: forniscono comunque nuovi dettagli e mostrano la sistematicità degli abusi. Secondo B’Tselem, nelle carceri israeliane i detenuti palestinesi vengono “deliberatamente sottoposti a sofferenze dure e continue”, in violazione delle norme nazionali e del diritto internazionale. La ong sostiene che le violazioni sarebbero così sistematiche da far pensare a un ruolo diretto delle autorità israeliane responsabili del sistema carcerario, e quindi non a episodi di violenza isolati. Il sistema carcerario è di competenza di Itamar Ben Gvir, il ministro per la Sicurezza nazionale noto per le sue posizioni estremiste e anti-palestinesi. Secondo i dati dell’organizzazione umanitaria HaMoked, al 1° di agosto nelle carceri israeliane c’erano 9.881 detenuti palestinesi. Tra i vari problemi rilevati da B’Tselem ci sono il sovraffollamento delle celle (in una da sei posti possono stare fino a 14 detenuti, alcuni dei quali costretti a dormire per terra senza materassi né coperte), la mancanza di acqua potabile e di luce naturale, l’aria insalubre, le confische degli oggetti personali e le frequenti perquisizioni delle celle, dalle tre alle cinque volte al giorno. In questi casi i detenuti vengono obbligati a posizionarsi con la faccia contro il muro, la testa abbassata e le mani intrecciate dietro la schiena. Vengono inoltre negate loro le cure mediche, e non possono mangiare né dormire a sufficienza. Molte delle persone arrestate hanno dovuto aspettare settimane o mesi prima di vedere un giudice, e spesso le udienze si sono svolte online direttamente dal carcere, in situazioni in cui i detenuti erano controllati dalle guardie e non potevano esprimersi liberamente. Durante il periodo di reclusione molti non hanno potuto parlare con un avvocato o con un rappresentante delle organizzazioni per i diritti umani. Gli ex detenuti intervistati sono stati sistematicamente picchiati. “Mi sono accasciato contro il muro. Avevo le costole rotte ed ero ferito alla spalla destra, al pollice e a un altro dito della mano destra. Non sono riuscito a muovermi o a respirare per mezz’ora”, ha detto per esempio Ashraf al Muhtaseb, un uomo di 53 anni di Hebron, in Cisgiordania, arrestato l’8 ottobre del 2023 e detenuto nelle prigioni di Etzion, Ofer e Negev. “Vivevamo nella paura e nel panico”, ha detto Khaled Abu ‘Ara, detenuto nella prigione di Negev. S.B., un altro detenuto rimasto anonimo, ha detto che dopo il 7 ottobre del 2023 i detenuti venivano “puniti regolarmente” dall’amministrazione delle carceri. In un comunicato il Sistema carcerario israeliano (IPS) ha negato le accuse: “Non siamo a conoscenza delle accuse che avete descritto e, per quanto ne sappiamo, non sono successe cose simili sotto la responsabilità dell’IPS”. Come detto, gli abusi nel sistema carcerario israeliano non sono una novità, e anzi casi simili erano già stati denunciati in passato da diverse associazioni per i diritti umani e inchieste giornalistiche. Finora però Israele ha quasi sempre negato le accuse. Un’eccezione c’è stata la settimana scorsa, quando la polizia militare israeliana ha arrestato nove soldati che lavoravano nella base militare di Sde Teiman, con l’accusa di aver abusato di un detenuto palestinese. Molte persone israeliane hanno iniziato però a manifestare a sostegno dei soldati, hanno fatto irruzione nella struttura e ci sono stati scontri con la polizia militare.