Le norme “burla” sulla riforma penitenziaria di Edoardo Patriarca vita.it, 5 agosto 2024 Affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare per chi ha più di 70 anni ed è affetto da gravi patologie, mille agenti di Polizia penitenziaria in più. Ma non basta: c’è bisogno di interventi strutturali e l’ascolto degli operatori sociali impegnati nel settore, si tengano a distanza quelli del “lasciarli dentro e buttare la chiave”. Salvo cambi dell’ultima ora, questa è l’ultima settimana di lavoro del Parlamento. Nelle assemblee di Camera e Senato si voterà la conversione in legge del ddl 1206 recante disposizioni urgenti per le infrastrutture e gli investimenti di interesse strategico, per il processo penale e in materia di sport, già approvato dalla Camera dei deputati; e il ddl C. 2002? DL 92/2024 recante misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia. Qualche osservazione su quest’ultimo disegno di legge al centro di un confronto piuttosto acceso tra maggioranza e opposizioni, e di interventi piuttosto articolati delle organizzazioni di Terzo settore impegnate all’interno degli Istituti penitenziari. Parto dalle dichiarazioni di Zangrillo, ministro della Pubblica Amministrazione ed esponente di Forza Italia, che in una intervista rivendica l’introduzione di “misure importanti per far fronte ai principali problemi degli istituti di pena, tra cui il sovraffollamento, con l’obiettivo di umanizzarle…per trasformarle in un vero luogo di rieducazione”. Tra le misure, parla sempre il ministro, spiccano l’affidamento in prova ai servizi sociali, la detenzione domiciliare per chi ha più di 70 anni ed è affetto da gravi patologie, la possibilità per i tossicodipendenti di scontare la pena in comunità terapeutiche che affrontano percorsi di disintossicazione; l’assunzione straordinaria di mediatori culturali che raggiungono il pieno organico, quella di mille agenti di polizia penitenziaria e di 20 unità dirigenziali; l’aumento del numero di telefonate mensili concesse ai detenuti, l’istituzione di un commissario per l’edilizia carceraria, un elenco delle strutture residenziali destinate ad accogliere coloro che hanno i requisiti per accedere alle misure penali di comunità. Come non si può essere d’accordo, hanno dichiarato le opposizioni e le associazioni di volontariato attive dentro le carceri! Ma la questione vera è che queste norme sono a detta di molti una “burla”, misure bandiera inutili per contrastare il sovraffollamento (14mila persone detenute in più rispetto ai posti disponibili e i suicidi (67 da inizio anno oltre agli 800 sventati dalla polizia, a cui si aggiungono 6 suicidi tra gli agenti). Provo ad evidenziare i punti critici che mettono in discussione l’efficacia del provvedimento. Le assunzioni di mille agenti sono una goccia d’acqua rispetto ad una carenza di circa 20mila unità; la norma per semplificare la liberazione anticipata dei detenuti a detta di alcuni esperti complica piuttosto che agevolare; la possibilità di scontare ai domiciliari la pena tra 2 e 4 anni per gli ultra 70enni in gravi condizioni di salute sono un palliativo: su 62mila detenuti, gli ultra settantenni sono circa 1500, compresi ergastolani, recidivi e reati ostativi, che riducono il numero dei beneficiari a poche centinaia di persone; bocciata la proposta di modificare la legge Gozzini del 1981 per portare da 45 a 60 i giorni di sconto ogni 6 mesi per buona condotta. Non ultimo, i Garanti territoriali dei detenuti hanno dichiarato che “il Parlamento ha perso l’occasione di dare ascolto alle proposte dei Garanti, delle Camere penali, dei magistrati e degli operatori del Terzo settore”. Non solo, le associazioni chiedono interventi strutturali per ridurre l’area di intervento penale (1/3 dei detenuti è in attesa di giudizio e 1/3 sono stranieri) depenalizzando i reati legati alla tossicodipendenza e di carattere psichiatrico. Il contrario di quello che ha fatto sin qui il Governo creando nuovi reati e aumenti di pena, come avvenuto per il decreto Caivano, che porta in carcere anche i minorenni, provvedimenti che hanno aumentato del 7% le detenzioni. Il Ministro Nordio ha promesso un altro provvedimento. Bene, saremo disponibili al confronto. Mi permetto una raccomandazione ministro, dia ascolto agli operatori impegnati nel settore e tenga a distanza quelli del “lasciarli dentro e buttare la chiave”. Il pacchetto-carceri e le sfide irrisolte del sistema penitenziario di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 5 agosto 2024 È imprescindibile che il sistema penitenziario adotti un approccio equilibrato e inclusivo, affrontando le sfide del sovraffollamento con soluzioni che vadano oltre l’espansione delle strutture carcerarie e che comprendano misure alternative, supporto sociale e un risarcimento adeguato alle vittime. Il recente pacchetto-carceri, approvato dal Senato della Repubblica, rappresenta un primo passo verso la soluzione dei gravi problemi di sovraffollamento, disagi e suicidi tra detenuti e personale di custodia, incluso l’ultimo caso di un agente sul muro di sentinella all’Ucciadone. Tuttavia, è evidente che questo nuovo approccio ha ignorato alcune sfide fondamentali, come la mancanza di una vera attenzione alle soluzioni delle pene non detentive, che comprendono benefici legali come le misure previste dalla legge 354/75 aggiornate e contesti di accoglienza alternativi. Il pacchetto-carceri include misure come la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali e l’espiazione della pena nelle comunità terapeutiche. Tuttavia, queste misure presenti nella legge 354/75 sono rimaste al disotto del loro potenziale a causa della cronica mancanza di strutture esterne al carcere in grado di garantire un’adeguata accoglienza per coloro che erano privi di supporti esterni, che da una dirigenza prevalentemente carceraria con un pensiero operativo opposto di quello che sovraintende il non carcere. L’idea di utilizzare caserme dismesse per ospitare i beneficiari di tali misure alternative in quanto privi di ogni risorsa esterna è stata proposta nel passato più volte, dal 1991, ripresa nel 1999 e formalizzata in un progetto nel 2008, una delle poche soluzioni concrete per dare una effettiva e concreta offerta di servizi, poiché queste strutture necessitano di modifiche minime e potrebbero essere ripristinate a costo contenuto da ditte con ex detenuti in misura alternativa che poi vi abiterebbero in attesa di ricostruirsi una vita all’esterno basata sui valori di un lavoro onesto. Le misure alternative, l’affidamento al servizio sociale art 47OP in particolare, un tempo vanto della Amministrazione Penitenziaria, sono state progressivamente svuotate della loro importanza, in favore di un sistema non detentivo più diretto e appariscente. Questo cambiamento ha inevitabilmente alimentato il sovraffollamento e le difficoltà di gestione delle carceri. La legge avrebbe potuto e dovuto prevedere una maggiore attenzione alla riconversione delle caserme dismesse non solo come nuove strutture carcerarie per detenuti a basso gradiente criminale, area a sicurezza attenuata, o come sedi per soggetti in misure alternative, garantendo così una reale integrazione nel sistema penitenziario per chi non ha nulla e si ritrova rinchiuso in carcere solo perché povero. Un’altra criticità inaccettabile riguarda i detenuti con malattie mentali. Gli interventi terapeutici continuano a essere erogati all’interno del carcere, quando invece ospedali dismessi potrebbero offrire soluzioni più adeguate, non violando i principi della legge Basaglia, che si propone di abbattere le barriere per ottenere la guarigione. I muri, in generale, non ostacolano il processo di cura, se trasformanti in strumenti non controproducenti, come lo sono quelli di un normale ospedale, concepiti per curare tutti tanto i civili quanto i detenuti. Se questa soluzione NON era valida per gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), perché non dovrebbe essere applicabile ai settori del carcere, dove sono detenuti i malati di mente, anche se non ufficialmente riconosciuti come OPG? Un’altra mancanza gravissima della proposta di legge è il trattamento dei detenuti malati terminali. Non poter avere un familiare vicino al momento della morte è una afflizione aggiuntiva inaccettabile e inumana, che contraddice la stessa natura della pena. Inoltre, gli ospedali dismessi potrebbero essere impiegati per ospitare detenuti con problemi di salute non solo mentale, che richiedono cure specialistiche non disponibili totalmente o con fatica all’interno delle carceri o ricorrendo al “ricovero” in ospedali civili con il piantonamento di poliziotti del Corpo della Polizia Penitenziaria, con disagio per gli altri ammalati e umiliazione del malato detenuto. Un’altra falla nella proposta di legge votata al Senato riguarda la non menzione del concetto di territorializzazione della pena, principio che potrebbe permettere di scontare la condanna presso la propria famiglia o in un carcere all’estero, questo per i cittadini dell’UE. Il caso di Chico Forti ha aperto una nuova prospettiva per l’esecuzione della pena, quella di avvicinare i detenuti alla propria casa, pur rimanendo sotto l’autorità di un’altra nazione. Applicare questa modalità anche all’interno della propria nazione, permettendo ai detenuti di essere vicini alla propria famiglia, rappresenterebbe un sollievo per i condannati e ridurrebbe la pressione sulle strutture penitenziarie italiane. Questa proposta non rappresenta una violazione della legge, ma una modernizzazione del sistema giudiziario. Essa non contravverrebbe ai dettati costituzionali, poiché non sposterebbe la competenza dal giudice naturale, ma costituirebbe semplicemente una modalità moderna di eseguire una condanna dopo la sentenza di primo grado. I gradi di appello potrebbero essere effettuati in videoconferenza, facilitando i contatti con il legale e riducendo la pressione nelle carceri e ottenendo in patria i servizi negati per i motivi su riferiti in Italia. Le sezioni detentive dovrebbero essere considerate non come un fardello, ma come il cuore pulsante del sistema penitenziario. Questi luoghi, spesso percepiti e vissuti come cupi e opprimenti, hanno il potenziale di diventare uno spazio di crescita e trasformazione. Quando le misure alternative non sono possibili per motivi oggettivi, è fondamentale che questi spazi siano gestiti con la massima competenza e dedizione. Ogni cella, ogni corridoio, ogni momento trascorso al loro interno dovrebbe essere un’opportunità per ridare dignità e speranza, per trasformare la pena in un percorso di riscatto. Il cuore di una persona batte per mantenerla viva; allo stesso modo, le sezioni detentive possono rappresentare il battito vitale di un sistema giuridico più giusto e umano. Con un approccio più attento e compassionevole, questi luoghi possono smettere di essere semplici spazi di contenimento e sevizie per diventare il centro di un sistema di giustizia che non solo punisce, ma rieduca e reintegra. In questo modo, il sistema penitenziario non è solo un luogo di espiazione, ma un faro di possibilità per un futuro migliore. Il personale di custodia, impegnato nelle sezioni, spesso sottovalutato, necessita di riconoscimento anche economico e abbia in supporto anche esterno, in particolare con l’operatività condivisa con superiori di alti gradi, che vive nelle sezioni, per gestire al meglio le diverse categorie di detenuti. Solo con questa organizzazione è possibile garantire un sistema custodiale più giusto ed efficace e non incorre a comportamenti aggressivi, più per non saper gestire situazioni difficili in contesto di per se violento, che per voluta malvagità, almeno così lo si spera e lo si vuole. Il risarcimento alle vittime, da parte dei soggetti in misura alternativa, rappresenta un tema critico. Attualmente, si osserva che le misure punitive non detentive tendono a trascurare completamente il risarcimento alle vittime dei crimini, privilegiando una visione umanistica e romantica di risarcire la società. Questo pensiero non risponde alle esigenze di una Giustizia più pragmatica e attenta al dolore di chi subisce danni, sia fisici che morali. Il risarcimento alle vittime dovrebbe quindi diventare una priorità, con rimborsi in denaro, piuttosto che con incontri di mediazione, salvo eccezioni per i familiari delle vittime Come affermava Michel Foucault, “Non est carceratio simpliciter puniendi, sed et transformandi”. Per realizzare questo obiettivo, è imprescindibile che il sistema penitenziario adotti un approccio equilibrato e inclusivo, coinvolgendo anche gli Enti Locali e il Privato Sociale specializzato, affrontando le sfide del sovraffollamento con soluzioni che vadano oltre l’espansione delle strutture carcerarie e che comprendano misure alternative, supporto sociale e un risarcimento adeguato alle vittime. *Dirigente superiore Giustizia in quiescenza, Giudice Onorario T.S. Milano non operativo I dannati del carcere: sono 23mila i detenuti che potrebbero beneficiare di misure alternative ma restano in cella di Irene Famà La Stampa, 5 agosto 2024 Spesso sono i più fragili, persone senza lavoro o stranieri senza casa. “Servono più fondi per progetti e comunità invece si continua ad aumentare i reati”. I dannati delle carceri le loro colpe potrebbero espiarle fuori dai penitenziari. Ai domiciliari, per fare un esempio. Ma sono fragili. Una casa non ce l’hanno. E non hanno nemmeno un lavoro. Non hanno nulla di nulla. Molti sono stranieri e non conoscono nemmeno la lingua. Ecco le contraddizioni del sistema: da un lato si denuncia il sovraffollamento, dall’altro le porte delle celle si aprono sempre più facilmente. Uscirne? Pare non bastino nemmeno le preghiere. I dati, presentati in Senato dal Garante nazionale dei detenuti Felice Maurizio D’Ettore, tutte queste discordanze le sottolineano bene. In Italia i reclusi sono 61.140 per 46.982 posti disponibili. E il sovraffollamento, a livello nazionale, ha superato il 130%. Oltre il 165% nei penitenziari pugliesi, intorno al 151% in quelli della Basilicata, del 144% nelle carceri del Lazio. “Condizioni disumane”, denunciano le associazioni. “Costretti a stare in cinque in celle da due con quaranta gradi”, raccontano i detenuti. Eppure la normativa qualche spiraglio lo lascia. Su 28.167 condannati a pene definitive o pene residue fino a tre anni di reclusione, 23.256 potrebbero accedere alle misure alternative. Ma raramente ci riescono. “I requisiti non sono legati unicamente al percorso detentivo o alla pericolosità sociale”, spiega il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa. “Serve una casa, un lavoro. Insomma, bisogna potersi mantenere. In molti, però, partono da una situazione di marginalità”. Che annulla ogni prospettiva. “Le misure alternative - continua Anastasìa - sono cresciute enormemente nel nostro Paese. Ma per utilizzarle bisognerebbe investire sull’esterno”. Progetti, comunità. Se prima, circa 211 detenuti al mese venivano messi ai domiciliari, ora questi sono scesi a 150. Nell’emergenza carceri i problemi si intrecciano. Nel mese di giugno, 2.875 persone accusate di reati legati al piccolo spaccio e 3.796 di reati contro il patrimonio erano in carcere in attesa di finire davanti a un giudice per un primo grado di giudizio. Ancora nessun processo, eppure sono in cella. Per i casi più lievi, sostengono da più parti, si potrebbe pensare a “misure terapeutiche” fuori dai penitenziari oppure a un periodo di messa alla prova. Il 30% dei detenuti, in Italia, è in carcere su misura cautelare. “Il carcere resta la prima scelta, la soluzione principale”, interviene l’avvocato Roberto Capra del foro di Torino, presidente della Camera Penale Vittorio Chiusano. E attacca: “Si fanno poche verifiche sulla possibilità di accedere ad altre misure cautelari e alle misure alternative”. C’è poco personale e troppi detenuti di cui educatori e magistratura devono occuparsi. “In un sistema in cui si continuano ad aggiungere reati su reati, è ovvio che poi si arriva al sovraffollamento e a situazioni ingestibili”. Lo raccontano le sommosse scoppiate dal nord al sud Italia. Nel 2023 erano state settantadue, da gennaio si contano novantanove episodi. Una decina solo nelle scorse settimane. Le carceri si incendiano. Rabbia, violenza, rivolte. “Vogliamo farci sentire”, dicevano i detenuti di Regina Coeli la settimana passata, quando si sono rifiutati di rientrare in cella. Protestavano per “delle condizioni disumane, per il caldo, per la mancanza di igiene”. Sono 1.115 in spazi pensati per 626 persone. Garanti, avvocati, associazioni, mondo politico chiedono di ripensare il sistema. In sintesi? “Il carcere dovrebbe essere l’estrema ratio”. Ne è convinta la radicale Rita Bernardini, ex parlamentare, che proprio oggi è in visita al penitenziario di Ariano Irpino. Donna concreta, parte da un numero. Significativo. “All’anno, spendiamo tre miliardi e mezzo per il carcere e 500 milioni per l’esecuzione penale esterna”. Ovvero per tutto ciò che riguarda le misure alternative e per le misure di comunità. Bernadini non utilizza mezzi termini: “Vuol dire che abbiamo fatto una scelta. Ed è carcerocentrica”. In molti chiedono di “mettere mano alle riforme, prevedere investimenti di bilancio, investire sul fuori”. Un esempio? In Sicilia sono state create delle Comunità terapeutiche assistite. “Ci vanno anche persone che hanno problemi psichiatrici e che devono scontare pene brevi. Sono seguite da psicologi, educatori e così via”. Altre fragilità. E le fragilità, in cella, si amplificano. Dannati del carcere, dunque. Di cui pochi si prendono cura. E che a pochi interessa redimere. Rivolte nelle carceri, il neo procuratore di Torino: “Quadro allarmante” di Giuseppe Legato La Stampa, 5 agosto 2024 Il dossier carceri è già sulla sua scrivania anche se si insedierà ufficialmente tra poche settimane. Non a caso dice: “Ho seguito a lungo la situazione carceraria dell’Emilia Romagna quale procuratore generale facente funzioni e fin da adesso, all’atto della mia nomina, sto seguendo con attenzione e preoccupazione i fatti che stanno accadendo nelle carceri del Piemonte nelle quali mi sembra che insista un livello di allarme e/o di pericolo superiore rispetto ad altri distretti d’Italia. Dico questo a prescindere dai casi di suicidi o tentati suicidi di alcuni detenuti di fronte ai quali c’è attenzione e anche pietas umana. Esiste però un secondo profilo che riguarda uno scenario di rivolta - a quanto sembra - permanente caratterizzata da aspetti inquietanti che vanno da un fatto gravissimo come la pubblicità su un social di proteste violente fino all’ingresso di sostanze stupefacenti all’interno degli istituti. Ed è questo che, come magistrato, in questo momento mi preoccupa di più. Sono in contatto coi colleghi del Distretto e vige sul punto massima attenzione ma anche preoccupazione”. Lucia Musti neo procuratore generale di Torino, eletta un mese fa dal Csm all’unanimità alla guida del distretto retto, prima di lei, da Francesco Saluzzo, sa bene che il tema carceri è uno dei dossier che andranno affrontati forse con maggiore celerità. La rivolta dell’istituto minorile di Torino Ferrante Aporti trascina con se valutazioni e scelte ineludibili perché maturato con una violenza, con una premeditazione tali da lasciare immaginare - al netto dei trasferimenti di alcuni dei detenuti - soluzioni a più ampio respiro. Ieri altri cinque giovani coinvolti nei violenti disordini degli scorsi giorni sono stati trasferiti in altri penitenziari tutti collocati nell’Italia centro meridionale. Il provvedimento aveva interessato altri due “ospiti” nelle ore precedenti. Al momento insistono nell’istituto 46 persone, soglia massima di capienza. A questo va aggiunto quanto accaduto nelle ultime ore all’interno della casa circondariale Lorusso e Cutugno. L’altro ieri nella dodicesima sezione, dove sono ristretti detenuti comuni, alle 20 alcuni detenuti nordafricani hanno incendiato lenzuola e coperte rendendo necessaria l’evacuazione della sezione per via del fumo e delle fiamme domate da personale di polizia penitenziaria grazie all’uso di un idrante. Il caos si è concluso alle 22. In contemporanea alla decima sezione al padiglione C metteva in atto una protesta pacifica non rientrando nelle rispettive celle giustificando il fatto col fatto che non avevano più sigarette. Leo Beneduci del sindacato Osapp: “Chiediamo che vengano avvicendati i vertici del dipartimento nazionale di giustizia minorile a favore di altre figure con maggiori capacità in tema di sicurezza”. “Inasprire le pene? Non serve. Bisogna conquistare la fiducia di questi ragazzi” di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 5 agosto 2024 Il sociologo Prina: “Più educatori e psicologi”. La prima volta in cui Franco Prina ha varcato l’ingresso del Ferrante Aporti aveva solo 20 anni. Era il 1972 e aveva partecipato a una visita con il gruppo Abele. Qualche anno dopo è diventato docente di Sociologia giuridica e della devianza all’università di Torino e ha continuato a occuparsi di delinquenza minorile per tutta la vita. Anche come giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Torino. Professore, come si può “ripartire” dopo una rivolta come quella andata in scena giovedì sera? “C’è un solo modo e di certo non è l’inasprimento delle pene. Bisogna invece impegnarsi per conquistare la fiducia di questi ragazzi difficili che vedono nella polizia, nello Stato e in tutte le figure istituzionali una serie di “nemici” da combattere”. Secondo lei, nelle condizioni attuali del “Ferrante”, è possibile riuscirci? “Bisogna ripensare il sistema dell’accoglienza e l’organizzazione dell’istituto per una popolazione diversa dal passato. Quella dell’altro giorno non è stata la prima rivolta, ma di sicuro è stata quella che ha avuto le conseguenze più pesanti. Tanti anni fa a ribellarsi c’erano altri ragazzi, anche loro figli di immigrati, che però, in fondo, nutrivano un po’ di rispetto nei confronti delle istituzioni. Ora non è così. Per questo bisogna entrare nel mondo di questi giovani, dei loro desideri e dei loro bisogni”. E questo si può fare tra le mura di un carcere minorile? “Penso che sia necessario un lavoro coordinato. In molti casi i giovani che entrano all’ipm sono già “conosciuti”. Per questo bisogna intercettarli anche prima, attraverso l’educativa di strada e far capire loro che non tutte le persone sono intenzionate a maltrattarli. All’esterno creare un legame è più facile, ma in ogni caso il momento cruciale resta l’ingresso in istituto. Parliamo di ragazzi con problemi di dipendenza e grossi disagi. Finire in una cella li scompensa ancora di più e quindi va chiamata in causa la sanità territoriale che, in carcere, fa molta fatica”. Negli ultimi anni la media degli accessi nei penitenziari minorili è aumentata notevolmente... “E sicuramente non facilita il lavoro degli operatori. A Torino siamo passati da 35 a 60 detenuti, in Italia da 350 a 550. Le statistiche ci dicono che la delinquenza non è in un aumento, quindi questi numeri dipendono dalla volontà di risolvere i problemi sociali con la repressione. Invece di investire nelle soluzioni alternative e lasciare il carcere come ultima ratio, stiamo andando nella direzione opposta”. Che cosa intende? “Le politiche governative stravolgono i principi legislativi. Le comunità per minori sono troppo poche, i minori vengono sballottati in tutta Italia e alla prima infrazione tornano in Ipm. Non è questo l’approccio giusto. Basta guardare quel video per capire che qualcuno pensa di non avere più niente da perdere, altri si sentono dei falliti. Mauro Grimoldi: “La messa alla prova funziona più del carcere minorile, ma deve essere su misura” di Elisa Chiari Famiglia Cristiana, 5 agosto 2024 Dal Beccaria di Milano, al Ferrante Aporti di Torino, le carceri minorili, che il provvedimento noto come Decreto Caivano ha contribuito ad affollare, stanno diventando una polveriera. E intanto la criminalità minorile fa sempre più notizia sui media. Abbiamo chiesto a Mauro Grimoldi, che nella vita fa lo psicologo giuridico, autore di Dieci lezioni sul male: i crimini degli adolescenti (Raffaello Cortina Editore), di aiutarci a capire chi sono i ragazzi che finiscono oggi in carcere e qual è la strada per rendere più efficace, nel rispetto dei diritti, l’azione dello Stato nei loro confronti. Dottor Grimoldi, il Decreto Caivano, sorto sull’onda delle violenze di gruppo a delle ragazzine, ha aumentato il numero dei minorenni che finiscono in carcere. Lei ha detto che quel provvedimento è stato un’occasione persa. Che cosa significa? “Come ci sono gli instant book, nel nostro Paese ci sono le instant lex, leggi che nascono sull’onda della stretta attualità, dell’emotività, dal fatto che viene portata l’attenzione su un tema su cui solitamente invece c’è un certo silenzio istituzionale. Nel merito è un’occasione persa perché nel nostro Paese invece si potrebbe fare molto sul versante della criminalità minorile, grazie alle leggi all’avanguardia che abbiamo e che però non sono applicate compiutamente”. Ci fa un esempio? “Per dirla nella maniera più semplice e meno tecnica possibile, il Dpr 448 è una legge che si basa su un assunto molto preciso: non ci possiamo permettere che un minore a 14, 15, 16 anni cominci una carriera criminale che potrebbe andare avanti fino alla fine della sua vita attiva. Questo non per buonismo nei confronti di quel minore, che peraltro ha tutto il diritto di potersi vedere recuperato e a una risoluzione di quella che è una patologia della sua relazione con il mondo, ma perché non possiamo permetterci di lasciare che quel ragazzo continui per tutta la vita a far del male a molte altre persone e a lederne i diritti, i beni e qualche volta anche la salute fisica. Il Dpr ci offre un ventaglio di strumenti che non si limitano all’applicazione del principio della bilancia “tanto hai fatto tanto di punisco”. Perché noi sappiamo che il carcere porta a una recidiva del 70-80%, che, invece, può scendere fino al 30% con la messa alla prova applicata bene”. Eppure da ciò che scrive lei non sembra in assoluto contrario al carcere. È così? “Non è possibile, a mio personale giudizio, se non in un’ottica demagogica, oggi rinunciare al carcere. Si può pensare di superarlo, ma in prospettiva futura, come obiettivo auspicabile, nel frattempo però in alcuni casi non maggioritari resta un male necessario, il punto sta nel distinguere dagli altri quei casi. Il Dpr prevede all’articolo 9 la valutazione della personalità che solo alcuni tribunali per minorenni sono messi in condizione di realizzare in maniera compiuta. Eppure è fondamentale: mai prenderei una medicina senza sapere qual è la diagnosi, l’origine del male. Se non so qual è l’origine del comportamento antisociale di quel ragazzo difficilmente interverrò con il “farmaco” giusto per recuperarlo. In quest’ottica ha poco senso vincolare il carcere al tipo di reato, come ha fatto il Decreto Caivano nell’ottica di un giro di vite, anziché alla diagnosi del comportamento”. Quando il carcere diventa un male necessario? “Quando un minorenne, in rari casi, dimostra di saper delinquere già come un adulto, con una capacità di premeditazione. Oppure quando ci sono minori che commettono reati sulla scorta di una dimensione di forte impulsività, di una costruzione di argini interni non sufficientemente funzionali, che hanno la necessità di una “protesi”: questi ragazzi, non avendo limiti interni costruiti, hanno bisogno di muri, di limiti esterni, di contenimento rispetto a questa impulsività che non trova argini. Bisogna che lo Stato dica loro di no e non può fare altro, in un certo momento della loro vita, che confinare la loro libertà, al momento non arginata da regole etiche interne sufficienti a garantire la sicurezza loro e del resto del mondo”. E invece quali sono i minorenni che oggi finiscono in carcere? “Sono circa l’1% dei ragazzi che commettono reati, e sono quelli cui non si riesce ad applicare sanzioni alternative perché vivono nei contesti più disagiati, quelli le cui famiglie non offrono loro una dimensione di sostegno e di supporto quando sono in quella situazione, quindi che non sono in grado di offrire un contenimento educativo minimo e di conseguenza una garanzia dal punto di vista sociale. Oppure si tratta di ragazzi che hanno commesso i reati più gravi. Questo ci dice due cose: che già oggi non è al carcere che affidiamo la nostra sicurezza sociale e che il carcere per sua natura è uno strumento delicatissimo per la sua utenza e per le sue caratteristiche”. È per questo che è così complesso da gestire? “Non dobbiamo mai dimenticare che dentro quel contenitore noi troviamo un’istituzione totale, dominata dalla cultura della sopraffazione, della violenza, della forza, dell’imposizione di sé rispetto all’altro. In carcere la gerarchia di valori è rovesciata rispetto a quella che troviamo fuori: è molto facile che in carcere un minore che ha commesso un reato più grave sia più stimato di un minore che ha commesso un reato meno grave, questo rende molto difficili l’utilizzo efficace del sistema carcere e la sua gestione”. Si spiegano anche così le violenze del Beccaria e le rivolte di giovani detenuti in queste ore a Torino? “C’è un’inchiesta in corso e quindi io non entro assolutamente nel merito di quello che è accaduto all’interno dell’Istituto Penale Minorile Beccaria di Milano, però possiamo dire in generale che è assolutamente complessa la gestione di un carcere anche per chi in quel luogo lavora, non solo per chi vi è detenuto. Perché l’istituzione totale ha un effetto psichico per tutti. Il carcere è un luogo estremamente complesso, il cui uso va attentamente calibrato”. Par di capire che non siano la maggioranza i minori che delinquono per mancanza di freni inibitori, è così? “Sono in aumento i minori che commettono reati sulla scorta di una dimensione di conflitto con il mondo esterno che ha a che fare con quello che percepiscono come un confronto impari. In alcuni di loro la relazione con il confine tra sé e l’altro si arroventa, diventano fortissimi i sentimenti di invidia e di gelosia, ed è questo rapporto impari con l’altro, questo senso di essere perdenti rispetto al mondo, che li fa reagire. E i banchi di prova sono spesso l’amore o la scuola, i punti di passaggio in cui l’adolescente si scontra con la sofferenza della frustrazione, davanti alla quale alcuni reagiscono con la violenza”. Sono condizioni che si verificano anche in contesti sociali non degradati, in famiglie normali. Come prevenire il rischio che questi sentimenti si traducano in violenza? “Gli adolescenti attuali sono più fragili di quelli precedenti, che crescevano in famiglie più autoritarie, che non è il caso di restaurare perché producevano altri guasti. Quello che dobbiamo fare è mettere in campo degli strumenti che sarebbero stati inutili o eccessivi anche soltanto 20, 30 o 40 anni fa, come per esempio i sostegni psicologici nelle scuole”. Sull’abuso d’ufficio Nordio non ha detto la verità. Ora una firma difficile per Mattarella di Liana Milella La Repubblica, 5 agosto 2024 Il Guardasigilli ha sempre garantito, anche in Europa, che il reato cancellato poteva essere sostituito da altri. Ciò è impossibile per la consigliera meloniana del Csm. Nordio non ha detto la verità sull’abuso d’ufficio. Perché non è vero, come lui ha ripetuto di continuo, anche in Europa, che ci sono altri 17 reati di corruzione per sostituirlo. La sua tesi si scontra ora con il caso di Rosanna Natoli, la consigliera del Csm in quota meloniana indagata proprio per questo reato. Per una coincidenza, da un lato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha sul tavolo il ddl sul reato da cancellare già votato dal Parlamento, deve valutarlo ed eventualmente licenziarlo. Dall’altro, da presidente del Csm, ha spiegato al suo vice Fabio Pinelli quanto la permanenza di Natoli a palazzo Bachelet sia inaccettabile. Ma Pinelli, che antepone il suo ruolo “politico” di componente indicato dalla Lega a quello istituzionale, non deve aver sollecitato il passo indietro di Natoli. E a dimostrarlo c’è il calendario, perché sono passate ormai due settimane dall’invito di Mattarella, e Natoli è ancora lì al suo posto. Nel frattempo la procura di Roma l’ha indagata per abuso d’ufficio e rivelazioni del segreto per via del suo incontro a Paternò con la magistrata sotto inchiesta disciplinare Maria Fascetto Sivillo sul cui destino, da giudice del Csm, avrebbe dovuto decidere. Giusto l’11 luglio la Camera ha cancellato proprio l’abuso d’ufficio. Se Mattarella firma la conferma della legge Nordio - si badi, non un passo formale ma assolutamente sostanziale, perché comporta il primo vaglio di costituzionalità sull’intera legge - quel reato, che vive dal 1930 e ha alle spalle cinque modifiche, verrà abolito e di conseguenza il presunto reato commesso da Natoli, cioè l’abuso della sua stessa funzione in quanto consigliera del Csm, verrà meno e non ci sarà un altro reato simile che le possa essere contestato. Natoli resta sotto indagine comunque, ma solo per la rivelazione di un segreto. Una situazione indiscutibilmente complicata. Determinata dalla più assoluta mancanza di sensibilità istituzionale della consigliera, che evidentemente si ritiene nel giusto e non vede reati nell’aver parlato con una magistrata di cui lei stessa era giudice. E che ipotizza perfino di denunciare i suoi stessi colleghi del Csm che quel mercoledì le hanno consigliato, per evitare ovvi imbarazzi, di non essere presente al plenum che doveva nominare il procuratore di Catania. Ma forse è proprio questa - la denuncia contro i colleghi - la “mossa” di cui era già al corrente il Guardasigilli Nordio che ne parla in un’intervista. Ma torniamo a Mattarella e alla firma sull’abuso d’ufficio. Il Quirinale ha già imposto al governo di mettere una prima “toppa” al disegno di legge inserendo nel decreto sulle carceri il peculato per distrazione che sana una grave anomalia rispetto agli impegni assunti dall’Italia con l’Europa. Ma ora il caso Natoli ne mette in luce un’altra, ben più grave, il “buco” insanabile nel codice penale - sempre negato da Nordio - che si viene a creare invece di fronte a un comportamento platealmente illecito che però non troverà più una corrispondenza per essere contestato. E a codice penale vigente non è stata una forzatura da parte della procura di Roma l’aver iscritto Natoli proprio per quel reato. Certo Nordio non poteva immaginare una coincidenza così rivelatrice rispetto al vuoto di tutela su cui tante volte hanno insistito, anche nelle audizioni alla Camera e al Senato, i giuristi italiani. Su Repubblica l’ha fatto più volte Gian Luigi Gatta, il docente di diritto penale della Statale di Milano. Ma la maggioranza è stata volutamente sorda. Fino al voto definitivo. Certo adesso il caso Natoli, sull’orlo dell’ultima firma del capo dello Stato, non può non far riflettere tutti. Il coraggio dei figli che salvano le mamme dai padri violenti di Caterina Soffici La Stampa, 5 agosto 2024 Tre casi in 7 giorni. Non sono eroi, li muove la disperazione. Anche loro sono vittime da proteggere. “Portate via papà, picchia sempre la mamma”. Ancora una volta è un bambino di dodici anni a salvare la madre dalla botte del marito ubriaco. È la terza volta in una settimana che leggiamo brutte storie così e sembrano storie fotocopia, orribili copioni di film horror, dove l’esito non è un femminicidio solo grazie all’intervento del figlio. E questo la dice lunga di un’Italia dove le donne non riescono a salvarsi da sole, non sono in grado di denunciare il proprio partner, di proteggere se stesse e neppure i figli. Stanno zitte, subiscono, per paura di perdere la famiglia, la casa, i bambini. In un’Italia dove un quarto delle donne non ha neppure un conto in banca. E quindi sono i bambini costretti a squarciare il velo di realtà domestiche dove domina la violenza. L’ultimo caso arriva dall’isola di Ischia, in località Lacco Ameno. Manca poco alle nove di sera, il padre torna a casa ubriaco. Succede spesso e quando beve diventa aggressivo. La moglie sa già cosa l’aspetta quando le chiavi girano nella porta. Armata di telefonino questa volta vuole filmare tutto. L’uomo, un cinquantenne originario dello Sri Lanka (e lo diciamo solo per dovere di cronaca, non certo perché il dettaglio sia rilevante) inizia a urlare e distruggere la casa. Picchia la moglie, come ha già fatto altre innumerevoli volte. Minaccia la donna e il figlio dodicenne di bruciare le richieste per i permessi di soggiorno. Inizia a cercare i documenti, li trova e inizia una lotta con la moglie. Partono schiaffi e pugni, la moglie riesce a salvare i documenti e li passa al figlio perché li nasconda. L’uomo allora parte all’attacco contro il bambino: lo afferra, lo strattona, gli strappa il pigiama, lo colpisce con pugni alla testa e al collo. Ora è la donna a intervenire per salvare il bambino, si mette in mezzo, il marito sferra altri pugni e un forte calcio all’addome della donna che si piega in due e rimane per terra. A questo punto è il bambino, che in un ultimo tentativo di salvare la mamma, riesce a raggiungere la finestra e urla chiedendo aiuto. Alcuni vigili urbani sentono le grida, allertano i carabinieri e nel giro di poco raggiungono l’abitazione: il marito è arrestato, moglie e figlio portati all’ospedale. Pochi giorni fa a Biella una storia simile, quando a rivelare le botte domestiche sono le parole di un bambino alla maestra: “Voglio fare il poliziotto per mettere papà in galera, così non toccherà più la mamma”. Parte la segnalazione e i carabinieri scoprono una situazione di maltrattamenti protratti nel tempo. Alla fine la madre rivela di aver subito violenze dal compagno, che abusava di alcol, anche davanti ai figli. E una settimana fa ad Afragola altra storia fotocopia: qui è un bambino di dieci anni a fermare una pattuglia della polizia municipale per salvare la mamma dalle botte del compagno. Nel frattempo aveva già chiamato anche il 118 e a dieci anni si rivela un piccolo uomo capace di stare al mondo meglio di tanti adulti, che forse avranno sentito, avranno saputo, avranno visto, ma hanno deciso di voltarsi dall’altra parte. Allora verrebbe voglia di chiamarli bambini eroi, questi piccoli uomini che si affacciano alle finestre, urlano, chiamano la polizia, cercano aiuto perché sono troppo piccoli per farcela da soli. Ma se fossero più grandi diventerebbero forse assassini. E quindi non chiamiamoli eroi. Non sono eroi per caso e neppure eroi loro malgrado. Non è il coraggio a muoverli, ma la forza della disperazione. Questi bambini sono piuttosto vittime, da proteggere come e più delle loro madri, perché lo sappiamo che la violenza genera violenza e chi cresce in ambienti violenti rischia a sua volta di ripercorrere le stesse orme una volta cresciuto. Chissà quante altre storie simili si nascondono dentro le mura delle case italiane, il posto che si pensa il più sicuro e che invece è luogo assai pericoloso, perché le violenze avvengono per la maggior parte per mano di persone di famiglia, mariti, compagni, padri padroni e violenti. La domanda a cui forse dovremmo rispondere allora è una: perché tocca a bambini così piccoli intervenire per salvare le madri? Non esistono altri paracaduti? Famigliari? Sociali? Pubblici? Possibile che nessuno si accorga mai di niente, dentro quelle mura delle case italiane, dietro le persiane abbassate per proteggersi dal grande caldo dell’estate? Il reato non c’è, sei innocente e allora lo Stato ti confisca i beni di Francesco Morelli* L’Unità, 5 agosto 2024 Possiamo preliminarmente accettare che “innocente = non-innocente”, “appartenenza = non-appartenenza”, “reato = non-reato” rappresentano inaccettabili contraddizioni? È arrivato il momento di assumere posizioni radicali. Il dibattito sulle misure di prevenzione patrimoniali sembra avviluppatosi in una spirale di complessità tecnica sorprendente. Alte Corti interne ed europee se ne occupano e se ne occuperanno presto, ma ad ogni livello, anche scientifico, la ricostruzione di quel sistema sembra aver abbandonato lo stadio della fondazione primaria per dirigersi verso la spiegazione dei più complessi dettagli tecnici. Si scontrano quindi vivacemente posizioni opposte, espresse con argomenti contorti e assai specifici, ma giace oramai sullo sfondo la premessa fondamentale del discorso. Una premessa, va detto, non facile finanche da rintracciare. Non è più una questione, principalmente, di garanzia dei diritti individuali. Se lo fosse si partirebbe da lì, dalla verifica sulla tenuta dei diritti davanti al sistema di tutela preventiva. La priorità dei diritti individuali nelle nostre democrazie, oramai deflesse, non sembra la prima preoccupazione del legislatore e, cosa ancor più allarmante, di nessuna giurisdizione. Non è una questione di fondazione teorica dell’impianto normativo. Da un lato, tutta la giurisdizione ignora sistematicamente l’ampiezza della proposta scientifica, facendone serenamente a meno, dall’altro gli stessi studiosi hanno oramai perso il conforto degli assiomi condivisi. Non è poi, certamente, un problema di analisi normativa. Il significato dei testi normativi e della gerarchia tra le fonti dell’ordinamento è completamente sfumato. È da tempo che le semplici “parole della Costituzione” non impediscono soluzioni volte a realizzare obiettivi corrispondenti a valori (magari arbitrariamente tratti dalla medesima Costituzione) che per prevalere necessitano di abbattere il significato elementare di un testo, o la sua preminenza normativa rispetto ad altre disposizioni. È il momento dei progetti e di chi riesce ad imporli e la parola non è più un limite. Mala tempora currunt, si dirà… ma tant’è. E proviamo allora con la logica formale. Il dibattito odierno sulle misure patrimoniali di prevenzione sembra un esempio tipico di quanto descritto dal motto scolastico ex falso quodlibet sequitur. Da premesse false (logicamente false quindi, più precisamente, contraddittorie) può scaturire qualsiasi cosa. L’impressione oggi è che ci stiamo occupando, da anni, solo di un quodlibet, un immenso, assurdo, sconfinato quodlibet. Il presupposto è semplice: chi sia indiziato di un reato o di attività delittuose può subire la confisca dei beni senza essere stato condannato per quei fatti di cui è sospettato. E, tuttavia, qualche precisazione va fatta. È falso, ossia contraddittorio, che un soggetto possa essere innocente rispetto ad un fatto per la giurisdizione penale, epperò possa risultare non-innocente riguardo al medesimo fatto a seguito di un procedimento di prevenzione. È logicamente inaccettabile, ed è normativamente impedito dalla presunzione costituzionale d’innocenza, per cui un soggetto è colpevole d’un reato solo a seguito di sentenza di condanna definitiva emessa dalla giurisdizione penale. È falso, ossia contraddittorio (oltre che aberrante), che un soggetto possa “appartenere” all’associazione mafiosa ma non parteciparvi, e quindi non commettere alcun reato pur appartenendo al sodalizio, ma esser pericoloso e meritevole d’impoverimento forzato. Come s’appartenga senza partecipare non si coglie, ma comunque è certo che se qualcuno appartiene alla organizzazione criminale, e lo si prova, esistono svariate, amplissime, inesorabili fattispecie penali che rendono la sua condotta meritevole di pena, basti pensare al concorso esterno (una curiosità: il governo saprà giustificare davanti alla Corte Edu la scelta dell’ordinamento italiano di non punire penalmente la mera “appartenenza” alla mafia, senza apparire un simpatico mattacchione?). È falso, ossia contraddittorio, che i presupposti della confisca siano cosa diversa dai reati. Che si tratti di reati specificati dalla legge (associazione di stampo mafioso in testa, ma anche truffa aggravata, peculato, concussione, corruzione, il c.d. stalking) o che si tratti di reati qualsivoglia evocati con generiche attività delittuose, sempre e solo di reati si tratta. Reati che vanno accertati dalla giurisdizione penale, e che altrimenti non esistono, a meno di non accettare che lo Stato possa imputare crimini a chicchessia senza accertarli nella sede propria, violando giusto una manciata di quelle norme costituzionali che rendono sicura la vita in una società democratica. Se volessimo smettere di rincorrere un magmatico, autoreplicantesi e velenoso quodlibet, dovremmo partire da queste premesse, discutendole, certo, epperò affrontandole con lucidità. Ma possiamo preliminarmente accettare che “innocente = non-innocente”, “appartenenza = non-appartenenza”, “reato = non-reato” rappresentano inaccettabili contraddizioni? È arrivato il momento di assumere posizioni radicali. *Professore associato di Diritto processuale penale, Università di Bergamo L’umanità di Gino Cecchettin: “Turetta ha giustificato il figlio killer? Non posso giudicare un altro padre” di Flippo Boni Il Giorno, 5 agosto 2024 Il papà di Giulia, uccisa dal fidanzato, evita di commentare le parole intercettate in carcere: quel dialogo non andava divulgato. “Io e Nicola ci sentiamo, mi ha scritto durante le feste”. “Non sta a me giudicare l’operato e le parole di un padre, con lui mi sento, mi ha scritto durante le feste, ma quelle intercettazioni del papà di Turetta in carcere non dovevano essere divulgate perché sono notizie vecchie e fanno solo male”. Ogni volta che Gino Cecchettin parla ci ricorda sempre di essere il Muhammad Alì di un’umanità smarrita: sa volare come una farfalla e pungere come un’ape. E l’aspetto più rivoluzionario è che quest’uomo non è un profeta, non vive di scritti o di sermoni, ma è un’anima che ha attraversato ogni tempesta di dolore e ci ha mostrato con quale coraggio e con quale spirito provare a farlo: senza odio, senza rancore, senza risentimento, dando prevalenza, nella sua testimonianza, solo all’umanità. Lui che prima ha perso la moglie a causa di una brutta malattia e poi, orribilmente, ha perduto la figlia Giulia, la ragazza uccisa dal suo fidanzato Filippo Turetta nel novembre del 2023. Il riferimento di quelle parole di Gino pronunciate due giorni fa, è a quel primo colloquio tra Filippo, in carcere per l’omicidio di Giulia, e i genitori poco dopo l’arresto del giovane, finito negli atti del processo che si aprirà il prossimo 23 settembre e pubblicato dal tabloid Giallo e da tutti i giornali e telegiornali a luglio. “…Hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone. Hai avuto un momento di debolezza. Non sei un terrorista. Devi farti forza…”, aveva detto Nicola Turetta al figlio, scusandosi pubblicamente dopo aver letto che quelle dichiarazioni erano finite su tutti i giornali italiani e che contro di lui, sui social, si era scatenata una vera e propria shit-storm. “Ero solo un padre disperato, temevo che mio figlio di suicidasse. Chiedo scusa, certe cose non si dicono nemmeno per scherzo, lo so. Ma in quegli istanti ho solo cercato di evitare che Filippo si togliesse la vita”. Ed ecco che dopo la pioggia di insulti, giunge come una nevicata d’estate il commento di Gino: “Non giudico le parole di un padre. Quelle dichiarazioni non dovevano essere pubblicate”. Ancora una volta Cecchettin ci offre una lezione di umanità e dignità sorprendenti, mette e tacere milioni di commenti truci e privi di pietà che sono scorsi a fiumi in queste settimane on line. Il padre della vittima che pone una mano sulla spalla al padre dell’assassino. “Lui ha un figlio omicida, immagino viva una tragedia addirittura più grande della mia”, aveva detto lo scorso anno, pensando a Nicola. Ieri, ancora una volta con poche ma profonde parole, lo ha abbracciato da lontano. Ascoltandolo viene da pensare alla bellezza che salverà il mondo nell’Idiota di Fëdor Dostoevskij del 1869. Quella bellezza di cui abbiamo immensamente sete. Il bello non dell’estetica ma del bene, nonostante tutto. La bellezza relativa ai tratti dell’irremovibilità con cui la bontà custodisce la propria perseverante giustizia. A costo di tutto. “L’uomo veramente buono” che attraversa i drammi della storia con inscalfibile bontà di cuore, ritratto evangelico del mite che sfida i cinici e la furbizia degli arroganti, nella corteccia di un’innocenza dal destino sempre incerto. Perché dopo l’abisso che ha vissuto lui non c’è niente di peggiore. E ora, “trasformare quella tragedia in una spinta al cambiamento” appartiene non alla fede, ha ripetuto più volte Cecchettin, ma alla “speranza”. E quella speranza appartiene a tutti noi. Gino Cecchettin: “Le parole del padre di Turetta? È in difficoltà, dovremmo aiutarlo. Accanirsi è sbagliato” di Amelia Esposito Corriere della Sera, 5 agosto 2024 Il papà di Giulia sui dialoghi intercettati in carcere: “Mi metto nei suoi panni, sta vivendo una cosa indicibile. Noi tutti dovremmo pensare a questa famiglia, a come aiutarla. Ci sentiamo e ci scriviamo”. “Quello che come società tutti noi, nessuno escluso, dovremmo fare è aiutare la famiglia Turetta. Questo dovrebbe essere il nostro dovere: aiutare un uomo che sta vivendo un momento di grande difficoltà, non accanirci contro di lui”. Mai abbiamo sentito Gino Cecchettin - padre che ha subito la più atroce delle perdite, eppure sempre così composto - pronunciare parole di vendetta o rancore. Non lo sentiremo neppure questa volta. Il suo orizzonte è, ancora, quello del “costruire valore”. Il papà di Giulia, uccisa l’11 novembre 2023 a 22 anni dall’ex fidanzato Filippo Turetta, è in giro per l’Italia a presentare il libro che le ha dedicato, Cara Giulia. A parlare di educazione affettiva, sentimenti, rispetto dell’altro. Mission che porta avanti anche attraverso una fondazione: l’obiettivo, ha spiegato, è “creare una rete di professionisti che vada nelle scuole a sensibilizzare sul tema della violenza di genere e delle relazioni tossiche”. Cecchettin sta provando a costruire, mattone dopo mattone, qualcosa di importante sulle macerie della propria vita. Ma c’è un altro padre la cui vita è ridotta in macerie. È Nicola Turetta, papà di Filippo. I dialoghi in carcere fra i due, intercettati poco dopo l’arresto del ragazzo, sono finiti agli atti e, di recente, sono stati diffusi dai media. Sono parole con le quali Nicola Turetta sembrava sminuire la portata del delitto commesso da suo figlio, ma in realtà pronunciate temendo che questo potesse suicidarsi. Il risultato: tanti attacchi feroci e qualche pacca sulla spalla. Signor Cecchettin, vuole dirci cosa pensa di quelle parole? “Tutti si sono fatti un’opinione e hanno sentito il bisogno di esprimerla. Chi lo ha criticato come chi lo ha difeso. Io no, non entro nel merito, non giudico”. E dell’effetto che la diffusione di quelle parole ha avuto, invece, vuole parlarci? “A questo proposito vorrei dire che farle uscire a distanza di 9 mesi non ha avuto alcun senso, a mio avviso. Quando sono state pronunciate, mia figlia era appena stata uccisa e Filippo era da poco in carcere. Oggi perché?”. Quelle intercettazioni erano agli atti. “Capisco, ma hanno fatto solo del male”. Anche a lei? “Niente mi può fare male quanto la morte di Giulia. Niente è paragonabile a ciò che ho passato e sto passando. Quelle intercettazioni hanno fatto male prima di tutto ai Turetta e poi a tutti noi, alla società intera”, risponde Cecchettin. Ed eccolo, ancora una volta, fermarsi cento passi prima della gogna. Per poi fare uno scatto in avanti, tendendo la mano alla famiglia del ragazzo che ha assassinato Giulia. Ci spieghi... “Accanirsi contro un papà che sta vivendo un momento di grande difficoltà è sbagliato. Noi tutti dovremmo pensare a questa famiglia, a come aiutarla. Noi come singoli e come società dovremmo porci questo tema. Hanno un altro figlio questi genitori e devono poter andare avanti al meglio. Il nostro compito è costruire valore”. Anche lei ha altri due figli, Elena e Davide. È per questo che parla così? “Io mi metto nei loro panni. E dico che stanno vivendo una cosa inenarrabile. E ora, per quelle intercettazioni, si trovano a ripartire da zero. Comprendiamoli”. Vi sentite, lei e Turetta? “Ci sentiamo o ci scriviamo durante le feste. A Natale, a Pasqua, momenti così”. Lei gli ha mai parlato di Giulia? E lui le ha mai parlato di Filippo? “No. Non ancora”. Puglia. Grave la situazione nelle carceri pugliapress.org, 5 agosto 2024 Le carceri pugliesi stanno affrontando una crisi senza precedenti, con livelli di sovraffollamento insostenibili e un aumento allarmante dei suicidi tra i detenuti. Le carceri della Puglia sono al centro di una crisi profonda che coinvolge non solo la regione, ma l’intero sistema penitenziario italiano. Con un sovraffollamento che ha raggiunto livelli insostenibili, le strutture carcerarie sono ormai al collasso. Il numero di detenuti ha superato il 130% della capienza regolamentare, creando condizioni di vita estremamente difficili per chi vi è rinchiuso e per il personale che vi lavora. Uno dei problemi più gravi e urgenti è l’aumento dei suicidi tra i detenuti. Dal 2014 a oggi, sono stati registrati oltre 600 suicidi nelle carceri italiane, e il 2024 rischia di segnare un record negativo. La situazione in Puglia riflette questa tendenza nazionale, con numerosi casi di autolesionismo e tentativi di suicidio segnalati nelle strutture della regione. Le cause di questo fenomeno sono molteplici e vanno ricercate nelle condizioni di detenzione, nella mancanza di supporto psicologico e nelle difficoltà di reinserimento sociale. Le istituzioni locali e nazionali stanno cercando di affrontare questa emergenza. Il Ministero della Giustizia ha annunciato un piano per aumentare i posti disponibili e migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Tuttavia, queste misure richiedono tempo e risorse, e nel frattempo la situazione rimane critica. Organizzazioni non governative e associazioni di volontariato stanno svolgendo un ruolo fondamentale nel fornire supporto ai detenuti e sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di riforme strutturali. Un altro aspetto rilevante è la necessità di interventi di tipo preventivo. La formazione del personale penitenziario, l’implementazione di programmi di supporto psicologico e l’adozione di misure alternative alla detenzione sono alcuni degli strumenti che potrebbero contribuire a ridurre il sovraffollamento e migliorare le condizioni di vita nelle carceri. In particolare, si sottolinea l’importanza di progetti di reinserimento sociale che offrano ai detenuti opportunità concrete di riabilitazione e integrazione nella società una volta scontata la pena. La crisi carceraria in Puglia e in Italia rappresenta una sfida complessa che richiede un approccio multidisciplinare e la collaborazione di tutti gli attori coinvolti. Le esperienze di altri paesi europei, dove sono state adottate con successo politiche innovative per la gestione delle carceri, possono offrire spunti utili per affrontare la situazione italiana. La strada verso una riforma efficace è lunga e tortuosa, ma indispensabile per garantire il rispetto dei diritti umani e la dignità dei detenuti. Cremona. Suicidio nel carcere, vittima un marocchino 31enne di Giuliana Biagi Cremona Oggi, 5 agosto 2024 Probabilmente l’uomo voleva solo inscenare un gesto dimostrativo, ma l’esito è stato fatale. A Cremona sono oltre 500 i detenuti; lo scorso anno quasi 300 i casi di autolesionismo. La presidente della Camera Penale Micol Parati: “Ce l’aspettavamo. La situazione è esplosiva, e non solo a Cremona. Dal Governo misure inadeguate”. Un uomo di 31 anni, originario del Marocco, in carcere a Cremona per presunte rapina e violenza sessuale, si è impiccato ieri pomeriggio verso le 19.15 in una cella della Casa Circondariale. Lo denuncia uno dei sindacati di Polizia penitenziaria, la Uilpa, attraverso il segretario generale Gennarino De Fazio. Salgono così a 62 i gesti estremi compiuti da detenuti in Italia dall’inizio dell’anno: soltanto una settimana fa, un altro suicidio a Prato, compiuto da un 27enne italiano. Il macabro conteggio, chiarisce De Fazio, è il “frutto di risultanze acquisite attraverso nostri canali informativi, autonomi e indipendenti, e che coordiniamo costantemente con Radio Carcere (Radio Radicale), Ristretti Orizzonti e altre associazioni indipendenti. D’altronde, sono ben 14 i decessi di cui, sotto un profilo strettamente tecnico-giuridico, non è stata accertata la causa e che ben potrebbero derivare da suicidio sommandosi al dato ufficiale”. Il sindacato Sappe: “Occorre ridurre il numero di reati per cui è previsto il carcere implementare delle pene alternative alla detenzione” - Secondo Alfonso Greco, segretario per la Lombardia del Sappe - sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria - il 31enne “aveva sottratto un mestolo dalla cucina e aveva litigato con un altro detenuto, per questo era stato recentemente ripreso. Poi non è voluto rientrare in Sezione e ha attuato il gesto estremo, anche se sembrerebbe che abbia voluto fare un gesto dimostrativo ed invece è morto”. “Spesso, questi eventi, oltre a costituire una sconfitta per lo Stato, segnano profondamente i nostri Agenti che devono intervenire”, afferma il segretario generale del Sappe Donato Capece. “Si tratta spesso di agenti giovani, lasciati da soli nelle sezioni detentive, per la mancanza di personale. Servirebbero anche più psicologi e psichiatri, vista l’alta presenza di malati con disagio psichiatrico. Spesso, anche i detenuti, nel corso della detenzione, ricevono notizie che riguardano situazioni personali che possono indurli a gesti estremi”. “Siamo costernati ed affranti: un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta per lo Stato e per tutti noi che lavoriamo in prima linea. Ma nessuno può sentirsi indifferente a queste morti. Il personale di Polizia Penitenziaria è sempre meno, anche a seguito di questi eventi oramai all’ordine del giorno. Stiamo vivendo un’estate di fuoco nelle carceri e servono immediatamente provvedimenti concreti e risolutivi: espulsioni detenuti stranieri, invio tossicodipendenti in Comunità di recupero e psichiatrici nelle Rems o strutture analoghe. Il personale di Polizia Penitenziaria è allo stremo e, pur lavorando più di 10/12 ore al giorno, non riesce più a garantire i livelli minimi di sicurezza. Fino a quando potrà reggere questa situazione?” Il sindacato ribadisce inoltre “che si rendono sempre più necessari gli invocati interventi urgenti suggeriti dal SAPPE per fronteggiare la costante situazione di tensione che si vive nelle carceri italiane: non è più rinviabile una riforma strutturale del sistema, anche ipotizzando eventualmente di ridurre il numero di reati per cui sia previsto il carcere e, conseguentemente, implementare delle pene alternative alla detenzione ed avviare una efficace struttura che consenta la loro gestione sul territorio. Il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria non si fa prendere per il naso da chi oggi pensa di avere scoperto l’acqua calda e i problemi carcerari sollecitando improbabili indulti e leggi svuota carceri, mentre per mesi ed anni non hanno detto una parola sui provvedimenti delle varie maggioranze politiche di ogni colore al Governo che, nel tempo, hanno destabilizzato il sistema e destrutturato la sicurezza nelle carceri”. Micol Parati, Camera penale: “Non possiamo più far finta di niente” - Un problema sempre più grave quello dei suicidi in carcere in tutta Italia. Soltanto qualche settimana fa, a inizio luglio, uno sciopero di tre giorni dei penalisti contro “l’irresponsabile indifferenza della politica di fronte al dramma del sovraffollamento e dei fenomeni suicidari nelle carceri”. Lo scorso 11 giugno anche a Cremona come nel resto d’Italia si era tenuta la “maratona oratoria” in cortile Federico II, con numerosi interventi per rappresentare alla società civile “le condizioni inumane dei detenuti e il degrado della realtà carceraria nella quale si vedono costretti a svolgere la propria attività lavorativa gli agenti di polizia penitenziaria e tutti gli operatori”. “Non abbiamo più la pena di morte, ma in carcere si può morire”, questo lo slogan che più o meno riassumeva il senso della mobilitazione dei penalisti. “L’anno scorso nel carcere di Cremona”, aveva ricordato in quell’occasione la presidente della Camera Penale di Cremona e Crema Micol Parati, “su circa 500 detenuti si sono registrati 287 atti di autolesionismo. “Una situazione abnorme e inaccettabile”, aggiunge l’avvocato, dopo l’episodio venuto alla luce oggi. “Purtroppo la situazione carceraria è un’emergenza dimenticata. Era solo questione di tempo e poi, purtroppo, visto l’abnorme numero dei suicidi in carcere dall’inizio dell’anno, sarebbe successo anche a Cremona. E così è stato. Cronaca di una morte annunciata. Le Camere Penali si stanno mobilitando da mesi e da anni stanno chiedendo ai vari governi che si sono succeduti di modificare una situazione carceraria che ci rende un Paese che non rispetta nemmeno i diritti umani e i propri principi costituzionali. La situazione è tragica e non possiamo più aspettare, il sovraffollamento, la mancanza di attività all’interno delle strutture carcerarie e l’impossibilità di seguire un percorso rieducativo portano a queste continue morti. Non possiamo più far finta di niente, dobbiamo pretendere un intervento dello Stato e della Regione che modifichi radicalmente questa situazione”. Condizioni di vita al limite dell’accettabile, dunque, che oltretutto non si rivelano efficaci visto che, statistiche alla mano, le recidive di chi sconta la pena con misure alternative alla detenzione, almeno in parte, commette poi altri reati all’incirca nel 19% dei casi, mentre tra chi la sconta completamente in carcere la percentuale sale a oltre il 65%. “Il Terzo Settore è importante e fa molto nelle carceri - commenta ancora Parati - ma lo Stato non può contare solo sul volontariato, deve mettere in atto misure efficaci ed istituzionalizzate per la rieducazione di almeno una parte dei carcerati”. I numeri di chi oggi accede ai vari corsi rieducativi sono del tutto insufficienti anche a Cremona: poche unità a fronte di centinaia di reclusi. Cremona. Alessio Romanelli: “Suicidio in carcere specchio di una realtà inaccettabile” cremonaoggi.it, 5 agosto 2024 Il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Cremona interviene sulla notizia diffusa oggi della morte di un detenuto nel carcere di Cà del Ferro, probabilmente un gesto di protesta che voleva essere dimostrativo e che invece si è concluso drammaticamente. “La tragica notizia che ha raggiunto tutti noi questo pomeriggio ci rattrista profondamente”, afferma Romanelli. “Di fronte al dramma umano di una persona detenuta che decide di togliersi la vita si rimane sgomenti, ma come avvocati e come cittadini sentiamo il dovere di ricordare che questo dramma è ormai divenuto una costante inaccettabile nelle carceri italiane. Il fatto che quest’ultimo tragico evento sia avvenuto a Cremona ci fa avvertire la tragedia ancora più vicina, perché conosciamo bene la realtà di “Ca’ del ferro”, i suoi luoghi, le persone che ci vivono e quelle che, con competenza e senso del dovere, vi operano per cercare di garantirne al meglio il funzionamento. E conosciamo bene i problemi del carcere di Cremona, tante volte denunciati, in tante sedi, da tanti anni. Sono problemi che prescindono dai singoli e che sono lo specchio di quella che è divenuta la realtà detentiva dell’intero paese: sovraffollamento cronico e insostenibile, carenza di personale, insufficienza del trattamento rieducativo, psichiatrizzazione del detenuto, ancora troppo limitato accesso alle misure alternative alla detenzione. A questo si aggiungono le problematicità specifiche del carcere di Cremona, divenuto, suo malgrado, una sorta di “ultimo vagone” regionale, dove confluiscono moltissimi detenuti da altri istituti lombardi, spesso privi di qualsiasi supporto familiare sul territorio, con fine pena brevi che rendono di fatto impossibile il percorso trattamentale. Di fronte a fatti di questo tipo il pensiero corre alle parole dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel 2011 - sono passati ben 13 anni - definiva la condizione carceraria una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile, che ha raggiunto un punto critico insostenibile, una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo. Invitiamo quindi, ancora una volta, tutte le forze politiche a farsi finalmente effettivo carico della insostenibile situazione carceraria italiana, con interventi immediati e realmente efficaci nel ridurre senza ulteriori indugi il sovraffollamento carcerario”. Torino. Rivolta all’Ipm Ferrante Aporti, si ipotizza il reato di devastazione di Marco Procopio rainews.it, 5 agosto 2024 Rischiano fino a 15 anni di carcere i detenuti che hanno messo a ferro e fuoco il Ferrante Aporti di Torino. La procura dei minori ipotizza il reato più grave, cioè quello di devastazione. Nelle immagini circolate sui social si vedono infatti porte distrutte, uffici vandalizzati, materassi dati alle fiamme. Ma chi nelle scorse ore è entrato nella struttura parla di danni ancora più pesanti. Centinaia di migliaia di euro, secondo le stime del ministero. I ragazzi che hanno guidato la sommossa sono già stati trasferiti in altre Regioni. È ancora a Torino invece il 16enne condannato per il lancio della bici dai Murazzi. “L’idea è stata dei marocchini”, ha detto in una videochiamata alla madre il giorno dopo, come conferma il suo avvocato Domenico Peila. “Stavano organizzando la rivolta da 15 giorni. Io ho avvisato un’educatrice ma non mi ha ascoltato”. Parole che i magistrati dovranno verificare con attenzione. Giovedì notte, infatti, mentre i giovani si stavano impossessando del carcere, gli adulti del Lorusso e Cutugno stavano seminando il caos nel padiglione B. Una coincidenza poco credibile. L’ipotesi è che i due gruppi abbiano pianificato un’azione coordinata. La polizia scientifica ha già fatto i sopralluoghi. Si cercano i cellulari con cui sono state immortalate le violenze. Oltre al video pubblicato su TikTok, infatti, esistono altri filmati che i detenuti del Ferrante Aporti avrebbero inviato ai propri familiari in quella notte di follia. Materiale che sarà determinante per le indagini. Torino. Il direttore dell’Ipm: “Dobbiamo spostare l’obiettivo dei ragazzi, da banda a squadra” di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 5 agosto 2024 “Dobbiamo spostare l’obiettivo dei ragazzi, da banda a squadra”. Lo ha ripetuto spesso negli ultimi mesi Giuseppe Carro, il nuovo, attesissimo, direttore del Ferrante Aporti. Con questo obiettivo ha impostato un lavoro che, dopo la rivolta di giovedì sera, rischia di essere sepolto sotto le macerie lasciate dalla rabbia dei giovani detenuti. Domenica mattina ci sono stati altri due trasferimenti e non saranno gli ultimi. In attesa che le indagini facciano piena luce su tutte le responsabilità della sommossa. “Negli ultimi mesi ho visitato molte volte l’istituto, che dopo molti anni vede finalmente una figura stabile alla direzione - racconta Monica Gallo, garante comunale delle persone private della libertà, che si augura che tutti i progetti portati avanti finora non vadano perduti -. Giuseppe Carro, che da ottobre guida l’Ipm, è un giovane direttore dallo sguardo nuovo e mite. Proprio con l’obiettivo di creare una “squadra” ha organizzato alcune significative attività come il torneo di calcio in memoria di Don Mecu”. Partite di calcio, vere, di quelle da giocare fino all’ultimo minuto. I giovani del “Ferrante”, opposti alla squadra dei magistrati, degli avvocati e dei Salesiani. “Il direttore conosce i ragazzi, li chiama per nome e li saluta con il gesto informale del pugno contro pugno - continua la garante -. Non come alternativa alla stretta di mano e neppure per una questione igienica, ma forse per solidarietà”. Anche per questo la devastazione dell’Ipm sembra inspiegabile. Bisogna però tenere conto che nei primi 6 mesi del 2024 il Ferrante Aporti ha accolto circa 100 giovani detenuti, un dato in fortissima crescita rispetto a tutto il 2023 quando i nuovi ingressi sono stati 161. “La maggior parte dei ragazzi provengono dalla libertà e sono minori stranieri non accompagnati, con un’esperienza migratoria segnata dalla separazione dal nucleo familiare e da aspetti che si “stratificano” - analizza Gallo. Come ansia, depressione, traumi e scarso supporto nella fase di arrivo, accoglienza e accompagnamento. Ogni minore ha una storia “buia” e “sconfinata” ed entrare nella loro vita è faticoso”. Eppure fra quei giovani difficili e ribelli, in 12 hanno conseguito egregiamente la licenza media, 7 minorenni e 5 giovani adulti e 9 ragazzi hanno conseguito le certificazioni di competenze professionali. Ottimi risultati, ma alcuni restano in carcere solo perché la disponibilità nelle comunità esterne è sempre più ridotta: “La scorsa settimana, ad esempio, un giovane ha attraversato l’Italia per raggiungere al sud l’unica comunità disponibile su tutto il territorio nazionale - conclude Gallo -. Un altro viaggio per lui, costato più di cinquemila euro e un’estenuate ricerca da parte del personale dell’Ipm per la nuova destinazione. Indubbiamente più fortunato dei sei giovani adulti che, da gennaio a giugno, sono transitati dal Minorile al Lorusso Cutugno. E allora forse torna utile ricordare le parole di Luigi Settembrini. “O voi che fate le leggi, e che giudicate gli uomini, rispondetemi e dite: prima che costoro fossero caduti nel delitto, che avete fatto voi per essi? Avete voi educata la loro fanciullezza, e consigliata la loro gioventù? Avete sollevata la loro miseria?”. Nella speranza che l’interrogativo diventi punto di ripartenza”. Torino. Le prime conseguenze della rivolta nel carcere minorile ilpost.it, 5 agosto 2024 Nella notte tra giovedì e venerdì decine di detenuti hanno devastato la struttura: la procura dei minori ha aperto un’indagine per devastazione e resistenza a pubblico ufficiale. La procura dei minori ha aperto un’inchiesta con l’ipotesi di devastazione e resistenza a pubblico ufficiale per la grossa rivolta che c’è stata nella notte tra giovedì e venerdì nel carcere minorile “Ferrante Aporti” di Torino. Il ministero della Giustizia ha inoltre fatto sapere che durante il fine settimana alcuni detenuti ritenuti responsabili (non è chiaro quanti) sono stati trasferiti in altre strutture. La rivolta è cominciata verso le 20 di giovedì ed è proseguita fino alle prime ore di venerdì mattina. Sono state devastate diverse celle, oltre che l’ufficio del direttore Giuseppe Carro, appiccati incendi e divelti arredi. Diversi agenti della polizia penitenziaria sono stati aggrediti e alcuni detenuti hanno anche provato a evadere, ma sono stati bloccati. Qualcuno tra i detenuti ha registrato la sommossa con un telefono introdotto di nascosto nel carcere, e sono stati pubblicati dei video su TikTok per denunciare il sovraffollamento della struttura. Un video per esempio aveva la didascalia: “Rivolta. Il massimo del carcere è di 42 persone. Noi siamo in 60”. Alla fine della rivolta sei agenti e 12 detenuti sono rimasti feriti e portati in ospedale con sintomi di intossicazione per i fumi provocati dagli incendi appiccati. La procura di Torino sta indagando anche sull’ipotesi che la rivolta nel carcere minorile “Ferrante Aporti” sia collegata a un’altra di minore entità avvenuta quasi in contemporanea nella casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, conosciuta comunemente come carcere Le Vallette, dato che si trova nell’omonimo quartiere, a nord-ovest della città. L’ipotesi degli investigatori è che i detenuti di quest’ultima struttura si siano coordinati con quelli del “Ferrante Aporti”: sarebbe stato un diversivo per attirare un maggior numero di agenti nel “Lorusso e Cutugno” e facilitare possibili evasioni dal carcere minorile. Il carcere “Ferrante Aporti” è una delle 17 carceri minorili italiane, anche chiamate istituti penali minorili (IPM). Sono strutture in cui sono detenute persone tra i 14 e i 18 anni, ma che possono ospitare anche giovani adulti fino ai 25 anni se il reato per cui sono in carcere è stato commesso prima del raggiungimento della maggiore età. Secondo quanto ricostruito da Repubblica, la rivolta sarebbe stata programmata da tempo: i detenuti avrebbero scelto giovedì 1° agosto perché sapevano che il comandante degli agenti di polizia penitenziaria, Giovanni Battista Alberotanza, era in ferie e che in servizio c’erano solo nove agenti. Secondo il ministero della Giustizia la rivolta sarebbe partita dopo che il fratello maggiorenne di un detenuto era stato arrestato perché trovato in possesso di 20 grammi di sostanze stupefacenti che stava cercando di introdurre nell’istituto. Il sindacato di polizia penitenziaria Osapp ha però sottolineato come da tempo ci siano proteste per il sovraffollamento nella struttura, e che quindi la rivolta della scorsa settimana avrebbe potuto essere evitata: “Non senza preoccupazione e inquietudine continuiamo ad assistere ai vari palliativi posti in essere dal dipartimento per la Giustizia minorile per affrontare in qualche modo le gravissime condizioni che sono presenti negli istituti penali per minori sul territorio nazionale. Se il dipartimento avesse prestato attenzione ai molteplici segnali di allarme che il sindacato aveva lanciato, non si sarebbero verificate situazioni come quelle del Ferrante Aporti”, ha detto Leo Beneduci, segretario dell’Osapp. Brescia. Carcere invivibile, la protesta “sonora” dei detenuti quibrescia.it, 5 agosto 2024 La “battitura” con pentole ed utensili è stata fissata per il mezzogiorno di giovedì prossimo e per quello di Ferragosto. Nuova protesta, questa volta “rumorosa”, dei detenuti del carcere di Canton Mombello a Brescia. La “battitura” con pentole ed utensili è stata fissata per il mezzogiorno di giovedì prossimo e per quello di Ferragosto. Tornano quindi alla classica forma di protesta i carcerati della casa circondariale più affollata d’Italia, dopo le lettere e gli appelli alle istituzioni. Una situazione definita da più parti “invivibile” ed “indegna” quella dei detenuti a Brescia. La missiva inviata al presidente della Repubblica Sergio Mattarella sembra avere smosso le acque e, nei giorni scorsi, alla struttura penitenziaria si è recata in visita la garante nazionale dei detenuti, Irma Conti che è stata lapidaria: per lei, il carcere cittadino “deve essere chiuso”. Nel frattempo, il Senato ha approvato il “Decreto Carceri” che intende introdurre alcune modifiche riguardanti: la materia penitenziaria; la giustizia civile; la giustizia penale; il personale del ministero della Giustizia. Il provvedimento non è ancora confermato, deve prima superare l’esame della Camera. Fino a quel momento potrebbero esserci ancora delle modifiche, ma non ci si aspetta un cambiamento radicale del decreto legge. Il documento prevede: assunzioni nel Corpo di Polizia penitenziaria (per incrementare l’organico con un massimo di 1.000 unità) e di dirigenti penitenziari (20 unità), la liberazione anticipata, la corrispondenza telefonica dei detenuti, strutture per l’accoglienza e il reinserimento (con lo scopo di favorire la riqualificazione professionale e l’assistenza, al fine di permettere il reinserimento socio-lavorativo dei soggetti ex detenuti, compresi coloro affetti da dipendenze o disagi psichici che non richiedono riabilitazione), il reato di indebita destinazione (si riferisce al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio che riceve denaro o beni altrui e li destina a scopi diversi da quelli previsti dalla legge procurando un danno o un vantaggio a sé o ad altri, intenzionalmente e prevede la reclusione da 6 mesi a 3 anni), il procedimento esecutivo di titoli e conti esteri (vieta il sequestro e il pignoramento di denaro, titoli e valori costituenti riserve valutarie di Stati esteri), il tribunale per le persone, le famiglie ed i minorenni (posticipare l’istituzione del tribunale per le persone, per le famiglie e per i minorenni introdotto dalla riforma, che viene rimandato di 1 anno). Firenze. Il caso Sollicciano. Suicidi e tentativi di suicidio, numeri da paura: uno ogni sei giorni di Stefano Brogioni La Nazione, 5 agosto 2024 L’aggiornamento del 3 agosto, a un mese di distanza dalla morte del tunisino di vent’anni: crescono gesti di autolesionismo e aggressioni. E cento detenuti vivono in non più di tre metri quadri. Anche l’ultimo report del garante nazionale dei detenuti, Maurizio D’Ettore, è un bollettino di guerra. Nel carcere di Sollicciano si conferma il solito drammatico trend di tentativi di suicidio e gesti autolesionistici tra i detenuti. Dal primo gennaio a sabato 3 agosto, sono stati registrati 38 tentativi di togliersi la vita dietro alle sbarre, uno ogni sei giorni; un numero che si va ad aggiungere al suicidio di Fedi, il 20enne di origini tunisine il cui gesto ha catalizzato l’attenzione collettiva sulle condizioni del penitenziario fiorentino e, più in generale, sulle carenze del mondo carcerario in Italia. Non solo. In meno di otto mesi a Sollicciano sono stati riscontrati anche 245 gesti di autolesionismo, 47 atti di aggressione fra detenuti, una a figure amministrative e 46 nei confronti del personale della polizia penitenziaria, altre vittime indirette di questa situazione. Situazione che è sfociata anche in 18 episodi di protesta collettiva. Il più noto, è quello innescato proprio dal suicidio di Fedi: incendi, letti e arredi distrutti, sezioni inagibili e allagate. Proprio in virtù di quei disordini, ci sono 110 posti non disponibili, che abbassano la capienza di Sollicciano da 497 a 387 posti. Tuttavia, i reclusi sono 511 (455 uomini, 56 donne), con un indice di sovraffollamento del 132, 04 (in lieve diminuzione rispetto alla precedente rilevazione) che, paradossalmente, non è tra i peggiori in Italia. C’è da considerare però che ci sono 97 detenuti che hanno a disposizione uno spazio tra i 3 e i 4 metri quadrati, gli altri sono invece sistemati in più di quattro metri quadrati. Dopo la sommossa, una ottantina di reclusi sono stati trasferiti in altre case circondariali, sia per motivi disciplinari che per esigenze logistiche. Tuttavia, le tante problematiche che hanno portato all’esasperazione la popolazione di Sollicciano sono tutt’altro che risolte. Secondo quanto si apprende da avvocati che hanno avuto colloqui con i detenuti, l’acqua continua ad arrivare a singhiozzo per i noti problemi all’impianto: non c’è la pressione sufficiente a far arrivare l’acqua nelle sezioni più alte perché se essa viene elevata c’è il rischio che le tubature - vecchie e logore - esplodano. Prima della rivolta di luglio, una cinquantina di detenuti avevano anche presentato un esposto in cui si lamentavano, oltre che dell’acqua, della scarsa igiene, del caldo e della presenza di cimici. Ma di chi è la colpa? Dopo che il caso Sollicciano si è palesato in tutta la sua virulenza, il Dap ha anche avviato un’azione disciplinare nei confronti della direttrice Antonella Tuoni, che l’Amministrazione Penitenziaria ritiene colpevole delle condizioni in cui versa la struttura. Struttura dove però neanche i lavori - iniziati ma poi sospesi oltre un anno fa - sembrano sufficienti a risolvere problemi cronici, come quelli della climatizzazione o delle infiltrazioni. Tanto che, del partito del “buttiamolo giù e ricostruiamolo”, fanno parte anche illustri esponenti della magistratura, come il procuratore generale Ettore Squillace Greco. Prato. La Camera penale striglia Mazzetti: “Ma quali sezioni ha visitato? Fuorvianti le sue parole sul carcere” di Serena Quercioli La Nazione, 5 agosto 2024 La Commissione carcere della Camera Penale di Prato bacchetta l’onorevole Erica Mazzetti che l’altro giorno ha visitato il carcere di Prato definendo la situazione “non affatto emergenziale”. Parole che hanno fatto trasalire la Commissione carcere dalla Camera Penale: “Noi visitiamo periodicamente il nostro Istituto di Pena e denunciamo la prolungata inerzia della politica, nel suo insieme, a far fronte alle criticità del sistema penitenziario, ad iniziare dalla nostra casa circondariale. Ci auguriamo che le dichiarazioni dell’onorevole siano dovute a una visita nelle sole sezioni che notoriamente riscontrano pochi problemi, dove sono ristretti i detenuti di Alta Sicurezza ed i Collaboratori di Giustizia”. Perché il resto della Dogaia di problemi, riferisce la Commissione, ne ha infiniti: le blatte e cimici del letto nelle sezioni comuni, l’inadeguatezza del lavoro a turnazione per 100 detenuti sui quasi 700, le condizioni igienico sanitarie dei locali doccia spesso malfunzionanti, i cambi di lenzuola che avvengono dopo oltre 40 giorni, la carta igienica che manca per settimane, la muffa nei materassi, la carenza di prodotti per la pulizia degli spazi, per citarne solo alcuni. “Invitiamo Mazzetti ad esaminare le nostre relazioni, che sono pubblicate sul sito dell’Unione Camere Penali Italiane ed a vedere la registrazione, di ascoltarci come Commissione Carcere e di intavolare un dialogo per conoscere la realtà della Dogaia”. Il quadro che Mazzetti ha tratteggiato della Dogaia è andato di traverso anche ai radicali: “Chi non vive la condizione del carcere nella sua interezza rischia addirittura di scambiare un istituto infestato da blatte e cimici, con personale sottodimensionato, pochissimi operatori e personale sanitario non in grado di gestire l’emergenza, per un hotel”, scrivono in una nota Filippo Blengino, Tesoriere di Radicali Italiani, e Matteo Giusti, presidente del Comitato Nazionale di Radicali Italiani: “Ben vengano le visite in carcere ma effettuarle senza un occhio analitico generale può solo dare un’immagine molto fuorviante della situazione”. E ha ancora più senso, allora, mettere un attimo da parte le parole e leggere i numeri contenuti nel report del garante nazionale dei detenuti, Maurizio D’Ettore, che fotografa la situazione difficile del carcere pratese dove, meno di dieci giorni fa è avvenuto l’ennesimo suicidio. Il secondo dall’inizio dell’anno, come ha ricordato anche il garante nell’audizione in Senato l’1 agosto. I numeri contenuti nel report sono un bollettino di guerra: 13, dall’inizio dell’anno al 3 agosto, i tentativi di suicidio, 12 le aggressioni fisiche al personale di polizia penitenziaria, 59 gli atti di autolesionismo, 50 le aggressioni, una al personale amministrativo. Una situazione di tensione sfociata anche in quattro le manifestazioni di protesta collettiva. Il report ricorda la capienza della Dogaia, 589 posti, di cui 580 regolamentare disponibili. Tutti occupati da altrettanti detenuti. Tra di loro 30 sono quelli che devono vivere in uno spazio da 3 a 4 metri quadrati. Torino. Davanti al Lorusso e Cutugno la tragica lista di detenuti e agenti suicidi: “Governo colpevole” di Alessandro Mondo La Stampa, 5 agosto 2024 Presidio dei radicali durato tutta la notte scorsa: “Più informazione e interventi immediati della politica”. Quindici ore di presidio. È cominciato ieri sera - a poche ore di distanza dalle rivolte scoppiate anche al minorile Ferrante Aporti - un presidio di Europa Radicale al carcere Lorusso e Cutugno di Torino per chiedere al governo interventi immediati e alla stampa più attenzione: esposti su un’auto i nomi dei 62 detenuti e dei 7 agenti di polizia penitenziaria che si sono suicidati dal primo gennaio a oggi. “La notte è il momento più difficile e doloroso per chi vive dietro le sbarre - spiega Igor Boni -. Per questo abbiamo passato l’intera notte di fronte al carcere. In un periodo che non è uguale agli altri perché il mese di agosto rappresenta per i detenuti la notte dell’intero anno con celle bollenti e il disinteresse delle Istituzioni e della politica che diventa quasi totale. Il carcere scoppia, letteralmente. Occorre farsene carico, occorre far sapere agli Italiani cosa accade dietro le sbarre con i diritti dei detenuti e degli agenti calpestati, frantumati, distrutti”. La punta di un iceberg - E ancora: “I 62 suicidi di detenuti dal 1 gennaio ad oggi e i 7 suicidi di agenti di polizia penitenziaria, i disordini di queste ore al Ferrante Aporti e al Lorusso e Cutugno con milioni di danni, sono la punta di un enorme iceberg. Le responsabilità vengono da lontano ma occorre dire senza mezzi termini che questo Governo ne ha molte, continuando a non guardare una bomba che sta esplodendo, rendendosi corresponsabile quando non mandante delle violazioni in atto. Gli Italiani devono poter conoscere per farsi un’opinione informata, non su preconcetti”. C’è un giudice a Roma ed è lì per difendere lo stato di diritto di Claudio Cerasa Il Foglio, 5 agosto 2024 Più libertà, meno catene. Più mercato, meno corporativismo. Più concorrenza, meno rendite. Ma in Italia si può? La famosa espressione “esiste, dunque, un giudice a Berlino” è un’espressione mutuata da una grande opera di Bertolt Brecht all’interno della quale si narra la storia di un eroico mugnaio che lotta tenacemente contro l’imperatore per vedere riparato un abuso. Con grande tenacia, il mugnaio, alla fine, riesce a trovare un giudice onesto che lo aiuta a vincere la causa. In Italia, la frase di Brecht viene spesso utilizzata a sproposito, su casi piccoli, non importanti, marginali, ma c’è forse un ambito in cui la frase di Brecht, c’è un giudice a Berlino, potrebbe non risultare fuori luogo. Un ambito che in verità corrisponde a un luogo insieme fisico e istituzionale e che forse meriterebbe un plauso per tutto quello che negli ultimi mesi ha fatto per difendere alcuni princìpi cardine della nostra democrazia liberale spesso calpestati nell’indifferenza generale. Il giudice a Berlino, in Italia, si trova a Roma, di fronte al Quirinale, e quel giudice coincide con il profilo della Corte costituzionale, guidata da Augusto Barbera, che negli ultimi mesi ha rimesso incredibilmente al centro della vita pubblica del nostro paese alcuni princìpi che in passato sono stati asfaltati con una certa disinvoltura. Cinque su tutti: difesa della concorrenza, difesa del garantismo, difesa del Parlamento, lotta contro la magistratura esondante, battaglia contro la paralisi della firma nella pubblica amministrazione. I casi iniziano a essere molti. A luglio, due in particolare. Uno riguarda la risposta data al ricorso di Marco Cappato sul fine vita. La Corte ha scelto di non assecondare il desiderio popolare di trasformarsi in una supplente della politica, ha scelto di non assecondare il tentativo di alcuni pubblici ministeri di interpretare in modo estensivo le leggi esistenti, ha scelto di non accogliere in nessun modo il generico diritto alla morte, ha scelto di far riferimento nel suo dispositivo soltanto al diritto a rifiutare le cure, da sempre presente nell’ordinamento e che non ha niente a che vedere con l’eutanasia attiva. Sintesi del messaggio: la politica faccia il suo mestiere, i magistrati facciano il loro mestiere e se deve cambiare qualcosa su un tema così delicato non si può chiedere ai giudici di fare il mestiere della politica. L’ultimo, in ordine di tempo, è un altro caso, ed è quello che ha visto la Consulta protagonista nel settore della concorrenza con una sentenza a suo modo storica. Sintesi: fare ostruzionismo contro il servizio di noleggio con conducente, creando cioè dei marchingegni burocratici che rendono impossibile rilasciare nuove autorizzazioni, è contro la Costituzione perché compromette gravemente “la possibilità di incrementare la già carente offerta degli autoservizi pubblici non di linea” e soprattutto ha consentito, per oltre cinque anni, “all’autorità amministrativa di alzare una barriera all’ingresso dei nuovi operatori”. Qualche settimana prima, a marzo, altra sentenza su un caso analogo. La regione Calabria aveva sollevato davanti alla Corte una questione semplice: se non fosse incostituzionale dare la possibilità alle regioni di offrire solo ai taxi la possibilità di riservare servizi innovativi, a livello tecnologico. La Consulta ha dato regione al governatore della Calabria, Roberto Occhiuto, ha ribadito il fatto che divieti e oneri per gli ncc devono essere fondati su interessi pubblici e devono essere proporzionati, ha detto che gli ncc possono già da subito erogare servizi innovativi senza bisogno di autorizzazioni preventive, ha affermato il principio che l’innovazione deve essere il cuore del processo competitivo di un paese, ha detto che la regolazione pubblica potrà intervenire a posteriori se ci saranno esternalità negative e ha aiutato a far muovere l’Italia verso una direzione positiva: la creazione di unico mercato per taxi e ncc, all’interno del quale le regole sono uguali per tutti e all’interno del quale qualsiasi regolazione deve avere come obiettivo il benessere del consumatore e la sua libertà di scelta. Vedere una Corte costituzionale che considera le barriere all’ingresso nel mercato come un atto non costituzionale è come vedere improvvisamente una luce in fondo a un tunnel, un’oasi nel deserto, un piccolo miracolo in un paese che ha fatto della difesa della rendita la sua ragione d’essere. Qualche giorno prima, la Corte è intervenuta anche su un altro terreno, più complesso ma non meno importante: il regime della responsabilità all’interno dell’amministrazione pubblica. Niente paura, niente di tecnico. Molto semplicemente, la Corte ha riconosciuto che la responsabilità amministrativa può essere un rischio paralizzante per l’Italia, ha ammesso che bloccare l’amministrazione pubblica ha l’effetto di ostacolare la crescita economica, ha affermato che ostacolare la crescita economica può indurre a comprimere la tutela dei diritti e per questo ha scelto di salvare la cosiddetta disciplina provvisoria che limitava la responsabilità dell’impiegato pubblico in caso di dolo. Nello specifico, la sentenza dice che la disciplina a regime non potrà limitare la responsabilità solo al dolo, perché sarebbe eccessivamente pregiudicata la sua funzione deterrente dei comportamenti macroscopicamente negligenti, e introduce un decalogo per il legislatore (la tipizzazione della colpa grave, un tetto all’entità del risarcimento, la differenziazione del regime di responsabilità a seconda della complessità dell’attività). Messaggio politico chiaro: incoraggiare l’immobilismo delle amministrazioni pubbliche, cavalcando il giustizialismo, è il modo peggiore possibile per provare a difendere la legalità in una grande democrazia. Stesso discorso, se possibile, su un altro aspetto cruciale del nostro paese. Un aspetto che riguarda il mondo della giustizia. Un aspetto che riguarda la capacità del nostro sistema istituzionale, e anche politico, di garantire un principio non negoziabile di una democrazia liberale: la necessità di arginare la presenza di una magistratura desiderosa di utilizzare i pieni poteri per esondare, per uscire fuori dal proprio recinto e per violare alcuni princìpi non negoziabili dello stato di diritto. I casi qui non sono isolati ma sono tre. Con la prima sentenza, siamo nel 2023, la Consulta aveva dato ragione a Matteo Renzi stabilendo che la procura di Firenze non poteva acquisire mail e Whatsapp dell’allora senatore senza preventiva autorizzazione del Senato. La seconda sentenza, siamo ancora nel 2023, è quella che ha dato ragione al Senato e torto alla procura di Torino nel conflitto di attribuzione sul caso dell’ex senatore del Pd Stefano Esposito, che venne intercettato illegalmente per 500 volte mentre era in carica e rinviato a giudizio sulla base di intercettazioni che secondo la Costituzione non dovevano essere effettuate, in quanto le conversazioni erano state ascoltate senza alcuna autorizzazione del Parlamento. A marzo del 2024, ecco un’altra sentenza clamorosa, la numero 41, in cui si dice che, contrariamente a un malcostume diffuso, partendo dal ricorso di un magistrato, quando il pm chiede l’archiviazione per prescrizione non può sputtanare la persona che ha indagato dicendo che è colpevole ma l’ha fatta franca grazie alla prescrizione, non può emettere un giudizio morale negativo senza contraddittorio e che un comportamento del genere da parte di un pm crea i presupposti per la valutazione della responsabilità civile e disciplinare del suddetto magistrato. Difesa della concorrenza, difesa del garantismo, difesa del Parlamento, lotta contro la magistratura esondante, battaglia contro la paralisi della firma nella pubblica amministrazione. C’è un giudice a Berlino. Si trova a Roma. Nel Palazzo della Consulta. E da mesi è lì che indica spesso alla politica una strada utile per difendere i valori non negoziabili di uno stato di diritto e di una democrazia liberale. Più libertà, meno catene. Più mercato, meno corporativismo. Più concorrenza, meno rendite. Forse in Italia si può. Perché i referendum vanno usati con cura di Serena Sileoni La Stampa, 5 agosto 2024 Si potrebbe chiamare l’estate dei referendum. E non solo per la fruttuosa raccolta firme per quelli sull’autonomia differenziata e sul Jobs Act, o per i preparativi all’orizzonte del referendum costituzionale sul premierato (e magari anche sulla separazione delle carriere dei magistrati). Da una decina di giorni, è attiva un’importante innovazione: una piattaforma online per le firme necessarie a presentare la richiesta dei referendum abrogativi e le proposte di legge di iniziativa popolare, già avviata dal governo Draghi e ora resa finalmente operativa dal ministro Nordio. Una innovazione modesta, se paragonata ai tentativi di introduzione del voto elettronico che sono stati sperimentati all’estero, ma comunque un piccolo, grande passo avanti per i principali strumenti di partecipazione popolare alle decisioni politiche. Proprio da questa piattaforma, dall’interfaccia un po’ grossolana ma comunque sicura grazie al sistema Spid, si scopre che quelli contro il Jobs Act e l’autonomia differenziata sono i due più importanti di ben undici referendum in questo momento aperti alle sottoscrizioni, a cui si aggiungono quattro proposte popolari di legge. Sono anche i due referendum su cui, come detto, sono state già raggiunte le firme necessarie per avanzare la richiesta, che deve passare ora il controllo di regolarità della Corte dei Conti e poi quello, dagli esiti ben più incerti specie per il referendum contro la legge Calderoli, di ammissibilità della Corte costituzionale, prima di poter essere sottoposti al voto popolare e, quindi, di superare il quorum di validità. Finora, in Italia si sono tenuti quasi 78 referendum, la maggior parte abrogativi. Tanti, ancor più se si pensa che non esistevano prima del 1970, anno in cui venne approvata la legge che ne disciplina lo svolgimento. Un ritardo paradossale, in un certo senso, visto che la Repubblica nasce proprio su un referendum, quello del 2 giugno. In ogni caso, un ritardo dovuto non a noncuranza, ma a quell’ostruzionismo di maggioranza, come lo chiamò Calamandrei, che caratterizzò la lunga prima fase repubblicana e che, per i referendum, fu corteggiato anche dal partito comunista, dichiaratamente ostile al voto referendario come espressione di contro-potere politico. È noto che la legge venne poi approvata come tentativo della maggioranza democristiana di sfidare l’approvazione in Parlamento della legge sul divorzio, ad essa coeva. Da allora, il partito radicale per primo sarebbe stato il promotore di un ricorso sempre più frequente al voto abrogativo, con esiti spesso deludenti. Trentatré, difatti, non hanno nemmeno raggiunto il quorum di validità. Si tratta di un dato comprensibile, sia perché un ricorso frequente all’istituto referendario rischia di sminuirne il valore, sia perché l’astensione, e quindi il mancato raggiungimento del quorum, rappresentano una strategia di voto. Ciò non toglie che il referendum indichi vitalità della democrazia, vivacità dell’opinione pubblica e valorizzazione da parte del sistema politico degli strumenti di partecipazione popolare alle scelte pubbliche. Tuttavia, l’enfasi referendaria che caratterizza questa estate ha un lato meno solare. La si deve da un lato all’adesione di Elly Schlein, e con essa di buona parte del suo partito, all’iniziativa di Landini contro il Jobs Act, una legge voluta e votata dal Pd, per quanto in una stagione politica diversa; d’altro lato, all’impeto con cui è stata organizzata l’iniziativa contro la legge Calderoli; infine agli assaggi di campagna elettorale per il referendum costituzionale sul premierato. Si aggiunga a questi elementi la proposta di legge popolare per l’introduzione di un salario minimo, frutto di una iniziativa dei partiti di opposizione, in particolare Partito democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra, i quali, anziché portare avanti una proposta di legge di iniziativa dei loro parlamentari, hanno deciso in tal modo di appellarsi al popolo. È proprio questo sospetto appello al popolo che getta un’ombra sull’estate referendaria. Non si vorrebbe infatti che tutto il trasporto per il voto popolare nasconda il solito elefante nella stanza: la necessità di colmare la debolezza del sistema politico con la forza dell’opinione pubblica. È definizione corrente che i referendum siano espressione di democrazia diretta. Il modo in cui sono disciplinati e la storia stessa di quelli trascorsi dovrebbero indurre a chiederci se questa formula sia appropriata. Forse è meglio considerarli una chiamata al voto da parte di istanze ben organizzate, spesso gli stessi partiti o sindacati, nella quale le persone sono invitate a una scelta secca su quesiti anche complicati. Non a caso, una delle preoccupazioni maggiori della Corte costituzionale nel dichiararne l’ammissibilità è proprio la chiarezza del quesito e degli effetti del voto. Una ri-definizione di tal genere dell’istituto referendario non mette in dubbio che sia uno strumento salutare di partecipazione alla (e della) democrazia rappresentativa. Ma proprio per non intaccarne l’importanza, è bene invocarli e maneggiarli con cura e trattarli come tali, piuttosto che come i più genuini strumenti di democrazia del popolo e dal popolo. Il voto è il diritto politico più importante che abbiamo. Attenzione quindi a non trasformare quello referendario in un match continuo in cui il sistema politico resta in panchina e la conflittualità che esprime viene caricata sulle matite dei cittadini. Il ritorno dello ius soli. Presto una petizione online che porti al referendum di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 5 agosto 2024 Riccardo Magi (+Europa): “Ci stiamo lavorando proprio in queste ore e credo possa essere una svolta. Il referendum è uno strumento vivo, dimostriamolo”. Lo ius soli torna sulla scena. E potrebbe farlo con tutta la forza di un referendum. Il diritto di cittadinanza sarà infatti al centro di un quesito che +Europa intende presentare nei prossimi giorni, coinvolgendo altre forze politiche e associative, sulla piattaforma nazionale per i referendum e le iniziative popolari entrata in funzione la scorsa settimana. Un sito acceso presso il ministero della Giustizia che potrebbe cambiare, almeno in parte, la fisionomia alla politica italiana. Riccardo Magi, il segretario di +Europa è la persona che nel luglio 2021 presentò l’emendamento che ha aperto la strada alla raccolta di firme digitale e al tempo stesso il promotore del quesito sullo ius soli, che sarebbe parzialmente abrogativo della legge in vigore con il risultato di legare l’acquisizione della cittadinanza anche alla nascita sul territorio italiano: “Ci stiamo lavorando proprio in queste ore e io credo possa essere una svolta. Credo che ci potrà essere un lavoro comune con il Terzo settore laico e anche cattolico. E credo che anche la parte migliore delle forze progressiste possa fare un po’ di autocritica e mettersi al lavoro su questo tema”. Un riferimento al naufragio del ddl sulla cittadinanza avvenuto per assenza del numero legale nel dicembre 2017. Ma, appunto, Magi è convinto che il tema possa tornare in scena anche perché il “prossimo anno ci sarà certamente una stagione referendaria: l’Autonomia, forse il quesito contro il Jobs act della Cgil. Io spero che si renda l’appuntamento politicamente ricco e si dimostri che il referendum non è uno strumento tramontato”. Qualunque cittadino dotato di Spid può ora presentare sulla piattaforma un quesito referendario o una legge di iniziativa popolare, strumento però particolarmente negletto: dal 1979 al 2019 sono state presentate più di 280 proposte, di cui solo 4 sono diventate legge mentre oltre 160 non sono state nemmeno discusse. “Invece il referendum - ricorda Magi - non affida tutto al Parlamento ma chiama direttamente in causa i cittadini”. Al momento sulla piattaforma sono state presentati 16 tra quesiti referendari e leggi di iniziativa popolare. Il più noto è quello contro l’Autonomia differenziata presentato da Pd, M5S, Verdi, +Europa, Italia viva e altre sigle del centrosinistra. Medio Oriente, sale la tensione in Iraq. Raid di Israele sugli sfollati a Gaza di Davide Varì Il Dubbio, 5 agosto 2024 Bombardate le tende nel cortile dell’ospedale di Al-Aqsa a Deir el-Balah: almeno tre morti e 18 feriti. L’attacco è avvenuto poche ore dopo quello a una scuola trasformata in rifugio, ha ucciso 17 persone. Hezbollah ha annunciato di aver lanciato “dozzine” di razzi contro Israele. Mentre nell’intero Medio Oriente si guarda con preoccupazione alla minacciata risposta di Teheran all’azione che ha portato all’uccisione a Teheran del capo dell’ufficio politico di Hamas Ismaii Haniyeh, anche in Iraq è tornata a salire la tensione. Proprio nelle stesse ore in cui Israele colpiva l’alto esponente del movimento palestinese e a Beirut uccideva anche Fuad Shukr, uno dei più importanti comandanti militari di Hezbollah, le truppe americane in Iraq hanno compiuto un raid a Babil contro le Forze di Mobilitazione Popolare (PMF), le locali milizie filo-iraniane, uccidendo quattro persone. L’azione, sottolinea Asia News, arrivava dopo la ripresa dei lanci di razzi contro la base di Ain al-Asad, che ospita le truppe statunitensi nella provincia occidentale di Anbar in Iraq. L’iniziativa militare statunitense è stata accolta con irritazione a Baghdad. “Il governo iracheno procederà con una denuncia legale al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e alle organizzazioni internazionali”, ha dichiarato all’agenzia locale Rudaw Sabhan Mula Chyad, consigliere politico del primo ministro Mohamed Shia al Sudani. “Hanno preso di mira una parte delle forze di sicurezza irachene”, ha detto, aggiungendo che l’azione è stata intrapresa senza l’approvazione del governo iracheno e potrebbe minare la cooperazione per combattere lo Stato Islamico (Isis), che all’ombra del conflitto a Gaza sta rialzando la testa in quest’area”. La fase aperta dall’eliminazione di Haniyeh a Teheran rischia dunque di avere ripercussioni profonde anche in Iraq, dove da tempo Baghdad mette in discussione la permanenza delle forze americane nel Paese. Secondo quanto riferito da fonti citate dall’agenzia Reuters anche le Forze di Mobilitazione Popolare - insieme ai libanesi di Hezbollah e agli Houthi yemeniti - sono state convocate a Teheran al tavolo in cui si sta pianificando la “risposta” iraniana alle azioni israeliane. E va ricordato che già nello scorso mese di gennaio fu Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, a essere colpita dai missili di Teheran nella “dura risposta” alla strage di Kerman, avvenuta pochi giorni prima proprio durante la commemorazione dell’uccisione del capo delle Guardia Rivoluzionare Qasem Soleimani. Oggi intanto - dopo i funerali di ieri a Teheran - Haniyeh è stato sepolto a Doha, in Qatar, dove l’ufficio politico di Hamas ha il suo quartier generale e dove viveva dal 2019. Per questo il Qatar è lo snodo fondamentale del negoziato per la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco a Gaza, che ieri il presidente degli Stati Uniti Joe Biden - nel primo commento dopo questo omicidio eccellente - ha detto non “essere stato aiutato” dall’azione che ha tolto di mezzo Haniyeh. Israele bombarda gli sfollati a Gaza - Nel frattempo, Israele bombardato le tende che ospitavano i palestinesi sfollati nel cortile dell’ospedale di Al-Aqsa a Deir el-Balah, uccidendone almeno tre e ferendone altre 18. L’attacco è avvenuto poche ore dopo quello a una scuola di Gaza trasformata in rifugio ha ucciso 17 persone. Almeno 39.550 persone sono state uccise e 91.280 ferite in Palestina dall’inizio del conflitto. Mentre si stima che siano 1.139 le persone uccise in Israele durante gli attacchi del 7 ottobre, durante il quale sono state fatte prigioniere 200 persone. Hamas, secondo quanto riporta Al Jazeera, afferma di aver avviato un processo di consultazione per selezionare un nuovo leader in seguito all’assassinio di Haniyeh. Hezbollah: “dozzine” di razzi contro Israele - Hezbollah ha annunciato di aver lanciato “dozzine” di razzi contro Israele. L’attacco, fa sapere ancora il gruppo filo iraniano, è stato condotto con razzi Katyusha. Hezbollah ha anche comunicato che il suo ultimo attacco, a Beit Hillel nel nord di Israele, è stato una risposta alle azioni israeliane a Kfar Kela e Deir Syriane in Libano. “La Resistenza Islamica ha aggiunto il nuovo insediamento di Beit Hillel (nord) alla sua lista di obiettivi e lo ha bombardato per la prima volta con dozzine di razzi”, ha affermato in un comunicato il movimento filo-iraniano, precisando che si tratta di un’azione di “solidarietà” con il popolo palestinese. Il gruppo sciita ha affermato che l’attacco era “a sostegno del tenace popolo palestinese della Striscia di Gaza e della sua coraggiosa e onorevole resistenza”, cosìcome in risposta agli attacchi contro i villaggi di Kafr Kila e Deir Seryan, dove Hezbollah afferma che ci sono stati vittime civili del bombardamento di sabato da parte delle forze israeliane. A metà luglio, il capo del movimento armato, Hasan Nasrallah, aveva già avvertito in un discorso televisivo che se Israele avesse continuato a colpire obiettivi “civili” in territorio libanese, le sue fila avrebbero cominciato a “lanciare missili e prendere di mira colonie che non erano mai state attaccate in passato. Sabato, almeno due combattenti della formazione armata - uno dei quali di 17 anni - sono stati uccisi nei bombardamenti israeliani contro il sud del Libano, che hanno provocato anche il ferimento di poco più di una dozzina di civili, secondo l’Agenzia nazionale di stampa libanese. La nuova giornata di violenza alle frontiere avviene in un momento di massima tensione dopo l’assassinio a Beirut da parte di Israele del massimo comandante di Hezbollah, Fuad Shukr, e la morte di Haniyeh, in un attacco ampiamente attribuito allo Stato ebraico. Anche se venerdì Hezbollah ha ripreso le operazioni contro obiettivi militari israeliani nell’ambito del fuoco incrociato iniziato il giorno dopo lo scoppio della guerra nella Striscia di Gaza, si attende ancora la risposta promessa dal gruppo armato all’incidente. assassinio di Shukr. Congo. Sull’omicidio Attanasio prevale ancora la logica del silenzio di Antonella Napoli L’Espresso, 5 agosto 2024 Non si procederà contro i responsabili della missione Onu congolesein cui il diplomatico fu ucciso. Ma l’indagine prosegue e cerca moventi in affari loschi a cui la vittima si oppose. Le verità nascoste del delitto di Luca Attanasio s’impregnano di veleni e accuse irricevibili gettati sull’ambasciatore italiano, ucciso in un agguato nella Repubblica democratica del Congo il 22 febbraio 2021 assieme al carabiniere che gli faceva da scorta, Vittorio Iacovacci, e all’autista del World Food Programme, Mustapha Milambo. Mentre in Italia si chiude definitivamente la possibilità di un processo per le responsabilità dei due dipendenti del Wfp, Rocco Leone e Mansour Rwagaza, che avevano organizzato la missione terminata tragicamente nella regione congolese del Nord Kivu, emergono documenti che riportano osservazioni diffamatorie di una contrattista della sede diplomatica italiana a Kinshasa nei confronti di Attanasio, mentre era capomissione, poi formalizzate davanti a un carabiniere addetto alla sicurezza dell’ambasciata, ma solo dopo la sua morte. A Roma, nel frattempo, se la Procura non ha ritenuto che ci fossero i presupposti per impugnare la decisione del giudice dell’udienza preliminare, Marisa Mosetti, che ha disposto il non luogo a procedere per le accuse rivolte all’agenzia Onu, riconoscendo agli imputati l’immunità, il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco ha deciso di concentrare le indagini su un secondo fascicolo: quello relativo a movente, mandanti ed esecutori dell’imboscata. Che, per gli inquirenti in Congo, sarebbe stata un tentativo di sequestro finito male. A fronte dei nuovi elementi dell’inchiesta portata avanti da L’Espresso - fatti oscuri avvenuti fuori e dentro l’ambasciata italiana a Kinshasa - si rafforza il quadro inquietante emerso finora. Atti che, seppure denunciati negli anni con esposti e relazioni di servizio, non sembra siano stati presi in considerazione dalla Farnesina. Come la denuncia di una dipendente, che per due volte ha reso informazioni spontanee su presunte irregolarità o tentativi di illeciti. Il ministero degli Esteri non ha fatto nulla per chiarire vicende che gettano ombre infamanti anche sull’operato di Attanasio, che quel sistema voleva contrastare. Forse per evitare di scoperchiare un vaso di Pandora. L’unica azione della Farnesina, in risposta ai fatti descritti da un imprenditore italo-congolese e riportati da L’Espresso nel settembre 2023, è stata un’ispezione disposta nelle sedi diplomatiche di Kinshasa e Congo Brazzaville. Dalla presunta gestione illecita dei visti alla missione degli ispettori ministeriali nell’ottobre 2023 che ha portato alla chiusura dell’ufficio addetto (anche se la documentazione da cui era possibile accertare gli illeciti passati era stata distrutta e dunque si è puntato su irregolarità minori per fornire un capro espiatorio), fino ai “problemi” legati alla contabilità, con fondi mai registrati spariti e permute gonfiate per trarne profitto, emerge un contesto malsano che perdurava da anni. Secondo quanto denunciato in vari esposti depositati presso il Tribunale di Kinshasa, e arrivati anche a ministero e Procura di Roma, collaboratori e funzionari della nostra sede diplomatica - attualmente non più operativi - avrebbero rilasciato visti dietro pagamento di cifre che oscillavano dai 5 ai 6 mila dollari. Che qualcosa di poco lecito avvenisse intorno alle attività consolari è testimoniato anche da alcune relazioni di servizio trasmesse al ministero tra il 2019 e il 2022 dai carabinieri del nucleo di sicurezza e vigilanza (in servizio quadriennale). In particolare, emergono notizie su funzionari ministeriali congolesi che hanno tentato di far recapitare buste con centinaia di dollari, per ragioni non chiare, a un referente dell’ufficio consolare italiano, il quale aveva segnalato la cosa. Come aveva fatto il successore di Attanasio, l’ambasciatore Alberto Petrangeli, denunciando un tentativo di corruzione attraverso un messaggio sulla sua utenza WhatsApp. “Sono stato testimone di un continuo passaggio di soldi di dubbia provenienza in quell’ambasciata, l’ho anche denunciato alle autorità competenti, ma nessuno ha mai fatto niente. E oggi mi chiedo perché non si sia collegata la morte di Attanasio a questi fatti”, sostiene la nostra fonte che fa nomi e cognomi di persone di cui non diamo conto essendo le indagini in corso. In particolare, si cita un funzionario il cui nome ricorre in vari esposti e in una relazione dei carabinieri dell’ambasciata di Kinshasa, che lo avevano sorpreso mentre lasciava la sede diplomatica con una borsa piena di passaporti. “La magistratura italiana dovrebbe andare più a fondo. Anche se molte carte sono sparite, ci sono numerose persone che hanno lavorato a contratto o che ancora lavorano in ambasciata a conoscenza di fatti illeciti. Vicende che potrebbero spiegare gli ipotetici moventi dell’agguato all’ambasciatore. Per l’uccisione di Attanasio, Iacovacci e Milambo bisogna cercare altri colpevoli, non quelli condannati nel processo farsa di Ndolo”, conclude la fonte. Sono tanti gli interrogativi intorno al triplice delitto che non hanno avuto risposte. Oggi questi nuovi elementi, che fanno comprendere il clima ostile intorno ad Attanasio, rinvigoriscono i sospetti dei familiari delle vittime, in primis di Salvatore Attanasio, padre di Luca, e di Dario Iacovacci, fratello di Vittorio, convinti da sempre che l’assassinio dei loro cari non sia stato un sequestro finito male. La domanda, dunque, sorge spontanea: perché, nonostante si rincorrano da tempo voci e notizie sulle azioni poco limpide di alcuni soggetti che operavano in ambasciata, il ministero non è intervenuto per dissipare la nebbia su un ambasciatore morto nello svolgimento delle sue funzioni? Su quanto scritto e documentato finora, abbiamo chiesto più volte un confronto con gli uffici competenti della Farnesina. Inviti declinati con “rinvio” al servizio stampa. Prevale la logica del silenzio. Resta la speranza, contrariamente alle sorti del procedimento a carico dei funzionari del Wfp, che i fatti gravi presenti nel secondo fascicolo aperto dalla Procura di Roma sull’omicidio di Attanasio e Iacovacci non vengano in fretta archiviati. Russia. Sciopero della fame in carcere, Pavel Kushnir morto prima dello scambio dei prigionieri di Riccardo Ricci La Repubblica, 5 agosto 2024 Un pacifista russo è morto in cella il 27 luglio, pochi giorni prima dello storico scambio di detenuti tra i paesi occidentali e la Russia. Pavel Kushnir, 39 anni, di professione pianista, era meno noto ai media degli attivisti liberati il primo agosto. Numerosi detenuti per reati politici si trovano ancora nelle prigioni e rischiano di morirci, come successo a Kushnir e prima di lui ad Aleksej Navalny. Il musicista e attivista si trovava in un centro di custodia cautelare di Birobidzhan, nell’Estremo Oriente russo. Secondo fonti locali, era accusato di tentativi di rovesciamento violento dell’ordine costituzionale. Nella regione autonoma ebraica Kushnir era arrivato nel 2023, dopo una carriera che lo aveva portato prima alla Filarmonica regionale di Kursk, poi a Kurgan. In una intervista all’emittente statale Bira aveva detto di voler “correre il rischio e restare”, anche di fronte all’eventualità di essere “mandato in prigione, arruolato o licenziato”. Il 31 maggio di quest’anno è stato arrestato per aver criticato sui social network il governo e l’operazione militare in Ucraina: a soli quattro video pubblicati sul suo canale Youtube, che al momento conta meno di 90 iscritti.L’arresto di Pavel Kushnir è stato segnalato sul gruppo “Netipichnyj Birobidzhan” sul social network russo VKontakte, che raccoglie le notizie d’interesse per la comunità locale. Secondo la ricostruzione postata sulla pagina social, al momento dell’arresto gli agenti dell’Fsb lo avrebbero trovato in possesso di una tessera contraffatta dell’Fbi. Le accuse che lo hanno portato in cella, tuttavia, riguardavano gli “appelli pubblici ad attività terroristiche”. Kushnir stava facendo uno sciopero della fame e “il suo corpo non è stato in grado di sopportarlo”, ha raccontato Olga Romanova, fondatrice della ong Rus Sidjashchaja (Russia Behind Bars). Altri dettagli sulla sua morte sono ancora sconosciuti. “È sempre stato molto sensibile all’ingiustizia - ha detto al media indipendente Vot Tak un’amica del pianista, Olga Shkrygunova - Una volta, quando avevamo quindici anni, scommettemmo che non si sarebbe piegato al sistema. E non ha ceduto. Quindi ha vinto”. Il sostegno a tutti detenuti in Russia per reati politici è stato il filo rosso della prima conferenza stampa dopo il rilascio degli attivisti Andrej Pivovarov, Vladimir Kara-Murza e Ilja Jashin. Per quanto si tratti del più grande scambio di detenuti nella storia post-sovietica, la liberazione dei 16 detenuti dalle prigioni russe resta “una goccia nell’oceano”, secondo il giornalista Vladimir Kara-Murza. “Chiedo a tutti: scrivete ai prigionieri politici - ha aggiunto l’attivista - non potete immaginare quanta luce e calore fornisca un piccolo pezzo di carta”. “La nostra scarcerazione ha dato speranza a tutti i prigionieri politici”, ha dichiarato a sua volta Pivovarov, ex direttore della ong Open Russia. “Il compito principale - ha aggiunto - è quello di sviluppare misure che consentano alle persone in Russia di esprimere posizioni politiche a un livello di rischio per loro accettabile”. Per Ilja Yashin, che come Pavel Kushnir avrebbe preferito restare in patria, la scarcerazione di tutti i prigionieri politici rappresenta l’obiettivo finale a cui dovrebbe mirare la comunità internazionale, anche nella prospettiva di una fine delle ostilità in Ucraina. “Non dovremmo chiedere scambi, ma cercare un’amnistia politica su larga scala” - ha dichiarato il politico - “Nell’ambito di una soluzione di pace, una delle questioni principali dovrebbe essere la liberazione delle persone imprigionate senza motivo”.