Carceri, allarme del Garante. “Sovraffollamento del 130,06%, troppi suicidi nel 2024” di Stefano Barricelli agi.it, 4 agosto 2024 Il picco record del 231,15% a Milano San Vittore. Al 31 luglio scorso già 58 detenuti si sono tolti la vita, 18 in più rispetto allo stesso periodo del 2022 e 2023. Sono 61.140 i detenuti presenti nelle carceri italiane: i posti disponibili ammontano a 46.982, rispetto alla capienza regolamentare di 51.269, per un indice di sovraffollamento del 130,06% a livello nazionale. Sono alcuni dei dati - aggiornati al 31 luglio - resi noti da Felice Maurizio D’Ettore, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Sono 150 (pari al 79%) gli istituti con un indice di affollamento superiore al consentito che in 50 casi risulta superiore al 150%, con il picco record del 231,15% per Milano San Vittore. La quasi totalità delle regioni (17) registra un indice di affollamento superiore agli standard e solo tre si collocano al di sotto della soglia regolamentare. Notevoli le differenze a livello locale: Puglia (165,37%), Basilicata (150,99%), Lombardia (151,50%), Veneto (145,54%) e Lazio (144,05%) mostrano un “preoccupante indice di sovraffollamento”, in buona parte determinato dal divario in negativo tra capienza regolamentare e posti regolarmente disponibili, “tale da dover necessariamente orientare in termini logisticamente mirati i preannunciati interventi legislativi in tema di edilizia penitenziaria - sottolinea il Garante - considerandosi non praticabile una teorica, omogenea, distribuzione della popolazione carceraria su tutto il territorio nazionale, frapponendosi, innanzitutto, la primaria esigenza di salvaguardare la prossimità del collegamento tra detenuto e proprio nucleo familiare di provenienza che impedisce l’automatico trasferimento dei detenuti in regioni come la Sardegna (il cui indice di affollamento si attesta al 93,94%), il Trentino Alto Adige (94,78%), la Valle d’Aosta (81,92%)”. I detenuti stranieri ristretti all’interno dei penitenziari italiani sono attualmente 19,151 (pari al 31,33%), di cui 2787 comunitari e 16,364 extracomunitari: “Si tratta di un dato assai elevato che, soprattutto se coniugato alla tipologia di reati dagli stessi commessi - in gran parte contro il patrimonio - consentirebbe di operare significativamente in termini deflattivi mediante un intervento legislativo finalizzato ad individuare domicili idonei a consentire la concessione della detenzione domiciliare che, ad oggi, risulta accordabile solo astrattamente ma non in concreto, frapponendosi l’indisponibilità di adeguate e sicure allocazioni alternative rispetto al carcere”. “All’aumentare del sovraffollamento carcerario è ipotizzabile che si possa associare un incremento degli eventi critici, in particolare di quelli che, più di altri, sono espressione del disagio detentivo, quali atti di aggressione, autolesionismo, suicidi, tentativi di suicidio, omicidio, aggressioni fisiche al personale di Polizia penitenziaria e al personale amministrativo”. E’ quanto rileva il Garante D’Ettore, ricordando che dal 2016 al 2023 il numero degli eventi critici è aumentato del 139,5%, da 63.897 a 153.145. Tra le diverse tipologie di eventi critici presi in esame figurano le aggressioni, gli atti coercitivi, gli atti di auto danno intenzionale, le manifestazioni di protesta collettiva e individuale: anche in questo caso si registra un forte aumento, dai 26.329 del 2016 ai 36.729 del 2023. Le persone detenute che dall’inizio dell’anno al 31 luglio si sono tolte la vita in carcere sono 58, diciotto in più rispetto al periodo corrispondente del 2022 e del 2023. Dei 58 suicidi quest’anno, 56 erano uomini e 2 donne; 32 gli italiani e 26 gli stranieri, provenienti da 15 diversi Paesi. Le fasce d’età più presenti sono quelle tra i 26 e i 39 anni (27 persone) e tra i 40 e i 55 anni (14 persone); le restanti si distribuiscono nelle classi 18-25 anni (7 persone), 56-69 anni (9 persone) e ultrasettantenni (una). L’età media delle persone che si sono tolte la vita in carcere è di circa 40 anni. Con riferimento alla loro posizione giuridica, 23 dei suicidi erano stati giudicati in via definitiva e condannati (39,66%), mentre 7 avevano una posizione cosiddetta “mista con definitivo”, cioè avevano almeno una condanna definitiva e altri procedimenti penali in corso; 23 (39,66%) erano in attesa di primo giudizio, 2 ricorrenti, 2 appellanti e un internato provvisorio. La maggior parte delle persone che si è tolta la vita in carcere era accusata o era stata condannata per reati contro la persona (31, pari al 53,45%): 13 per omicidio (tentato o consumato), 8 per maltrattamenti in famiglia e 4 per violenza sessuale. A seguire i reati contro il patrimonio (18) e di droga. Quanto alla durata della permanenza presso il carcere nel quale è avvenuto l’evento, risulta che 30 persone, pari al 51,8%, si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione; di queste 7 entro i primi 15 giorni, 3 addirittura entro i primi 5 dall’ingresso. Gli istituti in cui si sono verificati i suicidi sono 40, pari al 21% del totale delle strutture penitenziarie. Quanto invece ai decessi “per cause da accertare” avvenuti sempre all’interno delle carceri, dall’inizio dell’anno al 31 luglio sono stati 14, tutti di uomini: 9 gli italiani e 5 gli stranieri. Le fasce d’età più presenti sono quelle tra i 26 e i 39 anni (6 persone) e tra i 40 e i 55 anni (5). Dietro le sbarre 15 anni di ipocrisia di Davide Ferrario Corriere di Torino, 4 agosto 2024 Ho fatto il volontario prima a San Vittore e poi al Lorusso e Cutugno dal 1999 al 2012. Anni alla fine dei quali l’allora direttore del carcere di Torino, Pietro Buffa, mi disse: “Lei vive gli ultimi momenti di un’epoca che sta finendo”. Si riferiva a un decennio in cui, grazie a dirigenti come lui e a una cultura della pena considerata non come puro castigo, i penitenziari erano diventati luoghi più umani. Considerai quelle parole come una battuta, ma ora ci penso ogni volta che leggo cosa sono diventate le carceri nazionali, in particolare il Lorusso e Cutugno e il suo omologo torinese per minorenni, il Ferrante Aporti. Le cronache riportano i dettagli di una vera e propria rivolta concertata tra i due istituti. Erano quarant’anni che non si vedeva una cosa simile. Proprio delle rivolte degli anni 70 e dei primi 80 mi capitò spesso di parlare con i vecchi detenuti durante il mio volontariato. La risposta sul perché cessarono e non si erano più ripresentate per così tanto tempo era sempre la stessa: la legge Gozzini, entrata in vigore nel 1986. Quella che istituì le misure alternative, considerando la pena - a termini costituzionali - non come vendetta ma come processo di rieducazione. Al di là delle belle parole, la legge era riuscita a spaccare il fronte comune di gente che non aveva niente da perdere istituendo un sistema di premialità individuale. In poche parole: se ti comporti bene e segui un percorso di reinserimento, puoi uscire prima e nel frattempo godere di alcuni benefici quali permessi, semilibertà e così via. Era insieme una legge intelligente ma anche un abile “divide et impera”: a quel punto ogni detenuto, anche un ergastolano, aveva una speranza di migliorare la propria condizione. E le rivolte finirono, per quanto le carceri italiane siano rimasti dei luoghi infami, come certificano le ripetute condanne della Corte Europea. Ma una quindicina di anni fa tutto questo ha cominciato ad andare in malora sotto la spinta, cavalcata dalla politica, di un malinteso concetto di “certezza della pena”, che ci ha portato alle rivolte di questi giorni. Alle quali la politica continua a rispondere allo stesso modo: “C’è una rivolta? Costituiamo delle brigate antisommossa…”. Questo è successo due mesi fa: come se il problema fosse chi mena di più. Pochi giorni orsono il Consiglio dei Ministri ha licenziato un decreto “svuotacarceri” che in realtà è l’esatto contrario. E il problema è perfino peggiore di una volta, perché detenuti politici e camorristi di 40 anni fa avevano una qualche leadership che usava le rivolte per trattare. Quella che vediamo oggi è invece la pura disperazione del “tanto peggio tanto meglio”, che segue una lunga fase autodistruttiva, fatta di anni costellati da suicidi di detenuti ma anche di operatori della sicurezza, mandati letteralmente al macello con paghe da fame. Sarebbe quasi una scena da film comico quella che si è vista al Ferrante Aporti, quando gli insorti hanno preso in mano gli uffici degli agenti chiedendogli “E gli altri dove sono?”. Ma erano tutti lì, perché in servizio erano solo sette, dato che l’organico è perennemente insufficiente e inoltre siamo sotto vacanze... Ma dietro il sorriso che ispira la scena è facile intuire cosa succederebbe se in ogni carcere i detenuti prendessero coscienza di questa situazione e decidessero di agire. È tutto davvero terribile: dopo quindici anni di abbandono e di ipocrisia c’è da chiedersi se non sia troppo tardi. Intanto Mare fuori è un grande successo. Chissà che la Film Commission riesca a portare le riprese della prossima stagione al Ferrante Aporti, o a quel che ne resta. Ora che tutti vedete le carceri c’è bisogno di fare davvero qualcosa di Sarah Brizzolara L’Unità, 4 agosto 2024 Quello che sta succedendo nelle carceri italiane inizia forse a colpire al cuore anche persone che fino ad oggi del carcere non si erano occupate. Quando ho iniziato, da consigliera comunale, a visitare il carcere della mia Città, a Monza, sono rimasta colpita dalla differenza tra quanto, pur di negativo e drammatico potevo immaginare, e quel che davvero ho visto con i miei occhi. È solo grazie alla non conoscenza del carcere che è possibile mantenere in una società come la nostra un luogo di abbandono e di sofferenza come questo. Nella mia città, come in molte altre, la maggior parte delle persone nemmeno sa che c’è un carcere o dove si trova, nascosto come è in un angolo invisibile di territorio. Un non luogo. Dove i “cattivi” vengono puniti. Ma chi si mette a cercarlo, chi varca la soglia trova tanti disperati, persone abbandonate che non hanno avuto opportunità dalla vita, avvolte in un circolo di negatività e di sofferenza, persone con problemi psicologici, psichiatrici e tossicodipendenze, clandestini abbandonati al loro destino. La conta dei suicidi da inizio anno si fa ogni giorno più pesante e quando tocca anche al carcere della tua città questo ti scatena un sentimento di rabbia e di impotenza. La sensazione di non essere riusciti a fare abbastanza, nonostante l’impegno di chi ci lavora, che a volte decide a sua volta di togliersi la vita, nonostante le tante associazioni di volontariato. Eppure sarebbe veramente possibile gestire tutto questo sistema diversamente. Dare lavoro alla maggior parte di queste persone, che sarebbero nella condizione di farlo secondo la normativa vigente, eppure solo 221 detenuti su 700 a Monza lavora, e solo per pochissime ore l’anno. Non portare in carcere chi, secondo la legge, non ci dovrebbe stare. Facendo uscire anticipatamente chi ancora, secondo la legge, sarebbe nelle condizioni di farlo e applicare alla maggior parte di queste persone le pene alternative che sono previste. Così da non avere 700 persone in uno spazio fatiscente progettato per 400. Perché, innanzitutto, se lo si conosce, il carcere è un luogo di illegalità, non solo di chi viene detenuto ma innanzitutto dello Stato che non riesce o non vuole applicare le regole che si è dato. Del progetto di reinserimento sociale di cui parla la nostra Costituzione si vedono forse pochissime tracce, il resto è attesa. Un luogo dal tempo immobile. Dove la solitudine e la sensazione di disperazione prendono il sopravvento e questo spiega il perché di certe scelte tragiche, perché in troppi hanno ritenuto che quello fosse l’unico modo di uscirne. Morte per pena e pena fino alla morte, nel Paese che tra i primi ha abolito la pena di morte e ne ha promosso l’abolizione nel Mondo. In questa lunga notte del diritto e della ragione noi dobbiamo accendere una luce e lavorare per qualcosa di meglio dell’attuale sistema carcerario. In questi anni abbiamo provato a discutere di carcere nel territorio, a coinvolgere Sindaci e amministrazioni a che di parti politiche diverse, abbiamo raccolto disponibilità e attenzione anche dal mondo delle imprese. Stiamo lavorando perché si attivi il Garante dei detenuti a livello comunale e provinciale. Perché siamo convinti che molto si possa fare per la riduzione del danno. Per trasformare tutto il carcere nell’esempio dato dall’ex reparto femminile ad esempio, dove gli spazi per persona sono rispettati, dagli orti e dai laboratori che non riescono però a coinvolgere abbastanza persone per la carenza di personale e il sovraffollamento, dalla palestra o dal teatro che però non sono più utilizzabili. Soprattutto abbiamo cercato di raccontare le storie di chi si conosce nel carcere. Perché sono storie che aprono gli occhi e fanno cambiare idea, distruggono i pregiudizi di chi è disposto a mettersi in discussione. Questo sistema non è necessario, non è sostenibile, non è inevitabile e si può e si deve cambiare. E quando l’intero Consiglio Comunale si è alzato in piedi, in silenzio, per quella persona che si è tolta la vita a pochi minuti da dove noi ci riuniamo ho sentito la forza di una speranza, la possibilità di essere speranza. Possiamo davvero realizzare insieme un cambiamento. E per farlo dobbiamo essere uniti e coinvolgere molte più persone nella comprensione di quel che davvero accade dietro quelle mura. A Opera ogni mese con alcuni di loro c’è la possibilità di percorrere un pezzo di cammino insieme verso la consapevolezza. A Monza, adesso, c’è la possibilità di fare passi avanti nella direzione della Giustizia. Torino. Rivolta al carcere minorile, trasferiti i detenuti. I video pubblicati su Tiktok di Massimo Massenzio Corriere Torino, 4 agosto 2024 “L’ufficio del comandante, l’ufficio del comandante”. Lo ripete trionfante un ragazzo nel filmato che documenta la rivolta nel carcere minorile Ferrante Aporti di Torino. Ha compiuto da poco 18 anni, la scorsa settimana ha vinto il torneo di calciobalilla. Lo stesso che giovedì sera è stato lanciato contro le vetrate del penitenziario. “Abbiamo le chiavi del carcere”, esultano altri giovani detenuti ripresi con uno smartphone che in realtà non potrebbero avere. E poi insulti e grida di vittoria. Nessuno si copre il volto e il video lo pubblicano su Tiktok, per dimostrare la loro forza e l’azione di cui sono stati capaci. La Procura dei minori, guidata dalla procuratrice capo Emma Avezzù, ha aperto un fascicolo per devastazione e resistenza a pubblico ufficiale. Sono 52 gli ospiti del carcere minorile e praticamente tutti avrebbero preso parte alla sommossa. I leader della rivolta sono 12 e tra di loro ci sono alcuni “giovani adulti” (ragazzi tra i 18 e i 25 anni che scontano la pena nel penitenziario): nel loro caso a procedere sarà la Procura ordinaria. Ma tra i “promotori” non mancano neanche ragazzini. Come il quindicenne, già condannato a 9 anni e 6 mesi di carcere per il lancio della bicicletta dalla balaustra dei Murazzi. Secondo le prime ricostruzioni sarebbe stato uno dei primi a incendiare il materasso della sua cella. Il Ministero della Giustizia ha fatto sapere che “sono stati trasferiti i giovani adulti responsabili degli atti criminali” e “presi provvedimenti disciplinari nei confronti degli altri soggetti coinvolti. Tutti sono stati denunciati alla competente autorità giudiziaria”. Per il momento sono 3 i detenuti che hanno lasciato Torino e altri 2 verranno trasferiti nella giornata di oggi. I disordini, che hanno provocato danni per centinaia di migliaia di euro, sarebbero scoppiati in seguito all’arresto del fratello di uno dei reclusi che aveva tentato di introdurre nel penitenziario 20 grammi di droga. A far scattare la “scintilla definitiva” sarebbe però stato il mancato funzionamento del telecomando della televisione. “Se le nostre segnalazioni fossero state ascoltate non si sarebbero verificate situazioni come quella del Ferrante Aporti - ha commentato Leo Beneduci, segretario generale sindacato di polizia penitenziaria Osapp. Chiediamo di avvicendare i vertici del Dipartimento per la giustizia minorile”. Vanno avanti anche le indagini sulla rivolta “parallela” al Lorusso e Cutugno. I detenuti potrebbero essere entrati in contatto grazie ai telefoni introdotti illegalmente. Torino. “Non siamo in grado di gestire questi ragazzi” di Massimo Massenzio Corriere Torino, 4 agosto 2024 “Inostri laboratori si sono salvati, ma è solo una magrissima consolazione. Non so come e quando riapriremo”. Ha la voce bassa Pasquale Ippolito, responsabile delle attività formative del Ferrante Apporti gestite da Inforcoop Ecipa Piemonte e presidente dell’associazione di volontariato “Aporti Aperte”. Da oltre 20 anni cerca di offrire un futuro ai giovani detenuti, ha vissuto situazioni difficili, ma non ha mai assistito a un simile disastro. Ha visto il video della rivolta? “Purtroppo sì. Quei ragazzi li vedo tutte le mattine, ma evidentemente ho conosciuto solo la loro faccia svogliata quando scendono in ciabatte per fare attività. Ma non quella violenta e cattiva che c’è in quel filmato. Sono molto deluso. E arrabbiato”. Che cosa ha pensato sentendo quelle urla? “Che abbiamo fallito. Tutti quanti. Non c’è altro da dire. Quello che è successo dimostra che non siamo in grado di gestire un istituto per minori. Se non riusciamo a imporre a questi ragazzi di essere puntuali e rispettosi di basilari regole di comportamento, come possiamo pensare di arginare una rivolta?”. A cosa si riferisce? “Il Dipartimento dà vitto, alloggio e poco altro. Se a sorvegliare questi ragazzi ci sono agenti ventenni, con pochi giorni di servizio, e mancano i superiori con esperienza, le conseguenze sono quasi scontate. Bisogna avere professionalità per raffrontare certe situazioni. Ma, ripeto, le responsabilità sono di tutti, anche mie. Non riusciamo a essere autorevoli, ma solo autoritari. E sono convinto che se ci fossi stato io, giovedì sera, mi avrebbero detto “spostati altrimenti ti abbattiamo”. Non sarebbe cambiato assolutamente nulla”. E adesso quali correttivi bisognerebbe utilizzare? “Prendere coscienza del nostro fallimento, parlarci guardandoci negli occhi e magari fermarci, per un po’. Bloccare tutto e poi ripartire da zero con un sistema che premia chi si comporta bene e sanziona chi non lo fa. Senza troppi buonismi”. Pensa che in passato ci sia stata troppa indulgenza? “Dobbiamo capire chi abbiamo di fronte e comportarci di conseguenza. E quel video ce lo mostra. Ragazzi che non hanno niente da perdere, che sanno che quando usciranno di qui toneranno a essere clandestini. Hanno subito violenze inaudite e le nostre ramanzine li fanno ridere. E lo ripetono sempre: “Non importa morire, quello che conta è vivere da re per pochi giorni”. Questi giovani chiusi in un carcere sovraffollato, dove qualcuno dorme per terra, rappresentano una situazione esplosiva. Forse più pericolosa di quella che avevano creato fuori. E il “Ferrante” non è certo un lager, ma una struttura decorosa che offre molte attività. Il problema è che non siamo attrezzati per contenere questo tipo di utenza”. Quali sono le alternative? “È necessario evitare il branco, impedire che un ragazzo resti in carcere per anni e lavorare con gruppi più piccoli”. Cosà dirà ai detenuti quando li incontrerà? “Prima di parlare con i ragazzi vorrei che tutte le componenti del carcere si riunissero per stabilire le poche regole da far rispettare in maniera ferrea. E poi fare in modo che per questi giovani non ci siano più scusanti, nessun alibi. Devono essere seguiti, impegnati e serve un’assistenza sanitaria adeguata. Ma quello che più importa è che acquisiscano la consapevolezza che chi sbaglia verrà punito. E che non ci potrà essere una seconda rivolta al Ferrante. Mai più. Altrimenti tutto il resto non ha senso”. Torino. L’insegnante al Ferrante Aporti: “Si investe solo in sicurezza, ma bisogna dare speranza” di Eleonora Camilli La Stampa, 4 agosto 2024 “Se si investe solo in sicurezza e poco o niente in educazione, sport e socialità non stupiamoci se il carcere esplode”. Mario Tagliani, docente in pensione, al Ferrante Aporti ci ha passato gran parte della sua vita, raccontando l’esperienza anche in un libro. Per trent’anni è stato il “maestro dentro” insegnando ai ragazzi reclusi non solo la grammatica ma anche come ricostruirsi una vita. “Educare non basta bisogna accompagnare la crescita. Ma oggi si installano solo telecamere mentre gli insegnanti non sono più visti di buon occhio”. Che idea si è fatto delle rivolte di questi giorni? “Le ultime grandi rivolte al minorile ci sono state nel ‘77 e nel ‘79, poi c’è stato un grosso intervento da parte del comune di Torino. Da allora il Ferrante è cambiato, si è investito e ai ragazzi si è data una speranza. Perché questo bisogna fare. Sono spesso ragazzi disperati che hanno come unica alternativa la vita di strada. Quando sono entrato per la prima volta nel 1983 c’era un via vai: gente che usciva per lavorare, laboratori di quartiere, rapporti con l’esterno. Tutto questo dava un minimo di normalità a ragazzi che la vita normale non la conoscono perché ne hanno una sgangherata. C’era uno scambio con il quartiere e la città che poi sarebbe diventata anche la loro. Poi si è deciso di puntare solo sulla sicurezza, sono aumentate le telecamere e diminuiti gli educatori”. È venuto meno ogni rapporto sociale con la città di Torino? “Lo dico sempre, il muro di un carcere serve a nascondere quello che non va, non solo a contenere. Per anni abbiamo fatto vivere ai ragazzi anche il contesto intorno, organizzato tornei di calcio, molti commercianti del quartiere mettevano a disposizione fondi per i trofei. Poi man mano la struttura si è chiusa. Ma se tutto diventa solo sicurezza e repressione i ragazzi esplodono. Noi insegnanti abbiamo iniziato a essere guardati come rompiscatole, il nostro lavoro non era molto apprezzato e a malapena sopportato. Una grande civiltà dovrebbe puntare a non avere proprio un carcere minorile”. Nel suo libro dice che in carcere si è come al confine, in un luogo desolato e per questo bisogna stare a sentire le voci che arrivano da ogni parte. Le sembra che le voci di questi ragazzi siano ascoltate? “No, sono totalmente inascoltate. Un giorno al Ferrante Aporti è venuto un rapper e ha scritto con i ragazzi una canzone, che era una lettera al ministero dove si parlava delle condizioni di vita e di come si sentivano: dimenticati. Il carcere è una zona di confine ma fa parte del territorio, se vogliamo solo contenerli e non ascoltarli non siamo modello”. Sostiene anche che non si sia affrontata in modo adeguato la questione dei minori stranieri, la cui prospettiva è solo quella di essere rimpatriati o finire in clandestinità… “Dagli anni ‘90 con gli arrivi degli albanesi e poi dei ragazzi dal Nord Africa si sarebbe dovuto cambiare approccio, perché il modello che si usava con gli italiani non andava bene. Ma non si è investito su questo, si è pensato solo ad aumentare gli strumenti di sorveglianza, non gli altri elementi di socialità e integrazione. Se non riesci a gestire bene tutto questo il conflitto sarà infinito, in un rapporto di forza con ragazzi che non hanno più niente da perdere”. Torino. Proteste al “Ferrante Aporti”: spiegare non significa scusare di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 4 agosto 2024 All’indomani della sommossa all’Istituto penale minorile di corso Unione Sovietica, il francescano Giuseppe Giunti, volontario con i collaboratori di giustizia, riflette sulle motivazioni del malessere che serpeggia nelle carceri italiane e che coinvolge anche i giovani reclusi. Proprio mentre il Governo ha approvato il nuovo Decreto legge sulle carceri, non si placano le proteste dei detenuti nei penitenziari della Penisola, segno di un malessere che da settimane sfocia in sommosse nelle carceri, da Torino alla Sicilia. Due sere fa disordini anche l’Istituto penale minorile (Ipm) torinese “Ferrante Aporti”, dove i ristretti hanno incendiato celle e uffici amministrativi, manomesso i sistemi di sorveglianza, aggredito gli agenti. Il bilancio è pesante: oltre ai danni alla struttura sarebbero stati feriti 10 agenti e 12 giovani reclusi intossicati. Tra i motivi della protesta, il sovraffollamento dell’Ipm, dove sono ospitate 52 persone a fronte di una capienza di 42, anche se qualche settimana fa i giovani reclusi erano 60, la maggior parte stranieri. Poche ore dopo un’altra rivolta al “Lorusso e Cutugno” dove, nel padiglione B, andavano a fuoco materassi e suppellettili. Suicidi (61 tra i detenuti e 3 tra gli agenti penitenziari dall’inizio del 2024), celle stracolme, strutture fatiscenti: una situazione esplosiva - il periodo estivo è il peggiore per chi vive dietro le sbarre per il caldo e l’interruzione delle attività formative e scolastiche - che preoccupa da mesi il Presidente Mattarella che nei giorni scorsi, durante il tradizionale incontro con i cronisti della stampa parlamentare, ha detto riferendosi allo stato delle patrie galere: “Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è, e deve essere, l’Italia. Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, non va trasformato in palestra criminale”. Sulla rivolta all’Ipm torinese abbiamo chiesto una riflessione al francescano Giuseppe Giunti, volontario presso le carceri di Alessandria e Torino con i collaboratori di giustizia. Fra’ Giunti, autore di libri sulla detenzione, ha visitato di recente “Il Ferrante” invitato per un incontro con i ragazzi detenuti sul tema dell’importanza della scuola e dell’educazione a partire dall’art. 27 della nostra Costituzione dove si raccomanda che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Invece il tasso di recidiva nelle nostre galere sfiora il 70%: significa che la maggior parte di chi entra in carcere, a fine pena torna a delinquere. --------------- I ragazzi detenuti all’Ipm Ferrante Aporti che in questi giorni hanno gridato la loro ribellione alle condizioni incivili nelle quali sono obbligati a sopravvivere hanno commesso reati, certo. Capire le loro ragioni, ascoltare la loro protesta non equivale a scusare ciò che hanno fatto. Ma ci permette di capire, e capire le loro storie apre la nostra intelligenza e anche il nostro cuore ad una visione più ampia, più profonda, più civile. Il 90% sono stranieri, come mai? Decenni fa con la stessa percentuale di ospiti al “Ferrante Aporti” erano immigrati dalle Regioni del Sud Italia, dal Veneto e dalla Sardegna. Come mai? Si chiama marginalità, si chiama devianza, si chiama esclusione. Si chiama delusione. Una società con una storia incredibile di arte, cultura, diritto, fede come l’Italia può permettersi di non capire, non studiare, non reagire a tutto questo? Eppure, sì, in questo momento storico, politico, culturale sembra che l’Italia voglia girarsi dall’altra parte e affidare il proprio stato d’animo a “decreti sicurezza” e roba del genere. I ragazzi del “Ferrante” che ho incontrato lo scorso giugno fa alla fine di una mattinata di dialogo, ascolto, canzoni arabe, preghiera mi hanno rivolto una domanda, una sola, sussurrata con pudore “cosa ci sto a fare qui dentro?”. Non devono essere lì. Devono essere in comunità rieducative, affidati alla società civile tramite educatori, formatori che li accompagnino verso la vita adulta, tramite esperienze, progetti, verifiche, regole. E poi il dolore più forte che ho provato quel giorno è che non hanno famiglia; ne hanno nostalgia, alcuni vorrebbero tornare da dove sono partiti, illusi dal modello di vita del consumo, dell’immagine, del denaro in qualsiasi modo, che qui intossica non solo loro, ma tanti loro coetanei che però non si chiamano Ahmed, Alì, Hassan, Omar nomi che significano “Lodevole”, “Elogiato”, “Bello”, “Lungavita”. Oppure Tariq, “colui che bussa alla porta”. Fra’ Giuseppe Giunti Belluno. Rivolta in carcere, l’appello del sindacato della penitenziaria: “La direzione ci incontri” di Federica Fant Il Gazzettino, 4 agosto 2024 È stata una protesta, sfociata nelle fiamme appiccate a suppellettili e altro ad innescare l’allarme giovedì sera nella casa circondariale di Baldenich. In pochi minuti erano arrivate sul posto 4 pattuglie dalla Polizia di Stato, i vigili del fuoco e l’ambulanza. Un’emergenza che poteva avere conseguenze gravissime, per far fronte alla quale è stato necessario anche richiamare anche personale della polizia penitenziaria non in servizio. L’incendio è stato subito bloccato sul nascere, anche grazie ai letti ignifughi: il detenuto che ha respirato i fumi è finito all’ospedale e la cella è inagibile. Ma è un bilancio molto più lieve di quanto sarebbe potuto accadere. “Possiamo affermare - dice la segreteria Interregionale dell’Unione sindacati di polizia penitenziaria - che grazie al tempestivo intervento e alla professionalità del personale della Polizia Penitenziaria si è riusciti ad evitare il peggio”. E chiedono un tavolo con la direzione del carcere per analizzare alcune tematiche: prima fra tutte la concessione ai detenuti di posticipare il rientro in cella, dando spazi di movimento che, secondo i poliziotti, avrebbero favorito la rivolta. È il segretario nazionale Leonardo Angiulli, dell’Uspp del Triveneto (Unione sindacati di polizia penitenziaria) a dare notizia che nella tarda serata del primo agosto “si è consumata una protesta da parte di alcuni detenuti ristretti nella casa circondariale di Belluno che, in un primo momento si rifiutavano ad entrare nelle celle e successivamente incendiavano suppellettili ed altro”. E proseguono nel racconto: “Sono intervenuti i vigili del fuoco, nonché i corpi di Polizia presenti sul territorio, veniva richiamato il personale libero dal servizio e si è reso necessario far intervenire le pattuglie delle volanti della Polizia di Stato per supporto”. I poliziotti penitenziari spiegano che si tratta di “un detenuto di difficile adattamento che ha incendiato la propria cella creando attimi di forte tensione con contestuale inagibilità della stessa e del reparto”. E che per “inalazioni fumi tossici veniva ricoverato presso il nosocomio di Belluno”. “Un ringraziamento sentito al personale che ha operato - prosegue il sindacato Uspp - ed è intervenuto in modo particolare chi veniva richiamato libero dal servizio, un sentito grazie va a tutto il contingente del reparto impiegato per assicurare l’ordine e la sicurezza all’interno del carcere, nonché tutte le forze di Polizia intervenute”. “Possiamo affermare che l’ordine di servizio 53 del 29 luglio scorso di concessione dopo richiesta avanzata dalla popolazione detenuta di posticipazione della chiusura delle celle abbia creato spazi di movimenti che parrebbe abbiano favorito la rivolta”. E la polizia penitenziaria conclude: “Pur non volendo entrare nel merito della concessione, non possiamo esimerci di evidenziare che tale scelta sia stata un ulteriore carico di lavoro per il risicato organico della polizia penitenziaria in servizio nonché una modifica dell’organizzazione del lavoro. Per queste ragioni si chiede alla direzione di voler convocare le organizzazioni sindacali per un esame congiunto sulle tematiche”. Tra tentativi di evasione e aggressioni sono diversi gli episodi di disordini nel carcere bellunese finiti in Tribunale in questi anni. Come quello del 2 aprile 2018 quando cinque detenuti hanno organizzato una sorta di rivolta nella sezione comune cercando di aprirsi una via di fuga: l’intervento degli agenti della polizia penitenziaria aveva di fatto mandato in fumo il piano. Catania. Carcere minorile, le aggressioni e l’emergenza: “Puntare sul recupero” di Antonio Giordano livesicilia.it, 4 agosto 2024 Incendi, tensioni, aggressioni al personale. All’estate nera delle carceri italiane, in cui continuano gli allarmi per le condizioni di vita, si unisce anche l’Istituto penale minorile di Catania Bicocca, in cui da giorni i sindacati di Polizia penitenziaria denunciano aggressioni e un clima di tensione crescente. Se però proprio i sindacati di Polizia penitenziaria come il Sappe chiedono che siano garantiti ordine e disciplina nell’Ipm Bicocca, sostenendo che senza di essi “i tanto decantati progetti rieducativi sono fallimentari”, per il presidente dell’associazione Antigone Sicilia il problema delle tensioni nel carcere minorile si risolve “ragionando sul processo generale del recupero e non sulla detenzione”. Nell’ultima settimana il sindacato Sappe ha denunciato quattro casi di aggressioni o di violenze all’interno dell’Istituto penale minorile di Catania. La settimana scorsa un detenuto ha aggredito un assistente capo e il comandante, che hanno ricevuto sette giorni di prognosi ciascuno. Lunedì 29 luglio, un detenuto ha bruciato suppellettili all’interno della sua cella, causando un incendio. Un caso non nuovo all’interno del carcere catanese. L’intervento della Polizia penitenziaria ha evitato che le fiamme si diffondessero in altre celle e che il fumo avvelenasse gli altri detenuti e il personale. Martedì 30 luglio nella cella di un detenuto sono state trovate e sequestrate due pen drive. Il detenuto si è scagliato contro un assistente capo della polizia penitenziaria, che ha ricevuto anche in questo caso sette giorni di prognosi. Mercoledì 31 luglio c’è stata una rissa tra due gruppi diversi di detenuti, magrebini e italiani. Un assistente capo, intervenuto per calmare la situazione è stato aggredito. Anche questa volta, l’agente di Polizia penitenziaria ha ricevuto una prognosi di sette giorni. L’Istituto penale minorile di Catania - L’Ipm di Catania Bicocca è una delle quattro carceri per minori in Sicilia. Si trova nello stesso complesso penitenziario in cui si trova la casa circondariale e alcune aule bunker del Tribunale. L’associazione Antigone, che difende i diritti e le garanzie delle persone coinvolte nel sistema penale, ha pubblicato un rapporto sulle carceri minorili, “Prospettive minori”, da cui è possibile farsi un’idea del numero di persone detenute nell’istituto, anche se non aggiornato al mese di luglio 2024. Al momento della visita di Antigone, si legge nel rapporto, nel carcere minorile di Bicocca erano presenti 24 ragazzi, di cui 15 minorenni e 9 maggiorenni, su un numero di posti complessivi nell’istituto pari a 54. Negli ultimi anni si sarebbero superate raramente le 30 presenze. Di 24 detenuti, 12 erano in attesa di giudizio, 3 di appello e 9 erano condannati in via definitiva. Una proporzione che si avvicina a quella nazionale: negli Ipm italiani infatti più della metà delle persone, il 65 per cento, è detenuta senza una condanna definitiva. “La crescita delle presenze negli ultimi 12 mesi - si legge nel rapporto di Antigone - è fatta dunque quasi interamente di ragazze e ragazzi in misura cautelare”. A causa di tensioni tra ragazzi di diversi gruppi ed etnie è capitato spesso, si legge ancora nel rapporto, che ci fossero disagi e proteste che in alcuni casi sono sfociate nell’incendio delle stanze. Al momento della visita di Antigone a Catania, si legge, “6/7 stanze erano inagibili per incendi”. Sempre secondo il rapporto di Antigone, al momento della visita erano detenuti 10 ragazzi stranieri su un totale di 24. A parte due ragazzi di etnia Rom, gli altri erano minori non accompagnati provenienti dal Marocco, dalla Tunisia e dall’Egitto. Le misure cautelari e le tensioni - A commentare la situazione generale dell’Ipm di Catania è Giorgio Bisagna, avvocato e presidente di Antigone Sicilia: “Il problema è di sistema. Dopo che il decreto Caivano ha ampliato la possibilità di custodia cautelare in carcere anche per i minorenni, che prima era residuale, c’è un problema di sovraffollamento che non si è mai verificato negli Ipm italiani”. Il problema delle tensioni tra gruppi etnici è reale, dice Bisagna: “La popolazione minorile è composta in gran numero da stranieri, anche in svantaggio: spesso sono minori non accompagnati e si crea una situazione di gruppi contrapposti. La soluzione dell’amministrazione penitenziaria, il trasferimento, spesso crea altrettanti problemi e tensioni, cambiando equilibri e creando logiche di clan”. Di fronte ai problemi delle carceri minorili, Bisagna sottolinea l’esigenza di puntare più sul recupero che sulla detenzione: “Non è possibile risolvere i problemi solo in chiave repressiva o con gli aumenti di personale, che pure vanno affrontati. Il problema si affronta dando davvero attuazione al sistema di giustizia minorile, riconducendo tutto nell’alveo costituzionale e delle norme di riferimento. Sia per la giustizia minorile che per quella ordinaria”. Firenze. Il caso Sollicciano: “Incuria e abbandono”. Così il Dap “processa” la direttrice di Pietro Mecarozzi La Nazione, 4 agosto 2024 Il Dipartimento ha avviato un procedimento disciplinare per le condizioni del penitenziario. Contestato anche “il contegno scorretto verso i superiori, i colleghi, i dipendenti e il pubblico”. Dopo le sanzioni e l’apertura di un fascicolo in procura, per la direttrice di Sollicciano, Antonella Tuoni, arriva anche un procedimento disciplinare. Nel documento firmato dal direttore generale del personale e delle risorse del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), Massimo Parisi, viene contestato a Tuoni la “grave negligenza in servizio” e il “contegno scorretto verso i superiori, i colleghi, i dipendenti e il pubblico”. Cosa rischia? La decurtazione dello stipendio per una durata non superiore a sei mesi. Il terzo atto della partita tra ministero della Giustizia e la numero uno del carcere fiorentino segue il leitmotiv dei capitoli precedenti: la responsabilità per il degrado della struttura che le ispezioni dei mesi precedenti hanno evidenziato, ricadrebbe su Tuoni. Che per di più, sempre secondo il dipartimento, dovrebbe attivarsi per gli interventi necessari per la manutenzione della struttura. Cimici, blatte, il troppo caldo o freddo (in base alla stagione), le infiltrazioni di umidità e acqua, il sovraffollamento: tutto ricade nei compiti della direttrice. Nelle contestazioni, viene preso in esame il report delle ispezioni del personale del Visag (il servizio di Vigilanza sull’Igiene e sicurezza dell’amministrazione della giustizia), mandato direttamente da Roma, che dopo i sopralluoghi ha concesso 90 giorni di tempo per sistemare tutte le storture del carcere. Sia il Visag, sia la Commissione ispettiva, hanno definito “l’istituto molto fatiscente”, ma anche in uno stato “di incuria e abbandono”, con le oramai note infiltrazioni e cadute di intonaco. Tradotto: serve un intervento straordinario per ristrutturare il penitenziario, per il quale, per normativa, devono essere erogati finanziamenti e bandite delle gare per appaltare i lavori ad opera del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Sulle carenze igienico-sanitarie e strutturali, si citano anche le ordinanze del magistrato di sorveglianza sulla condizione “degradante” dei detenuti, mentre sulla rivolta vengono riportare le parole della relazione del provveditore regionale, che dopo gli incendi nelle celle e la devastazione degli ambienti interni aveva disposto il trasferimento dei 78 più facinorosi e la riallocazione nella struttura di altri 9: “Alla data del 23 luglio risultavano ubicati nelle medesime sezioni, nonostante i solleciti, ancora 52 detenuti”. Il provvedimento del Dap verte poi sull’area contabile e sul “comportamento inadeguato” di Tuoni durante le ispezioni. Sul primo punto, viene contestata un’irrisoria differenza negativa della situazione di diritto e quella di fatto della cassa, con un ammanco di 108 euro, le modalità di maneggio di denaro e l’irregolarità della concessione degli alloggi demaniali. Per il secondo punto, invece, a Tuoni viene rinfacciato l’atteggiamento di indifferenza e irritazione durante le ispezioni e il non aver salutato i membri della commissione prima di lasciare il carcere. Insomma, è guerra aperta, e ogni scusa è buona per colpire l’avversaria. Napoli. Radicali italiani in visita a Poggioreale: “Detenuti in condizioni disumane” anteprima24.it, 4 agosto 2024 “Le condizioni dei detenuti sono disumane”. Questo la denuncia all’uscita dal carcere di Poggioreale del tesoriere di Radicali Italiani, Filippo Blengino, recatosi in visita nel penitenziario napoletano assieme a Bruno Gambardella, vicepresidente dell’assemblea di +Europa, Alfonso Maria Gallo e Rosario Marinello della direzione di +Europa, e Domenico Spena del comitato nazionale di Radicali Italiani. “Abbiamo visto nove detenuti nella stessa cella - spiega - con i servizi igienici accanto alla cucina, e muffa alle pareti. Molti detenuti ci hanno segnalato che non sono ammessi strumenti sanitari. C’è una preoccupante carenza di organico che non riesca a far fronte a una situazione drammatica. Detenuti con evidenti ferite sono abbandonati, aiutati solo da altri detenuti, e persone sono costrette a togliersi i denti da sole per eliminare il dolore. Anche qui il sovraffollamento è preoccupante: 2.060 detenuti per una capienza di 1.600. Abbiamo da poco denunciato il ministro Nordio per il reato di tortura. Dopo questa visita saremo, purtroppo, costretti a denunciarlo nuovamente. Non è ammissibile che i detenuti siano costretti a vivere in queste condizioni. È una tortura continua, indegna per uno Stato civile”. Lecce. “Made in carcere” dopo il rogo. Luciana Delle Donne chiede aiuto: la creatività non brucia di don Emanuele Tramacere portalecce.it, 4 agosto 2024 Lo scorso 25 luglio nel carcere di Borgo San Nicola a Lecce un incendio si è sviluppato nei laboratori sartoriali dove si producono i manufatti artigianali del marchio Made in carcere. Tanta paura e fortunatamente nessun ferito per il rogo, divampato nel deposito probabilmente a causa di un corto circuito, che però ha seriamente danneggiato la merce realizzata dalle detenute e compromesso alcuni macchinari. A distanza di alcuni giorni dal triste evento fa giungere la sua voce Luciana Delle Donne fondatrice nel 2007 di “Officina creativa”, una cooperativa sociale non a scopo di lucro, con i brand sociali: ‘Made in carcere. 2nd chance’ e ‘Sartorie sociali di periferia’. “Quello che è successo il 25 luglio nei laboratori Made in Carcere presso la casa circondariale di Lecce - scrive Luciana Delle Donne - rappresenta una ferita profonda. La prima Maison arredata con mobili antichi, tappeti, poltrone, divani, sala palestra, una piccola ‘sala pranzo’ con divano e tavolo da cucina dove avviene la condivisione del cibo e dello stare insieme durante le ore di pausa dal lavoro, una sala lettura con poltroncine e tende alle finestre che nascondono le sbarre e rendono la vita in carcere a misura di persona. Privati della libertà, ma per ricostruire una nuova vita con consapevolezza e dignità”. “Ad andare in fumo - prosegue - non sono state soltanto le creazioni delle lavoratrici detenute, ma la testimonianza della nostra filosofia, ecco perché ‘la creatività non brucia’. Non è ancora chiaro come sia potuto avvenire. Per fortuna non ci sono stati danni alle persone e, anche se i danni materiali sono ingenti, non abbiamo paura, siamo solo confuse, disorientate e senza forze. Bisognerà rifare tutto: impianto elettrico, sanificazione degli spazi, tinteggiatura, acquisto di nuove attrezzature, di macchine da cucire e tanto altro ancora. Tutti i ricordi, gli accostamenti cromatici, la formazione con le metafore scritte sui muri, le foto, gli articoli di giornale, le frasi e le riflessioni con gli autografi sulle pareti di tante persone anche famose che son passate a vivere questa fantastica esperienza (almeno nella parte più colpita) non ci saranno più. Tutto resettato. Ora dieci donne in stato di detenzione non sono più al lavoro, ma come tutte le altre, ristrette nella stanza di pernottamento (la cella), in 3 e non lo ricordavano più cosa fosse, perché al rientro dal lavoro è tutto diverso, anche se hanno diritto solo a una doccia al giorno, erano felici”. “La Maison - conclude Luciana, ospite-testimone della diocesi del primo dei recenti ‘Martedì di Quaresima’ - chissà quando potrà ripartire. Ma non vogliamo vedere il nero delle pareti. Vogliamo ricordarla come una casa bella ed elegante che accoglie con amore persone che ricostruiscono la propria vita con consapevolezza e dignità. Chiediamo a chi fin ora ha sostenuto le iniziative di Made in Carcere di tendere, ancora una volta, la mano per aiutarci a rialzarci. Chi lo volesse fare può magari mandarci un messaggio di vicinanza, ma anche un aiuto concreto (Banca intesa IBAN: IT73F0306909606100000074077) e venirci incontro per tutto quello che sarà necessario ricostruire”. Messina. Dall’errore alla rivalsa, Mimì entrerà in carcere... in altro modo di Claudia Benassai Gazzetta del Sud, 4 agosto 2024 26 anni, è finito sulla cattiva strada e dopo una condanna ha un obiettivo. “Mi piacerebbe diventare un educatore in un istituto penitenziario minorile e poter combattere per le pari opportunità. Quelle che ragazzi come me non hanno avuto”. Siamo al Cep nella periferia di Messina, una zona tristemente nota per la sua elevata criminalità e per il riscatto che grida spesso silenziosamente il quartiere. Qui è cresciuto il ventiseienne Mimì, nome di fantasia, un giovane che sta voltando pagina. E la sua storia, ma soprattutto i frammenti di caduta e rinascita richiamano l’attenzione sulle difficoltà e le speranze di chi lotta per sfuggire da quei destini a volte già scritti e preconfezionati: “ Vivo in una città bellissima - racconta il giovane - ma con tante insidie. Il mio percorso assomiglia a quello di tanti ragazzi che come me sono caduti nelle trappole della vita di strada. Il rimorso più grande? Aver lasciato la scuola dopo la quinta elementare. Vivevo in un luogo in cui la criminalità era all’ordine del giorno e i falsi miti erano ovunque. I video dei trapper e la vita ribelle poi mi avevano conquistato e gli amici mi ripetevano che il denaro facile era la strada giusta. E io, purtroppo, dico con occhi diversi, ci credevo. Ancora oggi penso ai miei genitori che lavoravano duro per garantire un futuro migliore e a me e mia sorella, ma la loro assenza mi ha portato a cercare altrove dei modelli da seguire. Modelli che erano sbagliati”. Un giorno di 8 anni fa lo ricorda come se fosse ieri, Mimì, dopo un’operazione contro lo spaccio di droga è stato arrestato. Gli “amici” che lo avevano accecato con belle parole e circondato fino a quel momento usando la sua ingenuità si sono dileguati lasciandolo solo a affrontare le conseguenze delle sue azioni. La sua famiglia, poi, devastata dalla notizia ha subito un duro colpo: “Non riuscivo a vedere - continua il ragazzo - che la strada che avevo scelto era un fallimento. Questo ha incrinato i rapporti con i miei cari, e mi sono ritrovato solo, condannato a sette anni di carcere. Dietro le sbarre ho avuto tanto tempo per riflettere e grazie all’associazione “Overland” ho iniziato un programma formativo e socio inclusivo che mi ha aiuto a costruire la speranza. E dal 2020 al 2023, con il loro supporto, ho potuto rimettere insieme i pezzi della mia vita. Gli incontri e le attività mi hanno permesso di ricongiungermi con la mia famiglia. Oggi, grazie al cielo siamo di nuovo uniti. Ho ripreso a studiare e sto cercando di restituire il bene che ho ricevuto a piene mani diventando io stesso volontario. Faccio parte dell’equipe di strada, dove incontro ragazzi come me, ingannati dai falsi miti delle fiction e dei video musicali”. Mimì oggi guarda più speranzoso al futuro e ricorda che cambiare è possibile. Ma è necessario armarsi di determinazione e soprattutto trovare compagni di viaggio che ti tendono una mano: “Il rifugio di Sant’ Eustochia è un faro. Overland - ricorda - continua a sostenere tanti come me, dimostrando che la speranza e la redenzione sono sempre possibili, anche nei momenti più bui. Ho ancora molta strada da fare, ma il mio viaggio verso una vita migliore è iniziato. Riconoscere i miei errori e impegnarmi per un futuro diverso è stato il primo passo. Se potessi tornare indietro, farei tante cose diversamente. Avrei ascoltato di più i miei e apprezzato i loro enormi sacrifici. Quando ho momenti di sconforto e cerco ispirazione, penso subito ad Antonino Mandia, rappresentante legale di questa realtà diLarderia. Lui, con coraggio, sacrificio e dedizione, apre le sue porte a tutti, senza conoscerli e senza interessi personali. Mi tira su il morale vederlo arrabbiarsi e rispondermi male, ogni volta che lo chiamo presidente. Sono più che orgoglioso di lui e lo ringrazierò per tutta la vita”. E infine il messaggio è per chi sta percorrendo gli stessi passi sbagliati: “Ai ragazzi come me dico - conclude - Non arrendetevi mai, perché anche quando tutto sembra perduto, c’è sempre una via per risalire”. Soltanto un brutto sogno d’estate (ma quei mostri non sono irreali...) di Glauco Giostra Avvenire, 4 agosto 2024 Una parodia - ma non troppo - dell’attuale dibattito politico-giudiziario. Quando arrivo trovo una calca incredibile di persone sgomitanti che cercano di entrare in una porticina posteriore del grande palazzo. Chi urla, chi spinge, chi inveisce, chi strattona, chi si arrampica. Un passante chiede cosa stia succedendo. Grida per farsi sentire. Nessuno lo ascolta. Finalmente uno gli strilla che quella porticina dà direttamente sul palcoscenico del Teatro del Consenso. In più parti, nel frattempo, la ressa sta degenerando in rissa. Accasciato a terra, dopo una perdente colluttazione con l’Indicativo sta il Condizionale; poco più in là l’Interrogativo viene medicato, esangue, per i tagli inferti dall’acuminato Esclamativo. Le Maiuscole si fanno largo in modo stentoreo e intimidatorio; le Minuscole restano in disparte, intimorite e mute. Sul marciapiede giace il Discorso, frantumato in tanti tweet. Alcune Parole salgono sulle spalle di altre Parole; altre ancora con un megafono preannunciano tragedie imminenti e riescono a farsi un po’ di spazio. Arriva un’autoambulanza per soccorrere una coppia. Porta via l’Esitazione e il Dubbio: lei è gravissima, per lui - dicono - probabilmente non c’è più nulla da fare. In terra, calpestate come i coriandoli dopo il Carnevale, ci sono migliaia di pagine di libri e di documenti: nessuno, giustamente, perde tempo a raccoglierli e tanto meno a leggerli. Tutti pensano soltanto a spingere (non vorrebbero, dicono, ma se non lo facessero resterebbero indietro) e ad urlare (non vorrebbero - dicono - ma sono costretti per farsi ascoltare). Chiedo, come cronista, di entrare in Teatro. Mi fanno passare, purché rimanga in silenzio dietro le quinte. Entro. Si sono appena esibiti quelli del marketing. Ora tocca ai meteorologi. Preannunciano un’allarmante perturbazione, Nerone; tra un mese dovrebbe imperversare per molte settimane una siccità da record, effetto dell’anticiclone Caligola; poi Attila - una corrente glaciale proveniente da nord - metterà certamente in ginocchio raccolti e trasporti. La platea ascolta attonita e un po’ preoccupata. Preceduta da una sirena, invade il proscenio la cronaca nera: scene raccapriccianti di delitti efferati, morti straziati, violenze inenarrabili, familiari disperati. La platea è commossa e angosciata. Qualcuno grida “la pena di morte, ci vuole!’ Ma è ora di dare spazio alla politica. Parlano di riforme. Si apre un dibattito su una complicata legge riguardante l’informazione sui processi penali. Un giornalista dice: “è il bavaglio alla stampa”; un avvocato ribatte: “si vuole la gogna mediatica”; un magistrato ammonisce: “così si danneggiano le indagini contro la criminalità organizzata’: Fine del dibattito. Una Signora demodé dalla barcaccia dà segni di irritata impazienza. Si cambia argomento. Qualcuno mette in guardia: “stanno per varare una leggina svuota-carceri. Faranno uscire pericolosi delinquenti e mafiosi!”. La Signora della barcaccia si lascia scappare, indignata, “non è assolutamente vero! È chiaramente scritto” e si sporge con alcuni documenti in mano. Le gridano “stia zitta, incosciente!!”; “è per colpa degli irresponsabili come lei che ci siamo ridotti così”; “lei sta dalla parte dei delinquenti, noi dello Stato forte e sicuro”. Un parapiglia. Per fortuna lo spettacolo può riprendere grazie all’intervento di un signore che fa transitare la discussione su un altro argomento. “Il problema del carcere è una conseguenza della sfrenata immigrazione!” urla. Un altro accanto a lui, con un imprudente calo di decibel, conviene: “l’immigrazione, in effetti, è un problema serio”: Gli altri lo guardano con compatimento, chiedendosi come abbia fatto a entrare in scena. Poi sbottano, in un crescendo: “Altro che problema serio, è un dramma!” “Non è un dramma, è una tragedia!!”, “Non è una tragedia è un’invasione: la nostra razza è in pericolo!!!” Preceduto da alcuni rumori da dietro le quinte, irrompe sul proscenio un uomo vestito di nero, o forse di rosso: le luci dei teatri, si sa, possono ingannare. Ha toni perentori. È uno che dice di preoccuparsi dei suoi compatrioti e di voler mettere fine alle loro comprensibili paure. Pronuncia parole palestrate. Ha soluzioni nette, semplici, risolutive. La platea sembra tirare un sospiro di sollievo. Assicura di non voler imporre le sue soluzioni; non è un dittatore. Le imporrà solo se verrà votato, perché questo vuole la democrazia. La Signora dalla barcaccia si sporge per gridare che la democrazia è altra cosa. Viene zittita da urla e insulti. Si registra persino qualche tafferuglio. Poi, anche con l’intervento delle forze dell’ordine, torna la calma. Si procede alla votazione. L’unico candidato ottiene quasi l’unanimità. La barcaccia è vuota. Finalmente rassicurati, gli spettatori sciamano verso il foyer. Vi incontrano, e la vista li rassicura, un nutrito servizio d’ordine. Nella disattenzione generale, due guardie tengono sottobraccio la Signora della barcaccia. All’uscita gli spettatori si accalcano. Vi sono controlli. Stanno dicendo loro che, per motivi di sicurezza, è proibito fermarsi a parlare, in strada, con altre persone o tenere riunioni in luoghi chiusi senza l’autorizzazione delle competenti autorità. A noi giornalisti viene minacciosamente ricordato che sarà considerato comportamento antipatriottico riferire di condotte violente delle forze dell’ordine: se del caso, assicurano, verranno esaminate dalle competenti autorità di governo. Quando esce l’eletto, una calca festante ne accompagna l’incedere, mentre alcuni osservano con inquietudine le ruvide operazioni con cui la Signora della barcaccia viene caricata su un cellulare della Polizia penitenziaria. “Stanno portando via la Signora Verità’,’ commentano sottovoce alcuni, increduli. Provo a documentare con il telefonino l’operazione, ma due agenti me ne chiedono la consegna, invitandomi a seguirli in caserma “solo per alcune formalità’: “Sono un giornalista’,’ mi qualifico, esibendo il tesserino. “Appunto”, la laconica risposta. “Guardi che proprio di recente un giudice ha stabilito che in tal modo operate un trattenimento illegale’: “Lei ci segua. Se il suo amico giudice vuole dettare legge, si deve prima far votare dal popolo sovrano”: Intanto, consentitemi di mandare almeno questo breve resoconto alla mia redaz.. Le-gare, colle-gare, pre-gare... di Alessandro Bergonzoni La Repubblica, 4 agosto 2024 Chi si ricorderà dei tanti, troppi morti nelle nostre carceri? In Stato di abbandono? Parchi quartieri case monumenti? É tanto il patrimonio che tra il Fai e l’Unesco si proverà a salvare con l’aiuto delle Regioni e della ragione, tra i beni culturali e la salvaguardia che enti e privati cittadini metteranno in pratica nel Bel Paese, con finanziamenti che vanno dalle due Torri di Bologna fino a borghi sperduti che diventeranno patrimonio dell’umanità (ma quale? Non borgo, ma umanità?). La via Appia? La via della seta o quella della sete, che vede carcasse di rifuggenti come cibo per avvoltoi? Il tema dei beni culturali è sentitissimo non è divisivo anzi del tutto inclusivo. Le stesse orecchie non riescono però a sentire, se non flebilmente o con orecchie da mercante (cosa ci guadagno a udire?), ciò che da anni è esploso ed ora ormai fa strage nelle nostre galere e non solo. Lo osservano, ma non con l’occhio di riguardo né di favore, forse addirittura solo con la sua coda. Troppo rinclusivo? Eppure una cosa non “escluderebbe” l’altra: i soldi ci sono o possono essere spalmati e mirati per un “nuovo” piano carceri, facendo di esse finalmente un patrimonio ora dell’inumanità poi si spera dell’umanità…Prima, dopo, durante l’indulto, una amnistia, con svuota carceri (accompagnato necessariamente con lavoro in uscita), pene alternative, case per chi ha finito di scontare il proprio debito, trovando altre destinazioni per tossicodipendenti e per malati psichici, con riduzione di pena per anziani terminali. Scegliamo e perfezioniamo come trovare le (in)finite possibilità che la politica conosce benissimo dai “primi Pannella” ai giorni nostri.Ma i problemi sono i giorni “loro”, non i nostri, che si dovrebbero unire in una Olimpiade sociale che pacifichi e renda benessere a chi si è “allenato” e preparato da anni nelle palestre dei Tormenti, alla vessazione, alla tortura, fino a morire di resistenza atletico sovrumana. Le medaglie d’horror le stanno vincendo in cento l’anno, qualificandosi nelle parti alte della classifica dei suicidi. Il medagliere in queste “carceriadi” ogni giorno dà grandi risultati: il Marocco batte la Nigeria, l’Italia pareggia con l’Egitto, la Tunisia e la Libia a pari demerito, i CT mettono in campo anche le riserve, guardie penitenziarie che pure loro cadono sul campo tipo le partite di scapoli e orfani di tutte le età e ammogliati, con figli a carico…Ma il carico più pesante è quello del clima negli spogliatoi: 40 gradi senza aria e luce, poca acqua, bagni di folla-follia quando non diventano veri e propri bagni di sangue, costretti a defecare nello stesso bugliolo. Il comitato “Olimpico delle carceriadi” si sta interessando al problema da tempo ma con scarsi risultati: prima vengono i letti di cartone, i materassi di plastica e il cibo scadente con cui i nostri beniamini di ogni specialità hanno a che fare; che passione, che compassione, che sacrifici… Chissà quando questi concetti avranno a che fare anche con altro o col martirio…Intanto barche piene di atleti olimpici “migrano” dal loro paese fino a Parigi, riescono ad attraccare felicemente al Trocadero senza difficoltà o marine straniere che li attacchino o sparino loro. Fateci caso, tutto si svolge con una simmetria surreale e non solo metaforica: le bandiere di ogni nazione accolte dai tifosi plaudenti superano di gran lunga quelle delle ONG che arrivano da ogni parte nel Mediterraneo ma non possono accompagnarli tutti in un porto sicuro: il numero dei partecipanti alle varie discipline, come il “non nuoto sincronizzato con tutte le altre vittime” in stile morto, non sono contemplate, invece le gare di motovedette speronanti o passive sono ammesse, ma non quelle di gommoni (che mancanza di disciplina...). Cosa c’entra tutto questo con le rivolte nei penitenziari, cosa c’entra con le gare? C’entra con il “collegare”! Ecco la parola “le-gare” che spiegherebbe tanto: non accostiamo ne-gare, anne-gare, rele-gare, pie-gare e pre-gare, al concetto che ne è indissolubilmente legato. Perché niente é separato, come i cessi delle celle, nulla è diviso e c’entra con l’incapacità assoluta di provare a conoscere, a immedesimarsi, di chi decide, fa leggi e governa: non sa legare le gare all’annegare, il lancio del martello con gli atleti nazionali del lancio della chiave, la corsa dei tremila con l’esodo dei milioni dalle terre di guerra, non riesce a vedere il legame tra la corsa a ostacoli e la corsa ai ripari, il salto in alto con il salto sulle mine… Non ha una visione omnidimensionale per capire che lo “scandalo” dello show dell’ultima cena o di una certa s’cena, ha molto meno importanza di tutte le ultime cene che fanno i detenuti prima di essere traditi e crocifissi da vari Pilati, di tutte le ultime cene che ogni sera i bombardati con quel nulla che resta da mangiare, interpretano, attori per caso, loro sì poveri cristi senza nemmeno un bacio, mai blasfemi, come chi invece continua a chiedere loro di inscenare quel cenacolo, che dovrebbe essere rinnegato da tutte le religioni, vietato da tutti i credenti d’ogni fede o devozione. Invece continuiamo ancora a separare, a dividere, a non collegare, a pensare a pezzi, mentre in pezzi vanno altri che provano a scappare a gambe “levate”, appunto non riuscendoci mai. Un altro esempio: i campionati di calcio del Golan di una squadra bambina drusa, interrotto per pioggia, di missili, scaturita dopo, prima e durante tutte le altre carneficine di andata e di ritorno, per dimostrare chi é più bravo a vendicarsi di un terrorista, di un dittatore, facendo più morti collaterali possibili per fare scuola anzi per colpirla come un ospedale. Nuova disciplina Olimpionica diventa il tiro nel mucchio! (L’esempio non sta in piedi? Sono i sopravvissuti e altre migliaia di innocenti morti di fame che non stanno più in piedi senza arti). I funerali si celebrano non sotto la pioggia come i decuberteniani festeggiamenti francesi, ma sotto precipitazioni di missili su poveri islamici, palestinesi, cristiani, ebrei, maroniti, sciiti…Nessun funerale di Stato ovviamente: chi sono i parenti, dove sono, sono ancora vivi? Come i 66 morti nelle carceri, che i genitori li avrebbero ma non sono stati ricevuti dallo Stato che nemmeno pensa alle esequie. Hanno partecipato ai funerali? No solo ai telegiornali, forse ai giornali, “celebrati” da qualche presentatore di turno od ospite di prammatica, e tutto finisce lì, con facce di circostanza, nemmeno sempre. Tutto troppo astratto per la nostra pelle interiore, troppo distratti da chi fa la pelle tra gli Apollo delle palle europee…Allora possiamo chiedere di veder le foto e piangerli, cari amici giornalisti di cronaca, di politica, di nera, di giusti e di sbagliati, di colpevoli o di innocenti? Il due agosto abbiamo onorato i caduti, 85 persone, nella stazione di Bologna, innocenti che non si possono più salvare se non finalmente a suon di verità resuscitante. Lo stesso vale per quegli 81 nei cieli e nei mari di Ustica che non si possono più tutelare (ma di cui tutto si sa ogni cosa, da 40 anni, ma nessuna Nazione ha l’eroismo di definirsi colpevole. E i “nostri futuri” migranti a migliaia? E soprattutto i prossimi carcerati, a centinaia l’anno? Quelli sì che si possono ancora salvare, si devono preservare, perché (forse) non c’entrano nazioni omerdose, strategie di depistamento, vendita di armi e di anime, qui è tutto vicino a noi, meno astratto, alla luce del sole: anche se non entra nei loculi dei sepolti vivi, nel male odore del senza amore, nei forni giornalieri dei loro corpi cotti e abbandonati nell’ammasso. La loro è giusta pena? Sono colpevoli di qualcosa a differenza di quelli di Ustica o della stazione di Bologna certo, ma da colpevoli li facciamo vittime (i giustizialisti di razze chiedano lumi alla corte dei diritti umani). Non ci basta per stare sereni e non far niente per questa antica e continua ecatombe: la famosa pena, non è la morte, né la tortura, né il nostro indugiare continuo e convinto può esser la punizione, lo capirebbe anche un bambino, chiuso in galera. Possibile sia così impossibile congiungere morti a morti, dignità a dignità, follia a follia, bene a bene? Non vediamo come non vediamo? I parallelismi sono così arditi? Cosa abbiamo ancora bisogno di toccare con mano, di intuire perché si possa non far morire, si debba non prescindere, e sciogliere finalmente i distinguo, non i corpi di chicchessia? Per questo avrò intenzione (appena potrò farlo in maniera utile ed effettiva chiedendo adesioni), di portare davanti al carcere della mia città o di fronte al Comune o alla Regione (in cerca di un Presidente che si candidi non a vita ma per queste vite) un water, preferibilmente rotto, ovviamente non collegato alla fognatura, poi cominciare ad andare di corpo (non vanno forse di corpi tanti stati?), anche a turno, se qualcuno sarà con me in questa “ protesta performativa” al limite degli atti osceni in luogo pubblico; per capire meglio e far vedere cosa sono invece gli atti osceni in luogo privato (del diritto e di qualsiasi dignità) o meglio gli atti intimi in luogo osceno: una cella due per tre (e non ci sono sconti in questo ipermercato infernale del male ufficiale). Cominciamo a fare noi, da fuori, una rivolta a tutto questo, siccome lo consideriamo rivoltante: iniziamo a bruciare i nostri materassi, troppo spesso ignifughi, che non accendono nessuna protesta per far luce su quell’inumare inumano. L’idea ha una alternativa più “civile” e “legale” (definitemi vi prego, questi termini, che ora significano solo terminare, finire ogni rispetto del sacro).L’idea è quella di farci tutti “rivoltosi” partecipando il più possibile chi lo vorrà e ovunque si trovi: pantaloni, giacche e camice alla rovescia, simbolo del rivoltare per farsi notare, per far notare (sì, una delle specialità mancanti nelle Olimpiadi di sempre sono proprio i “notatori”), per inscenare qualcosa che rammenti a tutti quelli che ci vedranno in quello stato, che non dimentichiamo chi sotto lo stato muore, e che non stiamo più solo a vedere la classifica dei più torturati, non siamo più (a)spettatori, ma cambiamo panni, almeno per provare a sentire quando qualcosa non va, non è normale, non è possibile, prima che un carcere bruci del tutto con le conseguenze che conosciamo, conniventi. Ridicolo? Inutile? Insieme a tutto ciò che con tante associazioni e volontari, religiosi e avvocature, dobbiamo fare e stiamo facendo, é pur un sempre meno futile o patetico della spasmodica attesa politico partitica, dello starsene a casa in attesa che entri in circolo un vaccino di Stato che lo salvi dalla morte dell’anima, iniettato da sempre ad ogni governo che si è succeduto, ma ha lasciato brutalmente succedere. Barrientos Rastrojo: “Con la filosofia cambiare in carcere si può” di Gianni Santamaria Avvenire, 4 agosto 2024 In carcere con Boezio, per riscoprire la propria esistenza. Il riscatto passa anche per l’aula di filosofia. O meglio è la filosofia a uscire dall’accademia e ad andare nei luoghi di fragilità e sofferenza. Come gli istituti di pena, sovraffollati e dove il suicidio non è quello degli stoici antichi, ma il frutto di condizioni disperanti. “La filosofia è stata importante per la mia vita. Quindi a un certo punto mi sono chiesto, se ha aiutato me perché non può aiutare altre persone?”. José Barrientos Rastrojo, professore all’Università di Siviglia ha messo in pratica questa intuizione e oggi dirige il progetto Boecio, piattaforma di filosofia applicata per persone a rischio di esclusione sociale. Studi di infermeria alle spalle, ha poi intrapreso gli studi filosofici che lo hanno portato a scrivere numerosi articoli e libri. Nel suo percorso essenziale è stata l’attività di counselling filosofico, pratica sulla quale ha sostenuto, primo in Europa, la tesi di dottorato. È stato fellow del Csic (il Consiglio nazionale delle ricerche spagnolo) e ha proseguito gli studi a Harvard, Princeton, Cambridge e in Messico. Il progetto, finanziato dall’Ue, è stato ieri al centro dell’incontro “Filosofia esperienziale in prigione e in altri ambienti di vulnerabilità” nell’ambito del XXV congresso mondiale di filosofia di Roma, A parlarne sono stati lo stesso Barrientos, Victor Rojas e Victoria Sarmiento, entrambi colombiani, e il messicano Angel Alonso. Spagna, Argentina, Brasile, Colombia e Messico sono i paesi in cui il progetto è presente in una trentina di istituti. Contatti sono in corso anche in Italia, Finlandia, Russia, Usa e India. Nei penitenziari dove svolgono la loro attività in Colombia e Messico i filosofi coinvolgono in media gruppi di 3-400 detenuti. Una prigione brasiliana ha offerto al gruppo di lavorare con tutta la popolazione del carcere (9mila persone). “Abbiamo detto di no, perché eravamo all’inizio. Ma penso che ora ce la potremmo fare”, dice il filosofo con ottimismo. Quando nasce il progetto? “Nel 2007, quando un mio collega all’Università, Edoardo Vergara, ha iniziato a fare dei seminari in prigione. All’inizio eravamo tre, ora siamo una trentina. Abbiamo iniziato un progetto sperimentale di ricerca per scoprire non solo che la filosofia può aiutare queste persone, questo lo sapevamo già. Per capire se i risultati con loro sono reali abbiamo creato dei protocolli, in modo da misurarli quantitavamente, ma soprattutto qualitativamente. Per me l’esperienza qualitativa è molto più importante. Si vede la differenza nel modo di narrasi filosoficamente di una persona all’inizio e alla fine del progetto. Sviluppiamo questi seminari in sei mesi in ciascun gruppo, diamo dei testi e poi alla fine facciamo delle interviste nei focus group, per cercare di capire le differenze tra i vari gruppi. Abbiamo scoperto che le persone sono più resilienti, più aperte mentalmente, hanno una migliore regolazione delle loro emozioni, o detto in termini filosofici, un migliore governo delle loro passioni, sono più critici, scoprendo come l’ideologia del sistema criminale plasma le loro vite. Sviluppano infine ragioni esistenziali per vivere”. C’è un confine tra la vostra attività e quella dello psicologo? “La cosa importante per noi è che dobbiamo fare filosofia e non psicologia. Niente contro la psicologia, pensiamo che grandi psicologi come William James e Karl Jaspers sono passati alla filosofia. Noi aiutiamo le persone educandole al pensiero critico, ma non faccia gli psicologi”. Sui quali filosofi vi basate nei vostri seminari? “L’ispirazione principale è quella stoica: Marco Aurelio, Seneca, Epitteto. Ma lavoriamo anche con Zenone di Cizio, Crisippo, Musonio Rufo. La cosa importante è che noi non facciamo parte del movimento del neostoicismo. Loro usano la filosofia per normalizzare, per introdurre le persone nel sistema economico. Noi invece le trasformiamo, per render critiche verso il sistema”. Con quale metodo? “L’idea è quella del Ginnasio filosofico. Si allenano le proprie abilità. Nei sei mesi di cui dicevo abbiamo una breve sessione alla settimana con degli eserciz. E le persone tengono un diario. Diamo poi dei testi filosofici e loro devono scrivere delle meditazioni, alla Marco Aurelio. Alla fine c’è un esercizio pratico su temi come “diacrisis”, “memento mori”, esercizi di focalizzazione, di sviluppo del pensiero critico. Anche sulle immagini. In modo che in esse scoprano l’ideologia del sistema che vi è insita. O, per dirla con un autore italiano, Mario Perniola, come la società influenza ciò che noi sentiamo. Aiutiamo le persone a capire come non si tratti di idee, ma di esperienza. La questione non è tanto cosa provi, ma perché provi ciò che provi. Questa è la questione filosofica”. Qualche esempio di persona che ha incontrato che l’ha colpita? “Di recente una 18enne in Colombia che non partecipava molto e si addormentava durante i seminari. Una ragazza molto curata. Ho chiesto perché una ragazza così giovane e bella fosse lì. Mi hanno spiegato che molte ragazzine, anche di 12 anni, si sottopongono a chirurgia estetica per il sogno di diventare un giorno la moglie di un narcotrafficante. Il problema è che, se accade, dopo poco il boss le denuncia alla polizia e cambia donna. In Brasile un uomo aspettava di uscire di prigione con l’obiettivo di uccidere la moglie, che considerava causa dei problemi della sua vita. Dopo le sessioni filosofiche si è reso conto che, nella loro situazione, lei era la persona buona, non la cattiva. E ha detto che quando fosse uscito, sarebbe andato a ringraziarla. La trasformazione è una questione di ermeneutica”. Tra le famiglie dei detenuti per portare l’amore di Dio di Roberta Barbi vaticannews.va, 4 agosto 2024 L’esperienza di Alfonso Di Nicola, volontario del Movimento dei Focolari e fondatore del progetto “Sempre persona”, per anni in carcere e con le famiglie dei reclusi, raccontata nel libro “La vita è oggi - 2”, edito da Città Nuova, secondo volume di una sorta di diario della fraternità. Fare proprie le parole di Gesù nel Vangelo e metterle in pratica nella vita attraverso la carità: è questa la missione e lo stile di Alfonso Di Nicola, da anni accanto ai più fragili come sono, appunto, i detenuti, ma anche le loro famiglie: “Accompagniamo materialmente e spiritualmente anche i parenti che restano fuori senza chiedere nulla in cambio - racconta a Radio Vaticana Vatican News - cerchiamo di instaurare con loro una relazione di fraternità e di portare amore perché quando alle persone porti amore, porti Dio”. Il progetto “Sempre persona” avviato dall’associazione Azione per famiglie nuove, si pone l’obiettivo di aiutare i detenuti, gli ex detenuti e le loro famiglie a mantenere un rapporto attivo tra dentro e fuori e di accompagnare verso il reinserimento sociale con l’ascolto e la condivisione: “Ho iniziato 30 anni fa, quando un amico magistrato mi chiese di far qualcosa per stare vicino e voler bene a queste persone recluse - racconta ancora -, anche i Vic (volontari in carcere ndr) iniziavano allora, riuscii quindi a prendere l’articolo 17 e iniziai ad andare in carcere”. Alfonso inizia così a incarnare l’opera di misericordia corporale che recita di visitare i carcerati. “Andavo a Rebibbia per i colloqui e ci restavo dalle 9 di mattina alle 18 - ricorda - mi raccontavano le loro vicissitudini, il perché erano arrivati in carcere, poi si mettevano a piangere e io piangevo con loro”. Poi i detenuti hanno iniziato a chiedere ad Alfonso qualcosa di più, di stare non solo accanto a loro ‘dentro’, ma anche ai cari che avevano lasciato ‘fuori’: “Non avevo nulla da offrire, così ho chiesto a un amico sacerdote che mi ha suggerito di raccontare la domenica nella sua parrocchia quello che facevo. ‘Vedrai che la gente è buona e ti aiuterà’, mi diceva e così è stato, molti detenuti oggi mi ringraziano per aver fatto visita alle mogli o i ai figli, per aver loro portato un aiuto, qualcosa da mangiare. La nostra vicinanza li fa stare più tranquilli e fa loro vivere una detenzione più serena se sanno che c’è qualcuno che non dimentica le loro famiglie”. Oggi i volontari come Alfonso sono circa 20 e seguono 130 nuclei familiari in diversi quartieri di Roma: “Non chiediamo loro la conversione, non chiediamo nulla, ma portiamo amore. L’amore è potente e fa bene a tutti”. Il dramma dei bambini - Una delle questioni più calde quando si parla di affetti, è la questione dei bambini in carcere, recentemente tornata sotto i riflettori per il caso del bambino di due anni che vive al femminile di Rebibbia con la sua mamma - l’unico dell’istituto - che parla pochissimo e pronuncia parole legate alla sua condizione di vita ristretta. “Per lavorare con i bambini - conclude Di Nicola - bisogna stare con loro, far loro sentire che gli si vuole bene. Noi seguiamo una famiglia con otto figli, la mamma è in carcere, il papà non c’è. Hanno tanto bisogno di speranza e quella la si può donare, ancora una volta, soltanto con l’amore”. “Viviamo l’epoca del terrore, su cui si fondano il potere e l’economia di guerra” di Diletta Bellotti L’Espresso, 4 agosto 2024 Viene meno la narrazione di un’Europa pacifica e ci si avvia verso una sorta di conflitto permanente. Perché il tardo-capitalismo si regge sull’emergenzialità e sulla tensione. “Siamo in una guerra globale permanente”, mi dice uno degli attivisti della rete “Tende contro le guerre” (Tecleg). “Usiamo la parola guerra, ma di fatto stiamo parlando di conflitti asimmetrici”. La scintilla di Tecleg nasce lo scorso marzo dopo un viaggio a Rafah con lo slogan “perché le guerre non diventino il nostro pane quotidiano”. Non dà vita a niente di nuovo: resuscita e riallinea vecchie alleanze e complicità intorno alla volontà di esplicitare le maglie dell’economia bellica e di arrestarne le macchine. “Parliamo di guerre al plurale per tenere l’attenzione su tutti i contesti bellici e la loro matrice comune”. Con questo scopo hanno usato la metafora della tenda come “luogo di insicurezza, precarietà e pericolo”, ma anche “di rifugio, di incontro, orizzontale e nomade per definizione”. Il 2 giugno la rete ha promosso, in piazza San Cosimato a Roma, un presidio sulla “digitalizzazione della guerra e militarizzazione del digitale”; qualche settimana dopo, ha organizzato “hackerare i dispositivi coloniali”: incontri su come il colonialismo da insediamento si appropria dei saperi e delle tecniche per trasformarli in dispositivi di guerra, di controllo e di conquista. Un mese dopo, siamo al bar con due attivisti di Tecleg che cantileniamo di come non ci siano mai soldi per niente, ma sempre per le guerre: “Non c’è bisogno che ti cadano le bombe in testa per capire cosa sia l’economia di guerra e il modo in cui la società, tutta, la subisce”, continua uno. “Come siamo portati ad assumere un vocabolario bellico”, e mentre lo dice penso alla gestione securitaria della migrazione, al vocabolario delle “invasioni”. Riflettiamo su come “siamo costretti ad assumere una postura di guerra nella società. Facciamo nostra una narrazione d’emergenzialità che ci impedisce di tenere il filo rosso che collega strutturalmente tutto”. Infatti, la guerra è sempre più concretamente qualcosa che riguarda la pace fittizia dell’Occidente, anzi grazie a cui, attraverso il complesso militare industriale, prospera. Chiedo a entrambi di definire guerra e terrore: “La guerra non è solo un luogo fisico che, concentrato intorno a vari centri di potere, si dipana in catene produttive. Il centro della guerra è dove il bombardamento avviene, mentre noi siamo alla periferia dei bombardamenti, ma al centro della produzione e del potere bellico”, dice l’altro e quasi si parlano sopra. Mi interessa sapere come definiscono il terrore e su questo indugiano, uno aspetta il mio sguardo per parlare: “Forse il terrore che proviamo noi è la fine della narrazione di un’Europa pacifica, verso una possibile guerra permanente, non sappiamo il tipo né il modo, ma ci sarà”. C’è una pausa lunga che finalmente mi permette di scrivere senza che mi si indolenziscano le dita: “Credo che questo sia un po’ il momento del tardo-capitalismo in cui il terrore è la cifra della tensione che tiene in piedi tutto”, riflette un attivista della rete. “Ci sta un passaggio di paradigma, noi ora viviamo l’epoca del terrore, “terrocene”“, conclude sorridendo. “Dal bombardamento della Jugoslavia in poi, la pace s’impone così: incutere un terrore che controlla. Il terrore è il linguaggio. C’è una strategia di applicazione del terrore incrociato, dove, ovunque nel mondo, tutti hanno paura di tutto e sono immobilizzati e nessuno fa niente”. “Fa abbastanza”, correggo io; anche se sono lì per intervistarli mi sento obbligata a tirare l’ago verso la speranza, anche solo per equilibrio dialogico. La zona della morte tra Polonia e Bielorussa, dove la polizia può sparare ai migranti di Simone Matteis Il Domani, 4 agosto 2024 Tensione ai confini tra Polonia e Bielorussia sui flussi migratori. Il parlamento di Varsavia approva una legge che consente alle guardie di frontiera di aprire il fuoco contro chi arriva illegalmente. “Mi hanno chiesto “Da dove vieni?”, ho risposto che ero afghano. Mi hanno colpito alla gamba, già rotta, e ho lanciato un urlo tremendo per il dolore, ma questo li ha fatti arrabbiare ancora di più e mi hanno preso a bastonate”. Il racconto di Farid, un giovane rifugiato, arriva direttamente dalla “death zone”, la “zona della morte”. La chiamano così la frontiera tra Polonia e Bielorussia all’altezza di Hajnowka, nella foresta di Bialowieza, linea di confine che divide l’Europa da ciò che invece, semplicemente, Europa non è. Qui, lungo un’area cuscinetto che si estende per 60 chilometri e larga appena 200 metri, si riversano questioni e scontri politici che finiscono per ricadere, inevitabilmente, sulle sorti di coloro che tentano di attraversare quel lembo di terra per varcare la prima soglia europea del proprio cammino. Già a partire dal 2021 Varsavia aveva cominciato a edificare muri e barriere di filo spinato alle frontiere, per un’estensione massima di 400 chilometri. Dalla scorsa primavera, poi, il riacutizzarsi dei flussi in arrivo dalla Bielorussia ha spinto la Polonia a reintrodurre la buffer zone rendendola inaccessibile ai non residenti, compresi giornalisti e gruppi umanitari. Confine caldo - La tensione ai confini è altissima. Al momento quattro dei sei varchi che consentono in passaggio verso il paese guidato da Alexander Lukashenko risultano chiusi, mentre la “zona della morte” rimane off limits. “Siamo pronti a qualsiasi soluzione in quest’area, perché non permetteremo che questa crisi migratoria causata dalla Bielorussia duri indefinitamente”, aveva detto a inizio luglio il vice ministro della Difesa polacco, Cezary Tomczyk. I dati diffusi dalla guardia di frontiera parlavano di quasi centomila tentativi di attraversamento illegale nell’arco del 2021, annus horribilis per la pressione sui confini polacchi la cui responsabilità sarebbe da attribuire proprio al presidente bielorusso. L’accusa mossa contro Lukashenko è infatti quella di aver avviato da ormai tre anni una sorta di guerra ibrida, spingendo i migranti lungo “una rotta migratoria creata e controllata artificialmente” nel tentativo di destabilizzare e l’Unione europea. E così, fra dita puntate reciprocamente da una parte all’altra del confine, a farne le spese sono le persone che provano a farsi strada in Europa da est. Da inizio anno si stimano quasi 400 migranti che ogni giorno tentano di oltrepassare la frontiera per proseguire poi, il più delle volte, verso Germania, Francia e Regno Unito. L’ultima misura - “Non c’è limite alle risorse quando si tratta della sicurezza della Polonia”. Il presidente Donald Tusk commentava con queste parole la vicenda di un militare polacco rimasto ucciso lo scorso maggio a seguito di una colluttazione con un gruppo di migranti proprio nella “death zone”. È stato quell’episodio a spingere il governo a intensificare nuovamente la presenza armata lungo il confine bielorusso dispiegando uomini e mezzi di ogni tipo. Un’operazione il cui costo è stimato in oltre due milioni e mezzo di dollari, necessari secondo Varsavia per tentare di arginare l’emergenza: “Abbiamo a che fare con un’operazione coordinata e stratificata su più livelli per rompere il confine polacco e cercare di destabilizzare il paese”, ha aggiunto Tusk. Il 12 luglio l’ultima decisione sulla “zona della morte”. Probabilmente la più forte, che rischia di concedere un fondo di verità al suo stesso nome. Il parlamento polacco ha infatti approvato in prima lettura (401 favorevoli, 17 contrari) una misura che autorizza le forze di sicurezza impegnate alla frontiera con la Bielorussia ad aprire il fuoco contro chi tenti di attraversare il confine in maniera irregolare. Che si tratti di “autodifesa” o di un’azione “preventiva”, poco importa. Perché la proposta di legge entri in vigore serve il via libera del Senato, ma nel frattempo i media locali già parlano di “diritto di uccidere” legalizzato. Un rischio, quello di poter sparare alle persone lungo il confine, che alimenta le forti preoccupazioni delle organizzazioni umanitarie impegnate nelle retrovie della “death zone”, data l’impossibilità di accedervi fisicamente. “A causa della zona cuscinetto è già impossibile documentare cosa sta succedendo, incluse le violenze perpetrate dalle guardie di frontiera”, ha detto Bartek Rumienczyk, portavoce dell’associazione Grupa Granica, aggiungendo poi che “La nuova legge, se approvata, renderà la zona ancora più pericolosa per le persone in cerca d’asilo”. Le accuse verso Mosca - Il governo di Varsavia, dal canto suo, accusa la Russia di operare un vero e proprio reclutamento di persone che attraversano tutta la Bielorussia fino ad arrivare in Polonia, affermando che quasi l’80 per cento degli arrivi non riguarda migranti o richiedenti asilo, bensì “gruppi organizzati di uomini, di età compresa tra 18 e 30 anni e molto aggressivi”. Le organizzazioni umanitarie, intanto, proseguono nel loro appello affinché si arrivi a una rapida risoluzione dell’emergenza umanitaria lungo il confine: il Norwegian Refugee Council ha presentato al governo polacco, all’Unione europea e alla comunità internazionale una richiesta di “misure urgenti” a sostegno di tutti “i rifugiati intrappolati nella “zona della morte”, dove i più deboli cercano protezione internazionale”. Attraverso una serie di partner locali, la Ong è riuscita a calcolare, nel 2021, quasi 20mila richieste di assistenza da parte di migranti, 82 decessi e 9.000 pushback. Nella “death zone”, resa invivibile dalle temperature estreme e dalla conformazione paludosa del terreno, le frontiere militarizzate e il rischio di poter aprire deliberatamente il fuoco su chi tenta di oltrepassare il confine rappresentano l’ultimo tassello di una profonda crisi umanitaria. Un’emergenza, quella che si vive tra Polonia e Bielorussia, che impone una presa di coscienza a livello più ampio, per contrastare la strumentalizzazione di migranti e richiedenti asilo e per realizzare frontiere finalmente sicure lungo le quali i diritti di chi cerca protezione vengano indiscutibilmente rispettati. Libia. Profughi eritrei in trappola. “Così non abbiamo vie di fuga” di Paolo Lambruschi Avvenire, 4 agosto 2024 A Tripoli i rastrellamenti di massa da parte dei miliziani per estorcere con violenze e torture i riscatti alle famiglie. L’altra faccia del blocco delle partenze e dei respingimenti in mare. I profughi eritrei braccati nei quartieri ghetto di Tripoli dalle milizie, come nel terribile 2017. Costretti a vivere in trappola, senza sbocchi verso il Mediterraneo o la Tunisia, chiusi in casa per evitare l’arresto nei rastrellamenti di massa e torturati nei centri di detenzione per estorcere riscatti alle famiglie. Il silenzio calato sulla capitale libica negli ultimi mesi e il calo delle partenze che da questa sponda del Mediterraneo è reputato un successo celano una realtà dimenticata di sofferenze e disumanità destinata a peggiorare, come confermano le testimonianze raccolte in Italia dal gruppo di oppositori del regime Eritrea democratica. Va sempre ricordato che dal paese del Como d’Africa si fugge da una dittatura spietata “La guerra in Tigrai prima - spiega l’attivista Abhram Te sfay -, poi le tensioni in Etiopia e da oltre un anno la guerra civile in Sudan hanno spinto un grande flusso di rifugiati eritrei sulla rotta verso la Libia. Ma dopo aver pagato i trafficanti per uscire dal Sudan sono bloccati da mesi a Tripoli. Chi parte sui barconi rischia infatti di venire ripreso dalla guardia costiera libica e finire in prigione dalla quale si esce solo pagando un riscatto. Anche la Tunisia è chiusa, le guardie sparano sui migranti al confine e chi infine passa in Egitto rischia di finire in cella a tempo indeterminato e poi di venire rimpatriato in Eritrea dove lo attende la prigione”. La presenza a Tripoli di un numero crescente di profughi eritrei, le cui famiglie notoriamente pagano sempre i riscatti, ha scatenato una vera e propria caccia da parte dei miliziani in cerca di guadagni. Secondo le loro testimonianze la libertà dalle galere tripoline costa almeno 2.000 dollari. L’odissea di Selam Negasi, 27 enne fuggita dalle campagne eritree e dalla leva a vita è una sintesi eloquente. È stata ingannata insieme ad altre compagne di viaggio da un trafficante eritreo, Dejen, che aveva promesso di portarla in Italia per 6.000 dollari passando dal Sudan. Ma a Kufra, prima oasi in Libia, il prezzo del viaggio è lievitato a 7.500 dollari e chi come lei non poteva pagare è stato rinchiuso, torturato e violentato fino al pagamento della somma che l’ha portata a Tripoli. “Qui - racconta la giovane - ho fatto un’altra raccolta di soldi tra parenti e conoscenti e ho dato 3.000 dollari a Ibrahim, un altro trafficante eritreo, per attraversare il Mediterraneo”. Ma il criminale la porta a Zwara, la spiaggia delle partenze, per rinchiuderla in una casa per tre mesi finché la polizia libica non l’arresta durante una retata e la porta ad Abuselim, centro di detenzione tripolino. “Eravamo circa 300 eritree - aggiunge -. Le poliziotte erano cattive e razziste, ci trattavano come animali. Mi sono ammalata e quando pensavo di morire finalmente mi hanno ricoverato nell’ospedale del carcere. Ho provato a condividere le mie sofferenze con una poliziotta, ma mi ha detto che mi avrebbe fatto uscire solo pagando 2.000 dollari e mi ha fatto chiamare i parenti. Dopo aver preso il denaro, la poliziotta mi ha fatto uscire di nascosto. Sono andata in città a cercare i miei connazionali che mi hanno accompagnato all’ufficio dell’Unhcr dove non hanno potuto aiutarmi, ma mi hanno registrato. Rischiamo tutti i giorni di essere arrestati nei rastrellamenti continui. Vorrei partire dalla Libia, ma non so come fare”. Nemmeno Berhe lo sa. Vive in Libia dal 2020 ed è stato imprigionato così tante volte da aver perso il conto. “Ho speso 25.000 dollari per tornare libero, ma non riesco mai ad attraversare il mare”. Berhe è uno dei sopravvissuti agli orrori delle gang dei trafficanti di organi del Sinai quando la chiusura delle coste della Libia fatta da Gheddafi su richiesta italiana aveva spostato le rotte in Egitto. È stato in Israele dal 2011 al 2018. Dopo è stato espulso dal governo in Ruanda, ma da lì è tornato nel paese nordafricano nel 2019. “Sono registrato dall’Unchr. L’ultima volta che m i hanno arrestato? Il 30 giugno. Di notte è arrivata la polizia e ho pagato 2.000 euro per non venire arrestato. Vivo nascosto in casa, per la paura non dormo più. Conosco almeno 20 persone impazzite. Tanti hanno la tbc, ma gli ospedali non ci curano”. Yorsalem vive a Tripoli da tre anni e anche lei ha pagato più di 20.000 dollari poliziotti e trafficanti per restare libera. “L’ultimo rastrellamento è stato a maggio 2024 - ricorda - mi hanno portato ad Abuselim e sono uscita pagando 2.000 dollari”. L’unica speranza per questi disperati sono i corridoi umanitari verso l’Italia o i paesi occidentali, ma i posti sono pochi. In Turchia, intanto, 200 detenuti eritrei in cella da 11 mesi ad Aydin per immigrazione illegale hanno scritto una lettera ai connazionali in cui denunciano il rischio di venire deportati nell’Eritrea dalla quale sono fuggiti. Una violazione palese dei diritti umani, ma nessuno nella Ue così solerte verso diritti delle minoranze osa dire nulla a Erdogan e al suo sodale di Asmara Isayas Afewerki. Iran e Israele alla vigilia (surreale) della guerra di Gad Lerner Il Fatto Quotidiano, 4 agosto 2024 Il doppio funerale con cui è stato onorato Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, giovedì a Teheran, capitale dell’Iran, e l’indomani a Doha, capitale del Qatar, rappresenta un inedito assoluto nella millenaria storia dell’Islam; e dovrebbero farci riflettere sugli scenari futuri di una nuova guerra mediorientale che tutti considerano imminente, ma di cui nessuna potenza mondiale è in grado di controllare gli sviluppi. Haniyeh era un esponente della Fratellanza musulmana sunnita che ha importato nella realtà palestinese, senza remore teologiche, la dottrina politica controrivoluzionaria elaborata dagli ayatollah sciiti dopo la caduta dello scià di Persia. Diciamo che è come se per una controversa personalità cristiana si fosse tenuto prima un funerale con rito scismatico protestante e poi un altro di rito cattolico. Con la differenza che la guerra di religione fra i sunniti (85% dei musulmani) e gli sciiti (15% dei musulmani) è ancora in pieno corso. La morte del capo di Hamas ha simbolicamente riunito nell’omaggio la Guida suprema della Repubblica islamica dell’Iran, Ali Khamenei, assertore della teoria velayat-e faqih (tutela del giureconsulto) che subordina le autorità politiche alla volontà del capo religioso; e l’emiro del Qatar, Paese nel cui codice vige ancora la pena di morte per i musulmani che si convertano ad altra fede e la cui moschea principale è intitolata al teologo islamico puritano Muhammad Ibn al-Wahhab. Siamo proprio sicuri che nel prossimo, annunciatissimo, conflitto fra Iran e Israele i Paesi arabi alleati con l’Occidente aiuteranno lo Stato ebraico a intercettare i missili lanciati verso il suo territorio dal Libano, dallo Yemen, dall’Iraq, dalla Siria e direttamente dall’Iran? Quando ciò avvenne, la notte del 13 aprile scorso, i sostenitori di Netanyahu enfatizzarono la rinascita di un “asse sunnita” costretto dalle circostanze a spalleggiare Israele per contrastare la minaccia iraniana che incombe su di loro. Ma nel frattempo l’Arabia Saudita si è messa a fare il doppio gioco (incoraggiata dai cinesi e dai russi) mentre la Turchia si è schierata apertamente al fianco di Hamas. Quanto a lungo potrà l’Egitto voltare la faccia di fronte alla carneficina in corso a Gaza, e mantenere relazioni diplomatiche con Israele, mentre l’indignazione per la sorte dei palestinesi unisce l’intero mondo arabo? Ci sarebbe poi un altro interrogativo che angoscia i cittadini israeliani dopo le recenti, inevitabili “falle” rivelate dal sistema di intercettazione antimissilistica Iron Dome, in servizio da 13 anni ma mai così stressato prima d’ora. Quanto è logoro? Quanto a lungo potrà reggere? Qui dovrei fermarmi perché sembrerebbe che per scrivere di politica internazionale occorra essere piuttosto tecnici esperti di nuove armi di precisione che non studiosi di dinamiche sociali, politiche, religiose. Quanto ci mettono i missili a percorrere duemila chilometri (la distanza che separa l’Iran da Israele)? Più o meno di dieci minuti? Quali forme può assumere in futuro una guerra a distanza tra Paesi che non confinano fra loro e che sono spinti allo scontro diretto da motivazioni che nulla hanno a che fare con la geografia, col reciproco spazio vitale, bensì da secondi fini, conseguenze dell’anacronismo che paradossalmente li accomuna e sovreccita il fanatismo dei loro gruppi dirigenti? La teocrazia sciita, che deve imporre la sua visione imperiale all’Islam tutto, e l’etnocrazia ebraica, cui la destra israeliana sacrifica la natura democratica dello Stato, rendono insulsa e mortale al tempo stesso la contrapposizione. Devono farsi la guerra. L’Iran per ergersi a Stato-guida di una potenza islamica alternativa al modello occidentale in decadenza, nel nome dell’antico impero persiano, e così resistere ai molti nemici regionali del regime degli ayatollah. L’Israele di Netanyahu perché convinto che la pace con gli arabi sia impossibile, che di conseguenza i palestinesi vadano cinicamente schiacciati per indurli a un nuovo esodo e infine che sia venuto il momento propizio per dare una spallata definitiva all’Iran, prima che sia troppo tardi. Sono anni che Netanyahu vuole convincere gli Usa del dopo Obama che bisogna andare a una resa dei conti definitiva con gli ayatollah. Per questo ha guardato con fastidio all’apertura del fronte ucraino. Per indole e per convenienza Bibi si sentirebbe più affine a Putin che a Biden. Ma ora, pur di trascinare in guerra al suo fianco gli Usa sarebbe pronto anche a dichiarare che sia un’unica trincea quella che unisce Gaza a Kiev. La nuova guerra è del tutto incognita ma le grandi manovre sono in pieno corso. Israele ha sospeso i permessi dei riservisti. La flotta americana è in allerta. Non aiuterà certo a pacificare il mondo islamico l’arresto, a Gerusalemme, dell’80enne imam della moschea al-Aqsa, Akram Sabri, colpevole di avere promesso vendetta, in un sermone, per l’omicidio mirato del capo di Hamas. Israele. “Pianti, fughe, alcol: la guerra ci corrode” di Eshkol Nevo Corriere della Sera, 4 agosto 2024 Lo scrittore: credevo che la tregua sarebbe arrivata. E invece ora tutto brucia. Aspettavo il cessate il fuoco. Credevo che sarebbe arrivato. Volevo scrivere di cuori traboccanti di speranza, di persone che tornavano a sorridere. Di case ricostruite ai due lati del confine. Ma il cessate il fuoco non è arrivato, anzi: tutto brucia. Le fiamme si stanno diffondendo su altri fronti. Al supermercato ci sono lunghe code. La gente compra pacchi di acqua e powerbank per i cellulari, per essere pronta a permanenze prolungate nei rifugi. Il cessate il fuoco non arriva a causa degli interessi politici di Netanyahu? Oppure perché Hamas mira a trascinare l’intera area in una guerra totale? Non lo so. È difficile stabilirlo. Quel che è chiaro, inequivocabile, è il modo in cui la quotidianità di guerra corrode l’anima degli abitanti di Israele. Le persone scoppiano a piangere così, senza motivo, mentre ti parlano. Bevono di più. Fumano più erba, nel tentativo di smorzare la paura. Ci si sente a disagio a essere allegri. Persino ai matrimoni si parla degli ostaggi. E c’è un altro fenomeno, di cui nessuno parla: lo stillicidio di israeliani che vanno all’estero. Alcuni partono per respirare aria libera da missili per qualche settimana e poi tornano. Altri, come la famiglia della migliore amica di mia figlia, non riescono più a sopportare tanta tristezza ed emigrano, non torneranno più. Si parlano tre volte al giorno con FaceTime, mia figlia e la sua amica. Io so, e non le dico, che fra un pochino si parleranno solo una volta al giorno, e poi una alla settimana, e poi una all’anno. Non giudico chi non ce la fa più. Può darsi che la loro scelta sia più logica, più responsabile. Ma io rimango. Con i miei amici e i miei studenti e la mia lingua. Senza la mia lingua non posso vivere. E continuo a spostarmi da un posto all’altro, ad ascoltare, a tentare di aiutare, a ricordare. Scendo verso il Sud per un incontro con i lettori. È il primo incontro da quando è cominciata la guerra, mi avverte Uri, il direttore della biblioteca, mentre sono già in viaggio, perciò non so quante persone interverranno. Sarò contento comunque, lo tranquillizzo al telefono. Soprattutto sarò felice di vedere te. Ci conosciamo da ormai vent’anni, Uri e io. Mi ha conquistato il giorno in cui gli ho chiesto, dopo una vacanza estiva, com’era andata con la famiglia, e lui ha risposto: un incubo. Chi è disposto ad ammettere di non essersi goduto una vacanza in famiglia può diventare mio amico. Quando entro nella biblioteca ci abbracciamo e mi offre un whisky. Fino a oggi mi aveva sempre offerto caffè o tè. All’improvviso whisky. Facciamo un brindisi e gli chiedo come sta. Non granché, mi risponde. Soffro di disturbo post-traumatico da stress. Diagnosticato. Ti hanno richiamato in guerra? Sono sorpreso, deve avere almeno sessant’anni. Non esattamente, risponde. E spiega: sabato 7 ottobre ha fatto l’errore di guardare uno dei video diffusi da Hamas e ha visto qualcosa che ha fatto riemergere gli orrori a cui aveva assistito mentre era soldato durante la seconda guerra del Libano. Da allora di notte non dorme. Si sveglia per gli incubi. Di giorno tira avanti a malapena. Ha perso venti chili. Non so cosa dire, perciò taccio insieme a lui e gli chiedo di versarci un altro whisky. D’un tratto mi sorge un dubbio. Ascolta, gli dico, fra i brani che ho in programma di leggere durante l’incontro alcuni rischiano di riattivarti il trauma. Pensi sia il caso che li elimini? Leggi quello che vuoi, mi dice. Se sarà un problema, posso sempre tornare nel mio ufficio. Una settimana dopo l’incontro m’informo di come sta. Sulla mia testa c’è una nuvola, scrive. A volte è piccola, quasi inoffensiva, poi di colpo diventa un nuvolone nero e minaccioso. Leggo e penso che senza rendersene conto ha descritto perfettamente lo stato d’animo di un intero Paese. Finita una visita dal dentista mi accorgo di non avere il tempo di riaccompagnare a casa le mie figlie, perciò chiamo un taxi usando un’applicazione. Come si chiama l’autista? chiede la grande. Ahmad, rispondo. Annulla la prenotazione, dice, è arabo. Neanche per idea, ribatto indispettito. Che differenza fa se è arabo. È un essere umano proprio come te e come me. Ed è cittadino di questo Paese come te e come me. Le mie amiche fanno così, annullano se vedono che il taxista ha un nome arabo, mi spiega. Annulla, papà, non voglio correre rischi. Neanche per idea, mi impunto. Ormai è diventata una questione di principio. Di educazione. Se preferite potete andare a piedi. La sorella minore ascolta la discussione in silenzio, in attesa di sentire come va a finire. Il tassista arabo arriva. Salgono a bordo e arrivano a casa sane e salve, ovviamente. Ho vinto la battaglia. Ho trasmesso il giusto messaggio alle mie figlie. Perché allora in bocca mi è rimasto il gusto amaro della sconfitta? Mio padre, che ha ottantadue anni, è diretto a nord, al confine con il Libano. Vuole controllare in che condizioni è la nostra casa al kibbutz Malkia. Ci ha vietato di raccontare alla mamma che si trova nella zona che Hezbollah bombarda senza sosta. Lei impazzirebbe dalla preoccupazione ed è già debole di cuore. Dalla macchina mio padre mi comunica: al cancello di Malkia ci sono i soldati di guardia, ma basta dirgli: abito qui, e ti lasciano entrare. La casa è intera, continua a riferire. Non è stata colpita e nemmeno saccheggiata. Ma il giardino è inselvatichito. Il kibbutz è deserto, nessuno cammina per i sentieri, e nella piscina, che di solito d’estate è affollata di gente in vacanza, non c’è acqua. In quella piscina ho insegnato alla mia figlia minore a nuotare. Non riusciva, ci sono voluti giorni. Si teneva al galleggiante, si teneva a me, si rifiutava di mollarmi. Ormai credevo che sarebbe andata avanti così all’infinito, stavo perdendo le speranze, quando di botto, senza alcun preavviso, ha lasciato la presa e nuotato fino alla sponda opposta, da sola, a grandi, belle, bracciate, e poi è tornata da me entusiasta, ce l’ho fatta! Hai visto? Hai visto? La prossima volta vengo con te, dico a mio padre. Sei sicuro? mi chiede. Sì, penso, la nostalgia è più forte di tutto. Stati Uniti. 11 settembre: Lloyd Austin revoca i patteggiamenti di Giovanna Branca Il Manifesto, 4 agosto 2024 La Difesa Usa: no all’accordo che cancella la pena di morte per gli “architetti” dell’attentato. Un memorandum di poche righe che “con effetto immediato”, nell’”esercizio della mia autorità” annulla i patteggiamenti di tre dei presunti organizzatori dell’attentato dell’11 settembre - tra i quali il loro cosiddetto “architetto” - Khalid Shaikh Mohammed - con l’accusa. Lo firma il segretario della a Difesa Usa, Lloyd Austin, ribaltando l’accordo che avrebbe potuto mettere la parola fine a una vicenda legale infinita in cui nessuno ha avuto giustizia. In custodia degli Stati uniti dal 2003, Mohammed, Walid bin Attash e Mustafa al-Hawsawi sono stati per anni torturati nei black site segreti della Cia in giro per il mondo. Dal 2006 sono detenuti a Guantanamo, a lungo nel famigerato Camp 7 dedicato ai “prigionieri di alto valore”, la cui stessa esistenza è stata negata per anni dalle autorità americane. Prigionieri da 21 anni, ma senza processo: da oltre un decennio vanno avanti - nella stessa Guantanamo - le udienze pre processuali. Funestate dalla segretezza della maggior parte degli atti, da un continuo avvicendarsi dei giudici, quasi una decina, dalle misteriose infiltrazioni: collegamenti che saltano all’improvviso, microspie nelle stanze dove la difesa incontra i suoi assistiti. E soprattutto dal modo in cui le principali prove contro gli imputati sono state ottenute, la tortura, sulla carta inammissibile anche in un tribunale militare speciale. “Una macchia sulla fibra morale dell’America”: così una giuria non di reduci di Woodstock, ma di militari statunitensi, aveva definito le torture inflitte a Majid Khan, un altro detenuto di Guantanamo che aveva collaborato con le autorità Usa per ricostruire proprio le vicende dell’11 settembre. Centinaia di “sessioni” di waterboarding, percosse, il retto danneggiato a vita dagli stupri subiti. Non solo una macchia incancellabile: le torture inflitte ai detenuti che avevano firmato il patteggiamento pongono un ostacolo quasi insormontabile alla loro condanna. L’unica condanna possibile per chi ha revocato quegli accordi: la pena di morte. Mohammed, Attash e al-Hawsawi avevano infatti messo a disposizione la loro ammissione di colpevolezza, insieme a delle memorie in cui avrebbero dettagliato il loro coinvolgimento negli attentati, in cambio della commutazione in ergastolo della pena capitale. Appena si è avuta notizia dei patteggiamenti, raggiunti dopo oltre due anni di lavoro congiunto di accusa e difesa, il 31 luglio, è subito iniziato il coro di voci scandalizzate, prevalentemente della destra, e riassumibili nella dichiarazione del senatore Mitch McConnell: “Una rivoltante abdicazione della responsabilità governativa di difendere l’America e fornire giustizia”. Ma anche da parte dei familiari delle vittime, molti dei quali si sono detti “arrabbiati” e delusi alla prospettiva che gli assassini dei loro cari non venissero condannati a morte. Non tutti: il gruppo pacifista September Eleventh Families for Peaceful Tomorrows, raccontato dallo straordinario podcast dedicato da Sarah Koenig e Dana Chivvis alla storia di Guantanamo, da anni sperava in un accordo che attribuisse delle responsabilità chiare per la morte dei propri cari, e che consegnasse loro dei racconti dettagliati su come era stata progettata, e perché. “Mi è stato detto perché lo hanno fatto, ma io non lo so”, non dalla loro voce, ha detto una di loro, un’infermiera del Bronx che ha perso il fratello nelle Torri gemelle, a Koenig. In un anno elettorale, una soluzione di vera giustizia e buon senso era forse necessariamente destinata a venire cestinata in favore di titoli di prima pagina che promettono una “rassicurante” vendetta. Quando all’orizzonte si profila solo l’eterna procrastinazione di un processo tortuoso e senza meta, e la permanenza a tempo indeterminato di uomini - ancora presunti innocenti - in una prigione che gli americani stessi vorrebbero vedere chiusa da più di un decennio. E di una commedia delle parti in cui, come osserva uno dei legali degli imputati, “l’accusa è messa lì per rappresentare le forze della vendetta, e noi per rappresentare le forze della legge”. La giustizia non è mai davvero stata contemplata. “Felice per i 15 liberati, ma in carcere in Russia ce ne sono altri 1.289” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 4 agosto 2024 Parla Denis Shedov, componente del direttivo di Memorial, organizzazione russa impegnato nella tutela dei diritti umani: “Stiamo facendo tutto il possibile per ottenere giustizia e il rilascio anticipato di Alexei Gorinov”. “È un giorno importante e spero che ci possano essere buone notizie anche per altri dissidenti e oppositori politici ancora in carcere”. Sono queste le prime le parole che pronuncia l’avvocato Denis Shedov, componente del direttivo di Memorial (organizzazione russa impegnato nella tutela dei diritti umani e insignita del premio Nobel per la Pace nel 2022), all’indomani dello scambio di alcuni detenuti tra Stati Uniti, Russia e Germania. Sono stati liberati, tra gli altri, Vladimir Kara- Murza, Oleg Orlov e Ilya Yashin. Shedov è il difensore di Alexei Gorinov (si veda pure Il Dubbio del 14 febbraio 2024), avvocato ed ex deputato municipale, primo cittadino russo ad essere stato condannato dopo l’entrata in vigore della norma che punisce i “falsi sull’esercito”. Avvocato Shedov, il rilascio di alcuni dei dissidenti russi più famosi, come Kara- Murza, Orlov, e Yashin, è un segnale importante? Sono lieto che diverse persone innocenti, che hanno affrontato crudeli persecuzioni e dure condizioni di prigionia, siano state liberate. Alcuni dissidenti rilasciati avevano già trascorso diversi anni nelle prigioni russe, sopportando condizioni di vita disumane. La salute di alcuni degli oppositori liberati due giorni fa era estremamente precaria e peggiorava di giorno in giorno, con un concreto pericolo di morte. Sappiamo com’è andata a finire con Alexei Navalny nel febbraio scorso. Inoltre, il rilascio di giornalisti, difensori dei diritti umani, attivisti e politici dell’opposizione è un raggio di luce per la nostra società. È la speranza che non tutti coloro che si battono contro la dittatura, la guerra aggressiva e le massicce violazioni dei diritti umani moriranno in prigione. La speranza di cambiamento, con il rilascio dei prigionieri politici e la fine della guerra contro l’Ucraina, credo che siano un segnale molto importante. Su questo punto mi farebbe piacere aggiungere un’altra riflessione. Dica pure… Non dobbiamo illuderci sul fatto che avverranno cambiamenti rapidi. Quindici persone sono state rilasciate dalla detenzione russa, ma altre 1.289 sono tuttora in carcere, in Russia, con accuse penali dettate da motivazioni politiche. Una decina di detenuti sono già morti. Voglio ricordare la terribile situazione che riguarda prigionieri politici come Alexei Gorinov, Igor Baryshnikov, Lyudmila Razumova, Yury Dmitriev, Evgeny Bestuzhev, Zarema Musaeva, Rustem Muliukov e Gregory Winter, che necessitano del nostro sostegno e della nostra solidarietà. Non dimentichiamo, poi, che in cambio della libertà dei prigionieri politici il regime russo ha ottenuto il rilascio di diversi criminali. La liberazione dei dissidenti e degli oppositori politici è anche una vittoria di voi avvocati? Lo scambio in sé è un processo decisionale diplomatico a cui gli avvocati non sono invitati a partecipare. Non ho familiarità con i meccanismi di tali relazioni diplomatiche, quindi non posso dire cosa abbia influenzato le decisioni che sono state prese. Tuttavia, credo che l’attenzione pubblica verso la questione dei prigionieri politici, la consapevolezza sull’importanza delle loro storie, la solidarietà e il sostegno in loro favore abbiano giocato un ruolo importante. La vita nelle prigioni russe è molto dura, resistere senza alcun sostegno è difficilissimo. Per questo sono molto grato a tutti coloro che scrivono e inviano lettere ai prigionieri politici, condividono le loro storie e non si dimenticano di loro. Si tratta di un sostegno vitale. Mi consenta di ringraziare il Dubbio per aver prestato dal primo momento attenzione su quanto accade in Russia e per aver informato i lettori italiani sulle condizioni dei prigionieri politici e sul lavoro dei difensori. Il vostro supporto è incredibile. Oleg Orlov è uno dei fondatori di Memorial. Come sta? Continuerà le sue battaglie dall’estero? Orlov è stato trasferito in Germania. È riuscito a fare una breve chiamata a sua moglie e al suo avvocato. Ha detto che sta bene e che si sottoporrà ad una serie di esami medici, così come gli altri miei connazionali rilasciati. Conosco Oleg Orlov e il suo carattere inflessibile, così come la sua dedizione alla causa dei diritti umani. Penso che continuerà a impegnarsi anche dall’estero. Immagino che per lui sarà difficile vivere lontano dalla Russia, un Paese che ama profondamente e al quale ha dedicato tutta la sua vita. Ci sono possibilità che l’avvocato Alexei Gorinov venga rilasciato? Il suo è pure un caso molto delicato... Io e i miei colleghi, in qualità di difensori di Alexei Gorinov, stiamo facendo tutto il possibile per ottenere giustizia e garantire il suo rilascio anticipato. Alexei è in carcere da più di due anni, dall’aprile 2022, ed è costantemente sottoposto a umiliazioni di vario tipo, come la sistematica privazione del sonno, il collocamento in celle punitive, restrizioni riguardanti la corrispondenza e il contatto con i propri cari. Gorinov si trova attualmente in un centro di detenzione preventiva nella città di Vladimir, in attesa dell’inizio del secondo processo con l’accusa di giustificazione del terrorismo a seguito di alcune conversazioni sulla guerra contro l’Ucraina avute con i compagni di cella. Le sue condizioni di salute sono precarie. Ha una malattia polmonare cronica che peggiora soprattutto d’inverno, dato che è rinchiuso in una cella umida e fredda.