Tragedia infinita: a Reggio Emilia il suicidio numero 67 di Valentina Stella Il Dubbio, 31 agosto 2024 Dietro ai suicidi c’è anche l’impossibilità di avere un mestiere, una volta in libertà, o la mancanza di una rete di supporto per il reinserimento. “Si è tolto la vita nella tarda serata di ieri (due giorni fa, a 54 anni, nella sua cella del reparto isolamento della Casa Circondariale di Reggio Emilia. È il 67esimo detenuto suicida dall’inizio dell’anno, cui bisogna aggiungere 7 appartenenti alla Polizia penitenziaria”: ne ha dato notizia ieri Gennarino De Fazio, segretario generale Uilpa Polizia penitenziaria. “Così, dopo una breve tregua apparente di un paio di settimane sul fronte dei suicidi, un’ennesima tragedia investe le carceri alla vigilia dell’annunciato vertice di maggioranza in cui si dovrebbe discutere di nuove misure per affrontare l’emergenza - continua il sindacalista. - È palese e, nei fatti, riconosciuto persino dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e dall’intero esecutivo Meloni, che il decreto carceri e la sua conversione in legge non abbiano prodotto effetti apprezzabili”. Intanto, sempre due giorni fa, Rosaria Tassinari, deputata e presidente del coordinamento dell’Emilia-Romagna di Forza Italia, ha visitato il carcere di Rimini nell’ambito della campagna “Estate in carcere”, lanciata dal partito azzurro insieme a quello radicale per accendere l’attenzione dell’opinione pubblica sulla situazione degli istituti di detenzione italiani. Pur ravvisando che lì “la situazione non è negativa, l’occupazione del carcere è di 148 detenuti, al di sotto dei 165 di capienza massima”, la parlamentare ha sottolineato che un ambito in cui si potrebbe migliorare è quello del “potenziamento del settore per la semilibertà. Ad oggi, infatti, sono nove i detenuti che stanno usufruendo di questa opportunità, lavorando all’esterno del carcere per poi tornare in istituto: se si potesse ampliare questo settore, crescerebbe il numero di detenuti che potrebbero iniziare un percorso di reinserimento. La maggiore preoccupazione dei detenuti, infatti, è il ritrovarsi da soli e in difficoltà alla fine della pena: all’interno del carcere esiste una rete di operatori e volontari (ad iniziare dalla Caritas, che svolge un’opera preziosissima) che garantisce assistenza ai detenuti: è importante creare una rete che permetta alle persone di reinserirsi nella società con un lavoro regolare al termine della detenzione. In questo senso, a breve inizieranno dei lavori finalizzati proprio alla realizzazione di nuovi laboratori per avviare i detenuti a nuove professioni”. Questa considerazione si lega con la questione dei suicidi: senza la prospettiva di un futuro, i detenuti spesso hanno due strade davanti: o privarsi della vita o reiterare il reato. Oltre allo stigma sociale per cui resti per sempre un delinquente nella mente della maggior parte dell’opinione pubblica, pesa anche l’impossibilità di avere un mestiere imparato in carcere o la mancanza di una rete di supporto per il reinserimento. Come sostengono sempre gli esperti di “Carcere più lavoro”, più misure alternative significano abbattimento della recidiva. A guardare il report inviato per l’ultima volta il 16 agosto dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Felice Maurizio D’Ettore, scomparso lo scorso 22 agosto, notiamo che su 63 detenuti suicidatisi quest’anno a quella data, tredici avevano il fine pena entro il 2024 e 2025. Alcuni addirittura si sono tolti la vita a quattro mesi o a un mese dalla scarcerazione. Diversi di loro erano dentro per furto e reati legati alla legge sulla droga. Come ribadito anche dall’associazione Antigone, “il momento del fine pena rappresenta per molte persone una fase di grande smarrimento, soprattutto per chi non ha una rete di riferimento all’esterno. La persona deve essere accompagnata al rientro in società e dotata dei principali strumenti necessari. Gli istituti devono così dotarsi di un vero e proprio servizio di preparazione al rilascio, in collegamento con gli enti e i servizi territoriali esterni”. Ciambriello: “I minori in carcere rischiano di accumulare nuovi reati” di Valentina Stella Il Dubbio, 31 agosto 2024 L’allarme del garante dei detenuti della Campania dopo i dati degli ultimi mesi. Due giorni fa, il garante campano dei diritti delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, ha visitato il carcere minorile di Nisida a Napoli. Durante la visita, il garante ha incontrato anche il magistrato di sorveglianza dei minori, Margherita di Giglio, che si trovava nell’istituto per svolgere colloqui con i giovani detenuti. All’interno del carcere di Nisida erano presenti 71 ragazzi, di cui 22 stranieri, provenienti in gran parte da Tunisia, Marocco ed Egitto, e 7 a lavoro in articolo 21. È emerso, inoltre, che solo 18 dei 71 detenuti hanno una condanna definitiva e che nell’istituto ci sono 7 educatori. In Italia, sono 555 i giovani detenuti nei 15 istituti penali per minorenni. “È cambiata l’utenza delle carceri minorili - ha dichiarato Ciambriello - e questa nuova utenza ha bisogno di psichiatri a tempo pieno, psicologi e, soprattutto, di un Serd di riferimento fisso, interno. C’è bisogno di una vera e propria presa in carico. Le continue risse, i gesti di autolesionismo richiedono personale qualificato, specializzato, aggiornato e rimotivato. Il rischio è che molti giovani che entrano con problemi di tossicodipendenza, di separatezza affettiva, di disagio psichico, in carcere rischiano di accumulare ulteriori reati. Pur entrando per un piccolo reato, rischiano di aggravare la pena in carcere”. Occorre soffermarsi, in particolare, su un allarme lanciato dal garante, ossia che i giovani, proprio dentro l’istituto, rischiano di sporcare ulteriormente il loro casellario giudiziale. “Questi ragazzi - spiega ancora a Il Dubbio - si rendono protagonisti di risse, spaccio e uso di droga. Alcuni, con una scusa, si fanno portare in infermeria, sottraggono l’alcol e poi lo mettono dentro la Coca-Cola per sballarsi. Altri, a soli 16 anni, sono già giovani padri che in alcuni casi hanno perso la potestà genitoriale e soffrono per questo. Non si tratta più principalmente di figli di camorristi, ma di ragazzi, molti dei quali stranieri, che, abituati nel loro Paese d’origine a picchiare o essere picchiati, replicano quei gesti. E si rovinano la vita. Insomma, all’interno di questi istituti c’è molto disagio che non si può risolvere costruendo nuovi istituti, ma implementando le risorse umane a disposizione di questi giovani reclusi”. In sintesi, quanto descritto dalla fortunata serie Mare Fuori non sembra essere molto distante dalla realtà. Ciambriello ha concluso: “Con il decreto Caivano si è giunti all’introduzione di nuove fattispecie di reato, all’innalzamento della durata delle pene detentive e all’inasprimento dell’applicazione di misure cautelari, anche per reati di minore entità. Per non parlare del fatto che con le disposizioni di questo decreto il Direttore dell’Istituto penale per minorenni ha maggiore facilità a richiedere al Magistrato di Sorveglianza il nulla osta per il trasferimento in un Istituto per adulti, qualora il detenuto abbia compiuto 21 anni di età e con i suoi comportamenti abbia compromesso la sicurezza e turbato l’ordine dell’istituto. Quando ciò accade, come sta succedendo in tutta Italia e negli istituti campani, è da considerarsi un fallimento collettivo”. “Marcire dentro” non è solo uno slogan propagandistico di Cesare Burdese L’Unità, 31 agosto 2024 Lo scorso 13 agosto, ho partecipato a una visita al carcere Lorusso e Cutugno di Torino organizzata dal dipartimento Carcere del Movimento forense, dall’associazione Nessuno tocchi Caino, dalla Camera penale “Vittorio Chiusano” del Piemonte occidentale e della Valle d’Aosta e con il sostegno del consiglio dell’Ordine forense di Torino. Vi hanno partecipato anche esponenti parlamentari e delle amministrazioni locali, in forza al Pd. Alcuni partecipanti non erano mai entrati in carcere, altri conoscevano quello torinese per motivi professionali. Pochi di loro si erano mai spinti sino all’interno di una sezione detentiva, con tutto quello che ne comporta in termini di reazione emotiva. L’eterogeneità dei visitatori, non tutti pienamente consapevoli della realtà carceraria, ha conferito alla visita, più che una connotazione “ispettiva”, la duplice connotazione dell’approccio religioso-cristiano e di quello laico-politico, di pannelliana memoria. La visita è iniziata incontrando la direttrice e la responsabile dell’area educativa che hanno illustrato la struttura e le sue criticità, è proseguita con la visita ad alcune sezioni detentive maschili e femminili e si è conclusa con le interviste dei giornalisti all’uscita. Nessuna novità dalla visita, causa lo tsunami mediatico, ingenerato dagli eventi critici e drammatici che da tempo si succedono in quel carcere, così come nei restanti carceri italiani. Il sovraffollamento, la fatiscenza, la inadeguatezza e la disumanità delle strutture, le carenze gestionali degli Istituti e della Magistratura di sorveglianza, rese più drammatiche dall’elevato numero di suicidi tra i detenuti e il personale di custodia, sono le costanti del carcere nazionale. Criticità peraltro che hanno portato, nei primi mesi di questa torrida estate, a Torino come altrove, alla protesta più o meno violenta dei detenuti, tanto adulti quanto minori. Resta il fatto che visitare un carcere, ogni volta è spunto di nuove riflessioni e stimoli, anche per il visitatore più navigato. I suoi muri continuano a lasciare attoniti per come sono concepiti e si palesano, tanto da sembrare destinati a contenere cose e non persone. Il loro degrado materiale e la sciatteria degli ambienti sconcertano e non trovano giustificazione alcuna. Ma non sono questi i veri motivi che stimolano la riflessione. È l’umanità detenuta e “detenente” che, per la sua condizione di vita e di lavoro, rende ogni volta unica la visita e agita la mente. Quel giorno, nel carcere torinese, mi ha colpito, su tutto, il grido di aiuto - disperato e drammatico - di una giovane detenuta che diceva: “Ho un tumore al seno, mi sento abbandonata, mi sento marcire dentro, aiutatemi”. In quelle parole ho visto racchiuse tutte le storture del nostro sistema detentivo e il senso e il valore delle visite in carcere. Il verbo “marcire” mi ha evocato spietati slogan propagandistici e lo stato di abbandono e perdizione dell’attuale condizione detentiva. Quella richiesta di aiuto ha palesato lo smarrimento e l’impotenza mia e dei visitatori; visitare i carcerati - come opera di misericordia o meno - è certamente opera meritoria ma non sufficiente per mutarne le sorti. Il problema va affrontato alla radice superando il carcere, che si è rivelato ormai ovunque fallimentare. Solo un pensiero visionario potrebbe rimuovere quel “fossile chiamato carcere”, secondo l’espressione di Corrado Marcetti. È necessario non andare alla ricerca del carcere migliore, ma di cercare qualcosa di meglio, come Sergio D’Elia da tempo va sostenendo. Al suo pensiero affianco quello di Mauro Palma che, in occasione della pausa ferragostana, ha invitato quanti a vario titolo sono impegnati nella vicenda penitenziaria, a una pausa utile a riflettere per dare vita a una opposizione culturale (…) a quelle culture ormai stancamente consolidate. La necessità prospettata è quella di ipotizzare un modo diverso di costruzione di un pensiero altro - divergente e anche utopico - circa la risposta alla domanda ineludibile “Come rispondere alla commissione del reato?”, ben diversa dalla domanda su cosa fare dell’autore del reato stesso. Ma, al contempo, dal momento che il carcere ancora esiste e a lungo ancora esisterà, per considerazione e rispetto delle persone dolenti, disumanamente e inutilmente detenute, non va persa la dimensione pragmatica dell’azione. In attesa di chiudere le carceri, alla stregua di come si è fatto per i manicomi, anche se a qualcuno potrà sembrare contraddittorio, rimane imperativa la necessità e l’obbligo, “hic e nunc”, di affermare in quei luoghi democrazia e stato di diritto che, come afferma Rita Bernardini, è necessità vitale culturale e quindi politica. Gli agenti penitenziari ridotti a sorveglianti: così le carceri diventano “università del crimine” di Leo Beneduci* Il Fatto Quotidiano, 31 agosto 2024 Nel cuore del sistema carcerario italiano si consuma quotidianamente un paradosso che mina le fondamenta stesse della nostra giustizia. La Polizia Penitenziaria, un corpo nato con nobili intenti, si trova oggi intrappolato nella costante negazione della propria identità che ne compromette l’efficacia e la missione. Ricordiamolo a tutti: la Polizia Penitenziaria appartiene a pieno titolo alle forze di polizia. I suoi appartenenti sono titolari delle qualifiche di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza. Eppure, questa realtà sembra sfumare nel contesto carcerario, dove gli agenti si trovano a svolgere ruoli che poco hanno a che fare con le loro competenze e il loro mandato originario. È mai possibile, infatti, che in carcere per consentire ai detenuti l’accesso alle salette della socialità, al campo sportivo, oppure persino alle docce (qualora le celle detentive ne siano prive) occorra un agente di polizia? Ed ancora, è normale che serva la presenza costante e vigile di notte di un poliziotto di fronte a 25/30 persino 50 celle detentive chiuse su più piani? Per fare cosa? Per impedire che scappino? E come potrebbero? La contraddizione è lampante e sconcertante anche perché ricorda una concezione del carcere e di chi vi opera antecedente la Seconda guerra mondiale. In un ambiente dove i reati vengono posti in essere quotidianamente, grazie anche alla natura stessa del carcere per come è governato e strutturato oggi, ci si aspetterebbe che gli agenti di Polizia Penitenziaria siano in prima linea nel contrasto e nella prevenzione del crimine. Invece, assistiamo a uno spettacolo surreale di poliziotti relegati al ruolo di semplici sorveglianti, come se il loro unico compito sia quello di assicurarsi che i detenuti non si facciano male o, persino, che non evadano da locali in prevalenza inaccessibili dall’esterno. Ma è davvero questo il compito di un corpo di polizia specializzato? È per questo che ne vengono selezionati e poi sottoposti ad addestramento gli appartenenti? La domanda sorge spontanea: a cosa servono i poliziotti penitenziari se il loro ruolo si riduce all’apertura e chiusura delle celle, o addirittura all’organizzazione delle partite di calcio per i detenuti? L’ambiguità e la povertà di prospettive dei governi, perché al carcere si preferisce non pensare se non obbligati dai fatti, a prescindere dal colore politico, ha contribuito a creare questa situazione paradossale. Ma accade anche di peggio, perché poi, in assenza di altri, si pretende che gli agenti penitenziari siano anche e contemporaneamente psicologi, pedagoghi, infermieri e bidelli (dopo 4 mesi di corso - sic!). Una poliedricità di incombenze e di responsabilità impossibile e per certi versi infernale, che non fa altro che diluire l’efficacia del loro ruolo primario: quello di tutori della legge in un ambiente ad alto rischio criminale. A ciò si aggiunga che in nessun altro luogo, che non il carcere, ciò che si deve e si può attuare cambia ogni giorno in dipendenza dalle cangianti opinioni delle corti di giustizia, della politica e dell’opinione pubblica, sempre in bilico tra la completa apertura e l’assoluta chiusura ai diritti dei ristretti; un’incertezza della pena che fa il paio con l’incertezza dei metodi e che conducono all’assenza dei risultati. Il passaggio da Agenti di Custodia a Polizia Penitenziaria nel 1990 doveva segnare un’evoluzione significativa, rispetto al concetto del carcere quale mero “contenimento”, abbiamo assistito, invece, a una progressiva mutilazione del Corpo, ridotto a “fratello povero” delle altre forze di Polizia con il risultato di compromettere seriamente la sicurezza all’interno delle carceri e, di riflesso, quella della società intera laddove i detenuti, prima o poi, dal carcere escono. E’ principalmente per questo che le carceri italiane diventano vere e proprie “università del crimine”. Traffico di droga, utilizzo di cellulari per gestire attività illecite all’esterno, estorsioni, e persino sparatorie e omicidi: tutto questo fiorisce sotto gli occhi di una forza di polizia impossibilitata ad intervenire efficacemente prima, mentre e dopo. Occorrerebbe spezzare il circolo vizioso. La Polizia Penitenziaria deve poter svolgere il compito per cui è stata istituita: prevenire e reprimere il crimine nelle carceri, condurre indagini efficaci, interrompere il legame mortale tra criminalità interna ed esterna, con ciò andando a ripristinare la funzione principale di emenda e recupero della pena, soprattutto per chi veramente vuole scontare il proprio debito con la Collettività e tornare definitivamente libero e produttivo. La scelta è ancora una volta nelle mani della politica e dell’amministrazione penitenziaria, si spera con maggiore oculatezza e sensibilità rispetto al passato. *Segretario del Sindacato Polizia Penitenziaria Osapp La giustizia non va, ma nessuno lo dice di Valter Vecellio Italia Oggi, 31 agosto 2024 Giustizia e la sua amministrazione: uno dei suoi drammi è la lentezza e l’incertezza dei procedimenti; questione che riguarda il civile, il penale, l’amministrativo, il tributario. Rispetto ai paesi dell’UE, l’Italia è agli ultimi posti per quel che riguarda la durata dei giudizi civili, cosicché le imprese straniere ci pensano bene prima di investire in Italia. Da anni Banca Italia lancia gridi d’allarme e di dolore: inascoltata. Giudizi penali: secondo il Consiglio d’Europa durano oltre mille giorni: quasi dieci volte in più la media europea. Carenza di risorse, come spesso si dice? Per la giustizia si spende una percentuale di Pil in media con il resto dell’Europa; gli stipendi dei magistrati sono tra i migliori; grazie ai fondi del Pnrr si sono assunti oltre ottomila funzionari e più di tremila profili tecnici. Il fatto è che gli uffici giudiziari non sono governati con criteri manageriali. Non si premia e riconosce il valore e il merito del personale. I magistrati periodicamente sono sottoposti a giudizi di idoneità; l’ultima volta giudizio positivo per il 99,3%. Lo 0,2% una valutazione non positiva, lo 0,5% negativa. Percentuali ridicole. Tra il 2019 e il 2021 i magistrati colpiti da procedimenti disciplinari sono stati in media 31 l’anno, lo 0,35% dei circa novemila in servizio (di questi, almeno duemila sono impiegati nei ministeri: una vera anomalia). Su questo si dovrebbe ragionare, discutere, confrontarsi. Tutti zitti e mosca, invece. Associazione Magistrati in testa. Le querele di Davigo ci insegnano che è arrivato il momento di cambiare il sistema di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 31 agosto 2024 Le denunce costano zero, ma spesso sono un metodo per zittire i giornalisti sgraditi. La scorsa settimana sulle colonne di questo giornale è stata data la notizia dell’archiviazione della denuncia che Piercamillo Davigo aveva presentato confronti del giudice del tribunale di Roma Nicolò Marino. L’ex presidente dell’Anm si era sentito diffamato per le parole utilizzate dal magistrato romano nella sentenza di proscioglimento della sua segretaria al Csm riguardo la diffusione dei verbali sulla Loggia Ungheria. In passato anche chi scrive è stato oggetto delle attenzioni di Davigo. L’articolo finito nel mirino di quest’ultimo, prendendo spunto da una sua intervista dell’estate del 2018 al Fatto Quotidiano, si intitolava: “Davigo giudicherà Woodcock ma lo ha già assolto”. Rispondendo alle domande di Marco Travaglio, Davigo si era dichiarato “esterrefatto” in quanto il Csm all’epoca non aveva difeso il pm anglo-partenopeo, colpevole a suo dire di fare indagini ad alti livelli, dagli attacchi della politica. Woodcock in quel momento si trovava sotto procedimento disciplinare per le modalità di conduzione dell’inchiesta Consip. Nell’articolo si evidenziavano delle “perplessità”, dopo tali affermazioni, sul futuro ruolo di Davigo, appena eletto con un plebiscito al Csm, quale componente della Sezione disciplinare di pizza Indipendenza. La Procura di Avezzano, dove era stata incardinata la diffamazione, al termine delle indagini chiedeva ed otteneva l’archiviazione di chi scrive. “La valutazione in punto di possibile pregiudizio circa l’imparzialità della decisione presenta i caratteri della rilevanza attenendo ad un caso di interesse pubblico, stante anche le sue implicazioni politiche, della verità, traendo spunto dalle dichiarazioni dello stesso Davigo al Fatto, della continenza, posto che l’articolista si è limitato a dubitare della compatibilità della persona offesa quale giudice disciplinare”, si legge nel decreto di archiviazione. Le espressioni utilizzate, prosegue, rientrano poi a pieno titolo nel “diritto di critica”. Non contento, Davigo faceva opposizione, ritenuta dal giudice inammissibile. Quanto accaduto non può non indurre una seria riflessione sulla ormai non più rinviabile riforma della diffamazione a mezzo stampa. Il tema di fondo è molto semplice: denunciare il giornalista è a “costo zero”. Chi denuncia, infatti, non subisce alcuna conseguenza e non affronta spese: È sufficiente recarsi in una caserma dei carabinieri e verbalizzare la denuncia. Per evitare di far perdere tempo al maresciallo di turno, si può presentare per la successiva ratifica la denuncia già scritta. Discorso ben diverso per il denunciato che deve obbligatoriamente nominare un avvocato e prepararsi alle ingenti spese processuali (oltre allo stress) che nessuno, in caso di assoluzione, risarcirà mai: né il denunciante e né lo Stato. L’effetto di questo sistema totalmente deresponsabilizzante ha come risultato di intimidire il malcapitato giornalista che non può passare la giornata, invece di scrivere gli articoli, ad organizzare la strategia difensiva con i suoi avvocati. Il tema è particolarmente sensibile quando si toccano i magistrati, la categoria che denuncia di più in assoluto. Sul punto è utile riprendere una ricerca, unica nel suo genere, dei professori di diritto Pieremilio Sammarco e Zeno Zencovich che hanno analizzato circa settecento sentenze depositate negli anni 2015/2020 presso il Tribunale civile di Roma. Nel caso si tratti di magistrati, la domanda viene accolta in ben sette casi su dieci. Esattamente il contrario, dunque tre accoglimenti su dieci, quando il denunciante appartiene ad una qualsiasi altra categoria professionale (giornalista, politico, professore, imprenditore, ecc.). Per quanto concerne invece gli importi risarciti, la media è di circa ventimila euro, esattamente il doppio per le toghe. “Tutto è rimesso all’apprezzamento discrezionale del giudice: è molto difficile, se non impossibile, stabilire in linea di massima come potrà concludersi una causa risarcitoria per diffamazione”, puntualizza Sammarco. Lo scenario non è dunque esaltante e spiega come siano molto pochi i giornalisti (ed i giornali) che ancora si avventurano nel raccontare ciò che riguarda i magistrati. Ultimamente molti organi d’informazione sono concentrati sul “bavaglio” imposto dalla legge Cartabia circa la presunzione d’innocenza. Una norma di civiltà che questo giornale ha sempre difeso per evitare che nel tradizionale copia e incolla degli atti giudiziari l’indagato di turno finisca travolto dalla gogna mediatica. Sarebbe più utile che si iniziasse a ragionare su come arginare il fenomeno delle querele temerarie. Moussa Sangare e delitto Sharon, la Lega accusa: “Origine nordafricana e cittadinanza italiana” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 31 agosto 2024 Il primo post leghista sull’arresto del presunto assassino di Sharon Verzeni è di Matteo Salvini in persona: “Fermato Moussa Sangare, origini nordafricane e cittadinanza italiana, sospettato di aver assassinato la povera Sharon. Spero venga fatta chiarezza il prima possibile e, in caso di colpevolezza, pena esemplare, senza sconti. Complimenti ai Carabinieri”. Il punto che balza all’occhio è ovviamente quell’”origini nordafricane e cittadinanza italiana”. In serata, ospite del festival di Affari italiani, minimizzerà: “Fosse stato un finlandese, un eschimese o un biassonese sarebbe stato lo stesso un dramma. Il problema è la malafede di certa sinistra che vede il male ovunque a prescindere”. Ma c’è anche qualcosa d’altro. Il post salviniano è rilanciato dalle agenzie alle 11.50 di ieri mattina. E cioè, proprio mentre il vice premier leghista era a Palazzo Chigi da circa un’oretta per il conclave con gli altri leader della maggioranza. Insomma, il leader leghista non perde tempo nel mandare un messaggio, neanche troppo cifrato, ad Antonio Tajani. Sintetizzato: no allo ius scholae. No al legame tra cittadinanza e percorso scolastico in Italia, così come chiesto da Forza Italia. Che non è nel programma di governo, e per Salvini “quel programma è la Bibbia”. Con una chiosa: “Spero che valga il programma di governo per tutti”. Il perché del no lo spiega un salviniano di ferro come Rossano Sasso: “A leggere i giornali sembrerebbe trattarsi di un italiano. A leggerli meglio, pare che l’assassino si chiami Moussa Sangare, nato in Italia da una coppia di immigrati. È forse questa la dimostrazione che con la cittadinanza italiana non scattano in automatico integrazione e inclusione?”. In un post successivo, Sasso salta ogni distinzione. Dice che per Sharon non ci saranno né manifestazioni né ospitate televisive: “Ad uccidere Sharon non è stato un italiano quindi la notizia va nascosta, minimizzata, dimenticata”. Insomma, pare che per Sasso Sangare è non italiano al di là della cittadinanza. Il tutto, appunto, mentre si svolgeva il primo vertice di maggioranza dopo la pausa d’agosto. Quello in cui è “stata ribadita l’unità della coalizione” e in cui addirittura si registrata, sempre secondo la nota finale, “totale sintonia su tutti i dossier”. Ma il messaggio agli azzurri, e magari anche a FdI, doveva essere chiaro. E infatti viene supportato da una raffica di dichiarazioni dai parlamentari. La prima, in ordine di tempo dopo Salvini, Laura Ravetto: “Davvero sono questi i nuovi italiani a cui aspiriamo?”. Le risponde da +Europa Riccardo Magi: “È questa la maggioranza che si meritano gli italiani? Usare un caso di cronaca per opporsi a un dibattito sulla cittadinanza è puro sciacallaggio”. Più o meno nello stesso minuto di Ravetto, un irridente post di Claudio Borghi: “Oh, abbiamo i giornali che per una volta ci dicono la nazionalità di un criminale. È italiano. Si chiama Moussa Sangaré”. Poi, anche l’eurodeputata Silvia Sardone rimarca le “origini nordafricane e la cittadinanza italiana”, come la collega a Bruxelles Isabella Tovaglieri. Se Forza Italia non si fa snidare e nulla dichiara sulle agenzie, le opposizioni non lasciano cadere la palla. In questo caso il primo è il capogruppo di Italia viva Davide Faraone: “Le persone civili pregano per Sharon. Le persone incivili ricercano morbosamente la nazionalità dell’assassino per capire quanto indignarsi e scatenano una becera campagna politica su un terribile omicidio”. Più in generale sullo Ius scholae interviene la segretaria del Pd: “Nelle nostre classi non ci sono italiani e stranieri - dice Elly Schlein - ma bambine e bambini che hanno lo stesso diritto a una istruzione di qualità. Per noi chi nasce e cresce in Italia è italiano e non bisogna negare questo diritto”. Per Luana Zanella, da Avs “ciò che è orribile nel post di Salvini è il tentativo di accreditare una origine etnica del femminicidio: nega totalmente e colpevolmente la trasversalità di un fenomeno che non riguarda classi, colore della pelle, confini statali”. Le frasi di Matteo Salvini sul caso Sharon Verzeni sono un pugno allo stato di diritto di Claudio Cerasa Il Foglio, 31 agosto 2024 Il ministro dovrebbe sapere che la pena deve essere “giusta”, commisurata al reato, e non può mai essere “esemplare”, proprio perché questo implicherebbe che la si decide per dare un esempio, non per amministrare la giustizia. L’identificazione del presunto assassino di Sharon Verzeni e la sua confessione hanno suscitato un vasto interesse e anche sincere emozioni. La vicenda presenta ancora zone oscure ma è comprensibile che vi sia una diffusa richiesta di una punizione corrispondente alla gravità del reato. A questo sentimento naturale si è collegato Salvini, che ha voluto presentarsi come capofila dei giustizieri chiedendo una pena “esemplare” e “senza sconti”. Salvini dovrebbe sapere però che la pena deve essere giusta, commisurata al reato, e che non è mai “esemplare”, proprio perché questo implicherebbe che la si decide per dare un esempio, non per amministrare la giustizia in modo esclusivamente corrispondente alle caratteristiche del reato e del reo. Gli “sconti” cui allude il leader della Lega sono previsti dalle norme di procedura penale in alcuni casi specifici, non sono concessioni benevole di una giustizia troppo incline alla clemenza. Nel caso specifico, proprio per l’assenza di un movente riconoscibile, è probabile che la difesa sosterrà l’esistenza di qualche patologia psichica, che se fosse accertata avrebbe influenza sulla pena irrogata e sulla sede, sanitaria o detentiva, in cui verrà scontata. Utilizzare una emozione sincera per introdurre princìpi errati e pericolosi, a cominciare dal carattere “esemplare” della pena, è l’esatto contrario di una ricerca della giustizia, per non parlare dell’insistenza con cui Salvini ha voluto sottolineare le origini del sospettato, come se queste dovessero in influenzare il giudizio o come se fossero da considerare una specie di causa del comportamento criminale. Esemplare, invece, è stata, in questa occasione, l’attività investigativa, che è riuscita a identificare il presunto colpevole nonostante le difficoltà che si creano quando l’omicidio è privo di motivazioni personali. Non c’è ragione di dubitare che l’azione giudiziaria non proseguirà seguendo gli stessi principi di efficienza e di obiettività, senza dar retta a chi chiede in modo intempestivo e irrispettoso soluzioni e decisioni preconfezionate e “esemplari”. L’arresto del Br Bertulazzi e quegli anni di piombo che non passano mai di Paolo Delgado Il Dubbio, 31 agosto 2024 Accusato di aver partecipato al sequestro Costa l’ex terrorista rosso è stato fermato in Argentina. I media hanno le loro esigenze, devono aver qualcosa da strillare e l’arresto dopo 44 anni di un brigatista non notissimo come Leonardo Bertulazzi non offriva materiale sufficientemente ghiotto. Il legame con il sequestro Moro è saltato fuori così e dire che è tirato per i capelli è ancora poco. Bertulazzi secondo l’accusa avrebbe partecipato al sequestro di Pietro Costa, uno dei figli di Giacomo Costa, stirpe d’armatori di primissima categoria in Liguria. Costa, 42 anni fu rapito il 12 gennaio 1977 e rilasciato il 3 aprile dello stesso anno in cambio di un miliardo e 300 milioni di lire. Con quei soldi, divisi tra le varie colonne operanti nelle diverse città, le Br ci camparono per anni. La colonna romana ne adoperò una parte per affittare l’appartamento di via Montalcini dove nel 1978 fu tenuto prigioniero Aldo Moro. L’aneddotica brigatista intorno a quel sequestro è fitta: dalla tenacia con cui la famiglia trattò in modo da limitare al massimo il danno economico alle banconote del riscatto segnate che dovettero essere lavate una per una e ci volle parecchio. L’aneddoto principale, però, lo regalò lo stesso sequestrato: al momento della liberazione gli furono riconsegnati gli effetti personali. Segnalò che mancava un biglietto dell’autobus non ancora usato e pretese di riaverlo. Costa però ha in seguito parzialmente smentito, sostenendo che si era trattato non di un biglietto del bus ma della tessera per entrare al porto. Bertulazzi è stato condannato per aver preso parte a quel sequestro: di qui il legame con il sequestro Moro. In realtà la presenza di Bertulazzi nel commando di 6 brigatisti che sequestrò il rampollo è dubbia. Nel suo esaustivo studio sulla colonna genovese, gli Imprendibili Andrea Casazza cita Mario Moretti, organizzatore dell’azione, Rocco Micaletto, Luca Nicolotti, Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Prospero Gallinari. Certamente però la colonna genovese ebbe un ruolo centrale nell’organizzazione del sequestro e altrettanto certamente Bertulazzi nel 1977 faceva parte di quella colonna. Nato nel 1951 a Verona ma cresciuto poi a Genova, in una famiglia rossa per tradizione: il padre era stato tra i fondatori del Pci nel Veneto. Aveva alle spalle una militanza molto attiva in Lotta continua ed era stato arruolato dalle Br, col nome di battaglia ‘ Stefano’ nell’autunno del 1975, da Mario Moretti e Rocco Micaletto, allora il principale dirigente della colonna genovese. Per la polizia era già quasi una vecchia conoscenza: nel 1972 era stato fermato per blocco stradale, nel ‘ 75 denunciato per violenza a pubblico ufficiale. Nella notte del primo luglio del ‘77, a sequestro Costa già concluso, ‘Stefano’ venne soccorso e portato in ospedale, reparto grandi ustioni, da un automobilista. Riportava in effetti ustioni serie sulle mani e racconto di aver trovato sulla spiaggia di Vesima un sacchetto contenete una rudimentale bomba che gli era poi esplosa in mano. Gli inquirenti ovviamente non gli credettero e lo rinviarono a giudizio per detenzione e trasporto di ordigno esplosivo: a sostenere l’accusa fu il magistrato Mario Sossi, rapito dalle Br nel 1974. Bertulazzi fu condannato a due anni e mezzo nel gennaio 1978, poi ridotti in appello a due anni. In ottobre fu affidato ai servizi sociali e non perse un attimo a sparire e rientrare a Genova in clandestinità. Quasi due anni dopo, il 18 settembre 1980, fu sorpreso dalla polizia mentre con due compagni studiava un attentato contro la caserma dei carabinieri di Brignole. I due militanti della Brigata 28 marzo ‘ affiliata’ alle Br furono arrestati. Bertulazzi riuscì a fuggire ma proseguendo la militanza nell’Organizzazione armata sia nella colonna veneta che in quella napoletana. In Argentina, dove si era trasferito dopo essere passato per la Grecia e il Portogallo era stato arrestato nel 2002 ma rilasciato dopo 8 mesi perché l’Argentina non concede estradizione nei casi dei condannati in contumacia. Nel 2017 la Corte d’appello di Genova aveva dichiarato estinta per prescrizione la sua pena ma l’anno seguente la stessa Corte ha modificato la sentenza, stabilendo che i termini della prescrizione dovevano essere conteggiati a partire dall’arresto del 2002. Due giorni fa Bertulazzi, dopo decenni dai fatti, è stato arrestato. Forse verrà estradato in Italia per scontare una pena oltre i termini della prescrizione. Ma che l’Argentina conceda l’estradizione non è affatto certo. Un 75enne verrà rieducato in carcere mentre piange lo Stato di diritto di Tiziana Maiolo Il Riformista, 31 agosto 2024 Esprime “profondo apprezzamento” Giorgia Meloni, e piange lo Stato di diritto, dopo l’arresto a Buenos Aires di Leonardo Bertulazzi, latitante italiano dal 1980 e condannato in contumacia a 27 anni di carcere per l’appartenenza alle Brigate Rosse e il sequestro dell’armatore genovese Pietro Costa. All’esponente della colonna genovese delle Br era stato concesso - dopo un primo fermo nel 2002 - lo status di rifugiato politico sulla base del principio dell’habeas corpus che vieta, in Argentina come in Europa, di condannare una persona che non sia fisicamente presente al processo. È lo stesso principio in base al quale la Corte di Cassazione francese un anno fa ha rifiutato in modo definitivo l’estradizione di 10 rifugiati politici italiani. Lo aveva fatto in osservanza dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il processo in contumacia, consentito in Italia, è fuori dallo Stato di diritto. Le sue sentenze di condanna, come quella che riguarda Leonardo Bertulazzi, non esistono neppure per l’ordinamento argentino. L’estinzione della pena e il passo indietro - Inoltre, nel giugno del 2017, la Corte d’Assise d’Appello di Genova e in seguito anche la Cassazione avevano dichiarato estinta la pena per prescrizione del reato: quindi l’ex militante delle Br - ormai settantenne - era diventato un uomo libero. E anche reinserito nella società, supponiamo, nonostante i gravi reati (forse) commessi. Ma una nuova Corte stabilì poi che l’arresto del 2003 avrebbe dovuto far ripartire l’orologio da capo. Niente prescrizione dunque. E oggi, con il nuovo regime del governo argentino dell’”anarco-capitalista” Javier Milei, nuovo arresto e nuova estradizione. Ma sì, rieduchiamo in un ridente carcere italiano questo settantacinquenne, mentre piange lo Stato di diritto. Campania. Il carcere crudele, il carcere rimosso e i duemila detenuti in più di Samuele Ciambriello* La Repubblica, 31 agosto 2024 Nell’articolo 27 della Costituzione italiana non si nomina nessun tipo di pena, ma si dispone che “le pene” (tutte) devono rispondere a due requisiti: uno, “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e due, “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Le pene diverse da così sono fuori legge, sono fuori Costituzione. E quindi anche chi la pensa così sul carcere è fuorilegge. Lo scorso 7 agosto il Parlamento ha approvato in via definitiva la conversione in legge del cosiddetto Decreto carcere, nella stessa mattinata ho incontrato in qualità di portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà il ministro Carlo Nordio. Abbiamo mostrato al ministro Nordio attraverso i numeri, l’urgenza di discutere di strumenti straordinari ed urgenti rispetto al sovraffollamento, al numero dei suicidi, alla carenza di personale negli istituti penitenziari. Nell’urgenza di emanare interventi efficaci rispetto al sovraffollamento, al numero allarmante dei suicidi, questo decreto si riconferma una “scatola vuota” per i detenuti e inutile per fronteggiare l’emergenza carceraria. Non sono valse a nulla (per ora) le manifestazioni della sofferenza dei detenuti, la fatica degli operatori penitenziari, le denunce dei garanti, il richiamo del Presidente della Repubblica. L’aumento dei colloqui telefonici rappresenterebbe l’unica misura apprezzabile di questo provvedimento normativo. Nella nostra regione, oggi, abbiamo un indice di sovraffollamento pari al 133.85%, quindi ci sono 2.000 detenuti in più. Ci sono 7.581 ristretti a fronte di 5.664 posti disponibili. Tra questi 432 detenuti in Campania devono scontare meno di sei mesi, mentre coloro che devono scontare appena un anno di carcere sono 999, 8000 in tutta Italia. Bisogna rendere più snello e veloce il procedimento volto a garantire l’accesso alle misure alternative ai detenuti che si trovano nelle condizioni di potervi accedere. Noi garanti promuoviamo l’aumento dei giorni per la liberazione anticipata speciale, prevedendo uno sconto di ulteriori 30 giorni a semestre. Chiediamo misure deflattive al Governo o l’approvazione della proposta Giacchetti sulla liberazione anticipata speciale che prevede la concessione da 45 giorni a 60 giorni, a semestre. Il dato allarmante è la presenza dei giovanissimi negli istituti campani per adulti, sono 1.061 i detenuti con un’età compresa tra i 18-29. Oltre all’età sono cambiate le tipologie di reato. Sono 1403 i detenuti tossicodipendenti, 1/3 dei quali denunciati dai familiari, e 420 i detenuti malati di mente, molti dei quali erano in cura presso i Dipartimenti di salute mentale. Cosa ci fanno in carcere? Con questi dati le carceri, campani e non, dimostrano di essere una discarica sociale ed un ospizio dei poveri. Ad essi aggiungiamo 143 detenuti campani che hanno più di 70 anni, tra cui un diversamente libero che a gennaio compirà 93 anni. Continua a salire il numero eclatante dei suicidi, 67 in Italia e 7 in Campania (dato aggiornato al 28 agosto!). Ci sono stati in Italia 1.335 tentativi di suicidi dall’inizio dell’anno, e un centinaio nella nostra regione, molti sventati grazie al pronto intervento della polizia penitenziaria. Servono subito figure di ascolto, psichiatri, assistenti sociali, assunzioni di nuovi funzionari giuridico pedagogici proporzionati per il numero reale di presenze negli istituti. In alcune aree della Campania sono in attesa della nomina del dirigente sanitario per la tutela della salute negli istituti penitenziari da circa 4 mesi. Non abbiamo bisogno di un carcere nuovo, di ulteriori sanzioni penali, ma di attività di inclusione sociale: attività culturali, sportive, ricreative, scolastiche, lavorative. Per far sì che il tempo della detenzione abbia senso e sia funzionale al reinserimento sociale nella società. Misure immediate per un percorso di inveramento del volto costituzionale della pena. *Garante campano dei detenuti e portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà Reggio Emilia. Si toglie la vita alla Pulce. Aperta un’inchiesta per istigazione al suicidio di Benedetta Salsi Il Resto del Carlino, 31 agosto 2024 Il detenuto 54enne marocchino aveva soltanto un altro anno di reclusione da scontare. Era molto conosciuto come cuoco del penitenziario: poco prima una lite col compagno di cella. Un uomo di 54 anni di origine marocchina, detenuto nel carcere di Reggio Emilia per un cumulo di pena per furti, rapina e resistenza a pubblico ufficiale, si è tolto la vita nella serata di giovedì nella sua cella. Si tratta del settimo caso di suicidio carcerario in Emilia Romagna e il 67° in Italia dall’inizio dell’anno. Stando alle prime testimonianze raccolte il detenuto - padre di due figli - non avrebbe mai avuto problemi disciplinari, né con gli altri detenuti. Anzi, era molto conosciuto tra carcerati e secondini, anche perché faceva il cuoco nelle cucine del penitenziario e gli rimaneva più o meno un altro anno di reclusione da scontare. La ricostruzione. Il 54enne si trovava da poche ore da solo (ma non in regime di isolamento), dopo essere stato diviso dal detenuto con cui condivideva la cella in seguito a un’accesa lite. La tragedia si è poi consumata negli istanti successivi: intorno alle 22.40 la vittima è stata trovata impiccata alla grata della cella, legata attraverso i brandelli di una maglietta. Sui motivi della discussione e per chiarire la dinamica dell’accaduto, che ha scosso tutto l’ambiente carcerario e la società civile, è stato aperto un fascicolo d’inchiesta da parte della procura di Reggio Emilia a carico di ignoti, per il reato di istigazione al suicidio. Il sostituto procuratore Maria Rita Pantani ha svolto un sopralluogo nella tarda mattinata di ieri assieme al personale del Nir (Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria), acquisendo anche le immagini delle telecamere di videosorveglianza interna. Sono in corso diversi interrogatori per ricostruire il contesto in cui si è consumato il suicidio. Sul corpo del 54enne è stata disposta l’autopsia. Reggio Emilia. Il Garante: “La vittima era considerata priva di rischi suicidari. Indagare bene” di Gabriele Gallo Il Resto del Carlino, 31 agosto 2024 Il consigliere regionale Amico: “Questa epidemia va fermata”. Il suicidio di giovedì è il primo verificatosi quest’anno nel carcere di via Settembrini, il settimo in Emilia Romagna, territorio con più suicidi carcerari in Italia da gennaio a oggi, sui 67 totali. Ne parliamo con Roberto Cavalieri, garante regionale per i diritti dei detenuti dal 2022, che ieri pomeriggio si è recato al penitenziario cittadino. Cavalieri, che cosa ha visto? “È stata occasione per un lungo e proficuo colloquio con la direttrice, la dottoressa Monastero, con il comandante facente funzione della polizia penitenziaria e con il responsabile dei servizi educativi, Modestino Ciampi. Ho visitato anche la cella dove è avvenuto l’evento”. Da quello che ha appreso cosa è accaduto giovedì? “Il detenuto deceduto ha avuto un alterco col suo compagno di cella, ragione per cui sono stati messi in celle separate. Procedura standard per chi, come la persona di cui parliamo, era considerata priva di rischi suicidari. Tuttavia a tarda sera è stato ritrovato impiccato alla grata della cella”. Si è fatto un’idea delle possibili cause? “No, è troppo presto e c’è un fascicolo aperto presso la procura. Ma bisognerà capirle bene perché l’uomo apparteneva a quella ristretta minoranza di detenuti che viveva il carcere in modo partecipativo: lavorava nelle cucine e partecipava attivamente alle attività di formazione. Oltretutto aveva il ‘fine pena’ nel 2026, ma coi benefici carcerari probabilmente sarebbe uscito già l’anno prossimo”. Dal punto di vista dei suicidi e degli atti di autolesionismo come è la situazione nel carcere di Reggio? “Al momento non c’è un problema di sovraffollamento, e questo aiuta. Gli operatori si danno da fare in proposito, gli agenti della Penitenziaria hanno una professionalità eccellente. Ma il problema è che in carcere si gestisce il qui e ora. Il detenuto ha bisogno anche di avere prospettive per il futuro una volta fuori, per non cadere in depressione. Su questo punto gli enti locali devono fare di più”. In termini di cifre? “In Emilia-Romagna, parlando del 2024, siamo al 10% del totale dei suicidi carcerari. Reggio ha avuto 48 ore fa il suo primo caso. Nel 2023 alla Pulce, si sono verificati zero suicidi, ma 19 tentativi di suicidio e 238 episodi di autolesionismo. La tendenza in proposito, per quest’anno, è su numeri analoghi”. Con Cavalieri in via Settembrini era presente anche il consigliere regionale Federico Amico, che ha segnalato l’accaduto e ha commentato: “Come andiamo ripetendo da tanto, troppo tempo, questa epidemia va fermata. Occorre una drastica riduzione della popolazione carceraria, commisurata agli spazi e al personale sanitario e penitenziario effettivamente disponibile e in grado di assicurare una detenzione dignitosa a chi non possa attendere il giudizio o scontare la pena fuori dal carcere, come è giusto e possibile che sia. Nelle prossime ore capiremo di più su questo ennesimo dramma”. Bari. Tre ore nell’inferno dei detenuti, i penalisti nel carcere: “Situazione drammatica” di Mara Chiarelli L’Edicola del Sud, 31 agosto 2024 Tre ore. Per guardare, ascoltare, condividere spazi, quegli spazi all’interno della casa circondariale di Bari, sovraffollata e sottostimata dalle stanze romane in termini di “sicurezza”. Lo hanno accertato anche penalisti e parlamentari baresi che ieri hanno fatto visita al carcere, a distanza di 12 giorni dagli ultimi disordini e 6 giorni dopo la visita del viceministro Francesco Paolo Sisto. “La situazione è decisamente seria - si lascia andare la presidente della Camera penale di Bari, Marisa Savino - ci sono 399 persone ristrette più 2 ricoverate sulle 260 previste, in una struttura dove la maggior parte delle zone è gravata da umidità, dove non c’è la possibilità di soddisfare tutte le esigenze trattamentali perché ci sono appena 4 operatori, quindi i percorsi sono limitatissimi”. I progetti e gli spazi - “I progetti esistono - chiarisce l’avvocata Savino - ma non ci sono fondi, che sono stati destinati per la ristrutturazione dell’area femminile e non sono ancora arrivati”. La questione degli spazi: “Abbiamo visto celle molto piccole con un maggior numero di letti rispetto a quello originario”, commenta la presidente, che è stata accompagnata dalla direttrice del carcere, Valeria Pirè e da altri operatori. La carenza di agenti - In termini inversamente proporzionali al sovraffollamento, il numero risicato di agenti della polizia penitenziaria. “Questa è l’altra situazione drammatica - riprende Savino - Quella degli agenti che hanno turni di lavoro superiori alle 6 ore che dovrebbero fare. Parliamo di turni di 8 ore, a volte due turni consecutivi e a volte anche senza il riposo del giorno successivo - denuncia - Forse anche in virtù del fatto che si tratta di una casa circondariale, non di reclusione, con un movimento di ingresso e uscita di detenuti molto elevato”. Il centro clinico - Per quanto riguarda la situazione del centro clinico “abbiamo delle distonie - spiega ancora - perché i detenuti sostengono di avere il minimo delle tutele, invece la direzione sanitaria rappresenta che vengono evase tutte le domande. Prendiamo atto di questa situazione, approfondiremo come sempre abbiamo fatto”. I parlamentari - “Drammatica, non si può descrivere altrimenti”. È la reazione di Marco Lacarra, deputato barese del Pd, che ha visitato il carcere assieme alla Camera penale e i colleghi Ignazio Zullo (FdI) e Davide Bellomo (Lega). “La struttura è in condizioni di pietosa fatiscenza ed è assolutamente inadeguata per i fini della detenzione - afferma - Le conseguenze del sovraffollamento estremo sono terribili e vanno ben oltre i limiti della dignità umana. Intervenire immediatamente non è più soltanto un’opzione ma un dovere civico e morale. I diritti più basilari non sono garantiti e la sicurezza di tutti, detenuti e personale, è messa quotidianamente a rischio. Il Ministro Nordio faccia qualcosa di concreto prima che questa situazione di degrado esploda definitivamente”. Bari. Altra “visita guidata” al carcere, per lasciare tutto com’è di Francesco De Martino Quotidiano di Bari, 31 agosto 2024 Sindacati e perfino l’associazione magistrati danno l’allarme da tempo, ma nei penitenziari pugliesi non cambia niente. Dopo anni e anni di assoluto silenzio e omertà -come se il dramma carcerario fosse un’invenzione di certi giornali o di sindacalisti desiderosi di mettersi in mostra - ora all’improvviso squilla con cadenza quasi quotidiana la sirena d’allarme sulla situazione all’interno delle carceri pugliesi, capoluogo in particolare. Ieri è toccato al deputato barese Marco Lacarra parlare di “situazione drammatica, condizioni indegne e personale allo stremo”. L’avvocato-parlamentare dem ha fatto anche lui, dunque, il giro guidato nell’istituto penitenziario barese - parecchio di moda, in questi ultimi tempi - per circa 3 ore. “La struttura carceraria, che ha quasi un secolo di vita, versa in condizioni di pietosa fatiscenza ed è assolutamente inadeguata per i fini della detenzione. Rispetto ai 260 posti disponibili - ha calcolato Lacarra - sono a oggi presenti 402 detenuti, costretti a condividere in tre/quattro persone spazi angusti e completamente inidonei a garantire igiene e serenità. Le conseguenze di questo sovraffollamento estremo sono terribili e vanno ben oltre i limiti della dignità umana”. Che ha completato il suo discorso ringraziando “sentitamente” la direttrice e tutti gli operatori che all’interno del carcere svolgono con “grandissimo senso del dovere e in condizioni impossibili un’attività complessa”. Bene, bravo, bis, la morale è che anche per l’on. Marco Lacarra “intervenire immediatamente non è più soltanto un’opzione, ma un dovere civico e morale. A Bari, come in tante altre carceri italiane, i diritti più basilari non sono garantiti e la sicurezza di tutti, detenuti e personale, è messa quotidianamente a rischio. Il Ministro Nordio faccia qualcosa di concreto prima che questa situazione di degrado esploda definitivamente”. Chissà se l’avvocato-parlamentare immagina che più o meno le stesse considerazioni sono state fatte sentire decine di volte sul sistema carcerario, come se certe metastasi si potessero curare solo con denunce, sit-in e missive al ministro di turno. Inutilmente. Perfino l’associazione Antigone ha sparato ai quattro venti parole e dati ancora più pesanti sugli istituti di pena nostrani, per cui la Puglia è tra le regioni col tasso di sovraffollamento carcerario tra i più elevati d’Italia. E in un’altra lettera alla Giunta esecutiva sezionale di Bari, l’Associazione nazionale magistrati qualche mese fa ha chiesto di “promuovere iniziative sulla situazione in cui versano gli istituti di pena del distretto”. Insomma, dati sempre e comunque preoccupanti, senza che nessuno faccia nulla e aspettando solo che si calmino le acque dopo l’ultima aggressione, evasione o suicidio. E intanto negli undici istituti di pena della regione, nei primi quattro mesi di quest’anno s’è registrata la presenza di 3.900 detenuti a fronte di 2.906 posti, con tasso di affollamento medio del 134,2% (media nazionale del 107,4%). In alcuni istituti i tassi sono addirittura più alti, come Lecce (143,5%), Bari (151,9%) e Brindisi (165,8%). Dati che comportano per la nostra regione un triste primato nazionale, mentre al problema del sovraffollamento si aggiungono arcinote carenze strutturali, aumento di detenuti vulnerabili, tossicodipendenti, senza fissa dimora e in generale persone fragili. E non dovrebbe sfuggire all’ultimo ‘turista carcerario’ - che non dimentica di ringraziare pubblicamente la direttrice-cicerone - l’allarmate dato sui suicidi in carcere, tentazione che spesso coinvolge anche chi lavora in divisa, costretto ai soliti, maledetti turni massacranti per la penuria di personale. Una condizione, quella delle carceri pugliesi, in contrasto coi principi costituzionali e sovranazionali in materia di detenzione e che si trascina -come detto - da decenni anche nell’istituto di pena del capoluogo. Nell’indifferenza di chi dovrebbe interessarsi e darsi subito da fare per evitare guai ancora peggiori, magari anche senza visite guidate. Ariano Irpino (Av). La Camera penale visita il carcere: “Manca lo psichiatra” ottopagine.it, 31 agosto 2024 Una delegazione ha fatto tappa presso la struttura. La Camera penale di Benevento, con una delegazione composta dagli avvocati Nico Salomone, componente di Giunta e membro dell’Osservatorio Carcere UCPI, Daniela Immacolata Martino, Mario Salerno e Giuseppe Santagata, e l’avvocato. Giovanna Perna, componente dell’Osservatorio Carcere UCPI, hanno visitato la casa circondariale di Ariano Irpino. Grazie alla “disponibilità - si legge in una nota - e alla guida della direttrice, Mariarosaria Casaburo, e del comandante della polizia penitenziaria, Antonietta Errico, oltre che delle educatrici, Francesca Santamaria e Assunta Smimmo, e del personale di polizia penitenziaria, la delegazione ha fatto ingresso nei reparti media sicurezza (terza e quarta sezione) e sex offender, oltre che nell’area verde esterna (campo sportivo, orto della legalità, etc.)”. Nella struttura “non sono presenti una sezione alta sicurezza, e un reparto femminile. Risultano di recente ristrutturate le due sezioni art. 32 OP - ordine e sicurezza, delle quali una è attualmente dedicata ai protetti. I padiglioni ristrutturati prevedono l’utilizzo di termo-arredi. In procinto di messa a disposizione 139 frigoriferi per le celle delle varie sezioni. Per l’avvio della lavanderia la struttura attende ancora le autorizzazioni necessarie”. Rispetto “alla capienza attuale di circa 276 unità sono presenti in istituto 316 detenuti. Il personale di polizia penitenziaria è in sottorganico, consta di circa 145 agenti, con una pianta organica comunque ampiamente sottostimata (di 165 unità) successivamente agli ampliamenti strutturali del 2010. Il personale civile dei funzionari giuridico-pedagogici (educatori), molto attivi e validi nei rapporti diretti con i detenuti, necessiterebbero comunque di una integrazione numerica per una ancor migliore realizzazione del ‘trattamento individualizzato’”. L’Istituto “garantisce attività scolastica (liceo artistico e istituto alberghiero); sono previsti corsi di formazione in termoidraulica ed edilizia, oltre che in materia di giustizia riparativa. Di recente sono stati organizzati cineforum e verrà predisposto un corso di teatro. All’interno dei reparti sono presenti aree per la socialità abbastanza estese, seppur con oggettistica e attrezzistica ormai obsolete, in via di rinnovo. In istituto sono presenti una ricca biblioteca e una ludoteca ben organizzata. V’è anche, come detto, uno spazio verde esterno ben curato, dedicato agli incontri dei detenuti con i familiari e i propri figli. È presente un campo sportivo, che è messo a disposizione dei detenuti a turno tra le varie sezioni, e un orto della legalità, ove alcuni detenuti sono impegnati nelle attività di coltivazione. All’interno dell’istituto è presente una chiesa che ha carattere polivalente; dunque, i suoi locali possono essere utilizzati anche per le attività trattamentali. Di notevole interesse la recente organizzazione del cd. “viaggio con il prigioniero”. Le celle “appaiono in condizioni mediamente accettabili, entro i limiti delle misure ritenute “umane”, secondo i criteri individuati dalla CEDU, dalla giurisprudenza di legittimità e dalla legislazione nazionale, soprattutto nel nuovo padiglione - leggermente più critica è la situazione nel vecchio padiglione, ove si trovano tracce di umidità sulle pareti di qualche cella e finestre non sempre ben isolanti”. I detenuti “lamentano carenza in termini di attività trattamentali e lavorative, anche se all’interno dell’istituto è presente una piccola fabbrica di fascette multiuso, che impegna attualmente due detenuti, e una palestra che è in via di ultimazione. Lamentano, altresì, la mancanza di attrezzi nelle aree dedicate alle attività sportive/ricreative: in effetti, essi risultano in disuso e/o mal funzionanti. La Direzione ha avviato la predisposizione di aree palestra per ogni sezione con l’acquisto di nuovi attrezzi”. Alcuni detenuti “lamentano lungaggini per le visite mediche specialistiche da effettuare all’esterno. In istituto sono presenti per la continuità assistenziale naturalmente medici (uno con contratto a tempo indeterminato) e personale infermieristico (attualmente 6 unità), ridotto nel numero rispetto alle concrete necessità e alla pianta organica. Tra gli specialisti interni vi sono 3 odontoiatri, un otorinolaringoiatra, uno specialista in diabetologia, un dermatologo. Non è presente all’interno della struttura lo psichiatra. Assenza che pesa. Le visite psichiatriche vengono svolte all’esterno presso la Asl territoriale e da lunedì prossimo. sarà avviato il percorso, del tutto nuovo, della telemedicina psichiatrica. Lavorano in struttura due psicologi per i colloqui e l’assistenza dei detenuti; il Serd accede con propria équipe a cadenza settimanale. I detenuti lamentano una scarsa presenza dei magistrati di sorveglianza ai colloqui richiesti”. Il carcere di Ariano Irpino “appare un istituto penitenziario che, come altri, paga la carenza di fondi, personale, strutture e la scarsa attenzione della Politica e delle Istituzioni. Nonostante l’impegno profuso dalla Direzione, dal personale civile e amministrativo e da quello della Polizia penitenziaria, v’è carenza di attività lavorative e trattamentali costanti per i detenuti, anche in ragione di una legislazione spesso inadeguata, la stessa che, “esternalizzando” la sanità carceraria, determina difficoltà serie soprattutto nella cura e nell’assistenza al disagio psichiatrico. Positivo e da rimarcare è il rapporto diretto e fattivo tra detenuti ed educatori, non scontato nelle carceri italiane”. Foggi. La Camera penale in carcere: “Situazione poco compatibile con la finalità rieducativa” foggiatoday.it, 31 agosto 2024 La visita rientra nell’iniziativa “Ristretti in agosto” promossa dall’Osservatorio Carceri dell’Unione delle Camere Penali Italiane, con l’obiettivo è quello di tenere alta l’attenzione e di sensibilizzare in merito alle condizioni degradanti e contrarie alla dignità umana in cui versano i detenuti. Una delegazione della Camera Penale di Capitanata “Achille Iannarelli” - composta dal presidente, avv. Massimiliano Mari, e dagli avvocati Francesco Americo, Antonella De Carlo, Emilio Liberatore, Giovanni Quarticelli e Chiara Russo, tutti componenti del consiglio direttivo - si è recata ieri, 29 agosto, in visita presso la Casa Circondariale di Foggia. Tale visita rientra nell’ambito dell’iniziativa “Ristretti in agosto” promossa, a livello nazionale, dall’Osservatorio Carceri dell’Unione delle Camere Penali Italiane e si pone in continuità con le maratone oratorie che hanno visto attivamente impegnata anche la Camera Penale di Capitanata. L’obiettivo è quello di tenere alta l’attenzione e di sensibilizzare le forze politiche, le istituzioni, la magistratura, l’opinione pubblica, i mezzi di informazione, in merito alle condizioni degradanti e contrarie alla dignità umana in cui versano i detenuti. Durante la visita si sono potute toccare con mano, soprattutto in alcune sezioni, le conseguenze del grave sovraffollamento dell’Istituto, che attualmente ospita 667 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 364 unità. Tale situazione, unita alla mancanza di spazi e di ambienti idonei, alla carenza ormai cronica di personale - risultano in servizio 236 agenti di polizia penitenziaria rispetto ai 300 previsti dalla pianta organica -, anche di quello medico sanitario, rende la detenzione carceraria poco compatibile con il perseguimento della finalità rieducativa della pena contemplata dalla nostra Carta Costituzionale. Le recenti modifiche normative non appaiono incisive né idonee ad attenuare la situazione di grave emergenza esistente nella maggior parte dei penitenziari italiani. Occorrono provvedimenti ulteriori ed urgenti che possano, nell’immediato, restituire dignità ai detenuti e riportare le condizioni della detenzione inframuraria nell’alveo della legalità costituzionale, con l’auspicio che nel prossimo futuro la linea carcerocentrica sin qui seguita dal Legislatore ceda il passo in favore di politiche volte ad agevolare l’accesso alle misure alternative al carcere (anche di quelle già previste dal nostro ordinamento penitenziario), che oltre a risolvere il problema del sovraffollamento garantiscono la effettiva risocializzazione del condannato, con conseguente attenuazione del rischio di recidiva una volta espiata la pena. Piacenza. La Camera penale: “Alle Novate il vero problema è la carenza di personale” Libertà, 31 agosto 2024 Il problema del sovraffollamento non riguarda il carcere delle Novate di Piacenza, dove la vera emergenza sarebbe la carenza di guardie, educatori e personale sanitario. È quanto emerso da un sopralluogo all’interno della Casa circondariale piacentina condotto nei giorni scorsi da una delegazione delle Camere penali italiane e dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere penali. L’associazione di avvocati penalisti, con in testa la vicepresidente della Camera penale di Piacenza, Romina Cattivelli, ha infatti aderito all’iniziativa nazionale Ferragosto in carcere, per mantenere un occhio vigile sulle condizioni delle strutture penitenziarie e sulle proposte normative. “Il carcere di Piacenza - spiega Cattivelli - viaggia in controtendenza rispetto all’impietoso andamento nazionale, dove l’indice di sovraffollamento è pari al 130%, con 61mila reclusi a fronte di circa 51mila posti. Il nostro penitenziario non presenta particolari problemi legati al sovraffollamento, i detenuti attuali sono 488, quando la capienza massima è stimata sulle 416 persone. Stiamo parlando di una differenza minima. Ad allarmare è invece l’aumento dei giovani detenuti sopra i 18 anni. È un dato molto grave, anche perché su di loro non è possibile svolgere un adeguato lavoro di rieducazione”. Il motivo? “Semplice, mancano fondi e personale. Il sistema carcere italiano - afferma Cattivelli - non riesce più a garantirli. L’ormai cronica carenza di guardie, educatori e addirittura personale sanitario sta causando danni inimmaginabili. Pensate che alle Novate su 488 detenuti, 181 presentano disturbi psichiatrici certificati, senza contare i reclusi con fragilità psichiche non attestate ma comunque evidenti. A tutti loro non è garantita adeguata assistenza proprio a causa della carenza di personale qualificato. Tuttavia, vorrei che fosse chiaro: tali problematiche sono a carico del sistema, non di chi si occupa della gestione del carcere, che invece sta facendo i salti mortali ogni giorno per compiere l’irrealizzabile. In questa situazione garantire adeguate condizioni di vita ai detenuti è davvero impossibile”. Agrigento. Iacono visita il carcere: “Struttura sovraffollata e inadeguata, necessario intervenire” grandangoloagrigento.it, 31 agosto 2024 La deputata del Pd ha effettuato una visita ispettiva dopo i disordini all’interno del carcere Petrusa. “A seguito alle nostre ripetute denunce sulla condizione complessiva delle strutture carcerarie italiane e a pochi giorni dagli ultimi disordini verificatisi nel carcere di contrada Petrusa sono andata a verificare personalmente la situazione della casa circondariale agrigentina. Gli sforzi e l’impegno della direzione e del personale si rivelano vani dinnanzi all’insufficienza di risorse, all’inadeguatezza della struttura e alla carenza di agenti”. Così la deputata del Partito Democratico Giovanna Iacono che questa mattina ha compiuto una visita ispettiva nei locali della casa circondariale “Pasquale Di Lorenzo” di Agrigento. “È ormai chiaro - prosegue Iacono- che l’approccio securitario del governo Meloni ha peggiorato le condizioni degli istituti penitenziari italiani. Anche ad Agrigento esiste una sproporzione tra popolazione carceraria e agenti di polizia penitenziaria, e la struttura è sovraffollata rispetto alla sua effettiva capienza - aggiunge Iacono - anche a causa della presenza di persone che andrebbero ospitate in strutture adibite alla cura e all’assistenza. Continuerò l’attività ispettiva in altre case circondariali del territorio e presenterò una specifica interrogazione parlamentare sulle condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria, sulla situazione delle strutture e sulla vivibilità delle stesse da parte delle detenute e dei detenuti, sulla garanzia dei percorsi rieducativi e di reinserimento sociale previsti dalla nostra Costituzione”, ha concluso la deputata. Vallo della Lucania (Sa). Preoccupazioni dell’Aiga sul sovraffollamento nell’istituto penitenziario cilentonotizie.it, 31 agosto 2024 L’Associazione Italiana Giovani Avvocati (Aiga) - Sezione di Vallo della Lucania esprime preoccupazione per la situazione dell’Istituto Penitenziario di Vallo della Lucania e sostiene l’allarme lanciato dal Garante dei Detenuti Samuele Ciambriello. L’Associazione Italiana Giovani Avvocati (Aiga) della Sezione di Vallo della Lucania manifesta profonda preoccupazione per la grave situazione di sovraffollamento che affligge la Casa Circondariale di Vallo della Lucania, dove attualmente sono presenti 57 detenuti a fronte di una capienza di soli 40 posti. Questi dati, recentemente diffusi dal Garante dei Detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, non solo evidenziano le criticità strutturali delle nostre carceri, ma richiamano con urgenza la necessità di un intervento deciso da parte delle istituzioni competenti. L’Aiga è da sempre vicina alle condizioni dei detenuti e al rispetto dei loro diritti fondamentali, consapevole che il sovraffollamento carcerario rappresenta una violazione della dignità umana e comporta gravi rischi sia per la salute fisica e mentale dei detenuti che per la sicurezza degli operatori penitenziari. La nostra associazione condivide pienamente le preoccupazioni espresse dal Garante Ciambriello e si unisce al suo appello per l’adozione immediata di misure deflattive e per l’incremento del numero di operatori sociali all’interno delle strutture penitenziarie. È essenziale che il diritto alla dignità e al rispetto della persona sia garantito in tutte le condizioni, comprese quelle di detenzione. La sezione Aiga di Vallo della Lucania invita pertanto le istituzioni, locali e nazionali, a prendere in seria considerazione la situazione delle carceri della nostra regione e a intervenire con soluzioni concrete per alleviare il sovraffollamento e migliorare le condizioni di vita dei detenuti. L’Istituto a Custodia Attenuata di Eboli, dove i detenuti sono ospitati in numero inferiore alla capienza, dimostra che una gestione più efficace e rispettosa dei diritti è possibile. L’AIGA auspica che questo modello di gestione possa essere esteso anche ad altre realtà carcerarie, comprese quelle più critiche come Vallo della Lucania. Esprimiamo il nostro pieno sostegno al Garante regionale dei detenuti della Regione Campania, dott. Samuele Ciambriello, nella sua battaglia per il miglioramento delle condizioni detentive in Campania. Come associazione, inoltre, restiamo a disposizione della direzione dell’istituto penitenziario di Vallo della Lucania per ogni attività di sostegno e di supporto alla casa circondariale, nonché di impulso al Ministero della Giustizia. La referente per la sezione di Vallo della Lucania dell’osservatorio nazionale carceri, l’Avvocato Antonella Palladino, esprime seria preoccupazione per la situazione di sovraffollamento della Casa Circondariale di Vallo della Lucania. “Siamo preoccupati per il numero di presenze superiori alla capienza dell’istituto penitenziario, una condizione che purtroppo riflette la più ampia situazione carceraria nazionale. Questa criticità richiede un intervento radicale e tempestivo da parte del Governo, si tratta di una questione di civiltà e di rispetto dei diritti umani. Auspichiamo un impegno bipartisan per garantire migliori condizioni di lavoro per i dipendenti della polizia penitenziaria e il personale medico, oltre che per tutelare i diritti fondamentali di chi vive la condizione detentiva”. Alessandria. Ilaria Salis visita il carcere: “La situazione più critica nella sezione isolamento” di Massimo Massenzio Corriere della Sera, 31 agosto 2024 Per l’europarlamentare tra i problemi principali riscontrati, la difficoltà di accedere alle cure mediche e la presenza di pochi educatori. E a Torino due agenti sono rimasti feriti durante alcuni momenti di tensione. Ilaria Salis ha visitato oggi, 30 agosto, il carcere di San Michele di Alessandria. L’europarlamentare di Alleanza Verdi Sinistra all’uscita ha descritto la situazione vista all’interno della struttura, pubblicando un video su Instagram. “In questa casa di reclusione sono presenti 367 detenuti a fronte di una capienza di 287 persone - ha spiegato Salis. Visitando le sezioni comuni, oltre all’autolesionismo che è praticamente una pratica quotidiana purtroppo, i problemi principali che ho riscontrato sono in primo luogo la difficoltà ad accedere alle cure mediche dovuta a un perenne sotto organico del personale sanitario”. L’europarlamentare inoltre ha sottolineato che al San Michele e nell’altro carcere di Alessandria, il “Cantiello e Gaeta”, sono “presenti in totale sette educatori che si devono dividere appunto tra i due istituti”. “Infine in questo carcere sono detenute 133 persone che hanno fine pena sotto i 3 anni. Ricordiamo quindi che per legge la maggior parte di loro avrebbe diritto ad accedere alle misure alternative, cosa che di fatto non avviene - ha continuato Ilaria Salis - La situazione più critica l’ho riscontrata nelle sezioni Isolamento e dove sono detenute le persone in articolo 32. Qui ho trovato una situazione a dir poco raccapricciante in cui le persone sono praticamente abbandonate a se stesse perché non possono prendere parte a nessun tipo di attività. E in queste sezioni c’è l’immondizia abbandonata nei corridoi e anche nelle docce”. La visita è stata commentata dal segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, Leo Beneduci. “Devo dire con piacere che viene constatato da più parti che c’è una situazione disastrosa nelle carceri, che c’è uno stato di abbandono, di immondizia, di sporcizia, mancanza di personale, sanità inesistente cose che noi denunciamo da tempo”, afferma il sindacalista. “Unico problema - aggiunge Beneduci - è che va anche notato che non si dice nulla sulle condizioni disastrose del personale di polizia penitenziaria. Manca personale dell’area educativa, dell’area sanitaria, mancano servizi. Ma il personale di polizia penitenziaria che è quello su cui grava la gestione, disastrosa fino ad oggi per colpa delle autorità delle carceri, vive condizioni di disagio, di stress e di rischio sproporzionato rispetto a quello che la legge gli chiede di fare e nonostante tutto continuano ad assolvere ai loro doveri. I politici e i parlamentari che vengono in carcere, ben vengano, tengano conto anche di questo”, conclude il segretario Osapp”. Intanto, sempre oggi a Torino, due agenti della polizia penitenziaria sono rimasti feriti durante alcuni momenti di tensione che si sono verificati nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Secondo l’Osapp un gruppo di detenuti di origine albanese del padiglione B, “approfittando del cambio turno degli agenti di polizia penitenziaria per recarsi a pranzo, si sono all’improvviso intrufolati forzando i cancelli della rotonda del primo piano per poi dirigersi al terzo piano e hanno fatto irruzione approfittando dell’uscita dei carrelli del vitto”. Gli agenti presenti avrebbero provato a opporsi ma “sono stati travolti dalla furia dei ristretti che hanno sottratto a un agente le chiavi delle celle per poi introdursi nella 12esima sezione del terzo piano dove hanno pestato a sangue un detenuto di origine marocchina”. Due agenti sono stati trasportati al pronto soccorso dell’ospedale Maria Vittoria per le cure necessarie. Belluno. Emergenza carceri, quali le iniziative del Comune? Rispondono sindaco e assessori bellunopress.it, 31 agosto 2024 L’interrogazione “Emergenza carceri, quali iniziative ha assunto il Comune?”, presentata dai consiglieri del gruppo di opposizione Insieme per Belluno Bene Comune Marco Perale, Francesco Rasera Berna, Ilenia Bavasso e Lucia Olivotto per chiedere chiarimenti in merito alle iniziative messe in atto dall’Amministrazione rispetto ai detenuti di Baldenich e all’attività del Garante dei diritti all’interno della casa circondariale. “Il Garante volge lo sguardo e le sue attenzioni alle condizioni detentive perché non vengano mai meno la dignità della persona né il rispetto del dettato costituzionale e funge da ponte di dialogo e collaborazione con le autorità locali. Il Garante è soggetto che deve godere di autonomia e indipendenza dal potere politico e da ogni altra forma di ingerenza pur costituendo importante fonte di informazioni e stimolo. Il Comune non può avere azione diretta all’interno del carcere e nei limiti delle proprie competenze, ha dimostrato una notevole sensibilità e attenzione nei confronti delle problematiche delle persone che si trovano recluse”. Inizia così la risposta del Sindaco all’interrogazione dei consiglieri di Insieme per Belluno Bene Comune. Entrando più nel merito della risposta, il Sindaco ha sottolineato come siano diverse le iniziative già avviate dall’Amministrazione a favore dei detenuti di Baldenich e come l’attenzione della giunta sia alta sul tema. In particolare, l’Amministrazione ha proceduto, attraverso l’assessore al sociale Marco Dal Pont e in stretta collaborazione con il Garante, a implementare i fondi destinati all’Associazione San Vincenzo, passati da 2mila a 5mila, in modo di agevolare l’attività condotta dal gruppo di volontari e consistente nel sostegno dei detenuti e nell’aiuto alle famiglie e ai parenti. Non solo, è in via di definizione una convenzione tra Istituto Penitenziario e Comune per lo svolgimento di attività lavorative da parte di persone selezionate in stato di detenzione al fine di attuare un pre-inserimento nella vita sociale all’esterno del carcere. L’Amministrazione ha inoltre partecipato ad un incontro, aderendo ad un percorso di confronto e interlocuzione con i rappresentanti del Ministero della Giustizia, per attività e supporto nella diffusione di iniziative per il recupero e l’inserimento dei detenuti nella vita sociale. Con l’assessore alla sicurezza Raffaele Addamiano il Comune ha anche sostenuto e collaborato con l’Istituto Penitenziario, l’Amministrazione Sport e Salute, l’Associazione Scacchistica Pordenonese alla promozione e sviluppo di un nuovo modello culturale basato sulla riflessione, la meditazione e il rispetto delle regole al fine di determinare un cammino di crescita individuale e di gruppo È costante, poi, l’interlocuzione con la Garante dei detenuti ai fini di approfondire e comprendere le delicate dinamiche che caratterizzano i rapporti all’interno del penitenziario bellunese. Altre iniziative arriveranno in futuro. L’Assessore alle pari opportunità Simonetta Buttignon, anche su stimolo della Commissione Pari Opportunità e della sua Presidente, infatti, ha incontrato la dottoressa Garante Maria Losito esponendo l’esigenza di conoscere quali iniziative, oltre ai progetti già messi in campo, siano auspicabili ricavando notizie e suggerimenti sia per azioni della Commissione sia per quelle del Comune. Da questi incontri emergeranno anche le iniziative possibili da organizzare in collaborazione con gli altri soggetti pubblici “In merito ai fatti accaduti nei giorni scorsi - prosegue De Pellegrin -, è bene sottolineare che ad agosto non c’è stata alcuna “rivolta”, bensì la semplice azione di due detenuti che hanno dato in escandescenze e che, successivamente, sono stati trasferiti in altro Istituto”. “Per quanto riguarda invece la generale situazione dei detenuti - conclude - siamo consapevoli delle criticità esistenti dovute a carenza di personale e alla struttura interna dell’edificio, e la nostra attività in questo momento è rivolta proprio anche a fornire servizi e supportare iniziative atte a portare benefici nella quotidianità degli ospiti. Al momento è difficile poter effettuare i colloqui individuali per la situazione di confusione presente nei detenuti e nella Polizia Penitenziaria che si trova in una situazione di sotto organico, visto che rispetto ad un organico di 95 unità ne sono presenti 80 e dato che a fronte di una capienza di 90 posti sono presenti ad oggi 106 detenuti”. Un elemento di criticità è stata l’improvvisa mancanza della nuova Direttrice, dr.ssa Lara Rampin. Assegnata a Belluno a dicembre 2023 che dopo solo 6 mesi, a luglio 2024 ha lasciato per aspettativa annuale. Attualmente la Direttrice reggente è nuovamente la dr.ssa Paolini, presente alcuni giorni settimanalmente a Belluno, dal momento che il suo incarico è la Direzione dell’Istituto Penitenziario di Udine. Roma. I colpevoli di reati stradali sorveglieranno gli incroci: la sfida contro gli incidenti Corriere della Sera, 31 agosto 2024 Il progetto dell’Associazione dei familiari delle vittime della strada si chiama “Ruote ferme, pedoni salvi” e dopo Torino, Chieti, Udine e Milano arriva nella Capitale. Da condannati per reati stradali a guardiani degli incroci pericolosi. È quanto prevede un progetto dall’Associazione familiari vittime delle strade realizzato in collaborazione con le istituzioni e che a breve prenderà vita anche a Roma. Ruote ferme, pedoni salvi - Il triste bollettino dei morti sulle strade, aggiornato al 29 agosto, contava ben 105 morti, tra la Capitale e provincia. Quasi la metà delle vittime sono pedoni. È una strage che purtroppo non sembra fermarsi e che spesso miete vittime molto giovani, come Camilla Cecconi, la 21enne investita e uccisa qualche giorno fa sulle strisce pedonali a Palestrina mentre andava a messa. Dopo di lei sono decedute altre due donne: Bianca Rosa Corradini, 54 anni, travolta da una moto il 13 agosto mentre attraversava via di Casal dei Pazzi, e Luciana Gasperini, 83 anni, investita sulle strisce da un’auto più di tre mesi fa in via delle Sette Chiese. Il progetto - Per porre un freno a questa mattanza è nato il progetto “Ruote ferme, pedoni salvi”, che dopo Torino è stato attivato anche in altre città come Arezzo, Chieti, Udine e Milano. Gli incroci considerati pericolosi verranno presidiati da degli assistenti pedonali “speciali”: persone sottoposte a misure alternative per reati di violazione del Codice della Strada. Non si tratta solo di soggetti coinvolti in incidenti di lieve entità, ma anche di chi ad esempio guidava in stato di ebrezza o sotto effetto di sostanze stupefacenti. Come riporta Il Messaggero l’Associazione familiari vittime delle strade sta a lavorando al protocollo insieme alle istituzioni di Roma Capitale: dalla Prefettura alla municipale. Il progetto “Ruote ferme, pedoni salvi” partirà a breve anche a Roma. Telegram e quel limite tra libertà e sicurezza di Massimo Sideri Corriere della Sera, 31 agosto 2024 Al di là della vicenda giudiziaria che coinvolge in Francia il fondatore Pavel Durov, sotto la superficie del caso Telegram si nasconde qualcosa di più granulare e allo stesso tempo melmoso che ci riguarda tutti, forse la vera contraddizione del nostro tempo. Al di là della vicenda giudiziaria che coinvolge in Francia il fondatore Pavel Durov, sotto la superficie del caso Telegram si nasconde qualcosa di più granulare e allo stesso tempo melmoso che ci riguarda tutti, forse la vera contraddizione del nostro tempo: più libertà o più sicurezza? Vorremmo tutte e due. Come se non fossero i due poli opposti su cui si fondano la democrazia e la nostra società. Si tratta di una pretesa culturalmente deformata dall’apparente intangibilità della Rete. E non è certamente nuova. Qualche anno fa, nel 2015, esplose un caso che si trasformò velocemente in un confuso dibattito mondiale rimbalzato con una eccessiva semplificazione nelle camere dell’eco di cui siamo tutti un po’ prigionieri. Il contesto era diverso, gli elementi simili: l’Fbi mise le mani sull’iPhone di un terrorista ucciso durante un attentato a San Bernardino, luogo famoso per il primo chiosco dei fratelli McDonald’s. Si noti bene che non c’era nessun dubbio: Syed Farook era un terrorista. Venne ucciso dalla polizia insieme al terrorista Tashfeen Malik durante l’attacco all’Inland Regional center dove morirono 14 persone. Nel suo telefono, fu il corretto ragionamento dell’Fbi, ci sarebbero potute essere informazioni utili a sventare altri attacchi simili, a salvare vite umane. Nessuno dimenticherà mai la diabolica regia dell’11 settembre 2001 pensata per far esplodere il secondo aereo sulle Torri gemelle quando ormai tutte le telecamere del mondo erano rivolte in quell’unico punto sulla Terra. L’Fbi chiese ad Apple di aprire il telefono di Farrok e Tim Cook disse di no: la società, al contrario di Google, ha puntato molto sull’inviolabilità della privacy dei suoi prodotti. Sarebbe stato un precedente che avrebbe dimostrato il contrario: la Apple può, volendo, entrare nelle nostre vene digitali. L’opinione pubblica perlopiù apprezzò. Certo vogliamo la sicurezza, siamo pronti a reclamarla a gran voce, ma vogliamo anche la libertà sullo stesso piano. Come oggi. Telegram è usato da perseguitati politici, rifugiati che rischiano la vita, giornalisti in Paesi dove raccontare le intenzioni dei governi può significare sparire per sempre o finire in prigione. Ma anche dalla criminalità organizzata, dalla mafia russa, dalle dittature. Lo stesso Durov - come aveva fatto anche il fondatore di Whatsapp, Jan Koum, cresciuto anch’egli all’ombra dell’Urss - aveva raccontato di aver sviluppato Telegram per sfuggire a quel grande e strisciante fratello comunista. Ogni società deve decidere, come spiegava Zygmunt Bauman, dove spingere il contatore digitale per cercare un equilibrio, che forse non c’è. Perché non c’è alternativa: ogni grado di sicurezza in più richiede un grado di libertà in meno. Come quando accettiamo pignoli controlli sui nostri beni e anche su ciò che teniamo in tasca quando passiamo la linea di confine di un aeroporto. Solo che quando andiamo online più che una società liquida vorremmo una società gassosa, copyright del sociologo Francesco Morace. Con delle bolle da far scoppiare a nostro piacere. E così anche chi grida alla libertà di espressione dovrebbe ricordare che questa non coincide - come vorrebbe l’editore di X, Elon Musk - con la libertà di dire tutto, anche il falso. La democrazia si basa su regole. Il resto si chiama Far West. Semmai il vero tema è trovare regole condivise. Negli Usa Internet gode ancora di un lasciapassare deontologico e morale. Un tema che si ripresenta oggi con l’intelligenza artificiale. Quando negli anni Novanta esplose il web, Bill Clinton e Al Gore vollero la Sezione 230 che depenalizzava la rete non rendendola responsabile dei contenuti che la attraversano. Per non far morire il bimbo in culla, si disse. Abbiamo visto come è andata: ancora di recente dei giudici Usa hanno dichiarato X non colpevole di aver giocato a fare Ponzio Pilato di fronte a messaggi di frange terroristiche dell’Islam che hanno portato ad uccidere un ragazzo. La motivazione? Il web è “neutrale”: per i provider veicolare pubblicità di scarpe o propaganda radicale sarebbe la stessa cosa. Appunto: è questa la contraddizione ontologica di un medium a cui è permesso ciò che per qualunque altro soggetto, come un giornale, è un reato. Il problema è perché in una parte del mondo libero e occidentale è permesso qualcosa che in un’altra parte dello stesso mondo libero e occidentale può farti finire in prigione. Migranti. Denuncia gli scandali del sistema di accoglienza. Ma a processo finisce lui di Gaetano De Monte L’Espresso, 31 agosto 2024 Il paradosso giudiziario di Enzo Pilò, imprenditore sociale pugliese. Ha puntato l’indice sulle anomalie di alcuni gestione di alcuni centri ed è finito indagato per due disservizi. Negli ultimi anni del sistema di accoglienza straordinario per richiedenti asilo di Taranto si è interessata più volte la Guardia di finanza e, in un caso, anche la Procura distrettuale antimafia di Lecce. I magistrati hanno evidenziato che una cooperativa che gestiva gli appalti per conto della Prefettura era in affari con esponenti storici del clan De Vitis-D’Oronzo. Quelle inchieste si sono concluse poi con un nulla di fatto. Tuttora, tra le cooperative che si sono aggiudicate l’ultima “procedura negoziata di gara per l’affidamento del servizio di accoglienza a favore dei richiedenti asilo”, compare una società riconducibile, di fatto, a un uomo arrestato in passato per usura ed estorsione, come rivela una fonte interna alla Prefettura di Taranto. La fonte si riferisce a Daniele Sessa, figlio dell’ex prefetto di Avellino e Taranto, Carlo Sessa, condannato in via definitiva a quattro anni di reclusione per usura (assolto dall’estorsione) e che oggi con la cooperativa sociale Ripro gestisce un centro di accoglienza straordinario a Massafra, Comune del Tarantino. Un particolare, questo, che forse conferma il dato riportato per la provincia pugliese dall’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia: “Nel contesto territoriale si riscontra la cristallizzata presenza di alcuni elementi criminali che dimostrano in modo particolare aspirazioni imprenditoriali finalizzate all’infiltrazione nel tessuto economico e sociale”. Ma proprio nella “città dei due mari” si sta svolgendo un processo nei confronti di un imprenditore sociale che le ombre su quel sistema di accoglienza le ha denunciate da anni. Enzo Pilò - un passato da dirigente di Rifondazione Comunista, alla guida dell’associazione Babele - è accusato dalla Procura di Taranto di frode nelle pubbliche forniture. Un’accusa che brucia e un paradosso dal momento che l’associazione che tuttora presiede rappresenta un raro fiore all’occhiello nel sistema di accoglienza italiano, caratterizzato dall’affollarsi di cooperative di dubbia fama che fanno incetta di appalti. “Siamo usciti dal sistema straordinario, ma la riforma avviata dal decreto Minniti ha diminuito i servizi erogati e scelto un modello di contenimento e controllo dei richiedenti asilo poco trasparente e per nulla orientato a garantirne l’autonomia”, dice Pilò. Il processo che lo riguarda verte su due episodi. Il primo riguarda la giornata in cui sette richiedenti asilo non avrebbero usufruito di un pasto. In realtà si trattò solo di un ritardo dal momento che, come hanno confermato i testimoni stranieri ospiti della struttura, il cibo fu poi regolarmente consegnato. Il secondo episodio si riferisce alla mancata fornitura di acqua a causa di un guasto idraulico nel centro. Anche in questo caso, però, la situazione fu risolta con la fornitura assicurata dalle autobotti. L’imprenditore si chiede: “Se le carenze evidenziate fossero state così rilevanti, per quale motivo la Prefettura e la Asl non hanno provveduto immediatamente alla chiusura della struttura? Anzi, ci hanno obbligato a fare alloggiare i migranti lì fino alla metà del 2018. La verità è che in vent’anni di lavoro non ho mai ricevuto una contestazione, prima di queste due vicende”. Babele, con uno sforzo teso alle attività di inclusione sociale, gestisce i tre piccoli centri Sprar di Carosino, Grottaglie e San Marzano. I bilanci degli ultimi 10 anni, pubblicati in Rete, raccontano una gestione trasparente, confermata da decine di testimoni: richiedenti asilo ospiti dei centri, dipendenti, funzionari dell’ufficio immigrazione di Taranto e della Prefettura, sindaci dei Comuni dove l’associazione opera. Per molti quella nei confronti di Enzo Pilò è una “persecuzione giudiziaria” che richiama la storia che ha avuto per protagonista, suo malgrado, il sindaco di Riace, e neo-europarlamentare, Mimmo Lucano. Su una delle battaglie per la trasparenza del sistema di accoglienza condotte da Pilò, quella relativa all’hotspot che dal 2016 ha sede a Taranto, si è pronunciata il 16 novembre scorso la Corte europea dei Diritti dell’Uomo che ha condannato il governo italiano. La sentenza, chiarisce l’avvocato Gianluca Vitale che ha curato il ricorso alla Cedu punta l’indice “oltre che sui trattamenti inumani e degradanti a cui sono state sottoposte le persone migranti, rastrellate dalla città di Ventimiglia e condotte in bus nella città pugliese, anche sulle carenze igieniche e sanitarie riscontrate nei capannoni dell’hotspot. Lì, le persone trattenute hanno avuto accesso a poco cibo e a poca acqua”. E il paradosso delle accuse mosse a Pilò raddoppia. Migranti. Slitta ancora l’apertura dei Centri di trattenimento in Albania di Giansandro Merli Il Manifesto, 31 agosto 2024 Meloni al Cdm: “Attivi nelle prossime settimane”. L’ultimo rinvio parlava di inizio settembre. A Palermo nuove udienze di convalida. “Nelle prossime settimane saranno pienamente operativi i Centri previsti dal protocollo con l’Albania per processare in territorio albanese, ma sotto giurisdizione italiana ed europea, le richieste di asilo”. È il quarto rinvio quello annunciato ieri dalla premier Giorgia Meloni nel primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva. Le strutture detentive d’oltre Adriatico sarebbero dovute entrare in funzione prima a giugno, poi ad agosto e infine a inizio settembre, ma evidentemente non hanno ancora una data. “Abbiamo incontrato diverse difficoltà operative, ma le stiamo superando una ad una perché crediamo molto in questo progetto innovativo. Siamo consapevoli di avere gli occhi puntati addosso e per questo siamo intenzionati a fare tutto a regola d’arte”, ha aggiunto Meloni. I lavori per il Centro di Gjader - una spianata circondata da un muro, dove sono stati piazzati dei container grigi montati uno sopra l’altro - sono ancora in corso, mentre quello nel porto di Shengjin sarebbe pronto (così è stato annunciato nelle scorse settimane). Ma non sono logistiche le difficoltà più grandi a cui va incontro il progetto, sono giuridiche. La detenzione sistematica dei richiedenti asilo originari di “paesi sicuri” non è compatibile con le norme Ue. Lo hanno ricordato già due tribunali: lo scorso autunno Catania e in questi giorni Palermo. I casi vanno esaminati uno per uno perché il trattenimento sia legittimo alla luce delle norme sovraordinate. Per i centri in Albania la competenza sarà della sezione specializzata in immigrazione di Roma. La presidente del consiglio ha poi accennato a una prossima modifica della Bossi-Fini per limitare il rischio che il decreto flussi sia usato da organizzazioni criminali. Su quello targato 2024 la premier ha presentato a giugno un esposto al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo che, sostiene lei, “ha consentito a diverse procure di imprimere una svolta nelle indagini”. Altra questione è stata il calo degli sbarchi: il 64% in meno rispetto all’anno scorso e il -30% (un po’ arrotondato) sul 2022 confermano che il governo sta facendo bene, ha detto Meloni. Il tema caldo, comunque, resta il trattenimento dei richiedenti asilo per le procedure accelerate di frontiera. Un’inedita forma di detenzione amministrativa che si somma, con caratteristiche proprie, all’arcipelago della reclusione senza reato dei cittadini stranieri. Ai vari hotspot e Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) è stata affiancata la struttura di trattenimento di Porto Empedocle. Potrebbe non rimanere l’unica: Luca Rondi su Altreconomia ha rivelato un documento della Difesa dal quale emerge la messa a bilancio di ben 16 milioni di euro per due centri analoghi a quello agrigentino, ad Augusta e Trapani, da realizzare entro dicembre. Tale previsione fa pensare che il governo voglia trasformare la Sicilia in un grande campo di detenzione con due Cpr, quattro hotspot e tre centri di trattenimento. Nelle strutture di quest’ultimo tipo è riuscito a rinchiudere finora solo un ragazzo tunisino di 23 anni, dietro le sbarre di Porto Empedocle da giovedì scorso. È l’unico caso in cui i giudici di Palermo, in ragione del pericolo di fuga, hanno convalidato il trattenimento. In altri cinque hanno detto No. Ieri è arrivato il terzo round di decisioni. Quattro le richieste di convalida della detenzione disposta dal questore di Agrigento per altrettanti richiedenti asilo tunisini sbarcati a Lampedusa sabato 24. Con una particolarità: nonostante da quella data a ieri erano arrivate via mare 3.270 persone, tra le quali i tunisini oscillano tra diverse decine e alcune centinaia (non abbiamo la cifra esatta), tutte quelle tradotte a Porto Empedocle erano già state rimpatriate dall’Italia e tornando hanno violato il divieto di reingresso. Tale reato è punito con l’arresto e una pena da uno a quattro anni. Il pm però non ha chiesto la misura cautelare in carcere, ma solo la denuncia a piede libero. Invece della libertà è scattata la procedura accelerata d’asilo. Sarà una coincidenza, perché a pensar male verrebbe da dire che sono stati selezionati dei casi limite, potenzialmente eclatanti. I giudici specializzati di Palermo decideranno in base alla legge, ma se i trattenimenti fossero convalidati il governo avrebbe ragione di esultare, in caso contrario potrebbe attaccare la magistratura sostenendo che ha liberato soggetti che hanno commesso reati. Almeno uno di loro ha anche altri precedenti, per furto. Le tempistiche che riguardano il quartetto sono di dubbia compatibilità con la procedura di frontiera: dovrebbe partire entro 48 ore dallo sbarco ma sono trascorsi cinque giorni. Tre migranti sono difesi da avvocati di ufficio, il quarto ha nominato una legale di fiducia, Rosa Emanuela Lo Faro. “Con la convalida del trattenimento si creerebbe un paradosso giuridico: la detenzione amministrativa prevarrebbe su quella penale -afferma Lo Faro- Se il pm non ha chiesto di arrestarli significa che ha valutato che il reingresso non costituisce un fatto grave. Allora perché il mio assistito dovrebbe essere messo in detenzione amministrativa solo per aver chiesto asilo?”. Così stiamo abbandonando i migranti alla violenza della Libia di Lorenzo Bagnoli L’Espresso, 31 agosto 2024 Tra poco dovrebbe entrare in funzione il Centro di Tripoli che coordinerà i soccorsi in mare. Nonostante i rilievi dell’Unione europea. E le denunce delle organizzazioni umanitarie. Entro la fine di ottobre, la Guardia costiera libica promette di rendere operativo il sistema attraverso cui potrà gestire in autonomia tutti i soccorsi che avvengono nell’area di Mediterraneo di cui è responsabile di fronte all’autorità marittima delle Nazioni Unite, l’Imo. Il percorso per costruire il Centro di coordinamento per la ricerca e il soccorso in mare (Mrcc) a Tripoli è cominciato nel 2017 con un finanziamento complessivo di circa 60 milioni di euro. Il progetto, il cui acronimo è Sibmmil, ha l’obiettivo di costruire un sistema per gestire le frontiere di terra e di mare in Libia. Capofila è il ministero dell’Interno italiano che a febbraio 2017 ha firmato il Memorandum d’intesa con la Libia. Da allora, grazie all’aiuto dell’Italia, la Libia ha prima dichiarato, nel 2018, una Srr, regione di ricerca e soccorso, ovvero una parte di mare per la quale è prima (ma non esclusiva) responsabile per il salvataggio di qualunque imbarcazione in difficoltà, e poi ha costruito una flotta che solo per la Guardia costiera conta otto navi. I fondi complessivi per gestire i confini libici di mare e di terra, solo dall’Italia, ammontano a circa125 milioni di euro tra il 2017 e il 2022, secondo quanto calcolato da IrpiMedia e ActionAid per l’osservatorio The Big Wall. Un progetto cominciato con Minniti - La consegna dell’Mrcc di Tripoli segnerà la completa legittimazione della Guardia costiera libica nel contesto di chi gestisce le operazioni di salvataggio dei migranti e inserisce Tripoli in un sistema di scambio di informazioni “alla pari” con gli altri Mrcc affacciati sul Mediterraneo centrale. Eppure le relazioni tra Unione europea e Guardia costiera libica continuano a essere complicate: a gennaio 2022 la missione della Marina militare europea Irini, tra le responsabili della formazione della Guardia costiera libica e del pattugliamento delle acque antistanti il Paese in cerca di armi e prodotti petroliferi di contrabbando, scriveva in un report che riconosceva “un uso eccessivo della forza” da parte delle autorità libiche, aggiungendo che il percorso di formazione della Guardia costiera “non è più pienamente svolto (followed)”, riporta Ap. La seconda puntata della saga a marzo dell’anno scorso: in una conferenza stampa un portavoce della Commissione europea ammette che fino a ora, l’addestramento della Guardia costiera “non è stato preso in considerazione da parte libica”, come ha riferito Euractiv. Il progetto dell’Mrcc libico è cominciato anni fa. “L’Europa costruirà un centro di coordinamento per il soccorso marittimo a Tripoli”, diceva già nel 2017 l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti in un’informativa urgente al Parlamento. Lo definiva “uno strumento fondamentale, decisivo per poter affrontare lì il tema dei flussi migratori”. Nell’idea di Minniti, partendo dalla blindatura delle frontiere si sarebbe stabilizzata la Libia. La sua narrazione oggi è adottata dal governo di Tripoli, che avrebbe dovuto essere ad interim e invece dura in carica dal 2021. Il Paese, nei fatti, è ancora una polveriera: l’Ovest è frammentato (la città di Zawiya, per esempio, è fuori dal controllo del governo di Tripoli), l’Est è unificato a forza dal generale Khalifa Haftar sostenuto soprattutto dagli alleati russi, il Sud è un luogo dove non esiste autorità. Le due Libie - Anche i progressi della Guardia costiera dall’inizio del processo della sua creazione sono da rivedere. Secondo i libici, nel 2024 le operazioni di salvataggio hanno coinvolto oltre 9.300 migranti. Nel 2017 la stessa cifra. Il Paese, sulla carta, è attrezzato per gestire le operazioni di soccorso e alla fine dell’estate attende una visita dell’Imo per la verifica delle caratteristiche idonee al coordinamento di una zona di salvataggio (Sar), ma è dal 2021 che si attende la costituzione del Mrcc, che ogni volta per motivi di conflitti interni viene posticipata. Bisogna anche vedere se con la creazione dell’Mrcc i libici agiranno sia in Tripolitania sia in Cirenaica. Il 17 luglio scorso, giorno della visita di capi di Stato e di governo durante il Forum transmediterraneo sulla migrazione, Esercito nazionale libico (fedele ad Haftar) e forze del governo di Tripoli si sono mostrate unite. Ma sembra una messa in scena per gli europei, perché in circostanze più informali, un ufficiale confessa che parlare con le autorità che si trovano nell’Est libico “è complicato”. Le Libie sono due. Troppi irregolari - Prima del Forum, il ministro dell’Interno libico Imad Trabelsi ha diffuso su vari media delle stime sul numero di migranti irregolari nel territorio libico, dai 2,5 ai 3 milioni (l’Organizzazione internazionale delle Migrazioni, l’Oim, ne conta 725 mila nel report di maggio 2024). Ad alcuni giornalisti della stampa internazionale ha detto che “l’Europa deve farsene carico e non trattare la Libia come un Paese di transito”. E questo è stato l’unico vero obiettivo del vertice, a cui come leader europei hanno partecipato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni (assieme al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi), il premier maltese Robert Abela e il vicecommissario europeo Margaritis Schinas: dimostrare di essere un Paese sicuro e lanciare un allarme visto che nel 2024 la Libia è tornata il primo porto di partenza di chi si dirige in Europa. A margine della conferenza stampa di fine Forum, a una domanda in merito a quanto chiedesse la Libia all’Europa per far fronte all’emergenza, la risposta del ministro per la Comunicazione e gli Affari politici di Tripoli Walid Al-Lafi è stata questa: “Non è una questione di soldi, vogliamo sederci a discutere con l’Europa”. Per dati più concreti rilancia al prossimo vertice di ottobre. La ricetta sembra però sempre la solita: fermare le migrazioni combattendo le “cause profonde”, cioè la povertà, con investimenti a lungo termine. Un falso mito: ad alimentare la popolazione di migranti irregolari in Libia, infatti, sono principalmente le guerre, come quella in corso in Sudan. Minacce da un Paese non sicuro - Tra i poteri che avrà sulla carta l’Mrcc di Tripoli, uno dei più importanti sarà indicare a chi è coinvolto nelle operazioni di salvataggio quale sia il “place of safety”. Non esiste una lista di quali siano i luoghi “autorizzati” perché il criterio è soggetto a interpretazioni diverse. Per il caso dell’Italia, la Libia non è un Paese sicuro, come ha deciso la Cassazione con la decisione sul caso Asso Ventotto, risalente al 2018. La nave che opera nelle piattaforme Eni antistanti le acque libiche era intervenuta nella zona Sar libica per salvare e riportare a Tripoli 101 migranti. La pratica, dice la Cassazione, infrange il Codice della navigazione in tema di “abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci, e di sbarco e abbandono arbitrario di persone”. Era stata la Guardia costiera libica a gestire l’operazione. “Asso Ventotto ha un permesso di lavoro in Libia e se non l’avesse fatto, permesso di lavoro cancellato”, spiega un ufficiale della Guardia costiera libica. In altre parole, Asso Ventotto secondo i libici era sotto ricatto. Nessuna risposta - Alla domanda su “come funziona il coordinamento con la Guardia costiera libica”, la ong Sos Méditerranée spiega sul proprio sito che quando ci sono naufragi resta in contatto con qualunque autorità competente (anche se non sbarcherà mai a Tripoli), ma contattare quelle libiche “è il più delle volte vano”. Finora le mancate comunicazioni erano con il Jrcc, ovvero un centro di coordinamento misto utilizzato sia da civili sia da militari, con sede vicino a piazza dei Martiri, il centro di Tripoli. “Credo che nulla cambierà”, spiega Valeria Taurino, direttrice di Sos Méditerranée Italia. Definisce la situazione di oggi con la Libia “disastrosa”: “Nel momento in cui le autorità libiche non rispondono teniamo in copia tutti in ogni comunicazione per coordinare l’intervento”. E alla fine è spesso l’Mrcc di Roma a gestire le operazioni. “Con l’Mrcc a Tripoli, l’Italia si sentirà meno responsabilizzata?”, si chiede Taurino: “Voglio sperare di no”. Di certo il disegno perseguito è lo stesso cominciato da Minniti nel 2017. Alle critiche sulle modalità di intervento dei guardacoste di Tripoli, la risposta sono stati i programmi per la loro formazione. Con risultati ancora pessimi: “Le modalità di intervento sono sempre le stesse - rileva Taurino - aggressività, scorrettezza nelle informazioni che danno, operazioni che si concludono con delle intercettazioni: non cambia mai niente”. Eppure sono sette anni che l’Europa cerca di affidare loro un pezzo di responsabilità sul Mediterraneo meridionale. Migranti. Dopo la tragedia di Solingen la Germania avvia la deportazione degli afghani di Vincenzo Savignano Avvenire, 31 agosto 2024 Partito un aereo da Lipsia con 28 uomini “pericolosi”. La risposta dello Stato tedesco all’attentato compiuto da un 26enne che ha accoltellato 11 persone uccidendone tre. Scatta il piano delle deportazioni del governo di Berlino che può mettere in difficoltà l’Ue e l’Italia. Per la prima volta da quando i Talebani sono tornati al potere a Kabul, la Germania ha deportato in Afghanistan rifugiati che hanno commesso reati. All’alba di ieri dall’aeroporto di Lipsia è decollato un jet charter della Qatar Airways destinazione Kabul. A bordo c’erano 28 uomini afghani, portati a Lipsia da diversi länder tedeschi. Secondo le autorità giudiziarie che hanno ordinato le espulsioni “sono pericolosi, si tratta di individui in grado di commettere reati gravi a sfondo politico, compresi gli attentati”. Ecco la risposta dello Stato tedesco all’attentato di Solingen, perpetrato da un 26enne afghano, Issa Al Hassan, che ha accoltellato 11 persone, uccidendone tre. “È un segnale chiaro: chiunque, anche i rifugiati che commettono reati, ora rischia di essere espulso dalla Germania”, ha sottolineato il cancelliere Olaf Scholz. “Assassini, islamisti, stupratori e criminali gravi che abusano della nostra protezione devono lasciare il Paese”, ha aggiunto il vicecancelliere, Robert Habeck. Il leader dei Verdi ha comunque spiegato che il diritto d’asilo deve rimanere intatto: “Persone innocenti, vittime di persecuzioni e di violenza e terrore fuggite dagli islamisti possono trovare protezione in Germania”. L’aereo verso Kabul potrebbe anche essere interpretato come l’ultimo slogan elettorale dei partiti di governo, in vista del voto regionale di domani in Sassonia e Turingia, dove gli ultranazionalisti di Afd, sempre sostenitori di politiche anti-migranti e anti-islam, potrebbero diventare il primo partito. Il piano delle esplusioni rischia tuttavia di creare tensioni all’interno del governo: solo i liberali della Fdp hanno sempre sostenuto un giro di vite su migranti e richiedenti asilo, verdi e socialdemocratici sono sempre stati a favore di politiche dell’accoglienza, ma ora stanno cambiando completamente rotta. Dopo le elezioni, Scholz dovrebbe incontrare l’opposizione, in particolare l’Unione democristiana Cdu/Csu, e länder per confrontarsi su ulteriori misure e provvedimenti, come la chiusura delle frontiere e la riduzione dei tempi di accettazione delle richieste d’asilo. Ad oggi in Germania i tempi sono al massimo di 18 mesi. Nel 2023 sono state presentate oltre 351.915 richieste d’asilo, nei primi sei mesi del 2024 sono state 153.361. L’obettivo è ridurre drasticamente i numeri. In base al regolamento di Dublino è possibile rimandare nei paesi europei di primo approdo i rifugiati arrivati in Germania. Anche Issa Al Hassan, il terrorista dell’Isis di Solingen, poteva essere rimandato in Bulgaria già dopo sei mesi, ma questo non è avvenuto per questioni burocratiche. La Germania, inoltre, non intende più pagare i sussidi economici ai rifugiati arrivati da altri Paesi europei. Secondo il ministero federale dell’Interno, l’anno scorso sono stati registrati 74.622 casi in cui la Germania voleva deportare i migranti in altri Stati membri europei, ma 22.462 sono stati respinti dai rispettivi Paesi dell’Ue. Quali sono i Paesi europei che collaborano meno con la Germania? Ieri alcuni media tedeschi hanno puntato il dito di nuovo contro l’Italia. “Secondo il governo conservatore di centro-destra di Roma - ha spiegato ieri l’emittente pubblica radiofonica Detschlandfunk - la capacità dei centri di accoglienza è insufficiente a causa dell’elevato numero di rifugiati che arrivano attraverso il Mediterraneo”. Alla fine di luglio il quotidiano Die Welt ha sottolineato che nel 2024 l’Italia si è ripresa solo 13 rifugiati dalla Germania. Venezuela. Arrestato Perkins Rocha, avvocato dei diritti di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 31 agosto 2024 L’Helicoide è il simbolo di un sogno tradito e di un Paese, il Venezuela, caduto in disgrazia. La mega struttura, situata nel centro di Caracas, concepita originariamente come centro commerciale negli anni Cinquanta del secolo scorso, è considerata un vero e proprio inferno sulla Terra. Dal 1984 è la sede dell’agenzia di intelligence venezuelana, il Sebin; il luogo in cui vengono rinchiusi e torturati gli oppositori e i dissidenti politici. Tra gli ospiti dell’Helicoide anche l’avvocato Perkins Rocha, consigliere giuridico della leader dell’opposizione, Maria Corina Machado. Di Rocha si sono perse le tracce per quattro giorni. Ieri la svolta (negativa). All’avvocato, da sempre impegnato nella difesa dei diritti umani, sono stati contestati reati molto gravi nel corso di una udienza farsa tenutasi proprio nel famigerato Helicoide. Rocha è stato incriminato per “tradimento della patria”, “terrorismo”, “associazione a delinquere”, “cospirazione” e “incitazione all’odio”. La lettura dei capi di imputazione, secondo quanto riferito dai media locali, è avvenuta alla presenza di un difensore d’ufficio. Come più volte denunciato dalle opposizioni, si conferma, dunque, la prassi con la quale agli indagati non è garantita la presenza di un difensore di fiducia (si veda Il Dubbio del 20 agosto). Quanto accaduto a Perkins Rocha ricalca un copione già visto per altri oppositori politici, arrestati durante le proteste successive alla proclamazione di Nicolás Maduro alla carica di presidente del Venezuela. Le manette nei giorni scorsi sono scattate senza distinzioni d’età, anche per numerosi adolescenti. La notizia dell’incriminazione di Rocha è stata data da sua moglie, Maria Constanza Cipriani (è pure cittadina italiana), che è venuta a conoscenza dell’udienza con un sms ricevuto alle 3 del mattino di venerdì. Cipriani ha confermato che il marito si trova nel quartier generale del Sebin, l’Helicoide. “Ancora non ho avuto nessun tipo di contatto con Perkins - ha detto Cipriani -, non l’ho visto né ci siamo parlati. È isolato. Mio marito è in prigione per aver dissentito, per aver espresso la sua opinione e per aver lottato affinché la verità venisse a galla, per volere un Paese in cui possiamo viverci tutti”. Luis Almagro, segretario generale dell’Osa (Organizzazione degli Stati Americani), ha espresso solidarietà nei confronti di Rocha e ha condannato l’arresto “illegale e arbitrario” dell’avvocato della leader dell’opposizione Maria Corina Machado, nonché portavoce della campagna elettorale del candidato della Piattaforma unitaria democratica, Edmundo Gonzalez Urrutia. “Chiediamo - ha affermato Almagro - che Rocha venga liberato immediatamente. La violenza e la persecuzione dell’opposizione in Venezuela sono inaccettabili e devono essere condannate da tutti”. Quello di Rocha è l’ultimo caso di una serie di fermi e sparizioni in Venezuela, dopo le elezioni presidenziali del 28 luglio scorso che hanno ancora una volta incoronato alla guida del Paese sudamericano Nicolás Maduro. In un mese sono state arrestate più di 2.500 persone. In Venezuela, ormai, come ha dichiarato l’Onu, si vive in “un clima di paura”. Un noto avvocato di Caracas, che preferisce restare anonimo per evitare ritorsioni, esprime forti preoccupazioni per la situazione che stanno vivendo i legali impegnati nella difesa dei diritti umani. “In questo periodo - dice al Dubbio l’avvocato di Caracas - possiamo aspettarci di tutto. Non c’è mai fine alle cattive sorprese. Per esempio, è stato addirittura nominato Diosdado Cabello ministro della Giustizia. Una cosa incredibile. Stiamo parlando del principale assassino, rapitore e repressore del regime venezuelano. Temo, purtroppo, che le azioni violente nei confronti della popolazione proseguiranno. Anzi, saranno inasprite. Tutte le libertà e la democrazia in Venezuela sono di fatto sospese. Stiamo assistendo all’esercizio del “terrorismo di Stato”, uno dei più terribili nel Sud America”. Tomás Jorge Farini Duggan è un importante avvocato argentino che ha denunciato in più occasioni il “caso Venezuela”, chiedendo l’intervento degli organi di giustizia internazionale. Duggan è impegnato nel far luce sulle assurde accuse mosse nei confronti di un’altra avvocata venezuelana dell’opposizione, Maria Oropeza. “L’arresto di Rocha - commenta Farini Duggan, rintracciato dal Dubbio a Miami -, come le ultime sparizioni forzate di persone legate all’opposizione politica, attivisti della società civile e giornalisti, ha l’obiettivo di generare terrore nella popolazione civile, che reclama chiarezza in merito al risultato delle ultime elezioni, dove Nicolas Maduro è stato sconfitto. Questa posizione, tra l’altro, è stata espressa due giorni fa dall’Osa (Organizzazione degli Stati Americani, ndr). Il regime in Venezuela usurpa il potere e compie atti di terrorismo di Stato. Nei prossimi giorni presenterò una denuncia volta ad indagare sui crimini contro l’umanità commessi dallo Stato venezuelano, che ha fatto sparire il collega Perkins Rocha. Nicolas Maduro deve rispondere di questo e di tutti i crimini contro l’umanità che vengono ordinati ed eseguiti in Venezuela in suo nome”. Russia. Otto anni di colonia penale al giornalista Sergei Mikhailov di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 31 agosto 2024 La macchina della repressione, della censura e dell’arbitrio giudiziario non si ferma un attimo nella Russia di Vladimir Putin, impantanata nella guerra in Ucraina che è anche un “conflitto interno” contro qualsiasi voce osi criticare la ormai ex “operazione speciale”. A farne le spese è chiaramente la libera informazione come dimostra il caso di Sergei Mikhailov, un giornalista siberiano condannato ieri a otto anni di carcere perché, secondo la classica accusa, “aveva diffuso intenzionalmente false informazioni sull’esercito russo”. I pubblici ministeri di Gorno-Altaysk, una città nella regione meridionale dell’Altaj che si trova ai piedi dell’omonima catena montuosa, hanno sostenuto che il 48enne sarebbe stato spinto a scrivere articoli contro l’invasione dell’Ucraina dal suo da “odio politico”. Il tribunale ha anche imposto un divieto di quattro anni sulle attività giornalistiche ed editoriali di Mikhailov. Ecco i fatti: il giornalista ed editore di Listok, era stato arrestato nel 2022 vicino a Mosca per aver pubblicato sul canale Telegram e sul sito web del suo giornale online, notizie sulla strage di civili a Bucha, a nord- ovest della capitale ucraina Kiev, e molte altre informazioni sui bombardamenti e le uccisioni nella città sud- orientale di Mariupol. Eventi che in entrambe le città ucraine hanno rappresentato alcuni dei punti piu tragici dell’invasione russa. Il giornalista ha negato qualsiasi illecito e la sua difesa dovrebbe far conoscere il suo modo di procedere la prossima settimana. Al momento Mikhailov continua a sostenere la linea dei suoi reportage nei quali ha sempre denunciato le politiche del Cremlino, l’invio di truppe in Ucraina e il bombardamento delle città. In particolare il giornalista ha lanciato diverse bordate contro la propaganda russa, che con la sua narrativa sulla leadership di Kiev, definita fascista, ha “creato un intero universo virtuale nello spazio dell’informazione, e questa nebbia è diventata sempre più forte”. Il lavoro rivendicato dal cronista è stato quello di diradare questa nebbia in modo che i “lettori non fossero sedotti dalle menzogne, in modo che non prendessero parte a conflitti armati, non diventassero assassini e vittime e in modo che non danneggiassero il fraterno popolo ucraino”. Vladimir Putin ha rafforzato la morsa del regime sulla libertà dei media e sulla libertà di espressione negli ultimi dieci anni, la repressione del dissenso si è quindi ulteriormente intensificata drammaticamente dall’inizio della guerra. Tre mesi dopo l’invasione, il Cremlino ha ampliato le leggi contro i cosiddetti “agenti stranieri”, includendo nella black list organizzazioni senza scopo di lucro, media indipendenti, giornalisti e attivisti. In questo modo le organizzazioni che ricevevano qualsiasi sostegno dall’estero, comprese le donazioni o altri finanziamenti, potevano essere equiparate a covi di spie anti russe. Nel 2023, Putin ha poi varato leggi sulla censura di guerra che criminalizzano chiunque possa essere sospettato di screditare le forze armate russe o di condividere informazioni sulla loro condotta che non aderiscono alla linea del governo. Coloro che finiscono nei meccanismi kafkiani delle norme sulla censura rischiano fino a 15 anni di carcere, spesso da scontare nelle terribili colonie penali a nord-est del Paese. La censura di Stato ha così portato alla chiusura di diversi media indipendenti e alla persecuzione di giornalisti di spicco, centinaia di reporter sono inoltre costretti a fuggire in esilio per poter continuare il proprio lavoro di informazione. Altri sono rimasti in Russia a “combattere” ma, come dimostra il caso Mikhailov, hanno dovuto pagare un caro prezzo. Secondo il gruppo per i diritti umani OVD-Info, più di mille persone si stanno difendendo in procedimenti penali avviati a causa delle loro critiche alla guerra in Ucraina. Secondo le stime di Amnesty International, nel 2023 almeno 21.000 persone sono state prese di mira dalle leggi russe utilizzate per reprimere ad arti chiunque manifesti un pensiero contro la guerra in Ucraina. Mozambico. “Liberare i prigionieri”, un progetto per favorire l’accesso ai diritti dei più poveri santegidio.org, 31 agosto 2024 La situazione carceraria in Mozambico è caratterizzata da numerosi problemi, come il sovraffollamento, l’igiene e la salute, la scarsità di cibo e altre questioni. Tutti elementi che mettono a rischio i diritti umani. La Comunità di Sant’Egidio lavora da decenni nelle carceri, soprattutto nelle principali capitali provinciali, con la sua rete di Comunità, portando il Vangelo, aiuti concreti come cibo, vestiti, materiale igienico, assistenza legale, ecc. Un grave problema è quello del sovraffollamento delle carceri. Si pensi che la capacità delle prigioni a livello nazionale è stimata per circa 8.000 detenuti mentre alla fine del 2023 si registravano 25.000 carcerati. Questo causa enormi problemi: si pensi solo che in alcune carceri i detenuti sono costretti a fare i turni per sdraiarsi durante la notte Da tanti anni Sant’Egidio ha trovato risposte più solide e strutturali, come la costruzione di infermerie, di serbatoi per l’acqua potabile, costruzione di bagni, ripristinare il sistema fognario, piccoli progetti di formazione professionale che hanno dato avvio ad alcune attività come panificazione, produzione di utensili di latta, allevamento di pesci. Negli ultimi anni, è stata molto importante anche l’iniziativa “liberare i prigionieri” fatta insieme ai detenuti delle carceri italiane e europee visitate dalla Comunità. In Mozambico è infatti possibile pagare una cauzione e liberare i detenuti che hanno scontato metà della pena e che soddisfano i requisiti per beneficiare della liberazione condizionale. Di solito si tratta di detenuti senza familiari, che non possono permettersi di pagare le spese legali per essere rilasciati, sono costretti a vivere in carcere per altri anni. Recentemente, nella città di Beira, la Comunità, con l’aiuto finanziario dei detenuti in Germania e altri amici, è stato avviato il processo di liberazione di 50 detenuti, per lo più anziani provenienti dai quartieri periferici della città.