Sfida per amnistia e indulto di Dimitri Buffa L’Opinione, 30 agosto 2024 A mali estremi… estremi, ma costituzionali, rimedi. Cioè non prendendosi in giro data l’attuale situazione carceraria - testimoniata ove ce ne fosse ancora bisogno, dalle visite in carcere per tutto il mese di agosto del Partito radicale di Maurizio Turco e di Forza Italia, del volenteroso Antonio Tajani - non esiste alcuna soluzione possibile che non passi da un provvedimento di clemenza di quelli suggeriti dalla costituzione più bella del mondo. Lo diceva in privato a chi scrive anche il compianto garante nazionale delle carceri Maurizio D’Ettore, prematuramente e tragicamente scomparso alcuni giorni orsono. Non osava dirlo in pubblico perché la situazione dei calcoli della attuale congiuntura della demagogia politica è quella che è. Ma tutti sanno che non è assumendo 1.000 agenti in più che si risolve il problema: “Che fanno mettono i detenuti a casa degli agenti?”, è la cinica battuta che circola tra gli addetti ai lavori. Le carceri italiane ormai fanno talmente orrore e schifo che ci si suicidano anche coloro che ci lavorano, e non da ieri, cioè gli agenti di custodia. Otto dell’inizio dell’anno. Quindi uno al mese. Dei 63 detenuti suicidi ovviamente non frega niente a nessuno e quindi quasi inutile menzionarli. Anche perché il garantismo notoriamente i partiti lo esercitano verbalmente - per carità - solo quando un loro esponente finisce nei guai con la giustizia. Ma lì la cosa finisce. Data l’attuale situazione costituzionale, voluta dai corifei di Di Pietro e di “Mani pulite”, e cioè che occorrerebbe una maggioranza di due terzi in Parlamento per varare amnistia e indulto, l’ideona che potrebbe venire al capo del governo attuale, Giorgia Meloni, potrebbe essere la seguente: sfidare la Lega e la sinistra del campo largo a Cinque stelle. Lanciando a tutto il Parlamento senza nascondersi dietro un dito il guanto di questa sfida su amnistia e indulto. Un problema pratico si risolve pragmaticamente non con le attuali improvvisate ideologie schiave del consenso e dei social. Se la Meloni osasse tanto, da un lato metterebbe in minoranza Salvini nel governo, visto che Forza Italia sarebbe senz’altro disponibile, e dall’altra frantumerebbe questa buffonata del campo largo trasformandolo nel campo santo delle opposizioni. Prima controindicazione: Salvini farebbe cadere il governo su questo? Bell’azzardo. Fino a che punto sarebbe capito dai suoi fan? Uno che sfascia il paese per non risolvere il principale problema della giustizia penale italiana se la rischierebbe non poco alle elezioni. E per lui con questa trovata di Vannacci già si è posto il problema del “cavallo di Troia”. Seconda controindicazione: la sinistra farebbe muro con i grillini dopo avere tanto cianciato della disumanità delle carceri che anche loro nei precedenti governi per bassi motivi elettorali - vedi riforma Orlando non attuata da Gentiloni alla vigilia delle elezioni del 2018 - avevano contribuito al 90 per cento a renderle quel che sono oggi? Improbabile anche questa opzione. A ben vedere questa sfida del terzo tipo - dell’irrealtà - che la Meloni se avesse un piccolo scatto di follia politica potrebbe lanciare sarebbe un’opzione cosiddetta “win win”. Da una parte si potrebbe mettere a cuccia l’infido alleato leghista che fra un po’ finirà in braccio al nuovo partito del generale Vannacci. Dall’altra getterebbe in confusione la sinistra che non saprebbe a quale santo votarsi. E anche se alla fine non se ne facesse nulla, la Meloni potrebbe dire al suo elettorato, allargato a questo punto potenzialmente anche ai pragmatici moderati del centro e persino della sinistra: “Io ci ho provato ma questi hanno le proprie bandierine da tenere piantate e non mi hanno aiutato a risolvere pragmaticamente il problema”. E alle urne gli elettori potrebbero “paradossalmente” premiarla. Ulteriormente. Mentre se tutto continuerà ad essere lasciato andare in vacca come accade oggi, accadeva ieri e purtroppo potrebbe accadere anche domani, premi non ce ne saranno di sicuro. Per nessuno. Il futuro della Giustizia del punire, il Decreto carceri e il mito di Giano bifronte di Antonio Nastasio* L’Opinione, 30 agosto 2024 Quando un fatto reale si trasforma in un evento virale, la sua gestione diventa complessa e sfumata, piene di mille tonalità di grigio, poiché si aggiungono molteplici elementi estranei, spesso di dissenso e critica non sempre costruttiva. Questo fenomeno amplifica le difficoltà nel trattare la questione in modo equilibrato e nel proporre soluzioni adeguate al contesto in gioco. Quando si parla del sistema carcerario, e in particolare del Decreto legge 92/2024, noto come “Decreto legge Carcere sicuro”, le implicazioni diventano ancora più complesse. Emanato con l’intento di affrontare e risolvere le problematiche legate alla sicurezza e alla gestione dei penitenziari, si colloca in un contesto giuridico e sociale poco conosciuto, specialmente se non si fa riferimento alle sezioni detentive, piuttosto che genericamente al “carcere”. Le applicazioni pratiche di questo decreto sono spesso trascurate, a meno che non emergano fatti di cronaca che ne sottolineano gli aspetti negativi; dopodiché, però, tutto tende a tornare alla “normalità” che in questo contesto ha un significato tutto proprio. Il Decreto legge 92/2024 può essere paragonato, con un minimo di fantasia, al mito di Giano bifronte, con due facce che rappresentano due proposte apparentemente risolutive, ma in realtà contraddittorie e distanti nella loro applicazione pratica. Come Giano, che aveva due teste che guardavano in direzioni opposte, le due misure principali del decreto sembrano offrire realtà più ambigue e potenzialmente problematiche che vere. Da un lato, la riduzione della liberazione anticipata, elemento reale, storicamente legata al buon comportamento del singolo con influenze, per il buonumore, nella gestione dell’ordine interno, appare come una misura severa che potrebbe aumentare la tensione nelle sezioni detentive. Questo intervento, pur mirato ad assicurare una “pena certa”, non considera le complessità e le dinamiche carcerarie, rischiando di aggravare la situazione con un maggiore rischio di scontri e disordini. Dall’altro lato, le misure alternative, dichiarate e attuabili tra tre mesi, che dovrebbero servire a mitigare il sovraffollamento, si presentano come una soluzione potenzialmente efficace ma che, nella pratica, rischia di rimanere un mero proclama. La differenza tra queste misure e la liberazione anticipata. Il passaggio dei tossicodipendenti dalla detenzione alla comunità terapeutica può essere considerato una soluzione a doppio taglio. Se da un lato alleggerisce le carceri di un gran numero di detenuti, dall’altro risulta problematica poiché se viene applicata “ope legis”, cioè in modo automatico e non su valutazione specifica del magistrato di Sorveglianza, che tiene conto della volontà e del comportamento del soggetto. Le misure proposte e concesse in base al Decreto legge 92/2024, avvengono attraverso un processo generico che non garantisce un’effettiva riuscita del percorso terapeutico. In questo modo, appaiono più come provvedimenti di carattere amministrativo che come strumenti mirati alla riabilitazione. Si ricorda che le comunità non sono strutture vicariali del carcere ma alternative dove non vi è posta alcuna azione per trattenerle, salvo il convincimento terapeutico. L’efficacia di queste misure dipende fortemente dalla loro concreta attuazione: se non ben gestite, rischiano non solo di non risolvere i problemi strutturali delle carceri, ma di aggravarli. Il ritorno in carcere dei detenuti è un rischio concreto, soprattutto perché il trasferimento in comunità appare più come un’imposizione che una scelta consapevole. Questo approccio forzato potrebbe minare seriamente il percorso terapeutico, rendendo tali misure non solo inefficaci, ma addirittura dannose. Peraltro, le misure alternative sono legate a delle prescrizioni, e la fuga dalla comunità, porta generalmente, al reato di evasione, quindi il ritorno e la permanenza in carcere si moltiplica come durata. In opposizione al mito di Giano bifronte, dove le due teste guardano in direzioni opposte per acclamare le iniziative del dio, qui declamano l’opposto, di come si vuole siano: la soluzione attuale più burocratica che reale, genera confusione anziché una visione univoca e coerente, finendo per ignorare la tensione reale nelle sezioni detentive e risultando inefficaci nel trattare i problemi strutturali. Un miglioramento del sistema penitenziario richiede capacità di considerare sia i detenuti che il personale della Polizia Penitenziaria non come entità opposte e incompatibili, ma come parti di un unico quadro complesso e le soluzioni non possono avvenire per compartimenti stagni, mancando di una vera integrazione e lasciando prevalere il disaccordo su un equilibrio che potrebbe rendere il sistema più efficiente e umano. Importante che le soluzioni, non siano prevaricanti fra loro, ma permettano, anzi favoriscano, il buon vivere nelle sezioni detentive. Crisi nelle carceri: due proposte a confronto - La situazione carceraria italiana è critica: sovraffollamento, degrado e conflitti rendono le strutture simili a campi di battaglia. Le proposte di riforma devono essere non solo attuabili e legittime, ma rispettare il principio di Pacta sunt servanda, principio non attuabile se non si riconosce a priori il Decreto legge 92/2024. Tuttavia, le misure alternative alla detenzione, come quelle previste per pene residue inferiori a un anno, possono risultare inefficaci a causa delle lungaggini burocratiche e della mancanza di risorse. I detenuti con pene brevi o residui, privi di supporto esterno e non accompagnate da un programma individualizzato appaiono come “indulti mascherati”. Si sta rinnovando l’errore del 1976, con l’introduzione dell’Ordinamento penitenziario, nell’aver ritenuto le misure alternative idonee a risolvere il sovraffollamento carcerario, compito che è proprio di indulti o amnistie. Un altro aspetto è la gestione delle risorse economiche destinate alle nuove norme, che rischia di compromettere la sostenibilità del sistema se mal gestita. L’efficienza non significa duplicare l’esistente, ma creare qualcosa di nuovo. Un esempio è quanto proposi del 2008 di “Casa Giustizia”, strutture ricavate da edifici pubblici dismessi, oggi riproponibili per detenuti in attesa di misure alternative o rimpatrio. Relativamente al rimpatrio è necessario distinguere tra detenuti Ue e extra-Ue, in particolare quelli provenienti da Paesi con regimi che non riconoscono condanne esterne. Serve una legge europea che uniformi le procedure di estradizione e garantisca un trattamento omogeneo. Per i Paesi dell’Ue, l’esecuzione della pena all’estero, dovrebbe consentire loro di scontarla nel proprio Paese, mantenendo il collegamento con il giudice naturale tramite videoconferenze. Il caso di Chico Forti, da fatto umano dovrebbe essere portato a sistema in quanto dimostra la possibilità di scontare la pena nel proprio Paese, mantenendo i contatti, in videoconferenza, col giudice naturale del Paese dove ha commesso il reato. I contatto con il giudice naturale tramite videoconferenze anche per i gradi successivi di giudizio ed esecuzione pena Per quanto riguarda i detenuti con disturbi mentali, si apre un lungo e doloroso capitolo di mal gestione. Questi individui dovrebbero ricevere un trattamento di eccellenza, poiché la malattia mentale è una presenza costante nella loro vita, una condizione che non li abbandona mai. Solo una terapia condotta in strutture adeguate, dove prevalga la cura rispetto alla detenzione, potrebbe rispondere ai loro bisogni. Ciò che propongo non è una rivisitazione degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), dove la custodia prevaleva sulla cura e dove i pazienti erano trattati in modo spesso disumano. Al contrario, auspico la creazione di ospedali specializzati, esterni al contesto carcerario, a differenza di quanto erano gli Opg. La chiusura degli Opg è stata giusta, ma non si è adeguatamente riflettuto su dove collocare gli ex internati. L’ipotesi, piuttosto romantica e poco realistica, che il contesto esterno potesse aprire le porte all’accoglienza di questi individui-malati è stata quasi del tutto disattesa. Se si fosse consultato il personale operativo, anziché solo docenti universitari o dirigenti che non avevano mai avuto contatti diretti con i malati mentali detenuti, si sarebbe compreso che la prolungata permanenza negli Opg non era tanto dovuta alla pericolosità dei soggetti quanto alla mancanza di strutture di accoglienza post-detentive. La famiglia o le case di riposo per anziani erano le uniche opzioni di riferimento, ma entrambe inadeguate: la famiglia, spesso parte lesa, non è in grado di garantire un’adeguata terapia, né tantomeno di fornire un ambiente sicuro. Le case di riposo per anziani inadeguate o perché il soggetto creava timore a prescindere e veniva isolato o perché giovane e quindi non solo isolato dal contesto ma era lui stesso ad auto isolarsi trovandosi inadeguato e allontanava senza meta la casa di riposo, con violazione delle prescrizioni o commissioni di reati per la sopravvivenza e ritorno, allora in Opg ora in carcere. La cura delle malattie mentali deve avvenire in luoghi specifici, non nei reparti detentivi delle carceri, la cui presenza è assicurata da poliziotti non da infermieri che per formazione e mandato non possono offrire un’assistenza adeguata. Da questi contesti, escono malati quasi certamente più malati e si rischia di restituire alla società individui che hanno sì scontato in osservanza della pena certa, tutta la pena, ma le cui condizioni di salute mentale che restano incerte, lasciando alla famiglia il peso di un’accoglienza spesso rifiutata. Alternative: poche e spesso inadeguate. La soluzione è possibile. Ora ci sono molti ospedali dismessi, perché non renderli operanti e fornitori di servizi? Nel 2008 ho fornito, in merito un progetto, ma inascoltato. Un malato mentale in libertà appartiene ai suoi diritti civili, ma se per libertà significa un ritorno al carcere questa non è offrire libertà è offrire carcere. La trasformazione delle carceri che si chiede è un bilanciamento tra controllo e innovazione, possa consentire una gestione più umana e una valorizzazione del personale penitenziario, impegno non dilazionabile né derogabile, che passa anche per una diversa modalità custodiale del berretto e delle chiavi, certamente più umana delle chiusure elettriche, ma rimasta ferma nei secoli. Ridefinire le responsabilità e non lasciarle all’agente ultimo arrivato in quanto si considera il lavoro nelle sezioni il “peggio”, rattrista. Questo giudizio, se mantenuto, può rappresentare la fine di un Corpo che non sa riconoscersi nel mandato istituzionale partendo dai gradi più elevati dirigenti compresi. Il cambiamento se lo si vuole deve avere un’adesione convinta dei detenuti ai programmi di trattamento, al fine di evitare ulteriori sanzioni conseguenti alla mancata osservanza delle regole stabilite. È essenziale ricordare che il carcere non deve trasformarsi in un luogo di impunità e illegalità, né tantomeno in un mercato clandestino dove si favorisce il traffico di sostanze stupefacenti o il passaggio illecito di dispositivi mobili. Tali fenomeni dichiarati nei comunicati sindacali e descritti non come episodi isolati o marginali, rappresentano una palese violazione della funzione stessa della pena, che ha il suo cardine nel rispetto rigoroso della legalità. Se il carcere deve essere il luogo in cui si esegue una pena giusta e legale, fondata sul rispetto rigoroso della norma, il “buonismo” di matrice ideologica, che tende a privilegiare una visione compassionevole e romantica del reo a discapito del dolore provocato alle vittime, si configura come un vero e proprio attentato al principio di giustizia. Tale atteggiamento rappresenta un oltraggio alla memoria del danno causato col reato e negando la finalità rieducativa della pena, la quale non può prescindere dall’osservanza scrupolosa delle regole. Una concezione della sanzione penale ridotta a mera clemenza rischia di minare alla radice l’autorità dello Stato e l’inviolabilità della giustizia, dimenticando che al centro della risposta penale deve rimanere la tutela della legalità e dei diritti delle vittime. In uno Stato di diritto, la Giustizia non può piegarsi alla compassione né all’inerzia di consuetudini superate: deve evolversi costantemente per fornire risposte attuali e concrete, capaci di prevenire la recidiva e tutelare sia le vittime che è nei doveri dello Stato. Lo Stato, infatti, ha il dovere di garantire la sicurezza dei suoi cittadini attraverso strumenti che rispettino e valorizzino i principi della Carta Costituzionale, mantenendo saldo il delicato equilibrio tra giustizia, legalità e diritti. *Dirigente superiore del ministero della Giustizia in quiescenza Il dramma dei reclusi è rimosso perché nella comunicazione si è creato un corto circuito di Giorgio Coden* Il Dubbio, 30 agosto 2024 Se si vuol convincere l’opinione pubblica dell’urgenza di migliorare il sistema penitenziario, forse va chiarito che nessuno vuole abolirlo. Da oltre dieci anni si dibatte il problema carceri, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, per dire, undici anni fa interveniva per sollecitare il Parlamento ad adottare provvedimenti urgenti contro la piaga del sovraffollamento. Nel corso dei lustri successivi, alla sbarra dei denuncianti si sono alternati, senza soluzione di continuità, giornali, addetti ai lavori, associazioni civiche e, secondo convenienza, anche personaggi della politica. Oggetto delle denunce, l’intero impianto dell’istituzione carceraria: incapienza delle strutture, celle ristrette, igiene tanto al chilo, lavoro per pochi, ozio per tanti, sesso nisba, cultura una chimera. E poi i suicidi, tanti, ma tanti e in aumento. Insomma, un inferno senza libertà e dignità, luogo di umiliazione e tortura, con un presente invivibile e un futuro irreversibile. Da qui le ricette, diverse ma convergenti: più permessi, più liberazioni anticipate, più semilibertà, più sconti di pena, più misure alternative, meno carcerazioni preventive, depenalizzare, amnistiare, condonare; in sintesi: carcere extrema, ma proprio extrema, ratio. Ultimamente, l’Unione delle Camere penali italiane ha indetto una manifestazione nazionale sul tema, una sorta di maratona oratoria nelle piazze d’Italia per sensibilizzare la cittadinanza sul dramma carceri. Non so come siano andate le cose altrove, ma immagino come qui a Pordenone. Pur organizzata in coincidenza con il mercato settimanale, ha visto presenziare sì e no una decina di persone, di cui nove avvocati. Mettiamo, per amor di categoria, che in qualche altra piazza i cittadini siano accorsi a frotte. Cos’ha sentito la gente dalla bocca dei colleghi che si sono avvicendati ai microfoni? Ovviamente e dappertutto, il rosario di lamentele che va dalle condizioni inumane del carcere alle sue carenze igienico- sanitarie, dalla mancanza di percorsi rieducativi alla negazione di spazi e tempi per l’affettività e via dicendo, in perfetta sintonia con l’ossatura della protesta consolidatasi nel corso del tempo e con le istruzioni divulgate dalla Ucpi. Tutte cose sacrosante, per carità, ma come pensate abbia reagito la gente in ascolto? Credete si sia impietosita per la ristrettezza delle celle? Che si sia preoccupata del fatto che ai carcerati manca la possibilità di appartarsi con moglie o fidanzata? Che abbia provato una stretta al cuore per i tanti che si sono appesi con la cinghia? Da tempo ho un rovello: è possibile che nessuno di quanti si stanno nobilmente sbattendo per sollecitare un miglioramento della vita penitenziaria, si sia domandato seriamente come mai, nonostante la grancassa mediatica, all’opinione pubblica non interessa granché di quello che succede dentro le mura delle prigioni? Eppure è essenziale saperlo, perché solo l’opinione pubblica è in grado di smuovere la classe politica dalla sua inerzia continuata ed aggravata. La mia idea è che si tratti di un difetto di comunicazione, involontario ben s’intende, ma capitale: se si vuol coinvolgere la gente nella battaglia per migliorare la vita in carcere, è prioritario, in ogni circostanza in cui si affronta il tema, in piazza, in sala, sulla stampa, in televisione, che i propugnatori del cambiamento dicano e ridicano e ribadiscano che il carcere c’è, che esiste, che nessuno vuole abolirlo, che continuerà imperterrito a fare il suo mestiere di alloggio per delinquenti. Senza questa enunciazione di principio e in principio, la gente non è disponibile all’ulteriore ascolto né si mobiliterà per appoggiare riforme, anzi, rinculerà su posizioni reazionarie, percependo i lai di contestazione come un tiro al bersaglio al sistema penitenziario. Detto con uno slogan, la propensione sarà: non meno carcere ma più carceri. Occorre chiudere questo buco nero nella comunicazione sul tema, altrimenti continuerà a ingoiare e neutralizzare tutta l’energia della protesta. Sicché, noi addetti ai lavori continueremo a dircela e farcela tra di noi per altri dieci anni e la politica, beh, … starà ancora a guardare. *Avvocato “Bisogna aver visto”. Dal pg di Perugia un esempio per le toghe ispirato a Calamandrei di Franco Insardà Il Dubbio, 30 agosto 2024 Il vertice della magistratura requirente umbra prosegue il suo report sulle carceri. Mentre sul tema l’Anm è divisa. “Bisogna vedere, bisogna starci, per rendersene conto”. Lo diceva Pietro Calamandrei alla Camera il 27 ottobre 1948, in un intervento sulle carceri, ripreso nell’introduzione al numero 3 del marzo del 1949 della rivista Il Ponte, che titolò “Bisogna aver visto”. E in questi giorni il procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani, ha “voluto vedere” la condizione delle carceri umbre. Dopo aver visitato i penitenziari di Orvieto, Spoleto e Terni, ieri è stato a Perugia. Purtroppo le parole di Calamandrei sono rimaste inascoltate per anni, fatta eccezione per l’infaticabile lavoro di Marco Pannella e dei radicali. Un’azione nella quale lo spirito radicale è riuscito a coinvolgere sempre di più esponenti di varie forze politiche, che hanno varcato i cancelli delle prigioni per rendersi conto di quali fossero le condizioni di detenzione. Quest’anno, nel periodo di Ferragosto, abbiamo assistito a dei veri e propri tour dei parlamentari, con Forza Italia che ha affiancato il Partito radicale nelle sue consuete visite. Sempre Pietro Calamandrei, in quel suo intervento alla Camera, disse: “Ho conosciuto a Firenze un magistrato di eccezionale valore che i fascisti assassinarono nei giorni della liberazione sulla porta della Corte d’appello, il quale aveva chiesto, una volta, ai suoi superiori il permesso di andare sotto falso nome per qualche mese in un reclusorio, confuso coi carcerati, perché soltanto in questo modo egli si rendeva conto che avrebbe capito qual è la condizione materiale e psicologica dei reclusi, e avrebbe potuto poi, dopo quella esperienza, adempiere con coscienza a quella sua funzione di giudice di sorveglianza, che potrebbe essere pienamente efficace solo se fosse fatta da chi avesse prima esperimentato quella realtà sulla quale doveva sorvegliare”. Ebbene le visite del pg Sottani in Umbria, al di là dei dati che ha raccolto, analoghi a quelli del Dap, del Garante nazionale e di quelli locali, assumono una grande valenza. Parliamo infatti del più alto magistrato requirente di un importante distretto di Corte d’appello che sente la necessità di conoscere da vicino la condizione dei penitenziari della sua regione. Un esempio che potrebbe essere seguito da altri capi della magistratura, magari nelle sedi in cui la drammaticità dell’emergenza è più evidente. Basti pensare a Milano, Roma, Napoli e Palermo. Sarebbe un modo anche per aggirare le divisioni paralizzanti, sul carcere, nell’Anm, con Md e AreaDg da una parte e Magistratura indipendente dall’altra. Immaginare il procuratore Gratteri varcare il cancello di Poggioreale, o il capo della Procura di Roma Lo Voi quello di Regina Coeli, e ancora il procuratore Viola a San Vittore, avrebbe un fortissimo impatto. Per non dimenticare l’editoriale su Avvenire di Luigi Patronaggio: il pg di Cagliari ed ex capo della Procura ordinaria di Agrigento ha scritto che “il ricorso all’amnistia e all’indulto darebbe la possibilità, di riportare la calma all’interno delle carceri e di ragionare sul tema in modo più sereno e pacato, cercando soluzioni durature di medio e lungo termine”. E così, dopo l’iniziativa del 2018 “Viaggio in Italia: la Corte Costituzionale nelle carceri”, voluta dall’allora presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, i detenuti cominciano a incontrare altre “toghe”. Il primo incontro dei giudici costituzionali avvenne a Rebibbia, dinanzi a circa 250 detenuti, poi fu la volta di San Vittore a Milano, del minorile di Nisida, di Terni, Genova- Marassi, del femminile di Lecce. L’evento di Rebibbia fu seguito in streaming in oltre 150 penitenziari e in 15 istituti minorili, per un totale di 11mila detenuti a fare da spettatori. Un viaggio continuato anche negli anni successivi fino al 2022, un’esperienza raccolta nel libro “Storie di diritti e di democrazia. La Corte Costituzionale nella società”, scritto a quattro mani dall’ex responsabile della comunicazione della Consulta Donatella Stasio e dal presidente emerito Giuliano Amato. Insomma, la strada è stata aperta dal procuratore generale di Perugia Sottani, e ora bisognerebbe seguirla. Intanto Sottani non si ferma e, dopo la visita alla Casa circondariale perugina di Capanne, dichiara: “Il prossimo 4 settembre faremo un incontro con tutti i procuratori del distretto e con i direttori delle carceri. A Perugia c’è una presenza rilevante di soggetti con problemi di tossicodipendenza e un alto numero di persone affette da disturbi di tipo psichiatrico. Si tratta di percentuali molto alte sulle quali intendiamo intervenire, nei limiti delle nostre possibilità, con i protocolli che abbiamo stipulato. La percentuale alta di persone con disturbi psichiatrici crea malumore e gli episodi di tensione che si verificano dimostrano come la situazione all’interno del carcere sia sempre problematica”. Nel 2024, a Perugia, si sono registrati 217 episodi di autolesionismo, 43 tentativi di suicidio e un suicidio, 41 aggressioni a danno degli agenti e una verso un operatore penitenziario. Persiste una generale carenza di personale della polizia penitenziaria: nei 4 istituti, sono 771 gli effettivi a fronte degli 831 previsti. I reclusi nelle carceri umbre sono 1.604, dei quali 1.534 uomini e 70 donne, a fronte di una capienza regolamentare di 1.339 posti letto (ridotti a 1.291). Una situazione grave. E altrove è anche peggio. Redaelli (Cei): “Il Decreto carceri che non favorisce speranza e voglia di vivere” di Mauro Ungaro voceisontina.eu, 30 agosto 2024 Con il via libera definitivo ottenuto alla Camera dei Deputati ad inizio mese è divenuto legge il cosiddetto “Decreto carceri”. Un’approvazione giunta in un periodo particolarmente difficile per la realtà carceraria italiana che ha dovuto fronteggiare negli ultimi mesi numerose proteste e rivolte in tutto il Paese. Ne abbiamo parlato con l’arcivescovo Carlo Redaelli anche nella sua veste di Presidente della Commissione episcopale della Cei per il servizio della carità e della salute e della Caritas nazionale. Monsignore, domenica 18 agosto, Lei ha celebrato la messa nella cappella della Casa circondariale di Gorizia: anche questa struttura, nelle scorse settimane, ha vissuto momenti di tensione. Che situazione ha trovato? Certamente la Casa circondariale di Gorizia non è molto ampia ed ha sempre un numero di detenuti maggiore rispetto la capienza ordinaria prevista. Nelle scorse settimane ci sono stati momenti di tensione dovuti alla situazione di sovraffollamento accentuati dal calco intenso ma anche dal fatto che - come in analoghe strutture in tutto il Paese - vi sono ospitate persone che hanno problemi di carattere psichiatrico. Si tratta di soggetti che possono creare problemi nei rapporti con gli altri detenuti e con il personale in servizio. Per loro dovrebbero essere previsti percorsi diversi ma da quando sono stati chiusi definitivamente gli Ospedali psichiatrici giudiziari (31 marzo 2015, n.d.r.), le Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria) che ne avrebbero dovuto prendere il posto non sono ancora riuscite a funzionare come previsto e sperato. Ritornando a Gorizia, sulla base di quello che ho potuto constatare personalmente, la situazione mi sembra più tranquilla e sotto controllo con il tentativo da parte degli stessi detenuti di rendere il clima più sereno. Indubbiamente l’ampliamente del carcere all’ex scuola “Pitteri” - i cui lavori speriamo davvero possano partire quanto prima! - porterebbe alla creazione di spazi nuovi e più dignitosi a disposizione tanto dei detenuti quanto del personale. Oltre al momento della messa, Lei ha avuto anche un incontro con i detenuti? Sono stati proprio loro a chiedermi un momento di confronto per illustrarmi anche le situazioni di disagio che si trovano a vivere ogni giorno (alcuni bagni inaccessibili, l’acqua che in taluni locali non funziona). Il Decreto carceri approvato nei giorni scorsi dal Parlamento ha istituito un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria: non mi dispiacerebbe la nomina anche di un Commissario per l’edilizia carceraria ordinaria da individuare magari nello stesso direttore o nel responsabile amministrativo della struttura. Molti problemi del carcere sono legati alla quotidianità (la rottura delle docce, il malfunzionamento delle finestre, i problemi delle cucine…) ed una semplificazione della procedura burocratica per queste piccole manutenzioni a costo ridotto potrebbe dimostrarsi molto utile per migliorare la vita di chi è recluso e ridurre le tensioni. Durante il dialogo che abbiamo avuto, mi ha colpito una domanda che un detenuto mi ha rivolto. Nel carcere di Verona, dove si trovava prima di giungere a Gorizia, il cappellano gli aveva chiesto quale fosse la sua vocazione nel carcere e lui mi ha girato quella domanda. Gli ho risposto ricordando che ogni cristiano ha la vocazione di essere figlio di un Dio che è amore e quindi la sua vocazione è amare in ogni situazione. Per chi vive in carcere, questo può realizzarsi facendo attenzione ai compagni di cella, alle situazioni familiari, a dare una mano impegnandosi a creare un clima che non sia semplicemente “passivo” ma diventi “attivo” creando qualcosa di positivo, favorendo la concordia… Prima Lei accennava al Decreto carceri approvato in questo mese di agosto dal Parlamento. Che valutazione dà di questa legge? Mi riallaccio a quanto, proprio su questo tema, mi hanno detto alcuni detenuti. Un aspetto senz’altro importante che la nuova normativa offre è quello della certezza sugli sconti di pena sin dall’inizio della detenzione. Pur tenendo conto dell’importanza della valutazione del magistrato di sorveglianza, la persona reclusa sa che se si comporta in un certo modo può uscire prima dal carcere e questo è senz’altro motivo di speranza: l’incertezza è un problema nella vita per tutti che diventa ancora maggiore per chi è detenuto. È positiva, inoltre, la previsione dell’assunzione di nuovi direttori. Senza nulla togliere alla buona volontà ed all’impegno di chi l’ha preceduta, constatiamo ogni giorno proprio qui a Gorizia quanto sia importante la presenza di una direttrice impegnata solo nella struttura cittadina e non chiamata a svolgere lo stesso ruolo contemporaneamente in analoghe strutture anche geograficamente lontane. Se non si possono che valutare in modo favorevole le due telefonate in più concesse ogni mese, certamente ci si aspettava qualcosa in più tanto sul tema della manutenzione ordinaria delle strutture quanto su quella della riduzione della popolazione carceraria e dell’attivazione di percorsi per il reinserimento dei detenuti. Rimane aperta la questione di quanti si trovano in attesa di giudizio: è sempre necessario per loro il carcere o potrebbe essere utile prevedere l’ampliamento di strumenti quali il braccialetto elettronico? Il Decreto ha modificato indubbiamente alcuni punti della precedente normativa però, più che favorire la speranza e rilanciare la voglia di vivere, ha prodotto delusione, tenuto per di più conto di quelle che erano state le attese alla vigilia. In questo senso spero che nel 2025, l’Anno del Giubileo, venga ripreso l’appello che Papa Francesco ha lanciato nella “Spes non confundit”, la Bolla di indizione dell’Anno Santo. Il Papa chiede provvedimenti che non siano “svuota carceri” (una parola, peraltro, bruttissima!) ma che servano a dare speranza a chi si trova detenuto favorendo una maggiore attenzione educativa. Non va aumentato solo il personale di custodia ma anche quello educativo e di animazione così fondamentale per il successivo reinserimento dei carcerati. Il Decreto, infine, prevede che per quanto riguarda i detenuti soggetti al regime del 41bis non possa esserci giustizia riparativa: questo non è assolutamente condivisibile. È vero che ci troviamo dinanzi a situazioni di reati particolari ma non possiamo permettere che esistano realtà in cui “si butta la chiave”: parliamo di persone a cui vanno offerti, pur con tutte le attenzioni di sicurezza necessarie, percorsi conformi al dettato della Carta Costituzionale, offrendo loro la possibilità di rivedere in qualche maniera il loro precedente percorso di vita, riparando a quanto commesso in passato. La riforma Cartabia ha introdotto nel 2022 nel nostro ordinamento la “Giustizia riparativa”. Sono passati due anni da allora: a che punto siamo nel percorso per giungere a quella che viene anche chiamata “giustizia rigenerativa”? Dei tentativi sono stati attuati soprattutto per quanto riguarda i minori e negli anni passati se ne è parlato per i pentiti di mafia, per i protagonisti degli anni del terrorismo ed analoghe situazioni. Il vero problema rimane quello della sua applicazione ai detenuti comuni. Bisogna riuscire ad avviare percorsi di giustizia riparativa con chi ha pendenze per reati di una certa gravità ma non gravissimi anche con la collaborazione di chi è stato vittima di questi reati ed i loro familiari. Si tratta di un tema davvero importante su cui lavorare e su cui far crescere una cultura anche fra gli stessi detenuti e fra quanti in carcere si trovano ad operare. Dall’inizio di questo 2024, i suicidi fra i detenuti hanno superato la sessantina. Cosa fare per arginare un fenomeno dai contorni sempre più drammatici? È vero: ci troviamo dinanzi ad una situazione davvero drammatica tenuto conto che al numero dei suicidi va aggiunto quello dei tentativi di suicidio. Qui si apre tutto il tema della fragilità psicologica e psichiatrica cui facevo riferimento anche all’inizio di questa intervista. I suicidi avvengono spesso all’inizio dell’esperienza detentiva che se è traumatica per chiunque varchi il portone del carcere lo è, se possibile ancora di più per quegli stranieri che magari comprendono a malapena qualche parola di italiano, sono assistiti da un avvocato d’ufficio ed hanno difficoltà ad esprimersi. Ma ci si uccide spesso anche alla fine della pena perché il reinserimento spaventa non essendo così semplice come magari “fuori” si pensa tenuto conto che il mondo del carcere anche “protegge” il detenuto. Un aiuto psicologico diventa fondamentale per prepararlo al “dopo”. Ecco, allora, ancora una volta l’importanza delle misure alternative con, però, un appunto: non si può pensare di trasformare le attuali Comunità di recupero in “prigioni private” scaricando sul mondo del no profit e del volontariato una responsabilità che grava in primo luogo sullo Stato. Morte del Garante D’Ettore: negato l’ultimo saluto al fratello detenuto di Valentina Stella Il Dubbio, 30 agosto 2024 L’uomo aveva chiesto di vedere la salma del fratello e di poter consolare la madre, ma il magistrato non ha risposto. È davvero paradossale che il presidente del Collegio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Felice Maurizio D’Ettore, non abbia potuto ricevere l’ultimo saluto da suo fratello Pasquale, detenuto a Catanzaro. Solo ieri è emersa questa assurda storia, confermata dall’avvocato Eugenio Minniti. D’Ettore è scomparso prematuramente a 64 anni per un aneurisma aortico il 22 agosto a Locri, dove si era recato in visita all’anziana madre. La sera del 23 agosto, l’avvocato di Pasquale D’Ettore ha presentato un’istanza per permettergli di visitare la madre, sconvolta dal dolore, e per vedere la salma del fratello in ospedale. Rispetto a quanto riportato da alcuni organi di stampa, la richiesta non includeva la partecipazione ai funerali, che si sono svolti il 26 agosto, alla presenza del ministro Nordio, dei sottosegretari Ferro e Andrea Delmastro, del responsabile dell’organizzazione di Fratelli d’Italia Donzelli, nonché di assessori regionali e sindaci della zona. “Nell’interesse di Pasquale D’Ettore - si legge nell’istanza, che il Dubbio ha avuto modo di visionare - detenuto presso la Casa circondariale di Catanzaro, con fine pena il prossimo 5 ottobre 2024 (previa concessione dell’ultimo periodo di liberazione anticipata), si chiede che venga autorizzato, anche con scorta, a recarsi a Locri (RC) per dare necessario e familiare conforto alla propria madre, in precarie condizioni di salute e assolutamente affranta per la perdita del proprio figlio”. Inoltre, si chiedeva “di essere parimenti autorizzato, nella medesima occasione, a rendere omaggio alla salma del proprio fratello, esposta presso la sala mortuaria dell’ospedale civile di Locri, in attesa delle esequie funebri. Si confida nell’accoglimento delle istanze, trattandosi di atto conforme al senso di umanità e giustizia, in assenza di particolari ragioni ostative alla concessione delle autorizzazioni richieste”. Tuttavia, il magistrato di sorveglianza non ha mai risposto e Pasquale non ha potuto dare l’ultimo saluto al fratello. “Siamo in presenza - dichiara l’avvocato Minniti - di una condotta assolutamente negligente da parte del tribunale di sorveglianza, trattandosi della richiesta di un permesso di necessità per il decesso di uno stretto familiare avanzata da un detenuto comune”. Pasquale D’Ettore sta scontando una pena per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, a seguito di un’inchiesta della procura antimafia di Reggio Calabria. “Il mio assistito è stato arrestato illegittimamente lo scorso 23 dicembre per un reato commesso nel 2003, che allora non rientrava nel catalogo del 4 bis, e quindi non era reato ostativo, essendolo diventato dopo il 2015. Tant’è che il residuo di pena da espiare andava sospeso. Difatti, il 24 dicembre siamo stati tutto il giorno nel mio studio per predisporre un’istanza di scarcerazione, rigettata dalla procura generale di Reggio Calabria ma accolta dalla Corte d’Appello in aprile, che ha rilevato che il reato per cui era stato arrestato non fosse ostativo. È stato condannato a cinque anni di carcere. Ma avendo già scontato circa quattro anni in misura cautelare per altre accuse poi rivelatesi infondate, uscirà ad ottobre”. Qualche giorno prima della sua morte, Minniti aveva cenato con il Garante D’Ettore, di cui era amico e consulente: “Quella sera stavamo discutendo della sua intenzione di predisporre un progetto di legge per la concessione dell’indulto triennale, che avrebbe in parte risolto la drammaticità che stanno vivendo le nostre carceri. Questo dimostra la sua grande sensibilità per la questione, in quanto riteneva che lo stato di estrema criticità carceraria potesse risolversi esclusivamente con un concreto provvedimento clemenziale”. Invece, conclude l’avvocato, “in questo momento di grande emergenza appare assolutamente paradossale che non solo non venga concesso il permesso di necessità per motivi familiari a un detenuto comune incensurato prima di questa condanna, ma addirittura venga mantenuto in carcere un soggetto recluso per un reato comune a un mese dalla scarcerazione. Abbiamo presentato un’istanza di detenzione domiciliare a giugno e siamo ancora in attesa della fissazione dell’udienza. Purtroppo ci sono gravi disfunzioni nei tribunali di sorveglianza e una politica inadeguata a risolvere in modo strutturato e costruttivo i problemi del sistema e dell’esecuzione penale”. Non è la prima volta che accade una cosa del genere. A giugno 2022, un giovane detenuto nel carcere di Cosenza, e che dopo sei mesi avrebbe terminato di scontare la pena, non ricevette alcuna risposta da parte del giudice di sorveglianza alla sua richiesta di permesso per partecipare al funerale della madre. Inoltre, allo stesso giovane era stata negata in precedenza la possibilità di fare visita alla donna, affetta da un tumore. A febbraio dello stesso anno, un recluso nel carcere romano di Rebibbia chiese di poter partecipare ai funerali della nonna, l’unico affetto che gli era rimasto, ovviamente scortato come prevede la legge, ma la magistrata di sorveglianza gli negò l’autorizzazione poiché “il ricordo della nonna - scrisse - può essere coltivato con la preghiera e il raccoglimento intimo”. Nel 2012, un tredicenne morì dopo essere stato investito da un’auto pirata. Al funerale fu negata la presenza al padre e al fratello della vittima, per motivi di ordine pubblico. Nel 2019, a un 40enne siciliano che scontava ai domiciliari una pena a due anni per 70 grammi di marijuana, fu impedito di partecipare al funerale della compagna. Poté solo sfiorare la foto della sua donna sulla lapide, perché l’autorizzazione dell’ufficio del Tribunale di Sorveglianza arrivò solo dopo il funerale. Nel 2015, un uomo detenuto in attesa di giudizio nella sezione di Alta Sicurezza di Rebibbia Nuovo Complesso aveva chiesto un permesso di necessità con scorta per visitare il padre gravemente malato, ma per la Corte d’Appello di Napoli non sussisteva il requisito dell’imminente pericolo di vita. Qualche giorno dopo, però, l’uomo morì. Inoltre, l’uomo non aveva potuto presenziare alle esequie o vedere la salma prima della cremazione, poiché un’altra richiesta alla Corte d’Appello era rimasta senza risposta. Quando il carcere è un’impresa (e conviene) di Giulia Poetto La Stampa, 30 agosto 2024 Non una missione, ma una scelta strategica che ha ricadute positive per tutti: questo proverà a spiegare a Cuneo la seconda edizione di “Art. 27 Expo” che mette in vetrina l’economia generata dai penitenziari italiani. Fare impresa in carcere non solo abbatte il rischio di recidiva, ma conviene. Alle imprese, ai detenuti, alla società civile che, ancora troppo spesso, a quello che succede dentro non si interessa se non per l’indignazione - tanto automatica, quanto effimera - per i disordini e le rivolte in carcere. Che fare impresa in carcere non sia una missione, ma una scelta strategica che ha ricadute positive per tutti i suoi attori, proverà a spiegarlo in via Roma a Cuneo da venerdì 6 a domenica 8 settembre la seconda edizione di Art. 27 Expo, la manifestazione fieristica per la vendita e il racconto delle produzioni carcerarie promossa dalla cooperativa sociale cuneese Panaté Glievitati, che realizza prodotti da forno, in carcere e non, con l’impiego di detenuti. Dopo la prima edizione “in versione beta” a fine ottobre dell’anno scorso, fondamentale per gettare le basi e instillare nei vari attori il desiderio e la necessità di confrontarsi e di fare sistema, adesso la manifestazione fa sul serio, e si pone come un unicum a livello nazionale. Il fine è uno - restituire le buone pratiche di economia carceraria e l’impatto che il lavoro ha non solo sul presente e sul futuro dei carcerati, ma anche sulle imprese che lo promuovono e su chi è là fuori, che dei circa 61 mila là dentro si deve curare -, i mezzi sono tanti. Il più evidente è portare nel cuore nel capoluogo venticinque realtà dell’economia carceraria provenienti da sette regioni - Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Lazio, Puglia, Sicilia - a raccontare la loro interpretazione di quella rieducazione del condannato di cui parla l’articolo 27 della Costituzione, farsi toccare, assaggiare. A leggere i loro nomi, l’ironia è la via intrapresa per rendere attrattivo un mondo repulsivo. Dalle variazioni sul tema del “made in”, ai concetti di fuga e flagranza di reato, fino alla “Prison Beer” prodotta a Busto Arsizio (Varese), con quel “Prison B” che ti sbatte dietro le sbarre di Fox River. “La parte fieristica permetterà al pubblico di conoscere da vicino cosa significa lavorare in carcere per i vari protagonisti della filiera - spiega Davide Danni, presidente della cooperativa Panaté Glievitati -. Il lavoro in carcere non è per tutti, ma per molti è uno straordinario strumento di riscatto, di recupero di dignità, di proiezione oltre la detenzione”. Una finestra sul dopo che permette di assaporare il fuori a piccole dosi: nei giorni dell’evento in prima linea ci saranno anche alcuni detenuti collaboratori di Panaté. GliEvitati. Per squarciare il velo di Maya non solo l’area espositiva, ma anche il potere dell’arte - il teatro e l’anteprima di un podcast con un’installazione audio - e appuntamenti che faranno il punto sulle politiche carcerarie, come quello di venerdì 6 settembre alle 11, con il responsabile della redazione cuneese de La Stampa Massimo Mathis a moderare gli interventi di alcuni protagonisti della lotta alla recidiva. Giovedì 5 alle 17 il prologo sarà una tavola rotonda a tema economia carceraria nella casa circondariale di Cuneo. “Lo scorso ottobre questo confronto era stato teatro di promesse poi mantenute. Questo sarà un ulteriore momento per fare rete e generare opportunità”. Se in Art. 27 Expo soggetti quali la Camera di commercio di Cuneo, Impact Intesa Sanpaolo e Confcooperative Cuneo hanno creduto fortemente, è - anche - da dentro che si piccona duro per abbattere il muro: “Senza l’entusiasmo di persone quali il direttore della casa circondariale di Cuneo Domenico Minervini e l’educatore Gaetano Pessolano nulla di questo sarebbe possibile”, conclude Danni. Beniamino Zuncheddu, 33 anni in carcere da innocente: “Ho perdonato chi mi ha incastrato” di Gianfranco Locci La Stampa, 30 agosto 2024 Il 60enne sardo assolto a gennaio dopo la revisione del processo: “Oggi mi godo i piccoli momenti di vita ritrovata. Che emozione l’incontro col Papa. I risarcimenti? Tempi lunghissimi, lo Stato mi ha lasciato senza niente”. Beniamino Zuncheddu era stato condannato all’ergastolo con l’accusa di essere l’autore della “strage di Sinnai”, dove vennero assassinati tre pastori nel gennaio 1991. “Quanto mi è mancata una birra con gli amici”. L’umore è buono, l’affetto dei compaesani fa miracoli. “La cosa bellissima è che tutti sanno chi sono e mi vogliono bene, mentre io non conosco più nessuno”. D’altronde, Beniamino Zuncheddu è mancato dalla sua Burcei per 33 anni. Un’eternità. Condannato all’ergastolo con l’accusa di essere l’autore della “strage di Sinnai”, dove vennero assassinati tre pastori nel gennaio 1991, quest’uomo oggi 60enne è stato assolto lo scorso 26 gennaio per non aver commesso il fatto, dai giudici della Corte d’Appello di Roma, al termine del processo di revisione. Beniamino, ci racconta le sue giornate da uomo libero? “Sto facendo la vita del pensionato. Riprendere a lavorare alla mia età non è facile. Credo di meritare questo riposo. Devo ancora decidere il mio futuro. Le giornate sono sempre uguali, semplici: faccio qualche giro con gli amici, sto in famiglia”. Cos’è la gioia, per lei? “Stare in famiglia. Condividere anche le piccolissime cose, come un pranzo. Tutte questo mi è mancato, purtroppo”. La normalità ritrovata è anche una birra con gli amici, al bar? “Senz’altro, una bella “bionda” ghiacciata non deve mai mancare”. Burcei le ha mostrato sempre vicinanza: come ha ritrovato il suo paese? Lo immaginava così? “Burcei è cambiato tantissimo. Quando mi hanno preso era un paese diverso, oggi vedo tanti giovani che all’epoca del mio arresto non erano neppure nati. La cosa buffa è che io non conosco loro ma loro sanno tutto di me. Comunque, tutti mi vogliono bene, mi dimostrano affetto, stima e vicinanza. Questa è la cosa più bella”. Nei giorni scorsi la visita in Vaticano, l’incontro con Papa Francesco. Cosa vi siete detti? “È stata una giornata molto emozionante. Il Santo Padre si è ricordato di me, del nostro primo incontro avvenuto in Sardegna nel 2013. Poi, ci siamo stretti la mano e gli ho chiesto di pregare tanto per noi”. Quali sono i suoi obiettivi, nel breve periodo? Riprendere a lavorare o prima ha altre priorità? “Non ho ancora preso decisioni. Di una cosa, però, sono certo: prima di tutto mi voglio curare bene”. L’accesso alle cure, in carcere, spesso non era garantito o lo era con molte difficoltà. Ecco, prima vuole badare al suo fisico e alla sua mente? “Prima viene la salute, poi tutto il resto”. “Io sono innocente”. È il libro scritto insieme all’avvocato Mauro Trogu. Cosa rappresenta per lei quest’uomo, che ha lottato con così tanta forza per la sua libertà? “Mauro Trogu è stato un uomo forte. Mi ha aiutato tantissimo, ha letto tutte le carte. Per me è come un fratello, oramai. È uno di famiglia, non è solo un legale. È parte integrante della famiglia Zuncheddu”. Con il suo libro vuole denunciare anche la difficile condizione delle carceri italiane? “Certo, anche perché le criticità sono ovunque. Nella mia lunga detenzione ho cambiato tre strutture e ovunque ho riscontrato dei problemi. Le carceri italiane stanno esplodendo, è stato sempre così. Se parliamo di sovraffollamento, poi, posso dire che ho trascorso dieci anni e quattro mesi della mia esistenza in una condizione disumana”. Qual è il suo sogno? “Mi auguro solo di guarire. Sono stato sfruttato dallo Stato, che mi ha lasciato così, senza niente”. Spera nel risarcimento? “Quando, però? I loro tempi sono lunghissimi, mentre noi cittadini ogni giorno affrontiamo bollette e spese varie. Se qualcosa deve arrivare, almeno che arrivi quando serve”. Nella sua nuova vita c’è spazio per la parola “perdono”? “Sì, ho già perdonato la persona che a suo tempo mi aveva accusato. Poverino, quell’uomo è una vittima, proprio come me”. Lo strano caso dell’ex garantista Nordio di Massimo Donini L’Unità, 30 agosto 2024 Vorrei capire perché è delitto omettere un atto dell’ufficio che vada compiuto senza ritardo in alcuni settori della p.a., giustizia, igiene e sanità, sicurezza pubblica, ordine pubblico (art. 328, co.1, c.p.). Omettere senza volontà di recar danno, anzi anche se un danno non c’è. Omettere in modo anche non intenzionale o finalizzato. E perché, invece, se si costruisce un atto della p.a., un provvedimento, allo scopo di danneggiare un terzo o di favorirlo illecitamente e si cagiona in tal modo intenzionalmente un danno, questo è penalmente lecito, dopo l’abrogazione dell’abuso. Attenzione: se chi omette vuole danneggiare un privato o un terzo è già esente da pena, ma gli “conviene” che sia così, perché ciò rientrerebbe nell’area protetta dell’abuso d’ufficio. Bisogna omettere dannosamente per essere liberi da vincoli penali. Invece, se si omette solo per disobbedienza, scatta il delitto. Ecco, ho provato a capire la logica di Babbo Nordio (lo immagino qui con riguardo al suo tratto quasi paterno, legato alla esperienza e competenza nel settore), che da anni meditava la sua rivoluzione della giustizia a favore dei sindaci, ma poi anche dei colletti bianchi così spaventosamente turbati da misure cautelari avventate, processi inutili e pubblici ministeri deviati. E mi sono convinto che capire questa logica è importante, perché va ben oltre la portata di questi reati “minori” dei pubblici ufficiali. Una “rivoluzione” meditata da anni a favore di sindaci e della p.a. ma, dall’altra parte, maggiori pene create ad hoc con riforme d’urgenza per altre tipologie di attori, avverse al governo. Le ha meditate per anni l’abrogazione e le sue conseguenze. È un esperto davvero tetragono a ogni critica. Proviamo per questo a dare al suo posto le risposte che lui non ci ha mai dato, se non in esternazioni saltuarie, puntiformi, disorganiche. Non c’è nessuna contraddizione in questo assetto normativo. È tutto perfettamente coerente. Gli abusi d’ufficio sono depenalizzati non perché leciti, ma per impedire indagini dannose e ingiuste distorte dalle Procure. È una ragione politica, non di giustizia sostanziale e retributiva. Le omissioni, invece, offendono solo gli interessi della pubblica amministrazione, e basta che li mettano in pericolo. Ci sono solo interessi pubblici in gioco. Atti da compiere senza ritardo. È un’area differente di tutela. Potrebbe essere depenalizzata anch’essa, ma se rimane, conserva una sua logica indipendente. Eppure, incalza la ragione, come è possibile che convenga omettere in modo pregiudizievole per essere liberi dal reato di omissione? Infatti, l’approfondimento lesivo della condotta la fa entrare in un’area protetta! È come sanzionare penalmente lo stato di ebbrezza alla guida, per poi essere inviati davanti al giudice civile se si dovesse cagionare un incidente mortale. Babbo Nordio potrebbe osservare che non è vero, perché se da una omissione volontaria come quelle dell’art.328 c.p. deriva come conseguenza non voluta la morte di un uomo, si configura il reato di cui all’art.586 c.p. (morte o lesione come conseguenza di altro delitto). Dunque, la tutela della vita non manca mai. È la tutela dei diritti dei cittadini che vengono coinvolti da provvedimenti della p.a. che è depotenziata, semmai. Solo questa. Tutto chiarito dunque? Non ci pare. La tutela della vita ci sarebbe comunque, con il reato di omicidio colposo. È la discontinuità interna tra la fattispecie maggiore abrogata e quella minore rimasta a rendere quest’ultima impossibile: un reato che se cresce in offensività diventa lecito non s’era mai visto. Anziché in termini lesivi, andrà interpretato come una contravvenzione? Per capire meglio questa filosofia della discontinuità nella tutela bisogna entrare nel mondo di Babbo Nordio. Amministratori pubblici e privati vanno liberati dal peso e dall’angoscia di indagini, salvo che siano in gioco reati davvero pesanti. L’omissione è reato minore, che non fa paura e non è strumentalizzabile a fini di indagine. Diciamo che ci sono contraddizioni secondarie nel disegno di fondo. Questo disegno, invece, intende offrire una giustizia dal volto umano per gli amministratori non corrotti. Dov’è che si smarriscono le preoccupazioni nella tutela? È sul versante di diritti dei cittadini, di quelli vessati e discriminati, oppure delle disonestà del soggetto pubblico, che usi l’apparato per interessi privati. Ma qui o subentrano concussioni, peculati o altre fattispecie maggiori, oppure c’è uno sfoltimento e il penale si ritira. Non è oggetto della politica di governo occuparsi dei diritti dei cittadini coinvolti in queste condotte abusive. C’è una logica “liberale” in questo. È liberale chi lascia ai privati l’auto-protezione dei loro interessi, a meno che non siano del tutto fondamentali. Nell’impresa questa logica può manifestarsi in chiave riduttiva in modo più marcato, perché non sono in gioco interessi pubblici di tipo preventivo e organizzativo. Per esempio: si possono diminuire tutte le fattispecie di pericolo, proprie del diritto penale finanziario o dei mercati mobiliari, che non siano dannose. Su questi versanti anche la separazione delle carriere dovrebbe dare risultati di rilievo, impedendo alla radice l’abuso della costruzione di macchine del fango, distruttive di professioni e realtà economiche sane, e della distorsione delle attività produttive con finalità di controllo dell’etica pubblica attraverso il diritto penale. Abbiamo finito qui di descrivere il lato promozionale del programma penale di Babbo Nordio. Comincia ora quello più problematico. Il fatto è che c’è un penale che riguarda altre classi sociali, altri tipi d’autore, sui quali il governo imperversa con riforme realizzate o progettate, quasi tutte estemporanee, portate avanti con decretazioni d’urgenza: ma non sono iniziative del ministro della Giustizia. C’è tutta una politica penale che è del governo, non del Ministero. Una divaricazione formale. Il decreto anti-rave ha effetti pubblicitari di rilievo (la norma più efficace in due anni, non perché applicata, ma per l’effetto preventivo del fenomeno), ma segue una logica repressiva; il decreto Cutro ha introdotto una pena elevatissima per chi trasporta illegalmente migranti in modo pericoloso e cagionando involontariamente la morte anche di un solo trasportato; il decreto Caivano ha accresciuto le ipotesi di carcere e di Daspo per i minori; dal decreto “Giustizia”, apprendiamo che chi, indagato per certi reati, non collabora, non ottiene neanche la possibilità di accedere a percorsi di giustizia riparativa; la sordità verso chi è in carcere e chiede si allarghino gli spazi di liberazione anticipata si misura quotidianamente; la visione punitivista universale di chi realizza la maternità surrogata, a differenza di chi la sfrutta è un fiore all’occhiello della giustizia meloniana (al momento) progettata. Ecco qui il dato rilevante. Tutte leggi manifesto. Sul carcere no, l’indirizzo è altro, perché lo slogan è che la pena si deve scontare, dalla prigione non si esce. Ci sono tante micronorme relative al sistema penitenziario. Nessuna, finora, davvero risolutiva. Piccole riforme. Manca il respiro di una visione o di una volontà di governo di affrontare un problema enorme per una cultura di destra. Il Ministro sostiene genericamente i provvedimenti populisti di destra, che non esprimono la sua politica. Quale è dunque la sua politica? Quella reale e non dichiarata dipende certo dal governo e non dal Ministro. Al momento sembra molto orientata al processo. Separazione delle carriere, intercettazioni, misure cautelari. Nordio vola alto, anche troppo, sopra il diritto sostanziale: è nel processo e nell’ordinamento giudiziario che si annida il male del sistema. Si realizzano mini riforme parcellizzate. L’interrogatorio che precede l’applicazione delle misure cautelari, per esempio: una grande innovazione contro le accuse segrete, le indagini segrete, le prove segrete. Il Ministro si è fatto garante del regolamento dei conti in atto tra politica e magistratura. L’abrogazione dell’abuso di ufficio, che sul piano del diritto sostanziale è inconsistente, va letta tutta in questa prospettiva “istruttoriamente orientata”. Perché, contestando l’associazione per delinquere, si potevano svolgere intercettazioni anche per l’abuso d’ufficio, altrimenti inibite per limiti di pena della fattispecie. La riforma del traffico di influenze segue la stessa logica. La pretesa dimostrativa che l’influencer abbia finalità economiche e di promozione della commissione di reati da parte di un p.u. con vantaggio indebito, nel contesto di depenalizzazione dell’abuso (tra i possibili reati scopo), riduce il traffico di influenze a poco più di una norma ancillare a indagini sulla corruzione. La finalità processuale resta evidente: il garantismo della fattispecie (art. 346bis c.p.), molto più tassativa di quella sostituita, ora con la definizione della “mediazione illecita”, è subordinato allo scopo di limitare le indagini, contenerne le potenzialità accertative, non di costruire una norma con un ubi consistam sostanziale. Ecco, dunque, che - impregiudicato il giudizio sull’indebolimento di alcune indagini - la chiave di lettura diviene piuttosto deludente per il penalista, per il diritto sostanziale. Il tratto che ne emerge è un garantismo processuale, oppure un garantismo dei potenti. Sennonché lo stesso garantismo processuale invocato dovrebbe proiettarsi sugli accertamenti per rapina o per immigrazione, per spaccio o per violenza sessuale? Non pare. Le riforme processuali o gli scopi processuali che abbiamo individuato non riguardano i fatti-reati della maggior parte dei tipi di autore che finiscono in carcere. La selezione di classe dei detenuti ci restituisce un dato per cui solo l’1% dei reati economici è rappresentato tra la popolazione carceraria. Invece, a parte la separazione delle carriere che non ha colore in termini di indagini, ma semmai potrà averne sui criteri di giudizio, le riforme processuali invocate impattano o su qualche indagine di criminalità organizzata, o su processi di colletti bianchi e amministratori. Apparentemente potrebbero riguardare ogni imputato: ma questa è una visione formalistica. Il garantismo senza aggettivi, né di destra, né di sinistra, appartiene a una visione costituzionale alta, ma non esprime la politica di governo. E Babbo Nordio lo sa. Sembra di trovarsi dentro a un quadro di George Grosz, interprete della borghesia opulenta e decadente al tempo di Weimar. È il dominio della società borghese in doppio petto che assicura una giustizia formalmente uguale e miratamente disuguale per certe classi. La normalizzazione della magistratura si inquadra nel disegno. Che ragionamenti vorrebbe fare un giudice di merito sul reato di omissione o rifiuto di atti di ufficio? Che lo applichi senza vani raffronti con ciò che la politica ha abrogato. Il giudice di merito non fa interpretazioni conformi, le lascia a Corte costituzionale e alle sezioni Unite, che le rivendicano autoritativamente. Dai vertici in giù non si elabora il diritto, ma si applica la legge. Ecco questo è il messaggio finale dei tempi di Babbo Nordio. Certezza e uguaglianza, anche per i disuguali. Carroccio in affanno sulla giustizia. Dossier tutti in mano a FdI e azzurri di Errico Novi Il Dubbio, 30 agosto 2024 In ribasso le politiche securitarie, resta solo la riforma della magistratura, evocata spesso da Salvini come “vendetta”. Ma la bandiera sulle “carriere” è di Tajani. C’è un protagonismo di Forza Italia. C’è la forza - e il potere - di Giorgia Meloni. E poi c’è la Lega. Sempre più in rincorsa e in affanno, rispetto agli alleati. Vale per tutti gli ambiti dell’agenda politica, e la fatica nel parare gli attacchi sull’unico dossier immediatamente riconducibile al Carroccio, l’autonomia, lo conferma. Naturalmente l’affanno e lo svantaggio rispetto ai partner di governo riguarda anche, e in modo sempre più chiaro, la giustizia. Sui temi principali della politica giudiziaria, dalla separazione delle carriere al carcere, e alla riforma penale appena entrata in vigore, incluso l’addio all’abuso d’ufficio, il partito di Matteo Salvini non pare mai davvero protagonista. Nella geografia della maggioranza dovrebbe rivestire il ruolo di forza intransigente e securitaria. Ma è una parte piuttosto debole, marginale, in ribasso, sia nella dialettica sul penale che rispetto alla riforma della magistratura. È complicato, per la Lega, rivendicare il ruolo di guardiani del rigore anche considerato che solo due anni fa aveva meritoriamente sostenuto i referendum garantisti del Partito radicale, poi risucchiati nel solito buco nero del quorum irraggiungibile. Insomma: l’anima securitaria della Lega c’è, è indiscutibile, si manifesta in modo discontinuo ma netto su materie come il carcere - basti pensare che la chiusura a qualsiasi sconto di pena è venuta innanzitutto dal sottosegretario alla Giustizia del Carroccio, Andrea Ostellari -, ma non è che si tratti di una bandiera in grado di assicurare a Salvini, come forse in passato, chissà quale popolarità. Almeno in una parte dello stesso elettorato di destra, l’idea che non si possa lasciar morire la gente nelle prigioni, tra suicidi e assistenza sanitaria inadeguata, si fa sempre più strada. Non foss’altro perché la matrice cattolica, postdemocristiana, popolare e a volte clericale, fra tifosi e simpatizzanti del centrodestra, non si è ancora del tutto estinta. A ben guardare, a rileggere le frasi più significative pronunciate negli ultimi mesi o anche nell’ultimo anno da Matteo Salvini a proposito di processi e magistrati, lo slogan davvero ricorrente è “serve una riforma della giustizia”. Quasi sempre successivo a iniziative, o a vicende poco commendevoli, provenienti dall’ordine togato. L’episodio più “caratterizzante” del rapporto contrastato fra la Lega e la magistratura resta la vicenda della giudice catanese Iolanda Apostolico, bersagliata da Salvini in prima persona con l’enfasi data sui social alle immagini che ritraevano la magistrata tra la folla di manifestanti in occasione del “sequestro” della nave Diciotti. Da lì, Salvini ha preso spunto per insistere sulla necessità di spazzar via la politicizzazione e la presunta faziosità di pm e giudici. Idea che ha trovato nella riforma di Nordio sulla separazione delle carriere il solo possibile corrispettivo ordinamentale. C’è però un dettaglio: la separazione delle carriere è la bandiera di Forza Italia. Il protagonismo, in quell’ambito, è di Antonio Tajani e degli azzurri. Non di Salvini. Che così si ritrova a non avere un personale obiettivo, nel campo della giustizia: l’unico che poteva coltivare, è fatalmente intestato al partito moderato e garantista della coalizione. In che modo la Lega possa provare a riacquisire una propria identità, in ambito giudiziario, è difficile immaginarlo. È difficile pensare a una terza via tra il rigore nel campo dell’esecuzione penale già rivendicato in prima battuta da Fratelli d’Italia e il garantismo di Forza Italia. Non che la giustizia debba per forza essere, oggi, un veicolo preferenziale, nella ricerca del consenso. Ma la difficoltà nell’individuare un proprio spazio in un settore comunque così importante è, per Salvini, il sintomo di un più generale affanno, che la crescita di Forza Italia può solo aggravare. Violenza sulle donne, i 10 anni della Convenzione di Istanbul (e della sua mancata applicazione) di Micol Maccario Il Domani, 30 agosto 2024 Il più importante strumento internazionale, giuridicamente vincolante, per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere è entrato in vigore ad agosto 2014: ecco cosa prevede e chi l’ha sottoscritta (in alcuni casi, senza poi ratificarla). Focus sull’Italia: tra poche case rifugio, centri antiviolenza sotto-finanziati, reddito di libertà insufficiente e mancanza di educazione sessuo-affettiva nelle scuole, le criticità sono ancora moltissime. Dieci anni fa entrava in vigore il più importante strumento internazionale per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne: la Convenzione di Istanbul. È stata adottata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011 e, dopo essere stata ratificata da dieci stati, è diventata ufficiale il primo agosto 2014. Prima c’erano state altre iniziative che si erano poste obiettivi simili, come la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (1979) e la Raccomandazione del comitato dei ministri agli stati membri sulla protezione delle donne dalla violenza (2002). Con la Convenzione di Istanbul però si sono compiuti passi ulteriori: è uno strumento giuridicamente vincolante in cui per la prima volta si stabilisce che la violenza di genere è una violazione dei diritti umani e che è un fenomeno strutturale derivato da secoli di dominazione maschile. A dieci anni dalla sua entrata in vigore, però, in Italia non è ancora applicata correttamente in tutti gli ambiti. La Convenzione intende “proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica”. I punti chiave si possono riassumere in quelle che vengono chiamate le “quattro p”: prevenzione, protezione, punizione e politiche integrate. Negli 81 articoli che la compongono si regolano vari aspetti del fenomeno, dai servizi di protezione per le vittime (case rifugio, centri antiviolenza, linee telefoniche, consulenza psicologica e assistenza medica) alla necessità di includere nei programmi scolastici insegnamenti che riguardano l’uguaglianza di genere e i ruoli di genere non stereotipati. Comprende anche la necessità di compiere una raccolta dati puntuale e periodica, la tutela nei confronti dei bambini, oltre che sanzioni e misure repressive. Infine, introduce una verifica annuale della situazione in tutti i paesi da parte del Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Grevio). Chi c’è e chi no - La Turchia è stata la prima a firmare la Convenzione, ma nel 2021 è uscita dall’accordo. Per il governo di Ankara rappresentava una minaccia ai valori della famiglia tradizionale e incoraggiava il divorzio e l’omosessualità. Anche Polonia, Ungheria, Bulgaria e Repubblica Ceca si sono opposte, o mettendola in discussione o non ratificandola. Un documento del Parlamento europeo elenca le motivazioni che hanno alimentato il dibattito in quegli stati: “La definizione e l’uso del termine “genere” nella convenzione; la disposizione che obbliga gli stati a introdurre l’insegnamento di “ruoli di genere non stereotipati” a tutti i livelli di istruzione; un presunto pregiudizio nei confronti degli uomini nonché la minaccia che questa porrebbe alla sovranità dello stato”. Negli anni i movimenti antifemministi, ultracattolici, antiabortisti e contro i diritti della comunità Lgbt+ si sono opposti all’accordo, facendolo diventare - ha scritto Politico - “una lotta per procura per le più grandi guerre culturali tra l’Europa orientale e occidentale”. L’Unione europea - Il primo ottobre 2023 l’Unione europea ha ratificato la Convenzione. Il procedimento per raggiungere questo risultato era iniziato quasi dieci anni prima, il 25 febbraio 2014, ma non è stato immediato proprio a causa dell’opposizione di alcuni paesi. La situazione si è sbloccata solo tre anni fa con una sentenza della Corte di giustizia che ha permesso di procedere a maggioranza qualificata e non all’unanimità. È stato un segnale forte, ma per garantire “la piena protezione per le donne, gli stati che non hanno ratificato la Convenzione dovrebbero farlo” perché senza quell’ultimo passaggio sono vincolati solo ad alcuni obblighi. L’applicazione in Italia - “È sicuramente uno strumento utile perché ha stabilito dei parametri. È come se desse una direzione, indicando gli step, i criteri e gli obiettivi per il contrasto della violenza maschile contro le donne. Su alcuni aspetti è stato applicato, ma c’è ancora tanta strada da fare”, dice Elena Biaggioni, avvocata e vicepresidente di D.i.Re - Donne in Rete contro la violenza. I progressi non sono avanzati alla stessa velocità e con la stessa intensità in tutte le “quattro p”. Tanto resta da fare, ad esempio, in ambito di prevenzione. In Italia, secondo il rapporto delle “Italian women’s NGOs” coordinato da D.i.Re, “negli ultimi dieci anni solo il 13 per cento dei fondi stanziati dalla “legge sul femminicidio” (119/2013) è stato utilizzato per azioni di prevenzione”. Con il governo Meloni, inoltre, i finanziamenti destinati alla prevenzione primaria sono stati ridotti del 70 per cento (da oltre 17 milioni nel 2022 agli attuali 5 milioni assegnati per il 2023). Nella Convenzione si menziona la necessità di includere nei programmi scolastici “materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, la violenza contro le donne basata sul genere”. Ma, al momento, i progetti attivi sono frutto di iniziative spontanee che partono da singoli insegnanti o singoli istituti, non c’è una politica educativa applicata ovunque nel paese. L’Italia è uno degli ultimi stati membri a non prevedere l’educazione sessuo-affettiva, i programmi scolastici si concentrano unicamente sugli aspetti sanitari e biologici dell’educazione sessuale. Non c’è un approccio incentrato sul consenso, sulle relazioni, sulla pianificazione familiare. Centri antiviolenza - Il numero dei centri antiviolenza e delle case rifugio è aumentato notevolmente negli ultimi anni, così come sono aumentati i fondi stanziati. Tra il 2013 e il 2023 il budget dei centri antiviolenza è cresciuto del 334 per cento, ma rimangono comunque realtà sotto-finanziate. “Bisogna continuare a investire rendendo quei finanziamenti strutturali per poter intervenire sul lungo periodo”, continua Biaggioni. Un altro problema riguarda la diffusione sul territorio. I centri, infatti, non sono localizzati in modo omogeneo in tutta la penisola, “ci sono alcune regioni in cui la distribuzione è capillare e altre in cui sono pochissimi”. Reddito di libertà - Secondo il bilancio delle associazioni del settore, “sono stati compiuti progressi significativi nella promozione del rafforzamento socioeconomico delle donne”. In particolare, il reddito di libertà per le vittime di violenza è stato reso strutturale dopo la sperimentazione del 2020. Anche in questo caso però le risorse non sono ancora sufficienti. Secondo gli ultimi dati disponibili, oltre 6mila donne hanno richiesto il sussidio, ma sono state accolte appena 2.772 domande. E anche per le beneficiarie il reddito spesso risulta troppo basso rispetto alle spese da sostenere (oltre a non tenere conto del variare del costo della vita delle differenti aree italiane). I dati - Per inquadrare, conoscere, affrontare e fare un bilancio dei fenomeni è necessario quantificarli. “Nonostante ci sia stata un’accelerazione, mancano ancora alcuni dati, come quelli delle donne con disabilità”, dice l’avvocata Biaggioni. Gli ultimi dati dell’Istat sul tema risalgono a ormai dieci anni fa ed evidenziano che tra le donne con disabilità il 36 per cento aveva subito una qualche forma di violenza e il dieci per cento era stata violentata. Inoltre, spesso molte di loro - in particolare le donne con disabilità sensoriali - non riescono ad accedere ai servizi di sostegno perché non sono previsti linguaggi e strumenti adeguati (lingua dei segni, sottotitoli, descrizioni audio, formato Braille…). Mancanza di cooperazione - Per contrastare la violenza maschile contro le donne è fondamentale che i vari organismi - magistratura, pubblici ministeri, forze di polizia, autorità locali e regionali, ong e altri enti e organizzazioni pertinenti - lavorino in modo sinergico. In Italia però, si legge nel report coordinato da D.i.Re, “non esistono meccanismi standardizzati e adeguati che prevedano una collaborazione efficace. Non c’è ancora cooperazione tra i vari attori che dovrebbero formare una “cultura comune” nella lotta per fermare la violenza contro le donne”. Manca quindi, anche in questo caso, un approccio integrato. Solo con una visione strutturale, coordinata e attuabile sul lungo periodo sarà possibile mettere in atto tutte le indicazioni previste dalla Convenzione di Istanbul, proteggere le donne, educare generazioni di uomini consapevoli e, come recita l’articolo 1b, “eliminare ogni forma di discriminazione”, promuovendo “la concreta parità tra i sessi”. Palermo. Decessi nelle carceri, il Garante Pino Apprendi: “Negato il diritto alla salute” di Roberto Greco Quotidiano di Sicilia, 30 agosto 2024 Ogni anno più di cento persone muoiono dietro le sbarre. Intervista a Pino Apprendi, Garante comunale dei detenuti di Palermo: “Oltre ai suicidi, spesso citati, sono trascurate le morti per assenza di cure”. È in corso una strage silenziosa che si sta consumando quotidianamente nel nostro paese. Se ne parla troppo poco e il più delle volte non se ne conoscono i dettagli. È quella che riguarda le persone detenute nelle strutture penitenziarie italiane. Si calcola che in media, in Italia, ogni anno muoiono prematuramente più di cento persone dietro le sbarre. Interviene al QdS Pino Apprendi, garante comunale per i diritti delle persone detenute della città di Palermo. Apprendi, qual è la situazione nelle tre strutture palermitane? “Possiamo definire la situazione, per così dire, fluida e flessibile in negativo perché, in ogni visita, scopri qualcosa di nuovo. La prima deficienza riguarda la sanità perché ai detenuti non è garantita la salute. Stiamo parlando di problematiche di ogni genere, dal semplice mal di denti alla possibilità di curare una cataratta, un tumore o un infarto. Può considerarsi fortunato colui che ha un malore, quindi parliamo del cosiddetto primo soccorso, se in quel momento è presente nell’istituto il medico di turno, nel qual caso potrà avere un’assistenza di massima, in caso contrario il detenuto è costretto ad aspettare”. Un esempio? “Il 15 agosto scorso, mentre con il comitato “Esistono i diritti” facevamo un sit-in davanti all’Ucciardone. Un’ambulanza è entrata a sirena spenta nella struttura e ho deciso di entrare per capire cosa fosse successo. Ho atteso il medico di turno e ho notato che, a causa del sottodimensionamento dell’organico, del periodo feriale e dei necessari permessi individuali, il personale della polizia penitenziaria era molto limitato. Un detenuto è stato trovato “disconnesso” dal punto di vista cognitivo, ma la sua fortuna è stata quella della presenza in loco del medico di turno”. In carcere si continua a morire… “Oltre ai suicidi, che sono spesso citati, non sono mai citati quanti muoiono per ‘mala sanità’, ossia per mancanza di cura. Da gennaio a oggi sono morte in carcere quasi 1.400 persone. È pur vero che la gente muore anche fuori dal carcere ma, a questo punto, ci devono spiegare perché ognuno di loro è morto. Altro esempio, circa un mese fa, sempre all’Ucciardone è morto un detenuto di 73 anni. Il direttore sanitario mi ha informato che la persona aveva problemi di cuore, di diabete e di respirazione. La domanda, a questo punto, è se questa persona non fosse stata in carcere, sarebbe morta? Questo tipo di patologie è compatibile con la detenzione? Può avere l’assistenza e le cure necessarie per le sue patologie? Non voglio assolutamente puntare il dito sugli ultimi anelli della catena, quelli che nelle strutture ci lavorano, perché il sistema carcere non funziona. Non aiuta la carenza di personale che, anzi, crea disagio e impotenza operativa negli addetti stessi”. Si è parlato, proprio in questo periodo, di carceri speciali per i detenuti che protestano… “Non sono d’accordo. Una scelta come questa rappresenterebbe la resa dello Stato. Il caso di cui lei parla è quello riguardante quanto è successo al Pagliarelli dove tre detenuti, qualche giorno fa, sono saliti sul tetto. È necessario fare un’analisi puntuale sui motivi della protesta e cercare di capire quale sia il percorso che li ha portati a compiere questo gesto. Di fatto già il ministro Nordio ha creato un nucleo speciale per le rivolte ma deve essere chiaro, e lo deve essere per tutti, quelle che sono le differenze tra le proteste e le rivolte. Per troppo tempo si è nascosta la polvere sotto il tappeto, per troppo tempo tutti i governi che si sono succeduti in questi ultimi trent’anni non hanno fatto nulla per far sì che la pena potesse davvero diventare rieducativa e riabilitativa per consegnare alla società persone nuove, che vogliono rinnegare il loro passato. Seppur qualche carcere, in Italia, abbia in essere progetti di qualità, la maggioranza non ne ha. Non c’è una vera e costante attività di preparazione al lavoro, non c’è lavoro e quindi non c’è una vera funzione rieducativa e riabilitativa”. Forse è proprio vero che siamo un popolo di forcaioli, spesso si entra nella logica del “buttare le chiavi”… “Amaramente devo dire sì. Il caldo che sta dominando imperante, per esempio, lo si soffre sia fuori sia dentro il carcere. Ma se è vero che noi, a casa nostra, possiamo trovare ristoro, nelle strutture non è così. Allora, i soliti benpensanti ritengono che siano lussi, ad esempio l’aria condizionata o i semplici ventilatori all’interno delle camere di detenzione, ma non è così, perché i diritti umani devono valere per tutti, compresa la popolazione carceraria”. Cosa ne pensa della recente riforma Nordio? “Voglio vedere i risultati. Hanno detto che nei prossimi tre mesi dovrebbero uscire dalle carceri circa 3.000 persone. Vedremo, anche perché sarebbe possibile fare uscire circa 10.000 detenuti che hanno meno di due anni da scontare. Inoltre si continua a non pensare alle pene alternative perché i domiciliari, tranne per chi si è macchiato di maltrattamenti in famiglia e pericolosità sociale, possono essere una strada percorribile ma che continua a sembrare impervia”. È emerso al (dis)onore della cronaca il caso della bambina di circa due anni che vive in carcere con la madre. In Sicilia ci sono situazioni analoghe? “In Sicilia l’ultimo caso risale a circa 8 anni fa, nella struttura di Messina. Credo però che tutti i cittadini italiani dovrebbero ribellarsi a questo atto di inciviltà, al fatto che oggi ci sono 26 bambini in carcere, che sono costretti a vivere come reclusi. Bambini cui è negata la propria infanzia trasformandola in un incubo e condizionandoli per sempre”. In chiusura? “Se ne salviamo anche solo uno, abbiamo fatto un grande regalo alla società e instilliamo la speranza negli altri. Voglio però chiudere citando una frase del cappellano del Pagliarelli, fra Loris della chiesa della Gancia: serve un’umanizzazione della pena, che sembra ancora un obiettivo lontano”. Frosinone. Antonio morto suicida in carcere, la sorella contro l’archiviazione del caso di Marco Barzelli Il Messaggero, 30 agosto 2024 “Stava male, ma lo hanno lasciato solo”. Il 35enne di Ceccano si è tolto la vita un anno fa nell’istituto penitenziario di Frosinone, il ricordo di parenti e amici. La famiglia vuole giustizia. Antonio Di Mario, 35enne di Ceccano, è morto suicida nel carcere di Frosinone esattamente un anno fa. La sorella Laura continua la sua battaglia giudiziaria per il riconoscimento del concorso di colpa del sistema penitenziario. Venerdì 13 settembre si terrà l’udienza preliminare per l’emanazione del provvedimento sulla richiesta di archiviazione del procedimento da parte del pubblico ministero. Quel suicidio, però, è un “gesto preannunciato” secondo la perizia di parte voluta dall’avvocato Marco Maietta per conto della sua assistita. “Il pm ha solo confermato le circostanze di morte - dichiara Laura Di Mario - ma lui non doveva stare solo in cella e doveva essere assistito per via dei noti problemi di dipendenza e disagi psichiatrici. Non rispondono alle nostre domande. Temo che lo Stato non ammetterà le proprie responsabilità”. Di Mario si è tolto la vita intorno alle ore 22, impiccandosi con la cintura dell’accappatoio. “Alle 17.30, mio fratello aveva già chiesto aiuto in infermeria ed è tutto registrato - precisa la sorella del 35enne -. Aveva già commesso atti di autolesionismo ed era un soggetto a rischio, da non lasciare solo. Non è morto a casa ma in un carcere, dove doveva essere di per sé sorvegliato. È successo alle dieci di sera e io sono venuta a saperlo alle 10 della mattina seguente, dodici ore dopo. Ero a lavoro e l’ha saputo mio marito per caso, tramite passaparola del personale ospedaliero. Anche questo, di per sé, è già uno scandalo”. Di Mario è uno dei 71 detenuti suicidatisi l’anno scorso negli istituti penitenziari. Oggi pomeriggio, alle ore 18.30, sarà officiata la messa di suffragio nella chiesa di santa Maria a fiume. A un anno dalla morte, dall’addio con lo striscione con su scritto “Resterai sempre nei nostri cuori”, anche un “Memorial di carpfishing” al lago di Canterno. Un torneo, quello del 7 e 8 settembre, organizzato dagli amici del “Lepini fishing club” in ricordo suo e della passione per la pesca sportiva. Tutti i suoi cari chiedono la verità, spalleggiati dal Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa. “Ora l’anniversario, poi il memorial organizzato dagli amici e, infine, il giorno della verità - commenta Laura -. È un mix di emozioni contrastanti e sono già abbastanza provata. Ma è importante parlarne, perché voglio che venga riconosciuta la responsabilità della morte di mio fratello”. Antonio, ribattezzato “Struzzo”, non era più quello di un tempo. Le porte del carcere, in attesa di giudizio, si erano riaperte dopo la rapina perpetrata il 26 marzo 2023 davanti all’ufficio postale di Ceccano scalo. Si faticava ormai a riconoscerlo, devastato da droga e ricorso alla delinquenza. Prima dell’ennesima ricaduta, però, aveva trovato lavoro in fabbrica e ricominciato a Pescara. Poi la brusca fine di una relazione e la scomparsa del padre malato, dopo aver perso la madre da bambino. Un “macigno”, tra le colpe che pagava, che lo ha schiacciato. “Era in attesa di trasferimento in una comunità di recupero - racconta la sorella - dopo tanti ricoveri per le crisi dovute alla dipendenza. Mio fratello è stato arrestato nel reparto di psichiatria e portato in carcere malgrado i suoi problemi. Una volta lì, non avrebbero dovuto acconsentire alle sue richieste di stare in cella da solo. Aveva già minacciato di suicidarsi”. Si è strappato alla vita, malgrado disperati tentativi di soccorso in ambulanza e ospedale. Nella casa circondariale “Giuseppe Pagliei”, non è stato l’ultimo suicidio della serie. Il 27 giugno scorso, è stata la volta di un giovane italiano di seconda generazione. Il 21enne ha inalato gas da una bomboletta da campeggio finché non se n’è andato. Venezia. Celle sovraffollate e calde, in carcere ventilatori solo per chi può pagarli di Roberta De Rossi La Nuova Venezia, 30 agosto 2024 Il sopralluogo nel penitenziario maschile a Santa Maria Maggiore degli avvocati penalisti veneziani. Nelle celle 260 persone, ma c’è posto solo per 159. Celle sovraffollate in un’estate torrida dove solo chi può permettersi la spesa può comprarsi un ventilatore. E con una sola lavatrice di istituto a disposizione dell’intero carcere. “Nelle camere detentive si contano in pochi metri quadrati da 3 a 6 reclusi, con brande su 3 piani, vecchi materassi e cuscini in gomma piuma, tavolini e sgabelli insufficienti, servizi igienici carenti”, raccontano gli avvocati della Camera penale veneziana Antonio Pognici, dopo un sopralluogo, “ventilatore solo per chi può permettersi la spesa, niente frigorifero e lavatrice “d’istituto” in uso collettivo a turno”. Con i legali della Camera penale - presieduta dall’avvocato Renato Alberini - anche il Garante dei detenuti di Venezia e il consigliere comunale Paolo Ticozzi. Ad accompagnarli, il direttore Enrico Farina e il capo area educativa. Tutto nasce dal sovraffollamento, storica emergenza. “Nell’istituto sono attualmente presenti ben 260 ristretti a fronte di una capienza regolamentare di 159 posti”, prosegue la nota con la quale la Camera penale tira le fila della visita, “gli stranieri sono 153 (60%) e tra i 175 detenuti con condanna definitiva, ben 71 hanno un residuo pena inferiore ad un anno. Un esiguo numero è occupato per l’Amministrazione penitenziaria e solo tre detenuti lavorano nel laboratorio interno della Cooperativa Rio Terà dei Pensieri”. Santa Maria Maggiore - nonostante l’impegno del nuovo direttore e del personale - resta una delle carceri simbolo di quanto il concetto di pena come opportunità di recupero sociale sia lontanissima dalla realtà. “Questi pochi dati”, denunciano gli avvocati veneziani, “fotografano una detenzione al limite del rispetto della dignità degli individui e non proiettata verso la loro risocializzazione, tenuto altresì conto della presenza di numerosi detenuti tossicodipendenti e con problematiche di disagio e psichiatriche, amplificate dal sovraffollamento. In tale contesto, il “decreto carcere” di recente emanazione è assolutamente insufficiente e inadeguato a risolvere le problematiche carcerarie di cui l’impressionante numero di suicidi di quest’anno - 66 tra detenuti e agenti penitenziari- è il preoccupante termometro”. Il direttore Enrico Farina, giunto a Venezia solo da pochi mesi, è impegnato a reperire sul territorio opportunità di formazione e lavoro: in corso il recupero dell’ex casa lavoro alla Giudecca chiusa da decenni e ora destinata a un modello di “custodia attenuata”. Ha anche raggiunto accordi con l’Ava, l’associazione albergatori, per un inserimento lavorativo per chi vede avvicinarsi la fine pena e deve ricostruirsi una vita “fuori”. Da parte loro, con il direttore gli avvocati penalisti hanno posto le basi per la definizione di un “protocollo per la prevenzione dei suicidi” (sono stati 3 nel 2023, 2 nel 2024 a Santa Maria Maggiore) che coinvolga anche la sanità penitenziaria. E cercato di risolvere anche problemi quotidiani, come introdurre un servizio mail per favorire la comunicazione tra detenuti, familiari e avvocati, mettendo poi a disposizione borse di studio, per incentivare lo svolgimento di attività lavorative anche all’esterno. “Tutto ciò”, concludono i penalisti, “nella comune convinzione che restituire dignità alla detenzione e garantire un trattamento individualizzato per ogni ristretto, anche con misure alternative alla detenzione, sono obiettivi perché il carcere non produca marginalità, ma sia effettiva occasione di risocializzazione”. Torino. “Lavorare su percorsi di reinserimento”, il ministro Zangrillo visita il carcere Lorusso e Cutugno di Alberto Giachino La Stampa, 30 agosto 2024 Il segretario di Forza Italia Piemonte, e ministro per la Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, ha visitato giovedì 29 agosto la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. “A poche settimane dai disordini, ho voluto rendermi conto di persona delle condizioni della casa circondariale di Torino - spiega il Ministro Zangrillo - che rispecchia quella generale delle carceri italiane. Il Governo è intervenuto con il recentissimo Decreto Carceri che, anche grazie agli emendamenti di Forza Italia, punta alla umanizzazione della pena, nel rispetto della dignità della persona, e a un miglioramento delle condizioni dei detenuti, degli operatori e degli agenti di Polizia penitenziaria. Come ministro per la Pubblica amministrazione il mio impegno è massimo per assicurare un numero adeguato di agenti - mille le assunzioni previste dal Dl Carceri - e per accelerare le trattative, per altro già in corso da alcune settimane, per il rinnovo del contratto di un comparto particolarmente sollecitato. Un segnale di attenzione e di sincera gratitudine per il lavoro svolto”. Sono circa 1.500 i detenuti a Torino, quasi la metà dei quali stranieri, a fronte di una capienza di poco superiore ai mille posti. Sotto organico il personale, con una carenza di circa 200 unità di Polizia penitenziaria. Ricevuto dalla direttrice del carcere, dottoressa Elena Lombardi Vallauri, il Ministro Zangrillo ha incontrato il personale della casa circondariale, tra cui una rappresentanza della polizia penitenziaria, ed ha avuto un colloquio di un’ora con una delegazione di detenuti. “Abbiamo ascoltato i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria, verificando sul campo come la linea tracciata dal Dl Carceri sia quella giusta. Da sempre garantista e fedele ai principi della Costituzione, in base alla quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, Forza Italia è al lavoro - conclude il Ministro Zangrillo - per far sì che alla certezza della pena corrispondano percorsi di reinserimento sociale che facciano del carcere un luogo di idee e di soluzioni, e non soltanto di reclusione”. Messina. Luci e ombre del carcere di Gazzi: la visita di una delegazione della Camera penale di Letizia Barbera Gazzetta del Sud, 30 agosto 2024 Nella casa circondariale di Gazzi non ci sono problemi di sovraffollamento, le celle sono in buono stato, i rapporti tra la popolazione carceraria, la direttrice, gli agenti della polizia penitenziaria e gli educatori sono buoni e improntati alla collaborazione e c’è una grande umanità. Esistono tuttavia criticità legate ai detenuti tossicodipendenti o con problemi psichiatrici e carenze strutturali. È quanto emerso dalla visita effettuata ieri mattina in carcere da una delegazione di avvocati della camera penale “Pisani Amendolia” guidata dal presidente Bonni Candido, insieme alla Garante dei detenuti Lucia Risicato e all’on. Tommaso Calderone. Hanno incontrato la direttrice Angela Sciavicco per poi visitare i reparti della media e alta sicurezza ascoltando direttamente dai detenuti quali sono le loro condizioni di vita. Una lunga mattinata di colloqui, incontri, sopralluoghi e di dialoghi con i detenuti. La delegazione ha potuto constatare che la crisi idrica non ha colpito il carcere, in ogni cella c’è un ventilatore (non è consentito aggiungerne un secondo) e un frigorifero, le brande e gli arredi sono in buono stato. Non ci sono problemi di sovraffollamento attualmente nel carcere ci sono circa 200 detenuti per 302 posti ma una parte, circa 90, sono inagibili. “È stata una visita accurata e approfondita” ha detto l’avvocato Candido che ha visitato il carcere con gli avvocati Antonio Arena, Denise Zullo, Letizia Valentina Lo Giudice, Maria Falbo, Salvatore Giannone e Maria Puliatti. “Abbiano verificato che esiste un rapporto eccellente tra la direzione, il personale ed i detenuti. Questi ultimi in occasione del grave lutto che ha colpito un agente della polizia penitenziaria, a cui è morta la figlia, hanno voluto far sentire la loro vicinanza mandando un cuscino di fiori in occasione del funerale. È la cartina di tornasole di un rapporto eccellente. Tutto ciò, tuttavia - prosegue l’avvocato Candido non è sufficiente ad eliminare una serie di criticità che trovano origine in carenze strutturali generali, sulle quali è necessario intervenire, e vetusti vincoli normativi che meriterebbero di essere quantomeno riconsiderati”. Gli aspetti negativi, infatti non mancano: tutti i detenuti lamentano eccessivi tempi di attesa per le visite specialistiche; le tossicodipendenze e l’illecita introduzione (non facilmente controllabile) degli stupefacenti; mancano 20 agenti per completare la pianta organica; mancano reparti e personale specializzato per i detenuti con problemi psichiatrici. Ferrara. La Camera Penale in visita al carcere: perplessità per il nuovo padiglione estense.com, 30 agosto 2024 Durante la mattinata di ieri, giovedì 29 agosto, una rappresentanza composta da avvocati del direttivo della Camera Penale Ferrarese e del locale Osservatorio Carcere ha fatto visita alla casa circondariale di Ferrara. L’accesso, fanno sapere, “si inserisce all’interno dell’iniziativa dell’Osservatorio Nazionale Carcere dell’Ucpi denominata ‘Ristretti in agosto’, che rappresenta un importante momento di monitoraggio delle condizioni di vita dei detenuti e mira a sensibilizzare la politica, l’opinione pubblica, il mondo dell’informazione, l’associazionismo e la magistratura tutta sulle condizioni inumane e degradanti in cui versa la popolazione carceraria, ancora più insopportabili durante il periodo estivo”. Insieme ai rappresentanti della Camera Penale e dell’Osservatorio Carcere sono stati invitati, “per dare più rilevanza all’iniziativa”, i parlamentari della Regione Emilia Romagna. Ad accogliere l’invito Mauro Malaguti, deputato di Fratelli d’Italia mentre Rosaria Tassinari di Forza Italia in concomitanza si trovava presso l’istituto penitenziario di Rimini. Nel corso della visita, la delegazione ha visitato alcune sezioni comuni, la cosiddetta Sezione Z che accoglie i familiari dei collaboratori di giustizia, nonché acquisito informazioni sul numero dei detenuti presenti (ad oggi si contano ben 391 unità a fronte di una capienza consentita di circa 244), sulle varie sezioni di cui si compone l’istituto, nonché sulle attività trattamentali in essere. “Le criticità riscontrate - dicono - appaiono significative e legate non soltanto all’evidente sovraffollamento e ad un lamentato aumento dell’ingresso in carcere di soggetti con evidenti problematiche psichiatriche, ma altresì alle peculiarità della locale realtà carceraria che ospita oltre a detenuti cosiddetti comuni, anche collaboratori di giustizia e detenuti in alta sicurezza che necessitano, per ovvie ragioni, di un numero elevato di agenti di Pg a loro assegnati”. Una situazione che “va a incidere negativamente sulla già cronica carenza di personale penitenziario: i dati comunicati testimoniano come vi siano ad oggi 157 unità di personale presente a fronte di 216 unità previste e come manchi dal 2015 un vicecomandante”. Continuano poi a “essere insufficienti, per carenza di personale, fondi e progetti le attività trattamentali, in particolare quelle lavorative, che continuano a coinvolgere un esiguo numero di detenuti”. In un contesto come questo “continua a destare forti perplessità e preoccupazione il progetto di ampliamento della casa circondariale, che prevede la costruzione di un nuovo padiglione che dovrebbe sorgere nelle aree ove ora si sviluppano gli orti e il campo sportivo determinando, così, una drastica riduzione degli spazi all’aperto utilizzati per lo svolgimento di importanti attività e della socialità”. Auspicano inoltre che “venga al più presto nominato il Garante locale delle persone detenute o private della libertà personale, la cui assenza, da ormai due anni, continua a creare un vulnus nel sistema di protezione e monitoraggio proprio della situazione carceraria”. La Camera Penale tiene a ringraziare “tutto il personale penitenziario, la comandante Annalisa Gadaleta, la direttrice pro-tempore Carmela De Lorenzo per la disponibilità e l’impegno quotidianamente profuso, nonché l’onorevole Mauro Malaguti per la partecipazione all’iniziativa”. Il deputato di Fratelli d’Italia rilascia anche una breve nota sul decreto carceri: “In sintesi, il Dl Carceri, recentemente approvato, prevede: l’assunzione di 1000 unità del corpo di polizia penitenziaria (500 nel 2025 e 500 nel 2026) oltre a 20 dirigenti. Inoltre, il riconoscimento di una indennità annua lorda, aggiuntiva rispetto agli attuali istituti retributivi, al personale del comparto funzioni centrali preposti al funzionamento degli istituti e al trattamento del detenuto; infine, è prevista la nomina di un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria. Certamente i problemi, che si trascinano da decenni, restano molti e ‘toccarli con mano’ è il modo migliore per cercare soluzioni quindi, con i tanti spunti raccolti oggi presenterò una interrogazione parlamentare. Di questo desidero ringraziare gli avvocati della Camera penale ferrarese per l’invito rivoltomi di partecipare all’iniziativa “Ristretti in agosto”, oltre alla direttrice, ai dirigenti e gli agenti tutti di polizia penitenziaria per la grande professionalità con cui affrontano situazioni difficili e problemi quotidiani”. Bari. “Spazi umidi e per troppi detenuti, solo quattro operatori ad assisterli” di Natale Cassano baritoday.it, 30 agosto 2024 La Camera penale in visita al carcere. Al sopralluogo hanno partecipato anche i parlamentari pugliesi Davide Bellomo, Ignazio Zullo e Marco Lacarra. Marisa Savino, presidente della Camera penale di Bari: “Situazione insostenibile, registriamo anche discrepanze rispetto alla clinica medica”. “La situazione è veramente seria”: non usa giri di parole Marisa Savino, presidente della Camera penale di Bari, per descrivere la situazione del carcere di Bari. Tra sovraffollamento, scarsa presenza di operatori per il numero di detenuti e condizioni degli spazi pessime, da tempo denunciano le gravi condizioni in cui si affronta la quotidianità nell’istituto penitenziario del capoluogo. La visita dei parlamentari pugliesi - Situazione che oggi hanno mostrato anche ai parlamentari Marco Lacarra (Pd), Davide Bellomo (Lega) e Ignazio Zullo (Fratelli d’Italia), accompagnati nella struttura in corso Alcide De Gasperi dalla presidente Savino. “La situazione del carcere di Bari è drammatica, non si può descrivere altrimenti - le parole di Lacarra - La struttura carceraria, che ha quasi un secolo di vita, versa in condizioni di pietosa fatiscenza ed è assolutamente inadeguata per i fini della detenzione. Rispetto ai 260 posti disponibili, sono ad oggi presenti 402 detenuti, costretti a condividere in 3-4 persone spazi angusti e completamente inidonei a garantire igiene e serenità. Le conseguenze di questo sovraffollamento estremo sono terribili e vanno ben oltre i limiti della dignità umana”. Lacarra ha spiegato poi che a Bari, “come in tante altre carceri italiane, i diritti più basilari non sono garantiti e la sicurezza di tutti, detenuti e personale, è messa quotidianamente a rischio. Il Ministro Nordio faccia qualcosa di concreto prima che questa situazione di degrado esploda definitivamente”. Napoli. Il Garante regionale dei detenuti visita il carcere minorile di Nisida anteprima24.it, 30 agosto 2024 Il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello ha visitato oggi il carcere minorile di Nisida, incontrando anche il Magistrato di Sorveglianza dei minori, Margherita di Giglio, che si trovava nell’istituto per svolgere i colloqui con i giovani detenuti. All’interno del carcere di Nisida oggi erano presenti 71 ragazzi, di cui 22 stranieri, provenienti per lo più da Tunisia, Marocco ed Egitto e sette a lavoro in articolo 21. In Italia sono 555 i giovani ristretti nelle 15 carceri per minorenni. Sottolinea Ciambriello: “È cambiata l’utenza delle carceri minorili, e questa nuova utenza ha bisogno di psichiatri a tempo pieno, psicologi e, soprattutto, di un serD di riferimento fisso, interno. C’è bisogno di una vera e propria presa in carico. Le continue risse, i gesti di autolesionismo hanno bisogno di personale qualificato, specializzato, aggiornato e rimotivato. Il rischio è che molto giovani che entrano con problemi di tossicodipendenza, di separatezza affettiva, di disagio psichico, in carcere accumulano reati. Pur entrando per un piccolo reato, rischiano di aggravare la pena in carcere”. “Con il decreto Caivano si è giunti all’introduzione di nuove fattispecie di reato, all’innalzamento della durata delle pene detentive e all’inasprimento dell’applicazione di misure cautelari, anche per reati di minore entità. Per non parlare del fatto che con le disposizioni di questo decreto il Direttore dell’Istituto penale per minorenni ha maggiore facilità nel richiedere al Magistrato di Sorveglianza il nulla osta al trasferimento in Istituto per adulti, qualora il detenuto abbia compiuto 21 anni di età e con i suoi comportamenti abbia compromesso la sicurezza e turbato l’ordine dell’Istituto. Quando questo accade, come sta succedendo in tutta Italia e negli Istituti campani, è da considerarsi un fallimento collettivo. Con questo decreto in tutta Italia sono entrati più di 200 adolescenti in carcere. Bisogna investire in progetti di inclusione personalizzati e la città deve dare più possibilità di attività, deve offrire più occasioni di lavoro, di ponte fuori dalle mura per questi adolescenti a metà, con la morte nel cuore! E intanto il governo pensa solo ad aprire nuove carceri minorili a Treviso, a Lecce e in Campania a Santa Maria Capua Vetere, nell’ex carcere minorile”, conclude. È emerso, inoltre, dalla visita di oggi che solo 18 dei 71 detenuti hanno una condanna definitiva e che nell’Istituto ci sono 7 educatori. Lucca. Se permettete parliamo del carcere di Umberto Sereni loschermo.it, 30 agosto 2024 Anche per questo Ferragosto, come avviene ormai da una ventina di anni, si è rinnovato il rito della visita dei parlamentari al carcere di San Giorgio. Una delegazione di esponenti di Forza Italia, guidata dall’onorevole Bergamini, si è recata in quel triste edificio per verificarne le condizioni, per prendere diretta conoscenza dello stato in cui si trovano i detenuti, per valutare la situazione igienica della struttura e per raccogliere da parte del personale addetto alla custodia le espressioni del loro quotidiano disagio unite alle sollecitazioni per una iniziativa volta a migliorare lo stato delle cose. Questa scena si ripete da parecchi anni, con l’unica differenza rappresentata dal cambio di colore dei visitatori: un tempo erano gli onorevoli Marcucci e Mariani del PD, a varcare per Ferragosto il portone di San Giorgio e questa volta è toccato all’onorevole Bergamini. Per il resto il rituale si svolto secondo lo stesso copione: visita con annesso un comunicato da divulgare a mezzo stampa nel quale si ripetono le stesse cose: penosa condizione della struttura, con celle sovraffollate e prive delle più elementari norme igienico-sanitarie, nessun rispetto per le esigenze di intima riservatezza. Insomma uno stato di cose che si ripercuote anche sugli addetti alla custodia che si sentono umiliati nella loro condizione lavorativa. Dal più al meno il comunicato diffuso dall’onorevole Bergamini ricalca il testo e la sostanza di quelli che lo hanno preceduto. Se le cose stanno così, e non c’era da dubitarne, allora non ci resta che una domanda: ma fino a quando si ripeterà la visita di Ferragosto? Gli anni sono passati senza che una iniziativa seria e decisa sia stata presa per mettere fine a questa triste storia che ha procurato a Lucca la disdicevole fama della città con uno dei peggiori carceri d’Italia: con questi termini veniva indicato il “San Giorgio” in una lettera apparsa su un quotidiano nazionale proprio nei giorni della visita ferragostana. Detto con la massima chiarezza: questa triste storia può finire. Deve finire. Deve finire per penosa condizione alla quale sono costretti quanti stanno là dentro per scontare una pena: la nostra Costituzione parla chiaro e recita all’articolo 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dell’umanità”. O decidiamo che la Costituzione non si applica al carcere di San Giorgio o prendiamo atto di una semplice verità: si deve costruire un nuovo carcere che sia in regola con lo spirito della Costituzione. Per dirla nel modo più chiaro possibile. Lucca deve avere uno nuovo carcere. Credo di non sbagliare se ricordo che nel recente passato (amministrazione Lazzerini) da parte del nostro Comune furono avviate le pratiche per coinvolgere il Ministero nel progetto di un nuovo carcere: ora si tratta di rimetterci le mani approfittando anche del fatto che grazie al PNRR il governo dispone dei fondi destinati alla realizzazione di nuove carceri. È troppo pretendere dai politici una decisa presa posizione che rimetta in movimento la sacrosanta “Operazione Nuovo Carcere” che tra tanti meriti avrebbe anche quello di avviare al risanamento un’area cittadina che, inserita in un piano di rigenerazione urbana qualificherebbe uno spazio, sottraendolo alla straziante vista che domina e offende un tratto della Passeggiata delle Mura. La questione è posta: da inguaribile ottimista sono certo che nella nostra città ci siano le volontà e le sensibilità pronte a impegnarsi per questa battaglia di civiltà. Ne va dell’onore di Lucca e dei lucchesi. Palmi (Rc). Mercoledì prossimo il convegno “Forza della verità sulla condizione delle carceri” lanovitaonline.it, 30 agosto 2024 Una giornata di riflessione e confronto sulle condizioni delle carceri italiane, con esperti e istituzioni riuniti per promuovere un approccio più umano e rieducativo nella gestione dei detenuti. Il 4 settembre 2024, Palmi sarà teatro di un’iniziativa di grande rilevanza, organizzata nell’ambito del “Grande Satyagraha 2024” sotto il titolo “Forza della verità sulla condizione delle carceri”. Questo evento, promosso da “Nessuno tocchi Caino” e dalla Camera Penale di Palmi, si pone l’obiettivo di accendere un riflettore sulle condizioni delle carceri italiane, promuovendo un dibattito aperto e costruttivo su un tema di primaria importanza sociale. La giornata si articolerà in due momenti principali. Alle ore 10:00, è prevista una visita al carcere di Palmi, un’occasione unica per osservare da vicino la realtà penitenziaria e per ascoltare le testimonianze di chi quotidianamente vive e lavora in queste strutture. Questa visita rappresenta un momento di riflessione sulla vita carceraria, mirato a sensibilizzare l’opinione pubblica e a promuovere una maggiore consapevolezza riguardo ai diritti dei detenuti. Nel pomeriggio, alle ore 17:00, si terrà presso la Villa Comunale di Palmi una conferenza dal titolo emblematico “La fine della pena”. Durante questo incontro, si discuteranno tematiche cruciali legate al sistema penitenziario, con l’intervento di esperti, giuristi, magistrati e attivisti. Tra i partecipanti figurano nomi di rilievo come Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino”, Serena Tortorici, magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria, e Armando Veneto, già presidente del Consiglio UCPI. Questi relatori, con le loro diverse esperienze e competenze, offriranno una panoramica completa sulle sfide e le possibili soluzioni per migliorare il sistema carcerario italiano. L’incontro vedrà anche la partecipazione di autorità locali, tra cui Giuseppe Ranuccio, sindaco di Palmi, e Angelo Rossi, presidente della COA Palmi, che porteranno i loro saluti istituzionali, sottolineando l’importanza di un dialogo costruttivo tra le istituzioni e la società civile. La moderazione sarà affidata a Carmen Gualtieri, del Consiglio Direttivo di “Nessuno tocchi Caino”, che guiderà il dibattito con l’obiettivo di trarre conclusioni utili per il futuro delle politiche penitenziarie. Questa iniziativa si presenta come un’importante opportunità per riflettere sul concetto di pena e sul suo ruolo nella società moderna, promuovendo un approccio più umano e rieducativo nel trattamento dei detenuti. La presenza di esponenti di spicco del mondo giuridico e della società civile garantirà un dibattito ricco di contenuti e proposte, con l’auspicio di avviare un percorso di cambiamento significativo nelle politiche carcerarie italiane. Ibrahima Lo: “Sono tornato sui gommoni per salvare quelli come me” di Maria Paola Scaramuzza Corriere della Sera, 30 agosto 2024 La testimonianza di Ibrahima Lo, il profugo scrittore che ispirò il film “Io capitano”. Attraversò il Mediterraneo nel 2017: il viaggio dal Senegal all’Italia a 15 anni. Ora è scrittore “afroveneziano”. Si è imbarcato sulla nave umanitaria Mare Jonio con l’uomo che lo ha recuperato tra le onde. L’acqua del Mediterraneo sette anni dopo è ancora la stessa. Uguali le onde che sferzano la plastica dei gommoni, uguali la paura, le braccia che annaspano, le lacrime nascoste dei soccorritori. A Ibrahima Lo è bastato superare di poche miglia Lampedusa a bordo della nave umanitaria “Mare Jonio” per essere investito dai ricordi. Oggi è uno scrittore e lavora al Parlamento europeo ma nel 2017, a malapena sedicenne, a rischiare di annegare in quelle stesse acque c’era anche lui: “All’improvviso mi è tornato tutto in mente, i volti dei miei amici, la nave, i miei fratelli rimasti insieme ai pesci sul fondo del mare, l’urlo delle donne africane alla vista dei soccorsi, uguale a quello che avevo imparato da mia mamma quando ero piccolo in Senegal. È stato molto difficile per me tornare, ma anche una gioia. Abbiamo salvato 182 persone”. Il suo libro ha ispirato il film “Io capitano” - Ibrahima Lo, “afroveneziano” come ama definirsi, ventitreenne originario del Senegal, oggi è uno scrittore, un attivista e un componente dello staff al Parlamento Europeo, chiamato al fianco del neodeputato Mimmo Lucano, che da sindaco di Riace è diventato un simbolo dell’accoglienza ai migranti. Un anno fa Ibrahima percorreva la passerella della Mostra del Cinema di Venezia per presentare il film di Matteo Garrone “Io Capitano”, realizzato dai racconti di tante storie come la sua e trascritta nel suo libro “Pane e acqua”, che racconta il suo viaggio verso l’Europa e la detenzione in Libia. Esattamente un anno dopo, mentre il red carpet veneziano torna a popolarsi di flash e di fan, è tornato in quello stesso mare dove sette anni fa ha rischiato di annegare, insieme ai volontari di “Mediterranea Saving Humans”, a soccorrere altri migranti. Il sogno del giornalismo, il viaggio in mare, l’accoglienza - Sognava di fare il giornalista Ibrahima quando è partito a quindici anni dal suo Paese, dopo aver perso entrambi i genitori. Transitato attraverso Mali e Niger, è sopravvissuto all’attraversata del Sahara e a cinque mesi di detenzione in Libia, di cui porta ancora le cicatrici. Fino alla partenza su un gommone di plastica il 9 giugno 2017. Arrivato in Italia, dopo la vita in comunità da minore non accompagnato, ha incontrato persone come Antonella Costantini, la “Mammi” italiana, che l’ha accolto nella sua casa di Marghera allo scadere dei 18 anni. Nel 2020 l’uscita del primo libro, nel 2023 il racconto della sua esperienza riflessa nelle scene di “Io Capitano”, senza mai abbandonare l’equipaggio di “Mediterranea”, l’ong veneziana in prima linea nell’emergenza migranti. “Sono tornato dove mi hanno salvato” - “L’anno scorso sono stato molto felice di essere entrato con Matteo Garrone e molte altre persone in sala grande a Venezia - racconta oggi Ibrahima -. Il film ha vinto molti premi, ma ha vinto soprattutto una battaglia, quella dell’umanità. Ricordo lo sguardo delle persone un anno fa mentre uscivano dalla sala. In questi giorni sono tornato proprio lì dove mi hanno salvato, per poter trarre in salvo altre persone. E l’ho fatto insieme a chi sette anni fa ha strappato me dal mare”. A bordo della “Mare Jonio”, fino all’attracco a Pozzallo il 27 agosto, c’era anche Iasonas Apostolopoulos, rescue coordinator di “Mediterranea”, l’uomo che portò a bordo di una nave sicura Ibrahima Lo appena sedicenne nel 2017. E non solo lui. L’incontro con il Papa - Al fianco dei volontari dell’associazione veneziana - alla sua diciottesima missione- che insieme alla Guardia Costiera italiana ha soccorso in questi giorni quattro imbarcazioni di fortuna mettendo in salvo 182 migranti, c’era anche la barca a vela della “Fondazione Migrantes”. Partita con la benedizione di papa Francesco, che proprio alla missione di “Mediterranea” e ai migranti ha dedicato l’intervento nell’udienza generale del 28 agosto. Al pontefice in persona Ibrahima Lo, a inizio luglio, aveva presentato il suo ultimo libro “La mia voce”, nel corso di un incontro privato di un’ora e mezza in Vaticano vissuto insieme a Luca Casarini e all’equipaggio di “Mediterranea”. “Al Santo Padre ho raccontato la mia vita e anche la mia nuova esperienza a Bruxelles. Soprattutto gli ho fatto vedere e toccare le mie cicatrici - riferisce Ibrahima -. Io sono musulmano praticante però credo nella fratellanza. Non ci devono essere muri tra religioni e così ha detto anche papa Francesco. Questo è un viaggio che non finisce mai”. Tahar Ben Jelloun: “Hamas ha ucciso la causa palestinese. Netanyahu vuole fare come gli americani coi pellerossa” di Hakim Zejjari Il Domani, 30 agosto 2024 Criticato da entrambe le parti, per aver condannato l’attacco di Hamas e i bombardamenti della popolazione palestinese, lo scrittore ha presentato a Venezia un pamphlet contro l’odio scatenato dai terroristi e la riposta del governo israeliano. “L’accusa di antisemitismo appena si critica Israele è diventata una regola”, ha detto, “è una guerra difficile da spiegare, non è comprensibile né agli adulti né ai bambini”. Tra il Marocco e la Francia, Tahar Ben Jelloun ha vissuto mille e una vita. Filosofo, scrittore, poeta, pittore, giornalista... oggi di fronte agli orrori del conflitto israelo-palestinese non riesce a trattenere “L’urlo”: un pamphlet contro l’odio scatenato dai terroristi e la vendetta del governo israeliano che l’autore, presidente onorario del concorso cine letterario Bookciak azione!, ha presentato alle Giornate degli autori a Venezia 81. Dopo aver spiegato il razzismo, l’Islam e il terrorismo a sua figlia e ai nostri bambini, riesce a spiegare anche la guerra in atto in Medio Oriente? La guerra attuale è difficile da spiegare perché non è comprensibile né agli adulti né ai bambini. Abbiamo a che fare con un capo di Stato di estrema destra, Netanyahu, che è sempre stato fascista e razzista. Il suo obiettivo dichiarato è quello di liberare Israele dai palestinesi, in definitiva, vuole fare quello che gli americani hanno fatto con i pellerossa. Ha anche un motivo personale per continuare la guerra: è accusato di corruzione, frode e abuso di potere, e se fermasse il conflitto andrebbe probabilmente in prigione. Non so se Hamas aveva preventivato la reazione spietata di Israele a seguito del terribile attacco il 7 ottobre e se i leader di Hamas, manipolati dall’Iran, avevano deciso fin dal principio di sacrificare il loro popolo. Questo mio interrogativo è impopolare nel mondo arabo e ormai mi ritrovo rifiutato sia dagli ebrei che dagli arabi. Quando ho condannato l’attentato del 7 ottobre, molti ebrei si sono congratulati con me, ma poi quando ho condannato il bombardamento della popolazione a Gaza, quegli stessi ebrei mi hanno denunciato. Spiegare la guerra ai bambini è veramente difficile perché spesso sono loro a pagarne le conseguenze. Come spiega il pesante silenzio dell’Europa e degli Stati Uniti di fronte ai continui massacri di civili a Gaza e in Cisgiordania? Si sono levate alcune voci in Occidente, non molte, ma poche voci. Ci sono state manifestazioni studentesche in tutto il mondo, negli Stati arabi invece il silenzio è totale perché hanno troppi interessi con Israele e gli Stati Uniti, e poi la Palestina non interessa più. In Israele ci sono alcune voci, diciamo umaniste, che sono contro Netanyahu, apprezzo molto l’atteggiamento dello scrittore David Grossman. Ha perso un figlio di 20 anni nella guerra del Libano del 2006, è un dolore che Netanyahu non immagina neanche. Come è nato “L’urlo”, il suo ultimo pamphlet contro la guerra? È stato istintivo. Più leggevo, vedevo e ascoltavo notizie sull’attacco di Hamas del 7 ottobre, più mi dicevo: non è possibile, stanno uccidendo la causa palestinese, hanno sdoganato un massacro di civili ed è quello che sta succedendo… è un genocidio e questo è insopportabile. Credo che in Italia ci sia ancora libertà di espressione e che si possa affrontare l’orrore della guerra, in Francia è finita. Vuole dire che c’è una repressione della solidarietà con la Palestina in Francia? L’accusa di antisemitismo appena si critica Israele è diventata una regola, dobbiamo stare zitti di fronte all’operato del governo Netanyahu. Quest’estate a Tangeri ho incontrato per caso il filosofo Bernard-Henri Lévy che è un accanito attivista pro Israele. Mi ha detto: “Dobbiamo assolutamente vederci a cena!”. Gli ho risposto: “No grazie, sai benissimo che finirebbe molto male”. Conosce le mie posizioni e non possiamo mantenere una cosiddetta amicizia quando lui giustifica il massacro dei palestinesi in tv. Gli hanno chiesto un pensiero per i bambini massacrati dalle bombe di Netanyahu e lui ha risposto: “Ma Bashar al-Assad ha fatto di peggio…”. Che risposta è? È malafede pura. Oltre a denunciare gli orrori della guerra, cosa le interessa oggi come scrittore, pittore o poeta? Ho sempre seguito il mio istinto, negli ultimi anni mi sono molto interessato alla società marocchina, ho pubblicato “Gli amanti di Casablanca” che uscirà il 15 settembre in Italia e sto ultimando il seguito che uscirà presto in Francia. È una società molto complessa, anzi spietata e le disuguaglianze sociali sono sempre più profonde. La vita è diventata insopportabile per molte persone perché è il regno della barbarie capitalista. I poveri non hanno più posto in Marocco, c’è una classe media che sopravvive e una classe molto ricca che vive sulle nuvole. Per non parlare della classe politica, non credo che i deputati o i ministri abbiano idea dei prezzi dei pomodori che sono raddoppiati o di quelli del petrolio che è salito alle stelle. Questo Marocco mi preoccupa molto perché non c’è giustizia, il tasso di analfabetismo è ancora molto alto, più del 30 per cento, è uno scandalo rispetto all’Algeria o alla Tunisia. Ho paura perché è l’unico Paese arabo dove c’è un po’ di libertà, dove c’è una modernità assertiva. Ma ci sono forze islamiste che non mollano, hanno fallito quando erano al potere e anche se sono stati sconfessati dalle elezioni, sono ancora lì a trascinare indietro il Marocco. Crede che ci sia ancora il rischio di indottrinare i più fragili? Meno, perché gli islamisti si sono rivelati incompetenti, non hanno risolto nessun problema quando erano al governo. In dieci anni non hanno fatto nulla per la sanità, per l’istruzione e non hanno neanche risolto il problema della corruzione. Sono persone reazionarie che continuano ad aggrapparsi alle apparenze: la donna deve essere velata, non devono esserci rapporti sessuali prima del matrimonio… Ha mai avuto problemi con gli islamisti? A novembre scorso l’ex primo ministro Benkirane mi ha messo pubblicamente alla gogna in un video di 10 minuti in cui mi ha insultato in tutti i modi per aver condannato Hamas e il massacro del 7 ottobre. Alla fine del filmato ha incitato la mia punizione. Fortunatamente i reali mi hanno mandato delle guardie del corpo. Quindi sì, per gli islamisti sono decisamente un nemico. Ho una grande stima per il re Mohammed VI ma questo non mi impedisce di criticare il governo e il parlamento. Sono un contestatore, una macchina del dissenso, d’altronde non è questo il ruolo di un intellettuale? Martina Oppelli denuncia la Asl per tortura dopo il “no” al suicidio assistito di Giusi Fasano Corriere della Sera, 30 agosto 2024 “Lotto per il mio diritto di morire con dignità. Atto dovuto per tutti”. Martina Oppelli, 49 anni, affetta da sclerosi multipla, ha presentato un esposto per tortura contro l’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina (Asugi). Filomena Gallo dell’Associazione Luca Coscioni: “Le nega l’accesso alla morte volontaria e ignora la sentenza 135 della Corte Costituzionale”. “La tortura è un furto di umanità”, scrive l’Associazione Coscioni in un comunicato che annuncia: Martina Oppelli presenta in procura a Trieste un esposto per tortura e per rifiuto d’atti d’ufficio contro l’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina (Asugi). Martina Oppelli è un’architetta triestina, 49 anni. La sclerosi multipla progressiva si è presa quasi tutto di lei, tranne il pensiero e la parola. È “totalmente dipendente da macchinari, farmaci e assistenza continua per le sue funzioni vitali”, ma malgrado questo - dice l’avvocata Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’Associazione Coscioni - l’Azienda sanitaria per la seconda volta le “nega l’accesso alla morte volontaria e ignora la recente sentenza 135 della Corte Costituzionale”, condannando Martina “a proseguire in una sofferenza senza fine”. Architetta Oppelli, è arrabbiata per il “no” dell’Azienda sanitaria? “No, perché la rabbia ti toglie energia e non ti porta niente. Come potrei arrabbiarmi per i medici che mi hanno curata? Semmai quello che faccio mi costa un dolore molto grande. Il percorso verso la volontà di morire non lo fai con leggerezza, la mia è una scelta ponderata e consapevole. E anche questo esposto: è un atto dovuto, non per me ma per chi verrà dopo”. Lei si è detta “basita” perché secondo i medici dovrebbe prendere farmaci che potrebbero forse attenuare il dolore ma che la priverebbero di lucidità... “Sono basita, sì, perché mi sembra un compromesso irragionevole. Il mio cervello è lucido e deve rimanere lucido, come la mia capacità di decidere e autodeterminarmi. Io riesco a calcolare le emissioni di CO2 che produrrei con un inutile viaggio per andare in Svizzera a morire, dove per altro mi avrebbero già dato il via libera. Io posso parlarle dell’integrazione del fotovoltaico in architettura e di quanto abbia o no un ruolo per il futuro sostenibile. Sono presente a me stessa e lucida, appunto. E tale intendo rimanere. E poi posso fare un ragionamento?”. Prego... “Hai un handicap? Prima fanno di tutto per assicurarti una vita quanto più possibile autonoma, poi, quando non ce la fai più, ti danno dei farmaci per rintronarti. È un controsenso”. Da quanto tempo convive con la malattia? “Si è presentata a metà degli anni Novanta. Ricordo bene i primi episodi di disturbi agli occhi già nel ‘96, a Venezia, dove ho vissuto. Ma allora non potevo immaginare... Nel 1999 le cose peggiorarono. Ero a Parigi per uno dei miei viaggi studio. Era un’estate molto calda e stavo salendo sulla Tour Eiffel. A un certo punto, verso metà percorso crolla il ginocchio sinistro. Ho pensato: ma come? Ho fatto 14 anni di danza e adesso crollo su un gradino! Ho fatto finta di niente. Andavo a sciare con gli amici e a metà pomeriggio non controllavo più le gambe. Mi prendevano in giro, mi vergognavo. Ero profondamente triste e Venezia, la mia città del cuore, era diventata un problema”. In che senso? “I ponti, le scale... facevo una fatica grandissima. Il suono dei miei passi non era più un ticchettio ritmato ma un tonfo pesante, come ascoltare una marcia funebre”. In che anno la diagnosi? “Nel 2002. Il neurologo, che mi segue ancora oggi, disse: “cammini dritto”, e io zigzagavo; “cammini sulle punte”, e io cadevo, mi scusavo. Alla fine della visita mi disse che o era un tumore al cervello o una malattia infiammatoria. E da lì cominciai con ricoveri, esami. Alcuni furono così invasivi che non li dimenticherò mai: una volta tornai a casa con la sensazione di aver subito uno stupro. Scoprii che la violazione del corpo non avviene solo per via sessuale. Nel 2006 la prima stampella, nel 2008 la seconda, nel 2009 la sedia a rotelle...”. La sua, oggi, è una battaglia politica? “No, perché la vita non è di destra o di sinistra. La vita è colorata, è dignità. E io voglio poter decidere della mia esistenza”. Diceva che ha fatto danza per 14 anni... “Sì, ho cominciato a 5 anni. Da piccola dicevo a me stessa che da grande avrei avuto tre opzioni possibili: fare Dio, che è un genio, un figo. Oppure la ballerina classica o la pubblicità per la biancheria intima. Poi ho scoperto che Dio non andrà mai in pensione e le altre opzioni sono sfumate da sole, così ho ripiegato sull’architettura. Laureata con lode, perché io non contemplo niente che sia inferiore al massimo”. Migranti. Oussama, un’esistenza ingoiata dal buco nero di un Cpr di Simona Musco Il Dubbio, 30 agosto 2024 È una storia sbagliata quella di Oussama Darkaoui, morto a 22 anni e mezzo nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza. Un luogo “disumano”, secondo quanto si legge nella relazione stilata a seguito di un’ispezione condotta dal Tavolo Asilo, l’insieme di associazioni impegnate nel garantire la protezione internazionale e il diritto all’immigrazione. Alla missione avevano partecipato anche tre parlamentari, quattro consiglieri regionali, oltre a medici, infermieri, avvocati e mediatori culturali, tutti intenzionati a capire cosa sia successo a Oussama. L’ultimo capitolo della sua breve vita si è svolto in questo luogo, dove il 5 agosto, pochi giorni prima dell’udienza che “con molta probabilità avrebbe decretato la sua libertà”, ci spiega l’avvocato Arturo Raffaele Covella, è morto in circostanze misteriose. Secondo la versione ufficiale, il giovane era un ragazzo “problematico”: nei giorni precedenti la sua morte, ha spiegato la direttrice Catia Candido, Oussama avrebbe “ingerito dei corpi estranei come gesto autolesivo ed era stato ricoverato presso l’Ospedale San Carlo di Potenza” . Un quadro clinico che mal si sarebbe conciliato con la detenzione all’interno di un Cpr, aveva fatto notare lo stesso Covella nel corso dell’ispezione, e a seguito del quale non è stata fatta alcuna rivalutazione dell’idoneità alla permanenza del Cpr, prevista tra l’altro da una direttiva del ministero dell’Interno, in quanto “l’accesso in ospedale non aveva chiaramente descritto un’acuzie psichiatrica che giustificasse una inidoneità”, aveva spiegato Candido. Tale giustificazione, si legge nella relazione, sarebbe comunque “inaccettabile”, dal momento che la valutazione sarebbe spettata al medico del Centro. Ma in ogni caso, l’Azienda ospedaliera ha smentito qualsiasi ricovero del giovane, come riportato ieri dal Corriere. L’avvocato Covella lo ha scoperto a seguito di una richiesta di accesso agli atti, fornendo entrambi i nomi del giovane, per assicurarsi una verifica approfondita. E la risposta è stata chiara: “Non risulta alcun ricovero e/ o accesso in pronto soccorso e/ o ambulatoriale inerente a Darkaoui Oussama (alias Oussama Beelman)”. Covella ha ora avviato una serie di verifiche ulteriori, “per capire la contraddizione tra queste dichiarazioni”. Secondo la famiglia si tratterebbe di omicidio. “Ho parlato con diversi suoi compagni di prigionia - ha raccontato al Corriere la madre del giovane, Leila Harmouch, che vive col resto della famiglia in Marocco. Mi hanno riferito che Oussama è stato picchiato selvaggiamente e poi trascinato via come un animale e abbandonato per terra. E che dopo tutto questo, forse per farlo rinvenire, gli hanno fatto una iniezione endovenosa, che però gli è stata fatale: lo hanno visto scuotersi e morire lì, per terra, con la bava che gli fuoriusciva dalla bocca”. Il 6 agosto il procuratore di Potenza Francesco Curcio ha però negato all’Ansa che il ragazzo sia stato picchiato, affermando comunque che “ciò non esclude alcuna fattispecie di reato”, compresi “l’omicidio doloso, colposo e un atto autolesionistico”. Saranno le indagini a chiarire le circostanze della morte, “ma è indubbio che sia avvenuta in un luogo fortemente patogeno e caratterizzato da un elevatissimo tasso di violenza che mette a rischio la salute e la vita delle persone detenute”, prosegue la relazione. Dopo la sua morte, nel Cpr è scoppiata una rivolta, che ha portato poi alla visita ispettiva. Ma sono tante le informazioni taciute, perfino al legale della famiglia di Oussama. “C’è una totale chiusura da parte sia dell’ente gestore del Cpr (la cooperativa “Officine sociali”, ndr) sia della Questura di Potenza, ai quali mi sono rivolto per avere la documentazione relativa a Oussama - spiega il legale -. La Questura non ha risposto, mentre l’ente gestore mi ha fatto sapere che non sono titolato a richiederne copia, sottolineando che, in ogni caso, tutti i documenti sono stati sequestrati dalla procura, alla quale posso rivolgermi direttamente. Una risposta completamente fuori luogo”. Oussama era un ragazzo senza precedenti penali, un atleta - gli amici lo chiamavano Messi per la sua abilità col pallone -, che stava tentando di regolamentare la sua posizione in Italia. Era partito dal Marocco, passando poi per la Spagna, la Germania e infine in Italia, dove aveva raggiunto una zia a Sondrio. Ma nell’attesa di ottenere i documenti aveva deciso di lavorare ai mercati ortofrutticoli di Napoli, per mandare qualche soldo a casa. Lì è stato fermato e portato al Cpr di Palazzo San Gervasio il 26 maggio, dove a seguito di una pronuncia del giudice di pace sarebbe dovuto rimanere per 90 giorni. A fine agosto avrebbe dovuto presenziare a un’altra udienza, quella che, forse, gli avrebbe restituito la libertà. Ma il 5 agosto è stato ritrovato senza vita. “Cos’è accaduto? - chiede Covella - Nessuno lo sa dire”. Ma le ipotesi sono le più varie, come spiega il legale: “Alcuni parlano di maltrattamenti, altri parlano di mix di farmaci, altri parlano di morte naturale. Sarà a questo punto solo l’autopsia (i risultati sono attesi nel giro di 60 giorni, ndr) a chiarire la situazione”. Le testimonianze dei ragazzi che condividevano con lui la detenzione al Cpr di Palazzo San Gervasio parlano di un giovane buono, sempre pronto a difendere i compagni di sventura di fronte a situazioni spiacevoli. Situazioni ricorrenti, stando alla relazione sul Cpr, che disegna un quadro disastroso della struttura. Ambienti angusti e sporchi, carenza di materassi (i letti vengono chiamati “le bare” dai migranti presenti) e lenzuola che sembrano di carta, muffa, carenza di cibo, dalla qualità comunque scarsa (“alcuni piatti emanavano cattivi odori”), assenza di attività creative, sociali o religiose, abuso e utilizzo di psicofarmaci in maniera massiccia per tenere i ragazzi tranquilli e farli stare sereni, tanto che “i ragazzi hanno paura della presenza di farmaci nel cibo”. Un sistema finito nel mirino della magistratura, che ha iscritto sul registro degli indagati 27 persone. Ad essere accusati di tortura sono medici e poliziotti: secondo i pm sarebbero almeno 35 i casi di maltrattamenti, con l’uso di “farmaci tranquillanti” somministrati agli ospiti del Centro “a loro insaputa”, allo scopo di renderli “innocui e quindi neutralizzare ogni loro possibile lamentela per le condizioni disumane in cui spesso si trovavano a vivere”. Sul caso il senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto ha presentato un’interrogazione al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Scalfarotto ha evidenziato che un altro dei migranti ospiti del Cpr “ha dichiarato che la mattina prima del decesso, Oussama Darkaoui aveva un “buco grande una moneta” sulla fronte e di aver visto, la sera dello stesso giorno, due persone trascinarlo a peso morto sul pavimento della sua cella”. Da qui, dopo la smentita dell’Azienda ospedaliera, la richiesta a Piantedosi di chiarire “ruoli e responsabilità del personale del Cpr e del Prefetto nella morte di Oussama Darkaoui, nonché nella ricostruzione sconfessata dall’Azienda ospedaliera regionale”. Migranti. La Germania vuole rimandarne 20 mila in Italia: “Abbiamo fatto abbastanza” di Uski Audino e Grazia Longo La Stampa, 30 agosto 2024 Scholz in pressing su Bruxelles per ripristinare il Trattato di Dublino. Il no del Viminale: “Non se ne parla prima del 2026”. Il governo di Berlino vuole tornare ad applicare integralmente il regolamento di Dublino e per farlo sta cercando la sponda della nuova Commissione europea. Sarà anche uno spot elettorale a uso interno a due giorni da determinanti elezioni in Sassonia e Turingia, e a una settimana dall’attentato di Solingen per mano di un rifugiato che sarebbe dovuto essere espulso. Ma tant’è. La pressione dell’opinione pubblica tedesca sul tema della sicurezza è enorme, soprattutto nell’ultima settimana, e non finirà d’improvviso all’indomani delle elezioni. Qualunque siano gli esiti. E questo potrebbe avere un’eco significativa nei rapporti tra Roma e Berlino. L’applicazione del regolamento sui migranti in vigore da oltre dieci anni - che prevede la presa in carico del procedimento d’asilo da parte del Paese di primo approdo - era stato sospeso in via unilaterale dall’Italia nei confronti della Germania a dicembre 2022 per la parte che riguarda il trasferimento in Italia di chi, registrato nel nostro Paese, fugge all’estero. Con due lettere “del 5 e 7 dicembre 2022, il ministero dell’Interno italiano ci ha informato che i trasferimenti ai sensi del Regolamento Dublino III non possono essere accettati per il momento” ha spiegato il portavoce del ministero dell’Interno tedesco. “Il motivo è che la capacità dei centri di accoglienza è insufficiente a causa dell’elevato numero di arrivi in Italia”, proseguiva. Dopo due anni, Berlino vuole fare un passo avanti mentre a Roma non c’è nessuna intenzione di cambiare strada. Il Viminale non intende retrocedere rispetto alla scelta di non riprendere indietro i cosiddetti “dublinanti”, coloro che approdano in un Paese e fuggono in un altro. Fino al 2026, quando entrerà in vigore il sistema europeo comune di asilo, tutto dovrebbe rimanere com’è. Da quel momento in poi si vedrà, fanno sapere dal ministero degli Interni. A fronte di questo, i numeri che fornisce il dicastero della capitale tedesca sono chiari. Nel 2023 la Germania ha preso in carica dall’Italia 15.479 dublinanti e di questi l’Italia ne ha ripresi 11, mentre nei primi sei mesi del 2024 in 6.031 sono arrivati in Germania dall’Italia e Berlino ne ha rimandati indietro soltanto due. È la conferma nei fatti della sospensione di una parte determinante degli accordi. Ma ora arriva una richiesta di aiuto forte e chiara. “Abbiamo un problema, Houston”, dicono dalla Cancelleria. I termini della questione li ha spiegati l’altro ieri il portavoce di governo Steffen Hebestreit in conferenza stampa a Berlino. “Negli anni 2010 si diceva che i Paesi che hanno la sfortuna di trovarsi su un confine esterno sono lasciati soli con la sfida dei rifugiati. Tutti gli altri hanno la fortuna geografica di non essere colpiti” e “per risolvere la questione insieme si è concordato un meccanismo di solidarietà”, ha detto il portavoce di Olaf Scholz. Ora “la Germania ha accolto più di un milione e seicento mila rifugiati nel 2014 e nel 2015, abbiamo offerto protezione a oltre un milione di ucraini, e accogliamo oltre a duecento-trecentomila rifugiati provenienti da altri Paesi. Non credo che qualcuno possa negare che la Germania stia facendo la sua parte”, ha concluso Hebestreit. A questo punto il governo tedesco sta cercando di aggirare il “no” di Roma. E lo sta facendo anche cercando la sponda di Bruxelles, prima ancora dell’insediamento della nuova Commissione. “Il governo federale è in contatto con gli altri partner europei a vari livelli per quanto riguarda la ripresa della procedura di Dublino con l’Italia”, ha detto il portavoce del ministero dell’Interno tedesco Mehmet Ata. “Spetta alla Commissione europea” verificare “il rispetto del diritto europeo negli Stati membri” così come “la sua attuazione”. Converrà al governo italiano tenere la linea della fermezza totale? E che impatto avrà sulla moltitudine di dossier condivisi tra Roma e Berlino proprio al livello europeo? Si può immaginare una riedizione della crisi diplomatica sui migranti come quella tra la nostra premier e il presidente francese? Intanto in Germania si cerca di dissuadere i dublinanti a incamminarsi oltre confine. “Il governo federale vuole rispondere all’attentato di Solingen con misure dure” ha chiarito ieri la ministra degli Interni Nancy Faeser e tra i tanti provvedimenti presentati ce n’è uno che riguarda in modo specifico i dublinanti. Se i Paesi ospitanti “hanno già consentito all’ammissione, anche i sussidi dovrebbero essere cancellati”. Migranti. Il ricatto di Piantedosi: le Ong costrette a scegliere tra soccorrere e rischiare la confisca di Angela Nocioni L’Unità, 30 agosto 2024 Ordinato il terzo fermo per la Geo Barents dopo cinque salvataggi. Ong costrette a scegliere tra soccorrere in tempo e rischiare la confisca. La connivenza delle autorità italiane con i miliziani libici è tale che Roma, per poter tener lontane dal Mediterraneo centrale le navi di soccorso e lasciare senza testimoni le scorribande libiche sulle motovedette fornite dall’Italia, ha bloccato per l’ennesima volta in porto una nave di soccorso accusandola di non aver rispettato durante un salvataggio le norme - contrarie al diritto internazionale - del decreto Piantedosi. E’ successo alla Geo Barents, di Medici senza frontiere. Accusata di non aver informato tempestivamente il Centro di comando delle capitanerie di porto di Roma durante la terza delle cinque operazioni di salvataggio fatte il 23 agosto. È per questa nave il terzo fermo. Ed è la ventitreesima volta che una nave di salvataggio viene bloccata dopo un soccorso attraverso l’applicazione del decreto Piantedosi. L’imputazione è anche stavolta spudorata: aver messo in pericolo la vita dei naufraghi. La Geo Barents ha salvato 191 naufraghi il 23 agosto, 191 persone che ora sono vive soltanto perché quell’equipaggio le ha prese a bordo prima che la banda di assassini della Guardia costiera libica le catturasse in mezzo al mare e le portasse nei centri di detenzione dai quali si esce soltanto pagando i miliziani se si sopravvive a stupri quotidiani, torture e violenze descritte in numerosi report dell’Onu e da chiunque sia uscito vivo da quelle celle. E l’Italia lo accusa di aver messo a rischio la vita delle persone che ha salvato. E gli blocca la nave per due mesi, oltre alla multa, così da impedire alla Geo Barents di fare missioni di salvataggio per almeno due mesi. Msf denuncia che l’accusa è costruita sulle informazioni fornite dalla Guardia costiera libica, cioè da una banda di miliziani assassini che vivono del traffico di migranti e dei nostri soldi. Ma intanto si ritrova la nave bloccata in porto. “Nel cuore della notte - racconta Riccardo Gatti, responsabile del gruppo dei soccorritori - abbiamo visto persone che saltavano da una barca in vetroresina, che cadevano o venivano spinte in acqua. Non avevamo altra scelta se non quella di tirare fuori dall’acqua le persone il più velocemente possibile. C’era un pericolo imminente che annegassero o si perdessero nel buio della notte”. Dice Juan Matias Gil, capomissione di Medici senza frontiere: “Le autorità ci costringono a scegliere tra il salvataggio delle persone in mare e la prosecuzione delle attività. Ma la salvaguardia della vita umana è al centro della missione di Msf. Contesteremo questa detenzione illegittima seguendo le opportune vie legali. Siamo stati sanzionati per aver semplicemente adempiuto al nostro dovere legale di salvare vite umane. La Guardia costiera libica, finanziata dall’Ue e considerata un attore affidabile dall’Italia, è stata accusata dalle Nazioni Unite di complicità in gravi violazioni dei diritti umani in Libia. Parliamo di crimini contro l’umanità, di collusione con i trafficanti, nonché di essere responsabile di violenti respingimenti in mare”. Quel che la flotta civile delle ong che pattugliano il Mediterraneo non dice quasi mai esplicitamente - perché il ricatto del decreto Piantedosi funziona - è che per tentare di evitare il fermo, la multa e, soprattutto, la confisca della nave che può scattare dopo alcuni fermi, spesso i responsabili delle navi di soccorso in mare aspettano il via libera al soccorso da parte del Mrcc di Roma anche quando il via libera non arriva subito. E quasi mai arriva subito. In mare il tempo è prezioso, non si deve aspettare nemmeno un secondo a lanciare i gommoni di salvataggio quando si è avvistata una barca di naufraghi. E invece, drammaticamente e inevitabilmente, spesso si aspetta. Non lo si dice volentieri, ma si aspetta. Per non farsi sequestrare la nave. Per evitare la confisca. Per scongiurare la possibilità che l’armatore, quando c’è un armatore, possa decidere di rescindere il contratto di affitto del mezzo. E perché una nave di soccorso bloccata in porto è una missione di salvataggio di meno, molti morti in più. Morti che non contano. Persone che finiscono in fondo al mar Mediterraneo e di cui nessuno si occupa perché sono persone di cui non importa nulla a nessuno. Tunisia. Il Sindacato nazionale dei giornalisti chiede un’indagine su presunti abusi in carcere agenzianova.com, 30 agosto 2024 Il sindacato nazionale dei giornalisti tunisini (Snjt) ha chiesto al ministero della Giustizia della Tunisia di aprire un’indagine urgente e pubblica su presunti abusi perpetrati in carcere ai danni dei colleghi detenuti. Secondo il Snjt, il dicastero è “responsabile della protezione dei giornalisti incarcerati da tutte le pratiche che potrebbero incidere sulla loro integrità fisica e dignità umana”. Il sindacato denuncia, in un comunicato, presunti “abusi” e “violazioni” avvenuti presso il carcere femminile di Manouba, a Tunisi, nei confronti dell’avvocata e opinionista Sonia Dahmani. Secondo il sindacato, i fatti si sarebbero verificati mentre Dahmani si preparava a partecipare alla sua udienza in tribunale il 20 agosto 2024. Snjt afferma di aver “iniziato a indagare sulle informazioni ricevute da quella data”, dopo che “la famiglia di Dahmani e i suoi avvocati hanno riferito che è stata sottoposta a una perquisizione approfondita e costretta a togliersi i vestiti nel tentativo di umiliarla, mettendola in ginocchio e violando la sua dignità umana, contravvenendo alle regole più basilari del rispetto della privacy, toccando il suo corpo e aggredendola moralmente in quanto donna”. Secondo l’organizzazione dei giornalisti tunisini, “l’Autorità generale per le carceri e la riforma ha inoltre ritardato la sua risposta nel rispettare il diritto all’assistenza sanitaria e alle medicine per Sonia Dahmani, il che ha complicato le sue condizioni di salute”. “Da quando è entrata in prigione - aggiunge la stessa fonte - Dahmani soffre di nuove malattie croniche dovute alle condizioni carcerarie in cui vive”. Il sindacato afferma inoltre di aver “seguito con preoccupazione il deterioramento delle condizioni di salute della collega Shaza Hajj Mubarak nella notte di martedì 27 agosto 2024, nel carcere di Masadeen, dove le sue condizioni di salute si sono deteriorate negli ultimi mesi, il che potrebbe seriamente minacciare la sua sicurezza fisica e la sua vita”. Il Snjt chiede all’amministrazione penitenziaria di “fornirle le cure sanitarie necessarie e immediate” Iran. Un altro giovane muore in carcere per le torture Avvenire, 30 agosto 2024 Seyyed Mohammad Mirmousavi era stato arrestato in un villaggio nella provincia di Gilan sul Mar Caspio. Una Ong ha svelato l’omicidio. Fermati 5 agenti. Il presidente Pezeshkian vuole chiarezza. Picchiato e torturato fino alla morte da agenti delle forze speciali in un centro di detenzione nel nord dell’Iran. Restano ancora poco chiari i motivi che hanno portato all’arresto di Seyyed Mohammad Mirmousavi ma sono invece esplicite le immagini del suo corpo tumefatto e sanguinante, dopo gli abusi da parte degli agenti mentre era in custodia. Il video del corpo martoriato del giovane sono state diffuse da Hengaw, l’organizzazione per i diritti umani con sede in Norvegia che per prima ha denunciato l’ennesimo caso di tortura in Iran, mentre le autorità locali avevano tentato di tenere la vicenda lontana dai media, intimando anche alla famiglia del giovane di non renderla pubblica. I fatti risalgono al 24 agosto, quando Mirmousavi è stato arrestato dopo “un conflitto” in un villaggio di Lahijan, nella provincia settentrionale di Gilan sul Mar Caspio, e poi portato in un centro di detenzione delle unità speciali delle forze dell’ordine, un corpo della polizia predisposto per sedare rivolte e sanzionato dagli Stati Uniti. Lo stesso giorno è morto per le torture subite in custodia, denuncia Hengaw. La Procura di Lahijan ha annunciato ieri un’inchiesta rispetto alla “morte sospetta” di una persona detenuta, pur senza menzionare l’identità di Mirmousavi, e nell’ambito dell’indagine 5 agenti sono stati arrestati. La Procura provinciale di Gilan aveva invece minacciato la famiglia di Mirmousavi, intimando di non diffondere pubblicamente notizie e dettagli rispetto alla sua morte. Dopo la denuncia della Ong e la diffusione su Internet delle immagini del corpo tumefatto del giovane, il presidente iraniano Massud Pezeshkian, che ha vinto le elezioni il 5 luglio dopo avere promesso in campagna elettorale di porre un freno alle violenze della polizia, ha chiesto al ministero dell’Interno di indagare “sull’incidente di Lahijan” e “presentare le sue conclusioni al governo il prima possibile”. Mentre da anni vengono denunciati abusi sui detenuti presso il famigerato carcere Evin a nord di Teheran, dove sono rinchiusi molti prigionieri politici, negli ultimi anni Amnesty International e Human Rights Watch hanno denunciato regolarmente casi di torture e stupri ad opera di agenti delle forze dell’ordine in vari centri di detenzione iraniani. Secondo le ong, tra il 2022 e il 2023 decine di persone sono state torturate o abusate sessualmente in carcere dagli agenti dopo essere state arrestate durante le proteste anti governative scoppiate in seguito alla morte di Mahsa Amini, la 22enne curda che ha perso la vita mentre si trovava in custodia, arrestata dalla polizia morale perché non portava correttamente il velo, obbligatorio in pubblico nella Repubblica islamica fin dalla sua fondazione nel 1979. Sudan. Le parti in guerra giustiziano i detenuti e mutilano i corpi: crimini efferati sui quali indagare La Repubblica, 30 agosto 2024 Dal Paese africano arrivano immagini e notizie che fanno letteralmente orrore e mostrano un conflitto che ha superato ogni limite immaginabile di violenza. Dalla guerra in Sudan non fanno che arrivare immagini e notizie che fanno orrore e mostrano un conflitto che ha già superato ogni limite immaginabile di violenza. Le Forze Armate Sudanesi (SAF) e le Forze di Supporto Rapido (RSF) e i combattenti affiliati hanno giustiziato sommariamente, torturato e maltrattato le persone sotto la loro custodia e mutilato cadaveri: lo rende noto oggi Human Rights Watch (Hrw). I leader di entrambe le forze dovrebbero ordinare privatamente e pubblicamente la cessazione immediata di questi abusi e svolgere indagini efficaci e cooperare con gli investigatori internazionali, in particolare con la Missione internazionale indipendente di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite per il Sudan. Si sentono immuni da punizioni. “Le forze delle parti in guerra del Sudan si sentono così immuni alla punizione che si sono ripetutamente filmate mentre giustiziavano, torturavano e disumanizzavano i detenuti e mutilavano i corpi”, ha detto Mohamed Osman, ricercatore sudanese di Human Rights Watch. “Questi crimini dovrebbero essere indagati come crimini di guerra e i responsabili, compresi i comandanti di queste forze, dovrebbero essere chiamati a risponderne”. L’Ong che si occupa della difesa dei diritti umani e che ha la sua principale a New York, ha analizzato 20 video e 1 fotografia di 10 incidenti caricati sulle piattaforme dei social media tra il 24 agosto 2023 e l’11 luglio 2024. I video e le foto di 4 esecuzioni di massa. Otto video e 1 fotografia ritraggono 4 episodi di esecuzioni sommarie, comprese esecuzioni di massa, di almeno 40 persone. Quattro video mostrano torture e maltrattamenti di un totale di 18 detenuti, tra cui alcuni che sembrano feriti; e 9 mostrano la mutilazione di almeno 8 cadaveri. Molti degli aggressori e delle vittime sembrano indossare uniformi militari, suggerendo che potrebbero essere combattenti, anche se alcune vittime indossano abiti civili. In tutti gli incidenti i detenuti sembrano essere disarmati, non rappresentando una minaccia per i loro carcerieri, e in molti sono trattenuti. Registrati altri 20 casi. Human Rights Watch ha registrato altri 20 casi che sembrano mostrare violazioni simili da entrambe le parti, ma non ha indagato su questi casi. Quattro casi di esecuzioni sembrano essere stati filmati dagli stessi autori, 3 dalle RSF, tra cui l’esecuzione di almeno 21 uomini a El Fula, nel Kordofan occidentale, nel giugno 2024; l’esecuzione di almeno 14 uomini all’indomani degli attacchi delle RSF all’aeroporto di Belila, 60 chilometri a sud-est di El Fula, nel Kordofan occidentale, nell’ottobre 2023; e l’esecuzione di 2 uomini a 12 chilometri a sud di El Obeid, la capitale del Nord Kordofan. La quarta riguarda l’esecuzione da parte delle SAF di tre detenuti, forse minori di età inferiore ai 18 anni, nell’ottobre 2023 a Omdurman, a nord-ovest della capitale, Khartoum. Detenuti costretti a camminare in ginocchio. Human Rights Watch ha analizzato altri quattro casi in cui il personale SAF e RSF si è filmato mentre torturava e maltrattava i detenuti, anche frustando, picchiando e costringendo i detenuti a camminare in ginocchio su strade sterrate. L’analisi di Hrw suggerisce che questi incidenti si sono verificati a Khartoum, Gezira e negli stati del Kordofan settentrionale e occidentale. Tre video, tutti realizzati nel corso del 2024, mostrano soldati delle SAF che commettono oltraggi contro i corpi di apparenti combattenti o civili delle RSF, tra cui uno in cui brandiscono due teste.