66 detenuti si sono tolti la vita nelle carceri dall’inizio dell’anno: i loro nomi e le loro storie di Andrea Aversa L’Unità, 29 agosto 2024 Una mattanza senza fine: si tratta di persone, non di numeri. Avevano un nome, un volto, una famiglia, degli amici. Se aggiungessimo Ivano, 63 anni, morto lo scorso 21 agosto nel carcere di Firenze (la cui causa del decesso, secondo il rapporto di Ristretti Orizzonti, è ancora in via di accertamento), Ousmane Sylla, 22enne originario della Guinea che si è tolto la via lo scorso 4 febbraio nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, periferia di Roma e sette agenti della Polizia Penitenziaria, le persone che fino ad oggi, nel 2024, hanno messo fine alla propria esistenza all’interno di un carcere sarebbero 75. Un numero mostruoso, un tragico record che sta incarnando la strage di Stato rispetto alla quale la politica è ancora indifferente e incapace di porre rimedio. Per ora, i suicidi ‘ufficiali’ sono stati 66. Stiamo parlando di persone, non solo di numeri. Il dramma dei suicidi in carcere - Di uomini e donne che hanno un nome e un cognome, un volto che avevano una famiglia, degli amici e degli interessi. Entrati da poco in cella o che sarebbero dovuti uscire presto. Con problemi psichiatrici, di salute, di tossicodipendenza. Spesso soli, senza prospettive fuori dal penitenziario diventato la loro tomba. Forse senza nemmeno una casa e degli affetti, in quella che chiamiamo vita ‘normalè. Insomma, i veri ultimi, i famosi ‘poveri cristi’, non certo serial killer, mafiosi o terroristi. Persone che magari avrebbero potuto beneficiare di pene alternative evitando il carcere. Quanti sono i suicidi avvenuti in carcere nel 2024 - Persone in custodia dello Stato, molto probabilmente in attesa di giudizio (quindi senza neanche la certezza della loro colpevolezza). Riportiamo qui le loro identità, la loro origini. È il minimo che possiamo fare per ricordare a chi di dovere che dentro le strutture detentive, nelle case circondariali, non si espia solo una pena. Non si cerca solo di ottenere un recupero sociale. Tra quelle quattro mura si muore, si perdono dignità e vita. Chi sono i detenuti che si sono tolti la vita in carcere dall’inizio dell’anno: i nomi e le storie. 6 gennaio 2024: Matteo Concetti, 23 anni. Stava male da tempo, soffriva di disturbo bipolare. Era rientrato nel carcere di Ancona perché, svolgendo la pena alternativa lavorando in una pizzeria, aveva sforato sull’orario di rientro a casa. Il 5 gennaio aveva detto alla madre: “Se mi riportano in isolamento, mi ammazzo”. 8 gennaio 2024: Stefano Voltolina, 26 anni, detenuto a Padova, soffriva di depressione. Una volontaria ha affidato il suo ricordo a ‘Ristretti orizzonti’: “Era sveglio, buono, curioso. Abbiamo fallito”. 10 gennaio 2024: Alam Jahangir, 40 anni, originario del Bangladesh, si è impiccato con un pezzo di lenzuolo a Cuneo, pochi giorni dopo il suo ingresso. 12 gennaio 2024: Fabrizio Pullano, 59 anni, si è impiccato nel padiglione di alta sicurezza del carcere di Agrigento. 15 gennaio 2024: Andrea Napolitano, 33 anni. A Poggioreale per l’omicidio della moglie, soffriva di disturbi psichiatrici. 15 gennaio 2024: Mahomoud Ghoulam, 38 anni, marocchino senza fissa dimora, era entrato da poco a Poggioreale. 22 gennaio 2024: Luciano Gilardi, gli mancava un mese alla libertà ma è morto prima da detenuto a Poggioreale. 23 gennaio 2024: Antonio Giuffrida, 57 anni, era in carcere a Verona Montorio per truffa. 24 gennaio 2024: Jeton Bislimi, 34 anni, si è ucciso nel carcere di Castrogno a Teramo: musicista macedone, 34enne, aveva provato ad ammazzare sua moglie. Aveva già tentato il suicidio. 25 gennaio 2024: Ahmed Adel Elsayed, 34 anni, è stato trovato dagli agenti impiccato nel bagno della sua cella a Rossano Calabro. Gli mancava poco per il fine pena. 25 gennaio 2024: Ivano Lucera, 35 anni, si è impiccato nel carcere di Foggia. Soffriva di dipendenze. 28 gennaio 2024: Michele Scarlata, 66 anni, si è ucciso nel carcere di Imperia pochi giorni dopo esserci entrato con l’accusa di avere tentato di uccidere la compagna. 3 febbraio 2024: Alexander Sasha, ucraino di 38 anni, aveva già tentato di tagliarsi la gola prima di impiccarsi a Verona Montorio. 3 febbraio 2024: un detenuto disabile di 58 anni si è impiccato nel carcere di Carinola (Caserta). Il suo nome non è noto. 8 febbraio 2024: Hawaray Amiso, 28 anni, doveva scontare solo tre mesi a Genova. Invece avrebbe “manomesso la serratura del cancello della cella per ritardare l’intervento degli agenti di custodia” prima di impiccarsi. 10 febbraio 2024: Singh Parwinder, 36 anni, bracciante agricolo, si è ucciso nel bagno del carcere di Latina. 11 febbraio 2024: cittadino albanese, 46 anni, imprenditore. Si è ucciso a Terni. Gli erano state revocate da poco le misure alternative al carcere. 13 febbraio 2024: Rocco Tammone, 64 anni, era in semilibertà. Rientrato dal lavoro, si è ucciso nel cortile del carcere di Pisa. 14 febbraio 2024: Matteo Lacorte, 49 anni, si è impiccato nel carcere di Lecce nel reparto di massima sicurezza. La Procura indaga per istigazione al suicidio. 26 febbraio 2024: cittadino marocchino, 45 anni, si è impiccato a Prato. 12 marzo 2024: Jordan Tinti, trapper, 27 anni, in carcere a Pavia per rapina aggravata dall’odio razziale. Aveva tentato il suicidio pochi mesi prima 13 marzo 2024: Andrea Pojioca, senza fissa dimora, 31 anni, ucraino. In carcere a Poggioreale per tentata rapina. 13 marzo 2024: Patrck Guarnieri, è morto il giorno in cui compiva 20 anni per asfissia nel carcere di Teramo. Il pm indaga perché l’autopsia lascia dei dubbi che si sia trattato davvero di suicidio. 14 marzo 2024: Amin Taib, 28 anni, tossicodipendente, si è ucciso nella cella di isolamento a Parma. 21 marzo 2024: Alicia Siposova, 56 anni, slovacca, si è suicidata mentre era in corso una visita del cardinale Matteo Zuppi nel carcere di Bologna. 24 marzo 2024: Alvaro Fabrizio Nunez Sanchez, 31 anni, attendeva come molti l’ingresso in una Rems da alcuni mesi per gravi sofferenze psichiatriche. Invece si è ucciso nel carcere di Torino. 27 marzo 2024: cittadino italiano, 52 anni, di cui non state rese note le generalità, si è impiccato al cancello della cella con il laccio dei pantaloni nel carcere di Tempio Pausania. 1 aprile 2024: Massimiliano Pinna, 32 anni, si è impiccato al secondo giorno di carcere a Cagliari dove era stato portato per un furto. 7 aprile 2024: Karim Abderrahin, 37 anni, si è impiccato in cella a Vibo Valentia. 10 aprile 2024: Ahmed Fathy Ehaddad, 42 anni, egiziano, attendeva l’inizio del processo per un caso di violenza sessuale nel carcere di Pavia. 17 aprile 2024: Nazim Mordjane, 32 anni, palestinese, è morto inalando gas da un fornello da campeggio nel carcere di Como. Nel settembre dell’anno scorso era evaso ferendo un agente di polizia. 22 aprile 2024: Yu Yang, 36 anni, si è impiccato attaccandosi alla terza branda del letto a castello a Regina Coeli. 4 maggio 2024: Giuseppe Pilade, 33 anni, pativa disturbi psichiatrici e sarebbe dovuto stare in una Rems ma, come per la maggior parte di chi ci dovrebbe stare, non c’era posto per lui e si è tolto la vita nel carcere di Siracusa. 16 maggio 2024: Santo Perez, 25 anni, si è impiccato nella sezione media sicurezza del carcere di Parma. 23 maggio 2024: Maria Assunta Pulito, 64 anni, si è soffocata con due sacchetti di plastica annodati intorno alla testa e alla gola a Torino. Accusata di violenza sessuale assieme al marito, aveva sempre respinto le accuse. 2 giugno 2014: George Corceovei, 31 anni, ha approfittato che due detenuti uscissero dalla cella che condividevano con lui per impiccarsi a Venezia. 2 giugno 2024: Mustafà, 23 anni, si è impiccato nel carcere di Cagliari ma il suo corpo non ha ceduto subito. È morto due giorni dopo in ospedale. 4 giugno 2024: Mohamed Ishaq Jan, pakistano, 31 anni. Da una decina di mesi aspettava di essere processato per lesioni e rapina a Roma Regina Coeli. 11 giugno 2024: Domenico Amato, 56 anni, viene trovato impiccato alla mattina presto nel carcere di Ferrara. Con la sua morte, è stato osservato, lo Stato ha perso due volte perché era un collaboratore di giustizia e perché era nella custodia dello Stato. 13 giugno 2024: A.L.B., italiano di 38 anni, si è tolto la vita nel carcere di Ariano Irpino impiccandosi alle otto della sera. 14 giugno 2024: Alin Vasili, 46 anni, rumeno, si è impiccato nel penitenziario di Biella. 15 giugno 2024: Giuseppe Santolieri, 74 anni, condannato a 18 anni per l’omicidio della moglie, si è ucciso nel carcere di Teramo soffocandosi con una corda. Lo aveva annunciato ai compagni di prigionia: “Non posso più andare avanti”. 15 giugno 2022: un detenuto di 43 anni si è impiccato nel carcere di Sassari con un lenzuolo nel reparto ospedaliero. 21 giugno 2024: Alì, un ragazzo algerino di 20 anni, si è impiccato nel carcere di Novara. “con un cappio rudimentale”, riferisce il sindacato della penitenziaria. Era detenuto per reati di droga 26 giugno 2024: Francesco Fiandaca di 28 anni, che lavorava nella cucina ed era impegnato in diverse attività rieducative, si è impiccato nel carcere ‘Malaspina’ di Caltanissetta. 27 giugno 2024: Luca D’Auria, un ragazzo di 21 anni, già sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, si è ucciso inalando gas nel carcere di Frosinone. 27 giugno 2024: egiziano, 47 anni, stava scontando una condanna. Si è impiccato con la cintura nel carcere genovese di Marassi. 1 luglio 2024: Giuseppe Spolzino, un ragazzo di 21 anni, si è impiccato nel carcere di Paola. Nel maggio del 2027, a 24 anni, avrebbe potuto ricominciare, uscendo. 2 luglio 2024: un uomo di cui non sono note le generalità si è ucciso nel carcere di Livorno a 35 anni. 4 luglio 2024: Yousef Hamga, 20 anni, egiziano, si è impiccato nella casa circondariale di Pavia. 4 luglio: nel carcere Sollicciano di Firenze si è tolto la vita il ventenne Fedi Ben Sassi. Poco prima di uccidersi, era saltata per mancanza di connessione una sua chiamata alla madre in Tunisia. 7 luglio 2024: Vincenzo Urbisaglia, accusato dell’omicidio della moglie, si è ucciso a 81 anni nel carcere di Potenza. Ai legali era stata negata pochi giorni prima la scarcerazione chiesta per il suo stato psicofisico. 9 luglio 2024: Fabrizio Mazzaggio, 57 anni, si è impiccato nel bagno della sua cella a Varese. Aveva problemi di tossicodipendenza. 12 luglio 2024: Fabiano Visentini, 51 anni, si è ucciso a Verona Montorio. 13 luglio 2024: un uomo di 45 si è suicida to a Monza chiudendosi la testa in un sacchetto di plastica nella cella dove stava da solo. 15 luglio 2024: Alessandro Patrizio Girardi, 37 anni, detenuto per spaccio, si è impiccato nella sua cella nella casa circondariale Santa Maria Maggiore a Venezia dove stava per reati legati alla droga. 21 luglio 2024: alla Dozza di Bologna si è tolto la vita Musta Lulzim, 48 anni, albanese. È stato trovato impiccato nella sua cella infuocata dall’estate. 25 luglio 2024: Giuseppe Pietralito, 30 anni, si è ammazzato in cella a Rebibbia dopo avere manomesso la porta per ritardare i soccorsi. Aveva saputo da poco che sarebbe uscito nel 2026, 4 anni prima del previsto perché gli era stata riconosciuta la continuazione dei reati. “Ma non ho un lavoro, nessuno crederà in me” aveva detto ai suoi legali. 27 luglio: ennesimo suicidio a Prato dove un giovane di 26 anni si è tolto la vita. 28 luglio 2024: Ismael Lebbiati, 27 anni, fine pena previsto nel 2032, si è impiccato nel carcere di Prato dove nelle ore precedenti c’era stata una rivolta. 30 luglio 2024: Kassab Mohammad si è suicidato a 25 anni nel reparto isolamento del carcere di Rieti dov’era stato portato dopo i disordini del giorno prima. 3 agosto 2024: un recluso marocchino, 31 anni, senza dimora, si è impiccato nel carcere di Cremona. 5 agosto: nel bagno del Tribunale di Salerno, dopo la convalida del suo arresto, si è ammazzato stringendosi un cappio al collo Luca Di Lascio, arrestato per codice rosso. 5 agosto 2024: a Biella, A.S., albanese, 55 anni, stava facendo lo sciopero della fame perché aveva chiesto di essere trasferito in un carcere più vicino ai suoi familiari. Poi, si è ucciso. 7 agosto: 35 anni, tunisino, si è tolto la vita impiccandosi con un laccio dei pantaloni nel carcere di Prato. 15 agosto: Atef, si è suicidato a 36 anni in cella di isolamento nel carcere di Parma. “Nelle carceri emergenza gravissima, servono misure radicali e il Governo non fa abbastanza” di Giulia Casula fanpage.it, 29 agosto 2024 “Contro l’emergenza carceri ci aspettavamo risposte adeguate, ma il governo nel frattempo continua a introdurre nuovi reati e ad alzare le pene”, lo dice Alessio Scandurra, responsabile dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni dei detenuti presso l’Associazione Antigone. In Italia le carceri sono al collasso. Il numero delle persone detenute ha oramai superato le 61mila, a fronte di una capienza decisamente inferiore (si parla di almeno 10mila posti in meno). Come conseguenza di ciò, il tasso di sovraffollamento ha toccato il 131%, mentre i dati sui suicidi e sulle rivolte hanno mostrato una drammatica impennata. “È da diverso tempo che siamo sopra i 61mila detenuti e l’impatto di tutto questo si vede dalla cronaca. Gli effetti sono i suicidi e le proteste, le rivolte”. “È una situazione oggettiva, che si presume dai dati, però probabilmente non è determinata solo da questo. Nel senso che questi numeri li abbiamo avuti anche in passato e non sono stati momenti facili, però al tempo stesso non si registravano un tasso di suicidi e un numero di proteste così alto. È evidente che ci sia una difficoltà del sistema penitenziario a reggere la situazione di criticità”, prosegue il responsabile. Tra i problemi principali ci sono la carenza di organico, l’assenza di personale sanitario e la difficoltà a trovare medici, diventati ormai una risorsa molto scarsa. “La situazione è complicata e gli indicatori ce lo confermano con grande evidenza”. I numeri finora restituiscono un quadro pericolosamente simile a quello del 2013, quando la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per le condizioni delle sue carceri, con l’ormai nota sentenza Torreggiani. “La Cedu ci sanzionò per la grave situazione del sistema penitenziario, ma anche per il fatto che l’Italia non aveva un rimedio giurisdizionale che risarcisse i detenuti”, ricorda il responsabile. Un vuoto che costringeva i detenuti a rivolgersi direttamente a Strasburgo. “Ora il rimedio c’è e in qualche modo funziona. Ogni anno migliaia di giudici italiani risarciscono - nella forma di un esborso in denaro o di uno sconto di pena - migliaia di persone per essere stati detenuti in condizioni disumane degradanti”, spiega. Mentre i dati sui risarcimenti finanziari, decisi dai Tribunali civili, non sono disponibili, quelli sulle riduzioni di pena mostrano un quadro allarmante. I ricorsi accolti in sede civile, infatti, solo oltre 4000 l’anno. “I numeri della Torreggiani erano orientativamente questi quando l’Italia è stata condannata. Si parlava di circa 4000 ricorsi pendenti. Ora la situazione è analoga, solo che quando fu l’Europa a condannarci fece molto rumore. Oggi ci condanniamo da soli ma nessuno si sconvolge”, dice Scandurra. Intanto, venti giorni fa il decreto Carceri è diventato legge. Alcune misure, come l’aumento delle telefonate, da 4 a 6, e una semplificazione delle procedure per ottenere la liberazione anticipata, hanno fatto parlare di sé più di altre. “È un po’ buffo. Questo intervento tocca due temi centrali: la liberazione anticipata e la questione delle telefonate. Peccato che lo faccia in maniera eccessivamente cauta, sproporzionata e inadeguata rispetto alla situazione”, osserva il responsabile. “I contatti con i propri cari effettivamente aiutano però, portare le telefonate da 4 a 6, quando quelle straordinarie accordate ai detenuti viaggiavano già su questi numeri, ha un impatto molto limitato”. Sul rilascio anticipato, inoltre, non sembra essere ancora chiaro che portata avrà questa modifica procedurale. “Da Antigone avremmo preferito un aumento significativo della durata. L’emergenza è gravissima e bisogna rispondere con misure altrettanto radicali e impattanti, sennò è chiaro che la risposta non è adeguata e questa non lo è”, insiste. “Ci aspettavamo un aumento, a 75 giorni, della liberazione anticipata. Non chiedevamo molto, ma questo è un governo che nel frattempo continua a introdurre nuovi reati e ad alzare le pene. Tutte iniziative che porteranno all’aumento della popolazione detenuta. Onestamente non è che ci aspettassimo delle risposte all’altezza della situazione”. Come fanno notare anche da Antigone infatti, attualmente è in corso di discussione un disegno di legge sulla sicurezza che punta a introdurre ulteriori misure restrittive e nuovi reati, come quello di rivolta penitenziaria. Eppure il ministro della Giustizia ha più volte sottolineato la necessità di ‘umanizzare il carcerè. “Evidentemente la maggioranza ha le idee molto chiare. Nordio magari meno, ma da solo non ha la forza di portare la nave in un’altra direzione. I risultati sono, nella migliore delle ipotesi, confusi”, ribatte Scandurra. Da un punto di vista culturale poi, spesso il riferimento di una certa parte politica, quando si parla di liberazione anticipata, è stato quello di svuota-carceri. “È un appellativo che negli anni è stato usato per descrivere cose diversissime tra loro. Oggi c’è una situazione di emergenza che richiede una risposta straordinaria. Bisogna ragionare su un intervento di sistema che faccia scendere un po’ i numeri delle presenze. È assolutamente indispensabile”, sottolinea. “Oggi il nostro è comunque un sistema che prevede una pluralità di sanzioni penali. Il carcere è una delle pene ma esistono tante misure alternative che hanno mostrato di funzionare molto bene, anche in termini di garanzia di sicurezza ai cittadini. Non si tratta tanto di svuotare le carceri, ma piuttosto di sfruttare questi strumenti”, dice ancora. Secondo il responsabile esiste un problema di fondo su cui la politica finora non si è ancora soffermata. “Il sovraffollamento penitenziario è fatto in gran parte di persone che in carcere ci tornano per la seconda, la terza, la quarta volta. Pertanto è anche il fallimento del carcere l’origine del sovraffollamento. E cioè che i percorsi di reinserimento non funzionano”, osserva. “È un cane che si morde la coda. Questo produce insicurezza per tutti noi. Spezzare il circolo vizioso è fondamentale”. Questa situazione riguarda i detenuti, ma anche il personale penitenziario. Solo nell’ultimo anno sono in tutto sei gli agenti che si sono tolti la vita e in generale, l’organico, da tempo sottodimensionato, è allo stremo. “Negli ultimi tempi sono state fatte iniziative per rimpolpare un po’ i numeri ma non sono sufficienti. Non sono bastate le assunzioni di nuovi direttori e vicedirettori negli ultimi anni e neanche l’assunzione di nuovi educatori perché le piante organiche non sono state coperte. In più se pure fosse accaduto, avremmo comunque un educatore ogni 60-70 detenuti, il che è una follia”, afferma. Per Scandurra, “bisogna investire di più. D’altronde il carcere è una misura costosa, però è un sistema che non può fare più danni di quelli che spera di risolvere. Non si può pensare che la gente esce dal carcere più malmessa di come era quando vi è entrata”, ribadisce. Dal governo ci si aspetta che le nuove misure adottate produrranno i loro effetti nel giro di pochi mesi, ma la previsione non sembra convincere chi da più di vent’anni si occupa dei diritti dei detenuti. “Temo che non ci saranno effetti visibili. In più, negli ultimi 12 mesi, il sistema penitenziario italiano, ha perso una settantina di posti detentivi di capienza regolamentare. È dal primo giorno di governo che si promette nuove carceri e nuovi posti”, dice Scandurra. “La verità è che i problemi sono sul tavolo e rispondere con le parole è anche doveroso perché non è non si può girare dall’altra parte, però è pure facile farlo. I fatti per ora non si vedono. È inutile negarlo. Ci auguriamo che arrivino”, conclude. Fondi per reinserire i detenuti. Tre milioni di euro alle organizzazioni del Terzo Settore di Massimiliano Finali Italia Oggi, 29 agosto 2024 La Fondazione con il Sud promuove una nuova edizione del bando “Evado a lavorare”, con lo scopo di sostenere iniziative capaci di favorire il reinserimento sociale e lavorativo di persone detenute. L’avviso mette a disposizione 3 milioni di euro e si rivolge alle organizzazioni del terzo settore di Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia. In particolare, il soggetto responsabile può presentare una sola proposta di progetto e deve risultare costituito prima del 1° gennaio 2022, in forma di atto pubblico oppure di scrittura privata autenticata o registrata, oltre che non avere progetti finanziati dalla fondazione in corso, in qualità di soggetto responsabile. Le partnership dovranno essere composte da almeno 2 organizzazioni di terzo settore, oltre a ogni struttura penitenziaria competente in base alla tipologia di intervento proposta e alla situazione delle persone coinvolte. Potranno partecipare anche istituzioni locali, scuole, associazioni di categoria, centri per l’impiego e soprattutto imprese appartenenti al tessuto imprenditoriale locale e nazionale. Il bando ha l’obiettivo di sostenere concreti processi di reinserimento sociale e lavorativo di persone in esecuzione penale, favorendone la progressiva autonomia, con l’intento di dare piena attuazione alla funzione rieducativa della pena e ridurre i tassi di recidiva nel lungo periodo. I progetti finanziati adotteranno un approccio integrato e orientato a dare una reale ed effettiva “seconda possibilità” ai detenuti con pena definitiva residua non superiore ai quattro anni intra o extra moenia, con particolare attenzione alle situazioni di maggiore fragilità. La fondazione, ritenendo il lavoro componente fondamentale del processo rieducativo, sosterrà progetti sperimentali a carattere multidimensionale e sistemico finalizzate a garantire opportunità lavorative dignitose ai detenuti e al contempo percorsi di responsabilizzazione della comunità, promuovendo reti di sostegno accoglienti e inclusive e percorsi di riparazione. Tutti i progetti finanziati dovranno includere la componente occupazionale quale strumento di riscatto e inclusione sociale dei detenuti, favorendo l’incontro dinamico tra domanda e offerta di lavoro, anche attraverso l’attivazione e/o il potenziamento di servizi volti a garantire un’adeguata connessione dentro-fuori il carcere. I progetti dovranno inoltre mettere al centro le persone in esecuzione penale e porre attenzione anche a tutte le altre dimensioni rilevanti di vita (es. abitativa, sanitaria, legale, ...) promuovendo l’acquisizione di life skill e il rafforzamento delle relazioni affettive, funzionali a garantire l’efficacia dei percorsi di reinserimento. Gli interventi dovranno integrarsi con le politiche e le risorse pubbliche esistenti, senza sovrapporsi a misure di sostegno già attive. Al fine di ridurre il pregiudizio verso la detenzione, sarà determinante creare o rafforzare contesti lavorativi e comunitari adeguati attraverso percorsi di sensibilizzazione del mondo produttivo e, più in generale, della cittadinanza. Ciascun progetto deve richiedere un contributo non superiore a 400 mila euro, a copertura dell’80% delle spese ammissibili. Il bando scade alle ore 13 del 25 settembre 2024 e prevede la presentazione delle proposte esclusivamente online tramite la piattaforma Chàiros. L’avviso si articola in due distinte fasi: la prima finalizzata alla selezione delle proposte con maggiore potenziale impatto sul territorio di intervento; una successiva seconda fase di progettazione esecutiva, volta ad arricchire la proposta, anche mediante la modifica del partenariato e di aspetti critici rilevati nella valutazione iniziale. Solo al termine della seconda fase la fondazione procederà eventualmente all’assegnazione del contributo a una o più delle proposte presentate in risposta al bando. I progetti dovranno prevedere una durata complessiva del progetto non inferiore ai 36 mesi e non superiore ai 48 mesi. Madri e bambini nelle carceri. È ingiusto di Adriano Sansa* Famiglia Cristiana, 29 agosto 2024 All’interno del sistema penitenziario italiano vivono con le madri ventiquattro bambini. Molti? Comunque troppi. E ora il proposito, espresso nel “pacchetto sicurezza”, di abolire l’obbligo della sospensione della pena per la donna in gravidanza, o con un bambino minore di un anno, accende la discussione. È un problema di soluzione talora assai difficile; a proposito di bambini in carcere si è parlato di un ‘ossimoro”, di una combinazione in sé contraddittoria. Quando la madre detenuta mostra, con il reato commesso, con altri comportamenti e contesti di vita, di non poter garantire al figlio un’educazione e uno sviluppo adeguati, si ricorre spesso all’affidamento familiare. Ma se la relazione genitoriale è valida, non va interrotta; per consentirla sono nati gli istituti a custodia attenuata, all’esterno del carcere, o talvolta all’interno, ma separati dalla rimanente struttura, e le sezioni nido, contenute nell’istituto ma il più possibile, nell’aspetto e nel trattamento, esenti dalle caratteristiche della prigione. Non basta a evitare danni allo sviluppo e deprivazioni sensoriali. *Ex magistrato “Sistema misto e stranieri nei Paesi d’origine”. La proposta per le carceri del Sindacato di Polizia di Francesca Galici Il Giornale, 29 agosto 2024 Pensare a un sistema misto pubblico-privato per la gestione delle carceri abbasserebbe i costi di gestione per lo Stato e creerebbe nuove possibilità. In Italia esiste un’emergenza carceri, il sovraffollamento è un problema concreto, così come lo è la penuria di agenti per la gestione. L’indice di sovraffollamento ha raggiunto il 130% ma, al contempo, creare e gestire un carcere ha costi enormi e, considerando quanti ne servirebbero, il problema assume dimensioni importanti. Come risolverlo? L’idea di modificare il paradigma e ripensare il sistema carcerario avanza a grandi passi e la possibilità di introdurre un sistema misto pubblico-privato inizia a concretizzarsi a più livelli. “Posso assicurare che il mio dicastero sta profondendo il massimo sforzo per alleviare, almeno in parte, le condizioni di grave disagio, se non di dolore, che affliggono anche la casa circondariale di Torino”, ha dichiarato il ministro Carlo Nordio di recente, in risposta alla lettera del sindaco di Torino Stefano Lorusso, che ha chiesto un impegno al ministero. “Non abbiamo mai fatto un investimento a lungo raggio e, ovviamente, strutturale, per cui abbiamo bisogno di nuovi istituti penitenziari”, ha dichiarato a il Giornale il segretario generale provinciale per Torino del sindacato della Polizia di stato Fsp, dott. Luca Pantanella, che sottolinea anche come l’assunzione di un migliaio di nuovi agenti di Polizia Penitenziaria sarà “una boccata d’aria fresca” non risolutiva perché anche questo corpo, come gli altri, a breve avrà una ulteriore riduzione di organico, frutto dei pensionamenti degli agenti entrati in servizio alla fine degli anni Ottanta, che sono la maggior parte. “Noi andiamo in pensione verso i 60 anni, quindi i 1000 che verranno assunti non andranno neanche a colmare quelli che vanno in pensione”, ha aggiunto. L’altro problema, ha proseguito Pantanella, è che le carceri sono “strutture costose”, che richiedono “investimenti importanti e la coperta è corta. Sarebbe utile iniziare a pensare in senso moderno, ossia anche alla possibilità di aprire ai privati”, ossia “investire anche in progetti finanziati da privati per la costruzione di nuovi tipi di istituti penitenziari, fino a ipotizzare un sistema misto col privato”. Secondo Pantanella, bisogna “incominciare a ipotizzare i servizi del genere dove c’è una sinergia tra pubblico e privato, dove si creano posti di lavoro ma dove i corpi dello Stato devono comunque sovraintendere, essere presenti in ruoli chiave”. Di fondi di investimenti che possono intervenire, spiega ancora a il Giornale, “ce ne sono tanti e possiamo iniziare una nuova pagina per sistemi più moderni”. Il sindacalista ha sottolineato nel corso dell’intervista che esiste una bassa recidiva tra i detenuti impegnati in progetti lavorativi: “Chi esce dal carcere che ha imparato un mestiere, molto spesso non compie nuovamente reati. Però siamo anche convinti che chi delinque, chi è condannato, deve espletare tutta la pena”. Un concetto fondamentale per Pantanella, che spiega che “il senso o percezione della sicurezza passa anche dal concetto di certezza della pena”, perché “chi ha un debito deve pagarlo, per lo Stato e per i cittadini. Non possiamo, con la scusa delle carceri che sono piene, continuare a fare dei decreti per liberare”. A tal proposito, l’esponente del sindacato Fsp, si dice d’accordo al rimpatrio dei detenuti stranieri e irregolari, perché “un detenuto comunque costa. Si potrebbe fare un discorso bilaterale, per cui se il mio detenuto è somalo, faccio un esempio, piuttosto che marocchino si può pensare di dare un contributo allo Stato d’origine, affinché gli anni che deve fare qui possa a farli lì”. Considerando il numero di stranieri presenti nelle carceri italiani, questa potrebbe essere una chiave per una prima risoluzione. “Sicuramente ci sarà chi protesta perché dice “poverino lo mandate in un Paese incivile e quant’altro” ma, prosegue Pantanella, “poter fare un accordo con la possibilità di scontare la pena del Paese di provenienza sarebbe l’ideale, anche dando un contributo, perché secondo me costa di meno che mantenerli nelle nostre carceri. Anche perché va considerato che quando esce non è detto che venga espulso e che non torni nuovamente in carcere per altri reati”. Un argomento chiave, quello esposto da Pantanella, sottovalutato dalle politiche che hanno governato l’Italia negli anni precedenti. Separazione delle carriere e carceri, i segnali che Tajani lancerà al vertice di maggioranza di Errico Novi Il Dubbio, 29 agosto 2024 Sul ddl costituzionale di Nordio, leader azzurro pronto a concedere all’Anm il sorteggio temperato dei togati. Sarà un vertice dominato dalle trattative europee e dalle rinunce. Dal tentativo di ottenere, per Raffaele Fitto, anche la vicepresidenza Ue (come riferito in altro servizio del giornale, ndr) e dai sacrifici necessari per assicurare le misure promesse in campo fiscale. Ma quando domani Giorgia Meloni vedrà, per la prima volta dopo la pausa estiva, i leader alleati, Antonio Tajani e Matteo Salvini, sarà difficile eludere un pur fugace cenno al dossier giustizia. Con due voci in cima all’agenda. La prima con più chance di sopravvivere alla prevalente natura eurounitaria ed economica dell’incontro, ossia la separazione delle carriere, e con la seconda, il carcere, destinata invece quasi certamente a essere congelata in vista di successive occasioni. Sebbene proprio la materia penitenziaria richiederebbe un’urgenza che centrodestra e governo, fin qui, non hanno mostrato di avvertire. Il discorso relativo alla separazione delle carriere è in apparenza semplice: il capogruppo di FdI alla Camera Tommaso Foti ha annunciato, alla vigilia di Ferragosto, che la riforma costituzionale di Nordio precederà, in Aula, il premierato. Il che farebbe pensare a un dossier risolto in partenza: è esattamente quanto di meglio Forza Italia - che del divorzio giudici-pm è il principale sponsor - potesse augurarsi. In realtà le subordinate ci sono, non sono trascurabili, ma è quasi impossibile che in un summit come quello di domani si arrivi ad analizzarle. Si tratta di dettagli in parte legati alla nuova fase inaugurata da FI con la proposta sullo Ius scholae. Al di là dello spazio che la cittadinanza potrà trovare, nel confronto di Meloni con Tajani e Salvini, è in ogni caso difficile che una proposta di legge azzurra sul tema possa essere incardinata a breve. Più probabile che a presentarla sia l’opposizione, allo scopo di “stanare” gli azzurri. Ma la novità della prospettiva forzista non si lega a uno o due iniziative. È generale. Chiama in causa anche il pensiero di due figure formalmente esterne all’organigramma azzurro ma di fatto assai influenti, Marina e Piersilvio Berlusconi. Condividono, i figli del Cav, l’idea di espansione moderata coltivata da Tajani. Sono già impegnati a sostenerla su Mediaset. E, come emerso dall’intervista rilasciata la settimana scorsa al Foglio dal responsabile Dipartimenti della segreteria di Tajani, Alessandro Cattaneo, nel restyiling forzista rientra anche un linguaggio diverso sulla magistratura. Nessun dietrofront sul ddl costituzionale di Nordio, ci mancherebbe, ma ricerca, finché possibile, del dialogo con le toghe. Una logica che spiazza Meloni e Salvini. Ma che può tradursi in alcune rimodulazioni di dettaglio piuttosto semplici. Rispetto al testo originario varato lo scorso 29 maggio in Consiglio dei ministri, si potrebbe passare, durante l’esame alla Camera, dal “sorteggio integrale” dei componenti togati nei due Consigli superiori (uno per i giudici, l’altro per i pm) al “sorteggio temperato”. Nient’altro che la proposta depositata a inizio legislatura proprio da un berlusconiano, Pierantonio Zanettin: estrazione a sorte di una platea di magistrati eleggibili, tra i quali dare poi corso a una competizione elettorale vera e propria. Ovvio che si aprirebbe un qualche pur sottile spazio, rispetto al sorteggio integrale, per l’influenza delle correnti, il cui “annichilimento” era tra gli obiettivi prioritari della riforma. Ma sarebbe anche la forma in cui potrebbe esprimersi quella “prudenza” che FI vuol inaugurare, per quanto possibile, nel confronto con le toghe. Pensare d’altra parte che aspetti del genere possano trovare spazio nelle discussioni di domani fra Meloni, Tajani e Salvini sarebbe irragionevole. Si tratta casomai delle prospettive che si aprono per il futuro prossimo del ddl sulle “carriere”. In Parlamento tra l’altro ci sarà anche tempo e modo per recuperare un passaggio della riforma costituzionale di Nordio previsto in bozza e poi accantonato in extremis dai ministri: il riconoscimento della libertà e indipendenza dell’avvocato. È un’integrazione che, con ogni probabilità, consentirà una convergenza anche con settori dell’opposizione: è il caso di Avs, che sulla materia si affida alla competenza di un deputato- avvocato, Devis Dori. E in un’intervista rilasciata a fine giugno a questo giornale, ha confermato la propria posizione favorevole all’avvocato in Costituzione anche l’ex guardasigilli del Pd Andrea Orlando. Sono queste le probabili evoluzioni dell’iter, non appena lo si potrà riprendere in commissione Affari costituzionali alla Camera, negli spazi e nei tempi lasciati liberi dalla sessione di Bilancio. Sulle carceri, come riportato ieri sul Dubbio, Forza Italia intende sottoporre quanto prima, agli alleati, a cominciare dalla premier, gli esiti del monitoraggio condotto dai parlamentari azzurri in questo mese di agosto, con le visite compiute in diversi istituti di pena, quasi sempre insieme con il Partito radicale. Segnalazione delle criticità e relative proposte di soluzione: è lo schema con cui i berlusconiani torneranno alla carica per scalfire il muro securitario opposto fin qui da FdI e Lega. Difficile che Tajani possa trovare spazio per parlarne compiutamente domani. Ma almeno un accenno, rivolto ai capi dei due partiti alleati, è possibile che il segretario di FI trovi modo di farlo. Anche per ribadire ai partner che, dal punto di vista degli azzurri, l’emergenza - nonostante le letture che si sono imposte finora - permane eccome. Rastrelli scommette su Nordio: “Carceri, si deve fare di più” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 29 agosto 2024 L’avvocato cassazionista, segretario della commissione Giustizia al Senato, scommette su Nordio: “È il nostro Gandalf, lo stregone”. Piano carceri, rimpatri di detenuti stranieri e ricorso alle comunità di recupero per i tossicodipendenti, il progetto svuota-carceri di Fratelli d’Italia. Mentre si avvicinano i due anni di governo, il sistema giustizia affonda nelle sabbie mobili. I suicidi in carcere aumentano, i ritardi nelle cause civili e penali si accumulano, le nuove leggi si aggrovigliano. Ne abbiamo parlato con un esponente di maggioranza che segue la giustizia da vicino, da avvocato cassazionista: il senatore Sergio Rastrelli che per Fratelli d’Italia è segretario della Commissione Giustizia. Tre carte. Tre riforme. Premierato, Autonomia, Separazione carriere. Su quale scommetterebbe di più? “Tre riforme ambiziose e tutte egualmente necessarie, che disegneranno l’Italia del futuro. Non più scommesse aleatorie ma impegni vincolanti per far uscire il paese dall’immobilismo”. Tre carte. Tre riforme. Premierato, Autonomia, Separazione carriere. Su quale scommetterebbe di più? “Tre riforme ambiziose e tutte egualmente necessarie, che disegneranno l’Italia del futuro. Non più scommesse aleatorie ma impegni vincolanti per far uscire il Paese dalle secche di un atavico immobilismo, con riforme che la rendano stabile, coesa, efficiente ed in grado di competere nel panorama europeo”. Ci sono i tempi per portarle a termine tutte e tre? “L’orizzonte temporale è quello della legislatura. Questo è l’impagabile valore aggiunto di un governo politico, legittimato dal consenso popolare e sostenuto da una maggioranza stabile e responsabile”. Il referendum sull’autonomia si farà. Ma non è scontato che raggiungerà il quorum. A quel punto avanti tutta sul premierato, magari ascoltando le obiezioni dei costituzionalisti e dei riformisti dei vari comitati esistenti? “La soluzione referendaria è illusoria e la prova di forza della sinistra diverrà la riprova della sua debolezza. Sul premierato il contributo dei migliori costituzionalisti italiani ha già prodotto un testo che conferisce decisività al voto popolare, pone rimedio alla instabilità dei governi, e impedisce lo sconcio del “transfughismo” parlamentare”. La giustizia rimane la grande malata d’Italia. Il ministro Nordio sembra frenato, trattenuto… è messo nelle condizioni di operare bene? “Il Ministro è una straordinaria risorsa di professionalità e visione. In aula al Senato dichiarai che Nordio per noi era come Gandalf, lo stregone del “signore degli anelli”, che non era mai né in anticipo né in ritardo, ma giungeva esattamente quando doveva arrivare. Ne sono ancora convinto: tocca ora a tutto il centrodestra sostenerlo nel suo coraggioso disegno riformatore per una nuova cultura della giurisdizione”. Fine rieducativo della pena. Nel Dl carceri si poteva fare di più? “È evidente che si poteva fare di più, ma si è già fatto molto. Quel che è più conta è aver intrapreso la strada impervia della risposta strutturale. Il decreto è solo un primo passo, coraggioso ed equilibrato, per conciliare certezza della pena ed umanizzazione del trattamento, e coniugare la sicurezza delle strutture carcerarie con la piena dignità dei detenuti”. La proposta Giachetti sullo sconto di 15 giorni (ulteriori) ogni sei mesi di detenzione con buona condotta è stata valutata con interesse da Forza Italia. Cosa ne pensa? “È un problema di approccio. Noi rifiutiamo l’idea del sistematico ricorso a misure eccezionali “svuota-carceri” che erodono la certezza della pena, sviliscono l’autorità dello Stato ed incrinano la sicurezza sociale. Bisogna piuttosto agire su altre linee di intervento: evitando ogni abuso della custodia cautelare, estendendo il ricorso alle comunità per i tossicodipendenti e facendo espiare la pena ai detenuti extracomunitari nei paesi di origine”. Quando si parla di piano carceri, sembra sempre si voglia calciare la palla in tribuna. Se si ha contezza dell’urgenza, della priorità di sanare lo scandalo delle carceri, non si dovrebbe parlare d’altro: fondi Pnrr, concorso di idee, riunioni con le regioni su dove costruirle… se ne dovrebbe parlare molto di più. E invece… “Se ne parla piuttosto troppo ed invano. È giunta l’ora di credere invece nelle idee che diventano azioni. Per la prima volta, un Governo interviene con imponenti interventi sul fronte del personale della polizia penitenziaria, attraverso un piano di assunzioni straordinarie, e con la istituzione di un commissario per l’edilizia penitenziaria prevedendo la costruzione di otto nuovi padiglioni. Solo all’interno di una cornice di sicurezza, è possibile garantire l’umanizzazione della pena, e salvaguardare la tutela dei diritti all’interno delle carceri”. Il Sistema di Palamara è ancora lì, tale e quale a quello descritto nel celebre best-seller. Le correnti, le cordate, il Csm politicizzato, gli scambi di favori e le coperture tra procuratori, i fascicoli di valutazione: dopo due anni di governo Meloni, non è cambiata una virgola... “A fronte di certa storia giudiziaria recente, non serve cambiare virgole ma occorre strappare intere pagine. La gramigna va estirpata con decisione, ma con metodo. Per evitare che in futuro degenerazioni correntizie, “modestia etica” ed interessi privati continuino a corrompere dall’interno il sistema giudiziario e mortifichino il lavoro coraggioso e necessario dei magistrati, occorre procedere senza indugi con la separazione delle carriere e la riforma del CSM. Mai più consessi indecenti all’hotel champagne”. “Il più grande scandalo della storia repubblicana”, come venne descritto il caso della centrale delle intercettazioni abusive del sottufficiale GdF Pasquale Striano, è completamente uscito dai radar ormai da sei mesi. Colpiva anche esponenti di Fdi, da Crosetto a Urso. Cosa ne è, cosa ne sa? “Non confondiamo il silenzioso disinteresse con il doveroso riserbo delle attività di indagine: la Commissione antimafia grazie al lavoro della Presidente Colosimo, sta approfondendo ogni aspetto di questa vicenda torbida ed inquietante, che ha profanato la sede della direzione nazionale voluta da Falcone. Anche per questo abbiamo il dovere di fare piena luce”. “Con le riforme troppi limiti alle indagini. Più facile scoprire i mafiosi che i funzionari infedeli” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 29 agosto 2024 “L’abolizione dell’abuso d’ufficio? Misura ormai poco incisiva. Rischioso limitare a 45 giorni le intercettazioni. Pochi magistrati negli uffici, lo Stato continui a investire sulla lotta ai clan. Le norme attuali frenano il diritto all’informazione”. “Oggi è più difficile scoprire i funzionari infedeli che i mafiosi”. Il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia traccia un bilancio dell’attuale fase di lotta al crimine. “Le indagini sui colletti bianchi sono più difficili perché non è possibile utilizzare il sistema legislativo che funziona nei confronti della mafia, abbiamo strumenti diversi, certamente meno invasivi, ma anche meno efficaci”. Si sono sollevate non poche polemiche per l’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Cosa ne pensa? “Prendo atto con rispetto di quanto deciso dal Parlamento. Quando fui audito in commissione giustizia segnalai però la problematicità di questa abrogazione: la precedente modifica, intervenuta nel 2000, aveva già fortemente limitato l’ambito di applicabilità del reato di abuso d’ufficio. Dunque, è stato fatto un intenso lavoro per una questione sostanzialmente poco incisiva”. Perché allora si è lavorato così tanto per eliminare un reato ormai inutilizzato? “Magari l’abrogazione dell’abuso d’ufficio avrà un valore simbolico per qualcuno, ma si era già intervenuti in materia. In realtà, c’è una questione di metodo più generale: le attuali scelte in materia di politiche penali si susseguono in materia caotica senza lasciare il tempo alle norme approvate di sedimentare. Perché se ne fa una, e un minuto dopo se ne fa un’altra. Per gli operatori del diritto è difficile adeguarsi ai mutamenti”. Cosa bisognerebbe fare per essere più incisivi nelle indagini sui colletti bianchi? “Dal punto di vista normativo, bisogna essere assai cauti soprattutto con riguardo alle intercettazioni. La corruzione, come la mafia, è un reato occulto che si scopre non perché qualcuno te lo dice, ma perché ascolti chi compie i reati”. Cosa ne pensa dell’emendamento che vorrebbe ridurre le intercettazioni a 45 giorni? “Si rischia di introdurre un elemento preoccupante per chi fa indagini sulla pubblica amministrazione, perché le limita moltissimo. Piuttosto, sarebbe sufficiente prendere atto del fatto che già oggi le intercettazioni sono autorizzate da un giudice terzo, in presenza di specifici e rigorosi requisiti. Bisogna poi uscire da un equivoco, le intercettazioni non finiscono abusivamente sui giornali. Quelle che vengono pubblicate sono solo quelle nella disponibilità delle parti. Dalla riforma Orlando, esiste un archivio riservato per le conversazioni irrilevanti, che rimangono segrete”. Il dibattito sulla giustizia è affollato dai tagli. Cosa bisognerebbe invece potenziare? “Il vero tema è quello del processo, che non potrà mai funzionare in questo modo. Non possiamo avere lo stesso processo per tutti i reati. Bisognerebbe immaginare una ripartizione del codice penale non più in delitti e contravvenzioni, ma in crimini, delitti e contravvenzioni. Con delle procedure adeguate in base all’importanza del reato”. In realtà, un’aggiunta è stata immaginata nella riforma: a decidere sull’arresto saranno tre giudici. Un altro appesantimento? “Una delle questioni più gravi con cui ci confrontiamo oggi è quella degli organici della magistratura. Quest’ultima modifica, pur essendo senz’altro astrattamente garantista, aggraverà di certo il problema”. A Palermo, ufficio simbolico di frontiera, quanti pm mancano? “Ben dodici, ma il tema non riguarda solo il mio ufficio. A Palermo, carenze di organico ci sono anche all’ufficio gip e in tribunale. Ma non è solo questione di numeri”. Cosa c’è in ballo negli uffici giudiziari più esposti? “Dopo una lunga stagione, lo Stato può dire di essere vincente contro la mafia. Ma siamo in un momento delicato, in cui Cosa nostra punta alla riorganizzazione, mentre continua ad avere relazioni importanti con la zona grigia di questo paese. Se lo Stato non continuerà a investire in questa lotta, mettendo le procure in condizione di lavorare a pieno regime, rischiamo di perdere la partita che stiamo vincendo”. In questa fase così delicata, sono arrivate anche le norme che hanno limitato l’informazione... “La presunzione di innocenza, posta a base delle ultime modifiche, è fondamentale. Ma hanno un rilievo costituzionale anche il diritto dei cittadini di essere informati e il dovere della stampa di informare. Il punto di equilibrio è allora informare in maniera coerente con il principio di presunzione di innocenza. Ma quando si pongono solo due strumenti di comunicazione a disposizione del procuratore, il comunicato e la conferenza stampa, e si limita moltissimo dal punto di vista sostanziale, si creano una serie di difficoltà alla libera informazione. E si alimenta il rischio di un mercato nero delle informazioni”. Quali correttivi suggerirebbe? “La normativa attuale va rispettata, ma credo sia legittimo osservare che sarebbe più giusto porsi da una prospettiva diversa. In un sistema liberale, non si può limitare prima, è molto più corretto sanzionare dopo chi non si attiene ai principi della corretta informazione”. Carcere a chi inneggia a boss e criminalità. La proposta di legge di Borrelli (Avs) Il Roma, 29 agosto 2024 Punire penalmente, con la detenzione fino a tre anni, chi esalta in pubblico le gesta dei mafiosi, a partire da quei cantanti neomelodico che esaltano nei loro testi la malavita e la criminalità organizzata, glorificando figure o episodi ad esse collegate, o che denigrano persone che lottano contro la criminalità, a partire dai pentiti. Ma anche chi organizza gli ‘inchini’ di fronte alle case dei boss nel corso di processioni religiose e chi realizza murales strizzando l’occhio alla criminalità organizzata, come avviene a Napoli. Nella proposta di legge a firma del deputato di Avs, Francesco Emilio Borrelli si chiede dunque di introdurre nel codice penale una nuova fattispecie di reato: l’apologia della criminalità organizzata e della criminalità mafiosa. Un unico articolo di legge da aggiungere dopo l’art. 414.bis del Codice penale il 414-ter, dal titolo ‘Apologia della criminalità organizzata e della criminalità mafiosa’. “Chiunque mediante spettacoli pubblici o la diffusione di testi o produzioni audio o video o attraverso i social network o qualsiasi mezzo telematico, inneggia a persone o fatti legati alla criminalità organizzata ed alla criminalità mafiosa o denigra persone distintesi per attività di qualunque tipo contro la criminalità organizzata, è punito con la reclusione fino a tre anni, salvo che il fatto non costituisca reato più grave”, si legge nel testo. “Alla stessa pena - si prevede - soggiace chi promuove o finanzia od esegue l’edificazione di manufatti o di installazioni murarie o similari inneggianti persone o fatti legati alla criminalità organizzata o alla criminalità mafiosa, di cui agli articoli 416 e 416-bis”. Pene previste anche per i media che diffondono i messaggi apologetici: “Quando il delitto di cui al primo comma è commesso mediante l’utilizzo di social network ovvero mediante emittenti radio o televisive o per mezzo della stampa, il soggetto responsabile della divulgazione del contenuto non conforme al divieto di apologia previsto dal primo comma è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 10.000 euro e con l’obbligo di rettifica con identica visibilità della pubblicazione illecita”. Infine viene spiegato come non potranno “essere invocate ad esimente o ad attenuante” del reato previsto “motivazioni o finalità di carattere artistico, storico, letterario o riferibili al folclore, a consuetudini od usi locali”. Borrelli in premessa ricorda come “negli ultimi tempi, uno dei veicoli maggiormente utilizzati sono i murales raffiguranti persone decedute a seguito di reati da loro stessi perpetrati. Grazie alla mobilitazione mediatica, a Napoli e provincia sono cominciate le rimozioni di numerosi altarini e murales dedicati a boss o ad esponenti grandi e piccoli della criminalità. Ma l’intervento si è basato soprattutto sulla mancanza di autorizzazioni per la loro realizzazione e non risultano puniti, né addirittura individuati, gli autori delle “opere”. “Da ultimo - sottolinea Borrelli - è da annoverare il cosiddetto ‘Denaro Messina Stylè, ovvero la moda di vestirsi con i capi di abbigliamento indossati dal boss Matteo Messina Denaro al momento dell’arresto, moda rilanciata anche attraverso i social da alcuni commercianti. Le sentenze creative dei giudici stanno minando l’autorità della legge di Paolo Ferrua* Il Dubbio, 29 agosto 2024 È la Consulta ad aver legittimato il prevalere dell’interpretazione: strappo che si somma alla rivolta delle toghe contro il divorzio giudici-pm e alle torsioni della riforma Cartabia. Legislazione sempre più “subordinata” al diritto vivente generato dalla giurisprudenza: il primo di tre gravi vulnus aperti nel sistema penale. 1. Vi sono due problemi la cui risoluzione, a mio avviso, è condizione necessaria perché l’amministrazione della giustizia penale esca dalla crisi in cui oggi versa. Il primo è quello dei giudici- legislatori, espressione con la quale alludo alle decisioni che superano la cornice dei significati ragionevolmente attribuibili al testo della legge; in altri termini le decisioni che, sotto l’alibi della insopprimibile interpretazione, si risolvono in realtà nella creazione di una nuova disposizione (giustamente dette sentenze “creative”). È un fenomeno ampiamente diffuso, la cui responsabilità risale in larga misura a due infelici sentenze della Corte costituzionale (nn. 348 e 349 del 2007), le quali hanno affermato il carattere vincolante delle interpretazioni espresse sul testo della Convenzione europea dai giudici di Strasburgo. Quelle sentenze, pur prive in tale parte di efficacia vincolante (trattandosi di affermazioni incidentali, formulate solo nella motivazione e non nel dispositivo), hanno gravemente contraddetto due fondamentali principi del nostro ordinamento giuridico. Anzitutto, la soggezione del giudice alla sola legge, costituzionalmente garantita dall’articolo 101 comma 2 Cost.; è evidente che il principio si vanifica se il giudice è vincolato non tanto alla legge, quanto all’interpretazione che di quel testo ha dato un diverso giudice, chiunque esso sia, sovranazionale o nazionale. In secondo luogo, la distinzione logico- giuridica tra dispositivo e motivazione: il primo senza dubbio vincolante, non essendo il dispositivo null’altro che un comando; la seconda puramente persuasiva, costituendo un tipico esercizio di ragione. Convertire un esercizio di ragione in un comando è il grave abuso epistemologico, purtroppo imputabile alla Corte costituzionale. Lo sconvolgente risultato è stata una progressiva e irreversibile svalutazione dell’autorità della legge: definire “vincolante” l’interpretazione è il primo passo per screditare la legge (sia nazionale sia sovranazionale), a tutto vantaggio di un esorbitante potere “creativo” dei giudici. Si è così determinato un progressivo distacco del “diritto vivente”, di origine giurisprudenziale, dal “diritto vigente”, ossia quello legislativo: in una grottesca inversione delle due sfere, oggi è il diritto vigente ad inseguire il diritto vivente, a tradurre in legge le interpretazioni “creative” della giurisprudenza. Né ci si può meravigliare se altre giurisdizioni superiori reclamano il privilegio dell’interpretazione vincolante, a cominciare dalla Corte di cassazione. Un embrionale passo in questa direzione è il nuovo testo dell’articolo 618 c. p. p., relativo ad una parziale efficacia vincolante del principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite della Cassazione. Il compito della Corte costituzionale non è di dettare regole sul valore delle interpretazioni giurisprudenziali e nemmeno quello di proporre riforme ritenute appropriate al nostro ordinamento (come, ad esempio, è avvenuto con la sentenza n. 132 del 2019 che, senza rilevare alcun contrasto di costituzionalità, ha di propria iniziativa suggerito al legislatore di ampliare le deroghe all’oralità e all’immediatezza), ma quello tecnico- giuridico di verificare se una legge ordinaria, della cui legittimità si dubita, sia o no conforme ai precetti costituzionali; e a tal fine, di certo, non aiuta il fatto che la nomina dei giudici costituzionali, più che sulla base di criteri schiettamente meritocratici, avvenga spesso attraverso contrattazioni tra i partiti o tra le correnti della magistratura, più inclini a tenere conto dell’orientamento politico- ideologico dei candidati che non della loro competenza giuridica. 2. Il secondo problema è quello dell’atteggiamento della magistratura di fronte alla prospettiva di separazione delle carriere. Che la magistratura sia contraria alla riforma è del tutto legittimo, dato che la riguarda direttamente. Così come appare comprensibile il timore più volte espresso che la separazione delle carriere possa preludere a controlli del potere politico sul pubblico ministero o comunque ad una differenziazione tra giudici e pubblici ministeri in punto di indipendenza esterna. Il ministro assicura che l’indipendenza del pubblico ministero resterà assolutamente ferma. Ma, non essendo il futuro ipotecabile, quel collegamento tra potere politico e pubblico ministero, presente in diversi Stati democratici, potrebbe realizzarsi presto o tardi anche nel nostro paese; e - lo si condivida o no - se attuato con legge costituzionale, difficilmente potrebbe considerarsi un golpe. Quello che, invece, appare dal mio punto di vista inopportuno è che un consistente settore della magistratura reagisca alla temuta prospettiva attaccando i due cardini del processo accusatorio: la funzione del pubblico ministero e la centralità del dibattimento. Il primo attacco consiste nell’affermare la natura di parte- imparziale del pubblico ministero, accompagnandola da catastrofiche previsioni sulla veste di implacabile accusatore che assumerebbe in un regime di separazione delle carriere. Discorso fuorviante perché il modello accusatorio regge sulla netta separazione di poteri tra parte e giudice, per effetto della quale chi non sia “giudice” è per logica esclusione “parte”. Il processo è un campo di forze in delicato equilibrio tra loro, dove ogni alterazione di funzioni in un singolo soggetto si ripercuote inevitabilmente sugli altri. Se il pubblico ministero abbandona la sua veste di “parte” per assumere quella di para- giudice, è altissimo il rischio che sia il giudice a convertirsi in accusatore, per rimediare al vuoto di funzione: così, d’altronde, avveniva nel vecchio processo di pretura dove alla frequente latitanza del pubblico ministero suppliva l’impulso demiurgico del giudice. L’idea che la richiesta di archiviazione o di proscioglimento presentata dal pubblico ministero sia il segno della sua “imparzialità” deriva da una terribile confusione tra il piano delle funzioni e quello delle azioni (il cosiddetto piano “attanziale”). Come ogni organo pubblico, l’accusatore è soggetto alla legge; e poiché questa subordina l’esercizio dell’azione penale alla presenza di elementi idonei a sostenerla, e la condanna alla prova oltre ogni ragionevole dubbio della colpevolezza, il pubblico ministero è tenuto a chiedere l’archiviazione o il proscioglimento in assenza dei requisiti appena menzionati. Se di “imparzialità” per il pubblico ministero si vuol parlare, è solo nel senso del divieto di praticare discriminazioni tra i soggetti nei cui confronti si sviluppa la sua azione. 3. Un altro attacco al modello accusatorio si è sviluppato con la partecipazione dei più autorevoli esponenti della magistratura come presidenti di commissione nella riforma “Cartabia”. Il modello accusatorio esige un’indagine fluida e poco formalizzata, al fine di realizzare due importanti condizioni: il rapido passaggio alla fase del dibattimento, essenziale per un uso contenuto delle misure cautelari, e l’irrilevanza probatoria degli atti svolti nella fase preliminare. La riforma Cartabia percorre le vie retrograde del garantismo inquisitorio. L’indagine preliminare viene appesantita da finestre giurisdizionali, da controlli del giudice e da una nutrita serie di termini, peraltro puramente ordinatori. Il messaggio che veicola questa metamorfosi dell’indagine preliminare è piuttosto trasparente: mostrare come la separazione delle carriere non sia necessaria, in un sistema dove il pubblico ministero è sistematicamente controllato nei suoi passi dal giudice, il quale neutralizza ogni eccesso accusatorio, convertendolo per l’appunto in una parte- imparziale. Peccato che tutto ciò si traduca nell’affossamento di quel poco che sopravvive del modello accusatorio. L’indagine preliminare diventa l’epicentro del processo, crescono le occasioni di ricorso alle misure cautelari, l’autonomia del dibattimento si riduce al crescere del formalismo delle indagini, la memoria dei testimoni declina. Il processo inquisitorial-garantito è alle porte. *Giurista È depistaggio quando si agisce con l’intenzione precisa di deviare l’indagine o il processo di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 29 agosto 2024 Con la sentenza n. 32470 del 9 agosto 2024, la Sezione VI Penale della Corte di Cassazione, presieduta dal Cons. Fidelbo, ha sancito un importante principio di diritto, riguardante il dolo specifico nei reati di frode in processo penale e depistaggio. La Corte ha chiarito che, per vedersi configurato il delitto previsto dall’art. 375 del codice penale, è necessario che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio agisca con l’intenzione precisa di deviare l’indagine o il processo rispetto al loro corso naturale. Non è sufficiente, invece, che l’azione sia finalizzata a rafforzare o consolidare indagini o prove già acquisite, situazione che potrebbe integrare ipotesi meno gravi. Questo chiarimento mette in evidenza come la Cassazione intenda riservare l’applicazione della sanzione più severa esclusivamente ai casi in cui vi sia un’intenzionalità chiara e diretta nel deviare il corso della giustizia, distinguendo così tra varie condotte che possono verificarsi durante le indagini o i processi. Sempre la Sesta Sezione della Corte di Cassazione con l’arresto n. 24557, nel 2017 aveva affermato che il reato di frode in processo penale e depistaggio, si configura come reato proprio del pubblico ufficiale, o dell’incaricato del pubblico servizio, la cui qualifica sia preesistente alle indagini e la cui attività sia in rapporto di connessione funzionale con l’accertamento che si assume inquinato, dovendo essere la condotta finalizzata all’alterazione dei dati, oggetto dell’indagine o del processo penale, da acquisire o dei quali il pubblico ufficiale sia venuto a conoscenza nell’esercizio della sua funzione. È dunque evidente come la tipizzazione delle condotte risulti identica a quella prevista dagli ulteriori delitti di frode processuale, false informazioni al Pubblico Ministero o falsa testimonianza, dalla quale però si differenzia per la richiesta sussistenza del dolo specifico e per la qualificazione del soggetto attivo. L’elevata previsione sanzionatoria, poi, ha messo in risalto la necessità che il soggetto attivo ponga in essere una delle condotte mentre si trova ad adempiere ad un dovere inerente la sua funzione, il cui svolgimento implica una fisiologica convergenza di interessi tra la pubblica amministrazione rappresentata e il dipendente chiamato a svolgerne le funzioni. Un’ altra pronuncia della Corte, arrivata nel febbraio 2023, aveva contribuito ad ampliare l’esegesi giurisprudenziale del reato in oggetto. Mentre le condotte volte ad ostacolare o sviare le indagini o un processo penale non possono che riguardare un processo che sia già stato attivato, le condotte volte a impedire l’avvio stesso del procedimento - attraverso per esempio la formazione di falsa documentazione - può riguardare anche un procedimento penale ancora non iscritto, a condizione che i comportamenti depistanti siano idonei a generare un pericolo di inganno volto a condizionare l’accertamento della verità processuale: così secondo la sentenza n. 7572/ 2023 della Suprema corte di Cassazione. In questa occasione i giudici di Piazza Cavour avevano ritenuto prive di rilevanza le doglianze difensive secondo le quali il delitto ex art. 375 c. p. non poteva configurarsi perché il portafoglio in oggetto non aveva (ancora) acquisito la qualifica di corpus delicti in un procedimento penale già in corso d’opera, perché l’imputato non era un pubblico ufficiale incaricato delle investigazioni (essendone anzi il destinatario), né queste ultime erano state formalmente ancora avviate. Secondo chi scrive è ragionevole ritenere che, in pendenza di indagini già avviate o di un procedimento penale pendente, occorra sempre l’esistenza di una correlazione funzionale tra le funzioni svolte dall’agente e le specifiche investigazioni in corso. Predetto requisito non risulta indispensabile, invece, laddove la condotta depistante sia posta in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio in occasione dell’esercizio delle funzioni di quell’ufficio o di quel servizio. La Suprema Corte era giunta a questa interessante conclusione - su cui non constano precedenti in termini nell’ancora scarsa giurisprudenza in subiecta materia - muovendo da quell’arresto di legittimità che aveva chiarito, in generale, che il delitto di depistaggio materiale postula, sul piano oggettivo, l’esistenza di un nesso tra il fatto realizzato dal soggetto agente e il pubblico ufficio o servizio di cui lo stesso è investito, non essendo però necessario che il pubblico ufficiale sia stato incaricato di specifici accertamenti rispetto ai reati. In conclusione si può asserire che la ratio legis della norma ex art. 375 c. p. risieda nella ricerca della verità giudiziaria, non tanto in quella che è la tutela delle indagini processuali; purtroppo, essendo la norma caratterizzata da forte indeterminatezza sarà sempre oggetto di interpretazione e quindi discrezionalità da parte dell’autorità giudiziaria. *Avvocato, Direttore Ispeg Sardegna. La Garante: “Detenuti senza assistenza sanitaria in tutta l’Isola” di Paolo Rapeanu castedduonline.it, 29 agosto 2024 Trovare un numero sufficiente di dottori è un miraggio già negli ospedali, figurarsi nei penitenziari. La denuncia della garante dei detenuti, Irene Testa: “Mancano dirigenti sanitari e medici in tutte le dieci carceri sarde, vanno garantite tutte le cure”. Stesso discorso per i dentisti, introvabili. E gli psichiatri sono ancora troppo pochi. Li cercano col lanternino in quasi tutti gli ospedali sardi, figurarsi nei penitenziari. I medici sono fantasmi anche dietro le sbarre, tra chi si trova recluso e ha diritto, come qualunque essere umano, di essere curato e visitato. La denuncia arriva da Irene Testa, la garante regionale delle persone private della libertà personale ha terminato un tour, tanto faticoso quanto a tratti horror, in tutte e dieci le carceri dell’Isola. E la situazione è drammatica ovunque: “Anche le persone private della libertà personale hanno diritto ad essere curate. Nel tour che sto effettuando in questi giorni emerge una grave carenza sanitaria in tutte le dieci carceri dell’Isola. Mancano dirigenti sanitari e medici in tutti gli istituti. Sono pochi gli psichiatri a fronte di una popolazione prevalentemente malata. In diversi istituti mancano dentisti e medici del 118. L’Areus e le Asl non possono ignorare il problema”, tuona la Testa. Un refrain già sentito, purtroppo, tante altre volte: basta pensare al caso di Isili, col pronto soccorso chiuso per un mese, ma anche nelle più grosse realtà sanitarie dove le liste di attesa sono ancora vergognosamente lunghissime. “L’assistenza sanitaria deve essere garantita anche all’utenza detenuta e internata, ai quali va garantita una pena dignitosa e conforme ai principi dettati dalla Costituzione oltre che dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo”, ricorda Irene Testa. “Mi appello all’assessore alla Sanità affinché possa intervenire con la massima urgenza”. Paola (Cs). Morto a 21 anni in carcere, la Procura apre indagini. E c’è chi da 8 anni cerca verità di Maria Teresa Improta quicosenza.it, 29 agosto 2024 Il ragazzo si sarebbe tolto la vita il 30 giugno, l’esito dell’autopsia non è stato ancora comunicato. Per un altro caso di suicidio invece c’è una famiglia che aspetta da anni di conoscere la dinamica del decesso. Morto in carcere a 21 anni. Il decesso di Giuseppe Spolzino di Sala Consilina ha indotto la Procura di Paola ad avviare indagini, aprendo un fascicolo a carico di ignoti. Eseguita l’autopsia all’Ospedale di Cetraro, l’esito degli esami svolti dal medico legale Pietrantonio Ricci dell’Università di Catanzaro non è ancora stato comunicato. La salma intanto è stata dissequestrata e restituita ai familiari per le esequie che si sono tenute nelle scorse settimane tra lo sgomento di parenti, amici e conoscenti. Condannato a 3 anni e 6 mesi di reclusione con rito abbreviato dal gup del Tribunale di Lagonegro, era in attesa di presentare ricorso alla Corte d’Appello di Potenza per rivedere la sentenza. Il pm della Procura di Paola Mariolina Bannò sta seguendo con molta attenzione la vicenda. La morte di Giuseppe nel carcere di Paola - Sono infatti stati sollevati dai familiari alcuni interrogativi attualmente al vaglio dell’autorità giudiziaria. In particolare alcune discrasie in corso di accertamento sarebbero state rilevate nel documento redatto il 1° luglio dalla direttrice del carcere di Paola, Emilia Boccagna e inviato alla locale Procura, al Tribunale di Lagonegro, al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al Ministero della Giustizia. Tra le presunte incongruenze vi sarebbero alcuni dettagli relativi al ritrovamento del corpo del ragazzo all’interno della cella nella quale si sarebbe suicidato impiccandosi con un lenzuolo. Giuseppe era stato trasferito dalla casa circondariale di Poggioreale agli arresti domiciliari a Scalea in quanto ritenuto incompatibile con il regime carcerario. Violata la misura cautelare è stato poi tradotto nel penitenziario di Paola dove ha perso la vita dopo circa 10 giorni: ufficialmente alle 22:00 di domenica 30 giugno. Il padre lo aveva visto martedì, l’avvocato giovedì. Era in attesa di un nuovo colloquio con la psicologa del carcere e stava seguendo un corso di giustizia riparativa. Nulla lasciava presagire l’imminente tragedia. Anzi. L’ambiguo suicidio del 2016 - La vicenda ha di certo contorni e circostanze diverse, ma inevitabilmente fa riaffiorare il ricordo della morte del 46enne Maurilio Morabito cui dinamiche restano a distanza di 8 anni ancora da accertare in via definitiva. L’uomo doveva scontare una condanna per un’evasione dai domiciliari avvenuta 10 anni prima, quando andò dal medico senza avvisare gli organi competenti. Gli mancava poco più di un mese di reclusione, poi sarebbe uscito dalla casa circondariale di Paola ed era pronto per tornare a lavorare. Ma così non è stato. In quel penitenziario il suo cuore ha cessato di battere. Si sarebbe ucciso dando fuoco ad una coperta ignifuga per poi impiccarsi con la stessa dopo averla legata ad una griglia a nido d’ape posizionata a 45 centimetri dal pavimento, nonostante lui fosse alto 1 metro 73 centimetri. È stato trovato in mutande, privo di vita, in una cella dove era stato rinchiuso con solo un secchio per urinare e defecare. Una misura punitiva, usata paradossalmente per tutelarlo. Da tempo denunciava di essersi rifiutato di “fare un favore” e di temere di essere ucciso. Lo disse anche in una lettera: “Se dovesse accadere un mio eventuale decesso, - scrisse - facendo il tentativo di farlo passare per un suicidio, non è così in quanto amo troppo la vita e il mio fine pena è imminente. Ovvio che l’agente che fa la notte sa”. Morabito attende giustizia - I familiari di Morabito attendono di capire cosa abbia portato Maurilio alla “verosimile morte per suicidio” verbalizzata nell’autopsia. Al termine del processo penale scaturito d’ufficio, si sono ritrovati ad essere condannati a pagare 1.800 euro di spese processuali ciascuno (madre, padre, sorella e fratello). Un altro procedimento civile pendente innanzi al Tribunale di Reggio Calabria per “culpa in vigilando” è ancora in corso di svolgimento tra rinvii e testimonianze contraddittorie di alcuni agenti della penitenziaria puntualmente rilevate dal giudice. “Sono passati anni, ma so che dopo la morte di mio fratello - ricorda la sorella di Morabito - almeno altre due persone hanno perso la vita in quel carcere. Non mi hanno fatto entrare nella cella dove era recluso, che è sostanzialmente un piccolo corridoio di 2 metri per 1 metro. Hanno chiamato alle 8:30 dicendoci che era deceduto all’1:00 di notte. Dai fagioli non digeriti ritrovati nel suo stomaco sembra però sia spirato un quarto d’ora dopo la cena: quindi verso le 18:15. Al collo aveva un segno simile a quello che potrebbe lasciare un cavo del caricatore del cellulare. Aveva subito pesanti minacce. Diceva di avere paura e chiedeva di essere protetto. In uno degli ultimi colloqui aveva chiesto di chiamare i carabinieri perché temeva per la propria incolumità. È vero che chi sbaglia deve pagare, ma non con la vita”. Catanzaro. “Sono in sciopero della fame per essere curato, altrimenti voglio morire” Il Dubbio, 29 agosto 2024 La lettera di Mario Francesco, detenuto presso la Casa circondariale di Catanzaro. Martedì ha cominciato lo sciopero della fame perché la magistratura di Sorveglianza ha rigettato la richiesta del suo difensore, l’avvocato Filippo Cinnante di Cosenza, di differimento della pena, ma ha imposto al Dap di trovare un carcere che fosse adeguato alle sue condizioni di salute. “Lo hanno mandato a Modena, poi a Parma e alla fine nuovamente a Catanzaro - spiega l’avvocato Cinnante - scrivendo che è detenuto e che le strutture carcerare non sono adeguate. Così abbiamo avanzato richiesta di ricoverarlo in struttura esterna per il tempo strettamente necessario, ma la Sorveglianza prima di qualsiasi disposizione ha scritto all’area sanitaria del carcere per capire quali potessero essere queste strutture adeguate. Questo accadeva ad aprile. Ad oggi dal carcere, nonostante i solleciti del Tribunale di Sorveglianza, nessuna risposta. Intanto gli hanno sospeso pure le cure. E lui da ieri ha cominciato lo sciopero della fame”. Lo ha anche annunciato in una lettera, consegnata sempre martedì al suo difensore, inviata al magistrato di Sorveglianza di Catanzaro, al Garante dei detenuti della Calabria che pubblichiamo. “Io sottoscritto Mario Francesco (Cosenza 09-04-1979), attualmente detenuto presso la Casa circondariale di Catanzaro, scrivo con rammarico, dispiacere e delusione per evidenziare, ancora una volta, una situazione chiara, semplice evidenziata da innumerevoli visite medico-specialistiche, da plurimi accertamenti sanitari che davvero non so in che altro modo comunicare, anzi GRIDARE: sto morendo, sto morendo assurdamente, causa una incredibile burocrazia, che causa un rifiuto di assunzione di responsabilità da parte delle autorità preposte. Vivo senza un ARTO, la gamba sinistra si è ridotta a un moncone, posso muovermi solo su una sedia a rotelle. Ebbene vivo in una cella, ovviamente non idonea per una persona che vive nel mio stato. In questa sezione, da mesi, non funziona l’ascensore, quindi niente aria, niente cielo e niente sole. Per trasferirmi nell’aula colloquio, con famiglia e avvocati, devo saltellare su una gamba, mentre portano al piano terra a mano la mia carrozzina! Non mi permettono di effettuare la indispensabile terapia fisioterapica giornaliera, peraltro prescrittami da tutti gli specialisti, fuori dal carcere, ma, anche, incredibile in carcere. Qualunque reato, qualunque pena non deve permettere queste cose. Sono allocato in una sezione comune, senza ovviamente nessun presidio necessario per un malato, oltretutto obeso. Prendo molti farmaci, ma sento la vita svanire giorno per giorno!!! Ero ricoverato nel centro medico di questa casa circondariale (Catanzaro), ma purtroppo una mattina mi hanno imposto il trasferimento nella cella 112- 1A-Ro, dove sono ormai da 5 lunghi mesi. Credo che non sia crudeltà o volontà perversa a tenermi in questo stato: temo sia una vergognosa disorganizzazione, una indifferenza dell’Area sanitaria, una burocrazia dell’ufficio di Sorveglianza che, se solo volesse, potrebbe risolvere in poco tempo la mia drammatica situazione. Ero ai domiciliari, sono stato ristretto in espiazione pena, ma nelle mie condizioni dove potevo, anzi, dove posso andare? Capisco tutte le esigenze giuridiche, ma in questa sede mi permetto unicamente di chiedere: perché NON TRASFERIRMI IN UNA STRUTTURA IDONEA? Perché questa giornaliera tortura? Sono tanti i perché sono inesistenti le risposte. Fatemi espiare la mia pena. Non sono possibili i domiciliari? Bene mandatemi in un ospedale, una casa di cura attrezzata per le mie patologie, con tutte le dovute imposizioni di sicurezza. Oppure fatemi morire. Oppure si è deciso che io debba morire. Ma ditelo in fretta, io non resisto più. La mia ultima possibilità è fare lo sciopero della fame. Questo non per avere niente altro che una risposta. È possibile farmi curare, o volete che io muoia? Semplice senza altre parole: non ce ne sono. Chi ha responsabilità si ATTIVI. Io, intanto, aspetto altro: LA MORTE. Milano. Chi sono i ragazzi del Beccaria (fuori dall’emergenza) di Don Claudio Burgio e don Gino Rigoldi* Avvenire, 29 agosto 2024 È possibile che fra qualche giorno abbiate notizia di un materasso bruciato o di una protesta dei ragazzi del Beccaria. Dopo qualche ora, verremmo intervistati da qualche organo di informazione, giornali o televisione. Vogliamo parlarvi dei ragazzi del Beccaria e il Beccaria fuori da ogni fatto di protesta o simili. La prima condizione da affermare è che al Beccaria arrivano gli adolescenti più in difficoltà, i più abbandonati, i più poveri di cultura fino ad arrivare all’analfabetismo, quelli che dormono dove possono e molti semplicemente in strada o in qualche ricovero provvisorio, alcuni molto piccoli. Sono giovani, appaiono pieni di energia e belli ma in verità sono e si sentono poveri. Ancora più poveri sono i molti ragazzi che incontriamo, sempre al Beccaria, con gravi problemi psichici quando non ci siano tracce di sofferenza psichiatrica. Anche il tipo di reati si configura come reati della sopravvivenza, quelli di chi non ha né casa né lavoro né accoglienza... Ovvio che i reati vanno perseguiti come sarebbe ovvio avere per i ragazzi delle risposte vere e concrete. Tutti gli operatori, dal direttore agli educatori, ai formatori, gli e le agenti di Polizia penitenziaria, il cappellano, sono impegnati nella costruzione di un buon progetto educativo interno a partire dall’ascolto, per poi ragionare sulla risposta possibile e compatibile con i bisogni che i ragazzi esprimono. Poi finalmente si esce dal Beccaria, per andare quasi mai in famiglia, più spesso verso comunità che fanno fatica ad accogliere perché sono quasi sempre strapiene e il posto c’è se qualcuno viene dimesso. Le comunità avrebbero molti più posti se in uscita, dopo un intervento educativo completo, non ci fosse una sorta di tappo che è la possibilità di avere una casa. A Milano o fuori, a trovarla. Milano ha molte case vuote del Comune da sistemare e mettere a disposizione. Ma ha anche le case vuote delle parrocchie, le canoniche non più utilizzate, gli istituti religiosi ormai vuoti. Si deve chiedere ed avere la certezza della gestione educativa e della vigilanza e questo si può chiederlo alle comunità anche perché già esistono esperienze di autonomia “accompagnata”. La casa potrebbe essere disponibile non solo per i giovani che escono dalle comunità ma anche per altri giovani lavoratori o studenti. Potete chiamarla come volete ma la povertà che noi troviamo al Beccaria è dura, difficile, vera ma con risposte possibili. Crediamo che Gesù si riferisse anche ai minori quando ha chiamato benedetti quelli che lo hanno aiutato in carcere. *Cappellano e cappellano emerito dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano Bari. L’allarme della Camera penale: “Tragedia di Stato ancora senza risposte” di Isabella Maselli Gazzetta del Mezzogiorno, 29 agosto 2024 Gli avvocati e i parlamentari che hanno risposto all’invito visitano oggi la Casa circondariale per verificare sovraffollamento e condizioni della struttura. Sovraffollamento, criticità nell’assistenza sanitaria, carenze di spazi per il tempo libero e le attività rieducative, salubrità e adeguatezza della struttura: sono gli aspetti che i penalisti baresi verificano con la visita nel carcere di Bari. La Camera Penale di Bari, nell’ambito dell’iniziativa nazionale “Ristretti in agosto” proposta dall’Unione delle Camere Penali Italiane con il proprio Osservatorio Carcere, ha organizzato la visita nel penitenziario di Carrassi, invitando anche i parlamentari baresi. Al momento hanno dato conferma della partecipazione Davide Bellomo (Lega), Marco Lacarra (Pd) e Ignazio Zullo (FdI). “Lo scopo - spiega la presidente dei penalisti baresi, l’avvocato Marisa Savino - è denunciare l’emergenza del sovraffollamento delle carceri e dare voce a chi voce purtroppo non ne ha. E abbiamo invitato i parlamentari - aggiunge - perché la voce detenuti arrivi in Parlamento”. Presidente Savino, l’appuntamento di domani per voi penalisti è un impegno che si rinnova ogni anno e, ogni anno, riscontrate criticità. L’emergenza carceri, del resto, è un tema quanto mai caldo, al centro del dibattito politico anche questa estate. Cosa vi aspettate dalla visita? “Vogliamo verificare le condizioni di salute dei detenuti che ci sarà permesso incontrare, visiteremo una sezione e, se possibile, gli spazi di intrattenimento comuni, per capire se la casa circondariale di Bari sia idonea. Se c’è disponibilità da parte loro, vorremmo anche che i detenuti ci raccontino le loro storie. La nostra presenza serve a far capire loro che non sono soli”. Ma in fondo voi penalisti il carcere lo vivete quasi quotidianamente tramite i vostri assistiti detenuti, quindi le problematiche le conoscete già... “Quando andiamo in carcere, l’unico accesso che possiamo fare è alla stanza colloqui, quindi il primo corridoio all’ingresso. Adesso invece siamo autorizzati ad accedere nelle sezioni, a vedere gli spazi comuni, dove mangiano, dove si intrattengono, nelle celle. Già sappiamo che la struttura ha problematiche legate all’umidità, per esempio nell’ambiente destinato alla chiesa e nella biblioteca. Sappiamo delle criticità, ma abbiamo bisogno di vedere se le cose sono peggiorate”. Uno degli aspetti più allarmanti è quello del sovraffollamento (a Bari mediamente ci sono quasi 400 detenuti a fronte di una capienza di 260 posti), comune a tanti penitenziari italiani. A questo si aggiunge in maniera inversamente proporzionale la carenza di organici della Polizia penitenziaria. Anche questo è un tema dell’emergenza carceri... “Certamente. Infatti quest’anno oltre ad incontrare i detenuti intendiamo parlare anche con gli agenti di polizia penitenziaria. Lo abbiamo sollecitato espressamente quando abbiamo chiesto l’autorizzazione per la visita, perché sappiamo che sono sotto organico e che vivono situazioni di forte stress. La situazione delle carceri è una tragedia di Stato che si riversa sul detenuto ma anche sul agenti che sono deputati alla loro custodia e che è ancora senza risposte efficaci”. E poi c’è il problema dei detenuti affetti da patologie psichiatriche, alcuni dei quali incompatibili con il carcere. È il caso di uno dei quattro detenuti protagonisti della protesta scoppiata la notte del 17 agosto e culminata con l’aggressione ad un agente... “Quell’ultimo episodio a quanto pare è stato un evento occasionale che però ha avuto tanta risonanza perché il tema è caldo. Ciò non toglie che quello dei detenuti psichiatrici e in generale dei reclusi con patologie, sia un problema molto serio, legato però alla gestione della sanità penitenziaria. La Asl deve porsi il problema dell’assistenza ai detenuti oncologici, psichiatrici, al diritto dei detenuti ad essere visitati in tempi ragionevoli. Sarebbe molto utile un confronto, anche pubblico, con le autorità sanitarie del territorio per parlare di medicina penitenziaria”. Presidente, in chiusura, cambiamo argomento. Ormai da mesi la Camera penale di Bari sta protestando per le limitazioni di accesso agli uffici della Procura, organizzando anche giornate di astensione dalle udienze. È cambiato qualcosa? “Al momento no. Valuteremo a settembre se intraprendere azioni ulteriori dopo gli scioperi di luglio, anche se confidiamo sempre nel confronto aperto che possa portate a soluzioni differenti”. Bari. Le convivenze difficili nel carcere minorile “Fornelli”: al lavoro 1 agente su 3 di Mara Chiarelli L’Edicola del Sud, 29 agosto 2024 I numeri, visti così, sullo sfondo delle clamorose condizioni del carcere per adulti di Bari, non scioccano. E non restituiscono l’esatta dimensione di quello che al contrario, quotidianamente, affrontano gli operatori all’interno dell’Istituto penale per minorenni “Fornelli”, sempre a Bari. Al momento la struttura conta la presenza di 38 minorenni, in buona parte anche stranieri (tunisini, algerini, marocchini), su una capienza massima prevista di 35 persone, ma due celle sono state devastate dagli occupanti e sono quindi inagibili. La sproporzione tra capienza e presenze diventa quindi più grave. Ancora più allarmante è invece il numero di agenti penitenziari in servizio: l’organico previsto, su carta, dal capo del dipartimento, è di 50 unità. Al momento, ce ne sono solo 15. Un numero anche questo variabile, che risente di pensionamenti, malattie, trasferimenti, distacchi. Gli arrivi dal Cpe di Lecce - È ad esempio il caso degli otto agenti arrivati a giugno scorso dal Cpa di Lecce, chiuso dal Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità, Direzione Generale del Personale delle Risorse e per l’Attuazione dei Provvedimenti del Giudice Minorile. Gli otto, nelle intenzioni del Dipartimento, avrebbero dovuto dare una mano ai colleghi baresi, ma dopo qualche tempo, alla spicciolata, hanno inviato al direttore del Fornelli, Nicola Petruzzelli, il loro certificato di malattia. Le convivenze difficili - Dopo i gravi disordini registrati al Beccaria di Milano e al Ferrante Aporti di Torino, una quindicina di ospiti sono stati trasferiti a Bari. Si tratta per la maggior parte di stranieri, che si ritiene abbiano dichiarato di essere minorenni per beneficiare di quello che la legge offre per chi non ha raggiunto ancora la maggiore età (l’iscrizione al servizio sanitario, il divieto di espulsione e poi, una volta “maggiorenni” la possibilità di chiedere il permesso di soggiorno). Si tratta di soggetti multiproblematici e che, anche per etnia, socializzano difficilmente con gli italiani. Che, dal canto loro, fanno valere il loro campanilismo: i foggiani non vogliono stare con i baresi, i baresi con i leccesi. E allora, diventa complicato gestire i momenti comuni, come una partita di calcio, la sala colloqui, i film serali, le videochiamate a casa, i momenti per la formazione. Una difficoltosa e continua mediazione. La struttura - L’ingresso da via Giulio Petroni, ma la struttura confina con la casa circondariale. Niente spazi verdi, sotto un lastrico solare che rende roventi tutti gli ambienti. Fortunatamente il direttore ha fatto installare condizionatori in molti ambienti comuni e nei corridoi e conta di aumentarne la dotazione di altri cinque elementi. La formazione - Ancora, da tempo, affidata alla progettualità di privati, soffre l’assenza di intervento in tal senso della Regione Puglia, a cui spetta il compito esclusivo. Sono trascorsi infatti sette anni da quando l’ente ha organizzato un corso formativo all’interno dell’Ipm Fornelli. Foggia. Nel carcere sovraffollamento, condizioni di vita degradanti e mancanza di personale ilmegafono.eu, 29 agosto 2024 “Il carcere di Foggia è il più sovraffollato in Puglia e tra i più sovraffollati d’Italia. Ospita quasi il doppio dei detenuti, 673 detenuti, su una capienza di 364. Diverse parti sono fatiscenti o da ristrutturare; gli spazi, a cominciare dalle celle, sono largamente inadeguati; il personale pari a 240 unità è gravemente carente e secondo i sindacati è quasi la metà di quello che necessiterebbe; il personale medico è quasi inesistente e per problemi che potrebbero essere trattati in carcere oppure programmati, si finisce col ricorrere al pronto soccorso degli ospedali pubblici e questo manda in tilt un sistema già molto compromesso, esponendo il personale del carcere e gli stessi cittadini a rischi particolarmente gravi che vanno di sicuro evitati (nei giorni scorsi, ha fatto scalpore l’accompagnamento di un detenuto straniero di 34 anni al pronto soccorso del Policlinico di Foggia per una cisti, patologia ritenuta dai medici del nosocomio di certo non particolarmente grave. In tale occasione tre poliziotti sono stati impegnati per ore al pronto soccorso, prima che il detenuto venisse visitato, mentre l’art. 17 del Regolamento penitenziario prevede che un detenuto possa uscire dal carcere solo per imminente pericolo di vita dello stesso); per non parlare di come vengono gestiti i detenuti con problemi psichiatrici che non ricevono una risposta adeguata al loro bisogno di salute, mentre la legge prevede un percorso di sostegno specialistico e cure adeguate”. Lo ha dichiarato in un comunicato stampa Nunzio Angiola, ex parlamentare, attualmente consigliere comunale a Foggia e segretario provinciale di “Cambia”. “Se si pensa - ha continuato Angiola - alle possibili soluzioni, sicuramente, una riforma legislativa potrebbe aiutare. Rivedere le leggi penali per ridurre il ricorso alla detenzione, soprattutto per i reati minori e non violenti, sarebbe un passo avanti. Inoltre, è necessario migliorare il sistema giudiziario, accelerando i processi e riducendo i tempi di custodia cautelare. Bisognerebbe anche puntare di più sulle misure alternative alla detenzione, come la detenzione domiciliare o i lavori socialmente utili. Queste misure non solo riducono il numero di persone in carcere, ma possono anche aiutare i detenuti a reintegrarsi nella società in modo più efficace. Infine, è fondamentale investire in programmi di reintegrazione per ridurre la recidiva. Aiutare gli ex detenuti a trovare un lavoro, un alloggio e un supporto sociale è essenziale per impedire che ritornino al crimine. In Italia, il sovraffollamento carcerario è stato oggetto di critiche e condanne anche da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha sottolineato come le condizioni di vita in alcune carceri italiane siano inaccettabili. Negli ultimi anni, sono state avviate alcune riforme per cercare di migliorare la situazione, ma il problema resta complesso e richiede un impegno costante e deciso da parte delle istituzioni”. Per questo motivo - ha concluso Angiola - abbiamo presentato in Consiglio comunale a Foggia un ordine del giorno che impegna Sindaca e Giunta ad attivarsi, in relazione alle competenze di ognuno, presso il Ministero della Giustizia, la Prefettura, la Regione Puglia, l’ASL, l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Riuniti di Foggia e le altre istituzioni preposte, affinché siano garantiti idonei investimenti alle strutture del carcere di Foggia, che non consentono livelli accettabili di vita soprattutto in certe stagioni; affinché si investa su nuovi spazi per combattere il sovraffollamento che ha superato ogni limite di decenza; affinché il carcere sia messo nelle condizioni di assicurare forme di relazione e assistenza nel pieno rispetto del dettato costituzionale; affinché ai tanti uomini e alle tante donne che lavorano nel carcere di Foggia sia consentito di prestare il loro servizio in ambienti e condizioni adatti alla missione che lo Stato si propone di svolgere; affinché sia potenziato il personale che opera nel carcere di Foggia, non solo riguardo agli agenti di polizia penitenziaria preposti a mantenere l’ordine e la sicurezza, soprattutto in situazioni di emergenza o di conflitto tra detenuti, ma anche al personale amministrativo, educativo e sanitario, tutti ruoli cruciali per il funzionamento efficace e umano degli istituti penitenziari; affinché sia assicurata ai detenuti una risposta adeguata al loro bisogno di salute, attraverso il coordinamento e la proficua collaborazione tra il personale medico e paramedico interno e quello dei nosocomi pubblici; affinché, last but not least, si ponga un argine al dramma dei suicidi che rappresentano una vergogna per un Paese civile ed avanzato come l’Italia. Il Consiglio Comunale deve prendere una posizione”. Torino. Emergenza Vallette. “Un nuovo carcere, ma sarà gestito dai privati” di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 29 agosto 2024 L’idea che piace al ministro Carlo Nordio: il progetto ambizioso di Pantanella vede i detenuti come una risorsa per le aziende. Un nuovo carcere (privato) per gestire il sovraffollamento delle Vallette. È la proposta di Fsp, sindacato della Polizia di Stato, in seguito alla risposta positiva del ministro della Giustizia Carlo Nordio in merito all’apertura di una nuova struttura penitenziaria a Torino, dove al momento ci sono 1500 detenuti: un terzo di troppo, secondo la capienza del Lorusso e Cutugno. “La soluzione ottimale è un carcere su modello americano, dove il lavoro sta al centro di tutto” dichiara Luca Pantanella, segretario generale di Fsp. Il progetto ambizioso di Pantanella vede i detenuti come una risorsa per le aziende. Ad ora, solo un ristretto su 3 lavora: alle Vallette non c’è modo di creare opportunità professionali per tutti. “Non basta un carcere nuovo per risolvere la situazione. Ma non è nemmeno giusto applicare un’amnistia per svuotare un penitenziario. Non passi un messaggio sbagliato, ovvero che a causa del sovraffollamento le pene siano più leggere: la pena va scontata, per intero, in condizioni umane. Lavorare aiuterebbe proprio i detenuti nel migliorare la loro qualità di vita all’interno del carcere”. Strutture moderne che permettono di effettuare misure alternative per mirare a una rieducazione totale: “Lo Stato è in affanno. Va trovato un partner privato, un financial project per costruire da zero. Oggi abbiamo esempi concreti di come una gestione mista possa funzionare, basti guardare alcuni ospedali dove troviamo personale privato e medici dell’Asl” continua Pantanella “e ovviamente andrebbero assunti nuovi agenti di polizia penitenziaria. Le previsioni sono, al momento, solo di mille unità sul territorio nazionale: non bastano. Va anche ricordato come oggi sia difficile trovare professionisti esperti in lavorazioni di tipo manuale, come un idraulico o un operaio. Le aziende hanno enormi difficoltà a reclutare nuovi operai. Ecco che questo progetto è un’idea vincente anche per loro.” Nel frattempo il clima all’interno dei penitenziari italiani resta di fuoco: due sere fa nel penitenziario di Ivrea un detenuto di origini gambiane ha aggredito verbalmente e preso a botte due operatori di polizia penitenziaria mentre un agente stava aprendo il cancello della sezione per consentire l’uscita di un altro agente. “I detenuti spadroneggiano mentre gli agenti sono esausti” scrive L’Osapp in una nota. Torino. La salute delle persone detenute nel carcere “Lorusso Cutugno” di Paola Capra disuguaglianzedisalute.it, 29 agosto 2024 Intervista a Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Torino. Nel mese di luglio al Lorusso Cutugno di Torino ci sono state numerose proteste da parte dei detenuti per le condizioni (ancora più critiche nel periodo estivo) delle carceri, una delle cause è riconducibile al sovraffollamento. Ci può parlare di questa situazione e di come incide sullo stato di salute dei detenuti? La situazione delle carceri italiane degli ultimi anni è quella di un costante sovraffollamento. Secondo i dati, consultabili sul sito del Ministero della Giustizia, al 31 luglio 2024 sono presenti 61.133 persone detenute nelle carceri, al fronte di una capienza regolamentare complessiva di 51.207 posti. Il tasso attuale di sovraffollamento, pertanto, si attesta a circa il 120%. La situazione della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino non fa eccezione rispetto allo scenario nazionale. Il carcere di Torino è uno degli istituti più complessi d’Italia, e la situazione relativa al sovraffollamento risulta, perciò, ancora peggiore rispetto al dato nazionale. Le persone detenute presenti presso la CC Lorusso e Cutugno di Torino, al 31 luglio 2024, erano 1494, al fronte di una capienza regolamentare inferiore a 1000 posti. Il carcere della nostro città, da molto tempo, si trova a convivere con un sovraffollamento del 135%. La condizione strutturale e perpetua di sovraffollamento nelle carceri ha una serie di riflessi negativi che comprendono tutti gli aspetti della vita detentiva. In particolar modo, la situazione ha un rilevante peso nell’efficacia delle attività trattamentali e nel rispetto del diritto alla salute ex. 32 della Costituzione. Un numero così alto di persone detenute, unito alla scarsità di personale medico operante all’interno del carcere, causa inevitabilmente la mancata garanzia del diritto alla salute all’interno del carcere. Una parte considerevole delle lamentele raccolte da parte del nostro Ufficio nello svolgimento dei colloqui (circa l’80%) con le persone detenute riguarda, infatti, proprio la condizione sanitaria. In particolare, si riscontrano problemi legati alle cure, all’acquisto dei farmaci, alle relazioni con il personale medico ed infermieristico ed alle problematiche relative ad effettuare esami diagnostici all’esterno. Paradossale risulta essere il fatto che, nella nostra esperienza quotidiana, abbiamo rilevato la presenza di numerose persone detenute trasferite presso il carcere di Torino per motivi sanitari, in quanto sono presenti sezioni con personale medico specializzato, ma che vedono spesso la loro condizioni di salute peggiorare proprio perché vengono inseriti in contesto sovraffollato in cui risulta difficile garantire l’effettività del diritto ex 32 Cost. Si è osservato, nel carcere Lorusso Cutugno di Torino, un aumento della spesa per psicofarmaci dal 2018 al 2022 del 74%. Può descriverci le cause di questo aumento? Su questo argomento, segnaliamo l’inchiesta del giornalista Luca Rondi, pubblicata nel Gennaio 2024 su Altraeconomia, e di cui condividiamo le analisi. Attraverso i dati preoccupanti evidenziati nel puntuale lavoro di approfondimento, è possibile, senza dubbio, sostenere come questo aumento della spesa in psicofarmaci sia legato anche ad una politica di controllo della popolazione detenuta, sempre più in crescita e di conseguenza di maggiore difficoltà di gestione. Naturalmente, ciò evidenzia come il carcere e la vita al suo interno non tendano alla rieducazione del condannato, come sostenuto nell’art. 27 della Costituzione, ma, in queste condizioni divenga uno strumento di controllo, legato in particolar modo alle situazioni di marginalità sociale. Un’altra motivazione, dunque, risiede nell’analisi della popolazione attualmente detenuta, e degli effetti sulla salute mentale della detenzione nelle carceri. Infatti, sempre più frequenti, anche nelle rilevazioni del nostro ufficio, sono le persone detenute che soffrono di patologie psichiatriche conclamate, tra cui alcuni, sono in attesa di collocamento presso le REMS. Vi sono poi, i casi di persone detenute che maturano problematiche di tipo psichiatrico nel corso della detenzione, e in questo caso, bisogna far riferimento alla situazione generale del carcere, e ancor di più di quello di Torino, che appare sempre più inadeguato dal punto di vista strutturale, per poter far scontare alla popolazione detenuta una pena che non sia inumana e degradante. In data 30 luglio i suicidi in carcere dall’inizio dell’anno 2024 sono stati 61 (di cui 2 al penitenziario di Torino “Lorusso Cutugno”). Quali sono, a suo avviso, le cause e come si può agire per prevenire? Nel corso di quest’anno, come Ufficio Garante, a seguito dell’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, abbiamo organizzato in questi mesi una serie di eventi sull’emergenza suicidi nelle carceri, raccogliendo una serie di proposte di intervento sul tema, maturate nel corso degli incontri dai relatori e da tutti gli enti promotori delle diverse iniziative. Anche alla luce di questa analisi svolta, possiamo dire che le cause dei suicidi in carcere sono molteplici. Tra queste possiamo evidenziare l’inadeguata accoglienza all’interno del circuito detentivo dei c.d. nuovi giunti, la scarsità della proposta trattamentale, la mancata garanzia del diritto all’affettività in carcere, le condizioni inumane e degradanti degli istituti penitenziari, il sovraffollamento sempre più crescente, la gestione totalmente inadeguata degli eventi critici da parte degli operatori non opportunamente formati, la mancanza di prospettive all’esterno una volta usciti dal carcere. Per quanto riguarda la prevenzione di questo fenomeno, è necessaria, una formazione idonea per tutti gli operatori penitenziari, un incremento del numero di educatori e di magistrati di sorveglianza che possano seguire al meglio le situazioni delle persone detenute per un trattamento penitenziario più individualizzato e che risponda ai bisogni del singolo soggetto. È necessario, inoltre, garantire il diritto all’affettività, aumentando quindi il numero di telefonate e visite dei familiari e parenti delle persone detenute. Bisogna dunque dare un senso alle giornate di detenzione, affinché il tempo passato all’interno del carcere non sia un tempo vuoto. Sosteniamo, inoltre, tutti i progetti di legge volti alla decarcerizzazione e depenalizzazione per ridurre il sovraffollamento. In particolar modo, sarebbe opportuno in questa situazione ricorrere all’utilizzo dei provvedimenti di clemenza costituzionalmente garantiti, come l’amnistia e l’indulto. E come influisce l’esperienza detentiva sulle traiettorie di salute mentale e fisica delle persone prima, durante e dopo la reclusione? Nella situazione attuale del carcere, l’esperienza detentiva è peggiorativa sia dal punto di vista della salute fisica che da quello della salute mentale. Come anche detto in precedenza, il nostro Ufficio nel corso dei colloqui in carcere, ha rilevato numerose lamentele delle condizioni sanitarie, soprattutto fisiche da parte delle persone detenute. È possibile pertanto sostenere che l’esperienza detentiva, soprattutto se per lungo tempo, all’interno di luogo degradato dal punto di vista strutturale, sovraffollato, chiuso per gran parte della giornata e in cui non si è adeguatamente curati, sia deleteria sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista della salute mentale. Analizzando la traiettoria di salute, soprattutto mentale prima durante e dopo la reclusione: la popolazione detenuta è costituita da persone che vivono situazione di marginalità sociale, per cui appena entrati all’interno dell’esperienza detentiva una buona parte di questa, soffre di patologie fisiche e mentali, che per via della propria condizione economico-sociale non sono state curate adeguatamente in precedenza; nel corso dell’esperienza detentiva, le condizioni suddette del carcere acuiscono spesso ulteriormente le problematiche sanitarie; dopo la reclusione si avrà una condizione di peggiore stato di salute fisica e mentale, unita ad conseguente stigmatizzazione sociale propria degli ex detenuti, per cui sarà frequente la recidiva, soprattutto dove non via sia l’adeguato sostegno sociale da parte della comunità e degli enti territoriali di riferimento. È garantito il diritto alla salute in carcere? In che modo la sanità pubblica può incidere sulla relazione tra salute e reclusione? Visto quanto detto in precedenza, possiamo certamente sostenere che il diritto alla salute in carcere non sia adeguatamente garantito. Per quanto concerne la relazione tra la sanità pubblica e la reclusione, la questione è complessa. Il Decreto Legislativo n. 230/1999 ha trasferito la competenza sanitaria in ambito penitenziario dal Ministero della Giustizia al SSN, integrando così la sanità penitenziaria nel sistema sanitario pubblico. Questo è da considerare un passo avanti nella tutela del diritto alla salute in carcere, perché ha garantito, quantomeno formalmente, un allargamento nell’accesso al diritto alla salute, con la conseguente omogeneità di cure e di trattamenti sanitari tra le persone dentro e fuori dagli istituti detentivi. Tuttavia, negli ultimi anni il ridimensionamento delle risorse, sia umane che economiche, destinate al SSN, ha portato all’interno degli istituti penitenziari, una condizione forse peggiorativa rispetto al periodo precedente al trasferimento della competenza al Ministero della Salute. Per la garanzia del diritto alla salute è necessario, dunque, un incremento delle risorse umane e economiche destinate al servizio sanitario nazionale, e specificamente alla sanità penitenziaria, attraverso una collaborazione inter istituzionale tra il sistema sanitario pubblico e il sistema penitenziario per garantire che le persone detenute possano ricevere cure adeguate in tutto il corso della detenzione. Ascoli. La visita in carcere di Forza Italia: “Struttura ben gestita”. La Uil: “Serve personale” di Ottavia Firmani Il Resto del Carlino, 29 agosto 2024 La delegazione degli azzurri arriva alla Casa circondariale. Il commento: “Alcune criticità ma non c’è sovraffollamento”. Ma il sindacato della polizia: “Siamo 136 e dovremmo essere in 153”. “Le criticità riscontrate riguardano il completamento della pianta organica della polizia penitenziaria e l’ampliamento dell’area sanitaria e delle relative risorse umane”. Questo il commento a caldo del responsabile nazionale dell’organizzazione di Forza Italia e coordinatore regionale delle Marche, Francesco Battistoni al termine della visita alla Casa circondariale di Ascoli al Marino del Tronto. Nella mattinata assolata di ieri, Battistoni, accompagnato dai consiglieri regionali Jessica Marcozzi, Gianluca Pasqui e Mirko Bilò, dall’assessore Regionale Stefano Aguzzi, dalla Responsabile del dipartimento Giustizia, Daniela Pigotti, e dal Segretario Provinciale di Forza Italia Ascoli Piceno, Valerio Pignotti commenta positivamente la situazione. “Al di là di queste criticità - dice - quella al carcere di Ascoli è stata una visita assolutamente positiva”. Meno positivo è invece il commento del coordinatore regionale della Uil Polizia penitenziaria Leonardo Rago. Pur non presente, visto che solo due sigle sindacali sono state convocante durante la visita della delegazione di Forza Italia, il coordinatore risponde alla nostra domanda. Rago, com’è la situazione attualmente qui al Marino? “Al momento la Casa circondariale di Ascoli non soffre di particolare sovraffollamento ma la situazione è aggravata dal fatto che sono presenti molto detenuti con patologie psichiatriche che vengono assegnati ‘con la scusa’ della presenza delle Articolazione per la tutela della salute mentale. Ci sono anche molte assegnazioni di detenuti da altri istituti dell’Emilia Romagna che giungono per motivi di ordine e sicurezza, a seguito di aggressioni al personale o tentativi di rivolte che hanno effettuato negli istituti di provenienza. Dal mese di maggio è stato attivata una ulteriore sezione detentiva di circa 50 detenuti comuni che richiederebbe un ulteriore incremento di personale di polizia penitenziaria ed anche di personale area trattamentale. Ad oggi ci sono soli 3 educatori ma non sono sufficienti”. A livello di organico di personale, com’è la situazione? “Per quanto riguarda la polizia penitenziaria a fronte di 153 unità previste in pianta organica ne sono presenti 136 di cui circa 25 sono distaccati in altri istituti. La sezione di Articolazioni per la tutela della salute mentale è composta da tre stanze al piano terra prive però di passeggio e di saletta socialità mentre al primo piano è presente una stanza per l’osservazione psichiatrica attualmente inagibile a causa di un incendio doloso che è stato appiccato da un detenuto che la occupava. Dunque in questo momento è in fase di ristrutturazione, e dovrebbe essere ripristinata fra qualche mese. L’istituto che nasce come carcere di massima sicurezza e quindi con carenza di spazi dovrebbe ospitare detenuti che richiedono l’alta sicurezza, soprattutto in virtù del fatto che c’è la presenza di dieci salette di multivideoconferenza che permettono lo svolgimento di udienze processuali da remoto senza i trasferimenti, e questo ovviamente permette un notevole risparmio per i costi pubblici”. Migliorie necessarie ci sono, ma la situazione in generale non sembra tra le peggiori: “Grazie alle visite che abbiamo fatto, stiamo vedendo diversi carceri in tutta Italia - commenta l’Onorevole Battistoni fuori dai cancelli della casa circondariale - e questo di Ascoli ci ha dato un’impressione molto buona. Abbiamo visitato reparti e area medica. Sicuramente il personale meriterebbe un’attenzione, in numeri, un po’ maggiore e l’aria medica andrebbe leggermente ampliata soprattutto per quanto riguarda il numero di infermieri e psicologi, però è una situazione davvero ben gestita e governata, faccio i miei complimenti. Per le criticità, i sindacati ci hanno presentato la situazione”. È mancato però l’invito alla visita con la delegazione, alle organizzazioni sindacali Sinappe, Uil, Cisl, Uspp, solitamente molto attive nel settore. Alla richiesta di chiarimenti riguardo alle criticità evidenziate dai sindacati, l’Onorevole Battistoni risponde: “Soprattutto la necessità di avere qualche unità in più in ambito di personale, per coprire ancora meglio tutti i vari reparti, e poi problematiche sulla tutela”. E invece a livello di sovraffollamento, la situazione sembra mettere d’accordo tutti: “Qui i numeri - continua l’Onorevole - non sono superiori rispetto alla capienza, quindi come presenza di popolazione carceraria è in linea con la capienza del carcere”. E anche da parte della Uil la risposta è simile: “Al momento la Casa circondariale di Ascoli non soffre di particolare sovraffollamento” ha infatti commentato Leonardo Rago. Gela. Visita a Balate: “Condizioni migliori rispetto ad altre strutture, tutelare dignità detenuti” quotidianodigela.it, 29 agosto 2024 Una visita all’interno del carcere di Balate, per prendere contezza, concretamente, delle condizioni dei detenuti, specialmente in un periodo torrido come quello estivo. Questa mattina, su iniziativa dei legali della Camera penale “Eschilo”, una delegazione ha avuto modo di effettuare un accesso nella struttura detentiva. C’erano pure i senatori Pietro Lorefice e Ketty Damante e il deputato regionale Salvatore Scuvera. Quella di Balate è una condizione, in generale, che non desta troppi problemi rispetto invece a quanto si registra in altre strutture siciliane e del resto d’Italia. Gli avvocati della Camera penale, con in testa il presidente Rocco Guarnaccia e il decano Giacomo Ventura, più volte hanno preso posizione contro il sovraffollamento, denunciando l’aumento preoccupante di suicidi nelle strutture detentive italiane. Un indulto può essere un primo passo ma tanto c’è ancora da fare, compreso un vero investimento in nuova edilizia carceraria. “È stato un momento importante - dice Guarnaccia - anche la politica ha potuto affrontare direttamente la questione. Migliorare le condizioni di detenzione e prevedere misure deflattive, sono passi decisivi. A breve, inizierà il percorso del provvedimento cosiddetto svuota carceri e dovranno esserci misure concrete che vadano a tutela della dignità dei detenuti, determinando il rispetto delle norme in materia. Vorremmo appunto mantenere un dialogo con la parte politica”. I deputati locali si sono detti pronti a collaborare. “Durante la visita, che è stata guidata dal direttore della struttura e coadiuvata dagli ispettori in servizio, abbiamo avuto l’opportunità di verificare le condizioni di vita dei 68 detenuti all’interno della struttura e le attività che svolgono durante le ore di detenzione. La struttura si è rivelata essere in condizioni più che sufficienti: le stanze, che ospitano due detenuti ciascuna, sono dotate di bagno in camera con doccia. Inoltre, il carcere dispone di una palestra, una cappella e una sala teatro polifunzionale. Abbiamo avuto modo di assistere a un corso di formazione per operatori edili, a cui stavano partecipando circa dieci detenuti. Inoltre - spiega Scuvera - durante la visita, abbiamo potuto dialogare con alcuni detenuti, i quali hanno espresso le loro opinioni riguardo alle condizioni di vita all’interno del carcere. La richiesta più ricorrente è stata quella di vedere realizzato un campetto di calcetto. A livello nazionale, il governo Meloni e il ministro Nordio hanno recentemente rivolto l’attenzione alla situazione delle carceri italiane, emanando un decreto che, nei prossimi due anni, porterà all’assunzione di 1000 nuovi agenti di polizia penitenziaria. Il decreto prevede anche l’istituzione di un albo per comunità in grado di accogliere alcune categorie di detenuti con dipendenze, l’aumento del numero di telefonate e colloqui telefonici disponibili per i detenuti, e la nomina di un commissario straordinario incaricato dell’edilizia penitenziaria”. “Oggi, tra le mura della Casa circondariale di Balate, insieme alla collega Damante, al deputato regionale Scuvera e agli avvocati della Camera Penale di Gela, ho avuto modo di incontrare i detenuti e il personale carcerario, ascoltando le loro storie, osservando il loro impegno quotidiano e confrontandomi con loro sui temi che riguardano le condizioni carcerarie. In un momento in cui il nostro sistema penitenziario attraversa gravissime difficoltà, con situazioni disastrose e indegne per una nazione come l’Italia, Balate si distingue come, mi si passi la locuzione un po’ forzata, “un’isola felice”. Qui i detenuti possono contare su spazi adeguati e la possibilità di partecipare a diverse attività sociali, educative e ricreative. Certamente, esistono alcune criticità che necessitano di interventi mirati, ma sono risolvibili con la giusta attenzione e collaborazione tra le istituzioni. Questa visita mi ha confermato quanto sia importante lavorare tutti insieme per garantire dignità e speranza a chi vive all’interno delle mura carcerarie. Solo con un impegno costante potremo trasformare altre realtà difficili in esempi buoni come quello di Balate. Il mio auspicio è che queste esperienze possano diventare la norma e non l’eccezione, offrendo a ogni detenuto una concreta possibilità di reinserimento nella società. Non dobbiamo mai smettere di credere in un futuro migliore per tutti, perché ogni piccolo passo può fare la differenza”, ha riferito in una nota il senatore M5s. Potenza. Intesa tra Caritas e Casa circondariale sull’impiego di detenuti in lavori socialmente utili avveniredicalabria.it, 29 agosto 2024 È stato firmato nei giorni scorsi a Potenza un protocollo d’intesa tra la casa circondariale di Potenza “Antonio Santoro”, rappresentata dal direttore Paolo Pastena, e la Caritas diocesana di Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo, rappresentata dal direttore Marina Buoncristiano, avente ad oggetto un sano e proficuo reinserimento sociale dei condannati e degli internati favorendo lo svolgimento di lavori socialmente utili o di pubblica utilità volontaria e gratuita durante l’espiazione della pena o della misura di sicurezza, anche al fine di garantire l’acquisizione di competenze e conoscenze professionali utilmente spendibili nella delicata e fondamentale fase post-detentiva. La Caritas diocesana ha dato piena disponibilità delle proprie sedi o di luoghi e strutture presso cui la Caritas opera stabilmente come parrocchie, oratori, associazioni di volontariato e onlus, associazioni sportive, comitati e associazioni di solidarietà familiare. Dalle attività di manutenzione, pulizia e cura del magazzino diocesano, sito in contrada Santa Loja a Tito, a quelle a vantaggio del decoro del Centro di aggregazione e accompagnamento per la famiglia “A Casa di Leo” a Potenza (quartiere Bucaletto) passando per la manutenzione delle biciclette presso la ciclo-officina in collaborazione con l’Associazione CiclOstile Potenza Bucaletto a piccoli lavori di manutenzione edilizia, pitturazione e idraulica, cura del verde e degli spazi interni ed esterni delle parrocchie e degli oratori della città della diocesi: sono queste ed altre le attività previste dal documento, in piena conformità con quanto disposto nel Provvedimento di ammissione al lavoro approvato dalla Magistratura di sorveglianza di Potenza. La Caritas diocesana, al tempo stesso, si impegna a fornire i necessari Dpi e ad assicurare la predisposizione delle misure necessarie a tutelare i soggetti ammessi al lavoro e ad attivare le dovute comunicazioni all’Inail e/o agli enti preposti con la copertura assicurativa per la responsabilità civile nei confronti dei terzi. “Questo protocollo nasce dall’esigenza di umanizzare il percorso di reinserimento dei detenuti, una sfida delicata ma al tempo stesso stimolante. Il lavoro nobilita l’uomo e nel caso di persone con un passato difficile e con storie complesse alle spalle il lavoro rappresenta uno stimolo risocializzante in un percorso relazionale e formativo per l’acquisizione di nuove competenze propedeutiche al futuro inserimento in società e nel mondo del lavoro”, afferma il direttore di Caritas diocesana. “I principi sanciti dalla nostra Costituzione rappresentano una bussola e ringrazio il direttore Pastena per lo spirito collaborativo e l’impegno profuso nella sottoscrizione di un’intesa che sono certa porterà ad ottimi risultati”, conclude Buoncristiano. Roma. Marcia pacifica contro “il carcere che uccide”, in programma domenica 22 settembre Il Dubbio, 29 agosto 2024 Sbarre di Zucchero organizza una marcia, per domenica 22 settembre dalle 10.30, da Castel Sant’Angelo a Piazza San Pietro, per combattere, come si legge nel loro comunicato, “un carcere che uccide, rendendolo un percorso per una nuova vita e un futuro di dignità”. “La situazione penitenziaria - si legge nel comunicato della manifestazione - è davanti agli occhi di tutti, tra suicidi riusciti (già 67) e sventati, atti di autolesionismo, proteste o vere e proprie rivolte. Le celle scoppiano di esseri umani ammassati tra loro, privati non solo della libertà personale ma di ogni qualsivoglia diritto umano, diritto a scontare una pena che sia effettivamente rieducativa e risocializzante per il loro ritorno allo status di uomini e donne liberi/ e, diritto alla speranza, diritto alla vita”. Dalla marcia pacifica partirà la richiesta al Santo Padre di intercedere con la politica italiana affinché siano urgentemente messe in campo tutte le azioni necessarie nel breve e nel lungo periodo, iniziando proprio da amnistia e indulto, indispensabili per poter pensare ad una seria e vera riforma che non sia esclusivamente carcerocentrica. Alla marcia non saranno ammessi simboli di partito ma solo striscioni con le parole “Amnistia e Indulto” ben in evidenza e palloncini bianchi e gialli. L’associazione si batte anche per “l’approvazione e l’attuazione immediata della proposta di legge Giachetti-Nessuno tocchi Caino sulla liberazione anticipata speciale”. Per “Sbarre di zucchero” è fondamentale “un piano ordinario per l’accesso alle misure alternative e il sostegno ai percorsi di reinserimento sociale della popolazione detenuta. Oltre all’assunzione tempestiva del personale civile necessario. Si chiede inoltre di “invertire la rotta che oggi ci porta sempre più dallo stato sociale allo stato penale, attraverso la creazione di sempre nuovi reati, in particolare per i reati correlati alla povertà, al dissenso sociale, alle condotte dei minori, delle persone che usano droghe e dell’immigrazione”. Ferrara. Carcere, nasce il Polo universitario di Antonella Barone gnewsonline.it, 29 agosto 2024 Un nuovo Polo universitario penitenziario si aggiunge ai tanti già esistenti in Italia, con la designazione ufficiale - da parte del Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per Emilia Romagna e Marche (Prap) - della sede attiva presso la casa circondariale di Ferrara “Costantino Satta”. Nell’istituto estense in realtà iniziative per l’attuazione del diritto allo studio sono presenti, in via sperimentale, già dal 2015, anno delle prime iscrizioni. Oggi sono 12 i detenuti che frequentano 8 corsi universitari in base a convenzioni con l’Ateneo ferrarese. Per la qualifica di Polo universitario penitenziario (Pup) non è sufficiente, tuttavia, la mera iscrizione di detenuti a corsi di laurea, ma occorre una struttura organizzativa (didattica e amministrativa) attraverso cui una università si impegna a garantire a persone private o limitate nella libertà personale, una sezione dedicata all’interno dell’ateneo, un’azione didattica continuativa e articolata e altre agevolazioni che consentano un effettivo esercizio del diritto allo studio. Decisivo, per adeguare l’offerta di studi universitari ai requisiti stabiliti dal Cnupp - Conferenza nazionale dei delegati dei Rettori ai Poli universitari penitenziari, il protocollo d’intesa del febbraio 2023 firmato, in rappresentanza delle rispettive istituzioni, dalla rettrice dell’università, Laura Ramaciotti, e dalla direttrice della casa circondariale, Nicoletta Toscani. Tra gli impegni dell’istituto penitenziario, quello di consentire l’uso di materiali didattici anche multimediali forniti dall’Università, favorire la registrazione di lezioni, prevedere, per quanto possibile, l’assegnazione dei detenuti studenti a camere e reparti adeguati allo svolgimento degli studi, nonché la possibilità di sostenere prove d’esame anche tramite forme telematiche. La designazione da parte del Prap interviene ora a completare l’iter e a sancire la nascita della nuova sede. Secondo i dati del Dap sono attualmente 42 gli Atenei aderenti alla Conferenza, che promuovono attività didattiche e formative in 112 istituti penitenziari, per un totale di 465 corsi attivati e circa 1300 iscritti. Migranti. I documenti di Oussama, il 22enne morto nel Cpr di Potenza di Carlo Vulpio Corriere della Sera, 29 agosto 2024 “Prima della sua morte mai ricoverato in ospedale”. Il documento in esclusiva che smentisce autorità, medici e la direttrice del Centro: “Non risulta alcun ricovero e/o accesso in pronto soccorso e/o ambulatoriale inerente a Darkaoui Oussama”. La morte di Oussama Darkaoui, il ventiduenne marocchino deceduto il 4 agosto scorso nel Cpr (Centro per i rimpatri) di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, appare sempre meno un “giallo” e sempre più un castello di bugie. L’ultima in ordine di tempo, ma fondamentale per comprendere i fatti, riguarda il “profilo” che, subito dopo la morte di Oussama, si è voluto costruire di lui. Non potendolo descrivere come un criminale - il ragazzo non aveva alcun precedente penale ed è finito nel Cpr solo perché non aveva il permesso di soggiorno, per il quale sua zia Massira Harmouch, a Sondrio, stava cercando di mettere insieme la documentazione necessaria - lo si è dipinto come una persona instabile, psicolabile, autore di atti di autolesionismo che ne hanno reso necessario il ricovero. “Nei giorni precedenti alla sua morte, Oussama ha ingerito corpi estranei, forse pezzi di vetro, ed è stato ricoverato all’ospedale di Potenza”, questo ripetevano autorità, medici e la direttrice del Cpr, e questo riferivano agenzie di stampa e tv pubbliche e private. A quel punto, il racconto dei fatti era già “orientato”. Oltre alla morte, o forse l’omicidio, di Oussama, ecco anche la sua “character assassination”, cioè la distruzione della sua reputazione. Se era “agitato”, se ha ingoiato pezzi di vetro, se ha tentato il suicidio, se è finito in ospedale. Nulla di tutto questo. Oussama non è mai finito né in ospedale, né al pronto soccorso, e nemmeno ha mai fatto una visita medica in ambulatorio. Lo dimostra il documento dell’Azienda ospedaliera regionale San Carlo di Potenza, che il Corriere pubblica in esclusiva. “Agli atti di questa Azienda, dalle verifiche esperite - scrive la Direzione sanitaria potentina - non risulta alcun ricovero e/o accesso in pronto soccorso e/o ambulatoriale inerente a Darkaoui Oussama nato in Marocco il 01.01.2002”. La lettera dell’Asl è dell’altro ieri, mercoledì 27 agosto, e riguarda non soltanto l’ospedale di Potenza, ma anche gli altri quattro che fanno parte dell’Azienda ospedaliera regionale San Carlo, e cioè gli ospedali di Melfi, Lagonegro, Pescopagano e Villa d’Agri. Per Oussama, dunque, detenuto nel Cpr da maggio scorso, non c’è mai stato alcun viaggio per ragioni mediche verso alcuno degli ospedali elencati. E tuttavia, nella “Relazione preliminare della visita al Cpr di Psg del 10 agosto 2024”, cioè subito dopo la morte di Oussama, ciò che emerge è che il fatto falso diventa vero solo perché costantemente ripetuto “da chi di dovere”, cioè da quel “muro di gomma” di figure istituzionali che avrebbero invece dovuto scalpitare per accertare la verità. Ma sembra che nessuno abbia niente da dire, nemmeno Catia Candido, la direttrice del Cpr (in appalto alla cooperativa “Officine sociali”), che ieri ci ha detto soltanto di essere “impegnata”. La “Relazione” sul lager di Psg (il Cpr viene definito proprio così) è il risultato di due visite ispettive svolte da parlamentari, consiglieri regionali, medici, avvocati e sindacalisti, l’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), la Cild (Coalizione italiana libertà e diritti civili) e il Tavolo Asilo. Ed è un documento che suscita orrore e vergogna. In cui si denunciano “la mancanza di trasparenza e di rispetto delle regole da parte del prefetto di Potenza”, Michele Campanaro, e “le continue resistenze” del questore Giuseppe Ferrari e del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, “persino all’ingresso di parlamentari nel Cpr”. Intanto, la salma di Oussama è ancora depositata nell’obitorio di Potenza, la famiglia reclama il corpo del ragazzo e dall’Ambasciata del Marocco cominciano a chiedere spiegazioni. Migranti. I giudici bocciano ancora il decreto Cutro: riesplode la polemica di Valentina Stella Il Dubbio, 29 agosto 2024 Contrasti giudiziari a Palermo su sei migranti: cinque le persone rimesse in libertà, una quella trattenuta. “Piccole Apostolico crescono - Tornano i giudici salva-clandestini - Giudici ancora contro il decreto Cutro - Magistrati scarcerano 5 irregolari in un giorno - Giudici liberano clandestini”: questi sono i titoli che abbiamo letto ieri nella rassegna stampa dei giornali vicini alla destra di governo che hanno puntato il dito contro quanto in parte accaduto al Tribunale civile di Palermo. I fatti. Stesso provvedimento del Questore che decide il trattenimento per sei migranti sbarcati illegalmente a Lampedusa, stesso tribunale, stessa sezione specializzata in materia di immigrazione, ma decisioni diverse. Anzi diametralmente opposte. Il giudice Michele Guarnotta convalida il trattenimento presso il Centro di trattenimenti per richiedenti protezione internazionale di Porto Empedocle (Agrigento) di un migrante tunisino mentre altre due giudici, Sara Marino ed Eleonora Bruno, liberano 5 nordafricani irregolari che all’atto dello sbarco avevano presentato domanda di riconoscimento della protezione internazionale. Il tutto a distanza di due giorni, durante la sezione feriale al Palazzo di giustizia di Palermo. Le critiche. Ed è subito polemica, prima sulla stampa e poi politica. Il pensiero corre subito appunto al caso della giudice del Tribunale di Catania Iolanda Apostolico che proprio undici mesi fa non convalidò il trattenimento nel centro per richiedenti asilo di Pozzallo di migranti tunisini sbarcati a Lampedusa. Ne seguirono settimane e settimane di scontri tra maggioranza e magistratura che ora sembrano potersi riaccendere. “I giudici rossi, dopo il “caso Apostolico”, tornano a colpire chi si batte per giustizia e sicurezza e libera cinque clandestini giunti nei giorni scorsi a Porto Empedocle. Il tribunale di Palermo non convalida il fermo di 5 tunisini, favorendo di fatto l’immigrazione clandestina. Mentre il governo Meloni rispetta la volontà popolare espressa alle elezioni e vara norme per contrastare l’immigrazione illegale di massa, una parte della magistratura ideologizzata disapplica le norme e fa di tutto per favorire l’immigrazione illegale”, ha detto il senatore di Fratelli d’Italia Sandro Sisler, vicepresidente della commissione Giustizia a Palazzo Madama. In realtà al momento nessuno sa se quelle due magistrate appartengano ai gruppi associativi di Area o Magistratura democratica, da sempre additate come correnti ideologizzate. E anche se lo fossero, come ribadito dalla mozione dell’Anm di Palermo e come ci ricorda qualche toga, “l’interpretazione è l’essenza della giurisdizione. Senza adeguate garanzie di libertà della interpretazione nessun ordinamento può ambire a definirsi democratico”. Sarà, dunque, il solito impulsivo riflesso condizionato della destra a spingere a fare tali dichiarazioni? Mentre per ora l’Anm tace, Silvia Albano, presidente di Magistratura democratica, ci dice che “alcuni giornali cercano intenti politici dove proprio non ci sono. Bisognerebbe confrontarsi sui contenuti dell’attività interpretativa. Non attaccare le persone dei giudici per provvedimenti non graditi”. L’attività interpretativa - ribadisce la magistrata - “è attività complessa che impone al giudice di tener conto di tutte le fonti, comprese le norme sovranazionali e la Costituzione, che sono fonti sovraordinate. Nei casi di cui si discute mi pare che le colleghe abbiano fatto applicazione dei principi affermati in via generale anche dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione nell’ambito del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue”. Quest’ultima ancora non ha fissato una data dell’udienza in cui dibattere le due ordinanze interlocutorie con le quali le Su chiedevano alla Cgue di pronunciarsi proprio sulla garanzia finanziaria di circa 5mila euro che un richiedente asilo avrebbe dovuto versare per evitare di essere trattenuto in un centro alla frontiera in attesa dell’esito dell’iter della domanda di protezione. In realtà, con decreto 10 maggio 2024, il ministero dell’Interno, di concerto con quello della Giustizia, aveva modificato la norma, prevedendo che per i migranti che faranno richiesta d’asilo la cauzione andrà da 2.500 a 5mila euro, e sarà determinata “senza indugio dal questore”, con valutazione “caso per caso e tenuto conto della situazione individuale dello straniero”. Per questo il 12 luglio il Viminale ha rinunciato ai ricorsi in Cassazione contro i provvedimenti del tribunale di Catania che avevano disapplicato il decreto Cutro. Il 17 settembre ci sarà comunque udienza a Piazza Cavour e come ci spiega l’avvocata Rosa Emanuela Lo Faro, già legale dei migranti trattenuti a Pozzallo, “avendo presentato due ricorsi incidentali chiederò, invece, che la Corte di Cassazione si pronunci lo stesso. Non sono chiare le regole della procedura accelerata e abbiamo posto dei quesiti”, che ci illustra proprio in riferimento al tunisino trattenuto nel centro di Porto Empedocle che pure sta difendendo: “Al mio assistito è stata chiesta una cauzione di 3500 euro. Ora sto preparando il ricorso da presentare al Tribunale con urgenza per farlo liberare. Nel decreto ci sono delle incongruenze: si prevede che la convalida del trattenimento venga fatta entro 48 ore, ma poi ci sono sette giorni per presentare la cauzione. Questo è paradossale. E se poi viene accolto il ricorso per liberarlo, mica esiste un protocollo per la restituzione della cauzione”. Inoltre per l’avvocato è “grave” che “il mio assistito non abbia potuto incontrare fisicamente il suo difensore d’ufficio, perché l’udienza è avvenuta telematicamente e così si sono lesi i suoi diritti. Avrebbe dovuto esserci prima un contatto telefonico che per la ristrettezza dei tempi non è avvenuto”. Migranti. Così i giudici boicottano il governo: bocciato il 93% delle espulsioni di Fabio Amendolara La Verità, 29 agosto 2024 Il giudice Apostolico ha fatto scuola. Da quando è in vigore il decreto Cutro che accelera i rimpatri, sono state respinte 26 richieste su 28. E i ricorsi contro la mancata protezione ora sono quasi sempre accolti. Con gli ultimi provvedimenti giudiziari della Sezione immigrazione del Tribunale di Palermo salgono a 26 le richieste di trattenimento per immigrati (quasi tutti inizialmente diventati irreperibili, poi rintracciati, hanno presentato richiesta di protezione che è stata respinta, tranne uno che è stato arrestato) annullate da quando è in vigore il Decreto Cutro. Due soli gli accoglimenti, uno dei quali, peraltro, da un altro giudice della stessa Sezione palermitana e con le stesse caratteristiche di quelli rigettati. Un cortocircuito giudiziario. Che appare particolarmente orientato ideologicamente. E a provarlo non è solo lo sbarramento delle toghe nelle procedure accelerate alla frontiera. C’è un altro dato, che La Verità ha raccolto compulsando le Commissioni territoriali che si occupano della protezione internazionale dei migranti: dal 2015 a oggi le toghe hanno cambiato rotta. Se nel 2015 solo il 49% dei ricorsi presentati dai migranti contro il diniego della protezione (6.774) venne accolto, da quando è in sella il governo di Giorgia Mel o ni le percentuali sono schizzate: nel 2022 è stato accolto l’86% dei ricorsi (10.699) e nel 2024, con i dati fermi al mese di luglio, gli 8.776 ricorsi accolti formano già il 72%. Negli anni precedenti le percentuali si erano attestate sempre tra il 42 e il 45%, eccetto nel 2019, anno in cui il dato era sceso al 35%. Sarà una coincidenza, ma le toghe sembrano aver comunicato da che parte stanno. E Iolanda Apostolico, la giudice catanese che ai tempi di Matteo Salvini al ministero dell’interno manifestava in piazza contro le politiche del governo, che detiene il record degli annullamenti in tema di procedure accelerate di frontiera, non è sola. A Catania ha contribuito a far salire la media il collega Rosario Cupri. E anche quando l’avvocatura dello Stato ha impugnato dieci provvedimenti contrari in Cassazione e il procuratore generale Renato Finocchi Ghersi aveva specificato che i trattenimenti erano “legittimi e conformi alla legge” la storia non è cambiata. Ai giudici non va giù che gli immigrati senza documenti e non diposti a pagare una fidejussione, come previsto dalla legge, debbano essere accompagnati alla frontiera per l’espulsione. Sulla “garanzia finanziaria”, invece, il procuratore generale ha ritenuto necessario un intervento della Corte di giustizia europea. Nell’attesa le toghe continuano a seguire l’orientamento Apostolico. E infatti, questa volta a Palermo, il giudice Sara Marino ha ritenuto inapplicabile il Decreto Cutro perché “la mancata consegna del passaporto o la mancata prestazione della garanzia rappresentano dei presupposti che legittimano l’adozione della misura, ma non sono da soli sufficienti a giustificarla”. Il giudice ammette anche che esiste un obbligo di tenere conto di altre misure alternative al trattenimento, ma sembra lavarsene le mani: “È un dovere che va esercitato dall’autorità amministrativa”. Nonostante il legislatore abbia escluso che questo strumento venga applicato in fase di richiesta di protezione internazionale. In sostanza, stando all’interpretazione del giudice palermitano, la procedura accelerata di frontiera sarebbe applicabile “soltanto nelle circostanze eccezionali, in base ai principi di necessità e proporzionalità, come ultima risorsa, sulla base di una valutazione caso per caso e sempre che non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive”. La consegna del passaporto, secondo Marino, “più che una misura disposta sulla base di una valutazione caso per caso in alternativa al trattenimento è piuttosto configurata dal legislatore nazionale come una causa generale di esclusione (nel senso che se si consegna il passaporto non si può in nessun caso disporre il trattenimento). Si tratta di una eventualità di difficilissima realizzazione, essendone i richiedenti asilo quasi sempre privi”. Non tutti i richiedenti asilo privi di passaporto, però, vengono avviati alle procedure accelerate di frontiera dai questori. In Tribunale arrivano solo quelli, appunto, esaminati caso per caso e che non presentano la possibilità di applicare misure alternative. Le ordinanze, però, anche sulla legittimità e applicabilità dei provvedimenti, riconosciuta dal procuratore generale della Corte di Cassazione, cercano di contrastare il Decreto Cutro. Le sciabolate non sono poche: si legge di “rischio di disporre trattenimenti sine titulo”, che occorrerebbe “verificare la possibilità di dare un’interpretazione alla normativa nazionale” e di “facoltà di rappresentare l’esercizio di un potere discrezionale”. Insomma, quanto basta per dimostrare di aver storto il naso davanti al Decreto Cutro. L’altra toga palermitana, Eleonora Bruno, è stata anche più tranchant, bollando il provvedimento del questore come “non adeguatamente motivato” e ha valutato come preminente “il contegno tenuto dal richiedente al momento in cui è stato fermato”. A leggere il Decreto Cutro, però, non ci sono accenni all’atteggiamento dello straniero. Si parla invece di chi ha tentato di eludere i controlli. In uno dei casi esaminati da Marino si trattava di un tunisino che era stato avvistato, da solo, in mare da una imbarcazione privata mentre stava cercando di raggiungere la riva e successivamente recuperato da un assetto navale della Guardia di finanza. Non ha consegnato passaporto né intendeva prestare garanzie finanziarie per assicurare la sua reperibilità. Un caso molto simile a quello presente nell’unico provvedimento di Palermo accolto, nel quale il giudice Michele Guarnotta sottolinea proprio che l’immigrato era sbarcato in modo autonomo e aveva tentato di lasciare l’isola di Lampedusa. Due casi molto simili letti in modo diametralmente opposto dai giudici della stessa Sezione dello stesso Tribunale. Ora è scattato il conto alla rovescia dei 60 giorni per impugnare i provvedimenti davanti ai giudici della Corte di Cassazione (che andranno a sommarsi agli altri dieci già pendenti e non ancora trattati). La palla torna così nella metà del campo dell’avvocatura dello Stato. Il Papa, i migranti e noi cristiani “normali”. Adesso chiediamoci dove siamo di Marina Corradi Avvenire, 29 agosto 2024 “Quello che uccide i migranti è la nostra indifferenza” ha detto Francesco. È tempo di decidere: siamo quelli di “aiutiamoli a casa loro”? O quelli della paura, quelli che “diverso non lo vogliamo”? Era previsto che parlasse d’altro. Ma si è affacciato su piazza San Pietro, sulla folla dell’Udienza, avendo addosso qualcosa di urgente da dire. Da dire ancora. L’ha già detto molte volte, e in molti modi. Ma ieri, si direbbe, era un dolore opprimente. “Oggi voglio soffermarmi su questo dolore”, ha esordito. “Desidero fermarmi con voi a pensare alle persone che - anche in questo momento - stanno attraversando mari e deserti per raggiungere una terra dove vivere in pace”. “Rotte di disperata speranza”, le ha chiamate il Papa: mare, deserto, Balcani. Le strade per la fortezza Europa, per il nostro mondo: lungo le quali si annega, o si resta nella sabbia. Morti invisibili. Francesco ricorda la foto di Fati e Marie, mamma e bambina uccise dalla sete alla frontiera della Libia, un anno fa. Se cercate sul web quella foto, la trovate offuscata. In un mondo in cui si vede tutto, dai satelliti, dai droni, dai video sulle chat, quell’ immagine risulta inguardabile. Meglio non guardarla, se non vuoi rovinarti la giornata. Così sui siti, con inconsueta educazione, ti chiedono: vuoi guardare, davvero? Clicchi ancora, ecco la giovane donna e sua figlia a terra, abbracciate, nel deserto. Respinte. E non certo solo loro. L’altro giorno un ministro quantificava il calo dei migranti entrati in Italia dal Mediterraneo: 25mila nel 2024 fino a giugno, contro i 65mila del 2023 nello stesso periodo. E quelli che non sono arrivati? mi sono chiesta - un po’ distrattamente, però. Davvero non sono partiti? O si sono messi in viaggio e, a una barriera di filo spinato, hanno dovuto fermarsi? E dove sono ora, se non in quei centri in Libia che sono peggio di prigioni? E quelli, invece, che riescono a mettersi in mare? Quanti vanno a fondo nel silenzio assoluto? La nave “Mare Jonio” dell’ong Mediterranea ha appena soccorso 182 persone in tre operazioni nel tratto di mare compreso fra la Sicilia e il Nord Africa. La “Geo Barents” di Médecins Sans Frontières è approdata a Salerno l’altro giorno con 191 naufraghi, reduci da diversi naufragi. 191 vite. Ora la nave è sotto sequestro: 3.300 euro di multa per non avere segnalato gli interventi. E potrebbe essere definitivamente sequestrata. L’ ho ascoltato in tv, una notizia fra le altre. Poi ho pensato a quelli che la Geo Barents non salverà. Poi, ho pensato ad altro. Nel Mediterraneo si accavallano le rotte: navi da crociera e navi da guerra, barche di disgraziati, yacht di lusso. I poveretti del “Bayesian” li hanno almeno recuperati. Gli altri, a migliaia, restano per sempre là sotto. Lo splendido Mediterraneo è anche una tomba, ma ben difficilmente, sulle sue spiagge, ce ne ricordiamo. Due mondi, come paralleli e incomunicabili: il “loro” e il nostro. Forse anche per questo ieri il Papa ha sentito l’urgenza di quelle parole? Con toni gravi, che non usa spesso: “Bisogna dirlo con chiarezza: c’è chi opera sistematicamente e con ogni mezzo per respingere i migranti. E questo, quando è fatto con coscienza e responsabilità, è un peccato grave”. Un peccato grave. Espressione quasi inconsueta: nemmeno nelle chiese la si sente più pronunciare spesso. Come se niente ormai fosse più “peccato”. Invece, il respingimento dei migranti è un “peccato grave”. Più chiaro di così. Nelle ore in cui la nave di una Ong è ferma in un porto italiano, colpevole di avere salvato 191 uomini. E noi? Noi cristiani “normali”, che facciamo? “Quello che uccide i migranti è la nostra indifferenza”, ha detto Francesco. Allora ho pensato a quante notizie, date senza troppa sottolineatura, ci scorrono addosso. Non vediamo, e ciò che non è visibile oggi non esiste. Oppure siamo di quelli che “aiutiamoli a casa loro” - anche se la loro casa è distrutta. O, addirittura, “quelli”, diversi da noi, proprio non li vogliamo. Nemmeno dentro a una crisi demografica tale che, per sopravvivere come Paese, ne abbiamo bisogno. Vie di accesso sicure e regolari, chiede il Papa, una governance globale delle migrazioni - e qui parla a tutto l’Occidente. Nella densa distrazione dell’agosto, almeno una voce forte ammonisce: non guardate altrove. Infine, come cercando gli occhi di ciascuno di noi: “E a voi domando: voi pregate per i migranti, per questi che vengono nelle nostre terre per salvare la vita?”. Già non sono molti, quelli che ancora pregano. Ma è più facile pregare per chi ci è caro. Voi pregate per i migranti? chiede Francesco. Per questa mole di sofferenza e morte, taciuta. Per chi cade sfinito con un figlio, nel deserto. Per chi si mette in mare con un neonato fra le braccia, di nascosto, di notte - che follia, pare a noi. Per quelli delle rotte “di disperata speranza”, invisibili. Non soli però, assicura Francesco: Dio stesso attraversa il mare e il deserto, Dio è con loro, soffre con loro, piange e spera con loro. Dio è con loro, dunque. Chiediamoci dove siamo noi. Se la premier tradisce il Papa sui migranti di Marcello Sorgi La Stampa, 29 agosto 2024 Farebbe molto male Meloni, alla vigilia del vertice di maggioranza di domani, a trascurare il monito del Papa sui migranti e sui “respingimenti”, parola che Francesco ha messo all’indice e che invece è nel linguaggio corrente del governo, tal che uno dei progetti che l’esecutivo persegue, sia pure con tempi rallentati, è quello dell’invio dei clandestini in Albania in edifici costruiti apposta con la collaborazione del primo ministro albanese Rama. Sarebbe sbagliato far finta di non aver ascoltato il Pontefice, non tanto per l’argomento che, si sa, gli sta a cuore, tanto da aver cominciato il suo pontificato con un viaggio a Lampedusa, ma perché rappresenta un chiaro avviso rivolto al governo dopo la disponibilità manifestata a luglio con la partecipazione al primo G7 presieduto da Meloni in Puglia. In un vertice internazionale privo di decisioni significative, e concluso con una mezza ricopiatura dei documenti precedenti, la presenza del Papa costituì, come si ricorderà, l’unico vero elemento di novità. E significò per Meloni, che era riuscita a convincerlo a partecipare, un indubbio successo politico e di immagine, alla vigilia del Giubileo che comincia a dicembre. Cosa abbia fatto da allora il governo per venire incontro alle aspettative del Papa, è presto detto: nulla. E non si tratta solo di ribadire le posizioni in materia di famiglia, che la ministra Roccella di tanto in tanto si affanna a ribadire. Ma di un percorso in cui il Vaticano non vede chiarezza, anzi, al contrario, troppo spesso confusione. Prendiamo ad esempio lo ius scholae, su cui Tajani ha impostato durante l’estate una battaglia d’opinione, salvo poi rassicurare che non farà certo cadere il governo per questo. Il Vaticano, e il Papa in prima persona, sono interessati a capire quanto c’è di serietà e quanto di propaganda nelle discussioni delle ultime settimane. E soprattutto se davvero la premier intenda sgomberare il tavolo della ripresa politica da quest’argomento, rinviandolo sine die o addirittura ripetendo che siccome non fa parte del programma di governo non c’è proprio da discuterne, o se invece, sorprendendo i suoi stessi alleati, fare una mossa a sorpresa per trovare una soluzione al problema. Gli auspici della vigilia vanno ovviamente in direzione opposta, anche perché negli ultimi tempi Meloni non muove un dito senza assicurarsi preventivamente di non essere smentita dal suo vice leghista. E Salvini, come si può immaginare, non aspetterebbe altro per farle un ennesimo sgambetto e cercare voti nelle frange più anti-immigrati dell’elettorato italiano. Questo del rapporto con Salvini è un punto nodale dei rapporti tra governo e Vaticano. Specie da quando il leader del Carroccio, per citare Flavia Perina, ha sostituito “il crocifisso con la mimetica” dell’ex-generale Vannacci. Non che le cose andassero meglio quando Salvini fingeva di fare il baciapile. Nessuno, sull’altra sponda del Tevere, lo ha mai preso sul serio. Ma da quando - ben prima dell’incontro con l’ufficiale perbenista e razzista, autore del best seller “Il mondo al contrario” - ha preso ad avventurarsi sul terreno minato della legalizzazione della prostituzione, con slogan tipo “meglio l’amore che la droga” e argomenti del genere che lo Stato ci guadagnerebbe da un punto di vista fiscale, il Papa, il Capitano, lo ha proprio cancellato. Eppure certe disinvolture erano risultate indigeribili ai leghisti della prima ora, che non dimenticano che la Lega era nata come partito cattolico all’ombra del vescovo federalista di Como monsignor Maggiolini, e non si rassegnano alla svolta salviniana dell’ultima ora, che ne tradisce le origini. Perché occorre sapere - ed è impossibile che Salvini lo ignori - che Francesco nutre una particolare compassione per le prostitute, in particolare per quelle nigeriane che affollano il mercato del sesso a pagamento, ed ha voluto accompagnarle di recente in una loro marcia, invocando attenzione da parte dello Stato per loro e per i loro figli, spesso abbandonati. Proporre di farne lavoratrici regolarizzate, con tanto di contributi da pagare, è quasi come mettere un dito nell’occhio al Papa. Nell’incertezza della premier, che da mesi e mesi vive questa strana condizione di subalternità a Salvini, Tajani, astutamente, s’è mosso per conto suo. È stato lui a nominare un inviato speciale della Farnesina “contro la tratta della prostituzione”. Ancora lui, pochi mesi fa, a favorire il ricongiungimento di una madre della Costa d’Avorio con la propria bambina, subito battezzata da don Aldo Buonaiuto, animatore della Comunità Giovanni XXIII, con il ministro degli Esteri come padrino del battesimo. Ma questi, pur considerati significativi, rimangono singoli gesti. E le promesse del sottosegretario alla presidenza del consiglio Mantovano, braccio destro di Meloni, restano sempre promesse. Il Papa e i vescovi della Conferenza episcopale italiana attendono di sapere qual è il vero pensiero di Meloni e a quale dei suoi vice si senta più vicina. Non passa lo straniero: l’assurdo caso dell’albo degli educatori di Cecilia Ferrara Il Domani, 29 agosto 2024 L’8 maggio scorso è entrata in vigore la legge 55/2024 che istituisce l’albo degli educatori professionali socio-pedagogici e l’albo dei pedagogisti. Secondo il testo l’iscrizione è subordinata a “essere cittadino italiano o di uno stato membro dell’Unione europea o di uno stato rispetto al quale vige in materia la condizione di reciprocità”. Una discriminazione anticostituzionale e illogica. La storia dell’iraniano Mehdi Hosseini: è arrivato dall’Iran 11 anni fa dalla città di Estefhan. “Avevamo un sito internet di informazione, eravamo convinti che il giornalismo dovesse essere libero, ma non era così - racconta. Ho fatto un po’ di prigione e poi ho deciso di andarmene, in ogni caso non avrei più potuto lavorare”. In Italia utilizza in parte i suoi studi di teatro nella nuova professione che ha intrapreso: l’educatore. “Utilizzo il teatro sociale sia con i bambini, ma anche nei centri di accoglienza per rifugiati o nelle comunità terapeutiche: è utile per la rappresentazione delle emozioni e delle varie dinamiche sociali”. Dal 2018 è con la Cooperativa sociale Giuseppe Olivotti di Mira in provincia di Venezia. “Lavoro molto nei piccoli comuni e quando i genitori mi conoscono sono sempre un po’ perplessi perché non pensano che un educatore possa essere straniero. Nel tempo però vedo che il loro sguardo nei miei confronti cambia e poi iniziano a chiamarmi per chiedermi consigli. Questa per me è una soddisfazione enorme, è parte del mio lavoro sulla multiculturalità che non riguarda solo i bambini ma tutta la società”. Il sogno spezzato - Hosseini però non sa se potrà continuare a esercitare la sua professione perché l’8 maggio scorso è entrata in vigore la legge 55/2024 che istituisce l’albo degli educatori professionali socio-pedagogici e l’albo dei pedagogisti. Il 6 agosto ha fatto richiesta di iscrizione all’Albo ma secondo la legge l’iscrizione è subordinata a “essere cittadino italiano o di uno stato membro dell’Unione europea o di uno stato rispetto al quale vige in materia la condizione di reciprocità”. “Solo dopo aver mandato la richiesta di iscrizione ho saputo di questo particolare - continua - non riesco a descrivere le sensazioni che ho provato, delusione, ma poi anche sbigottimento: lo stato italiano mi ha accolto, mi ha formato e poi non mi fa lavorare”. L’educatore iraniano ha ottenuto il riconoscimento come educatore studiando in Italia all’università di Padova, con i 60 Cfu permessi dalla legge Iorio del 2017 (uno dei vari tentativi di riordinare la professione) e prendendo un Master in linguaggio non verbale all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Discriminazione illogica - Questa discriminazione, secondo l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, è anticostituzionale, oltre che illogica. “Cosa gliene viene allo stato italiano se c’è o non c’è un albo degli educatori in, che ne so, Guinea Bissau, e se un Italiano vi si può iscrivere rispetto all’esercizio della professione di un cittadino di quel paese in Italia?”, si domanda Alberto Guarino che sta seguendo questa vicenda per Asgi. L’associazione ha deciso innanzitutto di inviare una lettera alla presidente del Consiglio, alla ministra del Lavoro e al ministro della Giustizia affinché intervengano con un decreto urgente o con una circolare. Se questo non sortirà effetto faranno causa per sollevare la questione di costituzionalità. “Lo straniero regolarmente soggiornante - spiega l’avvocato Guarisio - detiene tutti i diritti civili e sociali riconosciuti ai cittadini italiani secondo l’articolo 2 del testo unico sull’immigrazione, che è stato riconosciuto da molte sentenze come un’applicazione dell’articolo 3 della Costituzione “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge”. Per cittadini, dice la Cassazione, si intende la comunità che risiede in Italia, non necessariamente chi ha la cittadinanza. C’è l’idea forse che alcune professioni per la loro delicatezza siano da limitare a cittadini italiani o europei, seguendo un principio nazionale e non di competenze e diligenza di cui tanto si parla? Ma né medici, né avvocati, né ingegneri, né architetti o assistenti sociali hanno questo limite per l’iscrizione ai rispettivi albi. Leggi fatte con il copia e incolla - “Io penso che semplicemente che abbiamo fatto copia e incolla da albi precedenti, quello degli psicologi è così ad esempio, ma va tenuto conto che è stato scritto nel 1989”. Questa l’opinione di Silvio Premoli, professore ordinario all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. “In realtà ho trovato un’indicazione del ministero della giustizia del 2015 in cui si diceva di non tenere conto delle norme discriminatorie, era riferito all’albo dei commercialisti. Un errore giuridico grave su cui si dovrà mettere mano”. Anche perché le classi di pedagogia, racconta ancora Premoli, sono piene di ragazzi e ragazze di origine diversa di cui molti, probabilmente, privi di cittadinanza. La legge 55 è al centro di molte polemiche tra gli addetti ai lavori. “In pochi hanno seguito l’iter di questa legge - spiega Paolo Felice, presidente di Legacoopsociali del Friuli-Venezia Giulia - Solo quest’estate, quando si è capito che una prima scadenza per iscriversi all’albo era il 6 agosto, in particolare per tutti coloro che esercitano la professione senza una laurea, le regioni sono andate nel panico perché molti educatori non rientravano nei requisiti richiesti dall’albo”. Tanto che lo stesso ministero della Giustizia ha annunciato una consultazione con le parti interessate a settembre. La norma è stata spinta da Fratelli d’Italia e dalle cinque associazioni che rappresentano gli educatori professionali in Italia: Anpe (Associazione nazionale pedagogisti italiani), Associazione professioni pedagogiche, Coordinamento nazionale pedagogisti ed educatori, Feder.Ped. (Federazione nazionale delle associazioni professionali di Ccategoria per pedagogisti ed educatori socio-Pedagogici) e Apei. “Secondo i nostri calcoli sono già 100mila le richieste di iscrizione - dice Alessandro Prisciandaro presidente di Apei - è un grande risultato, nonostante tutti coloro che remavano contro. Per i cittadini stranieri certo che non è giusto che non possano essere iscritti, ma fateci fare l’Albo, ci siamo quasi, e lo correggeremo”. Ma secondo i calcoli fatti dallo stesso Prisciandaro questo non succederà prima del 2026. Nel frattempo Mehdi Hosseini impugnerà la mancata iscrizione all’albo, nonostante sia lui stesso in attesa di ottenere la cittadinanza. “Tutti mi dicono di aspettare - spiega - ma questa non è una battaglia che faccio solo per il mio caso personale, è una battaglia contro le discriminazioni”. Medio Oriente. Polveriera Cisgiordania di Nello Del Gatto La Stampa, 29 agosto 2024 Da Jenin a Tulkarem maxi-blitz di Israele a caccia di terroristi. 10 morti, ospedali bloccati: “Il più grande attacco degli ultimi decenni”. Da ieri una possente operazione dell’esercito, una delle più grandi degli ultimi anni, è in corso nel nord della Cisgiordania, nel triangolo formato da Jenin, Tulkarem e Tubas, anche se si registrano alcuni raid a Nablus e a Gerusalemme est. Se dal 7 ottobre l’attenzione del mondo è rivolta alla Striscia, con il suo enorme bilancio di vittime e di dolore, ci si è dimenticati che da sempre la Cisgiordania ribolle e che le operazioni dell’esercito nei Territori Occupati, soprattutto a nord, sono quasi quotidiani. Tanto da contare, dal 7 ottobre fino a martedì, 652 morti. L’operazione antiterrorismo, come l’ha definita Israele, parte dal fallito attentato di dieci giorni fa a Tel Aviv sud, quando un ordigno è esploso a Lehi Road. La bomba, nello zaino di un palestinese di Nablus, è esplosa prima che l’uomo la posizionasse in un’area affollata. Hamas ha subito rivendicato l’attentato. L’operazione in corso vede centinaia di militari impegnati che hanno anche sigillato le città di Jenin, Tulkarem e il campo di Far’a a Tubas, controllandone le strade di accesso. Nel campo di Nur Shams a Tulkarem è stato allestito un checkpoint militare per consentire ai civili di lasciare le abitazioni. Consigli di evacuazione che stanno piovendo anche su altre zone e che in molti vedono come il tentativo, come accade a Gaza, dell’esercito di dimostrare di cercare di evitare vittime civili. Nell’area dell’operazione, vivono circa 80 mila persone. L’esercito, denunciano palestinesi locali, ha bloccato anche l’accesso agli ospedali. È stato il ministro degli esteri Katz su X a paragonare le operazioni di Gaza e Cisgiordania. “Dobbiamo affrontare la minaccia esattamente come affrontiamo le infrastrutture terroristiche a Gaza, compresa l’evacuazione temporanea dei civili palestinesi e qualsiasi altro passo necessario”, ha detto definendo l’operazione “una guerra in tutti i sensi”. Per il ministro, la rete di terroristi nell’area, è finanziata e aiutata militarmente dall’Iran. Dopotutto, che Jenin, Tulkarem e Nablus non siano nuovi a questo tipo di operazioni, è cosa nota. A luglio dell’anno scorso l’esercito stazionò due giorni a Jenin in un’operazione simile a quella in corso. A maggio fu usato un aereo caccia contro militanti e durante la tregua di fine novembre a Gaza, mentre venivano liberati gli ostaggi da un lato e i prigionieri palestinesi dall’altro e le armi erano cessate, si combatteva a Jenin e Tulkarem. A Nur Shams il locale battaglione ha fatto saltare uno dei bulldozer dell’esercito usati per spianare le strade e abbattere le case di coloro identificati come terroristi. Finora, sono almeno dieci le vittime, militanti secondo Israele, dell’operazione che dovrebbe protrarsi per giorni. Le prime erano a Jenin, città da sempre spina nel fianco dell’esercito. Qui, più che a Tulkarem e Nablus, comunque radicalizzate a causa soprattutto del malcontento dei giovani verso l’occupazione israeliana e il disinteresse dell’Autorità Nazionale Palestinese, insistono diversi gruppi terroristici: oltre ad Hamas e al Jihad Islamico, si registra la presenza, tra gli altri, del Saraya al Quds, il Battaglione Jenin, le Brigate Balata. Il presidente dell’Anp, Abu Mazen, che era in vista in Arabia Saudita, ha ridotto il suo viaggio ed è tornato prima a Ramallah. Per il suo portavoce, Nabil Abu Rudeineh, quello che accade in Cisgiordania e a Gaza, porterà a risultati “terribili e pericolosi, continua una guerra globale contro il popolo palestinese, la sua terra e i suoi luoghi sacri e che queste operazioni, oltre agli altri atti come arresti indiscriminati, non porteranno sicurezza e stabilità a nessuno”. La preoccupazione è che un’operazione così grande nei numeri, possa provocare reazioni sia da Gaza sia dagli altri gruppi collegati, oltre a peggiorare la situazione, come denuncia l’Onu: “Violato il diritto internazionale. E un nostro veicolo è stato colpito da Israele”. Nel frattempo nella Striscia l’esercito continua le operazioni e i palestinesi denunciano vittime nell’attacco a un ospedale a Deir al-Balah. Il corpo di un militare ucciso il 7 ottobre è stato recuperato dall’esercito a Gaza mentre i familiari degli ostaggi oggi terranno una manifestazione ai confini con la Striscia. Il team negoziale di Mossad e Shin Bet è volato a Doha dove per un nuovo round di colloqui. Per gli americani la riuscita è nelle mani di Hamas. A Doha si trova anche l’inviato americano per il Medio Oriente, Brett McGurk, che parteciperà ai colloqui e che ha incontrato i vertici del Paese. Secondo informazioni di intelligence, ottenute dal Jewish Chronicle, il leader Yahya Sinwar per non farsi uccidere non farebbe un passo tra i tunnel di Gaza senza avere con sé 22 ostaggi vivi e ammanettati che usa come scudi umani. La guerra continua anche a nord. Oltre agli scambi tra Israele ed Hezbollah, l’aviazione dello Stato ebraico ha rivendicato un attacco in Siria, sulla strada tra Beirut e Damasco, uccidendo Firas Qasem, uno dei leader del Jihad Islamico. “Io nelle carceri del Congo: inferno pieno di umanità” di Marta Bicego veronafedele.it, 29 agosto 2024 Suor Anna Brunelli da Lugo e il suo servizio tra gli ultimi dell’Africa. “Là mi sento libera”. Suor Anna Brunelli associa la parola libertà alla sua presenza, da dodici anni, nel carcere di Makala, il più grande della Repubblica democratica del Congo, nella capitale Kinshasa. Un luogo in cui manca l’aria. Scarseggiano il cibo e l’acqua da bere o per lavarsi. Manca lo spazio. Le malattie si “condividono” e mietono vittime. Eppure in quei padiglioni nei quali i detenuti sono costretti a sopravvivere, e talvolta finiscono per morire stipati l’uno accanto all’altro, non si suicida nessuno: lottare per la sopravvivenza fa parte della quotidianità, uscire vivi è davvero una grazia. Perché non manca la speranza di tornare liberi: a mantenerla viva contribuisce in parte la fede che la comunità cristiana cattolica coltiva nella preghiera, nell’Eucarestia, nella Parola di Dio, in gesti di vicinanza. Anche adesso che la missionaria comboniana è per un breve periodo a casa della sorella, a Lugo di Grezzana, mantiene un legame con l’Africa: risponde a messaggi sullo smartphone, legge notizie, scrive e-mail. Non vede l’ora di rientrare. Accenna un sorriso suor Anna, parlando delle “sue prigioni”: sincero indizio dell’amore che ha per una missione che l’ha portata lontano a prendersi cura degli ultimi tra gli ultimi. “Ho ricevuto una buona educazione e i miei genitori mi hanno insegnato i valori della solidarietà, dell’onestà, dell’attenzione al povero e verso chi soffre”, spiega la settantasettenne cresciuta in una famiglia piuttosto numerosa. Mentre parla, le sfuggono diverse parole in francese, lingua che le è ormai familiare. Dopo aver preso i voti a Verona nel 1969 ed essersi formata come infermiera per il servizio ai lebbrosi con specializzazione in Medicina tropicale, quasi mezzo secolo fa è partita per lo Zaire, oggi Repubblica democratica del Congo. “La prima missione che il Signore mi ha dato e - dice - dove ho iniziato ad amare il popolo africano”. La religiosa della Valpantena ha prestato servizio sanitario in un lebbrosario nella foresta, ha vissuto con i Pigmei. Esperienze indimenticabili e al contempo difficili, quando sul suo cammino ha incontrato guerriglie e soldati armati. Dal 1997 al 2006 è stata inviata in Togo: lì ha capito che la sua vocazione era curare i detenuti, perciò ha iniziato a frequentare la prigione di Lomé e i suoi 1.500 prigionieri. È entrata dove mai nessuna suora con la pelle bianca aveva messo piede. “Dentro mi sentivo reclusa quando sentivo porte e catenacci chiudersi alle mie spalle”, ricorda. Tra le difficoltà, alcune conquiste: trovare uno spazio per celebrare la Messa e pregare, recapitare le lettere ai familiari. Un servizio che ha preparato il terreno alla missione successiva: quella che, dopo una breve pausa in Italia, l’ha riportata in Congo, dove ha proposto alla Madre provinciale di frequentare il carcere di Makala. “Costruito negli anni Cinquanta per una capienza di 1.500 persone, attualmente ne ospita circa 16mila in condizioni inumane”, descrive. In undici padiglioni (nove sono maschili) convivono a migliaia adulti, minori, donne, neonati, bambini. “Sono obbligati a stare accovacciati, a dorso nudo; occupano i corridoi, i bagni. Ogni giorno trovi un paio di morti...”, descrive. Contro tanta sofferenza, la religiosa riesce a essere sorella, mamma, amica, madrina nei battesimi. “Non è facile”, ammette. Ma non è tipo da lasciarsi scoraggiare e ha lottato: per dare alle donne una stanza per le visite; perché alcuni bimbi crescessero lontano dalla prigione, assicurando loro un futuro migliore; per far valere la giustizia. Alcuni detenuti sono davvero autori di reato (il principale tra i maschi è la violenza sessuale, tra le femmine il traffico di minori); altri sono in attesa di giudizio, se non addirittura innocenti. Capita che vada a fuoco un archivio o che si perda un dossier giudiziario perché molti vengano dimenticati in quella bolgia in cui l’umanità scarseggia. Una delle attività portate avanti dalla Chiesa cattolica - oltre a organizzare corsi di alfabetizzazione, inglese e informatica - è supportare chi è stato incarcerato ingiustamente, ha un caso complicato o non può uscire perché non ha i soldi per pagare le spese giudiziarie. Tramite la commissione “Giustizia e pace”, il collaboratore Jean Noel si reca nei vari uffici di polizia o nei tribunali cittadini per cercare la documentazione utile a far valere i diritti di queste persone. Ogni mese, decine di innocenti ritrovano la libertà grazie a quest’opera e, di recente, il nuovo ministro della Giustizia ha dichiarato di volersi impegnare in questo senso per contrastare il sovraffollamento. Inoltre, un progetto della Chiesa cattolica sostenuto dalla Conferenza episcopale italiana (Cei) ha permesso di dotare i padiglioni del carcere di grandi climatizzatori. Sono scintille di una speranza da continuare ad alimentare. Come? “Aiutando a pregare e a mantenere vivo il senso di Dio, a rivedere la propria vita e capire cosa li ha portati lì, a riconciliarsi con il Signore e il prossimo - risponde -. Dare speranza è il nostro dovere, soprattutto con le mamme”. Specie dove la dignità è calpestata e manca il rispetto, senza perdere di vista la propria missione. In carcere suor Anna confessa di aver ricevuto tanti esempi: ha imparato cosa è la pazienza, ha scoperto il significato di resilienza, ha raccolto gratitudine. “Siamo tutti peccatori e abbiamo delle mancanze; ma - conclude - sono felice di camminare assieme a queste persone verso la salvezza”.