Amnistia, indulto e celle disumane. Cada il tabù della clemenza di Luigi Patronaggio* Avvenire, 28 agosto 2024 Uno dei principali temi sulla giustizia che ha tenuto alto il dibattito politico in questa torrida estate è stato quello del sovraffollamento carcerario, della vivibilità dei nostri penitenziari e del tristissimo, drammatico, crescente fenomeno dei suicidi in cella. Ancora una volta, quasi una costante di questa legislatura, all’interno della maggioranza politica si sono confrontate le due diverse anime del centro destra, quella liberale-garantista e quella più “muscolosa” dei sostenitori della tutela dell’ordine pubblico e dell’effettività della pena. L’opposizione, da parte sua, ha avuto buon gioco ad evidenziare le contraddizioni della maggioranza e a rilanciare un garantismo, tuttavia, a tratti oscillante e contraddittorio. Del resto i provvedimenti legislativi fin qui assunti, spesso con ricorso alla decretazione di urgenza, sono andati verso la direzione di un rafforzamento del sistema sanzionatorio e della introduzione di nuovi reati, fatta eccezione per i reati tipicamente commessi dai cosiddetti “colletti bianchi” che hanno goduto di forme di depenalizzazione (su tutti l’abolizione del reato di abuso di ufficio) e un rafforzamento delle garanzie processuali. Sono state messe in campo idee, progetti, proposte, alcune di queste si sono pure trasformate in decreti e leggi, ma il problema è rimasto lì con tutta la sua drammaticità, come testimonia l’anomala richiesta di incontro sul tema avanzata dal Guardasigilli al Presidente della Repubblica. Si è agito con un massiccio aumento degli organici della polizia penitenziaria, si sono introdotte nuove norme sulla esecuzione penale, abbassando i limiti per beneficiare delle misure alternative alla detenzione, si sono apportate modifiche interna di liberazione anticipata. Si è ventilato di aumentare da 45 a 60 giorni il beneficio semestrale dello sconto di pena per liberazione anticipata e, cosa più grave, si è indotta nella popolazione carceraria l’errata idea che la liberazione anticipata sia un diritto automatico di cui si potrà beneficiare a prescindere dalla buona condotta e dalla partecipazione ai programmi di recupero. Ancora si è rilanciato, con intenti deflattivi, il tema della limitazione del ricorso alla custodia cautelare, istituto che tuttavia è necessariamente strettamente legato alla sussistenza di precise eccezionali esigenze cautelari, quali il pericolo di fuga dell’indagato, quello relativo all’inquinamento probatorio e quello relativo alla reiterazione della medesima condotta criminosa. Misura peraltro tipicamente cautelare ed eccezionale (forse anche migliorabile in senso garantistico), regolata con modalità e tempi rigorosamente scanditi per fasi processuali ma per effetto della quale i ristretti in carcere rappresentano un segmento limitato della popolazione carceraria pari a poco più del 10% della intera popolazione carceraria. Pochissimi, mal coordinati e non organici, sono stati gli interventi fin qui operati sul versante del recupero del condannato e del suo reinserimento sociale. Disastrosa continua ad essere la situazione della sanità carceraria, con punte di alta criticità in quelle regioni che storicamente vivono una carenza di servizi sanitari pubblici che, sia detto per inciso, non potranno che peggiorare con la recente riforma sulla autonomia differenziata. Ancora più disastrosa appare, infine, la situazione della psichiatria carceraria e il recupero di tossico ed alcool dipendenti, dove continuano a registrarsi scarsi investimenti e una carente integrazione fra gli interventi pubblici e le associazioni del terzo settore. Ancora una volta è stato trascurato un approccio inclusivo al problema, dove il sistema, lungi dal continuare ad innalzare muri dovrebbe tendere a creare ponti e, aggiungerei, ponti solidi, razionalmente percorribili con trasparenza e giustizia, possibilmente a senso unico con direzione dalla punizione al reinserimento. Pochi attori politici, forse condizionati da strategie elettorali, hanno intravisto, in questo drammatico momento di sovraffollamento carcerario, la possibilità di far ricorso all’amnistia e all’indulto sebbene riservati ai detenuti socialmente meno pericolosi in ragione dei reati commessi e della loro personalità. Misure che non devono apparire come una abdicazione dello Stato e della sua potestà punitiva, quanto misure realisticamente utili per superare questa attuale innegabile fase di criticità. A giudizio di chi scrive, invece di ricorrere a contraddittorie riforme, con disposizioni legislative spesso scritte in modo affrettato, il ricorso all’amnistia e all’indulto darebbe la possibilità, di riportare la calma all’interno delle carceri e di ragionare sul tema in modo più sereno e pacato, cercando soluzioni durature di medio e lungo termine. Solo per fare un esempio a favore del ricorso ai due istituti, il meccanismo della liberazione anticipata automatica e le farraginose procedure esecutive per la concessione di misure alternative alla detenzione davanti al giudice della sorveglianza, necessitano di un numero di magistrati allo stato non disponibile e difficilmente reperibile nel breve periodo. Riflessioni a parte andrebbero poi articolate sulla carcerazione minorile che deve rimanere la estrema ratio della difesa sodale. Un intervento organico di rivisitazione della materia deve necessariamente passare da una attenta analisi del disagio giovanile e dei fenomeni di devianza minorile, contestualmente agendo sulle famiglie, sulla quantità, qualità e professionalità degli attori della giustizia minorile e, infine, sulle strutture che nulla devono avere in comune con quelle restrittive riservate agli adulti ma che devono sempre di più assomigliare a strutture di accoglienza. Per le carceri minorili occorre operare una rivoluzione culturale pari a quella che intraprese anni addietro Basaglia per fronteggiare il disagio mentale. Le strutture chiuse portano infatti ad acuire tensioni, a radicalizzare devianze, reiterare copioni di vita marginale appresi per strada o in famiglia, specie in personalità non ancora mature, spesso prive di risorse culturali, bisognose di essere accompagnate verso la società piuttosto che sentire di esserne escluse. Minore importanza non hanno il tema della situazione carceraria femminile e quella degli extracomunitari. Pur non condividendo le disposizioni del Decreto Sicurezza che, sulla spinta emotiva del fenomeno delle borseggiatrici rom, ha modificato i casi di rinvio della pena per le donne madri di figli con età inferiore a un anno, ci si chiede quanti Istituti a Custodia Attenuata per le Detenute Madri (Icam) sono stati nel frattempo istituiti e quale è la situazione degli asili nido e degli altri spazi di socializzazione realizzati negli istituti penitenziari per favorire gli incontri fra le detenute e i loro figli minorenni. Da un recente studio si apprende con allarme, infatti, che gli Icam in Italia sono solo 4 e che gli asili nido funzionanti presso le sezioni femminili degli istituti di pena sono solo 11. Una considerazione, infine, sui detenuti extracomunitari che oggi rappresentano il 31,8% della intera popolazione carceraria. Non vi è dubbio che è un segmento di tutto rispetto che affolla le nostre carceri, ma è pur vero che in molti casi si tratta di detenuti che hanno subito un trattamento sanzionatorio di gran lunga differente da quello riservato ai cittadini, anche a fronte di una pericolosità sociale, alle volte solo percepita come allarmante, ma spesso frutto di pregiudizi e sicuramente arginabile con una maggiore attenzione alle problematiche di accesso ai servizi sociali e sanitari per i non residenti. Valga per tutti un esempio: molti extracomunitari non possono beneficiare della detenzione domiciliare in quanto privi di idoneo alloggio e il loro accesso a misure alternative alla detenzione appare di gran lunga più problematico che per i cittadini per mancanza di offerte di lavoro e delle altre condizioni previste dalla legge. Ci auguriamo quindi che il drammatico tema del sovraffollamento e dei suicidi in carcere venga affrontato al più presto con provvedimenti organici e di ampio respiro e che, nelle more, si faccia ricorso agli istituti dell’amnistia e dell’indulto, unici mezzi oggi capaci di riportare con immediatezza la pace all’interno delle infuocate carceri italiane. Il ricorso ai due istituti di grazia collettiva dovrà essere visto come una eccezionale forma di intervento a favore della popolazione carceraria, penalizzata in questi anni da contraddittorie politiche giudiziarie e dalla carenza di investimenti nel settore della prevenzione, del recupero, della risocializzazione e dell’edilizia penitenziaria. *Procuratore generale di Cagliari Carceri, le priorità da affrontare di Raffaele Nevi* thewatcherpost.it, 28 agosto 2024 La situazione carceraria in Italia è una questione di grande rilievo. La recente visita alle case circondariali di Perugia e Terni ha rafforzato in me la convinzione che è urgente affrontare i problemi strutturali del nostro sistema penitenziario, che rischiano di compromettere non solo la dignità dei detenuti, ma anche la qualità del lavoro del personale. Il sovraffollamento è una delle criticità principali. Questa piaga storica non solo rende difficoltosa la gestione delle strutture, ma rischia di vanificare uno degli obiettivi sanciti dalla nostra Costituzione: il recupero dei detenuti e il loro reinserimento nella società. Il carcere dovrebbe rappresentare una parentesi volta alla rieducazione, ma l’eccessivo numero di detenuti ostacola questo scopo. Inoltre, influisce negativamente anche sulle condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria e del personale amministrativo, costretti a operare in ambienti caratterizzati da grande stress e carenze logistiche. Forza Italia ha sempre difeso con fermezza il principio della certezza della pena, e nessuno di noi è favorevole a provvedimenti come indulti o amnistie, che rischierebbero di minare il senso di giustizia. Tuttavia, è evidente la necessità di ripensare il sistema penitenziario. Non si tratta solo di riforme legislative, anche se il decreto Nordio rappresenta un passo avanti importante. Occorre affrontare i problemi strutturali rimasti trascurati per troppo tempo. Il governo ha dimostrato sensibilità verso questi temi e sta affrontando la questione con serietà. Forza Italia sostiene ogni sforzo volto a migliorare le condizioni dei detenuti, non solo per garantire il rispetto della loro dignità, ma anche per tutelare il benessere di chi lavora nelle carceri. Un’altra questione cruciale emersa durante la visita è quella dei servizi socio-sanitari. Le difficoltà non dipendono dalle Asl, ma sono legate a problematiche strutturali del sistema carcerario. La gestione sanitaria nelle carceri è complessa, soprattutto per quanto riguarda i detenuti con gravi problemi psichiatrici, una criticità confermata dal direttore del carcere di Capanne a Perugia. La decisione presa in passato di trasferire la gestione della sanità dal livello nazionale a quello territoriale potrebbe non essere stata la migliore e necessita di un riesame. Le criticità sanitarie non sono però le uniche. Anche gli agenti di polizia penitenziaria, i cancellieri e il personale amministrativo lavorano in condizioni difficili. Non possiamo ignorare l’impatto che questo ha sul benessere psicofisico di chi garantisce la sicurezza e il funzionamento delle strutture carcerarie. Forza Italia intende portare queste problematiche all’attenzione del Governo e delle istituzioni competenti. Nei prossimi giorni ne discuteremo con il nostro viceministro della giustizia senatore Sisto, per trovare ulteriori soluzioni concrete. Il tema della sanità carceraria, in particolare, è spesso trascurato, ma richiede un intervento deciso. La gestione dei detenuti con problemi psichiatrici resta una delle sfide più complesse, e necessita di un’attenzione speciale da parte delle istituzioni. La nostra delegazione continuerà a monitorare la situazione e a promuovere iniziative per migliorare le condizioni dei detenuti e del personale carcerario. Solo affrontando questi problemi in modo sistematico potremo rendere il nostro sistema penitenziario più giusto ed efficiente, in linea con i principi di civiltà che ogni Paese deve perseguire. *Vicecapogruppo vicario Forza Italia alla Camera, Portavoce nazionale FI Che cosa sta succedendo nelle carceri italiane? di Chiara Martinoli tg24.sky.it, 28 agosto 2024 C’è una strage silenziosa che si consuma quasi quotidianamente nel nostro paese. Se ne parla poco e il più delle volte non se ne conoscono i dettagli. È quella che riguarda le persone detenute nelle carceri italiane. Si calcola che in media, in Italia, ogni anno muoiono più di cento persone dietro le sbarre. Secondo i dati del dossier “Morire di carcere” redatto da Ristretti Orizzonti, i decessi sono stati 167 quest’anno (e siamo solo ad agosto), 157 nel 2023, 171 nel 2022. I suicidi nelle carceri rappresentano una fetta abbondante dei decessi che avvengono nei luoghi dove si sconta la pena. Nel 2023 sono stati 70, l’anno prima 85: un triste record, un numero che non si era mai visto, almeno negli ultimi trent’anni. Quest’anno però le cose potrebbero andare ancora peggio: sono infatti già più di sessanta i casi di suicidio registrati nei primi otto mesi del 2024. Il tasso di suicidio nelle carceri italiane è elevatissimo: si verificano 16 casi di suicidio ogni diecimila donne e 11 ogni diecimila uomini. Per avere un’idea di che cosa significa, basta pensare che nella popolazione italiana il tasso di suicidio è 0,67 su diecimila: meno di un caso di suicidio ogni diecimila persone. In Unione europea l’Italia è al 24esimo posto su 27 per numero di suicidi in rapporto alla popolazione, ma è al terzo posto se si considerano quelli che avvengono in carcere. Perché questo accade? Non è facile dare risposte, anche perché le storie delle persone che hanno scelto di togliersi la vita sono uniche, diverse una dall’altra, così come diverse e personali sono le scelte e le motivazioni che portano a commettere questo atto estremo. C’è però un elemento importante da considerare, perché ci dà un po’ la misura della complessità e dei limiti nel funzionamento delle nostre carceri: il sovraffollamento. Negli ultimi anni si è registrato un forte aumento delle presenze negli istituti penitenziari: 770 in più nel 2021, oltre duemila in più nel 2022, fino ad arrivare alle 3.970 unità in più nel 2023. Giungiamo così alla situazione attuale: oltre 61mila persone detenute a fronte di 47mila posti disponibili, per un tasso di affollamento superiore al 130% a livello nazionale, con punte che arrivano a superare il 200%, come accaduto quest’estate al San Vittore di Milano. Il sovraffollamento non è l’unico problema delle carceri e un’eventuale eliminazione del sovraffollamento non porterebbe automaticamente alla soluzione di tutti gli altri problemi. Ma è certo un punto da cui partire, un nodo fondamentale. Quando ci sono troppe persone detenute rispetto ai posti effettivamente disponibili, la qualità della vita in carcere si riduce, inevitabilmente, in tutti i suoi aspetti. Ma non solo, diventa anche più difficile, per gli agenti e per gli operatori, fare il proprio lavoro: garantire la sicurezza, il rispetto dei diritti, la tutela delle persone detenute, individuare problematiche e malesseri psicologici, e dunque agire tempestivamente di fronte alle necessità. Il monito di Mattarella - La condizione drammatica in cui versano le carceri italiane è stata segnalata dallo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che nel suo discorso alla cerimonia del “Ventaglio” a fine luglio ha parlato di “condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza, indecorose per un Paese civile, qual è, e deve essere, l’Italia. Il carcere - ha detto il Capo dello Stato - non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, non va trasformato in palestra criminale”. Il carcere non è solo una struttura fisica dove vengono recluse persone condannate per aver commesso dei reati. È uno spazio che svolge o dovrebbe svolgere una funzione sociale importantissima, indicata nero su bianco dalla stessa Costituzione, dove si dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Un obiettivo, questo, che è nell’interesse di tutta la società, non solo della persona detenuta. Carceri, le strutture minorili sono nel caos fpcgil.it, 28 agosto 2024 La recente decisione del Capo Dipartimento del DGMC (giustizia minorile e di comunità) di sospendere temporaneamente il servizio presso il Centro di Prima Accoglienza (CPA) di Roma ha sollevato un’ondata di polemiche e preoccupazioni tra gli addetti ai lavori e le organizzazioni sindacali. Senza consultare preventivamente i rappresentanti dei lavoratori, i minori arrestati sono stati dirottati al CPA della Campania, trasferendo il personale maschile della Polizia penitenziaria del CPA romano in supporto all’Istituto Penale per Minorenni (IPM) di Roma, lasciando solo il personale femminile a presidiare la portineria del CPA. Questa scelta sta peggiorando una situazione già critica in uno dei Centri che registra a livello nazionale il maggior numero di ingressi di minori in stato di arresto o fermo. La denuncia viene da Donato Nolè, Coordinatore nazionale Fp Cgil per la Polizia penitenziaria e da Paola Fuselli, Coordinatrice nazionale Fp Cgil per il DGMC. Analoga misura - spiegano - è stata adottata per il CPA di Lecce, la cui sospensione delle attività è stata decisa a giugno senza una comunicazione formale alle organizzazioni sindacali, e il personale della Polizia penitenziaria si è visto costretto a raggiungere la sede dell’IPM di Bari partendo dalla sede di Lecce con rientro al termine dei turni nella sede di appartenenza, con tutto il disagio operativo che ciò comporta e il dispendio di ore di straordinario e trattamento di missione. Nei giorni scorsi, il dipartimento ha deciso di prorogare la sospensione delle attività al 31.12.2024. Ciò che lascia più perplessi è l’assenza di qualsiasi dialogo preventivo con le organizzazioni sindacali. In un contesto dove le decisioni dovrebbero essere frutto di un confronto aperto e trasparente, l’Amministrazione ha preferito agire in perfetta solitudine, ignorando l’importanza di una collaborazione con chi, ogni giorno, si trova a gestire le complessità di un sistema che già mostra segni evidenti di cedimento. Inoltre, spiegano Nolè e Fuselli, la carenza di personale presso l’IPM è certamente un problema serio, ma le radici della crisi sono più profonde. La gestione degli IPM e la mancanza di linee guida operative chiare sono i veri nodi da sciogliere. Non si può pensare di risolvere un problema strutturale con soluzioni temporanee e mal concepite. Il personale dei CPA, infatti, dovrebbe supportare gli IPM, ma finora è stato impiegato per tradurre i minori dai centri ai tribunali di competenza. Questo ha comportato un inutile dispendio di risorse economiche, aggravando ulteriormente una situazione già precaria. I provvedimenti adottati di fatto evidenziano una mancanza di pianificazione e organizzazione che rischia di compromettere seriamente il funzionamento delle strutture coinvolte. La gestione costantemente emergenziale delle criticità degli Ipm, legate principalmente al sovraffollamento, sta mettendo in discussione i principi cardine del sistema della giustizia minorile, a partire da quello della territorialità. Tutto ciò avviene a danno di minorenni e giovani adulti che nel momento delicatissimo del primo contatto con il mondo del penale vengono trasportati a chilometri di distanza o in un’altra regione e delle famiglie o dei tutori degli stessi che non sempre sono in grado di sostenere spostamenti così importanti. Al contempo, nel caso in cui le udienze di convalida vengano svolte nella modalità on line, sottrae alla magistratura la possibilità di entrare in contatto diretto con i minori. Se davvero si vogliono garantire il reinserimento dei minori e condizioni di lavoro adeguate per tutti gli operatori del sistema della giustizia minorile - concludono - è indispensabile ripensare radicalmente le modalità di gestione dei servizi minorili, investendo in risorse adeguate e, soprattutto, in una leadership che sappia ascoltare, confrontarsi e agire con lungimiranza. Solo così si potrà sperare di porre fine a una crisi che rischia di diventare cronica, con conseguenze devastanti per tutti. Forza Italia pronta a dribblare gli alleati pure sul carcere di Errico Novi Il Dubbio, 28 agosto 2024 Il piano dei berlusconiani: sottoporre presto, agli alleati, gli esiti del monitoraggio realizzato con le visite agostane negli istituti di pena, e chiedere di intervenire per correggere le situazioni più gravi. Ma non ci sarà “trattativa” sul nuovo Garante dei detenuti, la cui nomina resta in capo a FdI. Tutto inizia addirittura a febbraio, quando Pietro Pittalis si associa, unico deputato della maggioranza, alla richiesta di non lasciare la legge Giachetti-Bernardini su un binario morto. Il resto è storia, più o meno recente: prima il tentativo, seppur discreto, degli esponenti azzurri, a cominciare dal viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, di dirigere il decreto carceri verso soluzioni non distanti dalla liberazione anticipata prevista dal parlamentare di Italia viva. Quindi il netto no sia di Andrea Delmastro, per FdI, sia di Andrea Ostellari, per la Lega, a una pur minima apertura delle maglie che potesse arginare il sovraffollamento, con la scelta di lasciare, nel provvedimento “urgente” solo modifiche procedurali di incidenza modestissima. Fino alla “resa” di Forza Italia, che prende per buono quel pochissimo che nel decreto Carceri, in qualche modo, confluisce. Ma che poi, un minuto dopo il via libera alla conversione del testo, fa un po’ come Carlo Nordio: mentre il guardasigilli si impegna a discutere addirittura con il Capo dello Stato Sergio Mattarella di ulteriori interventi sulla tragica condizione dei penitenziari - quasi a riconoscere che quelli appena prodotti servono a pochissimo - gli azzurri di Antonio Tajani inaugurano una lunga estate di visite negli istituti di pena, e lo fanno insieme con il Partito radicale, cioè con la “casa madre” di quel mondo da cui proviene la coautrice della proposta Giachetti, la presidente di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini appunto. Fino a ieri, alle nuove tappe del giro delle carceri italiane compiuto dai berlusconiani. A cominciare da quel Sisto che aveva tentato di ottenere qualcosa in più sul piano politico, dagli alleati e “coinquilini” a via Arenula Delmastro e Ostellari. È storia, e non ci sarebbe alcunché di nuovo, se non fosse che negli ultimi giorni FI ha individuato un terreno molto promettente per marcare la propria differenza rispetto alla destra della coalizione, lo Ius scholae. Ed è chiarissimo come sulle carceri possa avvenire esattamente la stessa cosa. Il partito di Tajani, che pure da inizio agosto in poi ha insistito personalmente sulla necessità di assicurare un’esecuzione penale in linea con la Costituzione, ha a portata di mano il più semplice dei “bis”: forzare sul carcere con una proposta che sia magari a metà strada fra la legge Giachetti e il testo tropo light convertito in legge il 7 agosto Di nuovo c’è dunque l’interesse dei berlusconiani a distinguersi. E il “metodo analogico” che può indurli, con la ripresa dei lavori, a presentare una proposta. In modo da cercare punti di convergenza anche con l’opposizione. E non si possono sottovalutare le suggestioni provenienti dai figli del Cav, Marina e Piersilvio in particolare, pronti a rafforzare su Mediaset un messaggio nuovo, e non più solo “securitario”, sulla detenzione. Non è un percorso facile. Ci si può arrivare. Ma la strada per l’ipotesi di intese il più larghe possibili per venire a capo della terribile situazione penitenziaria è già individuato. Se n’è parlato ai più alti livelli, nel partito berlusconiano, già al principio del “tour” forzista nelle prigioni: sottoporre agli alleati i risultati di quello che, per gli uomini di Tajani, è da considerarsi a tutti gli effetti un monitoraggio. “Noi vogliamo portare ai nostri alleati gli elementi chiari, di percezione diretta, che abbiamo raccolto”, spiega riservatamente un’autorevole fonte parlamentare di FI, “un conto è sentir dire, altro è vedere: vogliamo dire cosa non va, dove si deve intervenire. È chiaro che la nostra è una sensibilità diversa, c’è poco da fare. È chiaro a tutti. Ma ci sforzeremo di trovare sempre un punto di mediazione. Cercheremo di ricordare a tutti che, insieme con la necessaria funzione retributiva della pena, non si puoi mai trascurare la dignità”. Toccherà magari all’opposizione, e al Pd innanzitutto, offrire una sponda ai berlusconiani. Di certo, Elly Schlein e la responsabile Giustizia del Nazareno, Debora Serracchiani, sono impegnate, fin dai primi passi della legge Giachetti, a spingere per soluzioni che diano respiro alla popolazione detenuta. A cominciare dal ripristino delle misure introdotte all’epoca del covid e poi non rinnovate dall’attuale maggioranza, come la possibilità, per i “semiliberi” - cioè i reclusi che di giorno lavorano fuori dal carcere e che vi rientrano solo a dormire la sera - di restare lontano dagli istituti per tutte le 24 ore. Il Pd ci proverà, FI potrebbe mostrarsi pronta ad associare quella misura alle altre che intende proporre. E molto, naturalmente, dipenderà da Nordio, il ministro intenzionato a coinvolgere Mattarella nello sforzo che, a propria volta, intende compiere. Vanno riconosciute due attuali condizioni, dell’iniziativa moderata e garantista sugli istituti di pena. Innanzitutto, il guardasigilli non ha ancora messo al lavoro i propri uffici per scrivere un nuovo provvedimento orientato alle soluzioni da lui stesso ipotizzate nei giorni scorsi, come il trasferimento ai domiciliari dei reclusi all’ultimo anno di pena. L’altro dato da tenere presente è che Forza Italia non potrà fare leva sulla scelta del profilo da indicare al posto del compianto Maurizio D’Ettore: il nuovo Garante nazionale, o meglio il nuovo presidente del collegio che costituisce quell’authority, sarà, come D’Ettore, indicato da Fratelli d’Italia. Fa parte degli accordi, e Tajani sa benissimo quanto sia insensato pretendere di forzare sul punto. È la ordinaria logica politica. Non sarà dunque quella, la strada di FI per arrivare a un cambio di rotta sull’esecuzione penale. La bussola resta l’esperienza diretta fatta in questo mese d’agosto, con i Radicali e, in alcuni casi, in solitudine. Dove si arriverà, dipende dai berlusconiani, ma non solo da loro. La pietra angolare di un partito riformista è lo Stato di diritto di Luigi Corbani Il Riformista, 28 agosto 2024 Se si inneggia alle manette si è già perso il senso della battaglia. All’iniziativa politica si sostituisce l’indagine giudiziaria, che non ha il compito di purificare l’arte del governo, ma di colpire i reati, e che comunque deve essere sottoposta a controprova di un dibattimento nei vari gradi di giudizio. Da alcuni anni a questa parte, insistentemente, si è introdotta una nuova categoria politica: il giustizialismo, che, a noi “adulatori della costituzione, come riflesso condizionato della sinistra”, di origine togliattiana, non è mai piaciuto. A questo atteggiamento, o per meglio dire, a questa concezione dello Stato si sono rifatti tutti coloro che pensano che le Procure, i pubblici ministeri abbiano una funzione “purificatrice” della politica, siano i detentori della “moralità”, della “purezza” della politica. Da tempo il pensiero moderno ha distinto il diritto dalla morale e ha discusso sul significato di “giustizia”. Ma ora, spesso, nel gergo politico-mediatico, si contrappone al giustizialismo, il garantismo, ovvero una categoria politica inesistente, per noi che siamo cresciuti nel “mito” della Costituzione, nata dopo un ventennio di dittatura fascista. Perché il giustizialismo non è contro il garantismo, ma attacca le basi liberali e democratiche di quello Stato di diritto, conquistato attraverso i secoli, per dirla con la Treccani, che “si fonda sia sulla separazione dei poteri sia sulla coscienza che solo il diritto può dare alla società stabilità e ordine, con le sue norme chiare e certe, generali e astratte (e quindi impersonali), un diritto sempre subordinato a quella legge fondamentale che è espressa dalla costituzione” Ora, è sullo Stato di diritto che si costruisce un partito riformista, il resto viene dopo. Ed è su questo che il Pds e il Pd hanno dimostrato lacune gigantesche, sposando, anche prima dell’apparizione delle 5S tesi giustizialiste, che non sono populiste, ma sono reazionarie o bolsceviche, a seconda dei punti di vista. Se si inneggia alle manette, e agli avvisi di garanzia, di solito, si è già perso il senso della politica e della battaglia politica: alla iniziativa politica si sostituisce la indagine giudiziaria, che non ha il compito di purificare la politica, ma di colpire i reati, e che comunque deve essere sottoposta a controprova di un dibattimento nei vari gradi di giudizio. L’articolo di qualche giorno fa di Davigo sul “Fatto” mi ha ricordato che molti facevano il girotondo per questo manettaro: Msi, estremisti di sinistra, pidiessini, ecc. Mi ha fatto venire in mente che questo dovrebbe essere il Paese di Cesare Beccaria e, tra le cose che ricordo con maggior orgoglio nella mia attività di amministratore, nella mia prima vita, c’è quella di aver organizzato un ciclo di iniziative per il 250° anniversario della nascita di Cesare Beccaria. Tra le altre, ci fu la organizzazione con il “Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale” di un convegno alla Sala della Balla del Castello Sforzesco sul tema “Cesare Beccaria e la politica criminale moderna”. Presenti ministri di giustizia di tutti i Paesi, sotto l’egida delle Nazioni Unite, alla presenza del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, con l’introduzione del ministro Giuliano Vassalli e del presidente del Consiglio costituzionale francese Robert Badinter, con l’intervento del ministro della Difesa e presidente del CNPDS, Giovanni Spadolini, il convegno si svolse per tre giorni grazie alla passione e all’entusiasmo di Adolfo Beria d’Argentine, Procuratore Generale della Repubblica a Milano. E con lui decisi anche di distribuire in tutte le scuole medie di Milano “Dei delitti e delle Pene”. Famoso per la sua battaglia per la abolizione della pena di morte (“né utile né necessaria”), ma anche per la condanna della tortura (“Mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti”) e per la proclamazione della presunzione di innocenza (“Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice”), Beccaria fu il primo ad affermare la esigenza di pubblicità come garanzia di giustizia (“pubblici siano i giudizi e pubbliche le prove del reato”) e a distinguere tra responsabilità penale e responsabilità morale, ad affermare la equiparazione tra pena giusta e pena necessaria, proporzionata al delitto (“uno dei più grandi freni ai delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di essa”; “quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e utile”). E quanto alla carcerazione preventiva, Beccaria affermava che “essa non può precedere la sentenza se non quando la necessità lo richiede” e deve essere cautelare (“o per impedire la fuga, o per non occultare le prove dei delitti”) e per non distruggere la dignità dell’innocente” deve durare il minor tempo possibile e dev’essere meno dura che si possa”. Mentre leggevo Davigo, mi veniva in mente il principio di Beccaria: “Perché ogni pena non sia una violenza di uno, o di molti, contro un privato cittadino, deve essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi”. Ma dopo la caduta del Muro, anche una parte della magistratura inquirente (guarda caso quella milanese, non quella romana) si è sentita libera di colpire un sistema politico che dal 45 la teneva soggiogata, e presa dalla ricerca di un ruolo di protagonista nella politica e nell’asseto istituzionale del Paese, sospinta da forze estranee che volevano punire un Paese che si era atteggiato in modo autonomo rispetto al Medio Oriente e alla Östpolitik, si è lanciata in una operazione che, lungi dal debellare la corruzione, ha travolto le regole dello stato di diritto. Giustamente l’altro giorno su “La Stampa”, Mattia Feltri scriveva un articolo del tutto condivisibile, dal titolo “Scuola di filosofia”: “E poi arriva Piercamillo Davigo che, sotto un promettente titolo di prima pagina del Fatto Quotidiano (“Stiamo diventando uno Stato canaglia”), ieri ha detto la sua sulla percentuale eccessiva di detenuti in attesa di giudizio. A beneficio di chi poco sapesse di Davigo, una breve introduzione al personaggio impone di dire che è stato il più raffinato dei pubblici ministeri del pool di Mani pulite, da cui il soprannome di Dottor Sottile. Fra le numerose raffinatezze e sottigliezze, ha raggiunto grande popolarità quella secondo cui - a proposito dell’esorbitante profluvio di risarcimenti per ingiusta detenzione - quegli innocenti molto spesso sono colpevoli che l’hanno fatta franca. Un metodo logico sublimato ieri così. “L’alta percentuale di detenuti in custodia cautelare dipende in larga misura dalla bassa percentuale di detenuti definitivi”. Non è straordinario? Nella visione di Davigo, se si ritiene che siano troppi trenta detenuti su cento in attesa di giudizio, è sufficiente ribaltare il punto di vista e accorgersi che in realtà sono troppo pochi settanta detenuti su cento definitivi. Basta cioè aumentare il numero totale dei detenuti definitivi - rivedendo tutte le leggi premiali di cui godono i condannati - e quelli in attesa di giudizio saranno né uno più né uno in meno, ma la loro percentuale diminuirà. Problema magicamente risolto. È una scuola filosofica di antico pregio, i cui fondatori furono Gaspare e Zuzzurro, coppia comica di qualche decennio fa, quando il primo, ripetutamente deriso dal secondo per l’enorme naso, contrattaccò davighianamente: “Non ho il naso grosso, è la faccia che è piccola”. Direttori giustizia, il ministero nicchia: “Niente è deciso” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 28 agosto 2024 Il ministero della Giustizia prova a gettare acqua sul fuoco del malcontento tra i direttori che il 10 settembre si ritroveranno sotto al palazzo di via Arenula se non ci saranno novità sostanziali sul loro contratto. Chiedono la retromarcia del governo che vorrebbe cancellare il titolo di queste figure istituite nel 2017 e quindi dequalificarle. Dopo che il Fatto ha raccontato la posizione del ministero, rappresentato dal viceministro Francesco Paolo Sisto al tavolo delle trattative con i sindacati di categoria, ieri è stato stilato un comunicato per stemperare gli animi: “Il ministero della Giustizia non ha adottato alcuna decisione in merito all’inquadramento professionale dei direttori di Giustizia. Nessun demansionamento o cancellazione di titoli, quindi, poiché la materia è devoluta al confronto con le organizzazioni sindacali”. Come abbiamo scritto, infatti, non c’è stata alcuna decisione, ma l’intenzione dichiarata è quella di chiudere un contratto entro fine settembre che cancellerà il titolo di questi funzionari, 1670, che - attualmente - dirigono le cancellerie dei tribunali. Comunque, dopo la notizia divenuta pubblica, sembra aprirsi uno spiraglio: “Il ministero conferma la disponibilità ad ascoltare le istanze dei rappresentanti dei dipendenti amministrativi e a riprendere il tavolo di concertazione, come previsto, a settembre”. Ma, almeno finora, è confermato l’appuntamento per la protesta del 10 settembre, indetta dal neo coordinamento dei direttori di Giustizia. Collaboratori di giustizia, pasticcio di Stato: un ministero li finanzia e l’altro confisca gli aiuti di Lirio Abbate La Repubblica, 28 agosto 2024 L’Agenzia delle Entrate blocca i soldi assegnati dal Viminale a chi ha concluso il programma di protezione. “Ma così nessuno collaborerà più con la giustizia”. C’è una linea di condotta disincentivante, che frena ogni collaborazione con la giustizia dei mafiosi che con le loro rivelazioni - verificate e riscontrate - finiscono nel programma di protezione. E l’attacco a questo strumento indispensabile per la lotta alle mafie non arriva dai favoreggiatori o dalle menti occulte pagate dalle organizzazioni mafiose, ma da un ramo della pubblica amministrazione. È in corso uno scontro - si presume involontario - fra apparati dello Stato. Da una parte c’è il ministero dell’Interno, da cui dipende la Commissione centrale per le speciali misure di protezione, che si occupa dei collaboratori di giustizia, e provvede a capitalizzare economicamente l’uscita dal programma per chi ne fa richiesta o per coloro cu non viene rinnovato il contratto, liquidandoli con una somma che non va oltre i 50mila euro. Dall’altra l’Agenzia delle Entrate, pronta a confiscare la somma di denaro che si è deciso di versare al collaboratore, perché quest’ultimo è debitore verso lo Stato delle spese processuali o delle pene pecuniarie che gli sono state inflitte. Va tenuto conto che i collaboratori di giustizia che hanno partecipato a processi lunghi e importanti, come quello per la strage di Capaci, hanno avuto inflitte spese processuali che sfiorano il milione di euro. Le misure di protezione sono temporanee: la durata è non inferiore a sei mesi e non superiore ai cinque anni. Non così negli Stati Uniti, dove il programma Marshall prevede che la protezione sia a vita e si possa uscirne solo in via eccezionale. In Italia, funziona al contrario. Il programma, rispetto a come lo aveva pensato Giovanni Falcone all’inizio, ricalcando l’esperienza americana, è profondamente cambiato: ora è a termine e di regola dopo il periodo previsto si esce, salvo eccezioni. Si punta sulla mancanza di attualità della pericolosità. “La legge per la collaborazione con la giustizia, fortemente voluta da Falcone, assicura segretezza, un tetto e una indennità per vivere, oltre all’assistenza legale e al cambio delle generalità”, spiega l’avvocato Luigi Li Gotti, che fin dagli albori di questa legge ha assistito i mafiosi che hanno scelto la strada della collaborazione, come Tommaso Buscetta. “La legge ha subito molte modifiche. Se si ritiene che la collaborazione sia esaurita, il programma di protezione non viene prorogato, e al collaboratore vengono tolte le misure di assistenza, ma gli viene dato un capitale di circa 40-50mila euro per consentirgli di stabilizzarsi”, spiega il legale. E aggiunge: “La confisca di queste somme da parte dell’Agenzia delle entrate per recuperare le spese di giustizia relative ai processi vanifica l’obiettivo di aiutare il collaboratore a stabilizzarsi: si ritrova senza un tetto e senza soldi. Letteralmente in mezzo a una strada. C’è il rischio che torni nei territori di origine, con conseguenze sulla sua incolumità personale per effetto di possibili rappresaglie”. E per Li Gotti si va incontro a un ulteriore pericolo: “Non si deve sottovalutare il rischio che il collaboratore torni nel circuito della criminalità. E un’ulteriore conseguenza è depotenziare la scelta di collaborare con la giustizia, perché i mafiosi valutano quali sarebbero le conseguenze, ossia il ritrovarsi in mezzo a una strada. È una situazione gravissima, così si indebolisce la lotta alle mafie”. E il governo di Giorgia Meloni che fa? “Il governo è indifferente, e l’affermazione che la lotta alla mafia sarebbe una priorità, come dichiarato di recente dalla presidente del Consiglio, rimane un mero proclama. È vero il contrario e tutti tacciono. Non c’è neanche il rispetto per gli eroi che hanno perso la vita per lo Stato”. Dunque, la Commissione non eroga ai collaboratori la somma che dovrebbe monetizzare il loro reinserimento nella società, e aiutarli a finanziare il loro “progetto di vita”, che di solito è semplicemente l’acquisto di una casa. L’abitazione pagata dal ministero dell’Interno, in cui l’ex mafioso vive con la propria famiglia durante l’adesione al programma, quando questo cessa, dev’essere lasciata. Così il collaboratore, che nel frattempo è diventato un nemico dei mafiosi, si ritrova senza più soldi e senza un tetto. Abbandonato dallo Stato. Questa azione indebolisce la lotta alle mafie perché disincentiva le collaborazioni: tradire i compari non paga più come prima. Non impugnabile il diniego alla riparazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2024 La Corte di cassazione esclude l’autonoma ricorribilità dell’ordinanza. L’ordinanza di rigetto della richiesta di accesso ai programmi di giustizia riparativa è giuridicamente ininfluente sugli esisti del processo. Per questo può essere impugnata insieme conia sentenza solo nel caso di reati perseguibili a querela soggetta a remissione o se la richiesta è stata presentata dall’imputato. La Cassazione con la sentenza 33152, depositata ieri, chiarisce che solo in queste ipotesi, il giudice può disporre la sospensione del processo “al fine di consentire lo svolgimento di programmi di giustizia riparativa”. La Suprema corte respinge così il ricorso contro il no all’accesso al beneficio nell’ambito di un procedimento per associazione a delinquere finalizzata a compiere reati tributari. Ad avviso della difesa, il no alla giustizia riparativa malgrado il parere positivo del Pm, basato su una prognosi sfavorevole in merito al pericolo di commettere altri reati, era illegittimo. Il ricorrente aveva dunque sottolineato “che la possibilità di accedere ai percorsi di giustizia riparativa, siccome in grado di influire sulla decisione del processo principale, costituisce un diritto di intervento dell’imputato e che l’erronea frustrazione di tale diritto configura una nullità di ordine generale”. Una tesi del tutto disattesa dei giudici di legittimità, che escludono l’autonoma impugnabilità dell’ordinanza di rigetto, in nome della tassatività dei mezzi di impugnazione, e circoscrivono i casi in cui la decisione è impugnabile insieme alla sentenza. Ritenere che il diniego possa influire in modo giuridicamente apprezzabile sull’esisto del processo, vuol dire - precisala Corte - introdurre un obbligo di sospensione del processo penale non previsto dal Codice di procedura né da altre specifiche disposizioni di legge. Niente farina per il detenuto al 41 bis di Frank Cimini L’Unità, 28 agosto 2024 Al 41bis ci sono i sepolti vivi della Repubblica: una, democratica, nata dalla Resistenza antifascista. “La farina dispersa nell’aria a seguito di innesco può dare vita a una nube incendiaria o esplosiva”. Lo affermano i giudici della prima sezione penale della corte di Cassazione annullando senza rinvio l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza che aveva accolto il reclamo di un detenuto in regime di 41bis disponendo che l’istituto penitenziario gli consentisse l’acquisto di farina e lievito. I tribunali di sorveglianza soprattutto in materia dei diritti dei detenuti in regime di carcere duro che in Italia attualmente sono 721 (altri 9400 in alta sorveglianza) decidono sempre meno. Lo conferma adesso la Cassazione che non lascia spazio di sorta. Del resto nel nostro paese c’è un solo tribunale di sorveglianza quello di Roma chiamato a decidere sulle richieste di revoca in merito all’applicazione del 41bis. Una sorta di Tribunale Speciale che in Italia è esistito solo ai tempi del fascismo. Tutto è centralizzato nella capitale per una sorta di sfiducia implicita nei tribunali territoriali in evidente violazione del diritto al giudice naturale. Di 41bis praticamente non si parla più da quando terminò il lunghissimo sciopero della fame dell’anarchico Alfredo Cospito il quale pure di lui di recente aveva chiesto di poter utilizzare farina e lievito ricevendo risposta negativa. Adesso che si è pronunciata la Cassazione il discorso sembra chiuso. L’applicazione dell’articolo 41bis del regolamento penitenziario è completamente escluso dal dibattito sul carcere in corso nel mondo politico. Non c’è un parlamentare che sia uno ad aver posto il problema di questa autentica forma di tortura che viene utilizzata al di là dello spirito della norma. Dovrebbe servire per impedire collegamenti con le organizzazioni criminali di riferimento. In realtà il 41bis viene usato per indurre a confessare ad accusare altri a “pentirsi”. La maggior parte dei boss mafiosi interessati alla questione sono in età molto avanzata e da decenni in carcere. I politici sono quattro. Oltre ad Alfredo Cospito che sta pagando con ulteriori restrizioni nel carcere di Sassari Bancali il lungo digiuno ritenuto in pratica “a scopo di terrorismo”, ci sono Nadia Desdemona Lioce, Marco Mezzasalma, Roberto Morandi militanti delle nuove Brigate Rosse, una organizzazione che non esiste più da ormai oltre 20 anni. Ma i giudici che confermano il 41bis puntano sul rischio di collegamenti con “latitanti” che i tre non hanno neanche conosciuto per ragioni generazionali. Al 41bis ci sono i sepolti vivi della Repubblica: una, democratica, nata dalla Resistenza antifascista. Umbria. Le visite alle carceri dei parlamentari forzisti, ma anche l’allarme del pg di Perugia di Valentina Stella Il Dubbio, 28 agosto 2024 Il procuratore generale Sottani ha visitato le Case circondariali di Orvieto, Spoleto e Terni, dove ha trovato le condizioni peggiori. Forza Italia continua a visitare gli istituti di pena nell’ambito dell’iniziativa “Estate in carcere” promossa insieme al Partito Radicale: ci sono 10mila detenuti in più di quelli che potrebbero essere presenti. Lo ha detto ieri il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani a Radio anch’io su RadioRai Uno. “Cerchiamo di trovare soluzioni concrete e sosteniamo il lavoro del ministro Nordio”, ha aggiunto il leader di FI. “Bisogna ridurre la presenza di tossicodipendenti” e “farli andare in comunità di recupero”, e poi “c’è il problema della carcerazione preventiva”. “È emerso un grave tasso di sovraffollamento. Già sapevamo che la struttura carceraria ne era affetta, ma abbiamo verificato la piaga. A fronte di una capienza di 364 detenuti, che può elevarsi ad una capienza massima di 549, il carcere di Foggia ospita attualmente 673 unità”. Lo ha affermato il deputato di Forza Italia Giandiego Gatta, che ha visitato due giorni fa le carceri nel territorio foggiano con il consigliere regionale Paolo Dell’Erba. Pure il responsabile nazionale Organizzazione di FI, Francesco Battistoni, al termine della sua visita alla casa circondariale viterbese, ha sottolineato le medesime criticità: “Nel carcere di Mammagialla Nicandro Izzo di Viterbo le criticità più evidenti sono quelle riferibili al sovraffollamento, all’area sanitaria e alla mancanza del personale di polizia penitenziaria rispetto alla pianta organica. Riguardo al sovraffollamento, criticità presente in quasi tutti gli istituti del Paese - ha proseguito -, rispetto alla capienza prevista di 400 detenuti, nel Mammagialla questo numero è quasi il doppio, con circa 700 persone”. Notizie invece non negative nella casa circondariale di Secondigliano di Napoli “P. Mandato” visitata dal senatore di Forza Italia Francesco Silvestro insieme al magistrato e consulente della commissione bicamerale per le Questioni regionali, Catello Maresca: “Abbiamo trovato - ha detto il parlamentare - una situazione abbastanza positiva. La struttura, molto più moderna di tante altre realtà, riesce a reggere bene anche un leggero sovraffollamento di detenuti, soprattutto in questi mesi che in emergenza ha dovuto ospitare le detenute del carcere di Pozzuoli, dopo gli episodi di bradisismo. Le strutture detentive devono garantire ai detenuti i giusti standard di sicurezza e il rispetto della dignità umana”. Il vice presidente della Camera, l’azzurro Giorgio Mulè, ha visitato altresì il carcere dell’Ucciardone di Palermo: “Un carcere costruito nel 1800 che deve vivere nel ventunesimo secolo: questa è la sfida dell’Ucciardone di Palermo. La strada già imboccata fatta di ristrutturazioni mirate a rendere più moderne le sezioni va proseguita. Un esempio è il padiglione “Pio La Torre”, oggi adibito a classi di scuola e aule di formazione”. Ha concluso: “La nona sezione è la più problematica per il tipo di detenuti che ospita ed è quella che deve essere più attenzionata”, poi “c’è un grande problema legato alla polizia penitenziaria: ci sono sezioni che ospitano i detenuti su quattro piani senza ascensore, con gli agenti di polizia penitenziaria per 8 ore al turno, ma con 1- 2 agenti per sezione. Questa è una delle cose su cui bisogna intervenire, insieme a misure minime, come ad esempio dotare la struttura di più telefoni per fare in modo che i detenuti possano fare le telefonate previste alle famiglie per legge, non facendo turni di alcune ore, ma in maniera più veloce. Questo contribuisce a rendere meno stressante la vita all’interno del carcere”. Infine valutazione “sufficiente”, per il carcere barese di Turi, secondo il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, in visita ieri mattina nella struttura: “Ho trovato un istituto in condizioni dignitose, dal punto di vista degli spazi e dell’igiene. Ci sono dei lavori da portare a termine, ma anche lo stato d’animo dei detenuti mi è sembrato non dei peggiori. Come dappertutto, vanno migliorati diversi aspetti, in particolare riguardo all’assistenza sanitaria. A Turi comunque si può contare su una dirigente molto determinata e attenta”. Intanto sempre ieri il Procuratore Generale di Perugia, Sergio Sottani, ha visitato tre istituti penitenziari umbri (Orvieto, Terni, Spoleto), con l’obiettivo di monitorare la situazione all’interno delle carceri a distanza di un anno dal suo ultimo incontro istituzionale e incontrare l’intera comunità penitenziaria. Il 29 agosto sarà la volta della Casa circondariale di Perugia. L’iniziativa fa seguito alla raccolta dei dati da parte di questa Procura generale sul numero di detenuti affetti da problemi di tossicodipendenza e psichiatrici, quindi potenziali destinatari del recente Protocollo sottoscritto il 23 luglio scorso tra gli uffici giudiziari umbri e le Asl competenti. Sono emersi carenza di organico e sovraffollamento dei detenuti. La situazione più critica dal punto di vista del numero dei reclusi è quella di Terni, che a fronte di una capienza regolamentare di 422 posti letto ospita 563 detenuti (+ 33%), di cui 149 cittadini stranieri. I detenuti comuni sono 198, di cui 61 con posizione giuridica non definitiva: i posti letto destinati ai non definitivi sono 422 mentre per quelli con posizione definitiva il numero è pari a zero. Dunque, la popolazione detenuta in attesa di una condanna definitiva è del 33% rispetto al totale dei reclusi. L’istituto penitenziario ternano dovrebbe ospitare, come ricordato dal suo direttore, solo detenuti con posizione giuridica “definitiva”. Il carcere di Terni è uno dei più problematici: quest’anno un suicidio, 13 tentati suicidi, 39 casi di autolesionismo, 8 aggressioni fisiche al personale di polizia penitenziaria e un’aggressione a un giudice. Il Procuratore ha ricordato che le celle devono essere diversificate a seconda della tipologia di detenzione (comuni, As, 41bis). La regola è che ogni detenuto deve avere a disposizione 3 mq. Milano. Io, detenuto a Bollate, propongo un’azione non violenta contro l’inerzia di Franco Insardà Il Dubbio, 28 agosto 2024 I suicidi in carcere, il sovraffollamento e le tante speranze deluse degli oltre 61mila detenuti nelle carceri italiani attendono risposte dal governo che tardano ad arrivare. La situazione continua a essere drammatica, come testimoniano le proteste nei penitenziari. Nel pomeriggio di lunedì tre detenuti sono saliti sul tetto del Pagliarelli di Palermo e, dopo aver trascorso anche la notte sono scesi. Stessa cosa è accaduta a un detenuto a Porto Azzurro. La situazione difficile viene testimoniata dalle lettere che riceviamo. Dopo quella dei detenuti di Novara, pubblicata ieri, un recluso a Bollate, Lucio, ha scritto a Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, con il quale ha una fitta corrispondenza dall’inizio dell’anno, innanzitutto per ringraziarlo della sua sensibilità e attenzione nei confronti delle persone private della libertà. “Le assicuro che i detenuti non hanno sottovalutato la forza della sua azione e hanno apprezzato questa sua determinazione, a sostegno di una iniziativa che si è levata sola come un grido nel deserto, quale strumento concreto rispetto ai proclami vuoti di chi a dispetto del ruolo forse un carcere italiano non lo ha visto da dentro con attenzione”. Lucio sollecita Giachetti a organizzare una assemblea o un dibattito televisivo, al quale da semilibero potrà partecipare. E allega una lettera-manifesto per una proposta provocatoria di ribellione non violenta ai compagni e alle compagne di detenzione. “Occorre - scrive Lucio in questo momento delicato di sovraffollamento degradante e disumano e di morte nelle carceri italiane, dare un segnale diverso, porre in atto una protesta forte e silenziosa capace di destare tanto rumore da costringere la sorda politica al confronto. Anziché protestare in modo scomposto e violento rifiutando di rientrare nelle celle bruciando materassi e distruggendo i pochi vetusti arredi, alla fine facendo il gioco della politica che ha anche inasprito le pene per i responsabili di proteste e sommesse dentro le carceri, a riprova del braccio di ferro intrapreso, occorre disarmare la politica, renderla incapace di reazione: come? Una protesta silenziosa e non violenta, che Pannella apprezzerebbe, comprendendone la disarmante efficacia: l’invito a tutti i detenuti nei penitenziari italiani a: - NON uscire dalle celle quando vengono aperti i cancelli non andando all’aria e rimanendo sulle brande; - Non consumare i pasti rifiutando di ritirarli quando vengono distribuiti - NON effettuare acquisti (spesa) di qualsiasi genere (alimenti e tabacco) - Accettare solo i medicinali prescritti e bere acqua. Il tutto per sette giorni consecutivi, tutti simultaneamente con battitura delle sbarre una volta al giorno per 30 minuti dalle 12 alle 12,30 e richiedendo in ogni carcere la presenza/ visita congiunta del ministro del presidente della Corte costituzionale e del Garante dei detenuti. Si tratterebbe di una protesta silenziosa che finirebbe per fare molto rumore, disinnescando qualsivoglia scontro, e pretesto per dire che i detenuti hanno provocato disordini e sommesse e quindi vanno puniti. Una protesta silenziosa e gandhiana che potrebbe rivelarsi capace di elevare alto il grido della indignazione!”, conclude Lucio. Palermo. Venti ore sul tetto del carcere: la protesta di tre detenuti al Pagliarelli. Volevano essere trasferiti di Valerio Tripi La Repubblica, 28 agosto 2024 Chiedevano di essere trasferiti i tre detenuti che per una ventina di ore sono rimasti sul tetto del carcere di Pagliarelli a Palermo. I tre avevano iniziato la loro protesta intorno alle 13,30 di lunedì perché volevano cambiare reparto. La loro posizione adesso è al vaglio dell’autorità giudiziaria. Il reparto dal quale i tre chiedono di essere trasferiti è lo stesso che in questi giorni è al centro di perquisizioni da parte degli agenti della polizia penitenziaria che sono alla ricerca di telefoni cellulari. La loro protesta iniziata ieri (lunedì) è finita questa mattina (martedì) dopo una notte intera passata sul tetto. A diffondere la notizia i sindacati di polizia penitenziaria. “Tutto il personale della polizia penitenziaria - ha detto Gioacchino Veneziano, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria Sicilia - è stato richiamato con turni ininterrotti di oltre 12 ore. La situazione nelle carceri è gravissima. Con una carenza di mille unità, la polizia penitenziaria in Sicilia deve affrontare situazioni ormai all’ordine del giorno che stanno sfiancando gli agenti. Il sovraffollamento delle carceri incentiva queste azioni. Spostare i detenuti protagonisti di rivolte non risolve il problema. Siamo convinti che oramai è giunto il momento di affrontare la questione legata alle proteste, sommosse e distruzioni, trasferendo i detenuti facinorosi in strutture speciali e con un trattamento penitenziario diversificato”. Per fronteggiare la protesta dei tre detenuti sono stati impegnati diversi agenti della polizia penitenziaria. Nei giorni scorsi una cinquantina di reclusi sempre nello stesso reparto aveva protestato nel cuore della notte dopo una perquisizione. Rimini. La visita di +Europa al carcere: “Spazi non che rientrano nelle condizioni sanitarie minime” riminitoday.it, 28 agosto 2024 Come riferisce il portavoce Yuri Maccario Napolitano, i detenuti chiedono “maggiori opportunità formative e lavorative”, mentre il personale penitenziario lamenta “criticità legate alla carenza di organico”. Oggi si è svolta la visita alla Casa Circondariale di Rimini, tappa dell’iniziativa di +Europa per constatare lo stato delle carceri su tutto il territorio nazionale, con l’obiettivo di valutare le condizioni della struttura, il benessere dei detenuti e il lavoro del personale penitenziario. La visita ha fornito l’opportunità di esaminare da vicino le dinamiche operative all’interno dell’istituto e di dialogare con i principali attori coinvolti. “Durante il sopralluogo - spiega Yuri Maccario Napolitano, portavoce di +Europa Rimini - è emerso che la struttura, sebbene funzionante, necessita di interventi manutentivi per garantire standard adeguati. Si è rilevata l’urgenza di aggiornare gli impianti tecnici e di migliorare gli spazi comuni, come le aree ricreative e i laboratori destinati alle attività dei detenuti”. “La vera criticità consiste nella 1^ sezione, la più vecchia e le cui condizioni non rientrano nelle condizioni minime sanitarie secondo l’Ausl (sanitari e vano cucina nella stessa stanza il cui il vano finestra dà nel dormitorio e non all’esterno, condizioni delle docce non conformi) - prosegue il portavoce di +Europa - Un momento centrale della visita è stato l’incontro con alcuni detenuti, i quali hanno espresso la necessità di maggiori opportunità formative e lavorative (mezzi pubblici non garantiti e non regolari) oltre che inaccettabili ritardi burocratici per quel che riguarda i trasferimenti e le scarcerazioni”. Il confronto con il personale penitenziario ed educativo del carcere “ha evidenziato alcune criticità legate alla carenza di organico e alla necessità di una formazione continua. È stato riconosciuto il loro impegno nel garantire la sicurezza e il sostegno ai detenuti, ma è chiaro che servono ulteriori investimenti nelle risorse umane per ottimizzare il funzionamento della struttura”, precisa Maccario Napolitano. “La visita ha messo in luce l’importanza di rafforzare la collaborazione tra la Casa Circondariale e le istituzioni fatti specie con il ministero e il governo, al fine di sviluppare programmi che facilitino il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti e consentano un minore sovraffollamento dove la detenzione non risulta necessaria - conclude l’esponente di +Europa - L’iniziativa a sostegno delle proposte depositate in parlamento da +Europa per la riforma del carcere, dall’istituzione delle Case di Reinserimento sociale al diritto alla vita affettiva per i detenuti fino ai necessari interventi di depenalizzazione dei reati di lieve entità”. Trani (Bat). Estate infernale nel carcere: un detenuto costretto a dormire sullo sgabello di Luca Ciciriello L’Edicola del Sud, 28 agosto 2024 Entrare in un carcere oscura lo stato d’animo. La luce artificiale dei neon sostituisce i raggi del sole che si muovono liberi, un passaggio sancito dal rumore delle porte che si chiudono alle spalle. E chi scrive ci ha trascorso solo tre ore. Si pensi a chi, invece, vive per anni in luoghi di questo tipo, isole nella società, pianeti verso cui chi sta fuori, il più delle volte, nutre indifferenza o, peggio, disprezzo. Si dirà: “Se l’è cercata”. Ed è così, perché se non avesse commesso un reato, non sarebbe in carcere. Ma è legittimo che anche un detenuto viva dignitosamente pur dovendo espiare la propria pena? È legittimo che il carcere sia un luogo dove rieducarsi, rinascere? Oppure, vogliamo che rimanga un cimitero dei vivi, della società? In questi spazi si incontra la parte fragile delle nostre comunità e che, per questo, va assistita. Proprio per mostrare vicinanza nei confronti dei detenuti e del personale e scattare una fotografia della loro condizione, gli avvocati della Camera Penale di Trani hanno visitato la casa circondariale maschile della città. La visita - Un luogo, quest’ultimo, in cui, secondo quanto emerso, non si vive una situazione tragica, come accade in altre zone d’Italia, ma che presenta alcune criticità rilevate lunedì dai penalisti del Nord barese. Stando ai dati forniti dal direttore degli istituti penitenziari di Trani, Giuseppe Altomare, e dal comandante della polizia penitenziaria, Felice Nazareno De Pinto, sono 384 i detenuti presenti (secondo la capienza regolamentare dovrebbero essere 323). Anche a Trani, perciò, è registrabile una percentuale di sovraffollamento. Quelli con condanne definitive sono 222, mentre coloro che devono scontare la pena in meno di due anni 137; 40 gli stranieri. Zero i suicidi negli ultimi due anni. Almeno una decina, invece, i tentativi, messi in atto dagli stessi soggetti, in gran parte psichiatrici, e sventati dagli agenti della polizia penitenziaria (che sono sotto organico e lavorano otto ore al giorno anziché sei). L’area sanitaria - Ma la difficoltà maggiore riguarda l’ambito sanitario, diretto dal dottor Giuseppe Vitrani, perché mancano medici specialisti. Addirittura, non c’è un’unità ginecologica interna nella casa di reclusione femminile (in cui, peraltro, da mesi ormai ci si lava con acqua fredda). Delicata la vicenda di salute di un detenuto. Si tratta di un 54enne che uscirà fra otto mesi circa. È un soggetto obeso e che ha difficoltà respiratorie. Di notte, per evitare apnee, è costretto a dormire su uno sgabello. Terni. Detenuti “di troppo”, tossicodipendenza e problemi mentali ternitoday.it, 28 agosto 2024 La visita del procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani: “I posti letto destinati ai non definitivi sono 422 mentre per quelli con posizione definitiva il numero è pari a zero. Alta la percentuale di soggetti con problemi di tossicodipendenza o affetti da patologie psichiatriche”. “La popolazione detenuta nella casa circondariale di Terni in attesa di una condanna definitiva è del 33 per cento rispetto al totale dei reclusi. L’istituto penitenziario ternano dovrebbe ospitare, come ricordato dal suo direttore, solo detenuti con posizione giuridica definitiva”. Il procuratore della Repubblica di Perugia, Sergio Sottani, in questi giorni sta visitando i quattro penitenziari dell’Umbria “con l’obiettivo di monitorare la situazione all’interno delle carceri a distanza di un anno dal suo ultimo incontro istituzionale”. In particolare oggi, 27 agosto, Sottani ha incontrato i dirigenti, il personale di polizia penitenziaria, e quello delle aree sanitarie e trattamentali, nonché una delegazione di detenuti degli istituti di vocabolo Sabbione, Spoleto e Orvieto. Il 29 agosto sarà la volta della casa circondariale di Perugia. “L’iniziativa - spiega una nota diffusa dalla procura generale - fa seguito alla raccolta dei dati relativi al numero di detenuti affetti da problemi di tossicodipendenza e psichiatrici, quindi potenziali destinatari del recente protocollo sottoscritto il 23 luglio scorso tra gli uffici giudiziari umbri e le Asl competenti. Nei primi giorni di settembre è inoltre previsto un incontro del procuratore generale e dei procuratori del distretto con i direttori e i comandanti del personale degli istituti penitenziari umbri, oltre che con i vertici dell’ufficio distrettuale di esecuzione penale esterno”. Il problema del sovraffollamento, confermano i dati, è comune a tutti e gli istituti visitati, seppure la situazione più pesante è quella riscontrata a Terni. Altre caratteristiche comuni, quelle dettate dal fatto che “la popolazione detenuta è in massima parte costituita da persone con pene definitive” e “alta è la percentuale di soggetti con problemi di tossicodipendenza nonché quella affetta da patologie psichiatriche”. Nella casa circondariale di Terni, che conta 561 reclusi, i detenuti affetti da problemi psichiatrici sono 95, quelli tossicodipendenti 136. A fronte di una capienza regolamentare di 422 posti letto, Sabbione ospita 563 detenuti (+33%) di cui 149 cittadini stranieri. I detenuti comuni sono 198, di cui 61 con posizione giuridica non definitiva: i posti letto destinati ai non definitivi sono 422 mentre per quelli con posizione definitiva il numero è pari a zero. “Dunque è la constatazione della procura generale - la popolazione detenuta in attesa di una condanna definitiva, presente nella casa circondariale di Terni, è del 33% rispetto al totale dei reclusi. L’istituto penitenziario ternano dovrebbe ospitare, come ricordato dal suo direttore, solo detenuti con posizione giuridica ‘definitiva’, mentre nelle case di reclusione di Spoleto e Orvieto, le percentuali riferite alla popolazione detenuta in attesa di una condanna definitiva si attestano in misure molto limitate, rispettivamente al 6 per cento e 2,5 per cento”. Altra miccia che rischia di far “scoppiare” il carcere di Terni è il rapporto tra i detenuti “di troppo” e pochi agenti presenti. La procura parla di “grave carenza di personale” che “rende quindi molto difficile garantire l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti. A Terni l’organico di polizia effettivo è di 194 unità, a fronte delle 262 previste; a Spoleto le unità effettive sono 260, a fronte delle 273 previste; infine, Orvieto conta 55 unità effettive a fronte delle 62 previste. Per quanto riguarda i dati relativi ai casi di suicidio, se ne è verificato uno alla casa circondariale di Terni. Nel corso del 2024, si sono verificati 13 tentati suicidi, 39 i casi di autolesionismo e 8 aggressioni fisiche al personale di polizia penitenziaria. Nel carcere di Spoleto si sono avuti 6 tentati suicidi, 58 casi di autolesionismo e una sola aggressione agli agenti. La situazione di Orvieto è di nessun tentato suicidio, 7 casi di autolesionismo, nessuna aggressione alla polizia. Ivrea (To). Sovraffollamento al 143% in carcere, oltre la media nazionale di Lorenzo Zaccagnini La Sentinella del Canavese, 28 agosto 2024 La denuncia dei Radicali dopo la visita alla struttura che ospita 265 detenuti: “Carenza di attività educative: costretti a restare tutto il giorno in cella”. Si riaccende l’attenzione sul carcere di Ivrea, grazie a una delegazione dei Radicali italiani che nella mattina di sabato 24 agosto ha visitato la struttura per verificarne le condizioni. Guidata dal tesoriere del partito Filippo Blengino, accompagnato da Alice Depetro della direzione nazionale, dal coordinatore regionale di Più Europa Flavio Martino e da altri soggetti autorizzati dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), la delegazione è giunta sabato scorso nel carcere eporediese, a due giorni di distanza da una giornata molto difficile, quella di giovedì scorso, tra risse e proteste che hanno visto due detenuti arrampicarsi sul muro del cortile, chiedendo di parlare con la propria educatrice. “Abbiamo trovato una situazione molto simile a quella di altri istituti italiani - commenta a caldo Blengino dopo la visita alla casa circondariale di corso Vercelli -. Una situazione di degrado molto difficile, soprattutto a fronte di un sovraffollamento pari al 143%, ben oltre la media nazionale del 135%: la struttura ha una capienza di 186 detenuti e troviamo 265 reclusi: situazione inaccettabile in rapporto al rispetto non solo della legge, ma della dignità umana. Vi è una carenza quasi totale di attività educative, e costringere una persona a rimanere ad agosto con questo caldo in una cella senza far nulla vuol dire farla impazzire”. “Non a caso vi è anche un disagio psichico notevole -prosegue il tesoriere del partito Filippo Blengino - Persone con tagli sulle braccia e che in diversi casi hanno tentato una o più volte il suicidio, che necessiterebbero di una struttura totalmente diversa dal carcere. In proporzione, la maggioranza delle persone detenute è qui per aver violato un unico comma di un unico articolo, il testo unico sugli stupefacenti, quindi per reati legati alle droghe. Questo è per noi inaccettabile”. Le problematiche affliggono poi anche la polizia penitenziaria, che da tempo lamenta la mancanza di un comandante di reparto, cosa che lascia gli agenti di fatto privi di linee guida, oltre a una generale mancanza di personale. Proprio a causa di quest’ultima problematica, sabato 24 agosto non è stato nemmeno possibile compiere il rito dell’eucarestia, che nelle carceri si svolge tipicamente nella giornata di sabato. “Il punto non è solo i detenuti, ma anche i detenenti - continua Blengino, citando lo storico leader dei Radicali Marco Pannella -. C’è una carenza importante di sovrintendenti e ispettori in tutta Italia, e ricordiamo che la polizia penitenziaria è il lavoro con il più alto tasso di suicidi in questo paese, sette da inizio anno”. Leggermente meglio il giudizio sul clima generale all’interno del carcere, il quale, nonostante la visita giunga a breve distanza dalle proteste, è stato giudicato dalla delegazione tutto sommato meno pesante che in altri istituti. “Il clima a Ivrea è sicuramente teso, ma meno di altri posti che abbiamo visitato, come per esempio le carceri torinesi - conferma il tesoriere -. Sono tensioni ordinarie relativamente alla straordinarietà del momento: molti si aspettavano di più dal decreto erroneamente definito “Svuotacarceri”, che porterà forse alla scarcerazione di appena 200 detenuti, gli ultrasettantenni, sugli oltre 20mila di esubero”. Terminata la visita, il lavoro della delegazione non è però finito, e l’intenzione ora è quella di continuare a muoversi attraverso le vie legali. “Come Radicali abbiamo presentato già quattro denunce al ministro della Giustizia Carlo Nordio per il reato di tortura - spiega Blengino -. Oggi presenteremo la quinta, perché riteniamo che oggettivamente, visitando queste strutture, non esista un’altra parola possibile per descrivere ciò che accade qui che non sia tortura: la nostra Repubblica, all’interno di questi istituti, non sta reinserendo né rieducando queste persone, le sta torturando, e per questo denunceremo Nordio e Ostellari”. Modena. Platis (FI): “Nel carcere situazione esplosiva, stop a nuove assegnazioni” sulpanaro.net, 28 agosto 2024 “Secondo gli ultimi dati, ben il 45% della popolazione carceraria al Sant’Anna risulta essere tossicodipendente. Questo ben fa capire come possa essere difficile e delicata la gestione da parte degli operatori che sono chiamati a gestire 554 detenuti su una capienza di 372. Solo pochi giorni fa un detenuto ha aggredito cinque agenti penitenziari, tra cui il comandante di reparto. Un altro detenuto extracomunitario, dopo aver inveito contro l’infermiera, si è scagliato contro un poliziotto in servizio colpendolo al volto e facendolo finire in ospedale. I sindacati da mesi, se non da anni, denunciano la situazione esplosiva all’interno del carcere Sant’Anna, facendo presente come siano arrivati negli ultimi due mesi oltre venticinque detenuti provenienti da altre strutture per motivi di ordine e sicurezza e come il sovraffollamento da una parte e la carenza di organico dall’altra stiano causando situazioni ad alta tensione e quindi ad alto rischio. È ora di dire basta: occorre un tavolo di confronto concreto che metta a sedere tutte le parti coinvolte per trovare soluzioni concrete che FI propone da tempo. Faremo un sit in davanti al carcere affinché le risposte non tardino ad arrivare”. Secondo Platis, “è necessario ridurre le assegnazioni di nuovi detenuti fino a che non vi sarà congrua dotazione organica del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, attuando intanto soluzioni concrete per porre rimedio al sovraffollamento. Forza Italia sta già lavorando da un lato con il ministro Zangrillo il pronto rinnovo del contratto collettivo relativo al personale della polizia penitenziaria e dall’altro con Ministro Nordio per risolvere il cronico problema del sovraffollamento carcerario. È bene ricordare - ribatte così Platis ai consiglieri Pd Lenzini e Barbari che nei giorni scorsi si dicevano pronti a collaborare sul tema - che il punto critico in cui siamo oggi è dato dai tanti governi di centro sinistra che non hanno dato vita ad un piano carceri. L’ultimo è stato quello di Berlusconi nel 2010 da 660milioni poi depotenziato dai governi successivi. Bisogna puntare - spiega Platis - alle recidive zero, passando da una concezione della pena non “carcerocentrica” ma “umanocentrica”, stimolando il ricorso, oltre che al lavoro carcerario ed extra, a pene sostitutive, misure alternative (rivolte anche a favorire la riabilitazione in comunità per i tossicodipendenti), esecuzione penale nei paesi d’origine e giustizia riparativa. Riteniamo sia fondamentale far sì che vi sia allo studio una soluzione in particolare per tutti quei detenuti tossicodipendenti per i quali il carcere - vista la condizione di dipendenza - non è la soluzione. Anzi, la loro presenza causa rischi importanti per l’incolumità degli altri detenuti e degli operatori di polizia penitenziaria che, anche a Modena e sempre più spesso si trovano a dover far fronte a situazioni troppo complesse. Le pene non vanno cancellate per i tossicodipendenti ma dobbiamo cercare che, una volta scontata, non la commettano più. Per questo il ruolo della comunità di recupero è il principale strumento per non avere recidive. C’è poi la questione dei detenuti con problematiche di natura psichiatrica che, a loro volta, hanno bisogno di essere trasferiti in strutture adeguate per poter essere seguiti seguiti come necessitano. Da un lato vi è il diritto inalienabile alla cura e alla salute e, dall’altra, la responsabilità di tutte le istituzioni affinché gli agenti di polizia penitenziaria lavorino in sicurezza, senza rischiare la vita ogni volta che entrano in carcere. Secondo l’ultimo report dell’associazione Antigone “la presenza consistente (e in aumento) di persone detenute con condanna definitiva anche lunga ostacola notevolmente la possibilità di fornire un adeguato supporto trattamentale a ciascuna di loro. Forza Italia, con il Partito Radicale Italiano, ha proposto quest’estate in tutta Italia incontri periodici di ascolto con i sindacati della Polizia Penitenziaria e non solo: il sovraffollamento nelle carceri e le condizioni di lavoro degli operatori sono una nostra priorità e lavoreremo fino a che non si troveranno soluzioni concrete”. Turi (Ba). Il viceministro Sisto in visita al carcere: “Rispettata dignità detenuti, problema è sanità” agenparl.eu, 28 agosto 2024 “La casa di reclusione di Turi, in cui sono ospitati solo detenuti con pena definitiva, rispetta a pieno il concetto di dignità nell’espiazione della pena. La pena deve essere afflittiva, certo, ma il detenuto deve essere in condizioni di non deprimersi, con il conseguente rischio di atti autolesionistici, e di non provare sdegno per la condizione in cui versa, a pena di propensione all’aggressività. Serve un contesto dignitoso e in questo senso l’iniziativa “Estate in carcere”, promossa da Forza Italia e voluta dal segretario nazionale Tajani, sta dando frutti importanti, con una mappatura che ha un valore non solo ricognitivo ma anche operativo, grazie alla segnalazione di piccoli ma importanti interventi che possono dare un grande sollievo ai detenuti”. Così il vice ministro alla Giustizia e senatore azzurro Francesco Paolo Sisto al termine della visita al carcere di Turi. “A Turi c’è un ottimo rapporto tra detenuti e polizia penitenziaria e non si registrano carenze significative né igieniche né relative all’organico, se non sul fronte sanitario, dove c’è un solo medico che, incredibilmente, fa turni incerti. C’è poi bisogno di incrementare i percorsi rieducativi. Ne ho già parlato con il sindaco Giuseppe De Tommaso che si è impegnato a portare il tema al mondo dell’imprenditoria locale per implementare laboratori che possano consentire l’avvio dei detenuti all’attività lavorativa”, ha concluso. Milano. Il pusher alla giudice: “Spaccio perché nessuno mi assume, mi hanno amputato un braccio” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 28 agosto 2024 Niente carcere. I servizi sociali del Comune di Milano lo hanno avviato all’unità di etnopsichiatria del Centro Sammartini, e il giovane ha un temporaneo permesso di soggiorno per motivi di cura in un centro di accoglienza. Di cosa sia fatta larga parte dell’umanità che popola le carceri è difficile avere idea dentro le asettiche statistiche, che pur segnalano sempre aritmeticamente maggiore la presenza di detenuti con tre caratteristiche quali l’essere straniero, avere a che fare con la droga, e accusare seri problemi di salute. Poi una mattina, in quella specie di incrocio tra un girone infernale e un avamposto di pronto soccorso sociale che sono diventate le udienze dei processi “per direttissima” in Tribunale, nelle quali davanti ai giudici vengono portate le persone arrestate per strada nelle 24 ore precedenti, ecco il passaggio dallo schema teorico all’individuo in carne e ossa: quello che martedì alla giudice giura di essere finito a fare lo spacciatore perché “senza braccio non mi assume nessuno”. È un cittadino marocchino trovato con 75 grammi di hashish e dunque arrestato il 26 agosto per detenzione ai fini di spaccio dai carabinieri. Non nega il fatto, dice di essere arrivato dal Marocco in Italia da irregolare, passando dalla Spagna, circa un anno e mezzo fa. Un po’ a Roma, quindi a Milano, vive in parte di espedienti e in parte - assicura - di lavori volanti in agricoltura. Fin quando, però, sei mesi fa resta folgorato da una dispersione di corrente nella fabbrica abbandonata in cui dorme, e in ospedale - spiega tramite l’interprete al Tribunale - gli viene amputato l’avambraccio sinistro. I servizi sociali del Comune di Milano (che nel corridoio dei processi “per direttissima” hanno un piccolo punto di appoggio per questi diseredati) lo hanno avviato all’unità di etnopsichiatria del Centro Sammartini, e il giovane ha un temporaneo permesso di soggiorno per motivi di cura in un centro di accoglienza a Lodi. Una parabola che la giudice Mariolina Panasiti martedì valorizza insieme al fatto che il giovane risulti incensurato e senza precedenti di polizia, il che la induce a ritenere che “prima dell’infortunio non commettesse reati” e “abbia cominciato solo dopo”: sì alla convalida dell’arresto, dunque, ma no a carcere o espulsione. A piede libero tornerà in Tribunale il 17 dicembre per il seguito del processo. Cuneo. Dentro e fuori le carceri: un progetto della cooperativa Panaté-Glievitati lavocediasti.it, 28 agosto 2024 Il vicepresidente, l’astigiano Alessandro Durando: “Occorre fare rete sul territorio, perché di fronte al problema carcerario serve una risposta corale”. In Italia sono due su tre i detenuti che, una volta in libertà, tornano a commettere reati. Una percentuale altissima, pari a circa il 70%, che contribuisce in modo decisivo all’annoso problema del sovraffollamento nelle carceri del nostro Paese. Eppure uno strumento per arginare questa difficoltà esiste: si tratta del lavoro. I dati Cnel più recenti (2023) mostrano infatti che, laddove i detenuti hanno l’opportunità di lavorare per scontare la pena e, al contempo, tracciare la via per reinserirsi nella società, il tasso di recidiva si abbassa drasticamente al 2%. Il lavoro come strumento di riscatto è il tema al centro di Art. 27- Expo, Fatti in carcere, la manifestazione fieristica che quest’anno giunge alla seconda edizione. L’esposizione, che si terrà nel centro storico di Cuneo da venerdì 6 a domenica 8 settembre, racconta e mette in vendita i prodotti nati dalle mani dei detenuti di diverse carceri italiane. Organizzatrice del progetto è Panaté - Glievitati, cooperativa sociale onlus aderente a Confcooperative Piemonte Sud, che mira a valorizzare il mondo dell’economia carceraria esponendo e promuovendo prodotti di qualità con il racconto di valori morali e sociali che li accompagnano. Quest’anno saranno venticinque le realtà coinvolte che provengono da ogni parte d’Italia, diciassette delle quali saranno presenti con il proprio stand espositivo. Il progetto è stato presentato durante la conferenza stampa che si è tenuta lunedì 26 agosto alla Camera di Commercio di Cuneo. Insieme alle istituzioni e ai rappresentanti delle realtà coinvolte, si è sottolineata la necessità di interpretare l’evento come trampolino di lancio verso la creazione di un sistema vero e proprio, fatto di percorsi e progettualità credibili, che aprano prospettive reali per le persone detenute. Per raggiungere questo obiettivo è importante formare una rete, anche grazie alla collaborazione con le realtà produttive esterne e al costante monitoraggio dei risultati. Alessandro Durando, vicepresidente di Confcooperative Piemonte Sud, ha commentato con entusiasmo l’iniziativa: “è uno stimolo importante per la nostra organizzazione e per tutto il territorio. Potenzia infatti le risorse interne e rappresenta un approccio nuovo in provincia di Cuneo, dove ci sono quattro istituti penitenziari che spesso vengono percepiti come organismi estranei alla comunità. Occorre fare rete sul territorio, perché di fronte al problema carcerario serve una risposta corale. In questo senso Confcooperative Piemonte Sud mira a sviluppare sempre più la cooperazione sociale, che potrà dare un contributo maggiore al reinserimento dei detenuti nella società con un approccio di sistema, incoraggiando una politica attiva del lavoro”. L’economia carceraria rappresenta così uno strumento di reinserimento nella società, con il coinvolgimento di tutta la comunità. L’alta recidività degli ex-detenuti è infatti una difficoltà per tutti: per i detenuti stessi, per la società e per lo Stato. Secondo alcuni dati forniti dall’organo ufficiale di stampa del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria), un detenuto costa allo Stato 137 euro al giorno, pari a 50.000 euro all’anno. Questo mostra quanto sia urgente e importante rispondere con lucidità e intelligenza al problema del sovraffollamento delle carceri, per mettere in moto un circolo virtuoso e vantaggioso per ogni tassello della comunità. È da questa consapevolezza che nasce uno degli slogan della manifestazione: “L’economia carceraria conviene a tutti!”. Davide Danni, presidente della cooperativa Panatè - Glievitati, spiega che “conviene a chi è recluso e attraverso la dignità del lavoro può ricostruire il proprio ruolo sociale; conviene alle aziende che investendo in ambito carcerario entrano in contatto con manodopera motivata; conviene al nostro sistema penitenziario che ottiene uno strumento di regolarizzazione della vita negli istituti di detenzione; conviene anche e soprattutto a ogni singolo membro della società civile che vede ridotti i costi e i traumi collegati ai reati commessi dai recidivi (ricordo che il lavoro in stato di detenzione, secondo i dati CNEL 2023, abbatte la recidiva dal 70% al 2%). Infine, converrà a tutti quelli che verranno a comprare ottimi prodotti e che avranno l’occasione di entrare in contatto con quel pezzo della nostra società che sta oltre il muro”. Storie e parole di libertà che vengono dal carcere di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 agosto 2024 “L’ascolto smarrito” e “Salvate dai pesci”, entrambi editi da Castelvecchi. “Trovo dentro me come cipolla/ E infatti possiedo tanti strati/ Così tanti che per me è difficile scriverli./ Sono buono ma anche cattivo/ Giusto ma anche sbagliato/ Onesto ma anche bugiardo/ Coraggioso ma fifone/ Determinato ma anche no/ Amo il bene, ma adoro il male/ Sono tutto quello che voglio essere./ Forse un giorno capirò…”. È dall’”Ascolto” di se stessi e degli altri, di chi ha sbagliato e di chi ha subito l’errore, delle vittime e dei carnefici, dell’essere e del voler essere, che nascono testi come questi, scritto da uno dei ragazzi dell’Istituto penale per i minorenni (Ipm) “Malaspina” di Palermo. Perché a sentire sono bravi tutti ma ascoltare è altra cosa. È cura collettiva. Così, nel 2023, nell’ambito della prima edizione del Curae Festival di Pontremoli, “il primo festival italiano dedicato alla giustizia minorile che propone di intrecciare i temi del teatro, della mediazione e della giustizia riparativa”, sono stati realizzati laboratori di scrittura con i giovani detenuti di dieci Ipm italiani: Acireale, Airola, Bari, Bologna, Cagliari, Caltanissetta, Catanzaro, Milano, Palermo e Pontremoli. Da questo percorso, durante il quale i ragazzi sono stati sollecitati con versi della poetessa polacca Wislawa Szymborska, di Irene Whitehill, di Chandra Livia Candiani e altri haiku giapponesi, “privilegiando un approccio poetico anziché argomentativo”, nasce il volume L’ascolto smarrito dato alle stampe da Castelvecchi (pp. 80, euro 12), a cura del regista e drammaturgo Paolo Billi, direttore artistico del Teatro del Pratello di Bologna e presidente dell’Associazione nazionale teatri e giustizia minorile, e di Federica Brunelli, mediatrice esperta di giustizia riparativa. Testi, poesie, canzoni definiti dalla dirigente del Dipartimento di giustizia minorile Cira Stefanelli come “straordinariamente sorprendenti”, perché “ci svelano una profondità inaspettata per chi abitualmente si mostra reticente al dialogo o mette in atto comportamenti distruttivi verso sé e gli altri”. Un’esperienza che fa bene e “innesca speranze”. Perché, come il teatro - spiega Mario Schermi, formatore del ministero della Giustizia -, è “pratica del bello”, è promozione del “riconoscimento”. Allo stesso modo, sempre per i tipi di Castelvecchi, il volume Salvate dai pesci. Racconti delle detenute di Rebibbia, curato da Mauro Corso (pp. 114, euro 15) raccoglie i frutti del laboratorio realizzato dall’organizzazione di volontariato Ri-scatti e condotto dall’attrice e narratrice Michela Cesaretti Salvi nella sezione femminile del carcere romano, tra 2022 e 2023. L’obiettivo iniziale era quello “di condurre le donne coinvolte a raccontare la propria storia in modo fiabesco e in uno stile comprensibile anche per un bambino”. Obiettivo troppo impegnativo per le detenute, spesso dal passato difficile e doloroso. Così alla fine quello spazio mediato è diventato uno spazio liberato, libero e autogestito. Nel quale è potuto accadere di tutto. Anche che la sorella “cattiva” invece di quella “buona” -come avviene nella favola raccontata nel volume da Floriselda - venga salvata dai pesci, archetipo della verità profonda. Dipendenze giovanili: cosa possono fare i genitori per prevenirle? di Chiara Daina Corriere della Sera, 28 agosto 2024 Come prevenire la dipendenza dalle droghe nei figli? Come capire se ci sono segnali preoccupanti? Intervista alla psicoanalista Laura Pigozzi autrice del libro “L’età dello sballo”. Il dilagare tra gli adolescenti del consumo di sostanze stupefacenti (dalla cannabis alla cocaina e alle droghe sintetiche, come ecstasy e anfetamine), oltre che di psicofarmaci senza prescrizione medica, e di altri comportamenti problematici, legati a un rapporto alterato con il cibo, all’abuso di alcol, di videogiochi e gioco d’azzardo, costringe a una riflessione profonda sul perché le nuove generazioni, rispetto a quelle precedenti, siano più esposte al rischio di sviluppare condizioni di dipendenza da sostanze o situazioni (e anche persone) dannose per la propria salute fisica e mentale. Nel libro intitolato “L’età dello sballo” (edito da Rizzoli), in uscita il 27 agosto, Laura Pigozzi, psicoanalista specializzata nel trattamento di minori e famiglie, partendo dall’uso diffuso di stupefacenti tra i giovani (come testimoniano i dati contenuti nell’ultima Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia) e dai disturbi correlati ad essi, prova a comprendere i motivi che spingono i ragazzi ad aggrapparsi alla droga in cerca di un godimento immediato e assoluto, indicando ai genitori la strada per aiutare i figli a crescere in autonomia senza farsi del male. Chi sono gli adolescenti che più facilmente potrebbero avvicinarsi alle droghe? In generale, l’adolescenza è sempre un’età a rischio perché il ragazzo è impegnato a diventare se stesso, a formare cioè la sua personalità e la sua identità separate da quella dei genitori. Se per un eccesso di presenza e controllo o per un’assenza di relazione da parte delle figure genitoriali non riesce a sviluppare una sua indipendenza, il distacco familiare risulta più difficile e aumenta la probabilità per il giovane di ricorrere alla droga. In pratica, il consumo di stupefacenti e la dipendenza familiare hanno un legame strettissimo. Ci spieghi meglio, dottoressa... La dipendenza verso il nucleo familiare può verificarsi sia a causa di un eccesso di attenzioni da parte di uno o entrambi i genitori sia a causa di uno scarso accudimento da parte loro. Nel primo caso, il caregiver è ingombrante con le sue richieste e interferenze nella vita del figlio. Si tratta di una madre o un padre che pretendono di accompagnarlo ancora a scuola dopo i 14 anni, che gli organizzano il tempo libero, che vogliono essere chiamati di continuo e sapere tutto quello che fa, che non ascoltano i suoi desideri e lo caricano di aspettative troppo alte, magari in attività che a lui non interessano, che gli anticipano qualsiasi bisogno, che si sostituiscono a lui nelle scelte di cosa indossare, fare e chi frequentare, che non lo responsabilizzano e non lo lasciano sbagliare da solo. Nel secondo caso, invece, ci sarà un genitore trascurante, perché troppo concentrato sul suo malessere o i suoi impegni, incapace di riconoscere i bisogni emotivi del figlio, di dargli affetto, di sostenerlo nelle difficoltà e riconoscere i suoi successi, e che nei casi più gravi non si preoccupa neppure di preparargli da mangiare. Sia nella presenza soffocante (un vuoto di presenza) che nel vuoto di assenza genitoriale sembra esserci una frammentarietà di sé così profonda da scatenare nel giovane il bisogno della sostanza stupefacente. Qual è la funzione della droga? Si trasforma evidentemente in uno strumento di autoterapia dell’io che si sente incrinato. Oppure la si usa per sentirsi grandi e disinibiti e affrontare il distacco traumatico dal nido familiare, sebbene sia solo la sostituzione di una dipendenza con un’altra. Il piacere immediato che regala la sostanza non tollera la frustrazione dell’astinenza e a livello cerebrale perverte il meccanismo della ricompensa. L’amigdala, ossia la struttura localizzata nel sistema limbico del cervello, quello coinvolto nelle emozioni, svolge un ruolo chiave nel desiderio incontrollabile di restare legati alla sostanza, oggetto o comportamento gratificante, e innesca il circuito della dipendenza se non viene opportunamente regolata dalla corteccia prefrontale, situata nella parte superiore del cervello e deputata al controllo degli impulsi e delle emozioni. La corteccia prefrontale in età adolescenziale non ha ancora raggiunto la sua piena maturazione, che avviene intorno ai 20-25 anni, pertanto la sua funzione regolatrice deve essere temporaneamente svolta dalla figura genitoriale. Se questo ruolo viene compromesso, l’esperienza del limite è messa fuori gioco. Nel suo libro scrive che “la dipendenza è la malattia del secolo”... Proprio così. “L’età dello sballo” non è riferita solo all’età adolescenziale, più incline al consumo di droghe, ma riguarda un’intera epoca, la nostra, in cui la disponibilità di stupefacenti non ha eguali nella storia dell’umanità e ogni limite è stato sdoganato: dai supermercati aperti h24 per ottenere subito ciò che si vuole alla richiesta fuori luogo alimentata dai social di essere sempre felici e performanti in ogni momento, tutto l’anno. Inoltre, le generazioni dell’ultimo millennio sono molto più dipendenti dagli adulti. Ci sono tante coppie contemporanee che ormai vivono solo in funzione dei figli e in cui i partner non si parlano più tra di loro. età dello sballo La prevenzione contro ogni forma di dipendenza, lo rimarca anche lei, inizia in famiglia. Come i genitori possono recuperare il loro ruolo di guida, ridando dignità ai figli? Evitando relazioni fusionali e favorendo il processo di soggettivizzazione e graduale autonomia dei figli. A partire da quando stanno imparando a parlare. Il linguaggio per il bambino è la prima forma di affrancamento dai genitori, quindi mamma e papà devono consentirgli di esprimersi alla sua maniera senza rispondere ogni volta al posto suo per dimostrargli come si fa. Il bambino va incoraggiato a mangiare e a dormire da solo il prima possibile e già dai 3-4 anni può essere invitato ad apparecchiare il tavolo insieme. Dal momento che la relazione con i pari è determinante per la formazione dell’identità, si raccomanda la frequentazione del nido e della scuola dell’infanzia. Per favorire nel bambino la capacità di gestire le difficoltà e di autoregolarsi, non intervenire nei bisticci con i fratelli e gli amichetti a meno che non stia succedendo qualcosa di molto grave. Permettergli di affidarsi ad altri adulti, come zii, nonni, insegnanti. Supervisionare i compiti di scuola una volta fatti, ma non farli insieme a loro. È importante che la coppia non si annulli e continui a mantenere un dialogo e degli spazi per sé. E deve sempre fare un passo indietro, lasciando il figlio libero di inciampare e rialzarsi da solo. Lungo tutto il percorso di crescita è fondamentale educare a stare nella noia e nella frustrazione. La dipendenza non tollera la frustrazione, infatti. Chi vuole tutto e subito non tollera il no, il rifiuto. I “no” sono educativi. L’attesa per la ricompensa pure. Ma la frustrazione, che è al centro della relazione tra genitori e figli, sia chiaro, non equivale alla privazione, che invece significa negare oggetti ed esperienze utili per il figlio e la sua crescita. Imparare a vivere la frustrazione è vitale per riuscire a contenere i propri stati d’animo, a rimettere in moto il desiderio e a trovare delle soluzioni, senza scivolare in una dipendenza affettiva, da cibo, droga o alcol. L’esperienza della frustrazione può essere insegnata fin dalla nascita, organizzando l’allattamento a intervalli regolari e non anticipando le richieste di fame del bambino. Nel libro dedica un capitolo alla cannabis e agli effetti nocivi che può provocare, spesso sottovalutati o ignorati. Quali sono? Le canne non sono innocue come per molto tempo si è pensato. Oggi tra l’altro la percentuale tossica di Thc, il principio psicoattivo della cannabis, rilevata nei prodotti derivati da questa pianta, hashish e marijuana, che si trovano sul mercato è più alta rispetto a quella degli anni Settanta e quindi gli effetti indesiderati, sia nell’immediato sia dopo usi prolungati, sono più aggressivi. Tra questi ci sono gli attacchi di panico, stati di ansia e di angoscia fino ai sintomi psicotici in età giovane adulta. Se c’è già un caso in famiglia, se si è cresciuti in legami disfunzionali, per eccesso o penuria di cura, e si fa un uso massiccio della sostanza, è più probabile essere vulnerabili a un disturbo psicotico. Questo rischio potrebbe aumentare se si associano consumi di cocaina e amfetamine. Il vero problema è che un adolescente scoprirà solo dopo, a giochi fatti, se potrà reggere o meno l’impatto distruttivo con una droga. Cosa fare se ci si accorge che il figlio adolescente fa uso di droghe? Avere un approccio adulto, non consolatorio ma responsabilizzante. Metterlo di fronte al fatto che esiste un problema e che va affrontato e se il ragazzo non vuole parlarne con la madre o il padre può rivolgersi a uno dei tanti sportelli di aiuto psicologico, a scuola o sul territorio, e ai servizi per le dipendenze dell’Asl. “La libertà in rete diventa anarchia se non è bilanciata con la sicurezza” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 28 agosto 2024 Intervista all’avvocato e professore Salvatore Sica, ordinario di Diritto privato all’Università degli Studi di Salerno. Le regole, tanto nella vita reale quanto sulle piattaforme social, sono la base per evitare che si creino zone opache, con la possibilità che alcuni soggetti o gruppi di persone si muovano indisturbati e commettano illeciti. Parte da questa riflessione l’avvocato e professore Salvatore Sica, ordinario di Diritto privato all’Università degli Studi di Salerno, nel commentare l’arresto in Francia del fondatore di Telegram, Pavel Durov. Professor Sica, Telegram è davvero una prateria in cui agiscono, senza limiti, anche criminali di ogni genere? Il tema è comprendere il reale funzionamento di ciascuna piattaforma social. Per quanto è dato sapere dall’indagine in corso in Francia, il livello di controllo su contenuti veicolati e su modalità di accesso della piattaforma Telegram è, evidentemente, più basso rispetto alle altre piattaforme, che hanno invece alzato la soglia di attenzione rispetto ai cosiddetti temi sensibili. L’arresto di Pavel Durov fa emergere anche il tema della sicurezza dei nostri dati, che si incrociano con questioni geopolitiche? Il mondo ormai è contraddistinto dalla circolazione indiscriminata di una serie dati. Ognuno di noi dovrebbe rendersi conto che l’acquisizione del nostro patrimonio di dati è anche più banale di quanto si possa immaginare. Ad esempio, se si va in un albergo in un Paese piuttosto che in un altro, il collegamento alla rete wifi della nostra stanza potrebbe favorire la deviazione automatica del nostro traffico per l’acquisizione dei nostri dati. In altre parole, il tema della protezione dei dati è l’argomento centrale per la tutela personale, ma poi i dati dei singoli aggregati diventano dati di controllo sociale più esteso, da considerarsi come una parte dello scacchiere geopolitico. I principali soggetti interessati ad acquisire dati sono gli Stati e le loro strutture di intelligence e di sicurezza. Le Monde sostiene che il caso Telegram è un importante banco di prova giuridico e politico per l’Unione europea, diventata il campione della regolamentazione democratica delle piattaforme digitali. Il quotidiano francese auspica che l’Europa rafforzi la vigilanza nel pieno rispetto dello Stato di diritto. Cosa ne pensa? Concordo con le riflessioni proposte da Le Monde. Non siamo più nella stagione in cui ci si interrogava se la rete potesse essere o meno oggetto di una regolamentazione. Un contesto democratico avanzato, e l’Europa, va ribadito, è la frontiera più progredita sotto questo profilo, non può che dare una risposta equilibrata, con una serie di valutazioni da fare caso per caso. Se partiamo dalla direttiva del 1995 e arriviamo all’attuale disciplina, al Regolamento europeo sulla protezione dei dati, la regola è nella tutela del singolo a cui si riferiscono i dati, il cosiddetto interessato, con le eccezioni di prevalenza dell’interesse pubblico, che sono, ad esempio, la sicurezza nazionale, la tutela della salute collettiva, la prevenzione del terrorismo. Come sempre, quando ci occupiamo di questi argomenti, la parola chiave diventa balance. Non è pensabile che possa esserci una disciplina dettagliata, ma è necessaria una valutazione case by case delle situazioni in ballo. La retorica della libertà di manifestazione del pensiero, e della prevalenza dell’interesse del singolo ad ogni costo, mi sembra che non abbia più ragione di esistere. La rete e le piattaforme social in particolare sono un pezzo, anzi, forse oggi sono il pezzo più importante della vita dei singoli e degli Stati. Se decidessimo di non avere una regolamentazione nelle società in cui viviamo, significherebbe volere uno stato di anarchia, e questo non è accettabile. Ci sono già le regole a livello europeo. e i gestori delle piattaforme social vi devono sottostare. Non è tollerabile che le piattaforme siano veicolo del compimento di illeciti. Telegram ha detto che rispetta le leggi Ue, incluso il Digital Services Act: è il primo tentativo di difesa dalle gravi accuse mosse dall’autorità giudiziaria francese... Occorrerebbe conoscere i dettagli dell’indagine francese, ma questo al momento è precluso a chiunque. Se davvero l’operato di Telegram fosse conforme al Digital Services Act, io non credo che possa aversi un’indagine come quella di cui si sta parlando. Evidentemente vi sono delle zone d’ombra, nel traffico che circola su Telegram. Però, starei attento anche alla posizione contraria, cioè dare per scontato che un giudice possa indiscriminatamente sindacare il contenuto dell’attività di una piattaforma. Aggiungerei a tal riguardo un’altra riflessione. Quale? Dobbiamo abituarci all’equiparazione tra vita virtuale e vita reale. Nella vita reale l’intervento del giudice è sottoposto alle prescrizioni dello Stato di diritto. Analogamente, nel caso Telegram si tratta di verificare se il giudice abbia rispettato le garanzie democratiche, nel senso complessivo dell’ordinamento giuridico e del singolo nell’attuare il proprio intervento e nell’eseguire i propri provvedimenti. Fa bene, quindi, Le Monde a richiamare lo Stato di diritto. Affidarsi alla nozione di Stato di diritto può essere l’ancoraggio forte per prevenire l’idea di una rete senza regole e per evitare che l’introduzione delle regole sia uno strumento di controllo e censura dei contenuti che circolano nella rete. Droghe, non psichiatrizzare i consumatori di Denise Amerini e Stefano Vecchio Il Manifesto, 28 agosto 2024 Abbiamo aderito come Cgil e Forum Droghe con convinzione all’Appello “Fermare una tragica nostalgia di manicomio, e reagire” lanciato dalla società civile contro il Disegno di legge numero 1179/2024, presentato dal senatore di Fratelli d’Italia Zaffini e sottoscritto da altri 24 senatori della Repubblica. Come scritto nell’appello ritornerebbero le “misure di sicurezza” speciali, che riportano ai tempi di una psichiatria manicomiale controllata dal ministero dell’interno e dal potere giudiziario, mentre con lo sdoganamento delle “misure e trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali” si evoca in qualche modo il regolamento manicomiale del 1909. Il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) raddoppierebbe la durata a 15 giorni, “prolungabile”. Invece di potenziare i servizi territoriali previsti dalla legge 180, il ddl punta all’aumento del numero dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) ospedalieri. In carcere si istituirebbero “sezioni sanitarie specialistiche psichiatriche”, nelle quali sarebbe possibile effettuare il Tso. Fuori dal carcere aumenterebbe il numero di posti in ogni Rems. Il disegno di legge contiene però non solo una nostalgia di manicomio, purtroppo diffusa sempre più, ma propone anche una logica più generale di attacco al modello territoriale di tutela e promozione della salute, legato in parte alla privatizzazione selvaggia in atto del sistema sanitario. Sentiamo il bisogno, in questo contesto, di evidenziare che nel ddl Zaffini alla lettera e) dell’articolo 3 con il titolo “Attività di cura” si scopre, quasi per caso, nascosta com’è tra le tante voci, l’assegnazione esplicita ai dipartimenti di salute mentale delle competenze sui servizi per le persone che usano droghe (pud): “Servizi per le tossicodipendenze (SerT) e servizi per le dipendenze patologiche (SerD), sia farmacologiche che comportamentali”. Abbiamo più volte argomentato come questo annullamento dello specifico, complesso e articolato mondo dei servizi per le “pud” e per le dipendenze, che va dalle aree più marginali (senza dimora, migranti, poveri) a quelle più socialmente integrate nei contesti ricreativi e del divertimento (giovani, professionisti etc.) sia un grave errore. Il tema dell’uso di sostanze psicoattive, problematico o meno, richiede una varietà ampia di azioni e servizi che fanno riferimento alla prospettiva della riduzione del danno/limitazione dei rischi, intesa come promozione della salute e sviluppo di empowerment, nell’orizzonte ampio della triade di Norman Zinberg: droghe, set e setting. Una molteplicità e complessità che ha un carattere specifico e che non può essere compresa nella salute mentale, a meno di non rientrare in quella logica di psichiatrizzazione, patologizzazione e colonizzazione culturale e istituzionale - oltre che di controllo sociale - che gli estensori dell’appello contro il ddl Zaffini, hanno criticato come uno dei rischi degli attuali servizi per la tutela della salute mentale. Abbiamo già espresso una posizione di netta contrarietà all’assimilazione dei servizi per le dipendenze in quelli per la salute mentale in un documento inviato all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) e al governo il 10 agosto 2021. Riteniamo si debba aprire, piuttosto che una disputa diagnostica o sulle competenze prevalenti, un confronto sul lavoro di confine tra le due realtà, per elaborare e attivare prese in carico congiunte delle persone, minoritarie nel panorama delle “pud”, che presentano queste problematiche. Percorsi comuni nell’ambito di una logica di empowerment e nella prospettiva della promozione della salute. Allo stesso tempo dobbiamo continuare a denunciare ogni tentativo di neo-istituzionalizzazione e utilizzo del sistema penale per governare i fenomeni sociali. L’appello contro il ddl Zaffini e la lettera all’Agenas e al governo su www.fuoriluogo.it Migranti. Colpo di scena: liberi i richiedenti rinchiusi a Porto Empedocle di Giansandro Merli Il Manifesto, 28 agosto 2024 A rischio i Centri in Albania. “Paesi sicuri”. Secondo giro di convalide dei trattenimenti: il tribunale di Palermo ne rifiuta cinque su cinque. Dietro le sbarre resta solo un ragazzo tunisino. Tutti liberi. Il tribunale di Palermo non ha convalidato il trattenimento dei cinque richiedenti asilo tunisini che sabato scorso erano stati rinchiusi nel centro di Porto Empedocle. Quel giorno il questore di Agrigento aveva disposto la misura di privazione della libertà personale nell’ambito delle procedure accelerate di frontiera per la protezione internazionale. Lunedì il provvedimento era stato trasmesso alla corte del capoluogo siciliano dove ieri si sono svolte le udienze. Si tratta di un altro duro colpo all’obiettivo del governo di mettere dietro le sbarre i richiedenti che vengono da paese di origine ritenuti “sicuri”. Come vorrebbe fare anche nei centri in Albania. Due diversi giudici della “sezione specializzata in immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Ue” hanno stabilito che le motivazioni alla base della detenzione sono “carenti” perché mancano riferimenti alle situazioni individuali delle persone. “La facoltà di disporre il trattenimento rappresenta l’esercizio di un potere discrezionale, che va giustificato ed argomentato, anche in considerazione della circostanza che la misura incide sulla libertà personale dell’individuo”, si legge in una delle decisioni. Tutte concordano sul fatto che, affinché la norma possa essere ritenuta costituzionalmente orientata, la reclusione non può mai avvenire sulla base di “automatismi”. Non solo, secondo il tribunale il rifiuto di versare la garanzia finanziaria, che tra l’altro due cittadini tunisini si sono detti disponibili a pagare entro i sette giorni previsti dalla legge, o la mancata consegna del passaporto, ovvero le due circostanze in cui si rimane in libertà, non vanno intese come alternative al trattenimento ma come cause generali di esclusione. Tradotto: se i richiedenti asilo pagano la fideiussione o mostrano il documento non possono essere reclusi, in caso contrario la detenzione è solo una possibilità. Deve comunque essere l’extrema ratio, valutata caso per caso in base alla situazione individuale della persona. Ed evidentemente nel provvedimento del questore di tutto questo non c’è traccia. Il tribunale ricorda poi che l’autorità amministrativa ha comunque l’obbligo di considerare altre misure alternative al trattenimento, prima di disporlo. Ciò avviene per i migranti “irregolari” da espellere e dunque sarebbe irragionevole non fosse messo in pratica per i richiedenti asilo, la cui eventuale detenzione si basa su presupposti meno gravi. Quindi anche per il trattenimento in frontiera, nozione estesa oltre la sua valenza geografica da un discusso decreto di agosto 2019, vanno prima cercate altre misure meno coercitive. Per esempio l’obbligo di dimora o di presentazione alle autorità. Del resto la direttiva europea, citata dai giudici siciliani, parla chiaro e prevede il trattenimento “solo dopo che tutte le misure non detentive alternative sono state debitamente prese in considerazione”. Così nella struttura di Porto Empedocle, aperta in fretta e furia nella settimana di ferragosto, rimane una sola persona. Un giovane tunisino di 23 anni, che secondo il suo avvocato ha problemi di salute e che al momento si trova in uno scenario distopico: praticamente in isolamento tra sbarre, reti e container roventi. Da lì rischia di finire direttamente su un aereo che lo riporterebbe nel paese da cui è fuggito rischiando la vita in mare. Il suo trattenimento è stato convalidato giovedì, sempre dal tribunale di Palermo. Come sottolineato dal manifesto, quella decisione era incentrata su circostanze molto peculiari: pericolo di fuga e tentativo di sottrarsi ai controlli (sebbene su quest’ultimo punto siano poi emersi dei dubbi). Finora si tratta in assoluto dell’unica detenzione di un richiedente asilo per le procedure di frontiera. Il governo aveva già provato lo scorso autunno a imporre questo iter dietro le sbarre. I magistrati catanesi, però, avevano ritenuto la norma nazionale - poi finita in Cassazione, rinviata alla Corte di giustizia Ue e modificata a maggio dal ministero dell’Interno - in contrasto con quella europea. Per questo avevano deciso di disapplicarla, liberando i migranti. Le novità arrivate ieri da Palermo avranno provocato molto nervosismo tra Viminale e Palazzo Chigi. Non solo perché proiettano pesanti ombre sul centro di Porto Empedocle, a cui il governo ha dato un’improvvisa accelerazione nelle settimane roventi dell’estate e per cui ha già messo a bilancio 787mila euro, ma soprattutto perché la norma per il trattenimento è la stessa dei centri in Albania. Come potrà argomentare in quel caso che i richiedenti asilo soccorsi in alto mare non sono detenuti in maniera automatica? E quali alternative alla privazione della libertà personale potrà garantire nel territorio di un altro Stato, dove la giurisdizione italiana vale solo dentro un perimetro? Sono domande a cui Giorgia Meloni e Matteo Piantedosi dovranno cercare rapidamente delle risposte, ammesso che i centri di Shengjin e Gjader entrino davvero in funzione. Tutta l’operazione rischia di essere un buco nell’acqua. Un costoso buco nell’acqua. Migranti. L’abbaglio estivo per lo ius scholae targato Tajani di Vitalba Azzollini* Il Domani, 28 agosto 2024 La proposta di Tajani sembra a prima vista migliorativa rispetto alle disposizioni vigenti. Tuttavia, i vantaggi paiono compensati da un elemento di gravosità ulteriore rispetto alla legge attuale. Lo ius scholae avrebbe meritato tutt’altro dibattito rispetto alle schermaglie di questi giorni. Il tema pare volto più a colmare settimane estive di vuoto politico che a giungere a una soluzione condivisa da perseguire in concreto. Lo stesso Antonio Tajani, ministro degli Esteri e leader di Forza Italia, che ha avanzato la proposta al Meeting di Rimini, ora afferma che lo ius scholae non è una priorità. Ma parlarne è necessario. Significa sentire l’esigenza, da un lato, di valorizzare l’integrazione di minori stranieri cresciuti in Italia e che studino nel territorio nazionale; dall’altro, di evitare fenomeni di marginalità ed esclusione sociale. La proposta di Tajani - Tajani si è detto favorevole al diritto alla cittadinanza dopo un percorso scolastico di dieci anni. “Serve un corso di studio completo” - ha precisato il ministro - “quindi la scuola dell’obbligo fino a 16 anni con il raggiungimento del titolo di studio”. Oggi, i figli di cittadini stranieri che nascono in Italia e vi risiedono ininterrottamente fino alla maggiore età possono dichiarare di voler acquisire la cittadinanza italiana. Chi non sia nato in Italia, invece, può richiederla a seguito di 10 anni di residenza legale, dopo i 18 anni di età. Per cui, paradossalmente, per i bambini nati all’estero, più piccoli arrivano, più tempo serve prima che possano diventare legalmente italiani, perché devono comunque aspettare di essere maggiorenni. E poi vanno considerati i tempi burocratici - qualche anno - per la conclusione dell’iter di concessione. L’Italia prevede requisiti più stringenti per la cittadinanza rispetto a Germania, Francia e Spagna, anche se i numeri parrebbero attestare che qui essa è accordata più che altrove. Non è così. Nei Paesi citati, i figli di alcuni stranieri nascono già cittadini, a determinate condizioni, e non servono atti di attribuzione, che quindi non sono conteggiati nelle cittadinanze concesse. Inoltre, non è vero, come afferma il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che nessun Paese Ue preveda lo ius scholae: tale diritto, variamente declinato, c’è in Grecia, Portogallo, Lussemburgo e Slovenia. I pro e i contro - La proposta di Tajani sembra a prima vista migliorativa rispetto alle disposizioni vigenti: da un lato, non richiede la nascita dello straniero in Italia, anche se l’obbligo di completare dieci anni di scuola entro i 16 anni comporta che il bambino vi sia comunque entrato molto piccolo; dall’altro lato, potrebbe essere un deterrente contro l’abbandono scolastico; inoltre, consentirebbe di richiedere la cittadinanza già a 16 anni, senza aspettare i 18; infine, non implicherebbe la residenza continuativa in Italia fino alla maggiore età, anche se la renderebbe comunque necessaria dai 6 ai 16 anni per la frequenza regolare della scuola. Tuttavia, i vantaggi paiono compensati da un elemento di gravosità ulteriore rispetto alla legge attuale: il completamento dei dieci anni della scuola dell’obbligo, e inderogabilmente entro i 16 anni. Questo requisito è molto oneroso, anche in considerazione delle condizioni non sempre agevoli, economicamente e non, in cui vivono famiglie straniere. Inoltre, se l’intento è quello di concedere la cittadinanza a chi conosca bene la lingua italiana e sia integrato nella comunità, a un ragazzino potrebbero bastare pochi anni - molti minori stranieri parlano pure i dialetti, oltre all’italiano - e non necessariamente tutti quelli richiesti. Peraltro, oggi in Italia - unico caso tra gli Stati occidentali - la cittadinanza viene attribuita iure sanguinis a chi sia nato all’estero, anche se non ha mai messo piede in Italia né possiede alcuna conoscenza di lingua e cultura del Paese, purché dimostri di avere un antenato italiano, senza limiti generazionali. Non si vede perché ci si ostini a negarla o a renderla oltremodo gravosa per gli studenti stranieri. L’abbaglio - Più favorevoli erano alcune proposte presentate nella legislatura precedente, che prevedevano l’acquisizione della cittadinanza da parte dei ragazzi, nati in Italia o che vi avessero fatto ingresso entro i dodici anni di età e che vi avessero frequentato regolarmente, per almeno cinque anni, uno o più cicli scolastici. In molti hanno lodato l’apertura di Tajani. Ma, come spiegato, essa di fatto avvantaggia ben poco coloro ai quali è destinata. Peraltro, qualche giorno dopo l’intervento a Rimini, lo stesso Tajani ha detto che lo ius scholae da lui prospettato “sarebbe più rigido dell’attuale legge sulla cittadinanza”. Un riposizionamento del ministro o un diffuso abbaglio ferragostano circa la bontà della sua proposta? *Giurista Migranti. Non c’è ius scholae che tenga: la Legge Bossi-Fini va abolita di Associazione Migrare Il Manifesto, 28 agosto 2024 La petizione. Lo scorso 25 giugno l’Associazione Migrare ha lanciato su change.org una petizione per l’abolizione della Legge Bossi-Fini n. 189-2002 alla quale hanno sin qui aderito, tra gli altri quasi 2.000 firmatari: Roberto Speranza, Arturo Scotto, Gennaro Migliore, Mario Morcone, Maria Cuffaro, Gianni Pittella, Corradino Mineo, Enzo Nucci, Vincenzo Vita, Massimo Cacciari, Nicola Fratoianni, Michele Santoro, Pietro Grasso, Lia Quartapelle, Angela Caponnetto, Giuseppe Rossodivita, Sergio Elia. Da ultimo hanno aderito anche il Vescovo Mons. Giorgio Bertin, Nichi Vendola e Rosa D’Amato. Queste nuove adesioni, unitamente alle recenti aperture dei figli di Silvio Berlusconi e di Forza Italia per i diritti civili e per lo ius scholae - temi già cari al centrosinistra - dimostrano quanto sia ampia e trasversale la convergenza socio-culturale su questi argomenti e l’inclusione nella nostra società. Ben venga, quindi, l’adesione al principio dello ius scholae quale primo passo verso l’accettazione dello straniero ed i benefici economici e culturali che ne possono derivare per l’Italia, ma occorre sottolineare l’incompatibilità sostanziale tra lo ius scholae e la Legge Bossi-Fini. Non basta, infatti, che l’art. 45 del D.P.R. 394/1999 consenta al minore irregolare di essere iscritto ad una scuola italiana o proseguire gli studi “con riserva” perché, di fatto, l’irregolarità della permanenza in Italia dei genitori incide sulla possibilità di avere una casa, servizi igienici adeguati, mezzi di sostentamento, un lavoro e uno stipendio regolari. Cioè, tutti quegli elementi essenziali alla frequentazione scolastica. Del resto, le famiglie che si formano sul territorio, sono ancora in massima parte composte da prime generazioni di immigrati e sono quindi prive di quella rete sociale dei nonni, amici e parenti che costituiscono da sempre gli ammortizzatori sociali per le famiglie in difficoltà. Il nodo fondamentale è costituito dal circolo vizioso innescato dalla Legge Bossi-Fini che àncora il rinnovo del permesso di soggiorno alla sussistenza del posto di lavoro sicché, perdendosi il posto di lavoro, si perde anche il permesso di soggiorno e, senza il permesso di soggiorno, non si può trovare un lavoro regolare, finendo con l’alimentare il caporalato, il lavoro nero, lo sfruttamento quando non la criminalità anche organizzata. Invitiamo le istituzioni parlamentari a riformare la legge sulla cittadinanza e procedere all’abolizione della Legge Bossi-Fini. Firma sulla piattaforma change.org la petizione dell’Associazione Migrare per l’abolizione della Legge Bossi-Fini: https://www.change.org/p/aboliamo-la-legge-bossi-fini-n-189-2002 Migranti. Il buco nero dei Cpr in Albania: il diritto alla difesa è a rischio di Marika Ikonomu Il Domani, 28 agosto 2024 È stato pubblicato il decreto per il rimborso del viaggio dei legali, valido solo in caso di problemi di connessione. Per i migranti rinchiusi a 80 chilometri da Tirana sarà impossibile difendersi. Tutto sarà mediato dal ministero. Immaginiamo che una persona migrante venga salvata nel Mediterraneo, in acque internazionali, da una nave delle autorità italiane, che provenga da uno dei paesi considerati sicuri e sia portata nel centro di prima accoglienza nel porto di Shengjin, nel nord dell’Albania, dove entreranno in funzione le strutture volute dal governo di Giorgia Meloni, costate alle casse dello stato quasi un miliardo di euro. Dopo essere stata sottoposta alle procedure di identificazione immaginiamo che questa persona venga portata al centro di Gjader, nell’entroterra, a circa 20 minuti di distanza. Il soggetto ha il diritto di nominare un difensore di fiducia, o che le venga assegnato un difensore di ufficio, che la assista durante l’udienza di convalida del trattenimento. Tutto questo in un tempo molto limitato, entro 96 ore. Come questo verrà assicurato non è chiaro a nessuno. Né è chiaro come verrà garantito il principio costituzionale previsto dall’articolo 24, secondo cui la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento e a tutti sono forniti i mezzi per potersi difendere. Come potrà nominare un avvocato di fiducia se non ha mai avuto un contatto con l’Italia? Come verranno gestite le comunicazioni tra il legale e l’assistito? E, ancora, come si garantirà la riservatezza dei colloqui e l’invio della documentazione? A tutte queste domande non c’è ancora una risposta, nonostante il governo continui ad annunciare che l’apertura dei centri è imminente. Il primissimo termine del 20 maggio, che era stato indicato nei documenti del bando per la gestione, è stato spostato a luglio, poi al 1 e in seguito al 20 agosto, fino a una data indefinita, a causa “del caldo anomalo e delle condizioni geologiche del terreno”, aveva detto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. In realtà, già all’inizio del progetto, il ministero della Difesa, come aveva scritto Domani, aveva previsto la fine lavori a Gjader a ottobre/novembre visto il luogo in decomposizione avanzata. Nei ritardi, si continua comunque a bloccare e criminalizzare il lavoro delle navi umanitarie: lunedì è stato infatti emesso il fermo amministrativo di 60 giorni per la Geo Barents di Medici senza frontiere. Una garanzia formale - “Come verrà effettivamente garantito il diritto di difesa rimane un’incognita e vige l’indeterminatezza”, commenta l’avvocato Salvatore Fachile, socio dell’Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione (Asgi). Sono molti gli elementi che suggeriscono che la possibilità di difendersi, garantita formalmente dal protocollo e dalla legge di ratifica, rimarrà solo sulla carta. Il decreto del ministero della Giustizia pubblicato il 26 agosto in Gazzetta ufficiale prevede un rimborso spese fino a un massimo di 500 euro per i legali e i mediatori che devono raggiungere l’Albania qualora non dovesse funzionare il collegamento. La regola sarà quindi quella del “collegamento da remoto” con “modalità audiovisive”. L’eccezione quella dell’incontro fisico tra l’avvocato e l’assistito. Ad assicurare che il diritto di difesa sia tempestivo ed effettivo è incaricato il “responsabile italiano”, si legge nell’atto di ratifica, senza altre precisazioni. “Viene affidato all’autorità amministrativa il compito di stabilire come sarà possibile esercitare il diritto di difesa”, spiega Fachile, “e quindi il modo in cui l’avvocato si rapporterà con il proprio cliente”. Un compito che non viene delegato a un soggetto terzo, fa notare l’avvocato, ma alla stessa controparte da cui la persona dovrebbe difendersi. E infatti il “responsabile italiano” dovrà mettere a disposizione un indirizzo di posta certificata per lo scambio di documenti e assicurare la riservatezza nel collegamento. “Qualsiasi procedimento che implica la limitazione della libertà personale deve garantire la possibilità di individuare un avvocato di fiducia e, in assenza, uno d’ufficio”, spiega Antonello Ciervo, avvocato e socio di Asgi. Probabilmente alle persone portate nel centro albanese verrà fornito elenco di avvocati iscritti nelle liste del gratuito patrocinio nel foro di Roma, tra i quali potranno scegliere, senza nessun criterio né possibilità di nominare una persona esperta in materia. “In base alla mia esperienza nei Cpr in Italia”, prosegue Ciervo, “rischiano di essere sempre gli stessi soggetti a garantire solo formalmente la difesa di queste persone. E spesso non hanno nessun interesse a esercitare una difesa effettiva”. L’intermediario - La distanza fisica impone quindi che sia l’amministrazione a mediare tra l’avvocato e l’assistito, e “potrà - spiega Fachile - decidere i limiti dell’esercizio del diritto della persona e del suo legale. Tutto è affidato in maniera vaga a un impiegato della pubblica amministrazione”. Si ribalta così la logica del processo, sottolinea Ciervo, perché “il diritto di difesa non dovrebbe essere condizionato alle esigenze o alle volontà del responsabile dell’amministrazione”, ma il soggetto dovrebbe essere messo nelle condizioni di poter esercitare il proprio diritto. “Il rischio”, prosegue, “è quello di andare verso una serie di convalide a catena e, soprattutto, di espulsioni collettive”. A peggiorare la situazione sarà l’isolamento delle persone che si troveranno nel territorio di un altro stato, reclusi, senza alcuna rete a cui far riferimento, sottolinea Fachile, senza poter ricevere informazioni da altri canali e soprattutto incontrare il proprio avvocato. Incontro negato - Se la legge italiana prevede la possibilità che il difensore incontri l’assistito perché necessario per “esaltare quella fiducia che sta alla base del rapporto”, evidenzia Fachile, “ed elaborare insieme una strategia difensiva”, questo non è consentito per chi si troverà in Albania. Si troverà lontano dal proprio legale, che, in base alla legge di ratifica, “partecipa all’udienza in cui si trova il giudice”, a meno che non ci siano problemi tecnici. Anche in caso di problemi tecnici, come prevede il decreto del 26 agosto, non è scontato che l’avvocato riesca a recarsi nei tempi previsti in Albania. Uno spostamento che per Fachile “non è realistico”. L’amministrazione deve rendersi conto dei problemi tecnici entro le 96 ore, comunicarlo tempestivamente all’avvocato, conferirgli l’incarico, e il legale dovrebbe essere pronto a partire in tempo per l’udienza. Non a Tirana, la capitale albanese, ma a circa 80 chilometri a nord. Deve quindi prendere il volo, noleggiare una macchina, percorrere una strada spesso trafficata e arrivare nei container del sedime militare che le autorità italiane stanno adibendo a hotspot e Cpr. Se invece non dovessero esserci problemi tecnici, e quindi dovesse venire meno il rimborso, è improbabile che un avvocato si faccia carico delle spese per raggiungere le strutture. Spese che rischiano di superare i 500 euro. Per alcuni difensori poi non ci sarebbe nemmeno la possibilità di incontrare il proprio assistito. “Un avvocato di origine straniera senza passaporto italiano deve chiedere un visto”, segnala Fachile, “una richiesta incompatibile con i termini”. Lo stesso vale per i mediatori, fondamentali per una difesa effettiva, che spesso non hanno la cittadinanza italiana. “Un diritto si misura sulla base della sua effettività, non del riconoscimento formale”, ricorda l’avvocato, lo ha stabilito anche la Corte costituzionale. Questi elementi però sembrano suggerire il contrario e considerare i centri albanesi zone di frontiera significa “che avviene tutto lontano da quello che è il controllo della società civile”. Migranti. “Majidi è innocente”, Mimmo Lucano (Avs) incontra l’attivista curda in carcere ilreggino.it, 28 agosto 2024 L’europarlamentare vicino alla donna arrestata con l’accusa di essere una scafista: “So cosa significa subire processi e condanne quando si è incolpevoli”. “Sono venuto qui per portare la mia solidarietà perché sono convinto della sua innocenza al 100%. So cosa significa subire procedimenti giudiziari e condanne quando si è innocenti. Semplicemente ho voluto fare un gesto di solidarietà per lei e per la causa dei rifugiati. Maysoon Majidi rappresenta la causa curda. È un’attivista per il rispetto dei diritti umani e si trova lei stessa coinvolta in una storia assurda”. Lo ha detto l’europarlamentare di Avs Mimmo Lucano all’uscita del carcere di Reggio Calabria dove si è recato per incontrare Maysoon Majidi, l’attivista curda iraniana di 28 anni arrestata a gennaio dalla Guardia di finanza con l’accusa di essere la scafista di una imbarcazione con 77 migranti sbarcati a Crotone il 31 dicembre 2023. Maysoon Majidi è stata costretta a lasciare l’Iran nel 2019 dopo aver partecipato alle proteste contro il regime dove sono morte oltre 1. 500 persone. È scappata nel Kurdistan iracheno continuando il suo attivismo per le donne curde e iraniane ma ha dovuto lasciare anche l’Iraq perché anche lì perseguitata e per questo si è imbarcata per raggiungere l’Europa. A Crotone l’arresto in seguito alle testimonianze di due migranti. In attesa del processo che riprenderà a settembre, l’attivista ha sempre respinto le accuse raccontando di essere rimasta sempre sottocoperta e di aver chiesto per un malore di salire sul ponte della barca dove ha litigato con un’altra donna che, prima di partire, aveva preso a tutti i cellulari. “Il fenomeno dello scafismo - ha aggiunto Lucano - l’ho incontrato ancora prima di diventare sindaco di Riace. Penso che sia completamente inventato e che debbano trovare qualcuno da identificare come responsabile di un qualcosa che in realtà non è così. Hanno bisogno di qualcuno su cui costruire questo teorema accusatorio per giustificare azioni che non sono degne della giustizia. Non è una novità che gli scafisti vengono individuati in maniera approssimativa. Non c’è rispetto dei diritti umani se una persona, come Maysoon Majidi, si trova a subire tutto questo”. “Non bisogna mai dimenticare - ha detto ancora l’europarlamentare di Avs - che è l’occidente il responsabile, siamo noi che vendiamo le guerre, noi che abbiamo saccheggiato i loro territori. Non dobbiamo dimenticare il colonialismo, il neocolonialismo, il liberismo. Sono loro le vittime di un sistema assurdo. Ho trovato una ragazza magra ma anche sorridente che non perde mai la fiducia. Questa è stata la mia impressione. Quando mi ha visto si è commossa. Adesso la seguirò fino a quando per lei non finirà questo calvario giudiziario. Lei non parla tanto bene l’italiano ma ha capito il significato di questo gesto e mi ha ringraziato. Porterò la sua storia all’attenzione del Parlamento europeo. Il rispetto dei diritti umani è la mission che dovremmo avere”. Belgio. Il padre di Andrea: mio figlio ha bisogno di cure non di una sentenza di Benedetta La Penna vocididentro.it, 28 agosto 2024 Nelle ultime settimane, la storia di Andrea, un giovane italiano di 27 anni detenuto in Belgio, ha suscitato preoccupazioni crescenti. Arrestato tre mesi fa con l’accusa del furto di alcune collanine, Andrea sta affrontando una situazione ben più complessa di quella legale: è afflitto da gravi problemi psichiatrici e da una dipendenza da sostanze stupefacenti che lo rendono particolarmente vulnerabile. Nonostante la sua condizione, non sta ricevendo le cure adeguate nel carcere di Hasselt, dove è attualmente recluso. In questa intervista, il padre di Andrea ci racconta le difficoltà che la sua famiglia sta vivendo, tra la battaglia legale e l’urgente bisogno di garantire a suo figlio un trattamento medico adeguato. La loro storia solleva domande cruciali sul trattamento dei detenuti con problemi di salute mentale e sulle responsabilità che un sistema giudiziario deve assumersi in casi come questo. Può raccontarci cosa sta accadendo? La situazione di Andrea è davvero complicata. È in carcere in Belgio da tre mesi, accusato di furto. Ma il punto non è stabilire se sia colpevole o innocente. Andrea ha seri problemi psichiatrici e di tossicodipendenza, e non sta ricevendo le cure di cui ha bisogno. Da un anno è seguito dal SerD in Italia, stava seguendo una terapia specifica, ma ora, in carcere, è tutto fermo. Quali sono le difficoltà maggiori che sta affrontando? Andrea è dipendente dal crack. Ha accumulato molti debiti, sia per la droga che per altre questioni economiche. La nostra famiglia è in difficoltà, io sono un semplice impiegato e non ho abbastanza soldi per far fronte a tutto questo. Penso che Andrea sia andato in Belgio insieme al suo spacciatore, non potendolo più pagare, cercando di sdebitarsi, a quanto pare proprio attraverso dei piccoli furti. A causa dell’effetto combinato di medicinali e stupefacenti, e delle sue condizioni psichiatriche, è plausibile pensare che sia stato raggirato. La realtà è che le cose sono peggiorate rapidamente in quanto è stato accusato di aver rubato delle collanine durante un concerto, nonostante non avessero trovato nulla addosso a lui. Quando è stato l’ultimo contatto con suo figlio? Ho deciso di non andarlo a trovare perché temo che un nuovo distacco potrebbe essere insostenibile per lui, al punto da spingerlo a fare qualcosa di irreparabile. Ed è per questo che è da tre mesi che non lo vedo. Ci sono state settimane in cui non ho avuto nemmeno sue notizie se non grazie a due detenuti italiani della sua stessa prigione che hanno preso a cuore la storia di Andrea. Ma fortunatamente la scorsa settimana ho ricevuto due telefonate da mio figlio dal carcere. Una di seguito all’altra. Due telefonate che ammazzerebbero qualsiasi padre di famiglia, in cui mio figlio ha minacciato più volte il suicidio. Non aggiungo altro perché in questi casi non serve aggiungere altro e perché le telefonate dal carcere sono registrate: solo recuperandole e riascoltandole si potrebbe capire per intero il dramma che stiamo vivendo. È così difficile far capire che non è stata messa in carcere una persona “sana” e che non può continuare a restare lì senza cure. Sono un uomo a pezzi. Come sta vivendo Andrea questa situazione? Andrea è solo e spaventato. In carcere ci sono altri italiani, come dicevo prima, ma il suo disturbo della personalità gli crea problemi a relazionarsi anche con loro. Io non voglio negare che Andrea possa essere colpevole, ma chiedo che riceva un trattamento umano. Un carcere deve tenere conto dello stato di salute dei detenuti, e questo include avere uno psichiatra che lo segua davvero. Avete avuto problemi anche con l’assistenza legale? Sì, e questa è un’altra parte dolorosa della vicenda. Abbiamo procurato un’avvocata ad Andrea, ma secondo noi non è stata all’altezza della situazione. Noi genitori non abbiamo mai ricevuto risposte adeguate da parte sua, nonostante le nostre continue richieste di informazioni. L’11 settembre ci sarà la sentenza, ma ci sono mille incertezze. Ci sentiamo abbandonati e impotenti. E, come se non bastasse, c’è anche la barriera linguistica: non siamo riusciti a trovare un avvocato che parlasse la nostra lingua e, di conseguenza, abbiamo avuto enormi difficoltà a comunicare. Com’è la situazione legale di Andrea al momento? Attendiamo la sentenza, il giudice si è preso 40 giorni per il verdetto. Il pubblico ministero ha rifiutato la liberazione su cauzione e ha chiesto 30 mesi di reclusione. Abbiamo un’avvocata in Belgio, come dicevo, ma la situazione è complicata. Lei ha chiesto l’assoluzione perché sostiene che non ci siano prove sufficienti, a partire dal fatto che le presunte collanine rubate non gli sono state trovate addosso, non sono stati visionati i video delle telecamere e i messaggi salvati sul suo cellulare non sono stati resi in fiammingo da traduttori giurati. Comunque, come ho detto, il punto non è se Andrea sia colpevole o innocente. Il vero problema è che nella sua condizione di salute mentale non dovrebbe stare in carcere, soprattutto in un altro paese, lontano dai medici che lo stavano curando. Cosa ci può dire riguardo all’assistenza sanitaria che Andrea sta ricevendo in carcere? A mio parere, questa è una questione che richiede molta più attenzione. I farmaci che assume Andrea devono essere aggiornati ogni due settimane, dopo visite in presenza; non si può trattare il suo disturbo come se fosse una semplice influenza. È impensabile che rimanga con la stessa posologia per tre mesi, come sta accadendo attualmente nel carcere di Hasselt. Anzi, trovo paradossale che lo psichiatra del carcere mi abbia contattato direttamente per chiedere quali farmaci somministrargli. Sono stato io a dover contattare i medici qui in Italia per riferire allo psichiatra in Belgio quali medicinali Andrea stesse assumendo, ma non è così che dovrebbe funzionare. Come ho detto, la posologia deve essere stabilita in base a visite ogni due settimane e in presenza, non tramite telefonate con i familiari. È incredibile che abbiano dovuto passare attraverso di me per ottenere informazioni mediche così vitali e che, in tre mesi, la posologia non sia mai stata modificata. Attualmente com’è la situazione di Andrea? Quello che chiediamo è che Andrea possa tornare in Italia, dove potrebbe scontare la sua pena seguito dai medici che conoscono la sua storia e i suoi bisogni. Ci siamo rivolti all’ambasciata e, grazie all’intervento della senatrice Ilaria Cucchi, abbiamo avuto contatti con la Farnesina e si sta provando a coinvolgere l’eurodeputata Ilaria Salis. Da parte dell’Ambasciata d’Italia in Belgio due visite in carcere gli sono state fatte, e ci è stato detto che sta bene, ma il prima citato disturbo di personalità di cui soffre mio figlio lo rende capace di far credere ciò che vuole a chiunque; in poche parole, su come stia mio figlio è necessario che lo stabilisca uno psichiatra non, con tutto il rispetto parlando, un qualsiasi funzionario dell’Ambasciata. Negli ultimi giorni c’è stato almeno un piccolo miglioramento: prima aveva smesso di lavarsi e di mangiare. Se sarà condannato, non faremo appello, in modo che, una volta scontato un terzo della pena, possa rientrare in Italia. Tuttavia, settembre è ancora lontano, e nel frattempo potrebbe succedere di tutto. Medio Oriente. La corsa per non abbandonare Gaza. Emergency entra, da Caritas i vaccini di Anna Maria Brogi Avvenire, 28 agosto 2024 Il primo caso di poliomielite nell’area umanitaria della Striscia di Gaza preoccupa. Tanto che l’Unione Europa ha invocato tre giorni di tregua per consentire la vaccinazione. Una polveriera. Per farla esplodere basterebbe un cerino. Un’epidemia, ad esempio. E il primo caso di poliomielite nell’area umanitaria della Striscia di Gaza, registrato pochi giorni fa, preoccupa. Tanto che l’Unione Europa ha invocato tre giorni di tregua per consentire la vaccinazione. Caritas Gerusalemme, i cui operatori non hanno mai lasciato la Striscia (due vi sono morti), si prepara a somministrare i vaccini con le sue 14 squadre mediche coordinate da 7 centri (altri due non sono operativi per ragioni di sicurezza), sia nel nord di Gaza City, nella parrocchia della Sacra Famiglia, sia nel centro-sud a Khan Yunis e Deir al-Balah. Tra un mese dovrebbe essere attiva anche la missione di Emergency, che ha già dato la propria disponibilità a vaccinare all’Organizzazione mondiale della Sanità. Era da gennaio che Emergency si preparava per entrare a Gaza: sotto l’aspetto organizzativo, finanziario, burocratico. Il 15 agosto vi ha messo piede con i primi due operatori logistici incaricati di aprire la strada a medici e infermieri. E ieri l’ha annunciato. Se lavorare in un teatro di guerra è sempre complesso, avviare una missione a Gaza è un percorso a ostacoli. “Qui più che altrove conta la collaborazione tra Ong, fatta di contatti personali e informali. Perché chi è dentro conosce la difficoltà” spiega Alessandro Manno, che ha coordinato il progetto. Primo ostacolo: entrare. Con il valico egiziano di Rafah chiuso da fine maggio, quando l’esercito ne ha occupato il lato palestinese, e il valico di Erez con Israele, a nord, scollegato dall’area umanitaria, l’unico passaggio utile è il valico israeliano di Kerem Shalom (a sud, vicino a Rafah) arrivando dalla Giordania. Praticamente si costeggia la lunghezza della Striscia dal territorio israeliano. “L’accesso a Gaza - osserva Manno - è consentito solo ai convogli Onu previo via libera del Cogat, l’organismo al quale si affida la Difesa israeliana. Ormai non partono più di due convogli alla settimana, di 5 o 6 veicoli. I posti sono pochissimi. Servono a garantire il ricambio del personale straniero. Dopo mesi di attesa, e sotto l’ombrello legale dall’Oms, finalmente abbiamo portato nella Striscia due persone”. Il materiale sanitario dovrà attendere. “Prima bisognerà individuare il terreno dove costruire la struttura, tendata o comunque leggera. Forniremo prima emergenza e stabilizzazione, in caso di traumi e ferite prima dell’invio in ospedale, ostetricia e assistenza infermieristica”. A dilatare i tempi sono le regole decise dal Cogat: pensate per bloccare ogni tipo di aiuto ad Hamas, impongono lunghi iter di approvazione per materiali quali pannelli solari, sterilizzatori, concentratori di ossigeno (“indispensabili per pazienti con difficoltà respiratorie, non essendoci bombole”). E fissano un tetto al denaro contante “pari all’equivalente grosso modo di 3.000 dollari a persona”. Una cifra ridicola per mettere in piedi una struttura sanitaria. “L’Oms ha materiali sul posto da donare, per il resto dobbiamo acquistarli sul mercato locale dove il prezzo del cemento è quadruplicato e quello dei generatori decuplicato”. Una volta superati gli ostacoli, Emergency conta di far arrivare 6 o 7 operatori sanitari e assumerne una ventina sul posto. “Con gli ospedali semidistrutti e i civili evacuati, nella zona umanitaria sono molti gli infermieri che cercano lavoro”. La situazione tra gli sfollati è allarmante. Sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie precarie, carenza di acqua potabile e di cibo. “I nostri due colleghi sono esperti - assicura Manno -. Hanno lavorato in Afghanistan e in Ucraina. E abbiamo una base logistica ad Amman. Ma i rischi per la sicurezza vanno valutati di giorno in giorno”. Lunedì l’Ocha, l’ufficio umanitario dell’Onu, ha minacciato di lasciare Gaza a causa dei continui ordini di evacuazione. “Mi rifiuto di pensare che Ocha voglia andarsene, spero che stia facendo pressione per ottenere garanzie. Se mollasse - riflette Manno - non solo verrebbe a mancare il coordinamento ma darebbe un segnale negativo a tutte le Ong”. Come dire: non ci sono più nemmeno le condizioni di sicurezza per portare aiuto. Medio Oriente. Carcere estremo in Israele: botte e urina nelle celle di Francesca Mannocchi La Stampa, 28 agosto 2024 Soprusi e umiliazioni. Condizioni sempre più dure per i palestinesi. È il nuovo corso nelle prigioni israeliane imposto dal ministro Ben Gvir. Quando Abdul Massit Mutan è uscito di prigione, lo scorso aprile, i suoi figli non l’hanno riconosciuto. L’uomo che varcava la soglia della prigione di Ofer, in una tuta grigia, con la barba lunga, incolta e gli occhi anneriti dalle botte, non poteva essere il loro padre. Invece era proprio lui, Abdul Massit Mutan, 48 anni vissuti a Ramallah, ma con 25 chili di meno. Quando è stato arrestato nel 2022 Mutan era in detenzione amministrativa, senza un’accusa, cioè senza la possibilità di difendersi. È così che funziona per la stragrande maggioranza dei detenuti palestinesi. Al secondo rinnovo della detenzione amministrativa, cioè dopo un anno, Mutan ha chiesto di parlare col capitano delle guardie carcerarie. “Mi dica qual è il mio problema. Perché mi tenete, qui? Non ho dato soldi a nessuno, non ho mai fatto parte di cellule militari, non ho mai partecipato a manifestazioni o proteste, perché mi tenete qui?”. Il capitano gli rispose che sapevano che tutto quello che diceva era vero, ma che avrebbe potuto forse rappresentare una minaccia per la sicurezza in futuro. Mutan, prima di tornare in cella disse solo: “non è giusto”. E il capitano rispose: “è così che vanno le cose in detenzione amministrativa e sono io a decidere chi entra e chi esce”. L’arresto di Mutan era stato violento. I soldati di notte avevano sfondato la porta di casa sua, avevano chiuso i suoi figli e sua moglie in una stanza, lo avevano legato mani e piedi prima di portarlo nella vicina prigione di Ofer. Mentre lo portavano via pensava solo: “speriamo almeno che mi lascino curare”. Mutan, l’attivista sociale noto a tutti a Ramallah per lavorare con i giovani e le donne, aveva un cancro al colon. Per mesi non ha ricevuto cure né potuto vedere medici, finché una rivolta dei prigionieri ha costretto le guardie carcerarie a concedergli di essere portato in ospedale. L’hanno legato mani e piedi con le catene, è stato portato in un ospedale, è stato operato e dopo qualche settimana riportato in cella, ma in un’altra prigione a Ktziot, nel deserto del Negev. Era lì il 7 ottobre. Era lì soprattutto nei mesi successivi, quando nelle carceri israeliane tutto è precipitato. Dopo il 7 ottobre - “Fino al 7 ottobre mi sono sentito regredito come essere umano. Spesso legato mani e piedi, senza sapere perché fossi lì, né quando sarei uscito, eppure sforzandomi riuscivo a sentirmi ancora un essere umano, con una parvenza di dignità. Poi siamo diventati animali”. Sono numerosi i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani e delle Nazioni Unite che da mesi denunciano lo scandalo delle condizioni dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Innanzitutto uno sguardo ai numeri: dal 7 ottobre i detenuti palestinesi nelle prigioni israeliane sono più che raddoppiati. Stando agli ultimi dati, di Addameer Prisoner Support and Human Rights Association, una Ong palestinese, nelle prigioni israeliane sono detenuti più di 9.500 palestinesi di cui oltre 3.500 in detenzione amministrativa, cioè senza accusa e spesso senza la possibilità di vedere né legali né familiari, per sei mesi rinnovabili per quattro volte. Cifra che non include i detenuti di Gaza, trattenuti in strutture separate dell’esercito israeliano. I dati sono confermati anche dalle Nazioni Unite e da HaMoked, un gruppo israeliano in difesa dei diritti umani che si occupa di raccogliere i dati dalle autorità carcerarie. Tra i 9.500 detenuti palestinesi, ci sono sia i presunti miliziani catturati durante i raid militari nei territori occupati, ma anche migliaia di persone arrestate per aver pubblicato un post sui social media critico nei confronti di Israele. O per aver partecipato a gruppi di attivismo politico, anche non violento, come confermato da un recente rapporto delle Nazioni Unite. E ci sono circa 500 minorenni. Per tutti, l’inizio dell’offensiva militare su Gaza ha coinciso con un sistematico cambio di passo: i prigionieri sono stati sottoposti a riduzione di acqua e cibo e ad alcuni di quelli con malattie croniche sono state negate le cure. Le percosse sono diventate più regolari e più brutali. Stanno emergendo storie terribili di violenza sessuale. Come nella prigione di Sde Teiman, una base militare nel deserto, dove è trattenuta parte dei palestinesi catturati nei raid della Striscia di Gaza. Dieci soldati sono stati accusati di aver sodomizzato un detenuto palestinese. Cinque di loro sono già stati rilasciati. Intanto, in dieci mesi, sono 38 le morti accertate di prigionieri palestinesi nelle sole strutture militari. L’esercito israeliano ha detto ad Associated Press che si tratta di casi di prigionieri con “malattie o ferite pregresse causate dalle ostilità in corso”, senza però fornire ulteriori dettagli o evidenze. I medici del Physicians for Human Rights-Israel, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, hanno potuto leggere i referti delle autopsie di cinque dei detenuti morti in prigione. Due di loro presentavano segni di traumi fisici come costole rotte, mentre la morte di un terzo “avrebbe potuto essere evitata se ci fosse stata maggiore attenzione per le sue esigenze mediche”. Un’inchiesta analoga ha consentito alla Bbc di avere accesso all’esame di un altro detenuto morto in prigione, Abdulrahman Mari. Il referto, analizzato da Danny Rosin, un medico del gruppo Medici per i diritti umani, parlava di lividi esterni anche sulla schiena, natiche, braccio sinistro e coscia, così come il lato destro della testa e del collo. Secondo Rosin “si può supporre che la violenza subita da Mari, manifestata dalle molteplici contusioni e dalle molteplici gravi fratture delle costole, abbia contribuito alla sua morte”. I funzionari israeliani hanno riconosciuto di aver reso le condizioni più dure per i palestinesi nelle prigioni, con il Ministro della sicurezza nazionale, l’esponente dell’ultra-destra religiosa Itamar Ben Gvir che si vanta pubblicamente che sotto la sua gestione le prigioni non saranno più “campi estivi”. Ben Gvir la chiama deterrenza. I prigionieri e le organizzazioni in difesa dei diritti umani li chiamano violenza, abusi, fame. Tutti i palestinesi con cui La Stampa è stata in grado di parlare in questi mesi, pur provenendo da prigioni diverse, hanno riportato dettagli analoghi e coerenti a un inasprimento sistematico della violenza. A terra come i cani - Nei primi giorni successivi al mortale attacco di Hamas, ad Abdul Massit Mutan come agli altri detenuti nel Negev e nel resto di Israele, hanno portato via i vestiti, costringendoli a restare mesi con gli stessi stracci addosso, tagliato la corrente e cominciato i turni di aggressioni punitive. “Non erano più solo botte, portavano i cani per attaccarci. Li chiamavano i party delle botte. Arrivavano le forze speciali con le maschere e prelevavano un gruppo di detenuti a caso, prima di spostarci in una cella, legati. Poi ci facevano abbassare le teste e ci picchiavano in modo selvaggio. Quando ritornavamo nella nostra cella, i soldati avevano urinato a terra e sui muri”. Poi è toccato al cibo e all’acqua. Hanno iniziato a ridurre al minimo il cibo, tre cucchiai di riso a pranzo e tre a cena. E i corpi hanno iniziato a deperire. In un video che lo mostra appena tornato a casa, Mutan alza la maglietta grigia e sul suo petto si contano le costole una a una. Quando è entrato in carcere pesava circa 80 chili. Quando è uscito, poco più di 50. “Non riuscivo a stare in piedi, avevo fame e insieme paura e orrore, e non chiedevo più di essere curato. Perché chi chiedeva di essere curato veniva picchiato ancora più duramente quando dall’infermeria tornava in cella”. Oggi Mutan è a casa, sta pian piano riprendendo peso e ha ricominciato le sue cure. Sa che potrebbe essere arrestato di nuovo domani, o tra un anno, se sopravvive. Intanto fa i conti ogni giorno e ogni notte con la memoria delle umiliazioni e delle violenze subite. Tra tutte, due. Gli anziani che piangevano per la fame. E le visite. Quando nella prigione arrivavano i funzionari, o i ministri come Ben Gvir stesso, le celle - dice - diventavano uno zoo: “A terra come i cani, le nostre teste sul pavimento. Loro ci scattavano le foto, ci dicevano sporchi arabi e ci sputavano addosso”. Non una parola d’odio, non una sfumatura di rancore. Solo la cronaca dettagliata di mesi di umiliazioni che Abdul fa di fronte a suo figlio. Per non dimenticare, per far sì che non dimentichi nemmeno lui.