Il Decreto carceri e la politica incapace di risolvere un problema di civiltà di Lucio Motta filodiritto.com, 27 agosto 2024 Affrontare il sovraffollamento carcerario resta un miraggio: con 65 detenuti morti per suicidio - circa due alla settimana - e 7 agenti deceduti nella medesima maniera; con circa 14.000 detenuti in più rispetto alla capienza, la legge di conversione del decreto carceri è inadeguata per i bisogni e cieca rispetto alle urgenze. La Camera dei deputati ha approvato in via definitiva (ancora con la fiducia) la conversione in legge del cosiddetto “decreto carceri”, che introduce una serie di misure con cui il governo dichiara di voler affrontare il problema del sovraffollamento delle carceri italiane. Il testo era stato approvato dal Consiglio dei ministri a inizio luglio e era passato all’esame del Senato con un voto di fiducia. Per migliorare la gestione delle strutture carcerarie, il testo prevede l’assunzione di un massimo di 1.000 agenti della polizia penitenziaria fra il 2025 e il 2026, oltre a venti nuove figure dirigenziali. Il decreto si rivolge anche ai detenuti, prevedendo misure finalizzate a migliorarne le condizioni di detenzione. Su tutte, l’aumento delle telefonate consentite ogni settimana, che verranno regolamentate in seguito mediante regolamento ancora da redigere: “Il decreto interviene sull’edilizia penitenziaria e timidamente ritocca la custodia cautelare, ma di certo non offre le risposte necessarie e urgenti per la drammatica situazione delle carceri italiane”. Caro signor Ministro on. Nordio è tutto qui? A leggere, anche solo superficialmente la legge (prodotta con tanto di energico braccio di ferro in sede parlamentare dove blindata con il voto di fiducia si è impedito ogni anche minimo miglioramento possibile proveniente dalla discussione e dal confronto in aula) si evince tutta la pochezza del provvedimento che oltre ad essere una ennesima occasione sprecata, evidenzia il vuoto qualunquismo di una politica che si ostina a credere che il popolo ancora possa credere a parole generiche e di mero proclamo. Basti pensare agli interventi dei vari politici (leader o seconde terze file) della maggioranza di governo per capire quanto vuoto inutile ci sia in un provvedimento legislativo che non risolve nulla, anzi con l’introduzione del nuovo reato di cui al nuovo art. 314-bis c.p. peculato per distrazione, introduce una nuova fattispecie di reato che potenzialmente va ad aggravare la situazione delle carceri e del sistema penale. Veramente signor Ministro on. Nordio lei pensa che da questa legge ne possa scaturire un alleggerimento del sovraffollamento carcerario? Lei che legge Hegel e si illumina con la meditazione della ragion pratica pensa veramente che raccontarla al popolo italiano possa d’incanto risolvere un sovraffollamento strutturale atavico e cronico frutto di una sovrapproduzione di norme fatte a seconda delle convenienze di una politica preoccupata ed occupata ad acquisire il consenso popolare che invoca vendetta, piuttosto che governare un sistema, quello penale, da riscrivere in modo costituzionalmente ispirato? Caro on. Nordio, lei che per oltre quarant’anni ha manipolato codici e processi, mandato a processo migliaia di italiani e non, Lei che ha inquisito mezza popolazione veneta e l’altra metà l’ha brandita con il terrore, pensa veramente che basta una vuota leggina capace di partorire il topolino di cose ovvie e già esistenti? (le due telefonate mensili da 10 minuti esistono già, già sono nella disponibilità dei Direttori del carcere…basta volerlo… - i 1000 agenti che promette salvo non dire nelle interviste in due anni 2025 e 2026 non bastano nemmeno a neutralizzare gli agenti che nel biennio andranno in pensione, lasciando così soli i poliziotti in servizio a cui non regala nessun rinforzo - la detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni esiste già basta applicarla - il registro delle comunità idonee all’accoglienza e al reinserimento dei detenuti, che dipenderà direttamente dal ministero della Giustizia, si tratta di luoghi in cui i detenuti avranno accesso sia ai servizi di accoglienza residenziale che a percorsi di reinserimento socio-lavorativo. Su questo è intervenuto direttamente il Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza (Cnca), affermando che senza le adeguate risorse il rischio per le strutture è quello di diventare “piccole prigioni private”, senza poter garantire condizioni dignitose, Non è che ci ritroveremo tra 10 anni a registrare dei piccoli lager come si è scoperto per le RSA private convenzionate?. Signor Ministro on. Nordio, Lei che è stato a capo della Commissione parlamentare per la riforma del Codice Penale, producendo un testo rimasto dal 2006 nel cassetto polveroso di qualche scrivania al Ministero ed alla Presidenza del Consiglio, veramente pensa che la sua leggina vuota possa conciliare il Codice Fascista ancora in vigore con la cultura garantista e risocializzativa dell’art. 27 della Costituzione Italiana? Signor Ministro on. Nordio, perché raccontare nelle interviste e nelle conferenze stampa alla TV italiana, che il Decreto risolve il problema del sovraffollamento rendendo la condizione carceraria più umana? Perché mentire sapendo di mentire? Per attenuare l’impatto dei suicidi in carcere è necessario stemperare la tensione crescente data dal sovraffollamento unito alla solitudine della condizione detentiva: bastava regalare ai detenuti la possibilità di restare in contatto con le famiglie telefonicamente dalla cella quanto desiderano (come in Francia in Spagna ed in altri stati europei, dove ogni dentuto è dotato di telefono abilitato a pochi numeri in chiamata così da comunicare con le famiglie ogni volta che scende l’umore che la solitudine determina il groppo alla gola e alimenta il pensiero di farla finita … d’altra parte lo dice anche il noto spot pubblicitario: “una telefonata allunga la vita”) - con una semplice concessione che non sposta nulla rispetto alla tanto cara certezza della pena a difesa della quale non si possono concedere sconti di pena, si sarebbe attenuato il rischio suicidi. Signor Ministro on. Nordio, senza sconti ma con l’applicazione automatica della misura alternativa della detenzione domiciliare sotto ai tre anni di residuo pena, avremmo liberato almeno 10mila posti detentivi in carcere, senza derubricare nulla se non variando il luogo della espiazione secondo una norma che già esiste e che la burocrazia di una Magistratura di Sorveglianza che per sentirsi più protagonista pretende di soggiogare ad un vaglio di giudizio… ma il condannato è già stato giudicato, non serve un giudizio nuovo per dare o non dare la detenzione domiciliare, questa modalità diversa di espiazione nel proprio domicilio è già prevista dalla legge, basta applicarla ed avremo meno detenuti in cella nella fase residua e finale della pena… Vede Ministro quante cose si potevano fare a costo zero…e non si sono fatte pur dichiarando di aver risolto il problema che risolto NON è!? L’Edilizia penitenziaria è inadeguata e necessita di interventi: che fine hanno fatto le caserme che Lei dichiarò ormai un anno fa disponibili ad ospitare detenuti in uscita per alleggerire il sovraffollamento delle celle? Il Depurato on. Lupi, di maggioranza, visitando in questi giorni il Carcere di Opera a Milano ha scoperto che nelle celle non c’è l’acqua calda (l’art. 7 DPR 230/2000 Regolamento penitenziario al comma 2) recita: I vani in cui sono collocati i servizi igienici forniti di acqua corrente, calda e fredda, sono dotati di lavabo, di doccia e, in particolare negli istituti o sezioni femminili, anche di bidet, per le esigenze igieniche dei detenuti e internati. - NON ci sono docce e NON c’è acqua calda corrente in nessun carcere italiano - nelle sezioni femminili Non ci sono neppure bidet per l’igiene intima). Eppure l’on. Lupi ha frequentato spesso i penitenziari italiani e all’epoca della detenzione dell’amico Formigoni si recava in carcere settimanalmente: solo ora si accorge che non c’è acqua calda?? Signor Ministro on. Nordio, faccia un giro nelle sezioni delle carceri, parli con i detenuti, vada a vedere quanto illegali siano le brande a castello prive di scalette di salita e di sponde di protezione… il carcere italiano è illegale… ed è incostituzionale. Ilaria Salis, l’abolizionismo carcerario e la pena utile di Massimo Lensi Il Domani, 27 agosto 2024 Ilaria Salis, in questi giorni, è stata sottoposta ad aspre critiche e sfottò di vario genere per la sua dichiarazione in favore dell’abolizione del carcere. Senza voler prendere le difese dell’eurodeputata Avs, è bene ricordare che le teorie abolizioniste e riduzioniste dell’istituzione carceraria sono antiche e hanno padri nobili: da Max Weber a Michel Foucault, da Nils Christie al giurista Alessandro Baratta, da Luigi Ferrajoli a Thomas Mathiesen - fondamentale il suo “Perché il carcere?”, gruppo Abele, 1996 - l’elenco è lungo. A prescindere dalle antipatie o dalle simpatie culturali nei confronti dell’abolizionismo e del riduzionismo, o in subordine di Ilaria Salis, è bene ricordare anche che questa teoria generale nega l’afflittività e la repressività nella sanzione penale poiché valuta la necessità di realizzare percorsi migliori e alternativi sia alla rieducazione sia alla retribuzione. La stessa mediazione penale, per i riduzionisti, ha la capacità di ricomporre la pace sociale senza ricorrere a luoghi di coazione detentiva. Non significa, quindi, aprire le porte del carcere. La base è il diritto penale minimo, e lo sfondo teorico sempre modellato da un profondo senso di giustizia. Del resto, il carcere attuale non restituisce e non reintegra alcuna forma di giustizia. Esso è dunque considerato privo di utilità. Il concetto su cui si fondano le teorie generali del riduzionismo e dell’abolizionismo è proprio questo: l’utilità della sanzione. L’istituzione penitenziaria, istituzione totale, tutela esclusivamente il potere costituito dello stato di diritto, non il reo, non la vittima del reato, non la società nel suo complesso. Sia nella fase processuale sia in quella di esecuzione di pena. Uno dei fenomeni tipici del punizionismo, per esempio, è l’ipertrofia del diritto penitenziario. In conclusione, Ilaria Salis avrà forse peccato di ingenuità ideologica (il radicalismo abolizionista di Angela Davis), ma l’abolizionismo carcerario è cosa seria, una sorta di avanguardia, teorica e in alcune situazioni già in sperimentazione, del futuro della penalità. Non è come giocare a Monopoli e prendere la carta “Uscite gratis di prigione”, che poi gratis nella realtà non è mai. Il reo, nel giustizialismo classico, deve sempre inutilmente “pagare”. In quello riduzionista, deve, invece, utilmente “riparare”. Il carcere privato in Italia, fra utopia e distopia di Massimo Lensi thedotcultura.it, 27 agosto 2024 Un penitenziario che incarcera per ottenere un guadagno. La politica divide con metodo gli schieramenti: da una parte i pragmatici, quelli che vogliono cambiare le cose, dall’altra gli inutili, che, all’opposto, giocano sulla falsariga della felice utopia. Del primo gruppo fanno parte settori della maggioranza e anche alcune opposizioni; il secondo gruppo è, invece, appannaggio dei duri & puri, che preferiscono l’amor proprio all’obiettivo da raggiungere con una mediazione. Una sorta di tanto peggio tanto meglio costruito su granitiche certezze. Le politiche penitenziarie hanno la proprietà di evidenziare con chiarezza i due gruppi, dando la possibilità di osservare, a distanza, le varie proposte in campo: a volte pessime ma dotate di concretezza, altre volte perfette ma impossibili da realizzare. La politica è sempre mediazione. Da quando il Governo Meloni ha giurato di fronte al Presidente Mattarella, è stato subito abbastanza chiaro che uno degli obiettivi governativi per riformare il sistema della penalità italiana sarebbe stato privatizzare alcuni settori dell’esecuzione penale. Le dimore sociali del ministro di Giustizia Nordio e le comunità educanti del sottosegretario Ostellari attestano che un ragionamento è in corso. Del resto, le condizioni inumane e in continuo peggioramento del sistema penitenziario, il tasso di affollamento negli istituti e il declassamento dell’articolo 27 della Costituzione già da tempo motiverebbero ad agire. Un cammino certo lungo e imprevedibile, di cui ancora non c’è un benché minimo progetto di fattibilità, solo intuizioni e un pugnetto di tentativi laterali. Qualche giorno fa, il quotidiano la Repubblica ha concentrato l’attenzione su questo tema, dando spazio a qualche interessante riflessione: pragmatica e attendista quella dell’ex Garante nazionale dei detenuti Palma, critica quella di Gennarino De Fazio del sindacato di Polizia Penitenziaria Uilpa. È ancora tutto sulla carta, ma evidentemente s’inizia a discuterne (in L. Milella, “Dalle celle alle dimore sociali o coop”, La Repubblica, 19 agosto 2024). La prigione privata è un penitenziario che incarcera le persone che hanno commesso un reato, per ottenerne un guadagno. Più sono i reclusi, più la struttura guadagna. Gli Stati Uniti sono il paese il leader di questo business, insieme a Australia e Inghilterra. Non è qui il caso di entrare diffusamente sulla teoria del reato negli Usa, è tuttavia utile ricordare che, in questo periodo, il sistema penale di quel Paese è concentrato soprattutto su profili di policy reform e advocacy, con il fine di mettere in atto azioni in grado di trasformare gli interessi della popolazione o dei cittadini in diritti. Il sistema di giustizia penale statunitense presenta, infatti, problemi strutturali molto gravi: dall’incarcerazione di massa alla pena di morte, dalla disparità razziale nel sentencing alla war on drugs, dal controllo delle armi all’uso della forza letale da parte della polizia. Tornando alla ragion d’essere del carcere privato, cioè il profitto, prendo ad esempio i termovalorizzatori. Per guadagnare questi impianti hanno bisogno di grandi quantità di rifiuti solidi urbani. Il carcere privato funziona allo stesso modo, solo che al posto dei rifiuti solidi urbani “brucia” (uso un tropo, ovviamente) rifiuti umani, i “marginali” e gli scartati della società. Negli Usa, ventotto stati hanno reclusi in prigioni private. Secondo l’organizzazione non governativa Sentencing Project, che si occupa dei diritti delle persone in carcere, nel 2022 quasi 91mila detenuti sul totale di 1,2 milioni erano in prigioni private. Non pochi. CoreCivic e Geo Group sono le due principali società americane che controllano il mercato della detenzione privata. Esse non si occupano solo della gestione diretta delle prigioni, ma anche dei fornitori, dei programmi di riabilitazione (peraltro solo apparenti), e di tante altre cosette tra cui la proprietà degli edifici in cui hanno sede gli uffici governativi. Negli ultimi anni le due società hanno firmato nuovi contratti di appalto e, con Trump al governo, le azioni della CoreCivic e Geo Group sono aumentate rispettivamente del 43% e del 21%. Un mercato in espansione. Business is business. Tornando in Italia, adesso dobbiamo porci una domanda: la privatizzazione delle carceri, o di alcuni settori dell’esecuzione penale, è praticabile? Il nostro ordinamento ha sempre escluso una possibile privatizzazione delle carceri. A oggi, però, le condizioni degli istituti penitenziari italiani sono degradate a tal punto da aver rimescolato le priorità dell’esecutivo, anche e soprattutto per paura di condanne internazionali al nostro Paese. Le nostre carceri, infatti, da molti anni rappresentano la vergogna, anche a livello internazionale, della giustizia italiana: dall’essere luoghi di rieducazione sono diventati dei veri e propri luoghi di emarginazione dove, a farla da padrone, è il tasso di affollamento, che ha come immediata e inevitabile conseguenza l’affievolimento dei diritti fondamentali dei detenuti. Il problema dunque si pone nella concretezza di dare all’esecuzione di pena un significato attinente ai principi costituzionali e del diritto internazionale relativo alla tutela dei diritti della persona. L’articolo 27 della Costituzione recita chiaramente che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il carcere, dunque, non deve solo promuovere attività capaci di rieducare i detenuti preparandoli al loro reinserimento nella società, prospettiva questa da libro dei sogni, ma deve soprattutto rispettare e tutelare i diritti fondamentali. La drammatica stagione dei suicidi in carcere e la situazione in cui versano le carceri italiane palesano ormai con chiarezza che l’articolo 27 della Costituzione è, di fatto, lettera morta: il sovraffollamento degli istituti penitenziari è sistemico, l’incapacità di assicurare la realizzazione di attività rieducative è ormai una costante e le condizioni igieniche in cui molti detenuti devono vivere sono non di rado ributtanti. Un effetto naturale dovuto a difficoltà oggettive oppure si può iniziare a intravedere una regia, seppur inconsapevole, per dirigere la macchina della penalità verso la scelta della carcerazione privata? Difficile al momento dare una risposta. Potremmo solo aggiungere che, nonostante i diversi tentativi legislativi e i richiami dalla Corte EDU, l’Italia non è ancora riuscita a risolvere queste gravissime problematiche. Solo una via sembra apparire allora sulla carta percorribile: la privatizzazione degli istituti penitenziari. Si tratta di una soluzione che, come un diavoletto tentatore, si fa di mese in mese sempre più tangibile. Gli ostacoli da superare sono, in effetti, molti e di difficile soluzione. Se da una parte con la privatizzazione tout court dell’esecuzione penale si verrebbe a ledere il principio di sovranità dello Stato, dall’altra parte si potrebbe affermare che l’amministrazione della giustizia in fase di esecuzione non funziona per motivi anche economici. Il cavallo di Troia è proprio in questa constatazione. Ed è un cavallo, per fortuna, zoppo. Per questa ragione, nel nostro Paese, se da un lato si riconosce che una gestione delle strutture penitenziarie assistita da capitali privati consentirebbe alla sovranità statale di esercitare nella forma più economica, efficace ed efficiente possibile, l’amministrazione della giustizia, dall’altro la prassi dell’esternalizzazione in materia carceraria sarebbe molto limitata e circoscritta prevalentemente alla gestione di alcuni servizi strumentali, come ad esempio, il vettovagliamento dei detenuti affidato ad aziende private alle quali il servizio è appaltato. Proseguiamo l’analisi. Il decreto legge sulle liberalizzazioni del 24 gennaio 2012 ha però inserito lo strumento del Project financing per la costruzione di nuovi istituti penitenziari. In questi mesi se ne parla di nuovo per l’ipotesi dei progetti di edilizia carceraria che il Governo Meloni avrebbe intenzione di avviare, in nome della battaglia di civiltà contro il tasso di affollamento dei nostri istituti (che ha raggiunto al 31 marzo di quest’anno, secondo l’associazione Antigone, la media nazionale del 119,3%). In tempi di populismo penale, tuttavia, la “buona” intenzione si scontra anche con i progetti altrettanto evidenti di mass-incarceration, a partire dai nuovi e più svariati reati introdotti da due anni a questa parte. Il Project financing carcerario realizzerebbe, del resto, un dispositivo economico in grado di consentire la partecipazione di grandi aziende, imprese private, fondi finanziari o banche alla progettazione, costruzione e gestione di nuove carceri. Lo Stato, in altri termini, permetterebbe all’azienda, che ha partecipato alla progettazione e costruzione, di trarre i propri profitti dalla gestione della struttura in tutti i suoi servizi e mansioni, eccetto quella custodiale, a causa del principio di sovranità statale. Quindi, benché in Italia il business carcerario non abbia ancora una legislazione adeguata per essere praticato integralmente, non possiamo escludere del tutto la possibilità che il nostro Paese segua, alla fine, le orme del sentencing americano. La domanda più importante da porsi però, sarebbe un’altra: la privatizzazione teoricamente in corso di alcuni settori dell’esecuzione penale rappresenta una reale soluzione ai problemi dei nostri istituti penitenziari, oppure è soltanto modo come un altro per aggirare il vero problema, e cioè la necessità di una seria riforma dei principi punitivi dello Stato e dell’esecuzione penale nel nostro Paese? In Italia, lo sappiamo, rinviare è sempre meglio che affrontare di petto il problema. L’autunno caldo di Tajani, dalle pensioni alla giustizia. I rischi sullo ius scholae di Giulia Merlo Il Domani, 27 agosto 2024 Forza Italia ha scelto l’inedito ruolo di pungolo del governo. Dopo un agosto di attivismo inaspettato da parte di Forza Italia, l’interrogativo è che cosa, delle questioni sollevate, sopravvivrà alla riapertura del parlamento a settembre. L’ultima in ordine di tempo è lo ius scholae - ovvero una modifica alla legge sulla cittadinanza per prevedere che i minori possano acquisirla dopo la conclusione di un ciclo di studi - proposta da Antonio Tajani nell’ottica di riposizionare il partito su una linea liberale. Osteggiata dalla Lega, che per ribadire il suo no ha addirittura scomodato la memoria di Silvio Berlusconi rilanciando un video in cui il fondatore degli azzurri si diceva contrario all’idea, e accolta freddamente anche da Fratelli d’Italia, il vicepremier ha scelto una linea ondivaga. Pur ribadendo che la questione non fa parte del programma del governo, ha comunque sostenuto il diritto di FI di aprire una discussione. Anche se “non è una priorità di questi giorni” e sono esclusi “accordi con la sinistra”. E, nonostante il molto parlare, lo ius scholae non sarà al centro del prossimo vertice di maggioranza del 30 agosto. Eppure, quel che somiglia al proverbiale lancio di sasso per poi ritirare la mano rischia e di trasformarsi in un boomerang per FI. Azione, infatti, ha annunciato con il suo leader Carlo Calenda che presenterà una proposta di legge sullo ius scholae “negli esatti termini richiesti da Forza Italia. Questo balletto sulla pelle di 560.000 ragazzi che studiano nelle nostre scuole è un tantino indecente”. Se così sarà, Tajani sarà davanti a un bel dilemma: rimanere coerente oppure trovare una buona ragione per rimangiarsi le riflessioni di agosto. La giustizia - Altro capitolo su cui Forza Italia si è spesa con posizioni autonome rispetto al governo è stata la giustizia, sia sul fronte della riforma costituzionale Nordio che sul decreto carceri. Se sulla prima un accordo di maggioranza c’è e anzi, la riforma avrà la precedenza anche rispetto a quella del premierato, sull’emergenza carceri la situazione è più complicata. Dopo aver manifestato la propria delusione per la poca incisività del decreto legge licenziato in luglio, FI ha appoggiato apertamente la posizione del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ha intenzione di proporre modifiche alla custodia cautelare in carcere. Questa linea, però, non è stata ancora formalmente condivisa con FdI e Lega, che hanno tentato di smorzare le spinte del guardasigilli pur senza sconfessarne le dichiarazioni. In ogni caso, tutto starà alla proposta di riforma che Nordio presenterà. Con una certezza: i deputati di FI hanno passato un’estate a girare per le carceri insieme al partito radicale e l’iniziativa sfocerà in una spinta affinché il governo metta in campo nuove iniziative, magari recuperando parte degli emendamenti presentati da Pierantonio Zanettin al dl carceri e in buona parte cassati. Infine, nell’agenda giudiziaria degli azzurri c’è la modifica alla legge Severino, che impone la decadenza degli amministratori condannati in primo grado per reati contro la pubblica amministrazione. Si tratta di un altro pallino di Nordio ed è una antica battaglia di Berlusconi, che proprio a causa di questa legge dovette abbandonare lo scranno in Senato, ma anche su questo gli alleati frenano. In particolare FdI, che all’epoca dei referendum leghisti sulla giustizia si espressa a favore di quattro quesiti su sei, escludendo proprio quello sulla abrogazione della legge Severino. Le pensioni minime - Settembre significa soprattutto manovra finanziaria. Anche su questa il segretario di FI ha fissato le sue priorità a margine del meeting di Rimini di Comunione e liberazione. Tre i punti: “Ridurre la pressione fiscale, continuando con il taglio del cuneo”, “rifinanziare i fondi che garantiscono prestiti per lo studio, per la prima casa” e infine “le pensioni minime vanno aumentate: il percorso è quello di arrivare ai 1.000 euro alla fine della legislatura, però bisogna ancora fare un piccolo passo”. Una ricetta, questa, che trova d’accordo gli alleati in particolare sul taglio del cuneo fiscale. Tutto il resto andrà negoziato durante il vertice di maggioranza e la parola d’ordine lanciata dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti è sempre la stessa: serve un confronto sui tagli di spesa. Il ritorno alle regole, seppur riformate, del patto di Stabilità e la procedura contro l’Italia per deficit eccessivo impongono infatti sacrifici che mal si coniugano con nuovi impegni di spesa auspicati da FI. L’autonomia - Capitolo a parte riguarda infine l’autonomia differenziata. La legge Calderoli è ormai stata approvata ma il vero motore sono i livelli essenziali delle prestazioni su 23 materie, che non sono ancora stati fissati dal Mef. Quindi, benché la Lega spinga perché si inizino a discutere le intese tra Regioni e Stato, tutto è ancora fermo e può rimanerlo ancora per due anni, ovvero il tempo fissato dalla legge per determinare i Lep. Al netto delle tecnicalità, però, il problema sempre più evidente è politico e viene dalle regioni del sud, molte delle quali guidate da FI. che hanno già espresso le loro preoccupazioni. Tajani ha precisato che vigilerà affinché l’autonomia non penalizzi il meridione, allargando la forbice con le regioni leghiste del nord: “Vigilare non significa essere contrari, ma far rispettare alcuni parametri e decisioni prese dal parlamento: prima i Lep e poi l’applicazione, e per le materie fuori dai Lep, come il commercio internazionale, fare in modo che non si crei confusione”. Quest’ultima precisazione è fondamentale: dai ranghi di FI, ma anche da parte di FdI, c’è molto scetticismo sull’opportunità di devolvere alle regioni alcune competenze che, se frammentate, creerebbero una babele di regole diverse sul territorio nazionale. Tajani ha parlato per sè - il commercio internazionale riguarda anche il suo dicastero, quello degli Esteri - ma la linea è condivisa anche da altri ministeri: le intese con le regioni non sono automatiche, dunque non è scontato che vengano concesse nel caso in cui i rispettivi dicasteri lo reputino la devoluzione di alcune competenze poco consono alle necessità nazionali. Con buona pace delle aspettative leghiste. Forza Italia, dunque, si avvia verso un autunno nell’inedito ruolo di pungolo al governo, “che non è a rischio”, continua a dire Tajani. Rimane da vedere, allora, con quale capacità e fino a che punto gli azzurri riusciranno a condizionare l’agenda di Giorgia Meloni. I “Direttori della Giustizia” contro Nordio. “Dequalificati e umiliati”: sciopero il 10 settembre di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2024 Si prospettano uno sciopero e una manifestazione davanti al ministero della Giustizia il 10 settembre. A scendere in piazza non saranno i magistrati, ma i “Direttori della Giustizia”, figure professionali amministrative costituite nel 2017 che non vogliono essere declassate. Fonti interne dicono che, soprattutto il viceministro Francesco Paolo Sisto, nelle trattative con i sindacati di categoria, sta spingendo per chiudere un contratto entro fine settembre che cancellerà il titolo di questi funzionari, 1670, che - attualmente - per esempio, dirigono le cancellerie dei tribunali e si rapportano direttamente con i magistrati. Per questo, il neo “Coordinamento Nazionale dei Direttori della Giustizia denuncia con forza l’illegittima e iniqua decisione del ministero della Giustizia di sopprimere il profilo professionale del Direttore, contraria al Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) e ai principi di buona amministrazione”. Semplifichiamo la questione per comprendere il dissenso che ha indotto a proclamare lo stato di agitazione: queste figure fanno parte della cosiddetta “Area 3, Servizi Amministrativo-Contabili e di Organizzazione dell’Area Funzionari”, ma - come “Direttori” - sono gerarchicamente superiori e guadagnano di più rispetto a un “semplice” funzionario, a cui basta per l’inquadramento in quell’Area una laurea triennale, mentre per i direttori è obbligatoria la laurea magistrale. I Direttori non ci stanno e chiedono che finalmente venga creata anche al ministero della Giustizia la cosiddetta “Area 4, delle Elevate professionalità, spiega il Coordinamento, creata appositamente per accogliere le figure di quadri, una categoria imprescindibile che funge da cerniera tra i Dirigenti e il resto del personale”. Tanto è vero, sottolinea l’associazione, che il decreto ministeriale del 2017 attribuisce solo ai Direttori “funzioni di vicariato del Dirigente, direzione, coordinamento, formazione del personale, studio e ricerca, attività ispettiva e didattica, e in generale, attività a elevato contenuto specialistico”, non a caso chiede anche la “salvaguardia” delle loro funzioni. Le richieste sono state già avanzate durante le trattative per il contratto integrativo, ma finora senza risultati perché, secondo il viceministro Sisto, non c’è la copertura finanziaria. In Via Arenula si parla di 98 milioni di euro l’anno in più. Una cifra che ad alcuni addetti ai lavori sembra al rialzo. L’intelligenza artificiale può sostituire il giudice? di Gianfranco Amendola Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2024 Ieri ho chiesto alla app della Intelligenza artificiale (Ia) di scrivere una sentenza a carico di una discoteca che fino alle 3 di notte diffondeva musica e urli ad altissimo volume, impedendo il riposo dei vicini. L’esito è stato impressionante perché dopo due minuti l’Ia mi ha sfornato due sentenze di condanna, una civile e l’altra penale, con Fatto e Diritto, panoramica della normativa applicabile, capo di imputazione e giurisprudenza, nonché dispositivo con sanzioni, lasciando in bianco solo i particolari relativi alle parti e quelli su accertamenti tecnici specifici: in due minuti ha fatto quello che a me richiederebbe almeno due o tre ore di studio (se il caso è semplice). Vale la pena meditarci sopra perché esiste il rischio che la giustizia possa essere affidata alla Ia o, quantomeno, che il giudice venga influenzato da una sentenza che gli arriva dopo due minuti. Intendiamoci: la stessa Ia precisa che le sentenze deve farle il giudice ma ovviamente, non basta dirlo. Per fortuna, pochi giorni fa è entrato in vigore un corposo regolamento comunitario (n. 1689) che stabilisce regole armonizzate sull’Intelligenza artificiale tenendo conto della necessità di “garantire un elevato livello di protezione degli interessi pubblici, quali la salute e la sicurezza e la protezione dei diritti fondamentali, compresi la democrazia, lo Stato di diritto e la protezione dell’ambiente”; prevedendo, in caso di inadempienza, “sanzioni proporzionate e dissuasive”, che possono includere avvertimenti e misure non pecuniarie. Ovviamente, è impossibile sintetizzarlo in poche righe ma è opportuno ricordare almeno che il Regolamento divide i sistemi Ia in tre categorie, a seconda del rischio per la sicurezza degli utenti e per il rispetto dei diritti fondamentali, e individuando per ciascuna categoria gli obblighi gravanti sui fornitori e sugli utilizzatori “professionali”. Opportunamente il Regolamento dedica ampio spazio ai rischi che l’utilizzo della Ia può comportare nel settore della giustizia (ad alto rischio) e proprio per questo, nelle premesse, precisa che, “in linea con la presunzione di innocenza, le persone fisiche nell’Unione dovrebbero sempre essere giudicate in base al loro comportamento effettivo… mai sulla base di un comportamento previsto dall’Ia basato unicamente sulla profilazione, sui tratti della personalità o su caratteristiche quali la cittadinanza, il luogo di nascita, il luogo di residenza, il numero di figli, il livello di indebitamento o il tipo di automobile, senza che vi sia un ragionevole sospetto che la persona sia coinvolta in un’attività criminosa sulla base di fatti oggettivi verificabili e senza una valutazione umana al riguardo”, aggiungendo che “l’impatto dell’utilizzo della Ia sul diritto alla difesa degli indagati non dovrebbe essere ignorato, in particolare la difficoltà di ottenere informazioni significative sul funzionamento di tali sistemi e la difficoltà che ne risulta nel confutarne i risultati in tribunale, in particolare per le persone fisiche sottoposte a indagini”; concludendo che “l’utilizzo di strumenti di Ia può fornire sostegno al potere decisionale dei giudici o all’indipendenza del potere giudiziario, ma non dovrebbe sostituirlo: il processo decisionale finale deve rimanere un’attività a guida umana”. Significa molto ma, in ogni caso, a prescindere dalle raccomandazioni comunitarie, resta aperto il problema di quanto possa influire su una sentenza un apporto massiccio e indiscriminato di dati attinenti a casi come quello, volta per volta, in discussione, che il giudice si trova a disposizione dopo due minuti. Con grande gaudio di chi vorrebbe separare le carriere dei magistrati in nome di una terzietà del giudice che, in tal caso, non sarebbe neppure un umano. Una terzietà, tuttavia, totalmente aberrante in quanto le decisioni giudiziarie non sono basate solo su leggi e precedenti, ma anche su valori umani, sensazioni e considerazioni che un’Ia non considera affatto; solo l’intervento umano, con la sua dose di esperienza e sensibilità, può realmente soddisfare quei criteri fondamentali di certezza del diritto, dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”, di tutela del reo, in un’ottica generale di garanzia dei diritti fondamentali della persona umana, stabiliti a livello costituzionale, europeo e internazionale, anche al fine di evitare possibili errori giudiziari e la deresponsabilizzazione del giudicante. Fortunatamente, la scarsa dottrina (specie su Questione Giustizia) che si è occupata di Ia ha evidenziato questi aspetti critici, così come, nel recentissimo ddl governativo in materia di intelligenza artificiale, l’art. 14, comma 1, prevede espressamente (ma in modo del tutto generico) che “i sistemi di Intelligenza artificiale sono utilizzati esclusivamente per l’organizzazione e la semplificazione del lavoro giudiziario, nonché per la ricerca giurisprudenziale e dottrinale”. Ma sarà sufficiente? Perché lo Stato non deve ostacolare i pentiti di mafia di Gian Carlo Caselli La Stampa, 27 agosto 2024 Falcone diceva che i “pentiti” ci sono soltanto quando lo Stato dimostra di voler fare sul serio la lotta alla mafia. È evidente, infatti, che non si affida la propria vita, collaborando, a chi non merita fiducia. E quando si tratta di pentiti di mafia va sempre tenuto presente il fatto incontestabile che parlare significa, senza retorica, condannarsi a morte. Lo prova la storia stessa della mafia, segnata da una miriade di omicidi, diretti o trasversali, tutti con l’obiettivo di recuperare l’omertà, di bloccare le collaborazioni. Senza mai sconti di ferocia. Merita quindi una forte, preoccupata attenzione quanto denunziato da Panorama e dal periodico online Antimafia 2000 con un’intervista all’avvocato Luigi Li Gotti (storico difensore dei pentiti di mafia: da Buscetta a Marino-Mannoia a Mutolo): vale a dire che l’Agenzia delle Entrate, per recuperare spese legali e costi di mantenimento in carcere, ha deciso di confiscare quanto spetta ai pentiti con la “capitalizzazione” prevista dalla legge per finanziare il loro “progetto di vita” (casa, lavoro). È evidente che più nessun malavitoso deciderà di iniziare un percorso di cooperazione con la magistratura sapendo che, dovendo per motivi di sicurezza vivere con tutta una serie di pesanti ostacoli e limitazioni, alla fine si troverà senza avere più nulla, abbandonato come un cane in mezzo alla strada, esposto a rischi di ritorsioni. Sostiene giustamente Li Gotti che il governo dovrebbe fare un decreto in cui si dichiarano non confiscabili le somme in oggetto (poche decine di migliaia di euro). Altrimenti si torna pericolosamente indietro nella legislazione sui collaboratori di giustizia e l’istituto viene svilito da quelle stesse istituzioni che dovrebbero incentivarlo. La mafia sul piano del contrasto investigativo-giudiziario pone il problema, primo fra tutti, di rompere la cortina di segreto che ontologicamente la avvolge. E i segreti si possono conoscere soltanto se c’è qualcuno, i pentiti appunto, che li racconta. Le ricostruzioni fornite da un collaboratore di giustizia sono una sorta di carica esplosiva all’interno della organizzazione criminale, che viene spaccata mettendone a nudo la parte più segreta. Così, l’efficacia delle indagini si moltiplica con risultati disastrosi per i mafiosi. Si sente dire che i “pentiti” sono figure eticamente sgradevoli e odiose e non meritano tanti riguardi. Ma ragionando così applicheremmo anche noi il codice dell’omertà: insomma, ragioneremmo come i boss mafiosi vorrebbero. E poi, si dice ancora, sono “merce avariata”. Ma si dimentica che hanno radicalmente rotto con il passato. E sono preziosi (dal punto di vista investigativo-giudiziario) proprio perché se non avessero commesso attentati ed estorsioni, se non avessero trafficato in droga, se non avessero truccato appalti, se in una parola non fossero stati mafiosi non conoscerebbero i segreti a cui gli onesti non riescono ad arrivare. Giova allo Stato che i mafiosi abbiano interesse e perciò incentivazione a raccontare i segreti. Chi per pregiudizio va a testa bassa contro i collaboratori per screditarli tutti, se non per contrastarne addirittura la semplice esistenza, assume una posizione illogica e suicida. Solo la mafia ha titolo per tenere simili atteggiamenti, visti tutti i danni che le sono derivati proprio dai pentiti. Gli altri o non hanno capito o non vogliono capire. Talora in nome di interessi che niente hanno a che fare con la giustizia. Ravvisabili soprattutto quando si indagano anche le cosiddette relazioni esterne: le collusioni di personaggi “eccellenti” con l’organizzazione; le coperture di cui essa conseguentemente gode. Indagare su questo versante è indispensabile se si vuol davvero sconfiggere la mafia, altrimenti - dicono i siciliani - si “babbia”, si gira a vuoto. Ma quando si indaga oltre l’ala militare della mafia, ecco - puntuali ed inesorabili - le polemiche. Spesso un autentico linciaggio della figura dei “pentiti” e un coro di improperi ai magistrati che doverosamente li impiegano contro le blindature mafiose. “Pentiti” e magistrati nel coro di voci urlanti diventano di fatto categorie criminali. Quella - cominciata subito dopo le stragi del ‘92 - che era stata un’autentica corsa a fornire agli inquirenti elementi di conoscenza della realtà di Cosa Nostra sempre più precisi ed aggiornati, rischia ora, per tutte le mafie, di interrompersi a causa di quanto denunziato da Li Gotti. Per i boss che ancora continuano a delinquere - e sono tanti - sarebbe come il cacio sui maccheroni. Del Turco, quel “compagno” abbandonato da tutti in nome del giustizialismo di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 27 agosto 2024 Ottaviano Del Turco è stato mio presidente alla Commissione Bicamerale Antimafia, ma soprattutto è stato un amico, un compagno, con cui parlare e parlare, in quegli anni, i primi novanta, in cui dirsi socialista, come lui orgogliosamente era, pareva una bestemmia. Ladri, corrotti, imbroglioni, così dicevano, e si sprecavano le fiaccolate in favore di Di Pietro, che doveva far sognare, e Craxi a testa in giù o con gli stivaloni. Ottaviano era diventato segretario del Psi, e intanto Bettino era latitante, o esiliato politico, se si preferisce. Il suo cursus honorum era lungo e prestigioso, parlamentare e membro di un governo e presidente dell’antimafia. È bizzoso ed estroso pittore, con i quadri esposti nel ristorante in cui ogni tanto facevamo uno spuntino. Poi la partecipazione alla fondazione dl Pd, il nuovo partito nato dalle ceneri dei Ds e della Margherita. Una vita politica altalenante, ma che cosa si doveva fare in quegli anni? Finché non ci hanno pensato la magistratura e lo stesso Veltroni, che del Pd era il segretario, a far fuori Ottaviano Del Turco dalla vita stessa, prima ancora che da quella politica. Perché piano piano, con quel fardello addosso, Ottaviano non è stato più lo stesso. E ci è morto. Pare enfatico citare sempre Enzo Tortora, ma così è stato per molti. La sua vita è finita quella mattina del 14 luglio del 2008, mentre a Parigi 40 capi di Stato e di governo, tra cui il premier italiano Silvio Berlusconi, festeggiavano l’assalto a una prigione, la Bastiglia, e l’inizio della rivoluzione francese, in Abruzzo il presidente della regione e mezza giunta venivano arrestati. Del Turco finirà nel carcere speciale di Sulmona. Per gli uomini della procura il governatore era sepolto da “una valanga di prove”. Inutilmente il suo difensore Gian Domenico Caiazza ne aveva chiesto i domiciliari, il gip rispondeva che, dato il suo “profilo delinquenziale non comune”, se mandato a casa lui avrebbe sicuramente reiterato il reato. Antesignano di Giovanni Toti, dunque. E nipotini dei genovesi di oggi, i giudici abruzzesi. Del resto non era quella la stessa terra in cui nel 1992 una retata aveva distrutto tutta la giunta della prima repubblica, un governo Dc-Psi-Pli? Anche quella volta erano arrivati all’alba, con grande spiegamento di forze e i giornali che avevano già fiutato le prede, con una campagna mediatica condotta dai giornali del gruppo Caracciolo, la Repubblica, l’Espresso e quello locale di nome “Il Centro” a battere la grancassa. Superfluo dire che le assoluzioni fioccheranno negli anni successivi, con un piccolo strascico giudiziario per il presidente. Proprio come è capitato a Del Turco, quindici anni dopo. Il 14 luglio del 2008 quando fu arrestato il presidente della Regione Abruzzo con mezza giunta, c’era il quarto e ultimo governo Berlusconi, quello che verrà interrotto nel 2011 con il famoso “complotto” che aprirà le porte al governo tecnico di Mario Monti. Sarà proprio il presidente del consiglio a schierarsi immediatamente per i diritti degli arrestati e ipotizzando un “teorema” politico. Del resto Berlusconi era alle prese con una serie di leggi sulla giustizia, e le polemiche con il sindacato delle toghe erano all’ordine del giorno. Così fu anche in quella circostanza. Non appena il capo del governo osò ipotizzare un teorema politico cui avrebbero potuto seguire le assoluzioni degli indagati, come infatti accadde, l’Anm reagì come il toro davanti al drappo rosso. Si delegittima la magistratura, disse come sempre, allora e oggi, il sindacato delle toghe. Ma non furono in tanti difendere Del Turco. Sicuramente non il Pd, il suo partito. Il segretario Walter Veltroni attese nove ore, prima di dare alle stampe uno scarno comunicato. Nove ore per scarabocchiare quello che chiunque di noi avrebbe potuto prevedere e scrivere in cinque minuti. Prima frase fatta: si faccia luce al più presto. Seconda: abbiamo fiducia nella magistratura. Terza: siamo sicuri che Ottaviano Del Turco saprà dimostrare la propria estraneità ai fatti contestati. Alla faccia della presunzione di non colpevolezza e dell’onere della prova che spetta all’accusa. Fatto sta che a Del Turco non rimasero che le dimissioni. Detenuto nel carcere speciale di Sulmona, descritto dai magistrati come una sorta di delinquente abituale, sputtanato persino nelle vignette (come non ricordare quella veramente schifosa di Giannelli sul Corriere, che disegna una sala operatoria con un medico che allunga la mazzetta) e soprattutto abbandonato da quel “saprà dimostrare” dal segretario del suo partito, il governatore era quasi del tutto solo. E comincerà a morire a poco a poco. Si conteranno sulle dita di una mano quelli che ancora lo salutavano, se andava in Parlamento dove un tempo era riverito. Così la disperazione si tramuta presto in malattia, quella in cui ci si rifugia come in una bolla quando la realtà fa troppo soffrire. Ci aveva detto addio già da un po ‘di tempo, Ottaviano Del Turco. Socialista, amico e compagno. Una parola il cui uso va dosato, ma oggi ci tengo. “Chi non ha memoria non ha futuro” Caro Pd, questo vale anche per Del Turco di Aldo Torchiaro Il Riformista, 27 agosto 2024 “Chi non ha memoria, non ha futuro”. Lo slogan, passivamente ribadito a sinistra in ogni occasione utile, va ricordato oggi, con Ottaviano Del Turco che si spegne senza che la segreteria del “suo” Pd sembri essersene accorta. I funerali, a Collelongo, sono stati sobri. E dire che il leader sindacale della Cgil, per un tratto segretario del PSI, poi governatore dell’Abruzzo, vittima di mala giustizia e dello scarso garantismo dei suoi, non era stato un semplice iscritto come un altro: avendo preconizzato sin dagli anni Ottanta, nel sindacato, l’unità riformista, figurava nel 2007 tra i fondatori del Pd. Il suo nome era tra quelli delle cinquanta personalità che sottoscrissero lo storico impegno a unire storie e traiettorie diverse in un grande soggetto unitario. Il Pd del Lingotto, per capirci. Quello guidato da Walter Veltroni. Quello rievocato da Elly Schlein. Entrambi faranno mancare le proprie condoglianze, nel giorno dei funerali. La politica che celebra la memoria a proprio uso e consumo poi si dimentica dei suoi stessi fondatori. “Bisognerebbe ricordare Del Turco nelle sedi istituzionali opportune”, suggerisce giustamente Pierferdinando Casini. Del Turco era stato senatore, e se arrivano le condoglianze del presidente La Russa, non così la disponibilità ad ospitarne la camera ardente. Idem per la Camera. Dal Nazareno fingono quasi di non conoscere l’ex leader. Dalla Cgil arriva un messaggio di vicinanza al figlio Guido, firmato Maurizio Landini. Poi più niente. La sede sindacale di Corso Italia a Roma, che aveva ospitato regolarmente le camere ardenti per gli ex segretari generali e segretari generali aggiunti, stavolta fa eccezione. Per il Psi va a Collelongo Bobo Craxi. Per il Pd, il deputato abruzzese Michele Fina, che non tutti conoscono. I messaggi sul Whatsapp dei famigliari di Del Turco sono tanti, anche di gente semplice, di militanti. Ma a quelle esequie mancano tre cose: lo Stato, il sindacato, il partito. Proprio come in una radiografia dell’Italia malata del nostro tempo, dove si faticano a riconoscere i ruoli, a inquadrare le storie, a definire con nitidezza le funzioni. Dove gli influencer dei brand parlamentari - difficile definirli leader - si precipitano a elogiare medaglie olimpiche e successi tennistici, ma poi si tengono lontani dal campo della grande politica, forse per timore di confronti. “Che dio maledica gli ipocriti e i buoni con le zanne!”, taglia corto Fabrizio Cicchitto. Cosa rimane di una politica che non ha più memoria, non ha più cuore, non ha più fegato? Davanti al corpo di Ottaviano Del Turco, viene da dire, i veri morti sono loro. Loro che - come spesso ripetono - non avendo memoria, non avranno futuro. Condanna in assenza, mandato a impugnare senza “formule sacramentali” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2024 La Cassazione, sentenza n. 33122 depositata ieri, chiarisce un passaggio della riforma Cartabia fornendo una interpretazione che non carica di nuovi oneri l’imputato. Nel caso di condanna in assenza, lo “specifico mandato ad impugnare” richiesto dalla riforma Cartabia per legittimare il difensore non richiede particolari “formule sacramentali”. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 33122 depositata oggi, accogliendo il ricorso di un uomo condannato per false fatturazioni contro l’ordinanza della Corte di appello di Bologna che ne aveva dichiarato inammissibile l’impugnazione “stante l’assenza di specifico mandato ad impugnare rilasciato dall’imputato nei confronti del quale si era proceduto in assenza”. Per il ricorrente però si tratta di una erronea interpretazione dell’art. 581 c.p.p. come modificato dal Dlgs n. 150 del 2022; egli infatti ha sostenuto di essere stato assistito e difeso dall’inizio fino alla fine del processo dal medesimo difensore di fiducia a cui dopo la condanna in primo grado aveva conferito un nuovo mandato difensivo, eleggendo domicilio presso il suo studio. Per la Terza sezione penale nel caso in esame viene in rilievo il comma 1 quater dell’art. 581 C.p.p.., applicabile a norma dell’art. 89, comma 3, del d.lgs. n. 150 del 2022, trattandosi di una impugnazione proposta contro una sentenza pronunciata successivamente alla entrata in vigore del decreto (30 dicembre 2022). Il comma 1-quater, spiega la Corte, riguarda l’imputato nei cui confronti si è proceduto in assenza. Esso stabilisce che, con l’atto d’impugnazione del difensore, sia depositato, sempre a pena d’inammissibilità, specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio, la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato. (“Nel caso di imputato rispetto al quale si è proceduto in assenza, con l’atto d’impugnazione del difensore” deve contenere “specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza”, si deve osservare come tale disposizione, astrattamente applicabile anche al ricorso per Cassazione). Si tratta - prosegue la decisione - di una disposizione normativa che “risponde all’evidente ratio - ispirata a esigenze sia di garanzia dell’imputato sia di razionale e utile impiego delle risorse giudiziarie - di assicurare che la celebrazione delle impugnazioni abbia luogo solo quando si abbia effettiva contezza della conoscenza, da parte dell’imputato, della sentenza pronunciata in sua assenza, nonché della volontà dello stesso imputato di impugnarla”. Lo scopo manifesto della novella legislativa, dunque, è quello di “selezionare in entrata le impugnazioni, caducando quelle che non siano espressione di una scelta ponderata e rinnovata, in limine impugnationis, ad opera della parte”. Quanto poi al requisito dello “specifico mandato”, la Cassazione precisa che esso non richiede “formule sacramentali” dovendo, in coerenza con la ratio legis, “ricavarsi dal tenore dell’atto la certezza della conoscenza della sentenza pronunciata in assenza e la volontà di impugnare”. In conclusione, tornando al caso in esame, il ricorrente, condannato con sentenza del Tribunale di Parma nell’aprile 2023, il mese successivo ha conferito un nuovo mandato difensivo al suo avvocato eleggendo domicilio presso il suo studio e specificando il procedimento interessato dall’impugnazione. “L’atto così descritto - si legge nella sentenza - contiene gli elementi significativi della finalità a cui è preposta la norma”. L’ordinanza impugnata è stata dunque annullata senza rinvio e gli atti trasmessi alla Corte di appello di Bologna per la celebrazione del giudizio di appello. Molise. Suicidi, droga, sovraffollamento, carenza d’organico. Al capezzale delle carceri quotidianomolise.com, 27 agosto 2024 In Molise la visita di “Nessuno tocchi Caino”. La presidente Rita Bernardini: situazione grave. La situazione delle carceri in Italia continua a essere un argomento di grande rilevanza e preoccupazione. Le visite e le indagini condotte da associazioni come Nessuno Tocchi Caino evidenziano le numerose sfide che il sistema penitenziario italiano deve affrontare. Tra queste, il sovraffollamento rimane una delle più gravi, con istituti che superano di gran lunga la loro capacità regolamentare. Questo problema non solo compromette la dignità e i diritti dei detenuti, ma pone anche significativi ostacoli alla loro riabilitazione e reinserimento nella società. Le condizioni di vita all’interno delle strutture sono spesso indecorose, con carenze strutturali e mancanza di risorse umane, come evidenziato dalla carenza di personale della Polizia Penitenziaria. La situazione è aggravata dal numero crescente di suicidi tra i detenuti, che riflette la disperazione e la mancanza di speranza all’interno delle mura carcerarie. Inoltre, la percentuale di detenuti in attesa di giudizio rimane alta, contribuendo ulteriormente al sovraffollamento e alla pressione sul sistema giudiziario. Di fronte a questa realtà, le figure come Rita Bernardini e Giuseppe Rossodivita svolgono un ruolo cruciale nel portare all’attenzione pubblica queste criticità e nel sollecitare interventi urgenti per il miglioramento delle condizioni carcerarie. La loro dedizione e il loro impegno sono essenziali per promuovere il rispetto dei diritti umani e per stimolare un dibattito costruttivo su come riformare il sistema penitenziario in Italia. La loro presenza e le loro parole sono un monito costante per le autorità e la società civile, affinché si possa lavorare insieme per trovare soluzioni sostenibili e umane a questi problemi persistenti. Veneto. Figli di detenuti, nasce la rete di associazioni che li prende in carico venetonews.it, 27 agosto 2024 Non hanno alcuna colpa. Eppure molto spesso su di loro ricadono le responsabilità dei genitori. I minori figli di detenuti, e in generale i nuclei familiari che di riflesso vivono l’esperienza di detenzione di un parente stretto, si trovano a fare i conti con gli effetti negativi di una relazione parentale che diventa difficile e di un contesto sociale che tende a escludere. Un tema estremamente attuale e da affrontare con urgenza considerato che la popolazione carceraria, in Italia, è di 56.196, di cui 2365 donne e 53831 uomini, e tra loro sono stimati circa 25mila genitori. In Veneto, i detenuti sono 2.487, di cui 123 donne, e si possono stimare oltre mille genitori. Per i loro figli, si è costituita una rete di associazioni e realtà non profit che nei prossimi tre anni in Veneto - nelle province di Verona, Treviso, Vicenza e Venezia, e cioè dove è presente una struttura di detenzione - farà quadrato sui minori sviluppando una serie di azioni volte a tutelarne la dignità e aiutarli a essere protagonisti della loro crescita. L’obiettivo è infatti creare le condizioni affinché un minore che vive tale esperienza possa trovare il sostegno professionale e umano per mantenere la relazione con il genitore e sentirsi parte della propria comunità. È iniziato nelle scorse settimane infatti “Liberi di Crescere”, un progetto selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Capofila del progetto è la cooperativa sociale Servizi e Accoglienza Il Samaritano Onlus, braccio operativo di Caritas Verona, chiamata a coordinare i partner del progetto attivi a livello locale e regionale che sono: L’Albero, La Fraternità e Fondazione Don Calabria per il Sociale E.T.S. di Verona, Caritas di Venezia, ADELANTE Società cooperativa sociale onlus di Bassano del Grappa (VI), Tangram, Nova e Insieme di Vicenza, Kirikù e Una casa per l’uomo di Montebelluna (TV), REM di Chioggia (VE). Inoltre, le strutture detentive del Veneto: Casa Circondariale di Vicenza, Casa Circondariale Santa Maria Maggiore a Venezia, Casa Circondariale Treviso, Casa Circondariale Verona Montorio. Inoltre, altri attori pubblici che in maniera diversa sono coinvolti nei vari fronti d’azione quali UEPE territoriali, Servizi sociali e di tutela minori di alcuni dei principali comuni dei territori coinvolti dal progetto. Concretamente, i fronti su cui le realtà coinvolte andranno ad operare sono molteplici. Tra questi, il sostegno alla genitorialità e il supporto psicologico con attività sia all’interno delle carceri per le persone in detenzione sia all’esterno per le persone in misura alternativa/fine pena che si concretizzeranno in gruppi e laboratori di supporto, uno sportello interno alle carceri, sessioni formative. C’è poi la presa in carico personalizzata dei figli minorenni con l’attivazione della mediazione familiare e colloqui individuali con psicologi e altri professionisti, gruppi di parola che guidino nell’elaborazione della propria storia di figli di detenuti. E ancora, la costruzione di un sistema di supporto all’intero nucleo familiare: un’attività di supporto individuale e di gruppo diretta ai familiari dei detenuti, e in particolare ovviamente proprio ai più piccoli, con l’obiettivo di avviare una presa in carico complessiva volta alla prevenzione del disagio minorile in tutte le sue sfaccettature. Saranno dunque avviati colloqui psicologici e accompagnamenti educativi per famiglie con componente detenuto, laboratori per figli e compagne/i, sportelli esterni alle carceri dedicati proprio a bimbi, ragazzi e loro familiari. Il progetto “Liberi di Crescere” ha durata triennale ed è frutto di un bando nazionale vinto dalla rete di associazioni venete. L’obiettivo è di raggiungere e prendere in carico con le proprie attività di sostegno 110 minori figli di detenuti, 165 detenuti e di coinvolgere 35 insegnanti ed educatori. Il percorso punta a monitorare le buone pratiche anche a distanza di un anno dalla sua conclusione. Responsabili e referenti delle realtà coinvolte si sono incontrati nelle scorse settimane negli spazi del Samaritano per impostare dettagliatamente progetti e iniziative che diventeranno operativi nei prossimi mesi. “La sfida è ambiziosa e siamo pronti, in rete con le realtà aderenti che da anni sono attive sul territorio con progetti dentro e fuori le Case Circondariali di Verona, Vicenza, Venezia e Treviso, a dare il meglio per garantire a questi bimbi e ragazzi gli strumenti educativi e relazionali per ridurre l’impatto negativo che l’esperienza detentiva del genitore ha sul loro percorso di crescita”, argomenta Don Matteo Malosto, neodirettore di Caritas nonché referente del Servizio diocesano per la Tutela dei minori e delle persone vulnerabili, presentando il progetto “Liberi di Crescere” insieme a Silvio Masin, direttore di Fondazione Don Calabria per il Sociale ETS che si occuperà del Monitoraggio Tecnico del progetto. Il progetto è stato selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Il fondo nasce da un’intesa tra le Fondazioni di origine bancaria rappresentate da ACRI, il Forum Nazionale del Terzo Settore e il Governo. Sostiene interventi finalizzati a rimuovere gli ostacoli di natura economica, sociale e culturale che impediscono la piena fruizione dei processi educativi da parte dei minori. Per attuare i programmi del Fondo, a giugno 2016 è nata l’impresa sociale Con i Bambini, organizzazione senza scopo di lucro interamente partecipata dalla Fondazione Con il Sud. www.conibambini.org. Torino. Nuovo carcere: dopo rivolte e suicidi il Comune invia la richiesta a Roma di Paolo Varetto La Stampa, 27 agosto 2024 La proposta approvata dal Consiglio comunale. Nordio: “Al lavoro per ridurre sovraffollamento e rischio di suicidi”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha risposto alla seconda lettera, datata 26 luglio, nella quale il sindaco Stefano Lo Russo denunciava le condizioni del carcere Lo Russo e Cutugno, ex “Vallette”, devastato dai detenuti in rivolta. “Posso assicurare - è la premessa - che il mio dicastero sta profondendo il massimo sforzo per alleviare, almeno in parte, le condizioni di grave disagio, se non di dolore, che affliggono anche la Casa circondariale di Torino”. Quindi le progettualità da mettere in campo: “L’azione del governo si è ulteriormente intensificata nell’adozione di interventi volti a mitigare i problemi del sovraffollamento e del rischio suicidiario e nel rispetto della dignità della persona, con l’auspicio di vedere presto un miglioramento generale delle condizioni dei detenuti, degli operatori e degli agenti di polizia penitenziaria”. Rassicurazioni alle quali il Comune di Torino risponderà inviando al ministero anche la mozione approvata a larga maggioranza lo scorso 22 aprile con la quale il Consiglio comunale chiedeva la costruzione di un nuovo carcere. Un modello diverso da quello anni Ottanta del “Lorusso e Cutugno”, ma che assecondi realmente le finalità rieducative della pena. Da qui la necessità della sua costruzione all’interno del tessuto urbano della città, senza relegarlo all’estrema periferia. Che le “Vallette” siano ormai una polveriera ingestibile lo aveva confermato anche Lo Russo nella sua lettera del mese scorso: “Perdura la situazione di sovraffollamento e le recenti proteste dei detenuti riguardano un padiglione ove sono ospitate 420 persone a fronte di una capienza regolamentare di 223 posti. È ormai gravissimo il deficit di assistenza sanitaria, in particolare per le persone con gravi patologie psichiatriche e ad alto rischio di suicidio”. “La dimostrazione - commenta Luca Pidello, il consigliere del Pd che ha presentato la mozione - che la nostra casa circondariale non risponde più alle esigenze del 2024. Serve una nuova struttura meglio integrata con il resto della città, che permetta l’esecuzione di pene a custodia attenuata per il reinserimento dei detenuti. Spazi a misura di persona che garantiscano formazione, lavoro e comfort: avviamo al più presto le interlocuzioni per individuare il luogo più adatto, guardando innanzitutto alle aree demaniali inutilizzate”. Una richiesta che verrà ribadita anche in Consiglio regionale, con un atto analogo presentato dalla dem Nadia Conticelli, che nei giorni scorsi ha svolto un sopralluogo in via Maria Adelaide Aglietta 300 con le deputate Pd Chiara Gribaudo e Anna Rossomando: “Per come sono costruite, le “Vallette” non possono neppure essere ristrutturate: vanno demolite. Il governo deve prendersi le proprie responsabilità”. Per quanto nella consapevolezza che qualsiasi decisione sia esclusivamente in capo al Ministero e che la mozione è un atto di competenza del Consiglio comunale, anche la giunta concorda con la necessità di andare oltre a un penitenziario costruito a fine anni Settanta, con i criteri di massima sicurezza studiati per far fronte al terrorismo. “Siamo assolutamente d’accordo - conferma la vicesindaca con delega al Sistema carcerario Michela Favaro - pur sapendo bene che deve essere Roma a decidere. Noi possiamo comunque accompagnare il percorso verso una struttura intermedia tra il carcere e un luogo per il graduale reinserimento dei detenuti, anche nel rispetto del principio rieducativo della pena. Se il Ministero è d’accordo, trovare l’area adatta non sarà un problema, coinvolgendo innanzitutto il demanio. Anche il nuovo Piano regolatore potrà rivelarsi un utile strumento”. Di sua iniziativa, la giunta invierà a Nordio anche il “Manifesto dei giovani detenuti”, problema particolarmente sentito al “Lorusso e Cutugno”, con la finalità di renderne la pena meno afflittiva e il percorso di reinserimento più fruttuoso. Monza. “La nomina del Garante comunale dei detenuti non è più rinviabile” ilcittadinomb.it, 27 agosto 2024 Il coordinatore monzese di +Europa Giulio Guastini sabato 24 agosto ha visitato con una delegazione la casa circondariale di via Sanquirico. La nomina del garante dei detenuti non è più rinviabile: lo afferma il coordinatore monzese di +Europa Giulio Guastini che sabato 24 agosto ha partecipato con una delegazione del partito a una visita in via Sanquirico. L’incarico è vacante da parecchi anni e il Comune e la Provincia hanno avviato una collaborazione con l’obiettivo di arrivare alla designazione. Garante dei detenuti a Monza: l’analisi di Giulio Guastini di +Europa - Il tasso di sovraffollamento delle celle monzesi, ricorda Guastini, ha raggiunto il 170% a fronte di una media nazionale del 131%: “Nonostante un miglioramento della struttura, grazie al restauro recentemente completato della ex sezione femminile, diventata reparto Luce a trattamento intensificato - dichiara - persistono alcuni problemi notevoli tra cui le infiltrazioni e la presenza di cimici da letto. L’alto numero di detenuti con problemi psichiatrici, inoltre, complica ulteriormente la situazione in quanto il carcere non ha gli strumenti adeguati per gestire persone con questi disturbi”. “La situazione - aggiunge - è sempre più insostenibile sia per i detenuti che per il personale eppure piccole migliorie potrebbero risultare di grande aiuto”: linee del trasporto pubblico che colleghino la casa circondariale alla città contribuirebbero “a intaccare la sua marginalizzazione creando ponti” tra Monza, l’istituto e le istituzioni. Garante dei detenuti a Monza: le richieste di +Europa a livello nazionale - A livello nazionale +Europa chiede una riforma che preveda il varo delle case di reinserimento sociale, il diritto alla vita affettiva per i reclusi e la depenalizzazione dei reati lievi. Siena. Torture a Ranza, appello per 15. La Corte unisce i procedimenti di Laura Valdesi La Nazione, 27 agosto 2024 Alcuni avvocati degli agenti che scelsero il rito alternativo pronti ad opporsi. Fissate tre udienze: il 16 e il 30 settembre, eventuale sentenza il 10 ottobre. Un maxi processo d’appello quello che si delinea per la vicenda delle torture a Ranza, nell’ottobre 2018, subite da un detenuto tunisino di 31 anni durante un cambio di cella. E avvalorate, secondo l’accusa, da un video di 4 minuti e 32 secondi delle telecamere interne che avrebbe descritto la spedizione punitiva. Un caso salito alla ribalta nazionale perché gli agenti penitenziari erano stati condannati per un “autonomo reato di tortura in concorso”, più grave quando a commetterlo è un pubblico ufficiale. Quindici in tutto finiti sotto la lente della procura, anche se non tutti avevano imboccato la stessa strada. Un primo gruppo di dieci agenti nel febbraio 2021 aveva scelto di essere giudicato con riti alternativi. Le pene decise dal gup Jacopo Rocchi variavano da 2 anni e 3 mesi a 2 anni e 8 mesi. Altri cinque agenti avevano imboccato invece il percorso più lungo, quello del dibattimento. E nel marzo 2023 era arrivato per loro il verdetto del collegio presieduto da Simone Spina: 6 anni per un ispettore superiore, altrettanti per un ispettore capo e 6 anni e mezzo per un suo pari grado. Rispettivamente 5 anni e 11 mesi e 5 anni e 10 mesi per due assistenti capo. Tutti e quindici hanno presentato subito appello. Per i cinque che avevano scelto il dibattimento è stato fissato, dopo uno slittamento, il 16 settembre. Per i dieci agenti che invece attendevano il giudizio di appello dal 2021 non c’era una data. Ebbene il presidente Nencini il 16 chiamerà entrambi i processi con l’intenzione di riunirli visto che si tratta della stessa vicenda. Una scelta a cui già diversi difensori di coloro che hanno scelto il rito alternativo sono pronti ad opporsi duramente. La corte di appello comunque ha già fissato anche due udienze successive per la riunione appunto dei procedimenti, la discussione e la sentenza. Oltre al 16 e al 30 settembre, quella del 10 ottobre quando, nelle intenzioni dei giudici di Firenze, ci dovrebbe essere il pronunciamento che scriverà la parola fine (salvo ricorso in Cassazione) su uno dei casi più spinosi e delicati degli ultimi tempi. Napoli. Silvestro e Maresca a Secondigliano: “Penitenziario modello, ma pochi medici” di Giuliana Covella Il Mattino, 27 agosto 2024 Secondigliano modello “virtuoso” di carcere in linea con le direttive dell’Unione europea: è quanto emerge dalla visita di ieri del senatore di Forza Italia Francesco Silvestro, accompagnato dal magistrato e consulente della commissione bicamerale per le Questioni regionali Catello Maresca, dalla direttrice della casa circondariale Giulia Russo e dal comandante del reparto di Polizia Penitenziaria Fortuna Paudice tra i vari padiglioni. I due rappresentanti istituzionali hanno visitato tra gli altri il reparto dell’alta sicurezza e quello femminile con le donne trasferite da Pozzuoli. Oltre a laboratori artigianali, polo universitario e l’orto coltivato dai reclusi. Tra le richieste di questi ultimi lo snellimento della burocrazia da parte della magistratura di sorveglianza (“un detenuto calabrese dell’alta sicurezza ha atteso mesi un permesso per andare dalla sorella deceduta”) e l’abbassamento dei costi per l’acquisto di beni alimentari come pasta e pomodori. “Nel carcere abbiamo trovato una situazione abbastanza positiva - dice Silvestro - La struttura, molto più moderna di altre realtà, riesce a reggere bene anche un leggero sovraffollamento di detenuti (1.450 rispetto a una capienza di 1.200, 250 unità oltre il consentito). Abbiamo toccato con mano il grande sforzo da parte della dirigenza, della polizia penitenziaria e di tutti gli operatori, sanitari e non, che con passione e dedizione si impegnano per migliorare le condizioni generali dei detenuti in un contesto abbastanza complesso”. Una visita che riaccende i riflettori sul tema carceri, dopo la recente approvazione del decreto del Governo. Unico “neo” l’assenza di un pronto soccorso e di poche unità di medici specialisti. “Inoltre abbiamo visitato assieme alla direttrice i tanti spazi dedicati alle attività trattamentali, di studio, lavoro e il tenimento agricolo - continua Silvestro - il Polo di arti e mestieri e quello universitario con i suoi 12 corsi di laurea, attività fondamentali per l’adeguato reinserimento nella società dei carcerati”. Per il senatore “le strutture detentive devono infatti garantire ai detenuti i giusti standard di sicurezza e il rispetto della dignità umana. Perciò Forza Italia quest’estate sta visitando le tantissime strutture presenti su tutto il territorio nazionale”. “Quello di Secondigliano è un moderno istituto penitenziario in linea con le direttive europee e della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha aggiunto a margine della visita - che può essere un modello sul quale costruire un percorso virtuoso che garantisca un futuro più giusto e sicuro per tutti. E noi come sempre saremo pronti a fare la nostra parte”. Ad accompagnare l’esponente di Fi il magistrato Catello Maresca: “Ho trovato tanta umanità nelle persone che abbiamo incontrato - ha detto - che mi sembravano sinceramente proiettate verso un percorso di recupero e reinserimento con la consapevolezza di dover imboccare una strada diversa. Mi ha fatto piacere inoltre riscontrare grande interesse per la cultura antimafia che porto avanti”. Un’accoglienza speciale è stata riservata a Maresca dalle detenute trasferite da Pozzuoli e ospitate negli spazi destinati agli archivi: “Dottò, grazie di averci fatto visita, siete il nostro idolo”, le parole che alcune di loro hanno rivolto al pm. “Mi hanno espresso la volontà di allontanarsi da un passato negativo. Ecco perché reputo importante investire in nuove strutture penitenziarie”, ha concluso. Napoli. “Carceri, diritto alla salute calpestato” Il Roma, 27 agosto 2024 La denuncia di Zuccarelli, presidente dell’Ordine dei Medici di Napoli e provincia. “Come presidente dell’Ordine dei Medici di Napoli, ma prima ancora come medico, sento di non potermi astenere dal commentare la situazione non più sostenibile vissuta dai detenuti nelle carceri e dai colleghi medici che cercano di porre un argine alla deriva del sistema, garantendo il diritto alla salute di chi sta scontando una pena detentiva”. Lo dice Bruno Zuccarelli, leader dei Medici di Napoli e provincia, che sottolinea come “la condizione delle carceri italiane rappresenti una delle più gravi emergenze del Paese e, per questo motivo, dovrebbe essere tra le massime priorità di qualsiasi programma di governo che voglia definirsi civile e democratico”. “Il sistema penitenziario italiano, in molti casi, non è all’altezza dei principi sanciti dalla Costituzione, che pone la dignità della persona al centro del sistema giuridico. Molti detenuti vivono in condizioni pessime, in strutture sovraffollate, dove gli spazi sono inadeguati e le condizioni igienico-sanitarie spesso precarie. Questa situazione non solo mina la dignità degli individui, ma rappresenta anche un serio problema per la sicurezza del personale chiamato ad occuparsi dei detenuti”, spiega ponendo l’accento sul tema dell’assistenza sanitaria all’interno degli istituti penitenziari che è “estremamente carente”. “Quando si parla di assistenza sanitaria nelle carceri - dice - non ci si riferisce soltanto all’aspetto medico, ma anche a quello psicologico e infermieristico. In molti casi, i detenuti non ricevono cure adeguate per malattie fisiche o psicologiche, lasciandoli in uno stato di sofferenza cronica”. Il leader dei camici bianchi punta il dito contro le carenze di personale e contro un sovraffollamento che rende impossibile una gestione adeguata delle scarse risorse disponibili: Specchio di questa situazione patologica è l’aumento dei suicidi che negli ultimi anni si sono moltiplicati a dismisura”. “Un carcere che non garantisce la dignità e la salute dei detenuti diventa una fucina di disperazione, un luogo di abbandono sociale, e non uno strumento per il reinserimento - conclude - Affrontare con urgenza queste problematiche è un dovere morale e politico, poiché nessuna società può considerarsi giusta e civile se abbandona i suoi membri più vulnerabili, anche quando essi si trovano a scontare una pena. La dignità umana e il diritto alla salute devono essere garantiti a tutti, senza eccezione”. Ferrara. Politica chiamata ad agire per risolvere la crisi umanitaria delle carceri di Anna Chiappini, Davide Nanni, Enrico Segala* Il Resto del Carlino, 27 agosto 2024 Emergenza sovraffollamento carceri italiane: a Ferrara situazione critica con 400 detenuti su 244 posti. Politica chiamata ad agire per risolvere crisi umanitaria. I gravi fatti accaduti a Torino e Parma a metà mese hanno accesso nuovamente i riflettori sull’abnorme sovraffollamento delle carceri italiane. Un’emergenza ormai cronica, sfuggita di mano al Governo nonostante gli annunci e le promesse del ministro Nordio. Il dramma del sovraffollamento ormai colpisce intere comunità carcerarie, da nord a sud, e non interessa solo i reclusi: gli agenti di polizia penitenziaria sono 18mila in meno rispetto alla pianta organica. Inoltre, mancano all’appello medici, psicologhi, psichiatri, educatori e altre figure professionali che potrebbero garantire maggiore umanità e più trattamenti rieducativi nei 189 istituti di pena italiani. Infine ci sono i numeri, drammatici, delle vittime del sistema carcerario: 81 detenuti e 7 agenti morti dall’inizio dell’anno. Di fronte a questo scenario la politica non dovrebbe dividersi, ma agire per riportare la situazione nelle nostre carceri a livelli civili e umani. Invece si assiste al surreale teatrino mediatico di chi un giorno propone misure irrealizzabili, e il giorno dopo aggiunge nuovi reati aumentando il numero di detenuti. Un problema che, purtroppo, tocchiamo con mano anche a Ferrara: la casa circondariale in via Arginone ospita circa 400 detenuti su 244 posti regolamentari, con un organico di polizia penitenziaria gravemente sottodimensionato. I sindacati di categoria denunciano da mesi una situazione vicina al collasso. Il tema è giunto fino a Roma eppure al Ministero fanno orecchie da mercante: nella risposta del ministro Nordio leggiamo che i nuovi agenti assegnati saranno otto e le condizioni non sarebbero così drammatiche perché i ristretti hanno “uno spazio di vivibilità superiore ai 4 metri quadri”. Nel frattempo i provvedimenti di sfollamento promessi non hanno avuto alcun effetto pratico e la gravità della situazione è stata confermata dal Garante regionale dei detenuti: è mai possibile che nella provincia di Ferrara vi siano 406 detenuti su 345 mila abitanti mentre nel territorio di Forlì, che conta 390 mila abitanti, i ristretti sono appena 85? Il sovraffollamento delle carceri è un problema che va affrontato in modo serio e strutturale. Bisogna avere il coraggio di essere garantisti fino in fondo, andando oltre i palliativi previsti dal Decreto Carceri: va ridotta la carcerazione preventiva, sostituendola con pene alternative alla detenzione ovunque ciò sia possibile. Sarebbe auspicabile, inoltre, la completa depenalizzazione dei reati lievi che oggi congestionano il sistema giudiziario. Infine, occorre una maggiore attenzione a chi in carcere non ci dovrebbe proprio stare. *Consiglieri comunali Pd Taranto. Il Partito Radicale visita il carcere: “Condizioni disumane e sovraffollamento” di Dante Sebastio antennasud.com, 27 agosto 2024 Nell’ambito dell’iniziativa “Estate in carcere”, promossa in collaborazione con Forza Italia, oggi una delegazione del Partito Radicale, guidata dal segretario Maurizio Turco, ha visitato il carcere di Taranto. Descritto dal sottosegretario Delmastro come la “mecca dei detenuti”, l’istituto si è rivelato essere, invece, un vero e proprio “girone infernale”. “Le celle sono per la maggior parte fuori legge”, denuncia Turco, riferendosi alle condizioni in cui i detenuti sono costretti a vivere: tre persone stipate in appena nove metri quadri lordi. “Tolto lo spazio occupato da letti e armadietti, restano ben al di sotto dei tre metri quadri a persona previsti dalla sentenza Torreggiani del Consiglio d’Europa”, continua il segretario del Partito Radicale. Non solo i detenuti soffrono, ma anche il personale carcerario è messo a dura prova. “Gli agenti sono costretti quotidianamente a fare straordinari a causa del sovraffollamento, che rende impossibile lo svolgimento delle più elementari attività trattamentali”, sottolinea Turco. Situazioni simili sono state riscontrate anche nella visita al carcere di Lecce, dove il sovraffollamento ha raggiunto il 200%. “Non c’è dubbio che il governo e il sottosegretario Delmastro abbiano ereditato questa situazione,” conclude Turco, “ma ora devono decidere se affrontarla o continuare a ignorarla, come hanno fatto i loro predecessori”. Novara. Aiutateci, troppi ragazzi preferiscono la morte a questa vita impossibile Il Dubbio, 27 agosto 2024 La drammatica lettera di un gruppo di detenuti del carcere di Novara: “Meritiamo la dignità di una esistenza, seppur in penitenza, nella quale i diritti non vengano calpestati”. Carissimi lettori de il Dubbio, questo breve testo vuole divulgare e far conoscere al Paese intero l’invivibile situazione carceraria con la quale dobbiamo fare i conti quotidianamente. Dovete sapere che gli spazi a disposizione, nei quali viviamo, sono a dir poco ridicoli. Ci ritroviamo a cucinare nella stessa stanza in cui facciamo i bisogni! I materassi sui quali dormiamo da anni sono in condizioni tremende. Gli spazio a disposizione per i nostri oggetti personali e per gli abiti si riducono a due piccoli e ridicoli armadietti. Non ci vengono forniti neppure sufficienti prodotti per la pulizia delle stanze, né i sacchetti per i bidoni per la raccolta differenziata dei rifiuti. Per non parlare del degrado delle aree ricreative che sono fatiscenti, sporche e carenti di qualsivoglia attività di svago. Un problema estremamente rilevante che affligge noi detenuti, sia economicamente che fisicamente, è il tanto “nobilitante” lavoro. Ci affligge fisicamente perché ci ritroviamo a trascorrere giornate intere sdraiati sulla branda. Ci vogliono investimenti e risorse per creare posti di lavoro per ciascuno! Un altro tasto dolente è la mancanza assoluta di personale qualificato in ambito rieducativo e psicologico. Troppi ragazzi preferiscono la morte a questa vita incerta e cruda. Qui dentro la sofferenza inflitta a ogni singola persona non è calcolabile. Non c’è pena che meriti altro dolore. La mano che impugna questa penna è la voce di tutto il popolo detenuto. Alla luce di tutto quello che vi abbiamo elencato chiediamo umilmente aiuto! Aiuto a tutti quelli che hanno potere di intervenire con azioni concrete. Non con decreti fasulli e ipocriti. Serve un decreto “svuota-carceri” serio ma soprattutto funzionale! Ognuno di noi merita la dignità di una vita, seppur in penitenza, nella quale i diritti non vengano calpestati. Con la speranza che questo testo venga seriamente preso in considerazione e divulgato il più possibile, vi mandiamo i nostri più sinceri saluti. Messina. Emergenza carceri, gli avvocati penalisti a Gazzi: “Daremo voce a chi non ne ha” messinatoday.it, 27 agosto 2024 Una delegazione di nove legali è stata autorizzata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ad effettuare una visita all’interno della Casa Circondariale. L’emergenza carcere nel nostro paese ha assunto dimensioni drammatiche. Sovraffollamento, chiusura delle sezioni, riduzioni drastiche delle attività trattamentali, caldo insopportabile, carenze igieniche, idriche, strutture fatiscenti, passeggi assolati e infuocati, violenze, autolesionismo, suicidi non sembrano per nulla affievolirsi ed anzi sotto i colpi di una estate rovente le condizioni di vita dei detenuti e lavorative del personale diventano sempre più insopportabili. Il dramma delle carceri finisce anche sotto la lente della Camera Penale di Messina “P. Pisani - G. Amendolia”. Una delegazione di nove avvocati è stata autorizzata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ad effettuare una visita all’interno della Casa Circondariale di Gazzi che si svolgerà giovedì 29 agosto. Dall’inizio dell’anno i penalisti italiani stanno conducendo una mobilitazione permanente per sensibilizzare e sollecitare l’opinione pubblica, la politica, il mondo dell’informazione e la magistratura ad affrontare questa terribile emergenza per porvi efficaci e immediate soluzioni in grado di riportare il carcere dentro i confini della legalità costituzionale, oltre che tutelare la dignità, sistematicamente calpestata, degli oltre 61.500 detenuti. “Le sofferenze dei detenuti, si sa, non vanno in vacanza, nemmeno d’estate - scrive il presidente della Camera Penale di Messina “Pisani - Amendolia”, Bonaventura Candido - Anzi, proprio nel periodo estivo, maggiore è la cortina del silenzio imposta sul dramma delle carceri. Ecco perché - attraverso una diffusa presenza degli avvocati in visita in tutti gli istituti penitenziari italiani - la nostra mobilitazione prosegue anche nel mese di agosto. Rinunzieremo, quindi, ad un giorno del nostro riposo di fine vacanze per continuare a dare così “voce a chi voce, purtroppo, non ha”, ricordando, quindi, all’opinione pubblica distratta e poco informata, alla politica indifferente e irriverente, che “non c’è più tempo”. Sarà un significativo momento di verifica delle condizioni di vita dei detenuti e, così, di particolare vicinanza ed attenzione. Saranno insieme a noi l’onorevole Calderone e la garante dei diritti dei diritti del detenuto e delle persone private della libertà recentemente eletta dal Consiglio Comunale di Messina. Ha manifestato condivisione anche la senatrice Musolino che, però, non potrà essere presente perché all’estero”. Foggia. “Nel carcere dati impietosi. Sovraffollamento e carenza personale” statoquotidiano.it, 27 agosto 2024 “Su una capienza di 364 posti nella struttura carceraria di Foggia sono presenti ben 673 detenuti”. “Abbiamo registrato dati impietosi circa la situazione del carcere di Foggia” lo ha dichiarato il parlamentare di Forza Italia Giandiego Gatta all’uscita del carcere di Foggia, presso cui si è recato con il consigliere regionale Paolo Dell’Erba nell’ambito della iniziativa “Estate in carcere”, fortemente voluta dal segretario nazionale del partito azzurro Antonio Tajani, promossa in uno al Partito Radicale. “Un dato basti per tutti” ha aggiunto Gatta: “su una capienza di 364 posti nella struttura carceraria di Foggia sono presenti ben 673 detenuti, di cui circa 250 affetti da malattie psichiatriche, oltre a tossicodipendenti e alcolisti. Un dato che trasmetteremo, corredato da nostre osservazioni frutto delle interlocuzioni avute stamane con il direttore della casa circondariale, il comandante della polizia penitenziaria, gli operatori, psicologi, educatori, sanitari, e i detenuti, al nostro Dipartimento Giustizia per redigere un documento articolato ed esaustivo che costituisca la piattaforma sulla quale lavorare nei mesi che verranno, al fine di rendere le carceri funzionali al conseguimento dell’obiettivo previsto dalla nostra carta costituzionale, vale a dire la rieducazione dei reclusi al fine di consentire la loro risocializzazione”. “Corsi di formazione e istruzione, progetti rieducativi, interventi strutturali, alleggerimento della pressione della popolazione carceraria su strutture spesso inadeguate e fatiscenti con mirati interventi legislativi, rimpinguamento degli organici in servizio nelle carceri, sottodimensionati rispetto al numero dei detenuti e delle esigenze di servizio, sono al vaglio del Parlamento e del Governo. Forza Italia vuol essere il motore propulsivo delle iniziative che consentano alla pena di raggiungere il suo scopo, cioè quello di restituire alla società uomini e donne migliori di quelli che erano al momento del loro ingresso in carcere”, ha concluso il deputato azzurro. Bologna. I Radicali: “Al carcere del Pratello situazione non degna di un paese civile” e-tv.it, 27 agosto 2024 Il segretario dei Radicali Italiani, Matteo Hallissey, insieme al tesoriere Filippo Blengino, ha visitato questa mattina il carcere minorile di Bologna. “Anche nel minorile di Bologna, purtroppo, la condizione carceraria supera i limiti della decenza. Ci sono 43 ragazzi in una struttura che potrebbe ospitarne una trentina. A causa del Decreto Caivano, il numero dei detenuti è aumentato vertiginosamente, molti dei quali mostrano evidenti disagi psichici. Abbiamo riscontrato numerosi atti di autolesionismo, ragazzi con evidenti tagli sulle braccia, pile e chiodi ingoiati, uno scenario spettrale”. Lo dichiara in una nota Matteo Hallissey, segretario Radicali Italiani. “C’è una preoccupante carenza di personale, mediatori culturali ed educatori. Dovrebbero esserci 10 educatori, ma ne sono presenti solo 2 o 3: è scandaloso. Vi è una totale assenza di attività. Dopo questa visita, ci troviamo di nuovo costretti a denunciare Nordio; si tratta della sesta denuncia. I detenuti e i detenenti sono sottoposti a una tortura quotidiana. Questa non è una situazione degna di un paese civile. Non è più possibile accettare questo totale fallimento dello Stato. I ragazzi ci hanno raccontato una situazione assurda: stanze con cinque persone. Tutto questo non è umano”, conclude. Ferrara. L’Ateneo entra in carcere: sì alla sede di via Arginone di Nicola Bianchi Il Resto del Carlino, 27 agosto 2024 Il Garante: “Buona notizia. Ma non risolve i problemi”. Arrivato l’ok del provveditorato dell’amministrazione penitenziaria al nuovo polo. Il referente regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri: “Proposta di altissimo livello. Ma il limite è fornire un certificato di qualità a pochi. Troppo analfabetismo”. Molto bene l’ok al futuro polo penitenziario di via Arginone, ma non sarà questo a risolvere i problemi con i quali lo stesso istituto combatte ogni singolo giorno. E il garante regionale dei detenuti dell’Emilia Romagna, Roberto Cavalieri, lo sa molto bene e non si nasconde. “I poli universitari penitenziari - dice subito - in Italia sono tantissimi e sono di altissimo livello le loro proposte trattamentali. Ma hanno un limite molto grosso”. Si spieghi meglio... “Ovvero, fornire un certificato di qualità a un numero ridotto di persone. Penso ad esempio a Parma: su 700 detenuti, gli iscritti sono 30. In carcere regna purtroppo un altissimo tasso di analfabetismo anche sotto il profilo delle competenze professionali. Ci sono detenuti italiani e stranieri che non sanno nemmeno scrivere il loro nome e cognome”. Quale soluzione ha in mente? “Oltre a questi progetti con l’Università, bisogna crearne altri ad hoc per curare la piaga dell’analfabetismo o, penso ad esempio, aiutare chi non ha mai lavorato in vita sua”. Restando all’Arginone, il primo problema però resta quello del sovraffollamento: l’ultimo dato parla di 400 detenuti a fronte di una capienza massima di 244 posti. Una grana non di oggi ma che ci portiamo avanti da anni... “Purtroppo non solo di Ferrara. Qui vanno avviate relazioni tra enti locali e Procure, chi ha commesso reati lievi non può andare in carcere ma occorre trovare una adeguata soluzione domiciliare. Oggi si va in carcere per il pericolo di fuga, per il pericolo di reiterazione del reato o per mancanza di un domicilio. In questo ultimo caso, si tratta di persone che non hanno un luogo dove attendere le decisioni del giudice appena commesso il reato oppure, nonostante le condanne brevi, non hanno progetti di inserimento tali da evitare il passaggio in carcere”. Senza dimenticare poi la lungaggine dei processi, non crede? “Esattamente. Quando una persona si è rieducata dentro il carcere, ma il suo processo non è ancora concluso, lo Stato e i territori devono intervenire. Non dimentichiamo che un detenuto costa in media allo stesso Stato 180 euro al giorno”. Conti alla mano, i 400 dell’Arginone equivalgono a 72.000 euro al giorno, oltre 26 milioni l’anno. Corretto? “Certo. Mi chiedo: quanto pesa nel bilancio annuale dello Stato la custodia dei detenuti? Questa cifra potrebbe essere investita in altro modo per recuperare chi ha commesso reati? La mia risposta è sì. Serve una forte strategia a lungo termine, vanno cambiate le politiche di welfare, il problema non si risolve a colpi di indulto”. Altro tema: all’Arginone manca ancora un direttore di ruolo (la reggente è Carmela di Lorenzo, direttrice del carcere di Forlì, ndr). Non certo cosa da poco... “Inoltre va nominato un garante dei detenuti, ma in questo caso c’è un bando in atto. Poi il problema dell’estensione del padiglione come previsto dal Pnrr e, non certo ultimo, il fenomeno della disciplina degli ospiti, molti dei quali stranieri”. Dopo aver trascorso il giorno di Ferragosto nel carcere di Modena e in quello di Castelfranco Emilia, si è rivolto ai comitati locali per l’area dell’esecuzione penale adulti e ai procuratori dell’Emilia Romagna per denunciare un nuovo fenomeno che preoccupa: l’aumento dei detenuti giovani. Così anche a Ferrara? “Ormai ovunque. E spesso anche under 20. Persone imputate per reati contro il patrimonio o che hanno storie di dipendenza patologica e abuso farmaci. Nella nostra regione sono 246 i giovani su 3.700 detenuti adulti presenti, in alcuni casi si registrano anche trasferimenti dal Minorile alle case circondariali come quella della Dozza di Bologna. In alcuni istituti di detenzione il numero è significativo: a Piacenza, Modena, Bologna, Parma e Rimini, ad esempio, si registrano le percentuali più alte di presenza, che raggiungono livelli del 10% sulla popolazione detenuta. A Ferrara un po’ al di sotto”. Torino. Quando il teatro nasce in carcere, anche ad agosto di Gabriele Farina quotidianopiemontese.it, 27 agosto 2024 In carcere, il mese di agosto è un lasso di [non]tempo ancora più difficile da far passare, durante il quale l’ordinaria routine delle attività (scuola, corsi, laboratori, etc.) si sospende. La situazione nelle carceri italiane è drammatica e ve ne diamo conto ormai quasi quotidianamente, anche solo limitatamente a quanto accade nelle carceri del Piemonte. Sovraffollamento e personale insufficiente hanno portato ad una situazione estrema diffusa, che ha bisogno di urgente soluzione. Solo qualche giorno fa vi abbiamo proposto un’intervista con la garante dei detenuti Monica Gallo. C’è però da dire che c’è già chi lavora con forza e passione perché nelle carceri le condizioni di vita siano più accettabili o quanto meno si trovi un sospiro di speranza, perché si possa crescere anche in situazioni estreme come quella della detenzione, senza mai dimenticare che nell’ordinamento italiano il carcere dovrebbe essere riabilitativo e non punitivo. Un luogo dunque dove imparare, formarsi e tornare nella società come un cittadino utile alla comunità. Il teatro in carcere a Torino - Tra le attività che hanno come obiettivo cultura e riabilitazione annoveriamo con piacere un laboratorio di teatro (performing art) che l’Associazione Avvalorando sta sviluppando nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Un progetto biennale che ha visto la luce ad aprile, con la presenza di cinque giovani. Oggi, agosto 2024, i partecipanti al progetto sono 7/8, dopo le inevitabili difficoltà di adattamento iniziale. Gli incontri sono a cadenza settimanale e stanno proseguendo anche durante il mese di agosto, tradizionalmente più difficile e quest’estate in maniera particolare. Il laboratorio è portato avanti dagli operatori Alessandro Di Mauro, Yuri D’Agostino, Raffaele Musella, Monica Battaglia e Carolina Dardano. L’obiettivo sarà quello di portare in scena, in un teatro torinese, l’opera al cui allestimento di volta in volta il gruppo, mutevole nel tempo, lavorerà. L’obiettivo più ambizioso però sarà, come si legge nel progetto iniziale, “il risveglio emotivo dei ragazzi, reso possibile grazie al “lavoro del teatro”, affinché possano giungere a sentire il loro “dentro”, riuscire ad aderirvi e possano provare a farlo risuonare anche al di fuori di loro stessi”. Arte in carcere - Al teatro si aggiunge (ma le due cose vanno di pari passo) un laboratorio artistico, proposto in collaborazione col MAU - Museo di Arte Urbana di Torino. Un murale da dipingere a cura dell’artista Francesca Nigra al padiglione F (femminile) con il coinvolgimento delle detenute, dove c’è anche l’idea di portare il laboratorio teatrale. Agosto in carcere - Chiudiamo questo articolo che vuole essere il racconto di un progetto positivo e una voce di speranza nel futuro con le parole che l’Associazione Avvalorando ha usato sui suoi social per raccontare l’agosto in carcere. In carcere, il mese di agosto è un lasso di [non]tempo ancora più difficile da far passare, durante il quale l’ordinaria routine delle attività (scuola, corsi, laboratori) si sospende, lasciando così che in questo [non]luogo vi sia più spazio per la solitudine, il caldo e il silenzio che diventano talvolta insopportabili. Da qui l’obiettivo (raggiunto) di proseguire con il laboratorio teatrale anche in agosto: “Quest’anno noi ci saremo con un laboratorio teatrale partecipato e “musicato” con l’obiettivo d’instaurare relazioni e attribuire significati alle storie personali e collettive di coloro che vorranno farne parte”. Trento. “Per Aspera ad Astra”, il teatro per rigenerare il carcere vitatrentina.it, 27 agosto 2024 Anche quest’anno, per la settima edizione, anche Fondazione Caritro ha aderito a “Per Aspera ad Astra: riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, il progetto di Acri che dal 2018 ha portato percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro in più di venti carceri italiane, coinvolgendo oltre mille detenuti. Tra le 16 compagnie che partecipano c’è anche la trentina Finisterrae Teatri, con Camilla da Vico e Giacomo Anderle, che a Trento nel carcere di Spini di Gardolo è riuscita a coinvolgere in un unico progetto teatrale detenuti comuni, detenuti in regime protetto e femminile. I laboratori si concludono con uno spettacolo al quale, oltre ai detenuti e alle detenute, assiste il personale e gli operatori del carcere, il Garante dei diritti delle persone detenute, magistrati e altri invitati. “Vorremmo diventasse uno spazio aperto alla cittadinanza”, racconta Camilla de Vico, che immagina cittadini comuni tra il pubblico: “Noi cerchiamo di facilitare l’incontro con se stessi, al di là del reato, questo è il nostro modo di lavorare. Non ci sono battute da assegnare ma un tema da affrontare e un cammino da compiere, che è quello alla ricerca di mondi diversi, spazi di libertà. Sarebbero vuote le battute di un copione che non ha un contatto vero e profondo con la loro vita”. L’esperienza artistica porta allo stare insieme, a riflettere, a potersi esprimere, confrontare e infine dare vita ad uno spettacolo. Tutto ciò in modo leggero, ludico, apparentemente spontaneo. “In carcere abbiamo bisogno di trasformare i limiti in opportunità e questa è la chiave per aprire le porte”, afferma Camilla da Vico: “Un limite, ad esempio, è la documentazione, far conoscere queste esperienze all’esterno per ovvi motivi di privacy, ma ci si è aperta la porta delle voci, che hanno una libertà e un’unicità ancora più forte delle immagini”. I temi dello spettacolo girano attorno alla domanda esistenziale “cosa ci rende umani?”. Le risposte arrivano mettendosi in gioco. “Mi sono sentito in uno spazio protetto dove trovarmi, sperimentarmi, ho sentito senso di appartenenza, ho sentito il gruppo. Questo percorso ci ha fatto dimenticare che siamo in prigione e ci ha ricollegati al nostro esseri umani, alla libertà di provare a sentirci di nuovo umani” racconta uno dei detenuti. Un altro gli fa eco: “Quando ci incontriamo in giro, la prima domanda che ci facciamo è: “tu perché sei qui?” Questo non è mai successo a teatro. Questo percorso ci ha portati a non farci certe domande e a permetterci di scoprire la persona senza pregiudizi”. Oltre ai progetti teatrali, la Fondazione Caritro promuove e sostiene altre attività per il carcere, come “Sex Offender”, un percorso psicoterapeutico di gruppo e individuale destinato ai detenuti condannati per reati sessuali. Entro l’anno il progetto dovrebbe essere esteso anche a chi è uscito dal carcere sempre per reati di natura sessuale o di maltrattamenti. Sono circa dieci all’anno e l’obiettivo dell’intervento è quello di sostenerli nella delicata fase di reinserimento funzionale all’interno della società, al fine e contenere il rischio della recidiva. Reggio Calabria. Estate meno dura per i detenuti con il laboratorio di lettura di Anna Foti ilreggino.it, 27 agosto 2024 Paola Schipani e Romina Arena raccontano l’esperienza del loro servizio che non si è fermato: “Quando fuori si va in ferie, come quando ricorrono le festività, la nostra attività è ancora più di sostegno perché chi vive ristretto fa molta più fatica”. “Quando una persona ritrova una parola che ad un certo punto della vita aveva smesso di pronunciare o conosce una parola nuova, ecco per noi quello è un traguardo pieno di nuove opportunità come quella di ritrovare un sentimento o intravedere una possibilità di immaginare, di liberare la propria fantasia. Il testo che leggiamo in carcere è un pretesto per far accadere la cosa per noi più importante: fare precipitare nel centro del cerchio il vissuto delle persone che lo compongono, ossia i detenuti. Come si può immaginare di interrompere questo percorso? Nonostante il periodo di vacanza ci siamo organizzati per presenziare settimanalmente. Non abbiamo voluto lasciare chi costantemente conosce il vuoto della lontananza e dell’isolamento. Un vuoto che in carcere si amplifica”. Questa la testimonianza di Paola Schipani volontaria in carcere da vent’anni e che da dieci, con l’educatrice alla lettura consapevole Romina Arena, conduce ogni settimana due laboratori di lettura, uno per il gruppo della sezione di media sicurezza e l’altro per il gruppo della sezione dei protetti del carcere di Arghillà di Reggio Calabria. La loro attività non si è fermata in queste vacanze. “Quando “fuori” si va in ferie, come quando ricorrono le festività, la nostra attività è ancora più di sostegno perché chi vive ristretto fa molta più fatica”, sottolineano Paola Schipani e Romina Arena. Dai colloqui agli incontri - “Il laboratorio di lettura nel carcere di Arghillà è attivo da un decennio. Avviato nel carcere Giuseppe Panzera, noto come San Pietro, è stato poi trasferito nel carcere nuovo. Esso è nato dall’ascolto. Nel 2004 - racconta Paola Schipani - con il Cvx iniziai a prestare un servizio volontario in carcere. In sede di colloqui incontravamo le persone detenute per cogliere le esigenze essenziali. Nel tempo quei colloqui divennero dei veri e propri incontri in cui ascoltare e parlare. Con chiarezza colsi l’esigenza forte di momenti di relazione constanti e allargati che consentissero anche alle persone detenute di incontrarsi tra di loro. Mi accorsi anche di un’altra urgenza, quella creare possibilità di parlare in contesti nuovi in cui il vocabolario potesse tornare a spaziare con parole proprie del mondo dell’affettività e di una quotidianità non solo scandita da codici e da un gergo burocratico legato ai permessi, ai processi, insomma alla vita in carcere. Così mi rivolsi a Vincenzina Zappia e a Sofia Sarlo, della conferenza di San Vincenzo De Paoli, decane del volontariato in carcere, per condividere il mio pensiero e proporre un laboratorio di lettura che dal 2017 si avvale del prezioso apporto di Romina Arena, educatrice alla lettura consapevole. Negli anni, infatti, abbiamo collaborato con l’associazione culturale Pietre di scarto, grazie alla quale abbiamo promosso in carcere incontri con scrittori come Eraldo Affinati”. Le parole ritrovate - “In carcere - racconta ancora Paola Schipani -il vocabolario diventa asfittico. Muoiono tutte le parole della vita ordinaria, tutte le parole dell’affettività, tutte le parole che non sono utili a descrivere le esigenze strettamente legate a fronteggiare la condizione di restrizione. Dunque il bisogno di ampliare il vocabolario in carcere è palpabile come quello di tornare a dare un nome ai sentimenti. Il carcere è la struttura più conformista che esista e il rischio di dimenticare, persino il proprio nome, visto che ci si sente chiamati per cognome, è concreto. La vita delle persone detenute è fortemente ancorata al dato materiale della loro restrizione. Le parole possono contribuire a modificare questa dimensione. Attraverso le parole, nel nostro caso, della letteratura, passa la possibilità di leggere il mondo, di leggere sé stessi e di immaginare un cambiamento. C’è sembrato fondamentale lavorare in questa direzione e continuiamo a farlo con costanza. Un’attività che ci ha consentito di creare rapporti autentici, ognuno con un proprio percorso. Così c’è stato anche chi, dopo un’inziale diffidenza è poi venuto a chiedere un libro. Piccole grandi rivoluzioni necessarie in carcere, come in ogni altro contesto abitato da persone”. Uno spazio di libertà in carcere - “Il laboratorio - spiega Romina Arena - è un’occasione per confrontarsi con un testo letterario che non racconta nient’altro che la vita delle persone comuni. Per leggere non occorre essere letterati o accademici. Dentro la letteratura altro non vi è che la vita quotidiana, spesso la più faticosa e la più difficile. Dunque in carcere la possibilità di un laboratorio di lettura consapevole ha un valore che non è diverso da quello che può avere un laboratorio di lettura in altro contesto. I nostri laboratori non sono rivolti ai detenuti ma alle persone. Noi siamo con loro, non con quello che rappresentano, con il reato che hanno commesso. Siamo oltre, insieme. Li stimoliamo a mettersi in gioco in un contesto circolare in cui poter tirare fuori, superando un linguaggio fortemente stereotipato, tutto quanto sottaciuto altrove, il loro vissuto esperienziale. Noi vediamo le persone emozionarsi e anche commuoversi, sperimentare la possibilità di liberare le parole, il lessico e così le emozioni, il pianto e tutta la gamma dei sentimenti. Uno spazio di libertà dentro il carcere, un luogo in cui potersi esprimere, liberi da pregiudizi. Ciò che cambia è solo il livello di ascolto, notevolmente potenziato perché le persone che partecipano ascoltano la nostra voce e anche quello spazio di silenzio che di cui spesso ci si dimentica, che si dà per scontato nella quotidianità nella nostra vita. Un’esperienza che offre ai detenuti e anche a noi delle nuove possibilità”. Stare dentro per portare fuori una voce nuova - “Un’esperienza che non è di intrattenimento e che rientra a pieno titolo nel percorso trattamentale che coinvolge le persone detenute. Non è un’occasione di “evasione” ma è un’opportunità di acquisire una prospettiva diversa, di costruire insieme uno sguardo diverso sulle relazioni, sulla complessità della vita, sulla problematizzazione della vita e sul valore che tutto questo costituisce soprattutto in un frangente, che non riguarda il carcere ma l’intera società, in cui la sfrenata semplificazione non sostiene ma riduce e comprime il valore della persona. Spesso la persona ristretta sente su di sé esclusivamente lo stigma della condanna che ha subito e si dimentica di essere persona. Invece - prosegue Romina Arena - è importante per noi che sia superata questa percezione come è importante che anche fuori, dove noi testimoniamo la nostra attività dentro il carcere, allo stesso modo, sia superata la separazione sociale tra carcere e società civile, di cui il carcere non solo è componente viva e uno specchio. Il nostro senso di stare dentro è anche quello di farsi testimoni per portare fuori la possibilità di decolonizzare un immaginario molto stratificato e ancora ancorato a narrazioni vecchie. Dentro la società civile le narrazioni possono e devono essere nuove e anche belle perché popolate da persone e da emozioni”. Leggere per scegliere - “Ogni volta che ci confrontiamo con un testo, inevitabilmente troviamo aspetti che ci riguardano, sfumature che, assomigliandoci, ci accomunano o ci differenziano allora si crea questo legame empatico, profondamente umano che rende questa lettura condivisa una finestra dalla quale guardarsi in modo nuovo e, perché no, desiderare di scegliere e di cambiare, tendere alle stelle. Un percorso - conclude Romina Arena - che costruisce relazioni autentiche e che viviamo con la responsabilità appropriata a chi sa di essere attesa. Quel momento, nell’arco di quel tempo comunque difficile, è importante. È quello spazio di libertà che non conosce stagioni. Dunque ci siamo state per tutta l’estate. Non avremmo potuto e voluto fare diversamente”. Un libro sospeso - “La proposta è stata lanciata dalle stesse persone detenute della media sicurezza del carcere di Arghillà. Le librerie di Reggio Calabria hanno aderito all’iniziativa avviata un paio di mesi fa e che si protrarrà per tutto il mese di settembre. È possibile acquistare i libri in copertina morbida che poi saranno raccolti per essere collocati nella biblioteca del carcere di Arghillà. La cittadinanza potrà aderire recandosi presso librerie oppure acquistando online sulle piattaforme specifiche”, conclude Romina Arena che domani pomeriggio alle ore 18:30 interverrà all’iniziativa di sensibilizzazione “Libri che liberano”, presso la libreria Libro Amico di Reggio Calabria. Con lei anche Ida Triglia, docente di lettere negli istituti penitenziari, e Kento, rapper e scrittore reggino molto attivo in progetto con giovani inseriti nel circuito penale. Dentro e fuori - Dunque raccontare fuori ciò che accade dentro una persona, sia essa ristretta oppure libera e scoprire una comunanza che sfida quella separazione materiale che pure esiste tra il dentro e il fuori ma che la lettura supera e annulla, innescando una sorta di riappropriazione di emozioni, e di parole e gesti per manifestarle, per dare atto della loro esistenza. Ciò rende evidente che quanto si ritiene lontano, in un luogo altro e distante e da tenere a distanza, in realtà è non solo è straordinariamente simile ma è parte integrante. La relatività di parole come dentro e fuori, ancora imprigionate in rigide categorie utili solo a ridurre ciò che non è riducibile, è essenziale. Essa solo può concorrere a spiegare come esse vadano costantemente ribaltate per essere traccia attendibile della vita che sono chiamate a raccontare. Così dentro la società civile deve entrare la voce del carcere e di tutto quanto, essendo vita, non può e non deve essere lasciato fuori. Così la lettura diventa un atto rivoluzionario nel carcere e nella società civile genericamente intesa. Uno spazio di speranza nonostante le tante criticità che ancora attanagliano l’universo carcerario, soprattutto quello sovraffollato con carenza di personale di Arghillà. Il paradosso della cittadinanza: italiani per diritto di sangue di Flavia Amabile La Stampa, 27 agosto 2024 Mentre centinaia di migliaia di ragazzi cresciuti in Italia attendono di essere riconosciuti. Ogni anno circa 85mila residenti all’estero ottengono il documento. Molti non conoscono nemmeno la lingua. Italiani per discendenza, senza aver seguito particolari percorsi per dimostrare il loro amore per il Bel Paese come vorrebbe il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, né glielo ha ordinato il medico come sottolinea con fastidio Roberto Vannacci, parlamentare europeo della Lega. Sono italiani per diritto di sangue, perché hanno un antenato che arrivava dal Piemonte, dal Veneto, dalla Sicilia o da una delle altre terre di grande emigrazione, e hanno deciso di far valere le loro origini. L’unica condizione è che l’antenato italiano sia morto dopo il 17 marzo 1861 (data della proclamazione del Regno D’Italia) e che la catena di trasmissione della cittadinanza non si sia mai interrotta per naturalizzazione o per rinuncia di uno degli ascendenti prima della nascita dei figli. E un’eccezione rispetto alle regole sulla cittadinanza introdotta da una legge del 1912, la prima a regolare in modo organico la materia, e aveva l’obiettivo di garantire ai figli degli emigrati il mantenimento del legame con le loro radici. Non è un percorso semplice, bisogna ricostruire la linea di ascendenza dei richiedenti e recuperare documenti di epoche lontane. Non a caso, fiutata la possibilità di guadagno, sono fiorite agenzie e persone specializzate in questo tipo di attività. Chi riesce a provare le proprie origini diventa cittadino italiano a tutti gli effetti senza mai venire in Italia e quindi senza dover conoscere né la lingua, né la cultura, perché la procedura si sbriga attraverso i consolati. Non è necessario spostarsi nemmeno per votare grazie a una legge del 2001 voluta da Mirko Tremaglia, uno che ha avuto sempre il cuore a destra e che avrebbe avuto molto da dire sulle idee di purezza italica sbandierate dai nostalgici attuali. L’onda dei richiedenti cittadinanza per ricostruzione genealogica è un fenomeno che è da tempo all’attenzione del ministero degli Esteri che un anno fa lanciò anche un allarme. Sono circa 30 milioni gli italiani che hanno lasciato l’Italia dall’800 e si stima che siano 60 milioni i loro discendenti, una parte dei quali intraprende il percorso opposto dei loro antenati e chiede la cittadinanza italiana. Come emerge dagli ultimi dati Istat sugli italiani residenti all’estero nel 2022 si registrano 85mila acquisizioni di cittadinanza italiana (la stima comprende, oltre alle acquisizioni per matrimonio e per trasmissione al minore convivente, circa 13% e 38% rispettivamente, ma soprattutto i riconoscimenti della cittadinanza Italiana iure sanguinis, 49%). Le acquisizioni sono molto numerose nei Paesi dell’America centro-meridionale (circa 65mila; 34,1 per mille dei residenti), in particolare in Brasile (oltre 27mila; 49,7 per mille) e Argentina (circa 26mila, 28,2 per mille), soprattutto per effetto dei riconoscimenti iure sanguinis. I consolati dove il fenomeno è più diffuso sono Buenos Aires (oltre 13mila acquisizioni; 41,7 per mille residenti) e San Paolo (quasi 10mila; 40,7 per mille) che, nell’insieme, raggruppano il 27,1% del totale delle acquisizioni. Sono molte di meno invece nei Paesi europei (circa 12mila, 3,8 per mille residenti). La conseguenza? Ci sono regioni italiane inondate di richieste di cittadinanza da parte di persone che vantano antenati italiani. Accade in Veneto dove l’Anci un anno fa denunciava le difficoltà da parte degli uffici amministrativi di gestire la mole di pratiche ma anche il fatto che “non appena ottenuta la cittadinanza si allontanano dal Comune di residenza godendo dei vantaggi che conferisce la cittadinanza italiana, lasciando agli uffici anche l’incombenza dei procedimenti successivi”. “Antisemitismo, troppe ambiguità”. L’allarme del dem Emanuele Fiano di Aldo Torchiaro Il Riformista, 27 agosto 2024 L’ex parlamentare Pd preoccupato dalla lista del Nuovo Pci e dalle iniziative antiebraiche “Le guerre in Medio Oriente sono solo alibi, assurdo che Liliana Segre viva sotto scorta”. Emanuele Fiano, per quattro legislature in parlamento con il Pd, di cui è stato anche portavoce nazionale, dedica il suo impegno alla memoria. Nel gennaio 2021 ha pubblicato il libro “Il profumo di mio padre. Nel 2022 Ebreo”, che racconta del rapporto con il padre, Nedo Fiano, sopravvissuto ad Auschwitz. Una storia personale dentro una storia senza fine, su cosa vuol dire essere ebrei oggi in Italia. Parallelamente alle tensioni in Medio Oriente, usate come alibi, tornano puntuali le violenze antisemite in Europa... “Come già successo nel passato, le guerre in Medio Oriente sono benzina sul fuoco dell’antisemitismo che esiste sempre e cova sempre sotto la cenere. Un vento di accusa verso Israele e di attacco al diritto di esistenza allo Stato di Israele, qui da noi prende poi le forme dell’antisemitismo. Del resto ne abbiamo ormai una esplicita manifestazione quando vediamo in Francia l’autore dell’attentato alla sinagoga rivestito dalla bandiera palestinese”. Una saldatura perfetta, in qualche caso plastica, tra movimenti Pro-pal, antisemitismo e terrorismo vero e proprio… “Nel caso della Francia sì. Attaccare una sinagoga perché si vuole la “Palestina libera” è un sillogismo che abbiamo visto incarnarsi nell’attentatore di Beth Yaacov, sinagoga di La Grande-Motte, prontamente assicurato alla giustizia”. Poi bisognerebbe capire cosa significa, “Palestina libera”, se non pulizia etnica o genocidio. Slogan terribili che finiscono in bocca a tanti giovani e meno giovani… “Infatti, se “Libera” significa dal Giordano al Mediterraneo cancellando lo Stato di Israele, dovrebbe essere un concetto da cui prendere in generale le distanze. Ma chi vuole sposare la causa palestinese facendo esplodere una bomba, o una bombola di gas davanti a una sinagoga, incarna la perfetta saldatura di un odio generalizzato, insieme, verso gli israeliani e verso gli ebrei”. Odio generalizzato di cui c’è riprova continua anche da noi. Ci mancava il “Nuovo Pci” con le liste degli “agenti sionisti”… “Del nuovo Pci non sapevamo, ma c’è una sigla, il Carc, che invece conosciamo. Ho fatto parte di liste del genere, in passato. In questo caso denota una scarsa conoscenza dei ruoli e degli incarichi di certe persone. Al di là di questi errori, è un atto gravissimo”. Espone a un rischio personale gli obiettivi citati? “Mette nel mirino le persone che sono citate nella lista. Chiunque, odiatore degli ebrei, sconsiderato, terrorista può sentirsi legittimato a mettere nel mirino le organizzazioni e le persone che sono citate”. Le uscite sempre infelici di Chef Rubio sono solo la ricerca spasmodica di visibilità personale o hanno qualcosa di più grave, di criminale? “Non so, la persona in questione ha processi in corso derivanti da numerose denunce. Una di queste è stata depositata dalla senatrice a vita Liliana Segre per un’aggressione volgare da lei subìta. Al di là delle decisioni dei magistrati sulla rilevanza penale, queste sue uscite sono la punta di diamante dell’odio antisemita che promana da più parti e che - come dicevamo - si fonda sulla sovrapposizione tra ebrei e israeliani. E sulla subordinazione tra il diritto a esistere e a vivere in pace di milioni di israeliani con questa o quella posizione politica del governo, con questa o quella operazione militare”. Poi non esiste solo la benzina sul fuoco del Medio Oriente. Gli antisemiti c’erano prima, e da sempre… “A volte si sentono più legittimati, più forti. Ma sì, a me in 14 anni di attività parlamentare sono arrivate minacce - soprattutto, ma non soltanto - dall’estrema destra in conseguenza della mia attività di contrasto alle organizzazioni neofasciste. Non sono cose nuove: esiste l’odio verso l’altro, verso il diverso, che in Italia ha più volte preso la via dell’antisemitismo. E che da sempre si amplifica in maniera virulenta in occasione di guerre in quella regione”. Lei è sotto scorta da 14 anni, se non sbaglio… “Vivo sotto scorta da 14 anni. Come devono viverci molti presidenti delle comunità ebraiche locali. Molti rabbini capi. Ma la cosa più eclatante, che più fa riflettere, è che una anziana donna, sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz, oggi debba avere la scorta in casa, in Italia. Essere ebreo oggi in Italia, in Europa, rappresenta un rischio per la vita. Non lo si vede ma è così”. Ci sono frange di contiguità tra antisemitismo e violenza razziale anche a sinistra, con i movimenti Pro-Palestina... “Le sinistre di cui parla lei - alcune sinistre - debbono fare sempre molta attenzione a considerare e giudicare la questione mediorientale con un metro di giudizio che vede in quella terra lo scontro tra due diritti e non tra un diritto e un torto. Se si bruciano le bandiere di Israele, non si fa differenza tra il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato - come anche io penso - e quello di Israele ad avere uno Stato, si scivola nella categoria dell’antisemitismo. Succede, è successo in diverse manifestazioni. Io stesso ho fatto delle denunce per slogan che sono stati urlati in alcune manifestazioni. Bisogna guardare a questi fenomeni con attenzione. Con un rigore e una pulizia delle idee e delle fonti che devono tenerci lontani da ogni scivolone”. Tema entrato di peso nella campagna elettorale americana… “Kamala Harris ha fatto due riferimenti chiari, che noi democratici dobbiamo fare nostri: “Mai venga meno il diritto di Israele a difendersi, ma verrà meno il ricordo delle atrocità a cui assistiamo a Gaza. Bisogna fermare quello che sta succedendo”. Una posizione equilibrata, quella che dovrebbe avere una sinistra matura”. Migranti. Ho ispezionato il Cpr di Porto Empedocle: un lager fuori dalla Costituzione di Antonio Nicita* L’Unità, 27 agosto 2024 Il governo lo chiama “Centro trattenimenti” ma quello di Agrigento è un carcere di afa e lamiera, che calpesta i diritti umani e di difesa. Il nuovo Centro Trattenimenti dei migranti che il Governo ha realizzato in tutta fretta a Porto Empedocle nella settimana di Ferragosto è un pezzo di asfalto a forma di triangolo isoscele subito fuori il porto e subito prima di una spiaggia piena di bagnanti. Il Centro è di fatto adiacente all’enorme e vuoto hot spot, ma separato da una doppia fila di alte recinsioni di acciaio. vuoto al momento del mio arrivo, nel pomeriggio di un sabato agostano. Ci sono diversi container contenenti 6 posti ciascuno con letti a castello, una portafinestra, un container esterno per docce e toilette. Lo spazio di asfalto che circonda i container è veramente ristretto ed è inimmaginabile che possano starci, a regime, 70 persone. Al momento della mia ispezione ci sono 6 tunisini. Fuori dal cancello altrettanti poliziotti affaticati dal sole, altri sono nelle macchine che circondano la struttura. L’impressione è quella di un’apertura frettolosa che si riflette anche nell’assenza di spazi sufficienti e coperti dentro e fuori la griglia di ferro, tanto per i migranti quanto per i vigilanti. Ci ripariamo sotto una piccola tenda dal sole di agosto che picchia e parliamo. Chiedo alla interprete che trovo sul luogo la gentilezza di restare qualche minuto ancora, giacché quasi tutti parlano solo arabo. Il primo tunisino si chiama Ala Agili, ha 23 anni e ha appena ricevuto la notizia della convalida dell’ordine di rimpatrio dal tribunale di Palermo. Tutto rapidissimo in meno di 4 giorni. L’avvocato (d’ufficio) lo ha visto in video in udienza senza averlo mai incontrato prima, non ha avuto il tempo di contattare nessuno nella settimana di Ferragosto. Come si legge dal dispositivo che lo riguarda, Ala Agili proviene da un Paese ritenuto ‘sicuro’ dall’Italia e comunque risulterebbe aver tentato la fuga nonché aver rinunciato a versare la cauzione di 2.500 euro (ai sensi della confusa legislazione Cutro). Questo ragazzo tunisino ci racconta tuttavia una storia diversa (dal punto di fatto ‘accertato’ dal Giudice): è vero, si è buttato a mare dal barchino (come lui stesso ha raccontato non avendo altri testimoni) a qualche decina di metri dall’arrivo ma non per fuggire, asserisce, ma solo perché era arrivato, sapeva nuotare e si stava stretti nel barchino. Racconta di essersi recato in una struttura che aveva davanti una auto dei Carabinieri (e che aveva quindi scambiato per un hotel ospitante migranti); di aver chiesto “help” (non parla né inglese né francese) e di come raggiungere le autorità per la richiesta di asilo. Mi chiede se si può contattare il personale dell’hotel per confermare le sue parole. Il verbale e la sentenza di accertamento dei fatti raccontano una storia diversa: avrebbe tentato la fuga e avrebbe chiesto alla ricezione dell’hotel - immaginiamo in arabo - come scappare dall’isola senza essere catturato. Gli altri 5 tunisini hanno ricevuto il diniego dalla Commissione e attendono la convalida del provvedimento di espulsione. Sono riuscito a farli mettere in contatto con un’avvocatessa. Vedremo. Sotto la tenda, la persona che parla per tutti è Khemains Abasse, 35 anni, con moglie e figli in Tunisia. Parliamo in francese, ma sfoggia anche uno spagnolo fluente, con termini abbastanza sofisticati. Sostiene di essere diplomato, e di aver fatto un master. Mi chiede come sia possibile che l’Italia giudichi “sicuro” un paese come la Tunisia che lui giudica “invivibile” e in preda a soprusi di ogni tipo. Sorride all’idea che si possa pensare che un migrante che lascia tutto per bisogno possa poi disporre di 2500 euro o avere trovato una banca o qualcuno che copra una fidejussione in due giorni tra Lampedusa, Porto Empedocle e Agrigento. Questa discussione, effettivamente surreale nei contenuti, avviene in una landa assolata e vuota, piena di recinti di ferro, tra poliziotti sudati e affannati, con il vento caldo che porta anche le voci dalla spiaggia dei bagnanti a poche decine di metri. Nessuna invasione, nessun pericolo. L’hot spot accanto vuoto. L’impressione è che si voglia usare questa settimana ferragostana per un esperimento che ribalti il costante orientamento giudiziario della procura di Catania finora contro i decreti del Governo. Non si capisce infatti il senso di una nuova struttura quando c’è già Pozzallo che, però, deve riferirsi a Catania. La mia personale impressione di questo pomeriggio di fine estate a Porto Empedocle è che sia molto difficile godere appieno di un diritto di difesa quando non incontri il tuo avvocato prima dell’udienza, non puoi parlare con lui in una lingua compresa da entrambi, non puoi fornire elementi di fatto autonomi per l’accertamento dei fatti compiuto dal giudice. Di fatto, queste persone sono trattenute come detenuti ma, a differenza dei detenuti, hanno molte meno possibilità di organizzare in due giorni una difesa, di essere ascoltati, di comprendere la legislazione italiana. Andando via mi sono chiesto dove sia il rispetto dell’articolo 10 della nostra Costituzione, quello che impone di accogliere uno straniero nel caso in cui non veda rispettati, nel suo paese, i diritti di cui pretendiamo il rispetto nel nostro paese. E però mi sono confuso. Colpa del caldo e del sole. Mi sono sentito un po’ straniero anche io, tornando a casa. *Vice presidente gruppo Pd Senato Migranti. “Mio figlio Oussama sognava di aiutarci dall’Italia. Ora ridatemi il suo corpo” di Carlo Vulpio Corriere della Sera, 27 agosto 2024 Il 22enne morto nel Cpr di Potenza. La madre in Marocco, i parenti a Sondrio e a Cuneo: “Mi hanno detto che è stato picchiato selvaggiamente, e che per farlo rinvenire gli è stata fatta un’iniezione. Lo hanno visto scuotersi e morire lì, a terra”. Non si può morire così. Non puoi abbandonare il Marocco che non hai nemmeno 18 anni, come hai fatto tu, Oussama Darkaoui, per inseguire il sogno di diventare un calciatore perché eri molto bravo con il pallone, tanto che ti chiamavano Messi, poi sopravvivere attraversando l’Europa per quattro anni e infine arrivare in Italia e morire proprio all’ultimo miglio, il 4 agosto 2024, a 22 anni e mezzo, a Palazzo San Gervasio, Potenza. In un Cpr, ossia un Centro per i rimpatri, che altro non è che un campo di detenzione. Partisti senza soldi in tasca e con solo un fagotto da Mouhammadia, 25 chilometri da Casablanca, nel 2019, all’inizio dell’era Covid. Raggiungesti Tangeri, scavalcasti la recinzione metallica del grande e moderno porto Tangeri Med e ti attaccasti sotto alla pancia di un camion che salì a bordo di una nave diretta a Tarifa o ad Algeciras, in Spagna. Qui, prima a Lugo, nell’estremo nord, e poi a Madrid, tenesti duro in due centri per immigrati - che tuttavia non sono come i nostri Cpr, sottratti persino alle norme dell’ordinamento penitenziario -, perché la tua meta finale era l’Italia, Sondrio, dove vive tua zia Massira, la sorella di tua madre Leila Harmouch, che ora non finisce mai di piangerti. L’ultima tappa - Dalla Spagna raggiungesti la Francia, Parigi, dove cercasti di sopravvivere lavorando in nero, ma ti fu presto chiaro che quella era una illusione, anche perché Parigi costava tanto, troppo. Allora, via, in Germania, a Berlino, in un altro centro immigrati, forse il migliore di tutti, visto che lì ti hanno anche curato un dente cariato, altro che gli psicofarmaci somministrati a forza ai detenuti dagli “italiani brava gente” nel Cpr di Palazzo San Gervasio. Dalla Germania, l’Italia era un po’ più vicina, bisognava solo attraversare la Svizzera, e tu riuscisti a percorrere anche quest’altra tappa, fino al confine con l’Italia e oplà, eccoti a Sondrio da zia Massira. Marzo 2024. C’erano da fare “solo” i documenti, perché non avevi il permesso di soggiorno. Ma bisognava avere la residenza, e per ottenere la residenza occorreva prima il passaporto, e per avere il passaporto ci voleva prima la carta di identità, mentre tu avevi solo il tuo bel foglio di identità di colore verde che non era sufficiente, e insomma tra comune, consolati, uffici vari e scale da salire e scendere, ci voleva tempo. E così tu dicesti a tua zia: “Devo lavorare, mandare un po’ di soldi a casa, mio fratello Mouhamed Amin ha perso un occhio in un incidente e ha bisogno di cure, mia madre ha una grave forma di diabete e ha bisogno di medicine. Mi hanno detto che ai mercati ortofrutticoli di Napoli cercano manovali. Vado lì e tu, zia, nel frattempo, provvedi ai miei documenti. Appena saranno pronti, torno a Sondrio e prendo la residenza”. Niente lieto fine - Non hai fatto in tempo. Avevi appena inviato duecento euro a casa, i tuoi primi risparmi, che a Napoli ti hanno fermato. Clandestino. Irregolare. Non avevi nemmeno precedenti penali di alcun tipo, ma qui funziona così, per finire in un Cpr basta questa violazione amministrativa. E ti portarono subito nel Cpr di Psg, acronimo beffardo, che suonava come la famosa squadra di calcio parigina. Lì hai trovato la morte. Il tuo lungo viaggio, Oussama, si è concluso così, senza il lieto fine di “Io capitano”, il film di Matteo Garrone, bello e poetico, perché la vita non è quasi mai poesia, e la tua, Oussama, di sicuro non lo è stata. Del resto, quanto vale una vita? A chi interessa di una vita qualunque? E sono tutte uguali le vite di ciascun essere umano? No. Purtroppo. Ma c’è la tua famiglia, tua madre Leila, tuo padre Abdellah, i tuoi fratelli Abdelhak, Mahdi e Mouhamed Amin. A loro di te interessa. Ai tuoi amici, quelli che ti chiamavano Messi, e alla tua città, Mouhammadia, di te interessa. Alle tv e ai giornali del Marocco, al governo, al re Muhammad VI, la tua vicenda interessa. Vogliono tutti la verità sulla tua morte. Sei il loro Giulio Regeni, purtroppo. E tutti ti aspettano, per salutarti con un giusto funerale e una degna sepoltura. Ma il tuo corpo, anche dopo l’autopsia disposta dai magistrati, che hanno detto di “non escludere l’omicidio”, a venti giorni dalla tua morte, è ancora lì, in una cella frigorifera dell’obitorio dell’ospedale di Potenza. Il dolore di Leila - Senti cosa dice tua madre, Oussama. Abbiamo parlato con lei in videochiamata da Cuneo, dove vive Safaa, tua cugina, che ci ha fatto da interprete. Safaa ha trentuno anni ed è felicemente in Italia da venti. A Cuneo, Safaa lavora, ha due bambini, frequenta la moschea, come gli ebrei la sinagoga e i cristiani le proprie chiese (un po’ meno). Cuneo ha 56 mila abitanti e oltre settemila immigrati, cioè il 13 per cento, i quali per lo più fanno mestieri che gli italiani non vogliono o non sanno più fare. Quando Safaa ha saputo della tua morte, da Cuneo, con il marito e i due bambini, si è precipitata in macchina a Potenza. Da dove è tornata sconfortata. Ecco perché era necessario ascoltare Leila, tua madre. La sua implorazione non è meno straziante di quella di Priamo affinché Achille gli restituisca il corpo del figlio Ettore. “Voglio il corpo di mio figlio - dice Leila. Per favore. Vi supplico. Perché dopo averlo ucciso lo trattenete ancora lì in Italia? Oussama era un ragazzo molto buono, tutti gli volevano bene. È andato via da qui per aiutare la nostra famiglia, e invece ha trovato la morte. Una morte assurda, crudele. Chi lo ha ucciso ne risponderà davanti a Dio, ma la giustizia degli uomini, se esiste, deve dirci qual è la verità sulla morte di Oussama. Tutto questo è disumano. Dove sono i diritti umani di cui tanto parlate in Europa? Perché un ragazzo senza permesso di soggiorno finisce in un posto che è peggiore del carcere? Di una cosa sono certa, però. Oussama non si è suicidato. Nella sua ultima chiamata, il giorno stesso in cui è morto, mi ha detto che sarebbe uscito da quel centro il 20 agosto. Quindi il suicidio non avrebbe avuto senso. Ma se non si è ucciso vuol dire che lo hanno ucciso: ne sono sicura, lo sente il mio cuore di madre, e voglio la verità. Tutti noi qui vogliamo la verità”. I sospetti e le accuse - Leila ha appreso della morte del figlio nella maniera più brutale. “L’ho visto in foto, morto, su Facebook - continua -. Hanno pubblicato quella foto perché qualcuno potesse identificarlo con certezza. Era l’8 agosto, quattro giorni dopo la sua morte. Non ho capito più nulla. Sono svenuta. Oussama era lì, in quella foto, con gli occhi chiusi, e io non potevo nemmeno abbracciarlo”. Tua madre e quelli che ti conoscevano, anche al Cpr, ti descrivono come un atleta, alto un metro e ottanta, dicono che non fumavi né bevevi, e che avevi tanta voglia di vivere. Ma Leila ci racconta anche un altro particolare allucinante. “Ho parlato con diversi suoi compagni di prigionia - dice Leila -. Mi hanno riferito che Oussama è stato picchiato selvaggiamente e poi trascinato via come un animale e abbandonato per terra. E che dopo tutto questo, forse per farlo rinvenire, gli hanno fatto una iniezione endovenosa, che però gli è stata fatale: lo hanno visto scuotersi e morire lì, per terra, con la bava che gli fuoriusciva dalla bocca”. Oussama è collassato nel pomeriggio del 4 agosto. Il giorno successivo, alle 17, ne è stato “constatato il decesso”. Nessuno in quelle 24 ore lo ha soccorso. I magistrati stanno sentendo diversi testimoni, tra detenuti e personale del Cpr, e altri ne sentiranno. Soprattutto fra i 14 prigionieri che sono stati rilasciati - con provvedimento del questore Giuseppe Ferrari ben prima della scadenza dei termini di “trattenimento” - subito dopo la morte di Oussama e la rivolta nel Cpr che ne è seguita. Quei 14 si sono poi dati alla macchia, ma li stanno cercando, e qualcuno è stato già rintracciato. Sono tutti potenziali testimoni di “un omicidio che non si può escludere”. Il tuo, Oussama. Migranti. Nel “deserto blu” per salvare i migranti in mare di Gabriele Lodetti La Stampa, 27 agosto 2024 La mattina del 23 agosto ho ricevuto la proposta di partecipare alla diciottesima missione della Mare Jonio. Non ho esitato, d’altronde supporto Mediterranea fin dagli esordi e questa mi è sembrata un’ottima occasione per sostenere la lotta che portano avanti con il mio corpo oltre che con le mie idee. Quando il sole si è ritirato mi trovavo già su un aereo diretto a Trapani. I primi contatti con Mediterranea li ho avuti all’interno di Spin Time Labs, un’occupazione abitativa romana, che ormai da 4 anni sostengo come suo attivista. Uno degli aspetti che più apprezzo di Spin Time è la sua capacità di accogliere le differenze e di raccogliere in un unico cerchio le diverse parti che compongono la nostra società civile, dagli attivisti dei movimenti ai sindacati, dalla chiesa alle associazioni come Mediterranea, dai migranti agli italiani in cerca di una casa; come piace dire a noi del palazzo “Spin Time raccoglie tutte le persone disposte a sognare insieme per raggiungere orizzonti comuni”. Sono stati sufficienti pochi giorni perché i membri dell’equipaggio diventassero una grande famiglia, di cui oggi mi sento parte, capace di ascoltarsi e di lottare unita poiché decide di coalizzarsi sulla base delle idee comuni piuttosto che di dividersi sulla base delle differenze. Durante questo viaggio ho avuto la fortuna di fare la conoscenza di persone straordinarie. Uno è Ibrahima Lo, un giovane proprio come me, arrivato in Italia dal Sengal anche lui passando per il Mediterraneo: oggi è un attivista che combatte le ingiustizie e i soprusi che ha vissuto sulla propria pelle. Laviamo spesso i piatti insieme dopo i pasti ed intanto discutiamo delle tematiche che più toccano i nostri cuori e le nostre vite, sogniamo insieme un mondo diverso e il risveglio delle coscienze dei nostri coetanei, che rappresentano la speranza di cui abbiamo bisogno per avere la forza di continuare a lottare. Questi giorni nel Mediterraneo sono stati forse i giorni psicologicamente più impegnativi della mia vita ma allo stesso tempo anche tra i più fondamentali. La missione è andata molto bene ma è devastante vedere cosa succede nel Mediterraneo Centrale. Da quando superi la fossa che divide la placca continentale europea da quella africana vedi continuamente segnali di tutte le persone che restano imprigionate in questo immenso deserto blu, decine di barche vuote, infradito, giubbotti di salvataggio. Le urla di gioia, le lacrime delle persone che abbiamo soccorso, i racconti delle torture nei lager e degli amici, delle sorelle e dei genitori che non ce l’hanno fatta diventano un ago nel cuore quando sai bene quanto sarà difficile il secondo viaggio che ora li aspetta in Italia. Appena abbiamo invertito la rotta per andare verso il porto assegnato dopo l’ultimo soccorso eravamo tutti consapevoli che alle nostre spalle lasciavamo centinaia di altre vite. “Non ne abbiamo salvate abbastanza” continua a ripetermi la mia mente che ancora vede in mare imbarcazioni che non esistono, persone che non ci sono. Torno a Roma con tanto materiale su cui riflettere ma con una forza maggiore di lottare, quella forza che nasce dalle relazioni, dal sapere che si è parte di una grande famiglia che agisce insieme e che propone un’alternativa. Mediterranea è la dimostrazione che un’alternativa è già possibile e necessaria. Migranti. Protocollo Italia Albania: in G.U. il Dm sul rimborso spese di viaggio degli avvocati di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2024 Sulla Gazzetta ufficiale n. 198 del 24 agosto scorso, è stato pubblicato il Dm Giustizia del 5 luglio che regola la misura e le condizioni del rimborso delle spese di viaggio e di soggiorno dell’avvocato e dell’interprete del migrante ammesso al gratuito patrocinio. È stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 198 del 24 agosto scorso, il Dm Giustizia del 5 luglio 2024 che regola, a valle del Protocollo tra il Governo italiano e la Repubblica di Albania (siglato a Roma il 6 novembre 2023), la misura e le condizioni del rimborso delle spese di viaggio e di soggiorno all’avvocato e all’interprete del migrante. La legge di ratifica, la n. 14 del 21 febbraio 2024, è stata invece pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 44 del 22 febbraio 2024. Con il Protocollo l’Albania riconosce all’Italia il diritto all’utilizzo di determinate aree, a titolo gratuito, per la realizzazione di strutture per effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio dei migranti non aventi diritto all’ingresso e alla permanenza nel territorio italiano. L’articolo 4, comma 5, della legge 14/2024, prevede che l’avvocato del migrante, ammesso al patrocinio a spese dello Stato, quando non è possibile la partecipazione all’udienza dall’aula in cui si trova il giudice e il rinvio dell’udienza è incompatibile con il rispetto dei termini del procedimento, si reca in Albania per lo svolgimento dell’incarico e in tal caso gli sono liquidate, così come all’interprete, le spese di viaggio e di soggiorno in misura non superiore a 500 euro. Il Dm in Gazzetta chiarisce (articolo 3) che sono rimborsabili a titolo di spese di viaggio esclusivamente gli esborsi documentati relativi ai trasporti necessari per raggiungere le aree indicate dal Protocollo e per fare ritorno in Italia. E che sono come spese di soggiorno esclusivamente gli esborsi documentati per l’alloggio e per il vitto fruiti durante la trasferta. Per il rimborso (articolo 5) l’avvocato e l’interprete sono tenuti a depositare, con atto separato, istanza di liquidazione al giudice che ha tenuto l’udienza. Nell’istanza di liquidazione si devono indicare distintamente le spese di viaggio e di soggiorno oltre alla presentazione della documentazione comprovante gli esborsi sostenuti. Iran. “Liberate le prigioniere politiche nel carcere di Evin”: l’appello contro violenze ed esecuzioni di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2024 La Fondazione Narges Mohammadi ha diffuso un appello, sottoscritto da numerose personalità e organizzazioni non governative, per denunciare la situazione nella prigione di Evin a Teheran e sollecitare la scarcerazione della Nobel per la pace 2023 e delle altre detenute politiche iraniane. Questo il testo dell’appello: “Le prigioniere politiche iraniane stanno subendo una repressione brutale nella sezione femminile del carcere di Evin. Come attiviste e attivisti per i diritti umani, siamo solidali con le donne iraniane e chiediamo un’indagine internazionale indipendente. In quanto attiviste e attivisti per i diritti umani che hanno a cuore l’uguaglianza di genere e lo stato di diritto, nutriamo profondo allarme per le notizie che stanno arrivando dalla sezione femminile del carcere di Evin. Settanta donne di idee, affiliazioni e generazioni diverse sono attualmente prigioniere politiche nella più famigerata delle carceri iraniane. Vi si trovano ingiustamente, solo per aver lottato per la libertà e per i diritti umani in Iran. Da lì, ci hanno raccontato che il 6 agosto che le forze di sicurezza e le guardie penitenziarie hanno fatto irruzione nella loro sezione con una violenza brutale. Non abbiamo motivi per dubitare del loro racconto e per questo noi e le nostre organizzazioni siamo costantemente solidali verso queste donne insieme alle attiviste, agli attivisti e alle persone comuni che accompagnano senza sosta la loro causa. Secondo le informazioni ricevute, doverosamente verificate e confermate da diversi organi di stampa indipendenti, numerose prigioniere politiche sono state aggredite e picchiate dalle guardie penitenziarie e dagli agenti di sicurezza perché protestavano per l’impiccagione di Reza (Gholamreza) Rasaei, avvenuta quella mattina. Rasaei, che aveva preso parte alle proteste del movimento “Donna Vita Libertà”, era stato messo a morte in segreto, all’alba del 6 agosto, senza che la famiglia o l’avvocato fossero stati informati. La sua esecuzione era stata preceduta dalle torture che aveva subito per estorcergli una confessione forzata. Questa azione repressiva senza precedenti è scattata mentre le donne erano riunite in modo pacifico nel cortile del carcere ed esercitavano il loro diritto alla libertà d’espressione cantando slogan per l’abolizione della pena di morte e la sospensione immediata delle esecuzioni. Le prigioniere avevano già manifestato in modo analogo, a volte di loro iniziativa e a volte per contribuire ad altre mobilitazioni, per chiedere l’annullamento delle condanne a morte della loro compagna di prigionia Pakhshan Azizi - una giornalista iraniana di origini curde - e di altre tre donne: l’attivista per i diritti del lavoro Sharifeh Mohammadi, l’attivista per i diritti delle donne Varisheh Moradi e Nassim Gholam Simiari. A causa della gravità dell’aggressione e delle ferite inflitte, diverse prigioniere hanno perso conoscenza e altre sono state steccate dopo un esame sommario da parte del medico del carcere, senza ricevere cure adeguate. Anche nei casi più gravi, le autorità hanno impedito il trasferimento delle prigioniere negli ospedali, privandole delle cure mediche di cui avevano urgentemente bisogno. Appena ripresa conoscenza, con la consueta determinazione e risolutezza, le prigioniere hanno immediatamente dichiarato l’intenzione di presentare denuncia contro i loro aggressori, per cercare di far sì che nessuna violenza rimanesse impunita. Nel contesto dell’aumento della repressione interna contro attiviste e attivisti per i diritti umani e contro dissidenti politiche e politici, esprimiamo allarme per l’aumento delle esecuzioni che hanno raggiunto un drammatico picco il 7 agosto, con 29 esecuzioni in una sola giornata, 26 delle quali collettivamente nella prigione Gesel Hasar della città di Karaj. Lontano dagli sguardi dell’opinione pubblica e mentre l’attenzione della stampa si concentra sulla narrazione bellica e sulle crescenti tensioni in Medio Oriente, la Repubblica islamica iraniana continua la sua guerra principale, lanciata decenni fa: quella in grande stile contro chi le si oppone e contro le donne. In quanto attiviste e attivisti per i diritti umani, esprimiamo piena solidarietà nei confronti delle donne che mettono a rischio la loro vita nella lotta per la pace, la democrazia e lo stato di diritto in Iran. Ora più che mai le prigioniere del carcere di Evin si ergono come bastioni della resistenza nella lotta per la libertà. Queste donne, ingiustamente e illegalmente detenute come prigioniere politiche, meritano la nostra ammirazione ed è davvero urgente mobilitarci per loro. Pertanto, in solidarietà con tutte le donne e gli uomini che continuano a rischiare la loro vita per lottare in favore dello stato di diritto, della pace e della democrazia in Iran, noi e le nostre organizzazioni chiediamo: l’immediata cessazione dell’uso della pena di morte, che è una punizione inumana e degradante, coerentemente col nostro impegno per l’abolizione universale della pena capitale; la scarcerazione di tutte le prigioniere e di tutti i prigionieri, arbitrariamente in carcere per motivi politici e di coscienza e la fine dei procedimenti giudiziari che violano i diritti alla difesa e a un processo equo; l’immediata attuazione, da parte dello stato iraniano, di misure che garantiscano l’incolumità fisica e psicologica delle persone detenute in tutto il paese, soprattutto nella sezione femminile del carcere di Evin; l’avvio di un’indagine indipendente internazionale per conoscere la verità sugli atti di violenza commessi contro le prigioniere politiche del carcere di Evin, delle cui conclusioni le autorità iraniane dovranno doverosamente tenere conto” *Portavoce di Amnesty International Italia