Abuso d’ufficio, parte la corsa per cancellare le condanne di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2024 Con l’entrata in vigore della legge Nordio, parte la corsa dei pubblici ufficiali a farsi cancellare le condanne già passate in giudicato per abuso d’ufficio. Davanti alla soppressione del più classico dei reati a carico dei pubblici amministratori, senza dubbio la norma emblema di tutto la legge 114, è evidente che moltissimi sanzionati in via definitiva, come sempre accade nei casi di abolitio criminis, o di drastico ridimensionamento della rilevanza penale (basta pensare a quanto avvenne pochi anni fa sul falso in bilancio quando, con l’introduzione delle soglie, il reato venne drasticamente circoscritto), avanzeranno richiesta di cancellazione della condanna dal casellario. Circa 4mila i pubblici ufficiali interessati - Secondo l’Anm, che ha contestato quella che appare come una vera e propria “amnistia”, sono circa 4mila i pubblici ufficiali interessati; una ricerca del professore di Diritto penale della Statale di Milano, Gian Luigi Gatta, ha messo in evidenza come secondo i dati del casellario giudiziale, aggiornati a maggio 2022, relativi alle sentenze definitive di condanna dal 1997 al 2020, risultano iscritte oltre 3.600 condanne. Erano 546 nel 1997; sono progressivamente scese fino ad arrivare a 40 nel 2021. Se l’esplosione delle richieste di eliminazione delle condanne ricevute è un’ovvia certezza, come pure l’archiviazione di tutti i procedimenti in corso, con uffici giudiziari che già nelle settimane passate hanno provveduto a sospendere i giudizi in attesa dell’entrata in vigore della legge, da oggi sarà invece tutto da misurare l’impatto dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio sotto una pluralità di punti di vista. Ne ricordiamo tre. Da verificare, infatti, sarà se la capacità creativa delle procure, favorendo l’espansione di altri reati, proverà a compensare quello che la magistratura tutta, per una volta compatta, considera un drastico abbassamento delle tutele a disposizione dei cittadini. Un’espansione che potrebbe condurre al paradossale effetto di rendere applicabili, al posto del vecchio e ormai accantonato abuso, delitti con sanzioni più gravi come la corruzione o l’estorsione. Anche per scongiurare questa, per ora solo eventuale ricaduta, nella maggioranza si ragiona su una possibile complessiva riforma dei reati contro la pubblica amministrazione. La seconda incognita riguarda l’incisività del nuovo peculato per distrazione, che il ministero della Giustizia si è visto costretto a introdurre di corsa, nel decreto carceri, per tamponare l’assenza di piena tutela penale sulle distrazioni di denaro pubblico. Infine, c’è tutto il profilo di tensione con le fonti internazionali, a partire dal progetto di direttiva anticorruzione, che potrebbe a breve condurre la decisione della maggioranza davanti alla Corte costituzionale. Nello schema iniziale di direttiva, infatti, un robusto presidio penale per sanzionare le condotte ascrivibili all’ormai scomparso abuso d’ufficio è considerato essenziale dalla Commissione. Nelle settimane scorse, tuttavia, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha rivendicato di avere trovato un nuovo punto di equilibrio nel contesto europeo, con il riconoscimento della pluralità di reati che, complessivamente, la legislazione italiana può annoverare contro la corruzione. Una riforma delle sanzioni tributarie nel rispetto del principio di proporzionalità di Marino Longoni Italia Oggi, 26 agosto 2024 Dal primo settembre entrerà in vigore uno dei tasselli più interessanti della riforma tributaria fin qui realizzata dal governo Meloni, quello delle sanzioni tributarie amministrative. Giunge così a compimento un percorso iniziato con gli interventi sullo statuto dei diritti del contribuente e proseguito con la riforma dell’accertamento con adesione e poi con quella della riscossione. Per quanto riguarda le nuove sanzioni tributarie l’elemento di maggiore novità è certamente la corposa riduzione della misura delle sanzioni stesse. Basti pensare che fino a fine agosto l’omessa fatturazione Iva viene punita con una sanzione che va dal 90 al 180% dell’imposta evasa, mentre dal primo settembre si fermerà al 70% e sarà in misura fissa. E da questo punto di vista non ci può essere che una valutazione estremamente positiva perché in questo modo si introduce il rispetto del principio di proporzionalità tra la gravità della violazione e il peso della relativa sanzione. Basti pensare che in altri paesi europei le sanzioni tributarie sono dell’ordine del 20 o del 30% dell’imposta evasa. Non ci sono dubbi sul fatto che le nostre fossero decisamente sproporzionate. Altro principio interessante che ha guidato questa riforma è quello di premiare ulteriormente il contribuente che non attende l’azione di controllo da parte dell’amministrazione finanziaria ma si attiva anche dopo che siano trascorsi i termini previsti per l’adempimento. Per esempio, si concedono più possibilità al contribuente per intervenire con il ravvedimento operoso in rettifica di errori od omissioni da lui commessi. In questo senso è molto interessante la possibilità di applicare il principio del cumulo giuridico, cioè l’applicazione di una sola sanzione in presenza di ripetute violazioni della stessa natura, anche in sede di ravvedimento operoso. Così, per esempio, in caso di mancata emissione di dieci fatture oggi bisognerebbe pagare dieci volte la sanzione prevista per omessa fatturazione; dal primo settembre il contribuente potrà autoapplicare il principio del cumulo giuridico anche con il ravvedimento operoso applicando quindi la sanzione più grave aumentata del 25%. In questo modo c’è anche un evidente incentivo alla regolarizzazione spontanea, che veniva invece disincentivata con la previsione del pagamento di una sanzione per ciascuna violazione, che portava spesso alla previsione di sanzioni con importi elevatissimi e, di conseguenza, alla decisione del contribuente di attendere l’accertamento con l’applicazione obbligatoria del cumulo giuridico da parte dell’ufficio. Un punto critico è invece quello della decorrenza delle nuove disposizioni in quanto, in campo amministrativo, non è stata prevista l’applicazione del principio del favor rei, con la conseguenza che non solo le nuove sanzioni, decisamente più leggere, ma anche le modifiche favorevoli in tema di cumulo giuridico e di ravvedimento operoso, saranno applicabili solo per le violazioni commesse dal primo settembre, mentre, ai fini penali, le stesse si applicheranno dall’entrata in vigore del decreto legislativo 87 del 2024, cioè dal 29 giugno 2024. In questo contesto, è davvero un peccato che il legislatore delegato, pressato, a quanto pare, dai possibili costi calcolati (chissà come) dalla ragioneria dello stato, abbia escluso l’applicazione del principio del “favor rei”, facendo scattare le nuove sanzioni solo sulle violazioni commesse dal 1° settembre. Questo prospetta una lunghissima fase transitoria, nella quale convivranno vecchio e nuovo sistema sanzionatorio. Con buona pace del fisco semplice. Ottaviano Del Turco e la persecuzione giudiziaria mai condannata dal Pd di Giuliano Cazzola linkiesta.it, 26 agosto 2024 Ma come è possibile avere rapporti positivi e normali per decenni con una persona di cui condividi il lavoro e le opinioni, e arrivare a rimuovere tutto questo bagaglio di ricordi e di sentimenti, solo perché un magistrato apre un’inchiesta nei suoi confronti? La mano pietosa della Provvidenza ha liberato Ottaviano Del Turco da una vita che da tempo era solo sofferenza per sé e per i suoi cari. Ora riposa in pace. Tocca a noi restituirgli quella giustizia che gli fu negata dal 14 luglio del 2008, attraverso una persecuzione giudiziaria insensata e colpevole che fino all’ultimo - benché ad ogni grado di giudizio cadessero le accuse più gravi e infamanti una dopo l’altra - si è rifiutata di riconoscere in toto il grave errore giudiziario che ha minato per sempre la vita di un servitore dello Stato, di un “giusto”. Su chi è stato Ottaviano Del Turco e di che cosa ha compiuto tra i protagonisti della storia di questo Paese hanno parlato a lungo i Tg, mettendo a punto a ogni edizione una versione sempre più corretta. Persino la Cgil - di cui Del Turco era stato un prestigioso e stimato dirigente e che durante il suo calvario giudiziario aveva fatto finto di non conoscerlo - davanti al momento solenne della morte si è ricordata di chi le dedicò la parte migliore della vita. “‘A nome mio e di tutta la nostra organizzazione esprimo profondo cordoglio e vicinanza alla sua famiglia”. È quanto si legge in una nota del segretario generale della Cgil Maurizio Landini. “Fu un dirigente di primo piano del nostro sindacato fino a ricoprire l’incarico di segretario generale aggiunto dal 1983 al 1992 in una fase complessa della storia della Cgil e del sindacato confederale, dove si sono confrontate idee e proposte di diversi modelli sindacali e di rapporto tra sindacati e forze politiche”. In queste ultime parole, c’è la sottolineatura di un passaggio critico che mise in forte difficoltà la stessa unità della Confederazione: il decreto del 14 febbraio 1984 con cui il governo Craxi intervenne sulla “scala mobile” per rallentare la crescita dell’inflazione. La corrente socialista della Cgil guidata da Del Turco condivise quell’operazione insieme a Cisl e Uil, fortemente osteggiata dai comunisti. Del Turco e Lama svolsero ognuno la sua parte, facendo bene attenzione a non attraversare nessuna linea rossa e a non bruciarsi alle spalle i vascelli dell’unità. E ci riuscirono, al di là delle polemiche. C’è un episodio che rende testimonianza di questa “gran bontà dei cavalieri antichi”. Pochi mesi dopo lo scontro sul decreto di San Valentino, Del Turco fu invitato tra gli oratori ufficiali durante le esequie di Enrico Berlinguer. Vorrei essere stato disattento - e di scusarmi se così fosse - ma non ha visto particolari prese di posizione del Pd (di cui Ottaviano fu tra i fondatori), tranne quelle di singoli esponenti. Io non ero solo un compagno di Del Turco con una lunga vita sindacale intrecciata alla sua; eravamo amici. Fui uno dei pochi in quel maledetto 14 luglio - ero allora deputato - a difendere pubblicamente nelle sedi istituzionali e sui media Ottaviano. Mi avvalsi del diritto riservato ai parlamentari di recarmi al carcere di Sulmona per incontrarlo e portargli la mia solidarietà (ho saputo in questi giorni che lo aveva fatto, in via riservata, anche Franco Marini). Per tutti gli anni in cui è durato il processo, il 14 luglio, chiedevo la parola in Aula per rimarcare l’ingiustizia che aveva colpito - come un fulmine a ciel sereno - il mio amico. Una volta sola, dopo di me, chiese la parola un esponente del Pd: Piero Fassino. Ricordo ancora il coraggio di Del Turco quando - scarcerato - si presentava alla Camera e si sedeva su di una poltrona in Transatlantico, mi chiamava mentre ero in Aula e io lo raggiungevo e mi sedevo al suo fianco per assistere alla sfilata dei deputati del suo partito che ci passavano davanti concedendogli un breve cenno di saluto. Il solo che si fermò a salutarlo e a scambiare qualche parola fu quel comunista non pentito di Ugo Sposetti. Ricordo anche un silenzio azzardante e diffuso quando il moralismo d’accatto che si era impadronito della stessa legislazione minacciò di togliere a Del Turco, ormai affetto da gravi malattie invalidanti, il vitalizio maturato negli anni in cui era parlamentare. Per fortuna la cosa apparve tanto crudele che venne insabbiata. Ovviamente non intendo sollevare polemiche. Posso però testimoniare il grande sconforto che divora chi si sente abbandonato da persone con le quali ha comunanza di lavoro e di vita da decenni. Io ho vissuto questo sentimento da vicino insieme a Ottaviano. Ma come a lui è successo a tanti altri onesti amministratori, politici di sinistra (l’elenco sarebbe più lungo di quello dei proscritti filosionisti), di sentirsi abbandonati come un cane in autostrada se incappavano in un avviso di garanzia con relativa gogna mediatica. Questa è una forma di sudditanza alla sacralità delle procure. Una sacralità che non prende di mira solo le persone. L’ex Ilva è stata massacrata da una congiura mediatico-giudiziaria senza che i sindacati, in particolare la Cgil, abbiano avuto il coraggio di denunciare il killer. Il caso di Ottaviano Del Turco mi ha aiutato a pormi delle domande che magari non mi ponevo in altre circostanze perché non conoscevo a sufficienza le vittime degli abusi giudiziari. Ma come è possibile avere rapporti positivi e normali per decenni con una persona di cui condividi il lavoro, le opinioni, con la quale hai trascorso migliaia di esperienze, e arrivare a rimuovere tutto questo bagaglio di ricordi e di sentimenti, solo perché un magistrato apre un’inchiesta nei suoi confronti? La presunzione di innocenza non può essere solo un diritto garantito dalla Costituzione, ma è un corollario della amicizia, della stima che abbiamo provato fino a quel momento per questa persona, confermate da tanti momenti di vita comune. L’avvocato Gian Domenico Caiazza, che ha assistito al calvario giudiziario del mio amico, sta raccontando a puntate su di un quotidiano l’intera vicenda processuale nei suoi vari gradi. La cosa più grave è che l’accusatore Vincenzo Angelini, il boss della sanità privata abruzzese, colui che denunciò i presunti misfatti di Ottaviano, fu imboccato dal magistrato inquirente. Scrive l’avvocato Caiazza con riferimento ad Angelini: “Senonché viene contestualmente ad apprendere - sono atti del processo, a disposizione di chiunque vorrà consultarli - che la Procura sta mettendo da tempo il naso nelle sue attività di storno di immense quantità di denaro (già una sessantina di milioni di euro) che egli starebbe da tempo sottraendo alle sue aziende. Brutta storia. Ma forse, gli dice il Procuratore capo dott. Nicola Trifuoggi, questi soldi, o una importante parte di essi, Lei dott. Angelini li ha distratti dalle aziende perché costretto a pagare la politica? Ci pensi bene, perché in questo caso da potenziale indagato (di bancarotta per distrazione, per esempio, ma anche di corruzione), lei diventa persona offesa, vittima, concusso da Del Turco e sodàli, sa quella storia della concussione ambientale, Mani Pulite eccetera. Insomma, ci pensi bene. Il verbale del primo approccio in Procura è testualmente in questi termini”. E aggiunge: “Ci penso su, dice Angelini, ingolosito. Dopo qualche giorno, ritorna, per dire: a ben riflettere, oltre sei milioni di quei soldi che ho ritirato in contanti dalle mie aziende li ho dovuti dare alla vorace banda Del Turco. D’altro canto, basta leggere l’incipit della sua “collaborazione”, per capire di cosa stiamo parlando: “Sono qui questa sera perché mi è stato assicurato che sarei stato compreso per quello che più avanti dirò”. In sostanza, ad Angelini era stata promessa l’impunità se avesse eseguito quegli ordini espressi sotto forma di consigli e suggerimenti. Questa premessa ha un taglio di stampo mafioso. Anni dopo, Nicola Trifuoggi divenne vice sindaco di L’Aquila in una giunta di centro sinistra, creando in seguito dei grossi problemi alla sua coalizione. Quando era ancora in servizio, Trifuoggi fu l’interlocutore di Gianfranco Fini, allora presidente della Camera, nella polemica strisciante con Silvio Berlusconi. Durante un convegno, Fini disse in un fuori onda: “No ma lui (Berlusconi, ndr), l’uomo confonde il consenso popolare che ovviamente ha e che lo legittima a governare, con una sorta di immunità nei confronti di… qualsiasi altra autorità di garanzia e di controllo… magistratura, Corte dei Conti, Cassazione, Capo dello Stato, Parlamento… siccome è eletto dal popolo”. E Trifuoggi risponde: “È nato con qualche millennio di ritardo, voleva fare l’imperatore romano”. Per concludere, nonostante una conoscenza e una frequentazione durate sessant’anni, ignoro quale fosse la posizione di Ottaviano nei confronti della fede. Mi permetto però di affidargli nell’ultimo viaggio una promessa del Redentore: “Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché è di essi il regno dei cieli”. (Matteo 5.1-12). Al lavoro e non in cella. Commutazione a maglie larghe di Adelaide Caravaglios Italia Oggi, 26 agosto 2024 Strumenti alternativi. Accolto il ricorso proposto dall’imputato, condannato a un anno di reclusione per non essersi fermato a prestare aiuto nell’incidente stradale. L’imputato può chiedere la commutazione delle pene detentive brevi con una delle pene sostitutive come i lavori di pubblica utilità al più tardi nel corso della discussione. Il tutto nei processi pendenti in appello alla data di entrata in vigore della riforma Cartabia, cioè il primo novembre 2022, grazie alla norma transitoria contenuta nell’articolo 95 del decreto legislativo 10/10/2022, n, 150. E ciò per favorire la più ampia applicazione delle nuove pene sostitutive. Così la Corte di cassazione penale, sez. quarta, nella sentenza n. 30339 del 24/07/2024. Niente farina e lievito al detenuto in carcere duro di Adelaide Caravaglios Italia Oggi, 26 agosto 2024 Al detenuto in regime di carcere duro (art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario) niente farina né lievito: lo hanno stabilito i giudici della I sezione penale della Cassazione nella sentenza 23731 del 13/6/2024, annullando senza rinvio l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza che aveva accolto il reclamo dell’uomo disponendo che l’istituto penitenziario gli consentisse l’acquisto di farina e lievito. A parere del tribunale il divieto imposto dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, giustificato con “la potenziale pericolosità della farina che, dispersa nell’aria, a seguito di innesco, può dare vita ad una nube incendiaria o esplosiva”, era “irragionevole” sia perché veniva consentito l’acquisto di prodotti alimentari. Stranieri, stretta nella consegna ai Paesi d’origine se le celle sono sovraffollate di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2024 Il mandato d’arresto europeo esecutivo può essere eseguito solo se la detenzione è breve e la detenzione aperta e non chiusa. Lo Stato che richiede la consegna del condannato, nell’ambito di un mandato di arresto europeo esecutivo, deve garantire celle con lo spazio minimo vitale di tre metri quadrati, al netto degli arredi. Una condizione il cui rispetto deve essere assicurato dall’autorità giudiziaria e non da quella penitenziaria. Il giudice interno può comunque valutare l’esistenza di fattori compensativi, con requisiti molto stringenti. Nella valutazione del trattamento che sarà riservato al detenuto pesano, infatti, congiuntamente: la breve durata della detenzione, le dignitose condizioni carcerarie, la sufficiente libertà di muoversi all’esterno della cella per svolgere adeguate attività. Ma la sola presenza di questi elementi non basta ancora - avverte la Cassazione con la sentenza 33044 - la presunzione della violazione dell’articolo 3 della Cedu, che vieta i trattamenti inumani e degradanti, e scatta in presenza di uno spazio minimo vitale inferiore ai parametri individuati dalla Corte di Lussemburgo può, infatti, essere superata solo nel caso “in cui il detenuto sia sottoposto al cosiddetto regime “semiaperto” e non anche nel caso in cui il detenuto sia sottoposto al cosiddetto regime “chiuso”. La nota di Bruxelles - Trattamento, quest’ultimo, che sarebbe stato applicato nel caso esaminato dalla Suprema corte. Gli ermellini hanno così accolto il ricorso di un imputato rumeno, condannato a scontare dieci anni di carcere, pena non breve - come sottolinea il collegio - in un carcere sovraffollato. Per i giudici di legittimità non bastano le rassicurazioni ricevute dall’autorità penitenziaria, che erano invece andate bene alla Corte d’Appello che aveva disposto la consegna. Informazioni che facevano riferimento ad uno spazio vitale minimo di 3 metri quadrati, comprensivo però di letti e mobili, non meglio specificati. La Cassazione valorizza invece una nota informativa del Segretariato del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa di maggio 2024, prodotta dalla difesa, sulla situazione delle carceri in Romania. In particolare nella città di destinazione, per tutto il 2023, risultavano spazi inferiori agli standard comunitari; locali fatiscenti; assenza di attrezzature e di biancheria; materassi logori e infestati di cimici e scarafaggi. Ai giudici basta per negare la consegna e annullare la sentenza con rinvio. Accolta poi anche della richiesta del Pm di verificare le condizioni “compensative” a partire dalla possibilità di una detenzione aperta. Sicilia. Morire di carcere di Giacomo Di Girolamo tp24.it, 26 agosto 2024 Nella Sicilia della siccità ci sono luoghi dove l’acqua non arriva, ma gli ospiti non possono lamentarsi. Nell’isola delle temperature record e delle notti tropicali ci sono corpi madidi di insonnia e sudore, senza il piacere dell’aria condizionata, la pietà di un ventilatore, la sapienza di una finestra socchiusa, come facevano gli antichi, quel tanto che basta per fare passare un filo d’aria. Nella Sicilia degli allarmi per i turisti in fuga, anzi no, anzi, sono troppi e non sappiamo che farne, ci sono luoghi che registrano un overbooking osceno, un’offesa alla dignità delle persone. Sono le ventitré carceri siciliane, che hanno vissuto, come il resto delle carceri italiane, un’estate tormentata, nel disinteresse di gran parte dell’opinione pubblica e nell’incapacità della politica tutta di trovare una soluzione che permetta alla pena, giusta, di non essere anche un supplizio infame. In Sicilia il sovraffollamento ha superato la soglia del centosedici per cento. Mancano inoltre, nella pianta organica, ottocento agenti di polizia penitenziaria in tutta la regione. Le condizioni degli istituti di pena sono, nella gran parte dei casi, fatiscenti, con interventi di ristrutturazione di padiglioni ed edifici che vengono rimandati da decenni per mancanza di fondi, infissi arrugginiti, spazi angusti. Sono i dati che emergono dall’ultima relazione del Garante dei Detenuti, Santi Consolo. L’Ucciardone, il carcere simbolo di Palermo, quello che i mafiosi chiamavano “Grand Hotel Ucciardone”, per la facilità di contatti con il mondo esterno e di visite riservate (molti summit di mafia si tenevano proprio per riservatezza in carcere, ed erano leggendarie le cene organizzate per i detenuti e le visite delle prostitute su richiesta…) è oggi sulla soglia della crisi igienico sanitaria. Una situazione che però è meno grave di quella di Augusta: lì, per ogni detenuto sono garantiti solo 5,4 metri quadrati di spazio. Il minimo per legge, in teoria, è di nove metri quadrati. I detenuti sono esasperati: proprio negli ultimi giorni uno di loro, per protesta, ha dato fuoco alla cella. Una situazione spaventosa, soprattutto d’estate, quando le lunghe turnazioni idriche costringono i detenuti a fare i conti con l’impossibilità di una semplice doccia, nel caldo infernale delle celle che di notte supera i quaranta gradi. Cosa fare? Deputati regionali e nazionali, nella settimana di Ferragosto, hanno visitato gli istituti di pena e stilato un report impietoso. Di fronte alla disperazione di alcuni detenuti, i deputati regionali Ismaele La Vardera (Sud chiama Nord) e Valentina Chinicci (Partito democratico) hanno messo mano al portafoglio e donato centotrenta ventilatori da collocare in altrettante celle dell’Ucciardone. Un alito di solidarietà in un clima sempre più infuocato. Donatella Corleo è a capo della delegazione dei Radicali che ogni anno, in estate, visita le carceri italiane. Ne ha viste di tutti i colori, ma, sono parole sue, dalla visita all’Ucciardone è uscita “sinceramente provata”. Quello che era già un carcere al tempo dei Borbone oggi è una “una struttura inadeguata per accogliere i detenuti e che è lontana dal progetto di reinserimento sociale dei reclusi che per lo più sono di estrazione socio economica molto bassa”. Migliore la situazione al carcere minorile, l’Ipm Malaspina. Alcune camere sono inagibili per un incendio del 2023, e ci sono enormi problemi di bullismo e di scontri tra italiani e stranieri. Il personale è poco, gli arredi fatiscenti. Altro che “Mare Fuori”: la serie tv di culto prodotta dalla Rai ha reso popolari gli Ipm, ma la realtà è molto diversa dalla fiction, come sempre. Più che il mare fuori, come le spaziose celle con vista mare della serie Rai, questi hanno il mare dentro, per l’umidità che devono sopportare. Davanti l’Ucciardone, il giorno di Ferragosto, diverse associazioni per i diritti degli ultimi hanno organizzato un sit-in. Tra i manifestanti anche Totò Cuffaro, sempre lui, che è stato in carcere a Rebibbia per cinque anni e che da quando ha toccato con mano il mondo dei detenuti lotta per i loro diritti. Le proposte sono sempre quelle: amnistia e indulto, svuotare, in pratica, per trovarsi di nuovo con l’acqua alla gola, tra qualche anno, senza una riforma strutturale. “Questi uomini e queste donne, anche se hanno commesso errori - dice Cuffaro - hanno una loro dignità che va rispettata e preservata”. Le storie da dentro, che arrivano fuori, sono tante. Storie di suicidi - anche tra appartenenti alla polizia penitenziaria (a Palermo, il 2 agosto, un agente dell’Ucciardone si è tolto la vita, è il settimo dall’inizio dell’anno) - di aggressioni, di gravi patologie non curate, di chi non ce la fa. Storie di persone che attraversano strazi particolari e chiedono solamente un gesto di umanità. È il caso di un giovane che si trova al carcere di Trapani, dove i detenuti, per dirla con Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, “stanno drammaticamente stretti”. Un appello è stato lanciato dalla famiglia del giovane G.M., classe 1997, che da oltre un anno è detenuto. G.M. ha subito un intervento chirurgico ortopedico alcuni anni fa, con l’applicazione di una protesi alla gamba. Tuttavia, durante il periodo di detenzione, ha sviluppato seri problemi: le protesi si sono spostate, provocando fuoriuscite evidenti, dolori intensi e gravi difficoltà a fare anche dei semplici passi. “Nonostante la gravità della situazione, gli operatori sanitari del carcere si sono limitati a somministrare blandi antidolorifici, -racconta la sorella - ignorando la necessità di interventi più adeguati”. Solo dopo una caduta del giovane e una vibrata protesta dei compagni di cella, G.M. è stato trasportato d’urgenza all’Ospedale di Trapani. Qui è stato sottoposto a un intervento chirurgico tampone per rimuovere la protesi, ma i medici hanno comunicato che era necessario un intervento più complesso presso un centro di alta specializzazione ortopedica. Il paradosso è che, dopo l’intervento, senza alcuna degenza ospedaliera, G.M. è stato riportato in una cella affollata e priva di accorgimenti igienico-sanitari. Nel carcere di Trapani, tra l’altro, i detenuti stanno in cella venti ore al giorno, escono per sole due ore, caso unico in Italia. Nei bagni non c’è aerazione. Dai rubinetti l’acqua esce di colore marrone. Questo ambiente comporta un alto rischio di infezioni, che si sono puntualmente verificate nel caso di G.M: nonostante due urgenti ricoveri ospedalieri per i forti dolori alla gamba operata è stato sempre riportato in cella. Il detenuto ha sporto denuncia contro i sanitari del carcere per le cure tardive e inappropriate. Tuttavia, il paradosso è che ora dovrebbe essere curato e seguito dagli stessi operatori che ha denunciato. Ad oggi, quasi due mesi dopo l’ultimo intervento, non è stato ricoverato in una struttura ospedaliera adeguata. Il suo difensore ha presentato ben cinque istanze al magistrato di sorveglianza per chiedere la sospensione della pena o il ricovero in una struttura ospedaliera, ma non ha ricevuto alcun riscontro. “Mio fratello soffre di una gravissima infezione che, se non trattata adeguatamente, potrebbe degenerare in cancrena, nella più assoluta indifferenza delle istituzioni - racconta la sorella tra le lacrime - Chiediamo che venga trattato con la dignità e le cure che ogni essere umano merita”. E invece, per un’infezione non curata, adesso rischia di perdere una gamba. Sicilia. Valentina Chinnici: “Il Parlamento conceda l’amnistia per i reati minori” canicattiweb.com, 26 agosto 2024 “Chiediamo al Parlamento di concedere l’amnistia per i reati minori al fine di ridurre il sovraffollamento delle carceri”. Lo dice Valentina Chinnici che ha aderito alla staffetta delle giornate di digiuno promossa dal gruppo Bellezza Radicale e sostenuto dal Comitato transpartitico “Esistono i diritti” per sensibilizzare le istituzioni sul problema. “Gli istituti di pena - dichiara - sono al collasso. Una situazione che esaspera le condizioni di vita dei detenuti e quelle lavorative del personale penitenziario. L’amnistia pertanto non è soltanto un atto di clemenza, ma una soluzione indispensabile per allentare la pressione e tentare di ricreare quei presupposti necessari per garantire la funzione riabilitativa della pena”. Bari. Malato psichiatrico grave rimane in cella per 4 anni di Isabella Maselli Gazzetta del Mezzogiorno, 26 agosto 2024 “Violati diritti umani”, ricorso all’Europa dopo il trasferimento in Rems. Il 23enne detenuto in sei carceri “senza che venisse mai predisposto un programma terapeutico riabilitativo”. È stato in carcere quasi ininterrottamente per quattro anni, nonostante diverse perizie psichiatriche e sentenze avessero stabilito la incompatibilità con la detenzione per via delle gravi patologie di cui soffriva e soffre. L’annoso problema della carenza di posti nelle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (cioè strutture psichiatriche dove vengono ricoverati gli autori di reato con malattie mentali), è la ragione per la quale un 23enne della provincia di Bari solo nell’aprile scorso ha lasciato la cella. E ora, tramite i suoi avvocati, si è rivolto alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel ricorso, a firma dell’avvocato barese Emanuele Sborgia e dallo studio legale Saccucci di Roma, viene ripercorsa l’intera vicenda sanitaria e giudiziaria del ragazzo, “portatore di gravi disturbi psicopatologici, tra cui li disturbo schizo-affettivo, il disturbo psicotico di tipo paranoideo, alcuni disturbi della personalità ed un disturbo da abuso di sostanze”. Palermo. Detenuto tenta di suicidarsi nel carcere Ucciardone, salvato dagli agenti di Ignazio Marchese blogsicilia.it, 26 agosto 2024 Un detenuto nella nona sezione ha cercato di togliersi la vita è ed è stato salvato in extremis dal personale in servizio alla casa di reclusione maresciallo Calogero Di Bona “Ucciardone”. Lo riferisce Il delegato nazionale Fsa-Cnpp Maurizio Mezzatesta che si congratula con i colleghi per avere dimostrato massima professionalità per aver gestito una situazione così delicata. “Sono stati gli agenti a prestare i primi soccorsi, in attesa dell’arrivo del personale medico, sopraggiunto nell’immediatezza, salvando in extremis la vita al detenuto che si è provocato ferite in modo grave al collo ed alle braccia - continua Mezzatesta - Il personale durante i consueti e frequenti giri di controllo ha prestato soccorso al detenuto che perdeva molto sangue. Le ferite sono state tamponare con gli asciugamani poi il detenuto è stato affidato al personale sanitario del carcere ed è stato traportato in ospedale”. Un intervento tempestivo che ha salvato la vita di un uomo. “L’intervento dei poliziotti - conclude Mezzatesta - è stato tempestivo nonostante i colleghi sono stremati dai carichi di lavoro sproporzionati, dalla carenza di personale, e dal caldo asfissiante, e alla struttura obsoleta e non a passo con i tempi. Lo diciamo da anni la nona sezione è da chiudere”. Firenze. Ogni mese mille ricorsi per i giudici di pace: “Manca personale” di Andrea Vivaldi La Repubblica, 26 agosto 2024 A Firenze sono in dodici a fronte di una pianta organica che ne prevede sessantadue e di una proposta ministeriale che nel 2018 ne pianificava trentadue. È l’ufficio delle liti con i vicini e dei risarcimenti degli incidenti stradali. Dalle controversie per i mancati pagamenti e i ricorsi per le multe. Il giudice di pace non strapperà forse il primo piano come la Dda, eppure risponde a tanti problemi della vita quotidiana. Un ramo della giustizia silenzioso ma fondamentale e che oggi fa i conti con due questioni urgenti: da un lato la carenza cronica di personale, in cui servirebbe almeno il doppio dei giudici e potenziare gli organici amministrativi. E dall’altro, come negli altri ambiti di giustizia, i fascicoli pendenti: a Firenze nell’ufficio giudice di pace civile sono quasi 12 mila i procedimenti che attendono di essere chiusi. Il giudice di pace, che è un magistrato onorario, si occupa di questioni civili, penali e amministrative di lieve entità o valutazione più facile. Per il civile, che è il settore principale, tratta ad esempio controversie di condominio o sui confini delle proprietà, multe, ingiunzioni di pagamento, conciliazioni, cause su beni mobili. Come è facile intuire, le richieste da gestire sono tante. Nel capoluogo toscano si parla di oltre mille nuovi fascicoli al mese, sempre guardando al civile. Nel 2023, secondo i conteggi del ministero, ne sono arrivati 12.862 e ne sono stati chiusi 9.812. Un avanzo quindi di circa 3 mila in un anno. Un numero spinto anche dalla riforma Cartabia che, per ridurre i contenziosi in tribunale, a partire da marzo 2023 ha aumentato il raggio delle competenze del giudice di pace, che hanno quindi più carichi (ad esempio le cause su beni immobili adesso sono fino a 10 mila euro, prima era la metà. Per i danni da circolazione stradale da 20 a 25 mila). Questo senza però inviare ai tribunali i rinforzi attesi ormai da anni. A Firenze si contano 12 giudici a fronte di una pianta organica teorica di 62 (nel 2018 una proposta ministeriale ne prevedeva 32). Mentre negli amministrativi ci sono 20 dipendenti. Le assunzioni dipendono dal ministero ed è quasi un paradosso se si pensa che nel frattempo lo stesso ente ha fatto concorsi per nuovi dipendenti (a tempo determinato) da destinare al tribunale ordinario con l’obiettivo di centrare i traguardi del Pnrr, che prevedono proprio l’abbattimento dei fascicoli arretrati in campo penale e civile. Al giudice di pace invece tante poltrone restano vuote, creando anche una più difficile gestione dei turni. “Servirebbe avere almeno il doppio dei professionisti - spiega Alessandra Barone, che da sei mesi è la nuova direttrice civile dell’ufficio del giudice di pace di Firenze - e la parte amministrativa è fondamentale, perché ogni fascicolo necessità di un intervento della cancelleria, con fasi intermedie e di comunicazione da gestire. Per fare fronte alla domanda di giustizia occorre avere le risorse”. Il giudice di pace è una figura di prossimità per la gente, come ripetono dal palazzo di giustizia in viale Guidoni. “Serve quindi domandarsi cos’è l’efficienza. Perché in nome della velocità il rischio che venga meno la qualità - prosegue la direttrice -. Come in sanità i tempi hanno un valore ma non sono tutto. Per il cittadino c’è un diritto sociale e di giustizia a cui il nostro mondo deve rispondere. Il servizio deve essere giusto, perché in ogni fascicolo c’è una storia personale, di libertà, un carico di dolore e avviare un procedimento richiede fatica e sofferenza. Compito dei nostri uffici è quindi trattare una materia umana che non può essere valutata solo con le performance statistiche, perché non vogliamo trattare le persone come numeri”. Il quadro di Firenze (che sull’abbattimento di arretrati al tribunale civile e penale viaggia a gran ritmo) è comune al resto del Paese. Secondo l’Organismo Congressuale Forense in Italia manca il 63% dei giudici di pace rispetto e il 25% del personale amministrativo. Catanzaro. Carceri, burocrazia lenta e carenza di personale di Francesco Iuliano quotidianodelsud.it, 26 agosto 2024 Sopralluogo dell’ex senatrice Vono e del Garante all’Istituto penitenziario “Caridi” di Catanzaro, tra note positive e criticità: nelle carceri lenta burocrazia e poco personale. Per “Estate in carcere”, il progetto nato da un’idea delle direzioni politiche di Forza Italia e del Partito Radicale, nei giorni scorsi la visita all’Istituto penitenziario di Catanzaro “Ugo Caridi”, da parte dell’ex senatrice Silvia Vono e del Garante regionale per i diritti delle persone detenute o private dalla libertà personale, Luca Muglia. Una mattinata di lavoro in cui sono stati organizzati incontri anche con gli agenti della Polizia penitenziaria e fatto il punto sulle iniziative avviate all’interno della struttura con l’obiettivo di valorizzare le attività culturali in favore del reinserimento sociale dei detenuti e ribadire il valore rieducativo della pena. “Visitare l’Istituto penitenziario “Ugo Caridi” di Catanzaro mi ha dato modo di scoprire - tra le criticità che sicuramente esistono in un ambiente dove la libertà, per ovvi motivi, è assente o fortemente limitata - degli aspetti da elogiare a partire dalla passione e dalla voglia di fare degli operatori penitenziari, sanitari, giuridico-pedagogici e amministrativo-contabili. Tutte persone impegnate in un lavoro difficile che richiede pazienza, controllo, competenza, empatia e grande responsabilità per svolgere attività finalizzate a ridare speranza anche a chi forse speranza, in termini di fine pena, non ne ha”. Così l’ex parlamentare Silvia Vono, al termine della visita, accompagnata dal direttore reggente dell’istituto, Salvatore Trieste. “Un istituto - ha aggiunto l’ex senatrice di Forza Italia - all’avanguardia, grazie all’attenzione della direzione che ha puntato su alcune particolarità come la sanità penitenziaria pubblica gestita dal professore Giulio Di Mizio che, grazie alla sua esperienza professionale, è riuscito ad ottenere le risorse economiche destinate alla realizzazione di una palazzina per la cura dei detenuti. Anche di quelli psichiatrici, per i quali, nonostante la mancanza di strutture apposite e di risorse, messi a disposizione tre psichiatri, quattro psicologhe e, novità rilevante, due terapiste della riabilitazione psichiatrica”. A questo proposito si rimarca: nell’istituto cittadino ristrutturata e rimessa in uso una vasca riabilitativa e terapeutica, che però necessita di autorizzazioni specifiche per garantire cure adeguate ai detenuti. “Spesso - ha proseguito Vono - la burocrazia è molto lenta lasciando spazio, a volte, all’abbandono, com’era successo anche in questo caso. Sicuramente c’è bisogno di un’organizzazione più funzionale del personale sanitario che riesca a gestire, con maggiore tranquillità, i servizi alla variegata popolazione carceraria, ma è anche importante che, soprattutto tutti noi che ci occupiamo di politica, conosciamo la realtà delle nostre carceri per intervenire in modo consapevole ed adeguato”. Nella struttura carceraria catanzarese sono attivi anche un laboratorio di pasticceria dove lavorano, in modo stabile, alcune persone attualmente recluse ed un laboratorio di ceramica dove si realizzano opere diverse e di pregio. “Nel luglio scorso, per le celebrazioni del Santo patrono di Catanzaro, i detenuti che lavorano nel laboratorio di ceramica, in collaborazione con la comunità, hanno realizzato i fischietti di San Vitaliano”. La rappresentante di Forza Italia ha, tra l’altro, preso atto delle altre attività nelle quali sono impegnati quotidianamente i detenuti. “Tra i progetti realizzati in sinergia con associazioni e le scuole del territorio e con l’impegno costante dei responsabili dell’area giuridico-pedagogica - ha commentato - c’è quello avviato da anni con l’Istituto agrario di Catanzaro che dà la possibilità ai detenuti che frequentano i corsi, di specializzarsi in settori come la coltivazione dell’uva e la produzione di vino”. Rivolta alla gestione amministrativa contabile l’attenzione dell’ex senatrice. “Un anello fondamentale della catena - dice - per permettere che ogni attività e ogni progetto vengano gestiti ed effettivamente realizzati per tempo e con le risorse dovute”. Sul lavoro della Polizia penitenziaria, Vono ha rilevato l’impegno degli operatori “che fanno da cassa di risonanza alle richieste dei detenuti, facendo in modo di dare risposte ed assicurando una sorveglianza, talvolta discreta, anche a rischio della propria vita e della propria salute. Eppure, malgrado le difficoltà evidenti di questa professione, ognuno di loro svolge il proprio lavoro con sensibilità e voglia di mettersi a disposizione delle persone detenute per garantire loro ogni diritto nonché il regolare funzionamento dell’istituto”. Nonostante le situazioni positive, fanno da contraltare le criticità presenti all’interno degli istituti, come, ad esempio, il deficit di risorse umane. “Anche se dalla tabella dei fabbisogni del personale redatta dal Ministero della Giustizia relativa al piano triennale 2023-25 sembrerebbe che qualcosa si muova riguardo a nuovi concorsi nei vari ambiti e nuove assunzioni - ha commentato l’ex parlamentare - tutto ciò non basta se riflettiamo sul fatto che i fabbisogni di personale e le relative risorse da corrispondere ai vari istituti di pena dovrebbero tener conto delle peculiarità di tali istituti permettendone una più equa distribuzione. Ecco perché ritengo sia importante, attraverso queste visite, attivare un monitoraggio delle peculiarità di ogni struttura in base alla popolazione carceraria, al genere, alle sezioni e quindi poter rivedere o addirittura elaborare criteri del fabbisogno ex novo con cognizione di causa sulle necessità quotidiane in primis e straordinarie di ogni istituto di pena. Diversamente si sarà costretti a lavorare sempre sulle emergenze che molto spesso si trasformano in cronicità sistemiche”. Ed ancora: “Lavorare sull’emergenza comporta però il grave rischio di tralasciare, non certamente per inerzia, il quotidiano e cioè la cura delle celle, la fornitura di materassi nuovi e puliti e di tutto il necessario per garantire un tranquillo riposo, il montaggio delle docce in alcune camera penitenziali che risultano sfornite. Naturalmente chi di competenza ha attivato, con celerità, tutte le procedure perché il materiale arrivi per tempo, sia effettuata la pulizia/disinfestazione, sia conclusa la progettazione per l’installazione delle docce nelle camere mancanti e attivati i bandi per procedere ai lavori ma non si può di certo rimanere ad aspettare e bisogna che, anche attraverso l’azione energica del Garante per le persone detenute e la determinazione della politica, si intervenga per accelerare e sbloccare ogni pratica. Gli interventi che ci proponiamo di chiedere - ha concluso l’ex parlamentare di Forza Italia - sono, al di là, dei semplici monitoraggi delle situazioni in essere, anche, quello di intervenire per la velocizzazione delle procedure confrontandoci con i vari enti preposti. Non sempre tutto dipende dal governo centrale, con cui, attraverso queste azioni, puntiamo a condividere idee e report per un maggiore coinvolgimento e coordinamento. Ma dobbiamo essere consapevoli di dover agire in ambito locale e regionale per appianare determinate situazioni, paralizzate a volte dagli alibi di qualcun altro”. Modena. Diego Lenzini (Pd): “Carceri, sovraffollamento insostenibile” Il Resto del Carlino, 26 agosto 2024 Il Partito Democratico promuove una battaglia nazionale per migliorare le condizioni carcerarie, garantendo diritti, dignità e rieducazione per i detenuti, con l’obiettivo di favorire il reinserimento sociale e lavorativo. La Corte Costituzionale richiama il legislatore a prevedere pene rieducative. Il Partito Democratico promuove una battaglia nazionale per migliorare le condizioni carcerarie, garantendo diritti, dignità e rieducazione per i detenuti, con l’obiettivo di favorire il reinserimento sociale e lavorativo. La Corte Costituzionale richiama il legislatore a prevedere pene rieducative. “Carceri, la battaglia che il Partito Democratico ha avviato a livello nazionale e in tutta Italia sulla situazione carceraria è non solo una grande battaglia di civiltà, ma anche una campagna per la legalità - si legge nella nota congiunta di Diego Lenzini, capogruppo Pd in consiglio comunale e del consigliere Luca Barbari -. La misura detentiva, oltre che a garantire i diritti dei detenuti e la loro dignità, si deve porre l’obiettivo di reinserire nella società persone che non reitereranno il reato. Inoltre deve essere costruito per loro un percorso anche lavorativo, perché possano essere un valore sociale aggiunto una volta liberi. Allo stesso tempo è necessario rendere effettiva e immediata l’esecuzione della pena sia per le vittime del reato che per rieducare il condannato. La Corte Costituzionale ha già avuto occasioni di ammonire il legislatore: si devono prevedere pene che abbiano una potenziale efficacia rieducativa. Porre attenzione alle condizioni carcerarie significa prima di tutto dare attuazione a ciò che lo Stato comunica e agisce nell’atto che più gli compete”. Fossano (Cn). Una delegazione di +Europa in visita al carcere cuneodice.it, 26 agosto 2024 “Una piccola isola felice in un quadro generale drammatico”. Una delegazione composta da Flavio Martino, coordinatore regionale di +Europa e portavoce cuneese ed Elena Teteryatnyk, tesoriera di +Europa Cuneo, ha visitato ieri mattina il carcere di Fossano aderendo alla mobilitazione lanciata nazionalmente. “Ho preso parte - ha dichiarato Flavio Martino - in queste ultime settimane ad alcune visite promosse da Radicali Italiani al Lorusso Cotugno di Torino, e alle carceri di Vercelli, Ivrea e Aosta, riscontrando situazioni spesso drammatiche per sovraffollamento, per carenze strutturali, di organico e per la sostanziale mancanza di significativi programmi di reinserimento nello spirito del rispetto dei dettami costituzionali. La visita di oggi al carcere di Fossano, per quanto non priva di problemi come ad esempio il dato inerente la polizia penitenziaria che è sotto organico di 15 unità, mi è apparsa come una piccola isola felice in un quadro generale drammatico. Il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione infatti non è solo un dovere di uno stato civile in quanto il reinserimento sociale dei detenuti riduce drasticamente i casi di recidiva migliorando la sicurezza e riducendo i costi economici e sociali.” Ha concluso Martino. “Sono contenta di avere preso parte a questa iniziativa - ha dichiarato Elena Teteryatnyk - perché la sensibilizzazione sul tema delle carceri può avvenire non solo denunciando le situazioni negative che sono purtroppo la maggioranza ma anche riconoscendo le poche realtà positive oggi esistenti” ha concluso. Verona. Cambiamento e rieducazione: con gli Scout per una Giustizia più umana Avvenire, 26 agosto 2024 “Reclusione non esclusione”: queste devono diventare le nostre carceri in sintonia con la Costituzione che all’art.27 raccomanda che le pene non devono essere contrarie al “senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Così don Luigi Ciotti invitato a parlare a Verona alle tavole rotonde del Campo nazionale dei capi scout dell’Agesci, ha esortato i giovani ad impegnarsi perché si abbatta il muro del pregiudizio sulle persone detenute e perché si diffonda nell’opinione pubblica che la giustizia deve essere “rieducativa” e non “vendicativa”: diversamente la nostra diventa una “democrazia imperfetta”. Stessi concetti ribaditi nel pomeriggio in un’altra affollata tavola rotonda sui temi della legalità e dell’impegno politico dove la giornalista torinese Marina Lomunno, autrice con il francescano Giuseppe Giunti di “E-mail ad una professoressa” (ed. Effatà) - un libro dove a 100 anni dalla nascita di don Milani i collaboratori di giustizia che segue il religioso nelle carceri di Torino ed Alessandria invitano i giovani a studiare e la politica ad “aggiustare la scuola perché la camorra vive nel silenzio, la scuola insegna le parole”. Marina Lomunno ha letto una lettera che un collaboratore di giustizia ha scritto ai capi dell’Agesci invitandoli ad “educare i ragazzi che vi sono affidati a leggere e viaggiare: leggere per aprire la mente e non farsi ingabbiare dal facile potere del denaro; viaggiare in altri mondi possibili e puliti dove siamo un ‘noi’ e non tanti ‘io’ come invece il mondo criminale che ben conosco mi aveva fatto abitare”. Parole che hanno colpito e commosso i capi scout che hanno consegnato alla giornalista centinaia di post-it indirizzati al recluso. Uno tra questi: “Grazie di cuore, noi siamo molto di più dei nostri errori. Finché ci siamo possiamo sempre cambiare, come te”. “L’arte del dubbio”: un viaggio nell’interrogatorio come teatro della vita today.it, 26 agosto 2024 L’arte di raccontare il processo: vita e giustizia tra le righe. “L’arte del dubbio” è un’opera unica nel panorama della letteratura italiana, un libro che fonde sapientemente tecnica giuridica e narrazione letteraria, pubblicato da Sellerio Editore nel 2007. Gianrico Carofiglio, ex magistrato e scrittore di successo, ci regala un testo che, pur nascendo come manuale di tecnica dell’interrogatorio, si è trasformato in una raccolta di racconti che hanno per protagonisti l’essere umano, la giustizia, e il processo come palcoscenico della vita. Quando il libro fu pubblicato per la prima volta, con un altro titolo e in una versione più tecnica, era destinato a un pubblico ristretto di specialisti del diritto. Tuttavia, l’uso di casi reali, verbali di interrogatori e situazioni tratte dalla pratica giudiziaria ha permesso a questo testo di catturare l’attenzione di un pubblico molto più ampio. Carofiglio, con il suo inconfondibile stile, ha saputo trasmettere non solo l’importanza del dubbio e dell’interrogatorio nell’ambito del processo penale, ma anche l’aspetto profondamente umano e teatrale che spesso caratterizza la giustizia. Il libro è stato ripubblicato, liberato dalle parti più tecniche, per rivelarsi nella sua vera natura: una raccolta di racconti giudiziari che affascina e coinvolge, grazie all’abilità dell’autore nel descrivere le dinamiche tra prede e predatori, furbi e sfortunati, sul palcoscenico del processo. Ogni storia è un piccolo frammento di vita che si dipana tra le righe dei verbali, rendendo evidente la sottile linea che separa il tragico dal comico, il serio dal grottesco. “L’arte del dubbio” non è solo un libro per chi è interessato al diritto, ma per chiunque apprezzi le storie ben raccontate, dove la realtà del processo diventa metafora delle peripezie umane. Carofiglio ci invita a riflettere sul ruolo del dubbio, non solo come strumento legale, ma come elemento essenziale dell’esistenza, capace di mettere in discussione le certezze e rivelare verità nascoste. Biografia dell’Autore - Gianrico Carofiglio è nato a Bari nel 1961. Magistrato, scrittore e politico, è autore di numerosi romanzi che hanno riscosso grande successo di pubblico e critica. Il suo esordio letterario avviene nel 2002 con “Testimone inconsapevole”, primo di una serie di romanzi che hanno per protagonista l’avvocato Guido Guerrieri. La sua carriera nel mondo della giustizia ha fortemente influenzato la sua produzione letteraria, che si distingue per la capacità di coniugare il rigore della pratica legale con la profondità della narrazione umana. Carofiglio è considerato uno dei più importanti autori contemporanei italiani, tradotto in numerose lingue e pluripremiato. “Voci del XV Libro Bianco sulle Droghe”, podcast sul sovraffollamento dell’Associazione Coscioni progettoitalianews.net, 26 agosto 2024 L’inchiesta sul sovraffollamento in Italia diventa una serie disponibile su tutte le piattaforme: “Voci del XV Libro Bianco sulle Droghe” a cura di Associazione Luca Coscioni e Eumans. L’Associazione Luca Coscioni, impegnata nella difesa dei diritti civili e del diritto alla salute, ha lanciato nei giorni scorsi una serie di 102 diffide alle Direzioni Generali delle ASL delle città che ospitano i 189 istituti penitenziari italiani, denunciando gravi carenze nelle condizioni igienico-sanitarie delle carceri. La stessa associazione annuncia anche un podcast “Voci del XV Libro Bianco sulle Droghe”, prodotto in collaborazione con Eumans, per esplorare l’impatto del proibizionismo sul sovraffollamento carcerario e sulle condizioni di vita dei detenuti. Marco Perduca dell’Associazione Luca Coscioni, ex Senatore radicale e Presidente del Referendum Cannabis, oggi coordinatore delle iniziative legate all’antiproibizionismo dichiara: “A quasi trentacinque anni dalla sua emanazione, la legge 309/90, altresì nota come Testo Unico sugli Stupefacenti, costituisce il principale strumento di carcerazione in Italia. Il controllo di un fenomeno sociale di tali proporzioni, come il mercato delle sostanze illecite, è stato affidato a una gestione che, invece di inquadrarlo in un’ottica sanitaria, ha optato per una criminalizzazione sempre più aggressiva nei confronti dei consumatori, minando così la tutela costituzionale del diritto alla salute. Ad oggi, oltre un detenuto su tre è incarcerato ai sensi del Testo Unico sulle Droghe: una chiara rappresentazione di come si sia passati da politiche di welfare a logiche securitarie”. ‘Voci del XV Libro Bianco sulle Droghe’ nasce con l’intento di offrire una lettura critica di questa situazione, analizzando statistiche, interventi di riduzione del danno, condizioni penitenziarie e le proposte legislative su cui costruire alternative alla War on Drugs. Il podcast includerà anche interviste agli autori de ‘Il gioco si fa duro’, quindicesima edizione del Libro Bianco sulle Droghe, un rapporto indipendente sugli effetti del Testo Unico sugli stupefacenti (DPR 309/90) sistema penale, servizi, salute delle persone che usano sostanze e sulla società promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, CGIL, CNCA, Associazione Luca Coscioni, ARCI, LILA e Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica CGIL, Gruppo Abele, ITARDD, ITANPUD, Meglio Legale e EUMANS. Il Libro Bianco illustra i numeri nazionali delle presenze in carcere raccontando un quadro di grande illegalità: 61.133 con oltre un terzo per reati di droga. Si tratta di una significativa pressione sul sistema penitenziario, dove 12.946 detenuti - pari al 34,1% del totale - sono in carcere per violazioni della legge sulle droghe del 1990, una percentuale quasi doppia rispetto alla media europea del 18%. Non solo, 17.405 detenuti sono registrati come tossicodipendenti, il 28,9% del totale, un ulteriore record negativo dai tempi della legge Fini-Giovanrdi. L’articolo 73 del Testo unico sulle droghe ha causato 10.697 ingressi in carcere nel 2023, il 26,3% del totale, contribuendo in maniera significativa al sovraffollamento. Luigi Celeste, dal carcere al cinema: “Uccisi mio padre perché era violento. Ora la mia storia è un film in mostra a Venezia” di Gianni Santucci Corriere della Sera, 26 agosto 2024 Nel 2008 sparò al genitore per proteggere la madre e il fratello. Dopo gli studi in carcere è diventato un esperto di sicurezza informatica e oggi lavora a Strasburgo. Ha scritto un libro da cui è stato tratto il film “Familia”. Quando una famiglia arriva vicina al disastro, sul limite ultimo e finale, e si ritrova sola, che succede? È storia di Milano. Rappresenta infinite storie di famiglie che collassano. Omicidi. Abusi. Violenze. Questa è in via dei Gigli, al Giambellino. 20 febbraio 2008. Una sera in cui una famiglia arriva a: “Lui o noi”. “Lui” è il padre, decenni di maltrattamenti in casa, di nuovo con un coltello in mano. “Noi” sono la madre e i due figli. Uno prende una pistola e uccide l’uomo. Aveva 23 anni. Nei prossimi giorni sarà a Venezia. In smoking. Luigi Celeste ha studiato in carcere, a Bollate, e fuori. È un esperto di sicurezza informatica. Ha fatto carriera. Vive e lavora a Strasburgo. Ha scritto la storia della sua famiglia (“Non sarà sempre così”, Piemme, 2017). Il libro ora è diventato un film: “Familia”, di Francesco Costabile. Sarà in concorso alla Mostra del cinema che inizia mercoledì, sezione Orizzonti. Cronaca carica come una tragedia antica. Per “Gigi”, il film è la conclusione di un percorso. Perché una famiglia si ritrova sola? “Quando abbiamo interpellato la giustizia perché mio padre era un folle che massacrava mia madre, che lo aveva già denunciato, e minacciava di morte me e mio fratello, la giustizia non c’era”. Che anni erano? “Mio padre uscì dal carcere nel 2006, dopo 9 anni, perché in una rapina aveva sparato a un carabiniere. Era sotto sorveglianza a Modena per una pena accessoria, ma ottenne di risiedere a Milano, da suo cugino coimputato. Nel 2007, due giorni dopo la denuncia di mio fratello, per nuove minacce di morte al telefono, ottenne la riduzione dell’obbligo di firma, una volta al mese. Aveva un vizio di mente al 75 per cento. Non credo che il magistrato di Modena di allora, Angelo Martinelli, abbia valutato la sua pericolosità sociale, visto cosa stava ricominciando a farci. Sono momenti in cui ti chiedi: cosa dobbiamo fare? A chi dobbiamo chiedere aiuto?”. Da quanto andava avanti? “Quando eravamo piccoli mia madre veniva picchiata, segregata in casa, perse il lavoro per questo. Una volta riuscì a scappare e fece denuncia. Lei andò in un centro anti violenza; mio fratello in una comunità per tossicodipendenti, perché non c’erano altri posti. Io venni mandato in un’altra comunità. Mio padre scontò 9 mesi ai domiciliari; io rimasi in comunità 3 anni e mezzo”. Oggi la sensibilità è cambiata... “Forse. E non parlo di fallimento della giustizia. Nella giustizia, e a Bollate, ho incontrato persone eccezionali, a cui devo molto. La giustizia la fanno gli uomini. In primo grado il pm chiese 10 anni, ma il giudice Marco Maria Alma mi condannò a 12 anni e 4 mesi (poi ridotti a 9 anni, ndr). In sentenza scrisse di me: “neppure lui è uno stinco di santo”, quella sera “ben avrebbe potuto prendere la porta di casa e uscire”. Vicenda ridotta a lite familiare. Il mio riscatto è iniziato lì: non ero quel che era scritto di me”. Era uno “stinco di santo”? “No. Ho fatto parte di gruppi di estrema destra, ho seguito un’ideologia d’odio, ho commesso reati, che ho pagato. Purtroppo so cosa è la rabbia incontrollabile che si genera quando cresci nella violenza e nel dolore. Io ho sbagliato. Ogni volta che un ragazzo si trova in una condizione simile, prego che trovi una guida e incanali la rabbia per il bene. Se non lo fa, e fa del male, sarà sempre lui a pagare, a rovinarsi. A chi chiedono aiuto questi ragazzi?”. Come ha trovato la strada? “Educatori, direttore del carcere, studio, persone che mi hanno dato fiducia. Il magistrato di sorveglianza, la dottoressa Caffarena, mi vietava i permessi, nonostante la condotta irreprensibile. La motivazione era che vivevo l’omicidio “come passaggio inevitabile per permettere” a mia madre “un’esistenza tranquilla; tale sentimento è in parte alimentato dalla madre e dal fratello che vivono con sollievo la morte del padre”. In quei momenti puoi impazzire, o trovare più tenacia. Puoi incontrare visioni alternative. Il sostituto Pg Antonio Lamanna, durante l’udienza nel ricorso per un permesso, disse: “Il padre di Celeste ha infierito tanto da vivo, non facciamo sì che continui a infierire anche da morto”. Come è nato il film? “Avevo avuto una prima proposta. Poi mi ha chiamato Medusa. In Francesco Costabile ho trovato una persona eccezionale per sensibilità e umanità. Speravo da tanto che si facesse un film: perché le persone possano vedere e capire tutto quello che ha passato la mia famiglia”. Cosa può dire a una famiglia che si ritrova sola? “Davvero non lo so. Invece di come uscire da una situazione come fu la mia, mi viene da dire come non entrarci: non fate figli se non siete in pace con voi stessi, se non sapete di poterli crescere volendo il loro bene. Perché i traumi dei genitori poi ricadono sui figli innocenti, e alimentano una catena. Io ho ricostruito la mia vita, ma mi porto dietro tanto male”. Ddl Zaffini: per le associazioni è una tragica nostalgia di manicomio di Sara Pierri ultimavoce.it, 26 agosto 2024 L’appello del Coordinamento Nazionale Salute Mentale per fermare il disegno di legge e riprendersi i diritti. Decine di associazioni, riunite sotto Il Coordinamento Nazionale per la Salute Mentale, hanno condiviso un appello contro il ddl Zaffini in materia di tutela della salute mentale. Il disegno di legge 1179/2024 “Disposizioni in materia di tutela della salute mentale” è stato presentato il 27 giugno dal senatore Zaffini (da altri ventidue senatori di Fratelli d’Italia e da due di Noi Moderati). Dopo un’attenta analisi, decine di associazioni impegnate nel campo della salute mentale, tra cui la Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica e l’Associazione Franca e Franco Basaglia, hanno divulgato un comunicato esprimendo tutta la loro preoccupazione a riguardo. Il ddl Zaffini viene definito “una tragica nostalgia di manicomio”. I punti controversi - Il disegno di legge, nella sua introduzione, elenca quelle che definisce “nuove” forme di sofferenza psichica; includendo senza distinzioni condizioni del neurosviluppo, long Covid e dipendenza dai social network. Prosegue denunciando le gravi disparità tra regioni in tema di salute mentale; fatto curioso, visto che arriva dallo stesso governo che ha approvato l’autonomia differenziata. Il documento propone una ristrutturazione dei servizi per la salute mentale, con un potenziamento delle attività di prevenzione e di sicurezza. Il ddl Zaffini si compone di undici articoli, che coprono ogni passo del processo dalla diagnosi alle attività di cura, fino alle attività di comunicazione e divulgazione e la copertura finanziaria. L’articolo 2 disciplina le attività di prevenzione e “promuove l’individuazione tempestiva dei disturbi mentali sin dalle fasi dell’infanzia, al fine di prevenirne o minimizzarne le conseguenze”. Le modalità di realizzazione di tali attività vengono però rimandate dopo l’eventuale approvazione della legge. Pare un progetto un po’ troppo vago per il momento. L’articolo 4 tratta i temi della sicurezza demandando al Ministero dell’interno e a quello di Giustizia le misure di sicurezza applicabili, tra cui trattamenti coattivi fisici, ambientali e farmacologici. L’articolo 5 elenca le misure di emergenza, tra cui figura l’istituzione di strutture preposte alla diagnosi, definite ASO (accertamento sanitario obbligatorio). Possono far seguito i TSO (trattamento sanitario obbligatorio) la cui durata, ora di sette giorni rinnovabili, verrebbe prolungata a quindici giorni rinnovabili. Sono proprio questi i punti più controversi citati nell’appello delle associazioni (qui il testo completo): “Soluzioni che propongono, di nuovo, la pericolosità della persona con sofferenza, che ritorna ad essere oggetto di controllo e custodia. Ritornano “misure di sicurezza” speciali (in capo a “Ministro dell’interno e Ministro della Giustizia, sentito il Ministro della Salute), che riportano ai tempi di una psichiatria manicomiale controllata da Viminale e Potere giudiziario. Infine vengono sdoganati per legge “misure e trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali” (con modalità che evocano senza nominarlo il regolamento manicomiale del 1909), invece di valorizzare ed estendere le pratiche di alcuni servizi che operano da tempo senza il ricorso alla contenzione. Il TSO raddoppia la durata a 15 giorni, “prolungabile”. Vengono previste, per gli ASO e i trattamenti urgenti in attesa del TSO, non ben definite “strutture idonee per l’effettuazione di osservazioni cliniche”. A preoccupare è la narrazione sottesa, che associa la sofferenza mentale alla pericolosità sociale e alla violenza. Una narrazione che negli ultimi decenni si è cercato di abbandonare e che sembra tornare in primo piano. Eppure, i dati sul rapporto tra salute mentale e criminalità dipingono un quadro completamente diverso. Salute mentale e criminalità - Le persone che soffrono di disturbi mentali sono molto più a rischio di subire violenza che di compierla. I professionisti cercano di diffondere questa realtà da tempo, scontrandosi ancora troppo spesso con pregiudizi e luoghi comuni dannosi. Forse ci piace pensare che chi commette reati particolarmente atroci sia un “folle”, così da allontanare da noi l’idea che potrebbe capitare a chiunque. Questo però continua ad alimentare lo stigma che circonda la malattia mentale, complicando le vite già complicate di chi convive con una sofferenza psichica. Secondo l’istituto di psichiatria del King’s College di Londra, chi ha un disturbo mentale ha cinque volte più probabilità di subire un’aggressione rispetto alla popolazione generale. I rischi aumentano per le donne. Le donne con diagnosi psichiatriche hanno una probabilità dieci volte maggiore di subire un’aggressione di qualsiasi tipo e il 62% è stata vittima di un’aggressione sessuale. Chi soffre di un disturbo mentale grave tende a non denunciare e quando lo fa rischia di non essere creduto, o di vedere sminuite le proprie istanze. I casi in cui le persone con disturbi mentali sono autrici di crimini esistono, ma di rado c’è una relazione univoca e causale tra malattia mentale e violenza. Quando accade, nella maggioranza dei casi si è davanti a un intreccio di circostanze che includono abuso di sostanze (alcol in primis), situazioni di degrado socio-economico e povertà estrema, gravi traumi infantili. Carcere e salute mentale - Nonostante questa realtà, le carceri sono piene di persone con disturbi psichiatrici e questo contribuisce al sovraffollamento. L’abuso della detenzione danneggia prima di tutto le stesse persone sofferenti, che non ricevono le cure adeguate e rischiano la cronicizzazione; ma danneggia anche il personale di sorveglianza e gli altri detenuti, costretti in spazi angusti e invivibili. È proprio su questo punto che il ddl Zaffini sembra essere più cieco, proponendo di istituire sezioni del carcere apposite in cui poter eseguire i TSO. Invece che potenziare strutture territoriali di assistenza, come immaginato da Basaglia nella sua legge rivoluzionaria, si delega agli istituti penitenziari, già in grave sofferenza, un compito ulteriore. Alla salute mentale il 5% del budget - Il ddl Zaffini si chiude con la copertura finanziaria. Le regioni dovrebbero spendere per la salute mentale almeno il 5% del budget del Fondo sanitario nazionale. Le risorse finanziarie sono però ancora incerte, in attesa che vengano definiti i livelli essenziali di assistenza (LEA) fondamentali per l’entrata in vigore dell’autonomia differenziata. “Fermare una tragica nostalgia di manicomio, e reagire” - Il disegno di legge, pur presentando alcuni spunti positivi e interessanti, sembra essere troppo vago, lasciando troppa discrezionalità nella sua applicazione. I punti problematici sono parecchi, primo tra tutti il focus sulla sicurezza, in tema con la deriva securitaria che sembra aver preso il paese. L’appello del Coordinamento Nazionale Salute Mentale ha già raccolto numerose adesioni e si conclude con un invito alla mobilitazione il 22 e 23 novembre a Roma: “Noi non intendiamo subire questa deriva repressiva e neomanicomiale: da subito - con questo Appello - respingiamo i disvalori e i contenuti del DdL Zaffini e quindi con un richiamo alla mobilitazione, anche in vista della II Conferenza nazionale autogestita per la Salute Mentale convocata a Roma il 22 e 23 novembre 2024, che deve diventare un grande momento di lotta e di proposta per affermare Salute Mentale per Tutti: riprendiamoci i Diritti”. Sui diritti pochi fatti. E Tajani già frena: “Ius scholae non subito” di Stefano Iannaccone Il Domani, 26 agosto 2024 La riapertura delle Camere sposta il dibattito dalle dichiarazioni all’aula. Una retromarcia sarebbe un boomerang per il segretario di Forza Italia. Il countdown per la fine della ricreazione estiva è agli sgoccioli. Poche ore e si torna ai nastri di partenza, o meglio di ripartenza, laddove si potrà capire le reali intenzioni di Forza Italia sui diritti civili, tema caro a Marina Berlusconi, che non ha ruoli politici ma un peso specifico notevole, visto solo il cognome che porta. Si comincia, quindi, dallo ius scholae, o comunque dalla riforma della cittadinanza, oggetto di una fervente campagna d’agosto da parte di Antonio Tajani, battagliero come poche altre volte è capitato di vedere ai tavoli politici, mentre gli alleati - la Lega in primis - hanno tentato di intestarsi le battaglie di Silvio Berlusconi. Ritorno alla prudenza - Anche se nelle ultime ore, in filigrana, si intravede una volontà di frenata, il lato prudente che prevale. “Abbiamo espresso la nostra posizione, non abbiamo mai detto che deve (la riforma della cittadinanza, ndr) essere discussa oggi o domani”, ha detto il segretario di Fi. Aggiungendo: “Non facciamo inciuci con la sinistra”, chiedendo un’abiura dello ius soli al Pd, e concedendosi comunque il mantra di queste ultime settimane: “Un centrodestra moderno deve raccogliere consensi al centro”. Con il posizionamento tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein, come ha già spiegato in più circostanze. Il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè, è stato altrettanto cauto, rilevando la difficoltà a inserire un confronto sullo ius scholae in tempi brevi nell’affollato calendario parlamentare d’autunno: “Dubito ci sia spazio”, la sua tesi. I propositi, insomma, appaiono meno bellicosi in confronto a quelli di qualche giorno fa. Anche se la sensazione è che la tensione, su questo tema, sia stata spinta a un punto di non ritorno. Temporale d’agosto - Fratelli d’Italia e Lega hanno intanto preso nota della frenata di Tajani, iniziando ad accarezzare l’idea di poter derubricare la vicenda ius schole al tipico temporale estivo della politica. “Ci sarà una sintesi. Ho letto gli ultimi commenti di Tajani, Ronzulli e Gasparri e mi sembra si vada proprio in questa direzione”, ha osservato il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, ospite al meeting di Comunione e liberazione. Mentre il capogruppo al Senato di Forza Italia, Maurizio Gasparri, l’ha buttata in rissa con il segretario di +Europa, Riccardo Magi, che aveva chiesto a Tajani un impegno concreto sullo ius scholae. “La sinistra vuole ius soli, un’autentica follia. Magi è un fallito di tutti i fallimenti, non può dare ordini nemmeno ai suoi seguaci”, ha attaccato Gasparri. Quindi, con l’approssimarsi della più tipica prova del nove, la possibilità di un voto concreto su un testo, i berlusconiani circumnavigano la polemica. Al netto delle escandescenze di Gasparri verso gli avversari, dalle dichiarazioni di intenti pro-ius scholae si dovrebbe passare ai fatti. Il ritorno all’attività politica, con la riapertura del parlamento dal 10 settembre (la settimana precedente tornerà a riunirsi qualche commissione), segna un passaggio cruciale: offre l’occasione per svelare il reale orientamento. Perché da un lato è vero che la maggioranza può evitare di mettere in calendario il confronto su una questione divisiva all’interno. D’altra parte, le opposizioni possono spingere per mettere in agenda una proposta di legge sullo Ius scholae, o comunque qualcosa di simile: alle minoranze spetta per regolamento l’indicazione di testi da esaminare. Alla Camera è già accaduto con le proposte sul salario minimo e il voto ai fuorisede. A quel punto volenti o nolenti, i forzisti devono palesare con i voti il loro pensiero. Fastidio meloniano - La guerriglia a mezzo stampa sotto il solleone estivo ha comunque preoccupato non poco palazzo Chigi. Giorgia Meloni ha confidato il proprio fastidio alle persone che ha sentito nei giorni di vacanza. “Ci lamentavamo tanto di Salvini e invece…”, è il ragionamento che rimbalza tra i fedelissimi della presidente del Consiglio, in riferimento al cambio di passo del solitamente mite Tajani. Il timore è che sia partito l’operazione logoramento da parte degli alleati. Proprio quello che la premier, sempre ossessionata dai complotti, vuole evitare in vista di un autunno complicato tra una manovra con pochi soldi in cassa e la necessità di rispettare le promesse elettorali. Il concetto sarà chiaramente espresso nel vertice convocato con Salvini e Tajani il 30 agosto, lo spin comunicativo è già partito. Meloni immagina quell’incontro come la vera ripartenza dopo uno stop di tre settimane abbondanti. Fatto sta che si torna al punto di partenza. Forza Italia, rinvigorita dalla verve dietro la regia a distanza della famiglia Berlusconi, deve decidere cosa fare da grande di fronte ai diritti civili, territorio che marca una distanza rispetto ai compagni di coalizione. Un’eventuale retromarcia o un eccesso di balbettio di Tajani davanti a una proposta di legge sarebbe un segnale di debolezza. Così la campagna estiva che aveva rimesso al centro i forzisti, diventerebbe un boomerang. Consegnando un partito più debole e una leadership di fatti minata. Il dietrofront non sarebbe gradito a Marina e Pier Silvio Berlusconi, sempre più attenti a rendere Forza Italia un pezzo centrale nella coalizione e non una forza ancillare. Tanto da pressare gli attuali vertici azzurri per promuovere un casting sul rinnovamento dei dirigenti. L’Italia e la chimera della cittadinanza: come funziona negli altri paesi europei di Marika Ikonomu Il Domani, 26 agosto 2024 Il dibattito sulla legge del 1992 torna ciclicamente. Forza Italia ha aperto sullo ius scholae, ma per gli alleati le norme sono sufficienti. L’Italia è 14esima in Ue sulla facilità della concessione, requisiti stringenti e ostacoli. Primo il Portogallo. Le norme a confronto. Servono le Olimpiadi a ricordare all’Italia delle atlete e degli atleti con background migratorio. Dopo i giochi di Parigi è tornato al centro del dibattito pubblico il tema della cittadinanza, che nel nostro paese per molti non è un diritto ma una concessione dello stato. La legge che la regola ha 32 anni ed è nata già vecchia, senza accogliere le trasformazioni della società italiana. Se negli anni 1992/1993 gli studenti con cittadinanza non italiana erano circa 30.500, nell’anno scolastico 2022/2023 erano 914.860, in base ai dati del ministero dell’Istruzione del 2023. Decine di migliaia di studenti e studentesse in più, ma la legge 91 del 1992 non è cambiata e continua a regolare le modalità e i requisiti per ottenerla. La legislazione italiana - In Italia vige anzitutto lo ius sanguinis, per cui si acquisisce la cittadinanza se uno dei due genitori ne è titolare. Ben lontano dallo ius soli garantito negli Stati Uniti e in altri paesi di forte immigrazione, come Brasile, Messico e Argentina, dove si è cittadini se si nasce sul territorio dello stato. Lo ius soli in veste italiana, per chi nasce da genitori stranieri sul territorio dello stato, prevede invece il diritto di chiedere la cittadinanza al compimento dei 18 anni, dimostrando di aver vissuto nel paese senza interruzioni dalla nascita alla maggiore età. La cittadinanza per matrimonio viene poi concessa a chi sposa un cittadino o cittadina, dopo una residenza di due anni dall’unione. Infine si può acquisire anche per naturalizzazione, se si risiede nel paese da almeno 10 anni, 4 anni per i cittadini comunitari. Nel 2022, il 45 per cento delle acquisizioni erano per residenza. A rendere complicato l’ottenimento sono i requisiti richiesti, soprattutto quello relativo al reddito. Basti pensare a un ragazzo o una ragazza che, compiuti i 18 anni, entra nel mercato del lavoro e spesso non percepisce un reddito dignitoso. Ma, se anche i requisiti sono soddisfatti, non è comunque automatico ricevere il documento. È una concessione, e si è in balia della discrezionalità del ministero dell’Interno. Dopo i numerosi progetti di legge naufragati in parlamento negli ultimi anni, l’apertura di Forza Italia ha riacceso la possibilità dello ius scholae. Il leader del partito, Antonio Tajani, ponendosi in aperto contrasto con gli alleati di governo, ha detto a Repubblica che “l’Italia è cambiata” e fa parte della “nostra storia, l’impero romano accoglieva”. Tornato sul tema al meeting di Rimini ha affermato che “essere italiano, europeo e patriota non è legato a sette generazioni”. In questo modo, secondo una stima di Repubblica, in cinque anni ci sarebbero mezzo milione gli italiani in più e potrebbero fare richiesta i ragazzi nati o arrivati in Italia prima dei 12 anni, se frequentano un percorso scolastico: alcuni richiedono un ciclo di cinque anni, mentre FI la scuola dell’obbligo, fino a 16 anni. Il nostro paese sarebbe il primo dell’Ue a introdurre questa modalità. Requisiti stringenti - A distinguere l’Italia dagli altri paesi europei non sono solo le procedure e i requisiti, ma soprattutto il grado di complessità per ottenere il documento. Secondo il Migration Integration Policy Index, nel 2019 l’Italia si posizionava al 14esimo posto tra i 27 paesi europei, al pari della Grecia, per la facilità nella concessione della cittadinanza. A determinare il dato, il numero di anni di residenza richiesti, i vincoli per i figli, la certificazione linguistica, l’esame di educazione civica, l’assenza di precedenti penali e la possibilità di avere la doppia cittadinanza. Se si escludono i paesi dell’Europa orientale, però, l’Italia scende al 13 posto su 16 paesi, sottolinea l’Osservatorio conti pubblici italiani dell’università Cattolica, secondo cui una rapida discesa in classifica è stata causata dai requisiti stringenti dei decreti sicurezza di Salvini. Il paese in cui è più semplice ottenerla è il Portogallo. Seguono Svezia, Irlanda, Lussemburgo, Finlandia, Francia. Norme in Ue - Se lo ius soli non esiste in nessuna delle legislazioni dei paesi Ue, in alcuni vige quello temperato, che permette l’acquisizione della cittadinanza ai ragazzi nati sul territorio dello stato se i genitori stranieri vi risiedono. In Irlanda, ad esempio, un bambino può ottenerla se almeno uno dei genitori vi risiede legalmente da tre anni. Così in Germania, che dopo la recente riforma ha abbassato a cinque anni il periodo di residenza, lo stesso termine che dal 2015 applica la Grecia. In Portogallo invece occorrono due anni di residenza di almeno un genitore. C’è poi il doppio ius soli in Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Spagna, se uno dei due genitori è nato nel paese. Sempre in Francia, inoltre, un bambino può richiedere la cittadinanza a partire dai 13 anni, se vive nel paese almeno da cinque. In Spagna invece è sufficiente un anno di residenza, se si è nati nel paese. Mentre il doppio ius soli temperato - nascita di almeno uno dei genitori nel paese e residenza permanente - lo prevede solo la Grecia. Sulla richiesta per naturalizzazione molti paesi prevedono un periodo di residenza di molto inferiore rispetto all’Italia. In Francia, Germania, Portogallo, Paesi Bassi e Svezia è di cinque anni. L’Italia è quindi uno dei paesi con i requisiti più severi e tempi molto lunghi per entrare a far parte di una comunità in cui spesso si è arrivati da piccoli. E, anche se si ha in mano il documento, in alcuni casi c’è il rischio che venga revocato. Una novità prevista dai decreti sicurezza.??? Migranti. A Porto Empedocle un carcere fantasma: esiste ma nessuno sa ufficialmente dov’è di Vittorio Alessandro* L’Unità, 26 agosto 2024 Il carcere che esiste e nessuno sa ufficialmente dove si trovi, serve ispezione immediata all’hotspot siciliano. È ufficiale, anche se nessuno lo ha formalmente ammesso: a Porto Empedocle è stato istituito un Centro di trattenimento per il rimpatrio. La conferma arriva da un decreto del Tribunale di Palermo, di cui dà notizia Giansandro Merli su il Manifesto, riguardante un giovane tunisino accusato di essersi sottratto ai controlli al suo arrivo a Lampedusa. Poiché il giudice ne ha appunto disposto la reclusione presso il “Centro trattenimenti per richiedenti protezione internazionale di Porto Empedocle”, ora sappiamo che tale Centro esiste ma, come l’araba fenice, non sappiamo dove si trovi. Atti ministeriali parlano della contrada Caos, ma lì è ubicato l’hotspot (ultimato nel mese di marzo) per il riconoscimento in tempi brevi dei migranti tratti dal mare e per l’avvio delle pratiche di asilo. Sulla struttura, affidata alla Croce Rossa, erano previsti addirittura interventi di ornamento artistico ed animazioni culturali: un vanto della nostra capacità di accoglienza che non può essersi trasformato in carcere. Più precisamente, in un Centro di trattenimento per il rimpatrio che, a norma del decreto Cutro, sarebbe destinato ad ospitare, per un tempo abbastanza indeterminato, persone da respingere nei rispettivi paesi ritenuti “sicuri”. Si potrà ben immaginare il loro stato d’animo in attesa del rimpatrio: finiti in galera senza colpa, su semplice richiesta del Questore, e senza processo. È opportuno che qualche parlamentare si rechi quanto prima a visitare la struttura. Ma dov’è? *Ammiraglio della Guardia Costiera in pensione Migranti. Le vite salvate in mare e la civiltà dell’amore di Don Mattia Ferrari La Stampa, 26 agosto 2024 Volge verso la conclusione questa missione della nostra nave Mare Jonio e della barca a vela di appoggio allestita da Migrantes, che ci ha affiancati per monitorare e informare. Appena la nostra nave ha superato l’isola di Lampedusa, è stata raggiunta da numerose segnalazioni di imbarcazioni in pericolo in fuga dalla Libia e dalla Tunisia. In particolare, grazie all’aereo civile di osservazione Colibrì di Pilotes Volontaires, siamo riusciti a intercettare una barca in legno che stava per affondare con 67 persone a bordo, tra cui 16 donne e una quindicina di bambini piccoli. Il nostro Team ha distribuito i giubbotti di salvataggio, stabilizzando il natante e mettendo in sicurezza la barca. Pochi minuti dopo una motovedetta della Guardia Costiera ha recuperato le persone in difficoltà e le ha sbarcate a Lampedusa. Abbiamo così potuto proseguire la navigazione verso Sud pattugliando e verificando le numerose segnalazioni di Alarm Phone e degli aerei civili, così come le posizioni di natanti in difficoltà indicate via radio da pescatori tunisini e siciliani. Nella notte abbiamo con fatica individuato nel buio un gommone sovraccarico di persone che si trovava alla deriva, a imminente rischio di naufragio in acque internazionali oltre 30 miglia a sud di Lampedusa. Abbiamo evacuato 50 persone, tra cui 2 donne e ben 43 minori non accompagnati, in maggioranza di nazionalità etiope ma anche provenienti dal Sudan. Il gommone risultava partito quattro giorni prima da Abu Kammash e la lunga permanenza in mare aveva debilitato le persone. Poco dopo è intervenuta una motovedetta della Guardia Costiera, che ha trasferito i naufraghi dalla nostra nave per sbarcare anch’essi rapidamente a Lampedusa. Alle prime luci dell’alba a quasi 40 miglia a sud di Lampedusa abbiamo intercettato una imbarcazione in vetroresina pericolosamente sbandata, a rischio di prossimo affondamento. A bordo si trovavano 65 persone, tra cui 5 minori non accompagnati, di cittadinanza siriana, pakistana e bengalese. Le abbiamo soccorse e imbarcate in sicurezza sulla nostra nave, dove abbiamo prestato le prime cure sanitarie. La nostra nave si è sempre coordinata con il proprio Centro del soccorso marittimo di bandiera, IT MRCC, che per le ultime 65 persone soccorse ha assegnato il porto di Pozzallo come “luogo sicuro di sbarco”, dove l’arrivo è previsto nelle prime ore del mattino di oggi, lunedì 26 agosto. Ringraziamo la Guardia Costiera per la collaborazione: insieme abbiamo potuto soccorrere tutte quelle persone. Questa missione ha confermato che è possibile lavorare insieme, istituzioni e società civile, e che quando si lavora tutti insieme si possono davvero cambiare le cose. Un ragazzo siriano ci ha detto: “L’Europa per me è la terra della speranza”. La speranza diventa carne nelle mani che si incrociano in mare, in quell’abbraccio universale che si è realizzato anche questa volta a bordo della Mare Jonio. Un abbraccio che unisce un equipaggio composto di persone provenienti da tanti mondi diversi e persone soccorse provenienti da Paesi, culture e religioni diverse. Un abbraccio che genera un mondo nuovo, non più dominato da individualismo, chiusura, autoritarismo, ma improntato alla cosa più bella che abbiamo: la fraternità e la sororità. Questo è l’appello che lanciamo insieme da questo vascello di umanità, equipaggio e fratelli e sorelle migranti soccorsi: prendiamoci per mano sempre, nella vita di ogni giorno. Prendiamoci per mano tutti e tutte, diamo finalmente carne alla fraternità universale. Un altro mondo è davvero possibile, sulla nave lo vedi in germoglio. Se saremo capaci tutti e tutte insieme di vivere così, di abbracciarci così, allora veramente nascerà una nuova società, la civiltà dell’amore. Il fratello dell’italiano condannato in Egitto: “In carcere vuole uccidersi, lo Stato ci aiuti” di Grazia Longo La Stampa, 26 agosto 2024 Il 31enne Giacomo Passeri era stato arrestato un anno fa in vacanza e dovrà scontare 25 anni per traffico di droga: “La polizia locale lo ha incastrato, poi lui ha confessato per paura”. “Finora dopo l’interesse dei giornali alla condanna di mio fratello, l’unico risultato che abbiamo ottenuto dallo Stato è una vaga telefonata da parte dell’ambasciata italiana al Cairo. Nulla di più. Speriamo che si muova qualcosa al più presto”. Antonio Marco Passeri, fratello di Luigi Giacomo Passeri, pescarese di 31 anni, arrestato un anno fa al Cairo dov’era in vacanza e condannato a 25 anni il 19 agosto scorso per traffico di droga, non nasconde la sua amarezza per quella che lui definisce “la latitanza delle istituzioni”. Che cosa le hanno comunicato dalla nostra ambasciata al Cairo? “Innanzitutto hanno precisato che la condanna non è all’ergastolo com’era trapelato all’inizio, ma a 25 anni. Poi mi hanno detto che seguiranno il caso di Giacomo e che se vogliamo ci possono aiutare a trovare un nuovo avvocato. Ma il guaio è che quello che ci avevano proposto loro nei mesi scorsi costava 75 mila dollari. Per fortuna ne abbiamo trovato uno, tramite un amico della Sierra Leone dov’è nata nostra madre, che ci ha chiesto 30 mila dollari. Per pagarlo abbiamo dovuto fare una colletta con la quale abbiamo raccolto in tutto 40 mila dollari. Una parte del denaro serve per il traduttore. Ora il funzionario dell’ambasciata mi ha detto che magari riesce a farci ottenere uno sconto su un nuovo avvocato ma temo che il prezzo resti ancora troppo alto. E comunque abbiamo bisogno di altro”. Passeri condannato all’ergastolo in Egitto per traffico di droga grazia longo E cioè? “Mio fratello è innocente, non è uno spacciatore di droga. Purtroppo lo hanno incastrato, in ogni caso io e la mia famiglia, siamo quattro fratelli oltre a Giacomo, chiediamo che venga a scontare la pena in Italia”. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha assicurato che si impegneranno in questa direzione. “Me lo auguro, ma fino a questo momento non abbiamo ottenuto alcun aiuto concreto dall’ambasciata. A partire dal fatto che non siamo mai riusciti a parlare con mio fratello. Anche le lettere che mi manda, mi arrivano in maniera rocambolesca”. In che senso? “Dobbiamo tutto alla disponibilità dei parenti degli altri detenuti. Nel senso che mio fratello consegna la lettera a qualche parente di un suo compagno di cella che poi me la invia tramite whatsapp. Così mi è arrivata anche la sua ultima lettera, dopo la condanna, in cui mi ha scritto che si vuole ammazzare perché non può sopportare la vita nel carcere, in quindici in poco spazio in mezzo a sporcizia e insetti. Tanto più che è innocente”. Mi scusi, eppure secondo il rapporto della polizia egiziana consegnato all’ambasciata suo fratello aveva nella camera d’hotel ingente quantità di stupefacenti. “E chi ci dice che non l’abbia messa lì proprio la polizia egiziana? Hanno detto che nel frigorifero della camera dell’hotel era pieno anfetamine, cocaina, hashish e marijuana. Ma quelle sostanze non appartenevano a Giacomo, sono stati gli agenti egiziani a metterle nel frigo per intrappolarlo. Lui sarebbe dovuto ripartire il giorno dopo, perché mai avrebbe custodito tutta quella droga nel frigo? Lui aveva solo un po’ di marijuana per uso personale. E in ogni caso chiediamo che Giacomo venga trasferito in Italia”. Perché suo fratello ha firmato una confessione? “Per il terrore di essere ucciso. Lo hanno minacciato di morte “Se non firmi, torni in Italia in una bara” gli hanno detto. E lui ha firmato, ma è stato costretto. Lavorava a Londra come pizzaiolo e a volte come commesso in un negozio di abbigliamento. È un gran lavoratore, non uno spacciatore. Aveva sollecitato ripetutamente la presenza di un traduttore e di un avvocato ma la polizia non ha accolto le sue richieste. Ha firmato quel documento scritto in arabo per paura di morire”. Myanmar. Sette anni fa la pulizia etnica dei rohingya, i responsabili impuniti al potere di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 26 agosto 2024 Il 25 agosto 2017 le forze di sicurezza di Myanmar lanciarono un attacco su vasta scala e sistematico contro i villaggi rohingya, dopo che un gruppo armato chiamato Esercito di salvezza dell’Arakan aveva portato a termine attacchi mortali contro posti di polizia. Arakan è un altro nome utilizzato per lo stato di Rakhine. La risposta delle forze armate di Myanmar si basò su esecuzioni extragiudiziali, distruzione di proprietà, incendi e saccheggi e aggressioni sessuali. A seguito delle cosiddette “operazioni di pulizia” militari, più di 740.000 donne, uomini, bambine e bambini rohingya fuggirono dal nord dello stato di Rakhine verso il vicino Bangladesh. Amnesty International affermò che gli attacchi del 2017 contro i rohingya equivalevano a crimini contro l’umanità, raccomandando che almeno una dozzina di alti ufficiali venissero indagati per il loro ruolo nelle violenze, incluso il generale Min Aung Hlaing. La Corte penale internazionale sta indagando sui presunti crimini commessi nel 2016 e 2017 contro la popolazione rohingya, ma solo su quelli commessi in parte nel territorio del Bangladesh o di altri stati, poiché Myanmar non ha ratificato il suo Statuto. Min Aung Hlaing non è mai stato chiamato a rispondere delle sue azioni e il 1° febbraio 2021, a seguito di un colpo di stato militare, è stato chiamato a presiedere il neocostituito Consiglio di amministrazione dello Stato. Da allora soldati, agenti di polizia e milizie sostenute da quell’organismo hanno ucciso più di 5000 civili. Amnesty International ha documentato maltrattamenti e torture, detenzioni arbitrarie e attacchi aerei illegali da parte dell’esercito di Myanmar. Ma non basta. Gli attacchi mortali contro i rohingya nello stato di Rakhine sono ripresi a causa dell’intensificarsi del conflitto tra le forze governative e l’Esercito dell’Arakan. L’esercito di Myanmar ha risposto alle perdite sul campo con devastanti attacchi aerei che hanno ucciso rohingya e civili di etnia rakhine. Gli attacchi hanno preso di mira aree civili, distruggendo case, mercati e altre infrastrutture civili. A sua volta, l’Esercito dell’Arakan è sempre più accusato di atrocità. L’avanzata dell’Esercito dell’Arakan nella città settentrionale di Buthidaung, nello stato di Rakhine, ha provocato incendi su vasta scala il 17 maggio e causato lo sfollamento di migliaia di residenti rohingya. Inoltre, il 5 agosto, un attacco che i sopravvissuti hanno attribuito all’Esercito dell’Arakan ha ucciso un numero imprecisato di civili rohingya in fuga dalla città di Maungdaw, vicino al confine con il Bangladesh. L’Esercito dell’Arakan ha negato di essere responsabile dell’attacco. Nel frattempo, il Bangladesh continua a ospitare per il settimo anno consecutivo e in condizioni precarie quasi un milione di rifugiati rohingya. L’anno scorso, almeno 12.000 rifugiati nei campi sono rimasti senza tetto a causa di incendi devastanti e dell’impatto del ciclone Mocha. Le gravi carenze di finanziamenti hanno portato all’insicurezza alimentare nei campi, oltre a carenze nell’assistenza sanitaria e nell’istruzione. *Portavoce di Amnesty International Italia