Per sfollare le celle servono carceri nuove e non nuove carceri di Antonio Mattone Il Mattino, 25 agosto 2024 “In 35 anni di servizio non ho mai visto nulla di simile”, mi dice un agente penitenziario che lavora nel carcere di Poggioreale. “Bisogna entrare nei reparti per rendersene conto - continua scuotendo il capo il brigadiere - non è possibile lavorare in queste condizioni: due soli agenti che devono badare a quattro piani! Anche i carcerati stanno male, il sovraffollamento rende invivibile la permanenza nelle celle”. Lo sfogo di chi conosce la vita all’interno degli istituti di pena, insieme ai dati sulle presenze dei detenuti, sui suicidi e sull’insufficienza del personale, fotografano la drammaticità della situazione attuale del mondo delle carceri: 14mila detenuti in più rispetto alla capienza ordinaria (700 solo a Poggioreale), 67 suicidi dall’inizio dell’anno, 18 mila agenti in meno, carenze di medici, infermieri e operatori penitenziari. Le rivolte di questo mese sono state un chiaro segnale della tensione e del malessere che cova nelle prigioni del Paese. A questo si aggiungono l’emergenza sanitaria, tanto spesso sottaciuta, che è materia di competenza delle Regioni, e l’aumento dei detenuti con problemi psichiatrici, tendenza che rispecchia quello che è avvenuto nella società nel periodo post Covid. Di fronte a questa situazione, abbiamo assistito nei giorni scorsi a numerose prese di posizione da parte di esponenti dell’opposizione che richiedevano misure urgenti per cercare di alleviare la difficile condizione di chi vive all’interno delle prigioni. Il Governo, da parte sua, ha approvato il decreto legge proposto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio che contiene una serie di provvedimenti che però non sembrano incidere sul sovraffollamento. Mentre l’incremento di mille unità degli agenti, previsto entro il 2026, probabilmente non riuscirà a coprire nemmeno le uscite per il pensionamento del personale. Poca cosa appare l’aumento di telefonate (da 4 a 6), misura già in vigore durante la pandemia. Infine la nomina di un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria non riuscirà nel breve periodo ad attenuare la pressione sugli istituti di pena, alla quale si aggiunge il problema di dover reperire personale aggiuntivo per gestire le nuove carceri. Tuttavia per comprendere cosa sta accadendo oggi nel mondo penitenziario bisogna fare un passo indietro negli anni e ricordare la grande occasione persa dal Partito democratico con la mancata approvazione degli Stati generali dell’esecuzione penale, promossi dall’allora ministro della Giustizia Orlando. Un tentativo di riformare un’istituzione immobile come quella penitenziaria ed adeguarla alla società che invece negli ultimi anni aveva subito numerose trasformazioni. Uno sforzo innovativo che vide all’opera oltre 200 esperti del mondo penitenziario, accademici, magistrati, volontari, intellettuali che avevano “modellato” la Riforma che avrebbe dovuto prevedere un modo più umano e nello stesso tempo più efficace di scontare la pena detentiva. Ricordo che all’epoca il Governo Gentiloni e soprattutto l’allora segretario del Pd Matteo Renzi, temendo ripercussioni negative alle elezioni politiche del 2018, non ebbero il coraggio di approvare questa importante riforma, cimentandosi in acrobatiche contorsioni procedurali con cui furono presentati con tempistiche differenti i decreti attuativi, fino a farla naufragare. Sappiamo come andarono le cose. Il Partito democratico perse le elezioni e Renzi si dimise da segretario del partito. Se fosse stata approvata quella riforma, oggi non saremmo in queste condizioni. Ma la politica ha la memoria corta e una grande capacità camaleontica. Ed ecco che il Pd (e anche Italia Viva) criticano il Governo alla luce dell’emergenza carceri e del decreto Nordio. Il senatore Renzi il giorno di Ferragosto “ha interrotto le sue vacanze” per andare nel penitenziario di Sollicciano dove ha dichiarato che “strutture come quella del carcere fiorentino andrebbero distrutte e rifatte da capo”. Oggi il Governo Meloni, certo non il solo responsabile dell’emergenza carceri cresciuta nel tempo, potrebbe mettere in campo subito, oltre al quadro normativo del decreto legge appena approvato, nuovi provvedimenti, senza “ansie” o timori elettorali, ma nella consapevolezza della piena titolarità politica e alla luce di un’emergenza non più trascurabile. La proposta dei Garanti dei detenuti di far uscire i quasi 8mila detenuti condannati per reati non ostativi che devono scontare pene residue entro un anno, che sembrava potesse essere presa in considerazione, sarebbe una misura deflattiva di rapida applicazione. Un mini indulto che allenterebbe la pressione sugli istituti e che rappresenterebbe un atto di grande coraggio e senso di responsabilità. Poi bisognerà ragionare su come migliorare le condizioni di vivibilità delle prigioni. La galera dura non ha mai cambiato nessuno, ma è stata solo una grande scuola del crimine. Non dimentichiamo che la società sarà più sicura soltanto se chi esce dal carcere sarà una persona cambiata. Allora non è necessario costruire nuove carceri ma carceri nuove. E magari anche una visione più responsabile e meno demagogica della politica. Questa è la vera sfida. “Il carcere costruisca futuro. Ma 22 ore su 24 in cella sono tortura” di Alberto Ceresoli L’Eco di Bergamo, 25 agosto 2024 Don Gino Rigoldi, “storico” cappellano del “Beccaria”: “La detenzione offra opportunità, altrimenti fa morire la speranza. Lavoro e relazioni per evitare le recidive”. Una vita dentro il “Beccaria” di Milano per essere al fianco dei giovani detenuti che per le tristi vicende della vita finiscono in carcere. Lì è stato nominato cappellano nel 1972 e lì c’è ancora, anche se da qualche mese don Gino Rigoldi - classe 1939 - ha rassegnato le dimissioni per lasciare il posto a don Claudio Burgio, un amico più che un collega, con cui da diciotto anni si occupa dei problemi delle carceri e si interroga su cosa fare per dare agli istituti di pena un minimo di umanità. Promotore di moltissime iniziative e altrettanti progetti, don Rigoldi è considerato da sempre un “faro” quando si parla di carceri, di detenuti e dei problemi in cui il sistema penitenziario del nostro Paese annaspa ormai da anni. Dopo l’approvazione del decreto carceri da parte del governo, è a lui che abbiamo chiesto di tracciare “lo stato dell’arte” del sistema carcerario italiano. Sovraffollamento, condizioni igieniche discutibili, oltre 60 suicidi dall’inizio dell’anno ad oggi, tra cui anche alcuni agenti di polizia penitenziaria… Da dove cominciamo a parlare delle carceri italiane? “Cominciamo dall’inizio. Se si vuole modificare la situazione nelle carceri italiane bisogna mettere mano ad una circolare del 2022, andata in esecuzione sei mesi fa, in cui si prevede che i detenuti possono stare fuori dalla cella solo se hanno specifiche attività da svolgere in carcere o al di fuori dal carcere, altrimenti si esce dalle celle soltanto per l’ora d’aria del mattino e per quella del pomeriggio, altri momenti al di fuori dalla cella non ne sono previsti. Ma in molte carceri italiane, soprattutto in quelle strapiene, le attività da fare praticamente non esistono. Vuol dire che ci sono migliaia di detenuti che trascorrono 22 ore al giorno in cella a far niente. Questo modo di agire, a mio modo di vedere, si chiama tortura. Abbiamo protestato come cappellani delle carceri della Lombardia, sottolineando che è una cosa indegna, ma ci è stato risposto che non sono cose che ci riguardano. Già sospendere questa misura - con una decisione che sarebbe solo di buon senso - equivarrebbe a creare un certo benessere all’interno delle carceri. Alcuni direttori si rendono conto della gravità della situazione, perché sanno benissimo che queste cose possono essere i prodromi o di una rivolta oppure di atti di autolesionismo, e dunque si inventano di tutto per autorizzare le uscite, ma la situazione è davvero dura”. Nemmeno dal punto di vista igienico-sanitario le carceri del Bel Paese brillano… “Quello legato agli aspetti sanitari è un altro problema molto serio. Basta andare in alcuni istituti di pena - parlo della Lombardia, non del Terzo Mondo, e non dico quali per rispetto dei colleghi - dove contrarre la scabbia è all’ordine del giorno: ci sono pulci, cimici e chi più ne ha, più ne metta. E qual è l’idea brillante per risolvere il problema? Quella di ristrutturare le carceri, l’idea più stupida che si possa avere. Prendiamo ad esempio il “Beccaria”: ci sono voluti 15 anni di lavori, sono stati spesi decine di milioni per far qualcosa che è già vecchio. Le carceri pidocchiose, piene di scarafaggi e di parassiti, che costituiscono un problema di carattere sanitario enorme, oltre che essere una cosa disumana e indegna per un Paese che si dice civile come il nostro, devono essere rase al suolo e, al loro posto, vanno costruiti palazzi con tutte le garanzie del caso, ma dove sia possibile vivere in maniera decente, sia sotto l’aspetto sanitario sia sotto quello dell’affollamento”. In attesa di carceri nuove e più umane, cosa si potrebbe fare? “Un aspetto di cui non si tiene conto è che in Italia esistono carceri dove la percentuale di recidiva, cioè di reingresso in cella dopo aver scontato la pena, è del 75 - 80%, e altre dove la percentuale è solo del 20-25%. Perché simili disparità? Perché dove si costruiscono percorsi che possano dare un futuro a chi sta temporaneamente in carcere, si consente al detenuto di reagire, di tornare a sperare a una vita diversa quando sarà uscito dalla cella, si favorisce l’attivazione di processi virtuosi che gettano un ponte verso il mondo fuori dal carcere. Se invece il carcere è un portone che si apre quando entri e si chiude alle tue spalle quando esci, allora non serve a niente, se non a togliere la speranza a chi tieni dentro. Se cominciassimo a puntare seriamente su formazione e lavoro, la situazione migliorerebbe sensibilmente in tutte le carceri. Un po’ come stiamo facendo ad Opera, ad esempio, dove abbiamo dato vita ad una sorta di modello per la formazione di muratori. Abbiamo fatto un accordo con la Assimpredil Ance a cui proponiamo gruppi di 15 detenuti, che l’impresa si impegna a formare, e che vengono assunti a tempo determinato, in modo che possano restare fuori dal carcere dalla mattina alla sera per lavorare, per poi rientrare in cella per dormire. Così facendo inserisci nelle carceri meccanismi di futuro; se invece non fai nulla, non fai altro che stimolare il “replay” di quanto già avvenuto, e favorire dunque la reiterazione del reato per cui si è finiti in carcere. Lo ripeto, è necessario introdurre forme di uscita dal carcere più veloci, almeno per chi ha già scontato un terzo della pena, valorizzando iniziative come quella promossa con Assimpredil Ance, sfruttando l’articolo 21, formando detenuti che possano poi lasciare il carcere per andare a lavorare. Con il gran bisogno di manodopera che c’è, stringere un’alleanza con il mondo dell’impresa in questa direzione sarebbe estremamente importante. Il tema della formazione all’interno del carcere, finalizzata ad un lavoro, deve essere rivisto e rilanciato, altrimenti si rischia di proporre iniziative che fanno solo trascorrere il tempo, ma senza dare un futuro a nessuno”. E per gli istituti che ospitano i minori? “Per loro sarebbe bellissimo inserire un articolo 21 “educativo”: se va bene lasciare il carcere per andare a lavorare, perché non potrebbe essere lo stesso per andare a studiare, a far musica, a fare tutte quelle attività che possano accompagnare i ragazzi ad essere quegli adolescenti che dovrebbero essere ma che non sono? Non è previsto, ma quel che non accade lo si può sempre far accadere…”. A proposito di minori, c’è proporzionalità tra i reati che commettono e le pene a cui vengono condannati? “Quello del tipo di reati compiuti da chi è detenuto è un altro tema di cui si parla poco quando ci si occupa di carcere. Al “Beccaria”, ad esempio, nella stragrande maggioranza dei casi abbiamo ragazzini che hanno commesso reati legati alla sopravvivenza, legati cioè alla necessità di raccattare dei soldi semplicemente per poter mangiare. Perché avviene questo? Perché a Milano sono arrivati moltissimi di questi ragazzi, ma il Comune riesce ad accoglierne solamente 5 o 600, mentre tutti gli altri vivono in strada, cercando di sbarcare il lunario come possono. Questo non vuol dire ovviamente che sono autorizzati a strappare le collanine alle ragazze o a rapinare il cellulare a chi è al telefono, ma indica la necessità di intervenire con proporzionalità nell’infliggere le pene. Conosco un ragazzino che ha partecipato, con un gruppo di coetanei, alla rapina di una collana ad una ragazza; non l’ha strappata lui - la collana -, l’ha raccolta una volta caduta per terra e l’ha messa in tasca, ma gli agenti l’hanno trovata addosso a lui. Com’è finita? Con 5 anni di detenzione, a soli vent’anni e al primo reato: non c’è commisurazione tra reato, pena e soprattutto persona. Certo che non si può rapinare, certo che le rapine e i furti sono reati, ma questa è gente che ha bisogno di mangiare. Comprende di aver sbagliato, ma non capisce una sproporzione così netta tra ciò che ha fatto e la pena che deve scontare. Non si possono riempire le carceri di situazioni come queste: è disumano”. Ma come si sta nelle carceri minorili e nelle comunità destinate ai minori? “I problemi non mancano, sia negli uni sia nelle altre, che dovrebbero accogliere i minori che hanno commesso alcuni reati. Non è che le comunità siano il paradiso, ma sono un percorso importante per la rieducazione di chi ha sbagliato. Il problema è che le comunità sono strapiene. E non perché sono troppi i giovani che dovrebbero esservi accolti, ma perché nessuno ha mai pensato al “tappo” che si crea una volta che questi ragazzi raggiungono la maggiore età, quando magari sono riusciti ad imparare un mestiere e vorrebbero sperimentare un po’ di autonomia, andare a vivere per conto proprio, perché sono stanchi di stare in comunità. Ma c’è il problema della casa “dopo”: chi gliela dà? Con me vivono dieci ragazzi, ma almeno quattro o cinque sono stanchi di vivere in gruppo, vorrebbero sperimentare una propria autonomia, ma chi si occupa di questo problema? Nessuno, dunque continuano a restare in comunità, contribuendo a renderle strapiene”. Ma c’è qualcosa che è stato fatto bene per il nostro sistema carcerario? “Questo governo una cosa buona l’ha fatta: la nomina dei direttori. C’erano delle carceri, come ad esempio il “Beccaria”, dove il direttore mancava da vent’anni. Certo, c’erano dei supplenti che però dovevano badare a due o tre carceri, il che vuol dire non riuscire a gestirne nemmeno uno o quasi. Adesso invece ogni carcere ha un proprio direttore e questo è un bene. Il direttore di un carcere è re e imperatore, però se è una persona positiva, costruttiva, ha la capacità di vedere i problemi e di immaginarsi delle soluzioni. Si stanno nominando anche i comandanti degli agenti penitenziari, e pure questa è una cosa buona, perché la figura del comandante è fondamentale per formare, organizzare e sostenere al meglio il delicato lavoro degli agenti”. A proposito degli agenti e della loro formazione, non trova sia carente in proporzione a ciò di cui si devono occupare? Mi viene un parallelismo con l’infermiere, figura professionale che si occupa del benessere e della salute delle persone, e che oggi ha una laurea. Perché un agente penitenziario non deve avere un percorso di formazione simile? Anche lui ha a che fare con la vita e il benessere delle persone, anche se sotto altri aspetti. Non sarebbe anche una garanzia a tutela di tutti, detenuti e agenti? “Questo sarebbe un sogno, un bellissimo sogno, anche perché sono proprio gli agenti a stare a stretto contatto con i detenuti per il maggior numero di ore. Gli educatori vanno e vengono, ma gli agenti devono restano per almeno sei ore. Fino a poco tempo fa la normalità era che ci restassero otto ore, e, a volte poteva accadere che le ore diventassero dieci, dodici o quattordici. Io con i ragazzi ci sto volentieri, ma dopo tre o quattro ore ho anche voglia di andarmene via; gli agenti, invece, devono starci per molto più tempo, e non è semplice. La formazione che auspica lei semplicemente non è a tema, anche se è vero che gli agenti dovrebbero avere una formazione molto più specifica dell’attuale, perché oggi hanno poche competenze rispetto al compito che devono svolgere. Al “Beccaria”, ad esempio, molti agenti vengono dal Sud e sono giovani in cerca di un lavoro fisso. Vengono formati piuttosto velocemente, in modo un po’ generico, e poi vengono subito inseriti nell’organico, con le conseguenze che ne derivano, tra cui l’impossibilità di creare una vera leadership nei confronti di detenuti, alcuni dei quali hanno la loro stessa età. Oltre al tema degli orari di lavoro e della formazione, anche per gli agenti esiste il problema del sovraffollamento, perché spesso uomini e donne sono ammassati dentro locali inadeguati per tutti, senza nemmeno l’aria condizionata. Anche queste situazioni contribuiscono a creare quel clima all’interno del quale poi accadono cose sgradevoli, come quelle di cui le cronache si sono occupate nelle scorse settimane”. Il tema dei suicidi in carcere sta assumendo dimensioni decisamente preoccupanti. Davvero non è possibile far nulla? “In primis, il problema dei suicidi è legato alle pessime condizioni in cui i detenuti sono costretti a vivere, a cominciare dal sovraffollamento e dal dover trascorrere in cella 22 della 24 ore di cui è composto il giorno, il che non aiuta certo a mantenere una corretta sanità mentale. In carcere i detenuti con problemi psichici e psichiatrici border line non mancano, e verso questi soggetti è certamente necessario mantenere un’attenzione più alta e avere nei loro confronti un atteggiamento diverso, anziché rinchiuderli semplicemente in isolamento quando “esplodono” in episodi di pazzia. A volte ho l’impressione che i detenuti con questo tipo di problemi vengano trattati più come animali da condurre al pascolo senza troppi sbandamenti piuttosto che come essere umani”. Non servirebbe un nuovo umanesimo per le carceri? “L’umanesimo più semplice sarebbe un “addestramento” a credere a quel comandamento che ci diede Gesù Cristo: “Vi comando di volervi bene”, offerto a tutti come una sorta di percorso da seguire. In quest’ambito sottolineerei un’altra urgenza non di poco conto dal mio punto di vista: avere anche degli imam dentro le carceri per adulti, perché l’iman è il prete dei musulmani, e quando i detenuti musulmani ricominciano a pregare, a “ricollegarsi” con la loro religione, a mantenere gli impegni e le scadenze che la loro religione prevede, cambiano sensibilmente. Anche incrementare la loro fede all’interno delle carceri è motivo di ordine e di serenità. Io adesso sono “emerito”, ma come cappellani del “Beccaria” siamo sempre stati alla rincorsa di una comunità aperta a tutti, cattolici e musulmani. Così è nata la “non Messa”, una preghiera a cui partecipano anche i fedeli della parrocchia vicina al carcere e un gruppo di giovani detenuti di fede musulmana. È un’esperienza pilota, un’esperienza per cercare di creare una relazione, per non lasciarli soli. Noi ci siamo sempre adoperati per mettere in campo una grande azione educativa, più sul versante del comportamento che su quello religioso, del predicare la nostra fede, anche se insistiamo in continuazione sull’importanza del perdono. Vedrei bene l’introduzione di un nuovo umanesimo, in maniera massiccia, nella formazione degli eventi da vivere in carcere, i quali, a loro volta, possono essere trasmettitori di nuovi valori di umanità all’interno del carcere stesso. Credo che alla fine sia anche un bisogno della stessa società”. Il Cardinal Martini diceva che “il carcere è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio in cui emergono le contraddizioni e le sofferenze di una società malata”. Mi pare una definizione perfetta... “Sì, certamente. Il Cardinal Martini era particolarmente attento al tema del carcere. Io ho un sogno: che finalmente si capisca che l’educazione ha un nome: si chiama relazione, e la relazione è il punto di partenza del volersi bene. E vorrei che questa idea la coltivassero i preti, i direttori degli istituti religiosi, i professori, l’intera comunità educante. Perché quando io chiedo a un gruppo di insegnanti, al rettore di un grande istituto cattolico, a un gruppo di parrocchie oppure alle scuole professionali qual è il vostro progetto educativo, mi rispondono balbettando. Non sanno niente, confondono la buona educazione, le buone maniere, con l’educazione, ma non è certo questa l’educazione di cui parlo. Perché ci dimentichiamo che dietro i ragazzini che delinquono ci sono sempre storie disastrate, familiari, sociali, economiche, culturali. Sempre. E c’è sempre un uomo dietro ogni storia”. Non trova che una certa classe politica che continua a istigare il Paese sul tema della sicurezza abbia una qualche responsabilità sulla situazione delle carceri oggi? “Sì. E soprattutto a me pare che, ancor prima, ci sia un vizio di fondo: l’ipocrisia di chi magari abita a Milano e va a vedere quartieri come Baggio, come San Siro, come Quarto Oggiaro, come Lambrate, per poi sollevare il tema della sicurezza. O è stupido oppure è in malafede. Basta vedere quanti ragazzini vivono in strada a Milano, quante sono le case occupate a Milano, quanto sia impossibile per una famiglia straniera, anche se guadagna tremila euro al mese, trovare un’abitazione. “San Siro è un disastro” dicono, poi va lì un sacerdote che con i ragazzini se la cava bene e in qualche mese organizza 12 squadrette di calcio e ora i ragazzini sono lì che giocano a pallone anziché essere in giro a rubare: erano semplicemente abbandonati dentro un contesto para-delinquenziale. Quelli che parlano della sicurezza dovrebbero prima garantire a tutti la possibilità di avere una casa, una scuola, una sopravvivenza economica. Fa alla svelta chi sta bene a sputare su quelli che stanno male...”. Si preferisce parlare alla pancia della gente piuttosto che al cervello. “Sì, certo. E poi, tutto sommato, quando dici che un altro è cattivo ti senti un po’ meglio anche tu. È un bel modo per alimentare il partito della forza, solo che il partito, a suo modo, fa politica, mentre il cittadino fa il gradasso”. Bisognerebbe educare anche i politici? “Beh… mi sembra impossibile. Non dico sia impossibile a Dio, ma credo che se ci si mettesse, farebbe una gran fatica pure Lui”. È vero che nel carcere si uccide la speranza? “Direi che il tema si pone nelle carceri per gli adulti, non in quelle per i minori. I minori, che peraltro in carcere non ci stanno molto, hanno sempre il desiderio del cambiamento, sono sempre sollecitati dagli educatori alla ricerca della comunità e hanno molta più energia. Per gli adulti è diverso. Dopo un anno o due di carcere, il detenuto adulto non pensa più a niente, non pensa più al proprio futuro, non è più interessato a nulla. Si, gli adulti sono quelli che soffrono di più”. Cosa pensa della giustizia riparativa? “È un tema lontanissimo. È certamente un ideale da perseguire, ma adesso siamo impegnati a sopravvivere. Quando la situazione si sarà stabilizzata, con carceri meno affollate, più umane, con personale e formazione adeguate ai bisogni, con risposte diverse dalle attuali ai reati “per la sopravvivenza”, allora potremo pensare di investire anche su questo tema, che è sacrosanto, ma per il quale oggi non abbiamo le forze necessarie”. Cosa pensa della decisione del Papa di aprire una porta Santa in un carcere per il prossimo Giubileo? “È senza dubbio una scelta meritevole, un simbolo estremamente positivo, che aiuta a far riflettere chi al carcere non pensa mai, ma non la caricherei di grandi attese, almeno per quel che riguarda le carceri da Roma in su, dove la maggior parte dei detenuti sono stranieri, mediamente arabi. Da Roma in giù sono invece in maggioranza cristiani, e lì - allora - ha un senso riflettere sull’indulgenza plenaria prevista dal Giubileo”. “Nelle carceri condizioni igieniche imbarazzanti. E non si guarda alla salute mentale” di Ambra Nardi luce.lanazione.it, 25 agosto 2024 Marco Perduca, dell’associazione Luca Coscioni, ci spiega le ragioni che hanno spinto alla diffida di 102 Direzioni Generali delle ASL delle città che ospitano i 189 istituti penitenziari italiani. Sovraffollamento e mentalità penalistica aggravano la situazione già critica. L’Associazione Luca Coscioni, impegnata nella difesa dei diritti civili e del diritto alla salute, ha lanciato nei giorni scorsi una serie di 102 diffide alle Direzioni Generali delle ASL delle città che ospitano i 189 istituti penitenziari italiani, denunciando gravi carenze nelle condizioni igienico-sanitarie delle carceri. In Italia i detenuti sono 61.133, oltre un terzo è in carcere per reati di droga: 12.946 detenuti, pari al 34,1% del totale. Una percentuale quasi doppia rispetto alla media europea del 18%. 17.405 detenuti sono registrati come tossicodipendenti, il 28,9% del totale. Una iniziativa, quella delle diffide, lanciata, dice l’associazione “alla luce della pressoché totale mancanza nel recente decreto carceri di misure strutturali volte a garantire il diritto alla salute nei 189 istituti di pena in Italia che tiene in considerazione il fatto che ai direttori generali delle aziende sanitarie spetta il compito di riferire al Ministero della Salute e quello della Giustizia sulle visite compiute e sui provvedimenti da adottare”. Ne abbiamo parlato con Marco Perduca, dell’associazione Coscioni. “È competenza della ASL non solo verificare che vengano garantiti i servizi sanitari 24h al giorno 365 giorni all’anno in carcere ma anche verificare l’idoneità dei locali in cui le persone vengono ristrette spesso per 20 ore al giorno. L’idoneità vuol dire non solo che ci siano le condizioni minime di igiene e profilassi - precisa - ma anche che esistano delle qualità ambientali per cui la vita sia vissuta in maniera degna. Ad esempio finestre che si aprano e facciano entrare aria e luce, che ci sia l’acqua sempre e non a singhiozzo, acqua sia calda che fredda, che ci sia la possibilità di sgranchirsi le gambe. Noi sappiamo che con un sovraffollamento medio in Italia del 132% - continua Perduca - i famigerati 3 metri quadri di spazio minimo per detenuto sono una chimera, considerando che in cella non solo ci si dorme, ma ci sono anche i servizi igienici e i fornelli per cucinare. Tutte queste cose dovrebbero essere verificate sistematicamente non una tantum dalle ASL”. E non vi risulta che accada? “A noi non risulta niente. Ma non solo a noi. Si dice che manca l’attenzione alla salute mentale, che mancano medici e infermieri. Ma di verifiche sulla salubrità dei luoghi a noi non arrivano notizie. Per questo chiediamo di verificare. Anche perché, se la situazione è quella che le cronache raccontano correntemente e che noi stessi verifichiamo quando abbiamo la possibilità di visitare le carceri, in molti penitenziari dovrebbero scattare i sigilli, date le condizioni igieniche imbarazzanti”. Che cosa dovrebbe accadere concretamente? “Chiediamo verifiche serie in ordine alla salubrità dei luoghi nei termini che le dicevo. Ci siamo dati 30 giorni dalla ricezione della diffida. Qualora le ispezioni non si saranno fatte allora procederemo contestando il reato di omissione di atti d’ufficio, con la denuncia conseguente nei confronti dei direttori generali. Ma anche i sindaci non possono tirarsi fuori, in quanto loro sono i responsabili primari della salute anche in carcere. Un sindaco può ordinare un trattamento sanitario obbligatorio, perché non lo firmano per i detenuti costretti nelle carceri delle loro città?”. Molti dei problemi derivano dal sovraffollamento che accresce i problemi e la pressione su strutture spesso fatiscenti o comunque sofferenti per carenze di vario tipo. Dopo l’ultima grande amnistia la situazione continua ad essere drammatica. Come mai? “Perché ci sono leggi che incrementano la popolazione carceraria continuamente. Solo L’articolo 73 del Testo unico sulle droghe ha causato 10.697 ingressi in carcere nel 2023, il 26,3% del totale, contribuendo in maniera significativa al sovraffollamento. Noi abbiamo presentato nel 2021 un referendum per depenalizzare la coltivazione della cannabis. Non se n’è fatto di nulla. Eppure se quel terzo di detenuti per reati di consumo di droga andasse fuori o venisse punito in altro modo, posto che sia da punire, già così troveremmo una situazione legale. A quasi trentacinque anni dalla sua emanazione, la legge 309/90, altresì nota come Testo Unico sugli Stupefacenti, costituisce il principale strumento di carcerazione in Italia. Il controllo di un fenomeno sociale di tali proporzioni, come il mercato delle sostanze illecite, è stato affidato a una gestione che invece di inquadrarlo in un’ottica sanitaria ha optato per una criminalizzazione sempre più aggressiva nei confronti dei consumatori, minando così la tutela costituzionale del diritto alla salute. Senza contare un altro elemento: il 25% dei detenuti non ha una sentenza definitiva. Perché deve stare in carcere se a norma di Costituzione tutti sono innocenti fiocco al terzo grado di giudizio? Poi c’è un’altra questione ancora”. Quale? “Negli ultimi anni sono stati creati 30 nuovi reati e sono state indurite le pene in maniera tale che per tanti reati per cui prima non si andava in carcere, magari in presenza di attenuanti specifiche, oggi ci si va. Si è affermata dunque una mentalità penalistica che determina inevitabilmente una ricaduta massiva sulle carceri con le conseguenze che vediamo”. Però questo è dovuto al fatto che la gente chiede più sicurezza, soprattutto nei confronti dei reati predatori, di di strada, che generano molto allarme sociale… “Noi però abbiamo l’obbligo di dire le cose come stanno. L’Italia non è un Paese insicuro. Anzi. Se prendiamo ad esempio, sono dati ufficiali, gli omicidi, in media sono 350 all’anno, uno al giorno, ma siamo un Paese di 60 milioni di abitanti cui se ne aggiungono annualmente altrettanti di turisti. Per cui anche in questo caso siamo ben al di sotto delle medie europee. Per essere più chiari, nel 2023 l’Italia ha registrato un numero di omicidi tre volte inferiore (330) rispetto alla Francia (1.010). Stesso dicasi per gli altri reati. Andrebbe fatta finita con questo racconto dell’Italia come un Paese pericoloso che ha bisogno di strette sulla sicurezza perché non è così. Sicuramente esiste il crimine, ma non in maniera così preponderante da rispondere con una panpenalizzazione come quella che abbiamo costruito”. Bari. Il viceministro Sisto visita il carcere e incontra per primi i reclusi di Chiara Spagnolo La Repubblica, 25 agosto 2024 La risposta indiretta al meloniano Delmastro che “non si inchinava alla Mecca dei detenuti”. Il viceministro di FI parte dal penitenziario della sua città, in cui una settimana fa si sono verificati disordini con il sequestro di un infermiere e il ferimento di un poliziotto, le visite nelle carceri italiane. E attacca la Regione Puglia: “Mancano medici e operatori sanitari”. Una risposta indiretta al collega meloniano Andrea Delmastro Delle Vedove, che pochi giorni fa aveva visitato un carcere dichiarando di non volersi inchinare “alla mecca dei detenuti” e scegliendo di non incontrarli, e un attacco frontale al modo in cui la Regione Puglia a guida centrosinistra gestisce la sanità negli istituti penitenziari. La visita nella casa circondariale di Bari del viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, si conclude con messaggi espliciti a livello nazionale e locale. L’incontro con i detenuti prima che con la dirigenza, gli operatori e la polizia penitenziaria - nell’ambito dell’iniziativa “L’estate in carcere” di Forza Italia - la necessità di rendere le strutture più dignitose, di sanare le carenze trattamentali, il no deciso “ad amnistie e indulti”, nella convinzione che “solo i magistrati possano certificare la meritevolezza delle misure alternative”. Messaggi che arrivano a sei giorni dai disordini causati da quattro detenuti (uno dei quali con problemi psichiatrici), che hanno ferito un agente e sequestrato un infermiere. Parole che vorrebbero certificare l’iperattivismo del Governo sul tema carceri e contemporaneamente la stasi della Regione, che tramite la Asl gestisce la sanità nella struttura. “Ci sono 13 medici su 14 ma mancano 10 infermieri e gli operatori sociosanitari richiesti non vengono forniti - ha detto Sisto - Qualcuno che ha chiesto di essere visitato ha dovuto aspettare quattro mesi, la Regione ha le sue responsabilità, si deve intervenire immediatamente”. Ma, in realtà, nel carcere del capoluogo tutti i numeri sono inclementi e il viceministro non può che prenderne atto: “Ci sono 391 detenuti su 260 posti, il tasso di sovraffollamento è significativo”. In merito, però, non ci sono soluzioni all’orizzonte, mentre novità positive sono previste per la polizia penitenziaria grazie a due concorsi che porteranno in servizio 1.800 e 2.000 agenti, una cinquantina dei quali arriveranno in città. Il piano del Governo sui nuovi penitenziari, invece, non comprende la città di Bari, per cui l’unica possibilità è cercare di ricavare qualche spazio in più per le attività trattamentali, considerato che per quelle scolastiche esiste solo un’aula, che viene usta anche per i laboratori teatrali e che il campo di calcio “non è altro che una mattonata su cui la gente si fa male”. L’impegno del viceministro è studiare la plamimetria (“che ho chiesto alla direttrice Valeria Pirè di mandarmi”) per valutare se sia possibile recuperare spazi. Tra le ipotesi per il futuro c’è anche quella di trasformare l’ex sezione femminile, “che aveva 29 posti e per la quale è a disposizione un finanziamento da quattro milioni”, in posti per detenuti definitivi con misure alternative. Proprio sulle misure alternative, la linea di Sisto e di FI è granitica: “La pena deve avere una sua certezza ma anche una prospettiva di rientro, in questa prospettiva costituzionale si deve agire”. Per questo promette impegno per aumentare gli organici dei magistrati di sorveglianza. Bari. “Istituire il Garante comunale dei detenuti”: la proposta lanciata da Più Europa baritoday.it, 25 agosto 2024 L’idea avanzata dagli esponenti locali del partito che ieri mattina hanno visitato il carcere di Bari: “La presenteremo nel primo Consiglio comunale utile”. “Come partito cittadino insieme alla Convenzione Bari 2024 abbiamo deciso di presentare al Sindaco Leccese e al consiglio comunale, la proposta di istituire anche a Bari la figura del Garante Comunale delle persone sottoposte a Misure restrittive della libertà. Lo faremo nel primo consiglio comunale utile”: ad annunciare l’idea sono i rappresentanti baresi di Più Europa, che questa mattina, nell’ambito delle iniziative volte a monitorare le condizioni delle strutture detentive e a promuovere il rispetto dei diritti umani all’interno delle carceri italiane, hanno visitato il penitenziario di Bari. “Abbiamo trovato una situazione che purtroppo ci aspettavamo - dichiara Claudio Altini Segretario cittadino di Più Europa Bari in una nota - una situazione di sovraffollamento, carenza di spazi per la rieducazione del detenuto, situazione di carenza di personale di polizia penitenziaria e figure correlate alla struttura (infermieri, oss, educatori e altro). Ieri il vice ministro Sisto ha minimizzato il problema, dimenticando che il Suo governo è il principale responsabile di questa situazione drammatica. Nel decreto carceri approvato dal Parlamento - prosegue Altini - non c’è nulla che abbia un effetto immediato deflattivo rispetto ai numeri che ci sono, inoltre l’impennata degli ingressi in carcere registrata negli ultimi mesi è direttamente collegata alle misure di aumenti di pene o creazione di nuovi reati del suo governo (vedi decreto Caivano)”. Quanto alla proposta del Garante dei detenuti, l’idea è quella di istituire “una figura di garanzia, osservazione e dialogo rispetto alla salvaguardia di diritti e comportamenti conformi alla legge. Per il rispetto dei diritti fondamentali che può portare Bari ad essere ancora più una città europea”. Bergamo. Emergenza carcere, sale l’attenzione: “Numeri al collasso e il disagio cresce” di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 25 agosto 2024 È il sesto più affollato d’Italia: 570 i reclusi a fronte di 319 posti. Personale sottodimensionato. Le associazioni e i penalisti: “Situazione esplosiva”. Il sole sbatte sul muro di cinta e sulle finestre, illuminando ancora una volta i problemi ormai cronici. A Bergamo come in tutte le carceri d’Italia: la calda estate penitenziaria racconta di un disagio diffuso, reso rovente dai numeri del sovraffollamento, mentre gli organici restano sottodimensionati. Perché se vivere dietro le sbarre - il discorso vale anche per chi con i detenuti ci convive, cioè la polizia penitenziaria e gli operatori - è una dura condizione tutto l’anno, l’estate è il periodo più difficile. La situazione - Al 31 luglio, secondo i dati del ministero della Giustizia, la casa circondariale di Bergamo ospitava 570 reclusi a fronte di 319 posti regolamentari: il tasso di affollamento è così al 178,7%, il sesto più alto d’Italia; come una piccola città nella città, il “quartiere” del carcere ospita 38 donne e in totale 265 stranieri. “Purtroppo, facciamo i conti con problematiche che durano da tempo e ovunque - sospira Valentina Lanfranchi, garante dei detenuti di Bergamo -. Il caldo rende tutto più difficile, e in questa situazione c’è sempre il timore che possa verificarsi qualche evento critico: a Bergamo fortunatamente non si sono verificate tragedie quest’anno, ma la paura c’è”. Le nuove misure - La questione carceraria ha occupato le pagine estive del dibattito politico: il primo decreto varato dal Governo su proposta del ministro della Giustizia Carlo Nordio, la sua conversione in legge (tra i punti: mille agenti assunti da qui al 2026, un commissario per l’edilizia straordinaria, l’ampliamento delle possibilità di accesso alle comunità terapeutiche per i detenuti tossicodipendenti), le nuove ipotesi sui futuri interventi. “Queste misure non sono però risolutive - commenta Lanfranchi -: una delle tematiche prioritarie è la sanità penitenziaria, e in particolare il disagio psichico”. Per l’avvocato Enrico Pelillo, presidente della Camera penale di Bergamo, il decreto “somiglia più a una dichiarazione di intenti, per quanto lodevole, ma che tale rimane: servirebbero invece interventi organici e immediati, perché la situazione è drammatica”. Drammatico è lo stillicidio della cronaca, dai suicidi alle rivolte: “Per fortuna a Bergamo non si sono registrati episodi di questo tipo - rileva il penalista -, ma non possiamo farne un vanto né escluderlo in futuro. I problemi di base sono il sovraffollamento e la scarsità di personale, da cui a cascata discende l’impossibilità di occuparsi concretamente dei detenuti”. I dati ufficiali del Dipartimento per le Politiche antidroga segnalano che il 50% dei carcerati lombardi ha un problema di tossicodipendenza, situazione che molto spesso si lega anche al disagio psichico. “Estate non semplice” - È la vicinanza umana l’antidoto alla solitudine estiva, quando tipicamente le attività interne si diradano. Alla vigilia di Ferragosto è stato organizzato un piccolo momento di socialità per i reclusi e le loro famiglie: negli spazi all’aperto del carcere è stato allestito un rinfresco e un’anguriata. Gesti piccoli ma concreti per cercare uno scampolo di leggerezza: “È stato un momento molto bello che ha coinvolto il circondariale, il penale e il femminile - racconta Valentina Lanfranchi -: educatori, volontari, associazioni e agenti di polizia penitenziaria hanno voluto mostrare la propria vicinanza” Da novembre, l’applicazione delle nuove disposizioni del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha limitato ulteriormente la socialità dei detenuti: è il ritorno al regime delle “celle chiuse”, con i detenuti che devono così rimanere anche 22 ore su 24 nelle proprie stanze, salvo che per le ore d’aria e l’eventuale partecipazione ad attività sociali, educative o trattamentali. Ne consegue “un’estate non semplice - riflette don Dario Acquaroli, uno dei cappellani di via Gleno -, e il caldo rende tutto più complesso. C’è il forte lavoro di tutto il personale, dalla polizia penitenziaria agli educatori, per permettere di superare questo periodo impegnativo: in carcere si vive una situazione di costante fatica”. Questo disagio non sarà scalfito nemmeno dagli ultimi provvedimenti. I fronti - “Faccio un esempio concreto - approfondisce don Acquaroli -. Il decreto si propone di rendere più agile la procedura per l’accesso nelle comunità terapeutiche per detenuti tossicodipendenti: già oggi, però, nelle comunità terapeutiche mancano i posti. Dall’altra parte, e chi opera nel settore lo sa, l’inserimento in una comunità funziona se una persona ci vuole davvero entrare: se anche ci fossero posti sufficienti, l’esito positivo di quel percorso non sarebbe automatico. In questi ultimi provvedimenti mancano alcuni temi: l’importanza dei percorsi di consapevolezza del reato, l’aumento del personale educativo, il potenziamento del reinserimento lavorativo”. La drammatica contabilità umana di “Ristretti Orizzonti”, storico osservatorio sulla situazione penitenziaria in Italia, racconta che da inizio anno sono già stati 67 i suicidi nelle carceri: agosto non è nemmeno finito e già si è quasi eguagliato il totale di 69 suicidi dell’intero 2023. A questi si aggiungono poi 100 reclusi morti per altre cause: malattia, overdose, “cause da accertare”. Notizie che periodicamente passano anche sulle televisioni nelle celle dei detenuti, e che fanno paura. “In carcere si cerca di esorcizzare queste notizie - spiega don Luciano Tengattini, cappellano della casa circondariale -: quasi si preferisce non parlarne, anche per la paura che succeda qualcosa anche qui. Queste vicende le ricordiamo però nei momenti della preghiera, con un pensiero alle vittime e ai loro familiari. Una delle priorità, oltre al disagio psichico che rende difficile la situazione per detenuti e agenti, è la questione del lavoro: lanciamo un appello a imprenditori e aziende affinché scommettano su questo tema”. Ivrea. Carceri, visita dei Radicali: “Denunceremo Nordio per tortura” di Annissa Defilippi torinotoday.it, 25 agosto 2024 “Il degrado è dovuto anche al sovraffollamento: i detenuti sono 260, il 143% in più rispetto ai 192 previsti”. “Come Radicali Italiani abbiamo già presentato quattro denunce al ministro della giustizia, Carlo Nordio: dopo questo sopralluogo presenteremo la quinta”. Lo ha detto il tesoriere, Filippo Blengino, oggi - sabato 24 agosto - al termine della visita nel carcere di Ivrea, in provincia di Torino. L’esponente radicale ha annunciato che nella denuncia si ipotizzerà il reato di tortura: “abbiamo avuto la conferma che qui non si fa del reinserimento o della rieducazione a favore delle persone detenute ma le si sta letteralmente torturando”. La delegazione era composta anche da Alice Depetro, della direzione di Radicali Italiani, Flavio Martino coordinatore regionale di Europa, Enea Lombardozzi dell’associazione Adelaide Aglietta, i quali hanno spiegato che nella casa circondariale della città piemontese il degrado è dovuto anche al sovraffollamento: i detenuti sono 260, il 143% in più rispetto ai 192 previsti. “La situazione - osserva Blengino - non è dissimile a quella di tante carceri italiane. Non si rispetta la legge e nemmeno la dignità umana. Le carenze importanti di personale comportano una carenza di attività rieducative e si lasciano i detenuti nelle celle, con questo caldo asfissiante, tutto il giorno senza fare nulla. Abbiamo trovato un disagio psichico notevole, tante persone con dei tagli sulle braccia, tantissime persone detenute per aver violato un unico comma di un unico articolo del testo unico sugli stupefacenti. Questo per noi è inaccettabile”. Reggio Emilia. Suicidi in carcere, oggi l’ispezione di +Europa Il Resto del Carlino, 25 agosto 2024 Il gruppo +Europa di Reggio Emilia visita il carcere di via Settembrini per ispezionare le condizioni dei detenuti e sostenere la riforma carceraria contro il sovraffollamento. “A fronte della drammatica situazione nelle carceri italiane, dove decine di persone, tra detenuti e agenti, si sono tolte la vita dall’inizio del 2024, +Europa questo fine settimana prosegue la sua mobilitazione per la popolazione carceraria e il personale che lavora nei penitenziari”. Con queste parole il gruppo di +Europa di Reggio Emilia annuncia la sua visita odierna nel carcere cittadino di via Settembrini, con una delegazione di tre persone che entrerà nel penitenziario per ispezionare le condizioni dei detenuti. “Come gruppo di +Europa Reggio Emilia comunichiamo che oggi (domenica 25 agosto) una nostra delegazione farà una visita ispettiva al carcere reggiano di via Settembrini, a partire dalle 10.30 - spiega la nota -. L’iniziativa è anche a sostegno delle proposte depositate in parlamento da +Europa per la riforma del carcere, in particolare contro il sovraffollamento, che prevede ad esempio l’istituzione delle Case di Reinserimento sociale”. Aosta. Zero educatori effettivi nel carcere di Brissogne rainews.it, 25 agosto 2024 L’unico in organico è in aspettativa per nove mesi. In visita all’istituto penitenziario valdostano, lo rilevano i Radicali italiani che annunciano la sesta denuncia per tortura. Da Ivrea al mattino, nel pomeriggio di sabato 24 agosto è arrivata a Brissogne la ricognizione nazionale degli istituti di pena da parte dei Radicali italiani, che in quello valdostano denunciano disagio fra le persone detenute e l’assenza di educatori. “L’unico su una pianta organica di tre è in aspettativa per nove mesi” precisa Filippo Blengino, tesoriere del partito. Così, dopo quelle presentate alle Procure di Roma, Torino, Napoli e Firenze, Blengino annuncia altre due denunce al ministro della Giustizia Carlo Nordio: una quinta per la casa circondariale di Ivrea e una sesta per quella di Brissogne. “L’omissione di interventi volti a porre fine a situazioni drammatiche di sovraffollamento o problemi psichiatrici e strutturali - spiega Blengino - è configurabile come reato di tortura”. Nelle due ore e mezzo di visita effettuata con Flavio Martino coordinatore regionale di +Europa e a Claudio Marengo del Partito radicale, sono emerse anche carenze di organico degli agenti di Polizia penitenziaria. “Personale che fa del suo meglio - sottolinea Claudio Marengo - anche in presenza di un’altissima percentuale di detenuti stranieri con evidenti problemi di comunicazione”. In virtù di un recente decreto ministeriale che dispone lo scorrimento in graduatoria di 12 unità dal concorso del 2022 (per 104 posti, elevati a 236”, due nuovi educatori sono attesi per il prossimo 2 settembre a Brissogne. Reggio Calabria. “Necessarie maggiori risorse per le carceri e prospettive di lavoro per i detenuti” ilreggino.it, 25 agosto 2024 Sono stati convocati dal presidente della VIII commissione consiliare Filippo Quartuccio, il garante Comunale dei diritti dei detenuti Giovanna Russo e l’omologo regionale Luca Muglia per affrontare la questione carceraria a Reggio Calabria. Nei giorni scorsi secondo quanto riferito dal Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria si sarebbero tra le altre cose verificate delle situazioni di difficoltà dentro il carcere di Arghillà ove un gruppo di detenuti di origini georgiane avrebbe rifiutato il rientro in cella con l’intenzione d’aggredire un ristretto allocato in altra sezione detentiva. Durante la riunione della Commissione Consiliare i due garanti hanno spiegato le varie interlocuzioni poste in essere con i vari istituti penitenziari in relazione a tutta una serie di criticità che tutti gli operatori del settore hanno posto e che di fatto riguardano l’intera sistema penitenziario. Tra i vari intervenuti durante la commissione consiliare anche il consigliere del gruppo Red l’avvocato Antonino Castorina il quale ha espresso la necessità di potenziare nei due istituti di Reggio Calabria, le risorse ed il numero del personale e di ragionare su come offrire prospettive di lavoro ai detenuti per un completo reinserimento sociale del detenuto nel post pena. Il consigliere Castorina ha posto un’attenzione anche rispetto alla necessità di avviare un’intesa con le varie anagrafi comunali per la regolarizzazione dei documenti di identità dei detenuti e un percorso di reale recupero del condannato anche attraverso intese e protocolli che si possano fare in relazione alla formazione professionale ed ai lavori stagionali. Siracusa. Mpa e Radicali in visita al carcere di Brucoli: “Impegno per i diritti dei detenuti” siracusaoggi.it, 25 agosto 2024 Visita nel carcere di Brucoli per verificare le condizioni di vita dei detenuti e raccoglierne le testimonianze. Una delegazione del Mpa e del Partito Radicale, guidata dal deputato regionale Giuseppe Carta (accompagnato dal consigliere Manuel Mangano per gli autonomisti) ha incontrato la direttrice Lantieri e la capo area trattamentale, Longo insieme ai rappresentanti del Partito Radicale Corleo, Dagnino e Aparo Migneco. Carta e Mangano hanno dialogato con alcuni detenuti, nelle loro celle, per verificare di persona le loro condizioni di vita. “Rispetto al mio ultimo ingresso di un paio di anni fa, veramente poco sembra essere cambiato - ha dichiarato Mangano - Le condizioni rimangono da attenzionare” ha aggiunto, esprimendo però la volontà, condivisa con Carta, di intensificare l’impegno per migliorare la situazione all’interno della struttura. Oltre al sopralluogo, si è tenuta una riunione con il personale dell’istituto durante la quale sono state discusse statistiche riguardanti la popolazione carceraria e i programmi di riabilitazione. Il dirigente sanitario del carcere, Ternullo ha affrontato il tema della salute dei detenuti, sottolineando le difficoltà nel garantire cure adeguate a causa delle limitazioni strutturali e delle risorse disponibili. La delegazione politica ha manifestato l’intenzione di lavorare a stretto contatto per cercare soluzioni che possano migliorare l’assistenza sanitaria all’interno del carcere. “L’esperienza della visita al carcere di Brucoli-commenta Carta- ha rafforzato in me la convinzione che sia necessario un impegno concreto e continuo per migliorare le condizioni di vita dei detenuti e per garantire il rispetto dei loro diritti fondamentali. Sono fiducioso che questo sia solo il primo passo di una collaborazione proficua, volta a rendere le nostre carceri luoghi di vera riabilitazione e non solo di detenzione. La visita al carcere di Brucoli (Augusta) si inserisce in un più ampio contesto di impegno per i diritti umani e per il miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri italiane”. La delegazione ha sottolineato la necessità di un intervento urgente per garantire il rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali dei detenuti, ribadendo che il miglioramento delle condizioni di detenzione è una priorità che non può essere ulteriormente rimandata. Milano. Mediazione sociale e penale: 500 casi tra stalking e violenze Il Giorno, 25 agosto 2024 Il Servizio di mediazione sociale e penale del Comune di Milano ha assistito 491 persone tra gennaio e giugno, offrendo supporto psicotraumatologico alle vittime di reato e prevenendo la recidiva. L’assessorato alla Sicurezza ha gestito casi di violenza, stalking e reati contro la persona, fornendo aiuto concreto e supporto psicologico. Tra gennaio e giugno il Servizio di mediazione sociale e penale, supporto psicotraumatologico alle vittime di reato e presidio territoriale del Comune di Milano ha seguito 491 persone, 412 uomini e 79 donne. Il servizio offerto dal Comune opera in città per essere più vicino ai cittadini e alle cittadine che abbiano subito violenza, stalking, abusi o siano rimasti traumatizzati dopo aver subito un reato, per dare un aiuto concreto e un supporto psicologico. Più nello specifico, l’assessorato alla Sicurezza guidato da Marco Granelli segnala che nei primi sei mesi di quest’anno 111 persone hanno usufruito del presidio criminologico territoriale, che da una parte si è preso carico delle vittime, dall’altra della prevenzione della recidiva del reato, trattando casi di persone che hanno compiuto atti violenti o che sono coinvolti in situazioni di disagio, conflittualità, comportamenti antisociali quali stalking, violenza sessuale, violenza domestica e, in generale, reati contro la persona. Sono invece 36 le persone che si sono rivolte specificamente al servizio di aiuto per stalking. In 19 hanno chiesto un sostegno psicotraumatologico che interviene per fronteggiare le conseguenze psicologiche di chi ha subìto un danno o una lesione grave oppure è stato oggetto di furto, rapina, truffa. Sono stati trattati 62 casi di mediazione sociale, penale e giustizia riparativa e anche attività di prevenzione di reato. Il servizio si è anche occupato di liti condominiali (19 casi), generalmente per problematiche relative a rumori molesti, al non rispetto del regolamento condominiale e all’occupazione abusiva. Interventi anche in materia di giustizia riparativa (28 casi). Torino. Tra i maghi del modem e i lavandai degli asili, così si lavora in cella di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 25 agosto 2024 Su 1.498 detenuti soltanto un terzo ha un “impiego “Una volta libero spero di poter continuare in azienda”. All’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno vi sono 1498 detenuti. Di questi, solo una parte ha la possibilità di lavorare in quanto, purtroppo, non c’è a oggi un modo per trovare un impiego per tutti: 380 di loro lavorano all’interno dell’istituto penitenziario mentre 110 sono coloro che tra articolo 21 e semilibertà hanno un impiego fuori dal carcere. “Il lavoro è importantissimo: è il primo elemento necessario in un percorso che mira a riformare individui che dovranno tornare in società. Rende le persone autonome, responsabili e restituisce dignità” afferma Arianna Balma, responsabile dell’area trattamentale del Lorusso e Cutugno. All’interno del carcere, di progetti legati al lavoro ve ne sono diversi. Come quello della biblioteca del penitenziario: in collaborazione con il Comune di Torino, qui lavora una bibliotecaria che tutti i giorni apre l’area centrale. A parte lei, tutti i lavoranti della biblioteca sono detenuti: ogni padiglione ha a sua volta una stanza dedicata al prestito dei libri. Ogni giorno Gabriele, uno dei bibliotecari del padiglione C, gira per i corridoi con un carrello pieno di volumi. “Sono in tanti a leggere. Abbiamo libri in tante lingue”. Gabriele è stato arrestato da poco e ha una pena di 4 anni. Ha espressamente chiesto un impiego che gli permettesse di leggere, la sua più grande passione. Un altro progetto ben riuscito è quello di Gelso, la sartoria sociale che ha un laboratorio all’interno del padiglione femminile. E poi c’è Impatto Zero, la cooperativa che gestisce la lavanderia industriale e la stireria in funzione all’interno della Casa circondariale di Torino: ha commesse esterne con clienti pubblici e privati e serve alcune strutture alberghiere per il lavaggio di lenzuola e asciugamani. Nelle loro sedi esterne al penitenziario, lavorano anche ex detenuti. “Uscirò tra poco e spero che potrò continuare a lavorare con loro: così che questo percorso iniziato qui abbia un filo continuo” afferma David mentre piega un lenzuolo. E ancora, sempre interni al penitenziario, ci sono la torrefazione di caffè e il panificio. Un’attività unica è quella di Service Trade: un capannone che ha accolto 16 detenuti e si occupa di rigenerazione modem e etichette elettroniche per supermercati. Quelle dove leggiamo prezzi esposti quando andiamo a fare la spesa. Tra i suoi clienti ci sono grandi brand come Tim e Pricer. Il capannone è pulito e l’ambiente è disteso. Un progetto che è stato disegnato per essere realizzato proprio in carcere. Anselmo, il responsabile, spiega che si fida dei “suoi ragazzi”. L’ambiente ricorda quello di una qualsiasi sede di lavoro nel “mondo dei liberi”. Inoltre, quello di Service Trade è l’unico progetto che mette insieme detenuti condannati per piccoli reati insieme a quelli con pene assegnate per crimini più gravi: tutti regolarmente assunti. “Qui per 8 ore ci sembra di non stare in prigione” spiega Sergio. I detenuti, dal canto loro, sono entusiasti, tanto che vorrebbero lavorare 6 giorni anziché 5. E spiegano che Alfredo concede loro del tempo durante le ore di lavoro per alcune attività particolari. Come gestire l’orto, situato dietro il capannone e occuparsi dei tanti gatti che vivono alle Vallette. “Io ero una gran testa calda. Da libero e anche appena entrato qui dentro. Un po’ la mia testa di cavolo, un po’ una famiglia sbagliata. Stare in galera può farti uscire in due modi, meglio o peggio di come sei entrato. Lavorare ti tiene impegnato e ti permette di contribuire alle spese di famiglia, ricordandoti ogni giorno che la vita va avanti e che hai più motivi per fare il bravo rispetto a comportarti ancora come un criminale” conclude Flavio. Cosenza. Parte un progetto di agricoltura sociale per recupero detenuti ansa.it, 25 agosto 2024 Iniziativa in Calabria di Confagricoltura, JTI Italia e Caritas. “Ripartiamo dalla nostra terra”: è un progetto di agricoltura sociale di Confagricoltura, Jti Italia e Caritas volto al reinserimento di detenuti ed ex detenuti attraverso il lavoro. L’iniziativa prevede l’attivazione di sei tirocini formativi e lavorativi in ambito agricolo e coinvolge quindici persone che hanno così l’occasione di partecipare attivamente a tutte le fasi di gestione di un’azienda agricola. La loro attività viene svolta al complesso residenziale ‘Casale del Melagrano’ di Castrolibero (Cosenza). I compiti dei destinatari dell’iniziativa spaziano dalla coltivazione di frutta e verdura all’allevamento di animali, fino alla lavorazione, al confezionamento e alla commercializzazione del prodotto finito. Tutto il processo viene monitorato da un’equipe composta da psicologi, educatori ed esperti del settore in collaborazione con l’Agenzia per il lavoro Ad-Formazione. Agricoltura e sostenibilità sono valori “assolutamente rilevanti, integrano perfettamente la nostra visione di sostenibilità, ambientale ma anche sociale ed economica. Investiamo da sempre nel mondo agricolo, nella filiera tabacchicola italiana, una filiera di eccellenza, e allo stesso tempo riusciamo a promuovere, a restituire alla società in cui operiamo tramite progetti sociali”, ha detto Lorenzo Fronteddu, corporate affairs & communication director di Jti Italia, a margine della presentazione del progetto. La collaborazione con Confagricoltura “è una collaborazione storica con progetti che riescono in qualche modo a utilizzare l’agricoltura per la promozione dell’individuo”, ha sottolineato Fronteddu. La presentazione dell’iniziativa è avvenuta nella cornice del Meeting di Rimini, “da sempre un parterre dove è possibile presentare progetti che parlano dell’individuo, e questo è un progetto che ha tutte le caratteristiche per parlare di promozione dell’individuo all’interno della società”, ha aggiunto il manager. Napoli. Metti una sera in scena otto detenuti e un magistrato di Roberta Barbi vaticannews.va, 25 agosto 2024 È accaduto al San Ferdinando di Napoli dove a giugno la compagnia di teatro carcere La Flotta, attiva nella casa di reclusione di Arienzo, Caserta, ha portato sul palcoscenico lo spettacolo “Macbeth cuore nero” recitato dai detenuti-attori con un ospite speciale: il magistrato di sorveglianza Marco Puglia. La potenza del teatro e la grandezza del linguaggio shakespeariano sono rivissuti per una serata davvero speciale nella storica sala del San Ferdinando di Napoli grazie ai detenuti-attori di Arienzo che condividono la compagnia e anche un po’ tutta la loro vita con il magistrato di sorveglianza Marco Puglia, un passato da attore professionista che evidentemente non si è mai sopito: “Il teatro è fondamentale come attività trattamentale in carcere - racconta a Radio Vaticana Vatican News - soprattutto grazie alle sue regole rigide che devono essere condivise da tutti all’interno della compagnia. E poi a chi ha sbagliato ed è ora privato della libertà, dona la possibilità di rivalsa, la soddisfazione indescrivibile di mostrare agli altri qualcosa di davvero bello che si è riusciti a fare”. Il magistrato di sorveglianza ha il compito di vigilare sulla vita negli istituti di pena e prende decisioni anche in merito alle vite dei singoli ospiti che li abitano. “Mi sono rapportato con i detenuti con molta serietà, mantenendo fortemente distinti i due ruoli di magistrato e attore della compagnia - prosegue Puglia - è stata un’esperienza umana importante in cui tutti ci siamo messi alla prova: io, come giudice, mi sono posto con loro in una relazione dialettica diversa e loro hanno dovuto condividere con un magistrato un progetto, imparando a confrontarsi e a portare avanti un’idea con sincerità, passo fondamentale per chi vuole riprendere in mano e rielaborare la propria vita dopo gli errori commessi”. Puglia ricorda in particolare un episodio: “C’era questo detenuto che è dentro per rapina e ha un fine pena ancora molto lontano, prima di andare sul palco ha avuto una sorta di attacco di panico, a quel punto gli ho chiesto: ma come? Lei che non ha mai avuto paura di puntare la pistola contro qualcuno, ora ha paura di recitare? Proprio adesso che sta per fare una cosa bella, grande, importante come mai avrebbe pensato di fare? Ed è stato allora che si è commosso”. Il magistrato testimonia così la fragilità inaspettata di questi uomini, che emerge dopo essere stata cancellata, ma solo temporaneamente, dal reato commesso. Lo spettacolo al San Ferdinando di Napoli è stato per i detenuti, il debutto da attori all’esterno dell’istituto di pena: “Abbiamo iniziato le prove in carcere, poi abbiamo avuto bisogno di uno spazio più grande e anche di provare con le scenografie - spiega ancora Puglia - così abbiamo spostato tutto nei sotterranei dell’ufficio di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere dove si è trasferita anche la sartoria, perché tra i ristretti impegnati in questo progetto c’è anche un nigeriano che già nel suo Paese lavorava come sarto e ha realizzato tutti i costumi per il nostro Macbeth”. E poi è venuto il gran giorno, con l’emozione che si può immaginare di esibirsi davanti alle proprie famiglie, agli amici, ad altri magistrati, un successo di pubblico oltre ogni aspettativa. “Lo spettacolo è andato in overbooking in pochissimo tempo - rivela il magistrato - ci siamo chiesti cosa ci fosse dietro a questo successo, certamente anche la curiosità di veder recitare insieme dei detenuti e un giudice, ma la cosa per noi più importante e che ci ha dato la maggiore soddisfazione è stata offrire al pubblico un pacchetto teatrale professionale, di qualità. Quanto a noi, sappiamo che il segreto del nostro successo è stato l’impegno e la serietà nella relazione umana, libera da qualsiasi altro profilo istituzionale”. Cittadinanza, alcune buone ragioni per cui conviene a tutti allargarla di Mauro Magatti Avvenire, 25 agosto 2024 L’identità di un Paese è importante. Ma l’identità che pensa di voler conservare se stessa rifiutando il rapporto con il mondo è destinata all’autodistruzione. Qualche considerazione per la politica. La politica contemporanea tende alla polarizzazione. Di fronte a ogni tema, si assumono posizioni opposte che si rinchiudono in una visione pregiudiziale e ideologica. Ci si scontra sui principi e ci si allontana sempre più dalla realtà delle cose. Nel breve termine, crea più consensi un tweet polemico - e che magari strizza l’occhio al risentimento sociale - della paziente tessitura di una soluzione concreta. Ma è anche in questo modo che le democrazie soffrono e vanno in difficoltà. Lo dovremmo sapere. La storia l’ha insegnato tante volte: le ideologie irrigidiscono lo sguardo e impediscono quel dialogo che consente di vedere le diverse sfaccettature della realtà. E alla fine portano fuori strada. Prendiamo la questione della migrazione. Uno dei principali terreni di scontro culturale e politico degli ultimi decenni, con posizioni polarizzate: da una parte quelli che sono per l’apertura tout court - sottovalutando la fatica di ogni comunità a integrare la provocazione che il migrante sempre a porta con sé; dall’altra parte, coloro che si oppongono per principio a ogni politica seria che provi ad affrontare il problema e a trasformarlo in opportunità. Nel rispetto del sacrosanto principio della dignità della persona umana che dovrebbe comunque essere rispettato. In questo gioco delle parti, i temi veri vengono sempre rimandati. Col risultato di un continuo aggravamento del problema. Merito dunque di Forza Italia avere rotto lo schema proponendo - in questa calda estate 2024 - il tema dello ius scholae. Nei nostri istituti scolastici ogni giorno entra quasi un milione di ragazzi stranieri (circa 11% del totale). Un trend in crescita e che ha la sua massima concentrazione nella scuola primaria (32,7%). Questi ragazzi frequentano la nostra storia, sono amici dei nostri figli, studiano i programmi del nostro ministero. Ma per lo Stato italiano restano ombre. Non cittadini. Vincolare l’accesso alla cittadinanza al percorso scolastico è sensato per almeno tre ragioni. Primo, perché serve a questi ragazzi che si possono così finalmente sentire parte di una comunità politica. Che dà loro accesso a diritti ma che chiede anche l’assunzione di doveri. Il che è molto importante per contrastare la tendenza ad avere due comunità (quella dei nativi e quella dei migranti) distinte e non comunicanti. Secondo, perché serve all’Italia, un paese che sta attraversando una gravissima crisi demografica e che non può che trarre giovamento dal rimpolpare il numero dei propri cittadini. Ancora non si comprende la gravità di questo fenomeno. E, detto che comunque non basteranno i ragazzi immigrati a risolvere il problema, il loro contributo sarà fondamentale per mantenere il paese su una linea di possibile sviluppo. E infine, perché serve a tutti per contrastare il risorgente razzismo che, in palese contrasto con lo spirito della Costituzione italiana, corrode la convivenza civile. Che nell’art.3 recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. L’identità di un Paese è importante. Ma l’identità che pensa di volere conservare se stessa rifiutando il rapporto con il mondo è destinata all’autodistruzione. L’identità è un processo in continua evoluzione. Che affonda le sue radici in una tradizione, in una lingua, in una storia ma che, al tempo stesso, continuamente si innerva nel dialogo con i nuovi accadimenti. È solo nel rapporto tra vecchio e nuovo che l’identità sussiste. Rimanendo sé stessa eppure cambiando in continuazione. Tradizione e innovazione non sono degli opposti che si combattono. Ma sono sorelle che si tengono la mano. E che consentono a un gruppo sociale di continuare a vivere nella storia e con gli altri. Dare la cittadinanza ai ragazzi e alle ragazze che frequentano la scuola italiana non è perdere l’identità italiana. Esattamente il contrario: è farla vivere nel nuovo secolo. Incardinandola in persone che vengono da culture diverse. E che la arricchiscono con il loro contributo. Per il governo di centrodestra si tratta di un’ottima occasione per dimostrare la sua capacità di non rimanere inchiodato a posizioni ideologiche e di saper affrontare pragmaticamente e con intelligenza i problemi reali. Per la sinistra è un modo per dimostrare che, per arrivare ad un risultato positivo, si può evitare di contrapporsi ideologicamente o pretendere di piantare la propria bandierina. L’Italia non avrebbe la lunga storia che ha alle proprie spalle se non avesse avuto il coraggio di rinnovarsi continuamente, amalgamando ciò che c’era prima con ciò che è venuto dopo. Lo ius scholae è prima di tutto un atto di giustizia. Ma poi anche di intelligenza. E infine di vitalità Se l’Italia è ancora viva, batta un colpo. Lo ius scholae, Forza Italia e perché non si può più tornare indietro di Eugenio Fatigante Avvenire, 25 agosto 2024 Sullo ius scholae quello che sembrava un acquazzone estivo, non privo di un qualche aspetto surreale, destinato a esser spazzato via dai primi venti settembrini, potrebbe tramutarsi invece in un temporale. L’inasprirsi dei toni nella coalizione di centrodestra ha segnato uno spartiacque nel livello del dibattito innescato dalle aperture di Forza Italia e del suo leader, Antonio Tajani (accompagnate da quelle, più “tecniche”, del ministro Piantedosi), fra richiami al programma e primi avvertimenti sulla stabilità della maggioranza che potrebbe persino divenire a rischio. A questo punto, fare finta di nulla alla ripresa diventa più ostico per tutti, per quanto oltre ci si è spinti. Sono i grandi temi, d’altronde, a marcare le differenze. Nel breve tragitto post Berlusconi, la parabola del partito da lui fondato è oscillata tra un futuro con poche speranze (quel che si temeva, per i più pessimisti) e un presente di rinascita, anche oltre le previsioni, come dimostrato dal voto europeo. Opinionisti si sono esercitati in analisi su quest’ultimo cambio di passo - anche sul tema delle carceri - parlando di una presunta “metamorfosi” di Forza Italia, alludendo anche alla volontà forzista di guardare così ai cattolici (si è anche nella settimana del Meeting di Rimini) e al voto centrista e citando le influenze degli “azionisti”, i figli del fu Cavaliere. Tutto ciò può essere, ma il cuore della questione resta in ogni caso il diritto alla cittadinanza e i segnali da dare alle nuove generazioni figlie di immigrati. Di certo Tajani si è speso con una tale ricchezza di argomentazioni da renderne difficile oggi l’archiviazione come “caso balneare” e nulla più. Ha parlato di un “mondo che cambia, ha richiamato lo spirito popolare di FI, ha evocato la prospettiva europea, ha ricordato che la non presenza nei programmi (anche in trenta anni di quelli forzisti) non è ragione sufficiente per non farlo ora. A muovere il vicepremier, oltre ai valori personali, è certo anche l’esigenza di caratterizzare la sua formazione, per non farne una semplice replica dei partiti alleati già impegnati in una gara a destra; d’altronde lo stesso Berlusconi aveva sempre parlato in passato del centrodestra come di un “attacco a tre punte”. Si può dire che è in ballo la dignità stessa del partito, perché la questione è di ben altro spessore rispetto al terzo mandato dei governatori, che la Lega tirò fuori nei mesi scorsi per poi rientrare nei ranghi dopo le obiezioni contrarie di FdI e FI. Qui si tratta di visione del mondo, di valutazione del significato dell’essere italiani, di analisi del costume, di risposte da dare ai bisogni di una fetta della società. Per tutte queste ragioni un segnale richiede di essere dato. Il tempo è poco: alla riapertura delle Camere a metà settembre, ci sarà solo un mese prima che il Parlamento sia assorbito dalla sessione di bilancio, che oscurerà quasi tutto fino a fine anno. Peraltro quel di cui si parla - almeno nel progetto forzista, basato su un ciclo di studi di 10 anni per la cittadinanza - riguarda una differenza in fondo minima, di 4 semestri, rispetto alla normativa attuale. E l’obiezione, da parte di chi è contrario, che i diritti dei minori stranieri che vivono in Italia sono garantiti lo stesso (a parte i viaggi all’estero) dalla legge attuale è semmai un’aggravante rispetto al non far nulla. È un quadro che chiama in ballo anche la responsabilità della premier Meloni, che pure si era spesa in passato per una riforma della cittadinanza (e Fini prima di lei) e che darebbe un bell’esempio tornando a far suo il tema. Responsabilità in primo luogo sull’esigenza di creare una “camera di compensazione” nella coalizione, dove certe tematiche siano affrontate prima che deflagrino in pubblico. E poi sulla rotta da tenere dato che, se un ddl del genere fosse calendarizzato, una differenza nel voto potrebbe avere conseguenze difficili da prevedere. Questa vicenda riporta infine d’attualità un aspetto divampato nell’ultima campagna elettorale, e cioè la divaricazione tra una forza - FI - che si rifà al popolarismo europeo e altre due, calamitate invece da spinte sovraniste, che guardano con fastidio a certe dinamiche. Stare sempre con una gamba di qua e una di là, giustificandosi che un conto è l’Europa e altro è l’Italia, è stato finora, con disinvoltura anche premiata dagli elettori, un elemento fondante di Forza Italia. Ma fino a quando? Il tempo dirà se questa stagione è stata per Tajani solo un ballo di mezza estate o qualcosa di più strutturale. Ius Scholae, schiaffo di Salvini: “Meglio pensare agli stipendi”. E il Pd prova a stanare Tajani di Niccolò Carratelli La Stampa, 25 agosto 2024 Tra i parlamentari Pd il sospetto che l’apertura di Forza Italia possa essere soltanto un bluff. Pronta una mozione da presentare in Aula per vedere se passeranno dalle parole ai fatti. Matteo Salvini trova ogni giorno un modo diverso per avvertire Antonio Tajani: “Le nostre priorità sono stipendi e pensioni, andiamo avanti con le nostre idee, non con quelle degli altri”, avverte il vicepremier leghista, con un appello che sembra indirizzato al collega di Forza Italia e alla sua battaglia d’agosto sullo ius scholae. I leghisti non fanno nulla per dissimulare il fastidio di fronte alle uscite di diversi esponenti azzurri, circa la possibilità di “arricchire” il programma di centrodestra con un intervento sulla cittadinanza. “Litigare su questo è inutile”, dice Salvini, tanto più se si ricevono i “complimenti di Bonaccini”. Battuta tagliente, perché a indisporre lui e Meloni sono gli ammiccamenti sul tema con i dem. Nel Pd nessuno ha particolare fretta di andare a vedere le carte di Tajani sullo ius scholae. Al Nazareno più d’uno sospetta che quello del leader di Forza Italia sia solo un bluff, una mossa propagandistica estiva, che non avrà un concreto seguito parlamentare. Ma sull’opportunità di andare subito a stanare gli azzurri alla Camera o al Senato, con un voto su una specifica mozione (comunque già pronta) che li costringa a passare dalle parole ai fatti, c’è qualche dubbio. Perché c’è il rischio che, a quel punto, Tajani decida di non strappare platealmente con Fratelli d’Italia e Lega. O, più probabilmente, che Giorgia Meloni riesca a ricompattare la maggioranza, magari con una contro mozione, concedendo qualcosa alla sensibilità di Forza Italia sul tema, ma poi rinviando tutto al 2025, a data da destinarsi. “Per noi è importante avviare un dialogo intorno a una proposta articolata - spiega a La Stampa Pierfrancesco Majorino, responsabile dem per le Politiche migratorie - sicuramente presenteremo alcuni punti, su cui aprire un confronto con le altre forze di opposizione, con enti e associazioni. E, se vorranno, anche con i colleghi di Forza Italia”. L’idea è quella di collegare, a livello comunicativo, le nuove norme per la concessione della cittadinanza all’altro testo su cui Majorino ha lavorato con Graziano Delrio, quello per il superamento della legge Bossi-Fini sull’immigrazione, che doveva essere presentato prima dell’estate ed è pronto per essere reso pubblico. In quest’ottica, meglio lasciare aperto un possibile canale di dialogo con Forza Italia, consentendo a Tajani e soci di tenere il punto all’interno della coalizione. Piuttosto che forzare la mano per arrivare a un chiarimento immediato delle singole posizioni in Parlamento, con la prospettiva concreta di assistere, sul più bello, a una marcia indietro di Forza Italia. Contatti diretti con i berlusconiani per esplorare la questione, assicurano fonti dem, finora non ce ne sono stati. Ma non è detto che non si trovi l’occasione alla ripresa dell’attività parlamentare. Approcci che gli alleati di centrodestra vogliono stroncare sul nascere. Maurizio Lupi, che pure vede con favore la discussione, lo dice in modo soft: “Prima è necessario trovare una posizione condivisa all’interno della maggioranza, solo dopo si può aprire un confronto con le opposizioni”. Mentre per Salvini è inutile farsi illusioni: “Il nostro obiettivo non è lo ius soli. ma aumentare gli stipendi, cancellare la legge Fornero e dare la possibilità di uscire a chi ha lavorato per 41 anni”, spiega il ministro delle Infrastrutture, che si premura di far sapere di essersi scambiato alcuni messaggi con la premier Meloni, concordando la linea: “Avanti con le nostre idee. Per me ogni polemica è chiusa e il governo va avanti fino al 2027”. A rafforzare il concetto arrivano le parole di Nicola Procaccini, uomo di punta di Fratelli d’Italia a Bruxelles: “Una legge sulla cittadinanza c’è già, non credo sia un tema prioritario - dice -. Penso che il Parlamento sia impegnato nella realizzazione di un programma elettorale approvato dai cittadini. Lavoro, economia, abbattimento del cuneo fiscale, natalità sono le priorità chieste dagli italiani”. Il capogruppo di FdI alla Camera, Tommaso Foti, conferma: “Ai nastri di partenza, dopo la pausa estiva, due disegni di legge del governo, sicurezza e lavoro”, annuncia. Insomma, per loro il tema della cittadinanza da riconoscere a centinaia di migliaia di bambini e ragazzi è solo un argomento per intrattenersi sotto l’ombrellone. Migranti. Detenzione nel Centro di “trattenimento”, un esperimento contrario alla Costituzione di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 25 agosto 2024 Il tribunale di Palermo ha convalidato il provvedimento del questore di Agrigento che dispone la detenzione amministrativa di un richiedente asilo della Tunisia - “paese sicuro” - nel Centro di trattenimento di Porto Empedocle. La convalida conferma l’avvio dell’attività, sembrerebbe in via sperimentale, per un numero limitato di posti (e si ha notizia di altri cinque trasferiti ieri), del centro ubicato negli “appositi locali” della struttura hotspot già esistente. Un tentativo quasi simbolico, per nascondere il fallimento del piano rimpatri e il rinvio dell’apertura dei centri di accoglienza/ detenzione previsti dal protocollo Italia-Albania. Non sono note le generalità del richiedente e neppure del suo difensore di ufficio, rimasto silente nel corso dell’udienza svolta con modalità telematica a distanza. Il tunisino era giunto in frontiera a Lampedusa e, a differenza di migliaia di persone giunte nell’isola, avrebbe tentato di sottrarsi ai controlli di frontiera, prima gettandosi in acqua da un barchino e poi tentando di fuggire su un traghetto. Un caso particolare dunque, che permette di profilare il “rischio di fuga” ma che non costituisce un precedente. A fronte del calo degli arrivi infatti l’hotspot di Lampedusa opera ormai come un centro chiuso, dunque una vera struttura di trattenimento amministrativo, e i trasferimenti avvengono più rapidamente che in passato. Il giudice del tribunale di Palermo che ha convalidato la detenzione amministrativa del richiedente asilo tunisino prospetta un’interpretazione particolare del decreto del ministro dell’interno del 5 agosto 2019, che prevede la provincia di Agrigento tra le zone di frontiera dove si possono predisporre centri per l’esame delle domande di asilo con procedura accelerata. Vale a dire che per quanto fisicamente l’ingresso nel territorio dello Stato sia avvenuto a Lampedusa, si ritiene possibile considerare Porto Empedocle (luogo di successivo trasferimento del richiedente asilo) “zona di frontiera o di transito” dove “decidere sul diritto del richiedente di entrare nel territorio”. La forzatura si collega a quanto to previsto dal “decreto Cutro” (legge n.50/2024) e apre una serie di dubbi sul rispetto del dettato costituzionale e delle leggi europee in materia di protezione internazionale. Sembrerebbe che il tribunale di Palermo, con riferimento a trasferimenti forzati interni alla provincia di Agrigento, sulla base di decreti ministeriali che non hanno forza di legge, applichi la “finzione di non ingresso nel territorio dello Stato”, che non è ancora prevista dalla normativa euro-unitaria, pur essendo richiamata nel nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo e nei Regolamenti che saranno applicabili entro il 2026 - che a oggi non hanno valore normativo. Tale finzione incide direttamente sulla libertà personale, con una enorme discrezionalità attribuita al questore che trasferisce il richiedente asilo da un centro a un altro (sia pure all’interno della stessa provincia e non tra diverse province, come si era verificato nei casi decisi dai giudici Apostolico e Cupri di Catania). Appare violato il principio della riserva di legge (articolo 13 della Costituzione) e manca la base legale del trattenimento amministrativo imposta dall’articolo 5 della Cedu. Sembreranno orpelli inutili per chi si occupa soltanto del contenimento dei richiedenti asilo, ma sono principi base dello Stato di diritto, dunque della nostra democrazia. La tempistica del procedimento e la partecipazione formale del richiedente asilo all’udienza per la convalida a distanza mediante un collegamento audiovisivo, tra l’aula del tribunale e il centro di trattenimento, hanno messo in evidenza lo svuotamento sostanziale dei diritti di difesa, in contrasto con l’articolo 24 della Costituzione e con le norme procedurali stabilite dalle direttive europee in materia di protezione internazionale. In questo modo, malgrado il decreto ministeriale che modifica entità e modalità della garanzia finanziaria richiesta per evitare il trattenimento amministrativo, questo rimane una misura generalizzata che. Lo schermo della valutazione “caso per caso” è solo formale, in sostanza il trattenimento potrà essere applicata a tutti i richiedenti asilo provenienti da paesi di origine “sicuri”. E su questo punto critico dovranno ancora pronunciarsi la Corte di Cassazione e la Corte di giustizia dell’Unione europea. Medio Oriente. Così la Cisgiordania è ostaggio del terrore di Francesca Mannocchi La Stampa, 25 agosto 2024 Nel villaggio di Jit ci sono ancora le auto bruciate nell’assalto dei coloni e i segni dei proiettili che hanno ucciso Rashid, uscito a difendere casa sua. Ormai è la norma, tanto che gli stessi servizi israeliani parlano di “terrore”. La sera del 15 agosto gli altoparlanti della moschea di Jit non hanno chiamato i fedeli alla preghiera, ma i cittadini a difendere la città. Al tramonto un gruppo di cento coloni armati di pistole, M16 e bottiglie incendiarie ha fatto irruzione dall’avamposto di Havat Gilad e dagli insediamenti che circondano Jit, incendiando case, automobili e aprendo il fuoco verso gli uomini accorsi a difendere la città con le pietre. Uno di loro, Rashid Sidda, 23 anni, è stato colpito al petto ed è morto. Jit è una città palestinese nel Nord della Cisgiordania occupata, dieci chilometri circa a ovest di Nablus. Una comunità di duemila persone circondata da avamposti e insediamenti illegali. Quella sera Rashid era a casa con tutta la famiglia e dopo la chiamata dell’imam è uscito con il fratello a difendere il villaggio. I coloni erano entrati in più direzioni dalle colline, tutti con le stesse uniformi nere e il volto coperto. Nelle immagini delle telecamere di sorveglianza di alcune abitazioni alla periferia di Jit, si vedono gruppi di coloni assaltare le case e dare loro fuoco, altri che spaccano i vetri delle macchine per incendiarle. Altri ancora, dentro le abitazioni, che cospargono i mobili di benzina prima di darli alle fiamme. Rashid è stato uno dei primi ad accorrere, suo fratello Waseen racconta che fossec”vicinissimo, a meno di dieci metri dai coloni”. Per difendersi non avevano armi. Così, mentre i più anziani cercavano di spegnere le fiamme con i secchi d’acqua e cercavano di proteggere i bambini, i più giovani lanciavano pietre. Poi gli spari. Quando Rashid è stato colpito, suo fratello era accanto a lui, e ha cominciato a gridare che serviva un’ambulanza, ma per un’ora e mezzo non c’è stato modo di portarlo via. I soldati israeliani, che sono responsabili della sicurezza nell’area C, sono arrivati solo dopo un’ora e mezza. Quando all’ambulanza è stato concesso di arrivare a Jit era già tardi. Le uscite della città sono rimaste poi bloccate per ore e quando Waseem ha saputo della morte del fratello era già troppo tardi. “Mi hanno chiamato dall’ospedale, mi hanno detto: Rashid è morto. E io ho detto solo: non è possibile. Poi mi sono steso a terra, e ho pianto”. Le parole di Waseen sono confermate da tutti i presenti all’attacco, uno di loro Muawiya Sidda vive in una casa all’estremità di Jit. I coloni hanno rotto le finestre di casa sua e hanno gettato dentro una molotov. Quando è iniziato l’attacco sua moglie stava allattando la figlia di due anni. “L’esercito è arrivato tardi, e poi è rimasto all’ingresso della città. Noi non potevamo uscire e l’ambulanza non poteva entrare. Solo dopo due ore hanno sparato in aria per disperdere i coloni. Vogliono che ce ne andiamo via tutti”. L’aumento delle violenze dei coloni - L’attacco di Jit è solo l’ennesimo nella lista delle violenze senza precedenti di questi mesi. Dall’inizio dell’offensiva militare israeliana a Gaza, i numeri degli attacchi nei territori occupati sono aumentati drammaticamente. L’Onu ha documentato oltre 1. 000 attacchi dei coloni in Cisgiordania dall’inizio della guerra, con una media di quattro al giorno. È il doppio della media dello stesso periodo dell’anno scorso. I funzionari sanitari palestinesi affermano che 633 palestinesi, tra cui 147 tra bambini e adolescenti, sono stati uccisi dal fuoco israeliano e oltre 5. 400 sono rimasti feriti. Molte delle vittime sono state uccisi durante i raid militari israeliani nelle città ma i coloni hanno ucciso 12 palestinesi, tra cui due bambini, e ferito 234 persone, secondo Aida, un ombrello di organizzazioni no-profit che lavora nei territori occupati. Sempre secondo le Nazioni Unite nello stesso periodo di tempo sono stati uccisi diciotto israeliani. Le violenze dei coloni nei territori occupati non sono esplose in questi mesi, ma sono certamente aumentate notevolmente dall’insediamento del governo di estrema destra alla fine del 2022. Quello che è cambiato è l’aperto sostegno degli esponenti politici che ora sono membri del governo e che per anni hanno alimentato la violenza dei coloni e della “gioventù delle colline”. Stavolta, a differenza delle precedenti, sia Netanyahu che alcuni dei suoi ministri si sono affrettati a condannare l’attacco. Più che un cambio di passo sembrano però animati dalla paura delle sanzioni. Lo scorso febbraio, infatti, con una decisione senza precedenti, gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni contro quattro coloni responsabili di violenze contro i palestinesi. Pochi giorni dopo, il Regno Unito ha fatto lo stesso. Nonostante le condanne pubbliche, tuttavia, le autorità non sembrano avere fretta di trovare i colpevoli. Dei cento coloni che hanno partecipato all’attacco, solo quattro sono stati fermati, uno di loro è stato già rilasciato. Approccio che conferma i numeri di questi anni, l’impunità che si è fatta norma. Secondo i dati del gruppo israeliano per i diritti umani Yesh Din, il 97 percento dei fascicoli della polizia aperti nei casi di violenza dei coloni dal 2005 sono stati chiusi senza condanne. La lettera del capo dello Shin Bet - Due giorni fa è stata diffuso il contenuto della lettera che Ronen Bar, capo dello Shin Bet, l’agenzia di sicurezza interna israeliana, indirizzata al primo ministro Benjamin Netanyahu, al procuratore generale e ai membri del governo, di cui fanno parte alcuni sostenitori dei coloni più estremisti. Bar, in carica dal 2021, ha detto di aver deciso di inviare la lettera “con dolore e grande paura, come ebreo, come israeliano e come funzionario della sicurezza”, sul crescente fenomeno del terrorismo ebraico da parte dei “giovani delle colline”, perché pensa che la situazione sia ormai così critica e delicata per la sicurezza nazionale, che sia necessaria una svolta. La campagna terroristica, ha detto con parole di inedita forza, è “una grande macchia per l’ebraismo e per tutti noi”. Le parole di Ronen Bar rendono ancor più evidente la crepa tra l’apparato della sicurezza di Israele e l’ala più estremista del governo Netanyahu che non ha perso occasione negli ultimi anni, e in particolare dopo il 7 ottobre, per alimentare e infuocare la spirale di violenza dei coloni in Cisgiordania. “Questi non sono crimini - scrive - è un uso della violenza per creare intimidazione, per diffondere paura. Questo è terrore”. E ha sottolineato come la violenza si sia “significativamente ampliata” perché non c’è stata - e continua a non esserci - una risposta della polizia e per la connivenza di alcuni leader nazionali. Il riferimento è chiaro. Uno è il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir che aveva già in passato chiesto il suo licenziamento del capo dello Shin Bet, che è responsabile delle forze di polizia e che a ottobre è stato immortalato mentre distribuiva fucili d’assalto ai coloni e l’altro è Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze con delega agli insediamenti. A maggio Smotrich, che vive nell’insediamento di Kedumim a soli 10 minuti di distanza da Jit, ha annunciato l’approvazione di altre 10. 000 unità abitative in Cisgiordania, e a giugno ha affermato che “sviluppare insediamenti ebraici è il solo modo per impedire uno Stato palestinese”. Smotrich è anche colui che, quando lo scorso anno i coloni attaccarono la comunità di Hawara in modo analogo a come hanno fatto a Jit, scrisse: “Penso che il villaggio debba essere cancellato. Penso che lo stato di Israele debba farlo, non la gente comune”. Ronen Bar, da tempo critico sui toni dei ministri di governo che infiammano la violenza, guarda ai “giovani delle colline”, i figli degli insediamenti, che descrive come un focolaio di violenza contro i palestinesi, incoraggiati da “un segreto senso di sostegno da parte della polizia”. Parole, quelle del capo dello Shin Bet, che confermano tutte le testimonianze dei palestinesi secondo cui la polizia israeliana chiude sistematicamente gli occhi sull’estremismo e la violenza dei coloni. Eppure, scrive Bar, “questi sono i nostri figli, siamo responsabili della loro istruzione, della loro legittimazione o della sua mancanza, di stabilire il percorso e i confini”. Una vita senza speranza - Al calare della sera Waseem cammina verso il cimitero dove è sepolto Rashid. Prima del 7 ottobre Waseem studiava informatica all’università Khadoury di Tulkarem, poi le forze armate israeliane hanno bloccato le strade d’accesso alla città e suo padre ha perso il lavoro. Il permesso che prima gli consentiva di entrare in Israele era ormai carta straccia. Così Waseem ha smesso di studiare. Prima del 7 ottobre aveva dei sogni, come tutti i ventenni: finire l’università, trovare un buon lavoro, avere una famiglia. “Niente di eccezionale, dice, quando hai poche alternative è così”. Cioè ti abitui ad avere desideri e speranze proporzionate a quello che hai intorno. Per mesi Rashid, che era il primogenito, è stato l’unico a lavorare per tutti. Per sua madre, suo padre e i quattro fratelli “qualsiasi cosa, dal cibo alle bollette, passava da lui”. Oggi sopra la tomba di Rashid ci sono una bandiera palestinese e la sua kefiah. Waseem prega, poi si siede su un blocco di cemento, e parla con lui, continua il loro dialogo interrotto. “Dopo la morte di Rashid ho perso la speranza. I primi giorni provavo tre sentimenti, rabbia, rancore e tristezza. Pensavo che sarei riuscito a sopravvivere a questa perdita, ma ora non lo so più”. Quando era in vita Waseem pensava che suo fratello gli sarebbe sempre stato accanto. Oggi quando pensa a Rashid pensa al vuoto che lo accompagnerà per sempre. Il vuoto di un fratello, ucciso dai coloni, a cui non ha potuto dire addio.