I destini ineluttabili degli sbagliati di Patrizia Rinaldi La Repubblica, 24 agosto 2024 La nostra Costituzione lo dichiara in maniera inequivocabile: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’articolo 1 della legge n. 354 del 1975, di riforma dell’ordinamento penitenziario, ci dice che “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve attuare il rispetto della dignità della persona”. Ricordato ciò: pur applicando tali norme è facile un risultato certo? È consueta una totale rieducazione con relativo inserimento nel tessuto sociale? No, non lo è, soprattutto nei riguardi di adulti radicati in un sistema di valori in antitesi con i dettati costituzionali. Ma se non è certo un risultato di riabilitazione del detenuto in piena applicazione delle leggi della riforma carceraria e di principi di rispetto della persona che non dovrebbero avere bisogno di riforma o di suggerimenti, non possiamo sperare che la riabilitazione accada quando tali norme vacillano. Le condizioni dei detenuti a Poggioreale continuano a essere allarmanti: i detenuti del primo piano del Reparto Avellino hanno incendiato un materasso in sezione in seguito a un contenzioso di un singolo riguardo una visita programmata: in un primo momento rifiutata, ma poi, purtroppo per il detenuto, accettata quando già era stata annullata. Il numero dei detenuti resta di più di duemila unità, nonostante la chiusura di un intero reparto. Ovunque si continuano a sentire affermazioni che più che la nostra Costituzione richiamano la legge del taglione; lo stesso “occhio per occhio dente per dente” tornato in vigore in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei Talebani. Un’altra chicca di alta consistenza etica è il detto e ripetuto “si ammazzino tra di loro”. Come se non ci dovessimo nemmeno sporcare le mani con la legge del taglione, come se il destino degli sbagliati dovesse viaggiare su una linea parallela alla nostra, priva di qualsiasi incontro anche solo fortuito. La sentenza divina di una punizione trascendente si deve incarnare da sola, senza scomodare un solo gesto degli illibati, dei giusti. Perché a cavare lo stesso occhio che è stato cavato un po’ pare brutto. Dalle nostre parti la condanna definitiva “è irrecuperabile, sono irrecuperabili” serpeggia in maniera trasversale, tenta elementi di ogni dove. I giustizieri della notte si nutrono di ipotesi azzardate e di differenti posizioni ideologiche, anche se a Charles Bronson somigliano poco o niente. Il problema non è il singolo, ma la comunità. È doveroso capire il dolore e lo sfogo violento del parente di una persona brutalmente assassinata (Cerami docet). Ma la comunità dovrebbe conoscere la semplice regola che lo Stato non è un assassino e che anzi, più concede vicinanza alla regola democratica, più vince. Non è detto che la vittoria dia un risultato proporzionato, non è detto che applicare del tutto il principio cardine del rispetto della persona di ogni luogo civilizzato consenta ogni redenzione; nemmeno molte redenzioni, a ben vedere. Ma è lì la differenza tra individuo e Stato. La produttività, il risultato, è funzionale ai meccanismi di un’azienda non di un principio che nobilita il Paese: guarire invece di mortificare, correggere invece di uccidere. La visione punitiva del governo peggiora la situazione già insostenibile delle carceri di Glauco Giostra Il Domani, 24 agosto 2024 È come se dopo un incidente stradale con feriti gravi, alcuni agonizzanti, invece di soccorrerli si sia intervenuti programmando la predisposizione di un robusto guard rail, una più visibile segnaletica stradale e l’assunzione di altri agenti della polizia stradale. È difficile non pensarlo: l’unica vera urgenza che ha motivato il decreto del governo è stata ostentarsi non inattivi davanti ad una tragedia non più ignorabile. Una sola cosa riesce a generare sconforto e indignazione quanto la disumana situazione carceraria: la cinica pervicacia con cui taluni si ingegnano ad ignorarla, a giustificarla o a minimizzarla. Se questi atteggiamenti siano dovuti a mala fede o a ignoranza è dubbio che schiude ad una risposta comunque sconcertante. L’attuale governo, pur riconoscendo la gravità della situazione, ha temporeggiato a lungo ricordando che si trattava di situazione ereditata. Poi, dovette prendere atto che non basta l’abusato alibi, peraltro solo in parte fondato, per giustificare l’inerzia: “Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate - ammoniva Martin Luther King - ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla” Venne allora concepito un decreto legge; si sperò che il ricorso alla decretazione d’urgenza esprimesse di per sé una rassicurante consapevolezza dell’indifferibile necessità di intervenire immediatamente. Attese tradite. Quasi si avesse a che fare con un incendio al di là del fiume, vi erano contenuti interventi destinati ad operare, taluni peraltro con assai opinabile efficacia, in un futuro non prossimo. Insomma, è come se a seguito di un drammatico incidente stradale ci fossero persone gravemente ferite, alcune agonizzanti, e, invece di soccorrerle, si sia intervenuti programmando la predisposizione di un robusto guard rail, una più visibile segnaletica stradale e l’assunzione di altri agenti della polizia stradale. È allora difficile non pensarlo: l’unica vera urgenza che ha motivato il decreto di recente convertito in legge è stata quella di ostentarsi non inattivi davanti ad una tragedia non più ignorabile. Sta di fatto che la torrida bolgia carceraria continua a vivere da mesi il suo tempo più drammatico. Soltanto una cecità etica e costituzionale può consentire di non vedere la disumanità del dramma che si consuma tra quelle mura fatiscenti e incapienti. Bisogna però riconoscere che nell’agire del Governo c’è un’indiscutibile coerenza. Se procedessimo anche ad un sommario text mining di tutte le iniziative di riforma ancora giacenti e di quelle portate a termine in materia di punizione penale, non potremmo non cogliere una inossidabile costante, unica e assorbente preoccupazione: sicurezza. Basterebbe scrutinarne alcune. La Costituzione vuole che le pene tendano alla rieducazione del condannato? Meglio aggiungere che l’obbiettivo deve essere perseguito salvaguardando le esigenze di difesa sociale e la certezza della pena. C’è il rischio che gli agenti penitenziari possano sentirsi frenati dal reato di tortura nello slancio operativo necessario per garantire la sicurezza? Si propone l’abolizione del reato. C’è il pericolo che i detenuti, esasperati, pongano in essere proteste, anche di resistenza passiva? Si introduce il reato di rivolta carceraria. I penitenziari scoppiano? Il primo intervento è quello di aumentare di 1.000 unità la polizia penitenziaria. Insomma: il carcere concepito e demagogicamente rappresentato come luogo di irreversibile neutralizzazione sociale di chi è o può essere socialmente pericoloso. Una strada a tratti percorsa anche dai governi precedenti, ma che l’attuale ha intrapreso con irresponsabile determinazione. Qualcosa di simile, ovviamente in diversa scala, è già accaduto negli Usa a partire dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso quando prevalse un’ideologia della risposta penale ciecamente e severamente retributiva: in trent’anni la popolazione penitenziaria passò da circa 400.000 a due milioni e mezzo di detenuti! Ne 2011, con il caso Brown v. Plata, la Corte Suprema degli Stati Uniti impose allo stato della California un ridimensionamento della popolazione carceraria, con la liberazione di quasi 40.000 detenuti. Un intervento indifferibile, secondo la Suprema Corte, perché il sovraffollamento che si registrava in quello Stato violava l’ottavo emendamento della Costituzione americana, che vieta pene crudeli e inusitate; un macroscopico esempio di debolezza dello stato, avrebbero detto i nostri attuali governanti. La Corte Suprema federale non si limitò ad ordinare la decarcerazione di decine di migliaia di detenuti, ma precisò che questa era soluzione urgentissima e necessaria, ma non sufficiente. Che il problema non si sarebbe risolto costruendo nuove carceri. Che occorreva un’inversione di rotta, per abbandonare quella logica neutralizzante della politica criminale che stava alla base del sovraffollamento e della disumanità del carcere. Che bisognava perseguire la tutela della sicurezza collettiva, tra l’altro, con un maggior ricorso alle sanzioni alternative alla detenzione e il recupero dei condannati alla società attraverso programmi di reinserimento. Mai, comunque, imponendo trattamenti che offendono la dignità dell’uomo. Essendo rimasta la Suprema Corte largamente inascoltata in ordine alla necessità di cambiare radicalmente la politica criminale, gli USA hanno, percentualmente, la popolazione penitenziaria più numerosa del mondo occidentale, una endemica insicurezza sociale e uno dei più elevati indici di criminalità: hanno ad esempio, fatte le debite proporzioni, quasi dieci volte il numero degli omicidi che si verificano in Italia. Res ipsa loquitur: il cieco punitivismo, là spinto sino alla pena di morte, può forse procurare voti, non certo sicurezza sociale. Ma è stagione, la presente, in cui persino le evidenze oggettive sono eclissate da demagogici slogan sedativi delle ansie sociali. L’informazione responsabile, però, dovrebbe mettere in guardia la disorientata collettività: il pifferaio magico del carcere sicuro ci sospingerà sempre più verso la disumanità per la popolazione intramuraria e l’insicurezza per la popolazione extramuraria. Il piano inadeguato per la salute mentale dei detenuti fragili di Delia Cascino e Titti Vicenti Il Domani, 24 agosto 2024 Il sovraffollamento, la mancanza di attività lavorative o ricreative strutturate, gli ostacoli ai legami affettivi influiscono enormemente sulla psiche dell’individuo: in cella il trattamento medico va garantito in modo continuativo ai pazienti con disturbi psichici. L’Italia invece sembra disattendere le direttive europee, come dimostra la storia di Giuseppe (nome di fantasia): minorenne quando è entrato in carcere la prima volta, adesso ha poco più di 30 anni, è papà di due bambini che non vede mai. Oggi come allora in cella non ha mai seguito un trattamento adeguato ai suoi disturbi dell’umore e di personalità borderline, antisociale. “Lo stato è assente. In teoria, mio figlio dovrebbe scontare la pena in una comunità. Eppure non è così”, denuncia la mamma Anna (nome di fantasia). Giuseppe soffre di fragilità psichiatriche e tossicodipendenza da oltre 15 anni. È un adolescente quando prova forte tensione, ansia, sbalzi d’umore a cui la famiglia non sa dare risposta: frequenta il liceo scientifico, studia con scarso impegno e sembra poco incline alle regole. La neuropsichiatra gli diagnostica il disturbo borderline di personalità. Anna chiede aiuto a psicologi e assistenti sociali, ma ogni tentativo sembra vano. Giuseppe entra nel vortice della cocaina e del gioco d’azzardo. I medici gli prescrivono una terapia a base di sodio valproato, uno stabilizzatore dell’umore. Lo attesta la relazione psichiatrica del SerT (servizi per la tossicodipendenza) di Cosenza. “Mio figlio non è stato mai violento con la famiglia. Durante le crisi nervose, batteva la testa contro la porta di casa. Era restio a seguire la terapia”, spiega Anna. Giuseppe è in carcere da molti anni: prima il minorile, poi i domiciliari, le comunità in Calabria, la lunga detenzione al “Sergio Cosmai” casa circondariale di Cosenza, sua provincia d’origine, e alla fine il trasferimento a Taranto, lontano da famiglia e affetti. “Il fratello va ai colloqui ogni 15 giorni, quando può in base al lavoro. Io, il padre, la compagna e i bambini non lo vediamo da mesi”, racconta la mamma. L’ambiente penitenziario esaspera le fragilità dei pazienti psichiatrici, come Giuseppe. Lo dimostrano numerose ricerche scientifiche e rapporti sulle condizioni detentive. La dottoressa Lisa Roncone nel suo intervento sulla salute mentale in carcere scrive: “Il sovraffollamento, la mancanza di attività lavorative o ricreative strutturate, gli ostacoli ai legami affettivi influiscono enormemente sulla psiche dell’individuo”. I dati dell’associazione Antigone confermano la tesi a riguardo: il 12 per cento delle persone detenute in Italia ha una diagnosi psichiatrica grave. Secondo la Risoluzione del Parlamento europeo, in carcere il trattamento medico va garantito in modo continuativo ai pazienti con disturbi psichici. Lo ribadisce il Report 2014 dell’Oms Prisons and health. L’Italia invece sembra disattendere le direttive europee. L’associazione Antigone denuncia in anni diversi “il ricorso agli psicofarmaci per sedazione collettiva” e “l”impossibilità di avere un’adeguata assistenza psichiatrica e psicologica” negli istituti penitenziari italiani. È il caso di Giuseppe. Anna non sa neppure come stia il figlio e che tipo di terapia segua nel carcere di Taranto. L’associazione Yairaiha si appella a Pietro Rossi, Garante delle persone detenute in Puglia e invia certificati e cartelle cliniche di Giuseppe alla direzione carceraria. “Ho notizie su mio figlio solo dai volontari”, dice Anna. A fine luglio, iniziano i colloqui tra una psicologa e Giuseppe, ma non si sa se proseguiranno. Dal 2008 il Sistema Sanitario nazionale, tramite le Regioni, gestisce la medicina penitenziaria. La salute delle persone detenute rientra nelle competenze delle Asl (azienda sanitaria locale). “I problemi regionali sono amplificati dietro le sbarre: le liste di attesa per gli esami, come in Puglia, sono lunghissime - spiega Alessandro Stomeo di Antigone. - Mancano gli agenti di polizia che devono accompagnare gli ammalati dagli istituti di pena agli ospedali”. Quando il carcere, come nel caso di Giuseppe, non ha la cartella clinica del paziente psichiatrico, già in cura in centri riabilitativi pubblici, “è l’avvocato a fare da intermediario tra l’istituto penitenziario e l’Asl”, dice Stomeo. La legge disegna un nuovo modello organizzativo per la salute mentale delle persone detenute. Tuttavia, come spiega Antigone, gli “strumenti sembrano scarsi e inadeguati”. Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari chiudono nel 2015. Adesso ci sono trenta Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) in tutt’Italia, gestite dalle Regioni e gli Atsm (Articolazioni per la tutela della salute mentale), sezioni apposite previste solo in pochi istituti penitenziari. Secondo il professor Mauro Palma, ex Garante nazionale delle persone detenute, “è fondamentale tutelare legami affettivi per i pazienti”. Carcere, così le misure alternative prevengono devianze e nuovi reati di Antonio Maria Mira Avvenire, 24 agosto 2024 A fronte di 61mila detenuti in carcere, molti di più, quasi 84mila beneficiano di misure alternative. Un numero in fortissimo aumento. Nel 2012 erano, infatti, solo 25.500 e quindi in dodici anni c’è stato un incremento del 228 per cento. Con risultati sicuramente positivi. Ad esempio, per la misura della sospensione del procedimento con messa alla prova, il numero dei casi è passato da 34.931 del 2020 a 55.534 del 2023, registrando un incremento del 59% (+76% al Sud, +65% al Centro, +48% al Nord). Mentre le revoche della misura sono arrivate appena all’1,8% del totale. Lo scrive il ministero della Giustizia nella Relazione inviata al Parlamento “sull’attuazione delle disposizioni in materia di messa alla prova e di pene sostitutive delle pene detentive, nonché sullo stato generale dell’esecuzione penale esterna”. Ma chi beneficia di queste misure alternative al carcere? Si tratta di soggetti di giovane età (il 25% degli imputati ha un’età compresa fra i 18 e i 29 anni, il 23% fra i 30 e i 39, il 22% tra 40 e 49 anni, ma c’è anche un 11% di ultrasessantenni), di sesso maschile (85%), di cittadinanza italiana (82%), imputati coinvolti in attività lavorativa non retribuita di tipo socioassistenziale e sociosanitaria (64%). Qui il ministero fa un’importante affermazione: “Dall’analisi dei dati emerge che l’imputato ammesso all’istituto, nella maggior parte dei casi, non è ancora avviato al processo deviante; pertanto, l’ammissione alla messa alla prova, e la conseguente presa in carico da parte degli Uepe (Uffici per l’esecuzione penale esterna, ndr), può effettivamente svolgere una funzione di prevenzione della devianza, prevalentemente nei confronti di persone italiane di giovane età, con un’occupazione stabile e imputate per un reato di lieve entità, frequentemente legato alla violazione del codice della strada”. Insomma, non si tratta di criminali ma di persone che il carcere potrebbe far peggiorare. E le misure alternative non sono dunque solo degli “svuota carcere” ma dei provvedimenti per salvare le persone, per recuperarle, come prevede la nostra Costituzione. Particolarmente importanti, proprio in questo senso sono i lavori di pubblica utilità. Attualmente il ministero ha in corso 13 convenzioni nazionali con enti, associazioni e istituzioni che rendono disponibili 2.496 posti. Sono poi stati firmati 18 protocolli nazionali tesi a pervenire localmente alla stipula di convenzioni per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità da parte dei tribunali. Ad oggi le convenzioni stipulate sono ben 11.827, distribuite uniformemente su tutto il territorio nazionale. L’attività riguarda la tutela del patrimonio ambientale, quella del patrimonio culturale, storico e artistico, la promozione della sicurezza stradale, i servizi di supporto in attività socio assistenziali e socio-sanitarie, la Protezione civile, i servizi inerenti a specifiche competenze o professionalità, la manutenzione degli immobili e i servizi pubblici. Con la riforma Cartabia, per la sua applicazione nel 2023 sono stati siglati 38 protocolli operativi. “Il lavoro di pubblica utilità previsto quale pena sostitutiva in caso di condanna a pena detentiva non superiore a tre anni - si legge nella Relazione - sta dando sicuramente buona prova di sé, con un totale di 2.244 condannati che, al 31 marzo 2024, risultavano in carico agli Uepe, registrando un incremento del 50% rispetto al dato riferito al 31 dicembre 2023 (1.503)”. A questi vanno poi aggiunti i quasi 9.500 lavori di pubblica utilità per violazioni del Codice della strada (guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti) e quasi 900 per violazioni della legge sugli stupefacenti. Ma i buoni risultati raggiunti non bastano. Così, per il Ministero, “appare di fondamentale importanza proseguire con un rigoroso lavoro sul territorio, mediante la costruzione di accordi e la sottoscrizione di protocolli per l’inclusione sociale delle persone in esecuzione penale esterna, oltre a fortificare l’attività di collaborazione al trattamento penitenziario, al fine di implementare il numero dei detenuti che accedono alle misure alternative”. Le soluzioni dunque ci sono, bisogna insistere. È l’invito al Parlamento degli esperti del Ministero. Contro la strage di suicidi e il sovraffollamento perché non tornare a parlare di cauzione? di Giorgio Spangher Il Dubbio, 24 agosto 2024 Per evitare inevitabili polemiche si dovrebbe parametrare a quanto previsto per le pene sostitutive. Innestata dall’elevato e intollerabile numero dei suicidi, l’emergenza penitenziaria viene affrontata dalla prospettiva già presente nella vicenda Torreggiani del sovraffollamento. A fronte di questa situazione le risposte prospettate sono - con alcune varianti - sostanzialmente due, entrambe con l’obiettivo di ridimensionare in termini fisiologici il numero dei detenuti. Da un lato, si afferma che la pena deve esser scontata interamente (anche con la costruzione di nuove carceri), escludendosi una sua riduzione pur non lasciando fuori la possibilità di allungare gli spazi applicativi delle misure alternative esistenti, ma senza incidere sulla durata della pena (esclusa la liberazione condizionale) nonché individuando soluzioni per i soggetti anziani e fragili. Dall’altro lato si propone di applicare delle riduzioni di pena attraverso vari strumenti premiali non escluso l’ampliamento totale o parziale dei tempi della liberazione anticipata. La filosofia emergente dal dl n. 98 convertito nella legge 112 del 2024 si ispira alla prima logica; alcune proposte di modifica alla seconda. La consapevolezza che con la prima ipotesi il problema non è stato risolto induce a ipotizzare strumenti collaterali di ridimensionamento del citato sovraffollamento: luoghi diversificati per scontare la pena da parte dei tossicodipendenti e trasferimento all’estero di detenuti stranieri. A integrazione di questa legge il ministro della giustizia Nordio ipotizza di intervenire sulle “variabili” della custodia cautelare in carcere. Nell’occasione sarebbe opportuno togliere dalla Costituzione l’espressione “carcerazione preventiva” e inserire le finalità della custodia colmando il cosiddetto “vuoto dei fini”, definito solo dalla giurisprudenza costituzionale. Invero non è agevole trovare risposte al decongestionamento carcerario attraverso il ridimensionamento del ricorso alla carcerazione cautelare fatta salva l’individuazione di strutture diverse dove collocare i destinatari della cautela. Una ipotesi potrebbe essere quella di elevare a sei anni l’attuale soglia prevista dall’art. 280 c. p. p. escludendo quelle specifiche situazioni che renderebbero necessaria la custodia inframuraria così da favorire un maggior ricorso agli arresti domiciliari. Si potrebbe altresì elevare a quattro anni l’attuale limite dei tre anni di cui all’art. 275 comma 2 bis secondo periodo c. p. p. con esclusione dei reati ostativi di cui all’art. 4 bis l. penit. Si potrebbe anche prevedere la possibilità del patteggiamento nel corso dell’interrogatorio anticipato. Qualche elemento positivo potrebbe conseguire (oltre che sul piano, peraltro diverso, dei cosiddetti liberi sospesi) dall’abbattimento della premialità processuale con l’applicazione delle pene sostitutive. Va tuttavia sottolineata la necessità che non si creino incongruenze - come peraltro avviene già oggi - con il sistema delle pene sostitutive. Si potrebbe anche intervenire secondo quanto ipotizzato dall’iniziativa referendaria sulla lett. c secondo periodo dell’art. 274 c. p. p. in ordine al pericolo di reiterazione del reato considerato che la previsione da sempre è sospettata di incostituzionalità per contrasto con la presunzione di innocenza. Si potrebbe inoltre prevedere la possibilità della libertà su cauzione. Essa era prevista nel codice del 1930, all’interno del quale era ipotizzata la fideiussione per la libertà provvisoria. Per evitare le inevitabili polemiche sulla distinzione fra ricchi e poveri, la cauzione dovrebbe essere parametrata su quanto previsto in tema di pene sostitutive e potrebbe essere accompagnata con l’applicazione degli arresti domiciliari (con o senza braccialetto) e con obblighi processuali (presentazioni e presenza). Si è anche ipotizzato di rendere gli arresti domiciliari (con o senza braccialetto) la misura ordinaria e il carcere applicabile solo per i reati tassativamente indicati sul modello dell’art. 275 comma 3 c. p. p. Non sono stati ancora esplicitati dal ministro i contenuti della ipotizzata riforma sulla custodia cautelare, fermo restando la possibilità di recuperare i contenuti del referendum abrogativo e probabilmente l’elevazione dei presupposti di pena per l’applicazione della misura inframuraria. È difficile credere che qualche effetto possa conseguire dall’applicazione della legge n. 114 del 2024 (il cosiddetto ddl Nordio penale) ove si prevede il contraddittorio anticipato anche a prescindere dal differimento della collegialità nell’applicazione della misura carceraria. Si ha la sensazione tuttavia che il problema emergenziale di cui in esordio trovi il proprio fondamento anche e soprattutto nella condizione di degrado delle strutture penitenziarie. Le carceri non sono adeguate a trattamenti che rispondono a quelle condizioni di dignità che devono connotare anche la condizione di soggetti condannati. In altri termini, a prescindere dai numeri, anche quando questi dovessero essere ridimensionati, il problema della condizione di vita dei detenuti richiederà un significativo adeguamento attraverso tutti quegli strumenti di vita che rendono la condizione penitenziaria dignitosa e non interrompano la quotidianità della vita pregressa. Una società legittimamente restringe la libertà di chi è stato condannato, ma non può dimenticare che questo soggetto alla fine dell’esecuzione deve essere restituito al consorzio sociale. Nordio vuole più detenuti in comunità? Ragioniamoci, ma non diventeremo micro-carceri private di Ilaria Dioguardi vita.it, 24 agosto 2024 Il Guardasigilli, con le dichiarazioni degli ultimi giorni e con il decreto diventato legge lo scorso 7 agosto, ha manifestato la necessità di coinvolgere il mondo delle comunità per ridurre il sovraffollamento degli istituti penitenziari, per quanto riguarda i detenuti che devono scontare gli arresti domiciliari ma non hanno un proprio domicilio e quelli tossicodipendenti. Caterina Pozzi (Cnca): “La nostra paura più grande è che si vogliano creare piccoli penitenziari a gestione privata. Se è così ci opporremo”. Nelle sue recenti dichiarazioni, il ministro Carlo Nordio ha sostenuto di essere al lavoro per fare in modo che i detenuti senza un proprio domicilio, che hanno diritto agli arresti domiciliari, possano scontare la pena in comunità, per dare ossigeno alle carceri sempre più sovraffollate. Si tratta in larghissima di persone straniere. Tra le novità introdotte nel disegno di legge approvato lo scorso 7 agosto, la maggiore possibilità per i detenuti tossicodipendenti di scontare la pena in comunità, con l’istituzione di un albo delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale, che sarà gestito dal ministero della Giustizia. Le comunità sono pronte ad accogliere migliaia di detenuti? Lo abbiamo chiesto a Caterina Pozzi, presidente Cnca, Coordinamento nazionale comunità accoglienti, che conta 240 organizzazioni associate che prendono in carico ogni anno 45mila persone. Pozzi, cosa pensa delle ultime dichiarazioni di Nordio, nelle quali ha affermato di essere al lavoro per poter fare in modo che possano essere ospitati in strutture i detenuti che hanno diritto agli arresti domiciliari, ma non possiedono un proprio domicilio? Il ministro ha affermato che si sta lavorando per fare in modo che, per chi ha la possibilità di andare agli arresti domiciliari con una pena inferiore ad un anno, ma non ha un domicilio proprio, si possano trovare altri tipi di soluzioni. Sarebbe un bel passo, una cosa molto importante, spero che si verifichi in fretta. Noi siamo disponibili per ragionare con lui, ma quello che c’è oggi non basta. Nel decreto si parla della necessità di far uscire dal carcere delle persone con dipendenze, senza fissa dimora. E si ipotizzano strutture alternative. Ma in generale, senza specificare. Non si parla di tempi di realizzazione, si parla di sperimentazione. Ma non è facilissimo metter su delle sperimentazioni. La rete delle vostre comunità accoglie già molti detenuti tossicodipendenti? Nel 2023, nella rete delle nostre comunità, noi abbiamo accolto 400 persone tossicodipendenti dalle carceri. Nella nostra rete vengono già ospitate persone provenienti dagli istituti penitenziari e in misure alternative. Esiste già un sistema di servizi che va implementato. Non vanno create strutture parallele rispetto a quelle che già ci sono. Non bisogna chiedere al Terzo settore di creare micro-carceri private, non è fatto per questo ma per accogliere, accompagnare, inserire, emancipare le persone. Ci sono delle problematiche che vanno risolte. Ce ne dica alcune... “Noi di Cnca alla fine di luglio abbiamo scritto un documento in cui abbiamo analizzato il decreto cosiddetto “svuota-carceri”, ancora non era passato in Parlamento. Abbiamo sottolineato alcune attenzioni e criticità, con la disponibilità a fare la nostra parte. In alcune zone non ci sono sufficientemente soldi per inserire le persone in comunità. Oppure c’è il “collo di bottiglia” della magistratura di sorveglianza, per cui dei tempi si allungano. Ci sono delle persone che finiscono la pena in carcere pur avendo avuto l’ok di entrare in comunità, proprio perché non arriva in tempo il permesso definitivo. Quali sono i principali dubbi che avete, riguardo al decreto? Da una parte, ci chiediamo quanti soldi vanno a chi e da chi vengono gestiti? Dall’altra parte, bisogna superare il problema della lunga burocrazia: se non si supera quello, si verifica che ci sono più posti fuori dal carcere, ma non c’è una velocità di procedimenti perché le misure alternative al carcere possano davvero avere un’efficacia a breve termine. Un altro interrogativo è: quando nel decreto si parla di comunità, cosa ci si immagina? Ci spieghi meglio... Quando si parla della “costruzione di un registro regionale” a cosa ci si riferisce? Esiste già l’elenco delle strutture accreditate a livello regionale per accogliere persone tossicodipendenti e anche persone tossicodipendenti che vengono dal carcere. È un elenco con regole precise e 30 anni di storia, di qualità, di professionalità. Quando si fa riferimento a questo registro di cosa si parla? Quali strutture si immaginano? Delle comunità parallele a quelle già esistenti? Con quali parametri, con quali requisiti? Le dico qual è la nostra paura più grande. Qual è la vostra paura più grande? La nostra paura più grande è che si vogliano creare delle micro-carceri private, che si faccia un po’ come con i Cpr, i Centri di permanenza per i rimpatri, demandando a un privato. Più o meno competente? Più o meno conosciuto? Per noi è fondamentale una cosa. Quale? Per noi è fondamentale che l’accoglienza delle persone che vengono dal carcere all’interno delle comunità parta, prima di tutto, dalla volontarietà delle persone che vogliono andare in comunità. Altra cosa fondamentale, le nostre comunità sono aperte. Accogliamo già persone provenienti dal carcere, in affidamento, ma sono, appunto, comunità aperte. Se devono diventare piccole carceri, questo non ci va bene per niente. È molto pericoloso. Sullo sfondo abbiamo l’immagine dei Cpr, di strutture nelle quali non sono presenti figure educative, ma figure più di controllo. Abbiamo scritto al ministro Nordio, riscriveremo. Perché vi fate sentire? Ci facciamo sentire perché vogliamo sicuramente dare il nostro contributo, ma vogliamo dire che non esistono solo le comunità. Cosa si può fare? Si possono fare progetti di housing, si può attivare tutta la rete territoriale: le cooperative sociali di inserimento lavorativo insieme agli enti locali. Facciamo un Tavolo in cui ci diciamo che ci sono le comunità, che requisiti devono avere, che esistono anche altre possibilità per le persone che non hanno un domicilio, che non possono andare agli arresti domiciliari e che hanno bisogno di percorsi anche di accompagnamento. Su questo decreto c’è un altro punto, che vorrei sottolineare. Quale? Nel decreto le figure educative, psicologiche, di accompagnamento all’interno delle carceri non sono state menzionate. Mentre è stato detto (ed è un bene) che verranno aumentate le figure della Polizia penitenziaria non è stato fatto cenno a queste altre figure, che sono fondamentali per far stare meglio le persone e per costruire e rafforzare il rapporto tra il dentro e il fuori, quindi per facilitare i percorsi di uscita. Abbiamo anche un altro timore. Qual è l’altro timore? Che si parli di numeri piccolissimi. Se vogliamo svuotare le carceri e, quindi, renderle più vivibili, dobbiamo smetterla di risolvere problematiche sociali con strumenti penali: avremo sempre più persone che entrano rispetto a quelle che possono uscire. Se vogliamo davvero affrontare il tema del sovraffollamento dobbiamo ripristinare in maniera precisa i Tavoli territoriali, con tutte le realtà coinvolte nel tema carcere: il Terzo settore, l’ente locale, l’Asl, la magistratura di sorveglianza, l’istituto penale. E lì si ragiona sulle risorse economiche a disposizione, sulle priorità, sulle sperimentazioni. Questi presidi territoriali c’erano e sono andati sfilacciandosi. Per quanto riguarda le risorse economiche? Sono previsti cinque milioni di euro in più l’anno per le comunità di recupero per le persone tossicodipendenti e sette milioni di euro in più l’anno per queste sperimentazioni nuove. Ma parliamo di centinaia di persone, in entrambi i casi. Sono pochissimi. E poi chi li gestisce? I cinque milioni vanno ai SerD (Servizi per le dipendenze, ndr) oppure li gestisce il ministero della Giustizia? Vorrei dire che dovremmo anche fare un lavoro di diffusione di buone pratiche. In che modo? In alcune comunità della nostra rete, il 90% o il 100% delle persone tossicodipendenti provengono dalle carceri. Diffondiamo cultura, evitiamo di ripartire da zero creando delle strutture che, a nostro avviso, non funzionano e non servono. Ripeto, non si può chiedere alle comunità di diventare delle carceri. Le comunità sono una tipologia di servizi che ha determinate caratteristiche che vanno preservate. Il rischio è anche di non trovare il personale, già carente. In una grande crisi di reclutamento del personale che già c’è oggi nel nostro settore, se chiedi ad un educatore di fare il “secondino” a maggior ragione non è motivato. Si rischia di abbassare la qualità, se si è costretti a prendere persone senza titoli. Pensiamo sempre che stiamo parlando di persone con fragilità, che hanno bisogno di personale qualificato. Voi del Cnca avete cambiato di recente nome. Ce ne può parlare? Sì, da Coordinamento nazionale comunità di accoglienza il Cnca è diventato, da poco, Coordinamento nazionale comunità accoglienti. Da diversi anni ci stavamo ragionando, abbiamo voluto segnare sempre di più un’urgenza e un riferimento valoriale. Il nostro lavoro sono le comunità, i territori, sono soprattutto le cittadine e i cittadini più fragili, che vivono nei territori in special modo quelli più fragili. In una logica in cui abbiamo costruito un welfare, più o meno strutturato, con dei servizi anche di qualità, dobbiamo tornare ad avere uno sguardo dentro i territori. Quindi vogliamo sottolineare quanto sia necessario costruire comunità e territori accoglienti. Non ci bastano più le comunità di accoglienza da cui siamo partiti, ma vogliamo ritornare a costruire, cucire, connettere relazioni significative che facciano vivere meglio tutte e tutti, soprattutto le persone più fragili, all’interno dei territori in cui viviamo. “Il no agli sconti di pena lascia senza speranza i detenuti più poveri” di Franco Insardà Il Dubbio, 24 agosto 2024 “Ci sono disordini nel carcere di Reggio Calabria, dobbiamo risentirci”. Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa penitenziaria, come tutti i giorni è impegnato a monitorare la situazione, spesso esplosiva, nelle carceri italiane. Dopo qualche ora ci risentiamo e la situazione nel penitenziario calabrese, per fortuna, è rientrata, non si sono registrati feriti né tra i detenuti né tra gli agenti, mentre ci sarebbero danni alla struttura. Segretario, il sovraffollamento, i suicidi e le proteste dei detenuti sono i sintomi di una situazione davvero preoccupante. Lei, però, ci teneva a evidenziare un aspetto relativo alla liberazione anticipata che tanto fa discutere... Proprio così. Per quanto si tratti di un aspetto “tecnico” penso che sia abbastanza semplice da spiegare. Proviamo a farlo... Attualmente l’articolo 35 ter dell’Ordinamento penitenziario, introdotto dopo le censure della Cedu per la sentenza Torreggiani, prevede che il detenuto possa fare reclamo se le condizioni di detenzione non rispondono ai criteri previsti per gli spazi vitali all’interno della cella. Oggi abbiamo questa situazione di illegalità diffusa nelle carceri con 14.500 detenuti in più e con tutta la disfunzionalità che ne consegue. Cioè? Non si tratta solo dello spazio in cella, ma tutto è proporzionato ai numeri. Quindi se i detenuti in più sono 14.500 viene razionata l’acqua, si riducono gli spazi di socialità, sono insufficienti docce e servizi igienici con i relativi sovraccarichi ai sistemi fognari e così via. Per non parlare della penuria di agenti di Polizia penitenziaria, oltre 18mila unità, che non solo non riescono a garantire i servizi, ma sono anche in difficoltà dal punto vista psicologico nel loro lavoro. Torniamo alla richiesta di liberazione anticipata... Il detenuto che ha, non solo la capacità di comprenderne il meccanismo, ma anche le possibilità economiche di pagare un avvocato propone il reclamo al magistrato di sorveglianza per ottenere la liberazione anticipata, in virtù dell’articolo 35 ter O. p., indipendentemente dal comportamento tenuto in carcere. In questo modo possono avere accesso alla liberazione anticipata, che non è di 15 giorni in più a semestre, come prevede la proposta di legge Giachetti a regime, ma di 18 giorni. Infatti con i rimedi risarcitori ci sarebbe 1 giorno di sconto ogni 10 di detenzione, quindi 3 al mese, che per un semestre sommano a 18. Nel solo 2023 sono state presentate 9.574 istanze di risarcimento per queste violazioni e di queste, 8.234 sono state esaminate e ben 4.731 (il 57,5%) sono state accolte. Va anche chiarito che la possibilità di proporre il reclamo, in base all’articolo 35 ter O. p., è consentita anche autonomamente ai detenuti, ma in questo caso viene sempre respinta, perché non c’è una competenza tecnica nel momento in cui si va a discutere il caso. Ci potremmo trovare, volendo ragionare per paradosso, davanti a situazioni molto particolari. Ci faccia qualche esempio... Potrebbe accadere. ma ripeto è un’iperbole, che un detenuto riesca, volutamente, a farsi destinare in un carcere o in una sezione dove il sovraffollamento è molto alto. In questo modo, potendosi consentire di pagare un avvocato, potrebbe richiedere i giorni di liberazione anticipata come risarcimento. A chi ha affossato la proposta di legge Giachetti è sfuggito l’articolo 35 ter dell’O.P.? Sembra proprio di sì. Tutti concentrati a lanciare slogan del tipo: “non liberiamo i delinquenti”, “non vogliamo dare sconti di pena” e non si sono accorti che esiste già questo meccanismo, ancora più premiale e che penalizza quelli che non hanno possibilità economiche, indipendentemente dal comportamento carcerario. Il decreto carceri, a poco più di 20 giorni dal via libera definitivo in Senato, quali effetti ha prodotto? Non ha prodotto e non produrrà nulla di positivo, se non a lungo termine. Proprio l’automatismo della liberazione anticipata crea un problema, perché prima il detenuto faceva domanda ogni sei mesi e, quindi, si valutava il suo comportamento e gli si ricordava di avere una buona condotta. Ora si dovrà fare a fine detenzione, ma non sarà facile. Sono stati, poi, ridotti i corsi di formazione per la Polizia penitenziaria. Non ci sono misure in grado di migliorare il sistema penitenziario: né sul sovraffollamento, né sulla sanità. In favore delle misure svuota-carceri la destra recluta 3 nuovi Silvio Pellico di Vanessa Ricciardi Il Fatto Quotidiano, 24 agosto 2024 Altro che Silvio Pellico. Mentre è nell’aria una nuova riforma delle carceri, i celebri condannati intervengono a giorni alterni per contribuire al dibattito con i racconti delle loro prigioni: Marcello Dell’Utri, Salvatore Buzzi, Roberto Formigoni. Rispettivamente il fondatore di Forza Italia che ha scontato la pena per concorso esterno in associazione mafiosa; uno dei protagonisti dell’inchiesta romana “Mondo di mezzo”; e infine “il Celeste” ex presidente della Lombardia condannato per corruzione, riabilitato e in visita al Meeting di Comunione e Liberazione. Il primo a essere stato contattato è Dell’Utri, che per i giudici ha avuto rapporti con Cosa Nostra dalla metà degli anni 70 almeno fino al 1992. Condannato a 7 anni, dal 2014 ne ha passati solo quattro in carcere. E per buona parte del tempo nei locali sanitari: prima nell’infermeria a Parma, poi dal 2016 almeno per un anno in quella di Rebibbia, finché non gli sono stati concessi i domiciliari nel 2018, per motivi di salute. Ha finito di scontare la pena nel 2019. Il Foglio, a Ferragosto, ha donato ai suoi lettori il suo racconto “doloroso”: “Mi ha fatto male questa contrapposizione tra la guardia e il ladro. Il carcerato così fatica ad avere rispetto per lo Stato. A dominare è il sentimento di odio”. A un detenuto ha offerto il suo supporto “quasi da psicologo” per impedirgli di suicidarsi: “Chiedeva cose stupide, un lenzuolo, una coperta in più”. Adesso che è fuori, Dell’Utri si consola con i 27 milioni (erano 30, ma ha dovuto pagare le tasse) ereditati da Silvio Berlusconi. Tre giorni dopo la prima intervista, è stato contattato dal Giornale. “Il carcere è un incubo, e devi essere ben preparato per sopravvivere”. Lui no, ma le cronache ricordano che prima della cella aveva dimostrato deliberata volontà di fuga in Libano. Salvatore Buzzi invece ha deciso di esporsi senza essere interpellato. Almeno la prima volta, perché la seconda lo hanno cercato. A suo dire, gli hanno dato 12 anni e 10 mesi per “fatti banali”, e ha passato in carcere la metà, 6 anni e 7 mesi. Il 20 agosto ha scritto una lettera a La Verità suddivisa in punti. Il problema del sovraffollamento, spiega al punto 2, è la voglia di legalità: “I detenuti sono in costante aumento, perché, dai tempi di Mani pulite, sono aumentate le fattispecie di reato e sono aumentate di molto anche le pene”. Intervistato dal Giornale, il 21 agosto, ha raccontato: “Lo scorso anno ero detenuto a Catanzaro. Avevamo una situazione inumana”, in più “eravamo in due in una cella che invece ne poteva ospitare uno. Come fai a vivere in queste condizioni?”. Lo stesso Buzzi che in un’intercettazione diceva: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. Nella sua ritrovata umanità, Buzzi difende un altro indagato per corruzione, Giovanni Toti, ex presidente della Liguria: “Perché è stato arrestato?”. Infine ieri Formigoni “si racconta” a Repubblica: “Ero in cella con due che avevano commesso un omicidio e un bancarottiere. Quando arrivai uno dei due dentro per l’omicidio mi spiegò come funzionava la vita in galera”. Buttava le briciole in corridoio: “Bravo, mi disse il presunto omicida, così quelli fuori vedranno che anche tu lavori. Ma in realtà non facevo niente. Per tutti ero il presidente, anche le guardie mi chiamavano ancora così, e facevano la fila per parlarmi. Mi chiedevano aiuto”. Condannato a quasi 6 anni, ha fatto 5 mesi di carcere, e oggi, dopo le accuse di baratto corruttivo tra cene e gite in barca, si lamenta delle finanze da 2mila euro al mese, come ha detto in altre circostanze. Con queste testimonianze, non stupisca che gli interlocutori siano accorsi. Dell’Utri, ad esempio, si è complimentato con il vicepremier forzista Antonio Tajani per aver promosso “Estate in carcere”, ovvero le visite presso le case circondariali dei membri del suo partito per denunciare lo stato delle carceri. L’ultima è di ieri, del viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, a Bari. Tuttavia Dell’Utri bacchetta: “Avrebbero potuto pensarci prima”. A porgere orecchio ai condannati, anche il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, meloniano. Ha scritto a La Verità per dire che non accetta ricatti, ma rispondendo direttamente a Buzzi. Forza Italia si smarca da Lega e FdI anche sul carcere di Valentina Stella Il Dubbio, 24 agosto 2024 La prematura e drammatica scomparsa del garante D’Ettore può aprire un’altra battaglia nel centrodestra. La repentina e prematura scomparsa del presidente del collegio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Felice Maurizio D’Ettore, riapre a meno di un anno dalla sua nomina, avvenuta con decreto del Presidente della Repubblica il 23 dicembre 2023, un’importante partita politica. La scelta della terna voluta dal Governo Meloni aveva suscitato diverse polemiche. Il compianto D’Ettore, Irma Conti e Mario Serio - rispettivamente espressione di Fratelli d’Italia, Lega e Movimento Cinque Stelle - avevano avuto nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato il voto a favore della maggioranza e del partito guidato da Giuseppe Conte. Ma tutto il resto dell’opposizione aveva sottolineato una mancanza di trasparenza nella selezione, non avendo neanche potuto audire i candidati. I critici, anche fuori dal Parlamento, ritenevano poi che i tre non avessero abbastanza esperienza con il sistema carcerario. Da indiscrezioni filtrate nell’autunno scorso era emerso che il Ministro Nordio avrebbe voluto includere nella terna anche Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino. L’esponente radicale, dopo un colloquio con l’ex capo di gabinetto di Via Arenula Alberto Rizzo, aveva ricevuto anche una email in cui le si diceva che era stata nominata. Poi, misteriosamente, una seconda email annullò la precedente. Fuori dal Ministero era stato trovato un altro accordo. In alcune chat in questi giorni, qualcuno vorrebbe riproporre il suo nome ma appare difficile che possa essere presa in considerazione avendo presentato una denuncia, insieme al deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, proprio contro il Guardasigilli e i sottosegretari Delmastro e Ostellari, per atti omissivi in merito al sovraffollamento e ai suicidi in carcere. E quindi ora che succede? Formalmente bisognerebbe ripassare dalle commissioni parlamentari competenti e poi attendere una delibera del Consiglio dei Ministri. Ma il tutto verrà preceduto da un risiko giocato tra le tre forze di maggioranza. Se nella partita precedente Forza Italia non ha mosso le truppe, adesso invece potrebbe esercitare una pressione più forte per virare verso un nome che rappresenti la sua visione del carcere. Come ben sappiamo, l’ottica culturale degli azzurri è diversa da quella di Lega e Fratelli d’Italia. I primi sarebbero stati persino pronti ad appoggiare la legge sulla liberazione anticipata speciale se non fossero poi intervenute altre dinamiche interne alla coalizione a stopparli; inoltre la loro è una posizione più umana delle pene, maggiormente in linea con l’articolo 27 della Costituzione. Tanto è vero che proprio ieri il vice ministro della giustizia, Francesco Paolo Sisto, uscito dal carcere di Bari dove ha incontrato l’intera comunità penitenziaria, ha dichiarato: “c’è da incrementare il numero dei magistrati di sorveglianza e dare più fiducia e spazio a questi eroi che hanno la necessità di intervenire sulle misure alternative. Il futuro del carcere è fuori dal carcere”. Dall’altra parte, invece, il Carroccio e il partito della premier sono portatori di un’idea di esecuzione penale per cui bisogna scontare la pena fino all’ultimo giorno dietro le sbarre. Diventa secondario il fatto che si sta stipati nelle celle come negli allevamenti intensivi o che i reclusi si suicidino. L’importante è garantire all’elettorato la certezza della pena, non delle pene. Pertanto, è possibile ipotizzare che queste due idee vadano a collidere nel momento in cui, nelle prossime settimane, bisognerà scegliere chi far sedere sulla poltrona di d’Ettore. Ma il partito guidato da Antonio Tajani ora ha maggiore forza contrattuale, per vari motivi. Il primo sicuramente è che Forza Italia è uscita rafforzata dalle elezioni europee, il secondo è che la recente intervista di Marina Berlusconi al Corriere della Sera, la quale ha voluto dare una impronta più liberale e moderata al partito fondato da suo padre, riesce a fornire una spinta propulsiva al gruppo di Piazza San Lorenzo in Lucina per marcare una differenza con gli alleati su diversi temi e ottenere maggiori consensi nell’area centrista, dove al momento non sembra esserci concorrenza. Basti vedere cosa sta succedendo con la questione dello ius scholae. Ciò, se è vero che potrebbe non diventare davvero un casus belli tale da mettere in crisi la maggioranza, tuttavia non è detto che non creerà forti frizioni tra Fi, Lega e Fd’I per trovare una sintesi per il nuovo membro della terna. Gli azzurri sono, poi, ben consapevoli che la premier è in difficoltà a partire da quanto successo in Europa per finire con le preoccupazioni sul premierato. A dimostrazione di ciò, proprio qualche giorno fa il capogruppo di Fd’I a Montecitorio. Tommaso Foti, ha annunciato che il ddl sulla separazione delle carriere arriverà nell’aula della Camera con un diritto di precedenza rispetto al premierato. Quindi non si deve dare nulla per scontato: non è affatto detto che venuto purtroppo a mancare un rappresentante di Fd’I a Via di San Francesco di Sales, sarà così naturale che al suo posto venga nominato un personaggio più affine ai reazionari e securitari in materia di carcere. Ius scholae e carceri: sorpresa! Ora la maggioranza si scanna sulle idee di Piero Sansonetti L’Unità, 24 agosto 2024 C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole. Che non ha niente di antico. Nel centrodestra si è aperta una furiosa battaglia politica non sulla presidenza della Rai, non sull’amministratore delegato di Leonardo e neppure sul prefetto di Bologna o sul nuovo sovrintendente di Roma o di Firenze. È una battaglia delle idee. Forza Italia si è impuntata su due questioni che sono legate ad una concezione generale di società, che è molto lontana dall’idea sovranista, leghista e con sfumature razziste, che domina nella componente più reazionaria dell’alleanza. Ha messo sul tappeto lo Ius Scholae e anche il problema delle carceri. L’approvazione di una misura come lo Ius Scholae permetterebbe a circa mezzo milione di ragazzi di acquistare la cittadinanza straniera. E avvierebbe un processo sociale molto importante di tipo egualitario. Cioè ispirato al principio che le persone umane debbono avere gli stessi diritti e le stesse possibilità. Salvini e gran parte di Fratelli d’Italia si oppongono fermamente, anche se in alcuni settori del partito della Meloni si sono espresse idee favorevoli a Tajani. Il quale pone anche un altro problema. Quello delle carceri. Forza Italia vuole decongestionare le carceri con misure alternative e con le comunità. Immagina un provvedimento che faccia uscire circa 8mila persone. Il resto della destra vuole costruire nuove prigioni e intanto lasciare così com’è il sovraffollamento. Il deputato di FdI che è intervenuto in parlamento ha detto che la notizia che il numero dei prigionieri negli ultimi mesi è aumentato di 4mila unità è una buona notizia perché vuol dire che abbiamo neutralizzato 4mila criminali. Forza Italia, invece, resta ancorata alle idee garantiste di Berlusconi. E anche ai suoi pensieri sull’accoglienza. Marina Berlusconi recentemente ha reso pubblico l’ultimo scritto di suo padre. Diceva così: “Forza Italia è il partito del mondo senza frontiere, del mondo che si ama, del mondo unito e rispettoso di tutti gli Stati. Forza Italia è il partito del mondo che ama la pace, del mondo che considera la guerra la follia delle follie, dove si uccidono degli altri che nemmeno si conoscono, Forza Italia è il partito del mondo senza frontiere, degli Stati che si aiutano l’un l’altro. Forza Italia è il partito della libertà, della democrazia, del cristianesimo, è il partito della dignità, del rispetto di tutte le persone, è il partito del garantismo della giustizia giusta”. Vedete bene. Questo scritto tocca proprio i due temi sollevati da Tajani: migranti e carceri. È una buona notizia che si sia aperto uno scontro sulle idee. Vuol dire che la politica inizia a farsi sentire. Ancora con una vocina sottile sottile, ma si fa sentire. La cosa importante ora non è capire se questi dissensi possano o no portare alla caduta del governo. È importante capire se sopravvivranno al potere e romperanno la cappa odiosa del pensiero unico. Del pensiero unico reazionario. La visione distorta del diritto penale quale panacea dei mali sociali impedisce le riforme di Carlo Morace* Il Dubbio, 24 agosto 2024 Dopo la vicenda Toti il governo vuole ridurre l’uso o l’abuso della custodia cautelare. Nobile intento, peraltro in linea con quanto richiede da anni l’avvocatura, ma non può non rilevarsi l’anomalia di una proposta che proviene da chi ha dimostrato, con l’ultimo decreto carceri, che è del tutto disinteressato a risolvere il problema delle condizioni disumane, e dei correlati suicidi, nelle quali si trova chi vive in carcere, comprese le guardie penitenziarie. A fronte di ciò, viene da chiedersi a quale visione della giustizia penale risponde un approccio così diverso rispetto a principi gemelli quali il rispetto della dignità umana e della libertà personale. L’anomalia in realtà sta nel metodo, in quanto non è la singola modifica o innovazione che può lasciare il segno, al contrario la giustizia penale ormai da anni ha disperato bisogno di un intervento complessivo di riforma che la renda sostenibile. E infatti, se è vero che ridurre il numero dei processi, la durata degli stessi, eliminare la disumanità della detenzione in carcere, sono le priorità che ci segnala con insistenza l’Europa da circa 15 anni, si deve prendere atto che i risultati prodotti da interventi normativi isolati sono incredibilmente opposti a quelli auspicati. La riforma Cartabia del 2022, per certi versi positiva, è stata purtroppo il frutto evidente di compromessi che ne hanno limitato la portata, spesso con prevalenza di logiche economiche a detrimento dei diritti dell’accusato. Quindi, i problemi sono insoluti, acuiti dal ridotto numero di magistrati, nel Sud Italia gli organici sono scoperti, e dal numero enorme di reati previsti dalla legislazione. A distanza di due anni, un primo bilancio dell’operato del governo di centrodestra, che pur ha il merito di avere introdotto alcune modifiche volute dall’avvocatura - non ultime quelle in tema di intercettazioni, anche con riferimento ai colloqui tra difensore e assistito, e applicazione della custodia in carcere a opera di un collegio di giudici - è a tinte chiaro- scure, con prevalenza di queste ultime, se è vero che molte delle riforme attuate sono contrarie rispetto allo sbandierato iniziale proposito di ridurre il numero di reati e realizzare un diritto penale minimo. La schizofrenia e contraddittorietà delle modifiche legislative attuate sembra ormai la regola. Tanto per esemplificare, da un lato si sbandiera l’avversione alla custodia cautelare in carcere, dall’altro si alzano incredibilmente le pene con l’effetto di consentire la stessa anche per reati per i quali in precedenza era esclusa. Come se non bastasse, il governo, sull’onda della emotività e delle tendenze populiste, introduce costantemente nuovi reati e circostanze aggravanti. L’uso distorto del diritto penale è evidente se si considera che a ogni devianza sociale, esaltata da fatti di cronaca, corrisponde un intervento sulla normativa penale. Vi è il disagio giovanile, ecco pronto il decreto Caivano che innalza le pene e consente l’arresto dei minori in un numero maggiore di casi. Stessa logica per contrastare la violenza di genere, la criminalità, i furti, ecc.. E qui sta l’inganno! Mai i problemi della giustizia penale potranno trovare soluzione fino a quando si veicolerà l’idea che il processo penale serve per debellare i mali della società, con la conseguenza che si radica la falsa convinzione che maggiore sarà il numero dei reati e dei processi, migliore sarà la società in cui viviamo. Al contempo, mai i fenomeni devianti saranno debellati se lo strumento di lotta sarà affidato alla giustizia penale, anziché a interventi che tendano a modificare la società. In definitiva, la distorta visione che eleva il diritto penale a panacea dei mali sociali impedisce qualunque riforma sistemica e le isolate positive modifiche normative vengono azzerate da altre che rispondono a irrefrenabili spinte populiste. Ma allora, prima di pensare a riformare la giustizia dovremmo interrogarci sul ruolo da assegnare al diritto penale e sul modello che si vuole realizzare, anche perché le continue contraddizioni alle quali assistiamo, non ultima lo sbandierare la necessità di riforme per limitare la custodia cautelare in carcere e, al contempo, non fare nulla per eliminare le condizioni disumane di chi è detenuto, non rendono credibile la complessiva azione riformatrice in materia di giustizia penale. *Avvocato Intercettazioni, la riforma a tappe vicina all’en plein (a parte i trojan) di Errico Novi Il Dubbio, 24 agosto 2024 L’azzurro Zanettin: “Il divieto di ascoltare i colloqui dell’avvocato è già legge, e al Senato abbiamo già dato il primo ok su smartphone e limite dei 45 giorni”. A volte il problema del centrodestra, rispetto alle riforme della giustizia, è nell’ampiezza dei dossier e anche nella loro natura “multipolare”. La materia delle intercettazioni può essere considerata emblematica, di questo discorso. In teoria, il ministro della Giustizia Carlo Nordio avrebbe dovuto riservare a una revisione organica degli “ascolti” il secondo dei suoi “maxi- ddl” (la legge sulla separazione delle carriere fa “conto a parte”, visto che si tratta di una riforma costituzionale). Il primo pacchetto Nordio è da pochi giorni legge dello Stato: si tratta dell’arcinota riforma che tra l’altro sopprime l’abuso d’ufficio. Lo step successivo, in base al cronoprogramma di un annetto fa, avrebbe dovuto riguardare appunto gli le intercettazioni. Ma poi diversi aspetti della materia sono stati trattati e approvati, almeno in prima lettura, all’interno di altri vettori legislativi. Tanto che il solo capitolo sul quale non è ancora arrivato un intervento organico resta il trojan. È comunque sul tavolo, del guardasigilli ma anche di diversi parlamentari, lo stop alla possibilità di utilizzare il virus spia per reati dall’allarme sociale non gravissimo. A riguardo, Nordio ha ribadito pubblicamente, anche in tempi recenti, di voler riservare a se stesso l’iniziativa. E ha chiesto perciò ai senatori della maggioranza di attendere. Proprio a Palazzo Madama il centrodestra ha, in effetti, esibito la più spiccata intraprendenza, in materia di captazioni giudiziarie: circa un anno fa ha condotto un’ampia indagine conoscitiva, che ha prodotto una relazione finale. Alcuni frutti di quel lavoro, di cui si sono occupati in particolare la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno, della Lega, e il capodelegazione azzurro nello stesso organismo, Pierantonio Zanettin, hanno trovato spazio in successivi provvedimenti. Un obiettivo, in particolare, è stato già raggiunto proprio grazie a Zanettin: il divieto non più solo di “trascrizione” (già introdotto, grazie al Cnf, nella riforma Orlando- Bonafede) ma anche di “ascolto” per i colloqui fra l’avvocato e il suo assistito, con conseguente distruzione del materiale intercettato per errore. “Sì, questo è uno dei capitoli già risolti”, ricorda Zanettin al Dubbio, “grazie a un emendamento che il sottoscritto ha proposto durante l’esame in commissione del ddl penale di Nordio”, quello appunto relativo all’abuso d’ufficio e che, come detto, è ormai legge dello Stato. Con quella riforma, com’è noto, è stato introdotto, per volontà del guardasigilli, anche il divieto di trascrivere le intercettazioni dei terzi estranei alle indagini, a tutela della loro privacy. Ci sono poi altri due capitoli della “riforma multipolare” delle intercettazioni che sono a uno stadio già piuttosto avanzato. In entrambi vanno riconosciuti, di nuovo, i meriti dei senatori di centrodestra, e del duo Bongiorno- Zanettin in particolare. Sono infatti i due relatori dell’indagine conoscitiva sulle intercettazioni ad essere i primi firmatari della legge che equipara la messaggistica contenuta negli smartphonbe alle captazioni giudiziarie propriamente dette, con tutto quanto ne consegue in termini di garanzie e di necessità, per i pm, di ottenere l’autorizzazione dal gip. Ebbene, il testo in questione, che introduce nel codice di procedura penale il nuovo articolo 254 ter, è stato già approvato da Palazzo Madama ed è ora nelle mani della commissione Giustizia di Montecitorio. È plausibile che possa rientrare fra i provvedimenti in grado di dribblare l’ingorgo della sessione di Bilancio, considerato che, sulla regolamentazione degli smartphone sequestrati all’indagato, si è battuto con grande impegno anche il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto. Ha ottenuto il via libera in commissione ma attende ancora il sì dell’aula di Palazzo Madama, invece, un’altra proposta di legge firmata da Zanettin: quella nata per sancire i divieti sulle intercettazioni dell’avvocato e che poi, dopo l’accoglimento delle tutele per i difensori all’interno del maxi-ddl penale, si è incentrata sul limite dei 45 giorni imposto alle Procure per effettuare gli “ascolti”. “Come si vede, si tratta di una batteria di interventi che in alcuni casi sono già entrati nell’ordinamento, e che in altri sono pronti, già in parte esaminati, e in attesa solo di essere rilanciati alla riapertura del Parlamento”, osserva Zanettin. “Di fatto il solo segmento della riforma per il quale non è mai neppure iniziato un effettivo esame parlamentare è quello dei trojan. Noi, nell’indagine conoscitiva, ce n’eravamo occupati, e ho personalmente tenuto a che nella relazione finale trovasse posto quanto memo il richiamo all’urgenza di una ridefinizione della materia. In seguito, il ministro Nordio ci ha chiesto di riservare alla sua personale iniziativa il capitolo dei virus spia. Ecco perché io stesso ho tenuto da parte la mia proposta di legge, che peraltro va nella direzione indicata di recente dallo stesso guardasigilli: limitare uno strumento così invasivo ai reati che mettono in pericolo la sicurezza dello Stato e l’incolumità pubblica, come mafia e terrorismo”. Vorrebbe dire sopprimere l’iperbolica norma voluta da Alfonso Bonafede nella “spazza-corrotti”: l’estensione del virus spia ai reati di corruzione. Ci aveva provato la delegazione forzista nella commissione Giustizia di Montecitorio: il capogruppo Tommaso Calderone e gli altri due deputati Annarita Patriarca e Pietro Pittalis avevano già proposto di inserire lo stop all’uso dei trojan per i reati contro la Pa all’interno della legge di conversione del decreto 105. Si tratta del provvedimento voluto l’anno scorso da Palazzo Chigi per estendere ai reati non associativi le norme antimafia sulle intercettazioni. Alla fine, la correzione garantista non passò, ma Calderone, Patriarca e Pittalis riuscirono a ottenere il sì degli alleati ad altre tre importanti modifiche garantiste: i limiti alle captazioni a strascico, l’obbligo per il gip di autorizzare l’uso delle intercettazioni con ordinanze che non siano la fotocopia delle richieste avanzate dai pm e il divieto, per la polizia giudiziaria, di attirare l’attenzione dei cronisti con il riferimento, nei brogliacci, a circostanze “piccanti” associate ai brani privi di particolare rilevanza. Altre piccole tessere del puzzle. Che, ricomposto, è effettivamente a uno stadio assai più avanzato di quanto si possa immaginare. Ritorna l’inappellabilità delle assoluzioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2024 Rispetto alla vecchia legge Pecorella il divieto riguarda solo alcuni casi Torna l’inappellabilità del pubblico ministero, seppure in versione ridotta rispetto all’assai contestata legge Pecorella del 2006. Da domani, la pubblica accusa non potrà più presentare appello contro tutte le pronunce di assoluzione emesse nei procedimenti per reati a citazione diretta. Il riferimento è ai casi di contravvenzioni o di delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa, sola o congiunta alla detenzione. Per questi reati l’azione penale si esercita concitazione diretta davanti al giudice monocratico. Al Pm, come unica chance di impugnazione, resta il ricorso per Cassazione. Un po’ più nel dettaglio, l’area dei reati per i quali, in caso di proscioglimento, è cancellato un grado di giudizio è assai ampia. Comprende, per esempio, la violenza e resistenza a pubblico ufficiale, l’istigazione a delinquere, la rissa, le lesioni personali stradali, le violazioni di domicilio, il furto aggravato, il danneggiamento, la truffa, l’appropriazione indebita, la ricettazione. Nel catalogo rientra anche l’omessa dichiarazione, compreso il caso del sostituto d’imposta quando l’ammontare delle ritenute non versate è superiore a 50mila euro. La vecchia legge Pecorella escludeva che il Pm potesse proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, ameno che non venissero scoperte nuove e decisive prove dopo il giudizio di primo grado. La legge venne censurata dalla Corte costituzionale (sentenza 26/2007), sostenendo che l’abrogazione del potere di appello del Pm si presentava generalizzata (“perché non è riferita a talune categorie di reati, ma è estesa indistintamente a tutti i processi”) e unilaterale (“perché non trova alcuna specifica contropartita in particolari modalità di svolgimento del processo”). La legge 114 prova a rispondere a questi rilievi, circoscrivendo l’ambito d’applicazione, valorizzando nello stesso tempo le argomentazioni della commissione Lattanzi che, nel mettere a punto lo schema di riforma del Codice di procedura penale - poi in larga parte fatto proprio dall’ex ministra Marta Cartabia (che tuttavia non accolse questa specifica proposta) - sottolineavano come il controllo del Pm poteva essere limitato al ricorso per Cassazione; in un contesto, oltretutto, di limitazione delle facoltà di impugnazioni, anche delle difese. In materia di impugnazioni, peraltro, la legge Nordio cancella la norma della Cartabia sul deposito, a pena di inammissibilità, della dichiarazione o elezione di domicilio per la notificazione del decreto di citazione a giudizio, da effettuare contestualmente all’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori. Il deposito di specifico mandato a impugnare è limitato al difensore d’ufficio dell’imputato assente. Devono snellire la giustizia ma sono senza paga: il caso dei neoassunti all’Ufficio del processo di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 24 agosto 2024 L’istituzione dell’Ufficio del Processo rappresenta una delle riforme più significative nel panorama della giustizia italiana degli ultimi anni. Introdotto con l’obiettivo di migliorare l’efficienza del sistema giudiziario, questo organo ha il compito di supportare l’attività dei magistrati, contribuendo in modo determinante alla riduzione dei tempi processuali. Esso ha avuto un impatto significativo sulla riduzione dei tempi di giustizia, specialmente nei tribunali più affollati. Secondo i dati più recenti, l’introduzione di questo ufficio ha contribuito a smaltire un numero maggiore di fascicoli e a ridurre i tempi di attesa per i procedimenti civili e penali. Tuttavia, l’impatto varia notevolmente a seconda della corte e delle risorse disponibili. Ad esempio, presso il Tribunale di Milano, questo nuovo ufficio ha permesso una riduzione del tempo medio di attesa per le udienze preliminari del 20% negli ultimi due anni, un dato che dimostra l’efficacia di questo strumento nel contesto di un tribunale metropolitano. Nonostante la sua importanza strategica, però, emergono gravi criticità nella gestione dei nuovi assunti, addetti UPP, il cui mancato pagamento rappresenta un’anomalia non solo amministrativa, ma anche giuridica e morale. L’Ufficio del Processo è stato formalmente istituito con il Decreto-Legge 90/2014, convertito in Legge 114/2014, come parte di una più ampia strategia di riforma volta a snellire e rendere più efficiente la giustizia italiana. Con l’aggravarsi del carico di lavoro sui magistrati, esso è stato concepito per offrire un supporto concreto nella gestione dei fascicoli, nella redazione di bozze di provvedimenti e nel monitoraggio delle fasi processuali. Questa istituzione si è rivelata fondamentale non solo per alleggerire il lavoro dei magistrati, ma anche per garantire una maggiore celerità nella risoluzione delle controversie, rispondendo così a una delle principali criticità del sistema giudiziario italiano: la lentezza dei procedimenti. La funzione dell’Ufficio del Processo, pertanto, non è meramente accessoria, ma si inserisce al cuore del funzionamento della giustizia, influenzando direttamente la capacità del sistema di rispondere in tempi ragionevoli alle esigenze dei cittadini. Nonostante queste premesse positive, la sua attuazione concreta sta incontrando ostacoli rilevanti. In particolare, desta preoccupazione il fatto che molti dei neoassunti, ammessi al ruolo lo scorso giugno attraverso concorsi pubblici, secondo le testimonianze che ho raccolto, non abbiano ancora ricevuto lo stipendio. Questo ritardo è già di per sé un fatto grave, ma diventa ancora più allarmante se si considera che, secondo quanto mi riferiscono fonti del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), i dati di questi funzionari non sarebbero stati neppure inseriti ufficialmente nell’anagrafe presso il Ministero della Giustizia per l’apertura della partita stipendiale. Tale situazione solleva interrogativi di natura amministrativa e organizzativa. È noto che la macchina burocratica italiana può presentare inefficienze, ma il mancato pagamento dei dipendenti, soprattutto in un settore così delicato, è indice di un malfunzionamento più profondo. I quasi quattromila neo-addetti UPP di fatto non esistono per il Ministero della Giustizia, invisibili in qualsiasi registro. La mancata registrazione ufficiale dei neoassunti presso il Ministero della Giustizia rappresenta una falla amministrativa che rischia di minare la credibilità dell’intero apparato giuridico tanto più che l’inserimento dei loro dati avverrebbe in forma massiva ossia con un semplice click e il computer lavora. Inoltre, è fondamentale sottolineare che questi stipendi dovrebbero essere coperti da fondi specifici stanziati nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che si alimenta con risorse europee. Pertanto, la situazione assume una rilevanza particolare, poiché non si tratta solo di una questione interna, ma di una responsabilità di bilancio precisa e vincolante nei confronti dell’Unione Europea. I fondi PNRR sono soggetti a una rigorosa rendicontazione e l’uso corretto di queste risorse non è solo una questione di buona amministrazione, ma di rispetto degli impegni presi a livello europeo. Il mancato pagamento rappresenta dunque non solo un disservizio per i lavoratori, ma un potenziale rischio di infrazione rispetto agli obblighi assunti dall’Italia nel quadro del PNRR. Il mancato pagamento dei neoassunti ha implicazioni che vanno oltre il singolo episodio amministrativo. In un contesto in cui la rapidità e l’efficienza del sistema giudiziario sono costantemente sotto scrutinio, la mancata retribuzione del personale che dovrebbe garantire tali efficienza e rapidità è un paradosso che non può essere sottovalutato. Lavorare senza percepire lo stipendio dovuto può minare la motivazione e l’efficacia del personale, con possibili ripercussioni sulla qualità del lavoro svolto e, di conseguenza, sui tempi di risposta del sistema giudiziario. È dunque nell’interesse della collettività, oltre che degli stessi lavoratori, che questa situazione venga risolta con la massima celerità. È fondamentale che le istituzioni competenti, in primis il Ministero della Giustizia e il MEF, affrontino con decisione e tempestività questa problematica. La registrazione e il pagamento dei neoassunti devono essere considerati priorità assolute, non solo per rispettare i diritti dei lavoratori, ma anche per preservare l’efficacia dell’intero sistema giudiziario. La risoluzione di questa crisi amministrativa rappresenta un passo indispensabile per garantire che l’Ufficio del Processo possa continuare a svolgere il ruolo per cui è stato creato: quello di contribuire a una giustizia più rapida, efficiente e vicina alle esigenze dei cittadini. Senza questo intervento, non solo si rischia di disattendere le aspettative riposte in questa importante riforma, ma si rischia di compromettere la fiducia stessa nel sistema giudiziario italiano. Inoltre, è essenziale garantire il rispetto degli obblighi di bilancio legati all’utilizzo dei fondi PNRR, pena il rischio di sanzioni o conseguenze sul piano europeo *Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato Firenze. Muore detenuto a Sollicciano: non poteva permettersi le cure, presto un nuovo protocollo di Viola Giacalone controradio.it, 24 agosto 2024 Aveva patologie complesse ed era finito più volte all’ospedale i suoi avvocati avevano chiesto un differimento della pena, ma non è stato possibile proprio a causa della sua indigenza. ll Comune nei prossimi giorni firmerà un protocollo con il carcere e la Asl per offrire continuità assistenziale ai numerosi detenuti la cui condizione di salute è incompatibile con la reclusione. Non aveva soldi per essere trasferito in una struttura sanitaria ad hoc e quindi è rimasto a scontare la pena dentro il carcere di Sollicciano, nonostante fosse malato e nonostante rifiutasse da giorni il cibo. Così è morto nei giorni scorsi nel penitenziario fiorentino un detenuto italiano di 63 anni. Aveva patologie molto complesse ed era finito più volte all’ospedale i suoi avvocati avevano chiesto un differimento della pena, ma non è stato possibile proprio a causa della sua indigenza. Un fatto che, ancora una volta, accende i riflettori su Sollicciano e sulla necessità di adeguarsi di strutture sanitarie diverse dagli ospedali per persone che non sono in grado di pagarsi le cure. Ecco perché il Comune nei prossimi giorni firmerà un protocollo con il carcere e la Asl per offrire continuità assistenziale ai detenuti la cui condizione di salute è incompatibile con la reclusione, e non si parla di numeri insignificanti, ma di diversi detenuti. Grazie a questo protocollo sarà possibile effettuare il trasferimento di alcuni reclusi in strutture socio-sanitarie esistenti. Ad annunciare questo nuovo progetto il neo assessore alle politiche sociali Nicola Paulesu, che proprio ieri si è recato in visita al carcere di Sollicciano insieme, tra gli altri, Luca Maggiora, il presidente della Camera Penale che ha aderito all’iniziativa promossa dall’Osservatorio carcere Ucpi “Ristretti in agosto”. Nel carcere fiorentino di Sollicciano il reparto accoglienza risulta un “dormitorio” e quello transito “appare inadeguato ad ospitare persone” per la “palese insalubrità e la collocazione al livello inferiore del calpestio, tale da renderlo del tutto invivibile”. È quanto risulta dal bilancio della visita svolta ieri mattina. “Preoccupa - si legge in una nota dei penalisti - la chiusura della seconda cucina (inaugurata pochi anni fa e munita di attrezzature moderne) dichiarata inagibile per pericolo di cedimento strutturale del pavimento”. Inoltre, sottolinea la Camera penale “le sezioni, al netto della 5/a resa inagibile a seguito delle ultime drammatiche manifestazioni dei detenuti dello scorso luglio, scontano la fatiscenza ed il sovraffollamento. Il reparto accoglienza risulta, al più, un dormitorio. La presenza di numerose diverse etnie (più di 60) rende difficilissima la allocazione dei detenuti e la prevenzione di scontri”. La Camera penale di Firenze denuncia anche il “numero ridotto del personale di polizia penitenziaria” che “al netto dei reali sforzi profusi” rende “assolutamente critica la gestione dell’istituto”. La notte scorsa, concludono i penalisti, è deceduto un “detenuto con patologie complesse, durante l’ennesimo ricovero ospedaliero”: in ragione della sua “totale indigenza non è riuscito a trovare nel tempo alcuna collocazione alternativa nonostante le ripetute richieste di differimento della pena”. Torino. Scarafaggi in cella e visite mediche saltate: scoppia di nuovo la rabbia dei detenuti di Marta Borghese La Repubblica, 24 agosto 2024 Scarafaggi nelle celle, radiografie mancate, richieste di trasferimento. Il soffocante agosto delle carceri piemontesi non si placa, con un’altra giornata di tensioni nei penitenziari di Ivrea e di Torino. Ieri a Ivrea, i poliziotti penitenziari in servizio hanno potuto smontare il turno soltanto dopo 16 ore a causa dei disordini. Due detenuti si sono arrampicati sul muro del cortile del passeggio, chiedendo di parlare con l’educatrice di riferimento e di essere trasferiti in un altro carcere. Al terzo piano, intanto, un altro gruppo di ristretti ha pestato a sangue un compagno, secondo il sindacato di polizia penitenziaria Osapp per ragioni di potere interne alla struttura. Al secondo piano, intanto, altri due ristretti si sono azzuffati duramente, mentre nel reparto isolamento due detenuti si rifiutavano di rientrare in cella. Al Lorusso e Cutugno di Torino, invece, i detenuti del primo piano del padiglione B si sono rifiutati di rientrare in cella per solidarietà - hanno spiegato alla polizia penitenziaria - nei confronti di un compagno che non sarebbe riuscito a ottenere una radiografia e a causa degli scarafaggi presenti all’interno del padiglione. Il rifiuto di rientro in cella era cominciato mercoledì alla prima sezione. Si è esteso giovedì alla seconda e alla quarta, rientrando dopo la mezzanotte. “Quasi la metà degli scontri verbali con gli agenti è dovuta al malfunzionamento dell’area sanitaria” avevano spiegato i detenuti qualche settimana fa in una lettera condivisa con Repubblica, segnalando anche le lacune di un’area educativa continuamente sotto organico. “Situazioni di stress costante”, avevano spiegato i detenuti del padiglione C autori del messaggio, che sarebbero alla base “della maggior parte delle discussioni con gli agenti”. A fronte di 1480 detenuti (su circa un migliaio di posti disponibili) e di un sovraffollamento che in certe sezioni supera anche il 130 per cento, il personale di polizia penitenziaria è sotto organico di 204 unità, mentre gli educatori in servizio sono 14. A fine luglio, intanto, l’associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica ha diffidato 102 aziende sanitarie locali a provvedere ai sopralluoghi di competenza per valutare le effettive condizioni di igiene e di profilassi, fornendo tutti i servizi socio-sanitari e attivandosi immediatamente qualora gli standard non fossero rispettati. Ad accendere il riflettore sulle ultime tensioni e sulla carenza di personale è, ancora una volta, il sindacato di polizia penitenziaria Osapp, il cui segretario generale Leo Beneduci ricorda come “il carcere di Ivrea sia da diversi anni senza un comandante di reparto titolare, situazione che da alcuni mesi riguarda anche Torino, nonostante i 127 primi dirigenti e 234 tra dirigenti e dirigenti aggiunti in organico nell’amministrazione penitenziaria”. “Il ministro Nordio - chiude Beneduci scagliandosi contro il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - attivi un’indagine urgente sulle modalità di gestione del personale e degli istituti”. Bari. Il viceministro Sisto in visita al carcere: “Spazi angusti e sovraffollamento” di Nico Andrisani baritoday.it, 24 agosto 2024 L’aspetto più negativo è rappresentato, invece, dalla situazione legata alla sanità: “Bisogna intervenire immediatamente. Mancano 10 infermieri”. Il carcere di Bari soffre di un “tasso di sovraffollamento significativo” e di una gestione “inefficiente della sanità”, ma ben presto potrebbe beneficiare di 50 nuovi agenti attraverso un piano nazionale di rafforzamento della Polizia Penitenziaria: sono i punti salienti emersi dalla visita di questa mattina, nella casa circondariale cittadina, del viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto. Un appuntamento nell’ambito di una serie di verifiche, nei mesi estivi, alle carceri del Paese promosse da Forza Italia. Un appuntamento giunto a pochi giorni da alcuni disordini, avvenuti il 17 agosto, con un infermiere preso in ostaggio e un poliziotto aggredito. Per la vicenda sono indagati tre detenuti. Sisto ha incontrato una rappresentanza dei carcerati, della Dirigenza, del personale di assistenza psicologica e della Polizia Penitenziaria, per un quadro completo della situazione: “All’interno della casa circondariale - ha detto il viceministro, vi sono 391 detenuti su una capienza di 265, per un tasso di affollamento elevato. Un aspetto positivo della situazione attuale nel carcere di Bari è rappresentato dal grande rispetto tra detenuti e polizia penitenziaria. Un grande feeling qualitativo, nella reciproca comprensione che ognuno faccia il suo. Il detenuto sa rispettare l’agente che a sua volta per lui è un punto di riferimento, come anche per la dirigenza e gli operatori. È un dato che rincuora”. L’aspetto più negativo è rappresentato, invece, dalla situazione legata alla sanità: “Bisogna intervenire immediatamente. Non è possibile che qualcuno debba aspettare 4 mesi per una visita - ha dichiarato Sisto -. Mancano 10 infermieri. I medici sono 13 su 14. Gli oss richiesti non vengono forniti. La Sanità lascia molto a desiderare”. C’è però anche il tema dell’igiene: “Con la direttrice abbiamo proposto un intervento deciso. Il carcere è carcere, bisogna essere puniti per quello che è stato fatto, ma la dignità umana va rispettata. Il grido dei detenuti sull’igiene credo debba essere raccolto”. Un altro elemento migliorabile è rappresentato dal trattamento per i detenuti: “Il carcere di Bari - rimarca il viceministro - ha spazi angusti dove si possono fare solo un’attività per volta. Il piano della direzione, per migliorare gli spazi, deve però fare i conti con la difficoltà di realizzazione e la scarsa fiducia dei detenuti. Il carcere è un ingranaggio in cui ogni rotella ne muove un’altra. Se il detenuto ha la fiducia che qualcuno risponda alle sue richieste, questo contribuisce a una maggiore sicurezza a evitare le fibrillazioni”. In arrivo, dunque, vi sarebbero 50 nuovi agenti su un piano nazionale di rafforzamento che prevede l’immissione di 1850 nuovi poliziotti penitenziari. Previsto anche un incremento delle Rems (le residenze delle misure di sicurezza) da 700 posti a livello nazionale: “A Bari al momento ne abbiamo due in attesa di Rems. Un terzo è stato trasferito” dopo i disordini del 17 agosto scorso. Quest’ultimo episodio, ha detto Sisto, merita il “massimo plauso per la direzione e il personale nella gestione del caso”. Il futuro del carcere di Bari, però, è ancora da scrivere. Scartata l’ipotesi, al momento, di una nuova casa circondariale, si lavorerà per ricavare altri spazi: “Analizzeremo la planimetria dell’istituto - ha detto Sisto. Magari si potrebbe utilizzare l’area dell’archivio o quella femminile”, al momento non utilizzata, “per la quale c’è un finanziamento da 4 milioni che consentirebbe di recuperare 29 posti. Nelle aree trattamentali, però, i detenuti hanno bisogno di spazi per attività, teatro e corsi”, assistiti anche dai 5 educatori in servizio nel carcere barese. Bolzano. L’Asl: “Monitoriamo già la salute dei detenuti” di Othmar Seehauser salto.bz, 24 agosto 2024 L’Azienda sanitaria replica all’associazione Luca Coscioni. “Condizioni igienico-sanitarie influenzate dalla struttura, ma il nostro personale è presente”. L’Azienda sanitaria dell’Alto Adige replica all’Associazione Luca Coscioni che l’aveva diffidata - insieme ad un centinaio di altre Aziende - a procedere a sopralluoghi in carcere per verificare la situazione a livello igienico sanitario e se siano rispettate tutte le profilassi e la dotazione di servizi socio-sanitari previsti dalla normativa. “Gli aspetti igienico-sanitari nel carcere di Bolzano - si legge in una presa di posizione inviata a SALTO - sono influenzati dalle caratteristiche strutturali dell’edificio e le misure igienico-sanitarie che si rendono necessarie vengono attuate in stretta collaborazione con il servizio di igiene e sanità pubblica e la direzione del carcere”. L’Azienda sanitaria dell’Alto Adige, prosegue la nota, “è presente con proprio personale nella Casa Circondariale di Bolzano per garantire le prestazioni sanitarie richieste dalla popolazione carceraria. L’assistenza sanitaria di base è garantita da un’équipe di medici e infermieri. A ciò si aggiunge l’assistenza fornita dal Servizio per le dipendenze (Ser.d) che si occupa dei detenuti con i relativi problemi. Un team di psicologi e psichiatri dell’Azienda sanitaria fornisce assistenza psicologica ai detenuti, con particolare attenzione alla prevenzione dei suicidi. La situazione di salute dei detenuti - sia fisica che psicologica - è quindi costantemente monitorata dall’Azienda sanitaria. Se necessario, le misure di carattere igienico-sanitario possono essere adottate in breve tempo. È stato così, ad esempio, in occasione dell’epidemia di scabbia della scorsa primavera, quando sono state immediatamente introdotte, in collaborazione con la Protezione Civile, misure per contenere la diffusione di questa malattia infettiva”. “I problemi strutturali del carcere di Bolzano - conclude la nota - sono ben noti e influiscono anche sull’assistenza sanitaria dei detenuti. Ciononostante, l’Azienda sanitaria dell’Alto Adige sta facendo tutto il possibile, grazie all’impegno e alla dedizione del personale, per garantire adeguata assistenza sanitaria e, in collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria, gli standard di igiene compatibili con le caratteristiche della struttura”. Parma. Carcere, in via Burla 700 detenuti e 364 agenti di polizia parmatoday.it, 24 agosto 2024 L’allarme di Europa Verde: “Sono 655 i posti a disposizione, con 68 detenuti al 41 bis, un centinaio in attesa di giudizio, oltre 400 con pena inferiore ai cinque anni, oltre 200 stranieri”. Anche il gruppo consiliare Europa Verde-Verdi-Possibile ha partecipato questa mattina all’iniziativa “Ristretti in agosto”, organizzata dall’Unione delle Camere Penali Italiane. È stata un’occasione importante per entrare direttamente a contatto con i detenuti e raccogliere le loro rimostranze, lo sconforto, ma anche le speranze, i progetti e le testimonianze di percorsi virtuosi in linea con quanto previsto dalla nostra Costituzione. “I numeri li conosciamo: circa settecento detenuti (rispetto ad una capienza di 655), di cui 68 al 41 bis, un centinaio in attesa di giudizio, oltre 400 con pena inferiore ai cinque anni, oltre 200 stranieri, 364 agenti di polizia penitenziaria, 11 educatori, 4 psicologi, 21 medici, 160 detenuti inseriti in percorsi di studio, casi di autolesionismo ed aggressioni in aumento… E il dato drammatico di pochi giorni fa, del terzo suicidio dall’inizio dell’anno. La risposta del Governo italiano con il suo Decreto carceri è del tutto inadeguata all’urgenza e alla dimensione dei problemi accumulati in tani anni di assenza della politica. L’Alleanza Verdi e Sinistra, che rappresenta Europa Verde in Parlamento, non ha mancato di sollecitare l’esecutivo anche in questi giorni, in particolare con il lavoro in Commissione Giustizia dell’On. Devis Dori. Ma al di là del dibattito in corso a livello parlamentare, la visita all’Istituto penitenziario di via Burla ha confermato la necessità di interventi specifici nella struttura, per porre rimedio a vari problemi, molti dei quali già evidenziati dal prezioso lavoro della Garante per i diritti dei detenuti. Ci sono apparecchiature di videosorveglianza che non funzionano, rendendo più pesante il lavoro delle guardie carcerarie, l’assenza di climatizzazione con l’unica opzione dell’acquisto di un ventilatore, c’è una palestra senza attrezzature, guasti di ogni genere che richiederebbero poco per essere riparati, lungaggini per assegnare spazi utili ad attività quotidiane come il lavaggio e l’asciugatura degli indumenti, un costo esagerato di due euro a telefonata ed una sistematica mancanza di risposte alle varie richieste che si perdono nel nulla, soprattutto per mancanza di personale. Ci sono tuttavia le esperienze di tanti che sono riusciti a raggiungere un titolo di studio, di chi ha trovato un’occupazione temporanea all’interno del carcere (assistenza sanitaria, recupero di pc, cucina, ecc.), trovando in questa un elemento di sicurezza in più per il futuro reinserimento e di chi si attiva per essere messo nelle condizioni, come tutti i cittadini, di raccogliere i rifiuti in modo differenziato. Europa Verde - Verdi - Possibile, pur riconoscendo l’importanza di un adeguamento delle norme nazionali, vede molto spazio di azione a livello comunale ed è su questo che l’amministrazione si dovrebbe concentrare. Ci sono centinaia di detenuti, in buona parte giovani, con pene inferiori ai quattro anni, che dovrebbero trovare in altri luoghi, diversi dal carcere, una misura alternativa alla pena. C’è molto da fare su questo fronte, se pensiamo che addirittura lo stesso Comune di Parma non è iscritto tra gli enti convenzionati per i lavori di pubblica utilità! Così come si può fare molto per rilanciare l’attività di volontariato e più in generale combattere una cultura giustizialista che ancora pervade tanti ambiti della nostra comunità locale” si legge in conclusione di nota. Avezzano (Aq). Il giudice nega gli arresti domiciliari, detenuto tenta il suicidio di Manlio Biancone Il Messaggero, 24 agosto 2024 L’altra sera, un detenuto del carcere di Avezzano, di origine nordafricana, ha tentato il suicidio in cella ingerendo delle pile. Tempestivo l’intervento di un agente di polizia penitenziaria, che ha salvato la vita al detenuto. L’uomo è stato immediatamente trasferito al pronto soccorso dell’ospedale di Avezzano, dove i medici gli hanno prestato le prime cure, e ora è sotto stretta sorveglianza. Non è in pericolo di vita, ma il materiale ingerito potrebbe causargli seri problemi allo stomaco. Non è il primo caso: ogni giorno, nelle carceri abruzzesi, un detenuto si autolesiona ingerendo chiodi, pile, lamette o procurandosi tagli sul corpo. Tuttavia, il detenuto marocchino avrebbe tentato di togliersi la vita perché non aveva ottenuto dal giudice la concessione della misura alternativa al carcere. Pare che il suo avvocato abbia richiesto per ben quattro volte al Gip gli arresti domiciliari, ma il giudice ha regolarmente rigettato la richiesta. È importante sottolineare che il detenuto, responsabile di decine di reati, aveva già ottenuto in passato per ben due volte la misura cautelare degli arresti domiciliari, ma nonostante il braccialetto elettronico, continuava a girare per la città commettendo furti e rapine. L’uomo, 29enne, è inoltre accusato di essere il responsabile di alcune “spaccate” ai negozi del centro città. Per questi reati era stato anche posto agli arresti domiciliari, ma avrebbe continuato a delinquere, sfuggendo abilmente alle forze dell’ordine. In molti ricorderanno come le ripetute “spaccate” ai negozi avessero creato preoccupazione in città, spingendo i commercianti a richiedere maggiore vigilanza e controlli durante la notte. Dopo mesi di accertamenti e grazie alla videosorveglianza di Avezzano, l’uomo fu identificato come l’autore della prima di una serie di spaccate avvenute in centro. Fu incastrato da una bicicletta verde e nella sua abitazione gli inquirenti trovarono un borsone vintage pieno di camicie da uomo, borse e scarpe da donna rubate da un negozio. Aveva nascosto la refurtiva lungo la rampa della palazzina accanto, e verso le 8 del mattino era tornato per recuperare gli abiti. Il tutto fu filmato dalle telecamere. Dopo questo episodio, l’uomo fu seguito dalle forze dell’ordine, fino a due notti fa, quando fu arrestato in flagranza. Lo straniero, oltre alle “spaccate”, è accusato anche di rapina e spaccio, e per questo si trova nel carcere di Avezzano. Torino. Le donne alle Vallette scrivono a Mattarella: “Vogliamo giustizia” di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 24 agosto 2024 Il blocco femminile ospita 125 detenute. Tutte si sentono dimenticate. Quell’arco bianco decorato e così elegante quasi stona in mezzo a quei caseggiati bassi e fatiscenti. È il padiglione femminile. Già dall’entrata sembra diverso da tutto il resto del carcere. Si entra in biblioteca per incontrare le detenute. Stanno guardando un dvd tutte insieme. La prima immagine è quella di una detenuta transgender che sta accarezzando, con fare materno, un’altra detenuta, minuta, ma indubbiamente più che adulta. È Lisa. Non so cosa abbia fatto Lisa, ma è chiaro, per chiunque la veda, che la donna non ha gli strumenti cognitivi per stare in carcere. Di lei si occupano le sue compagne. Nonostante Lisa ogni tanto non le lasci dormire, quando la notte, in preda alle crisi, tiene tutto il padiglione sull’attenti. Alle Vallette ci sono 125 donne. Tra loro anche due persone molto note, Veronica Panarello, la mamma del piccolo Lorys Stival, condannata a 30 anni per l’omicidio del figlio. Ora studia per diventare un’operatrice sociale. C’è anche “la mantide di Bruino”, Maria Teresa Crivellari. Sta scontando l’ergastolo per aver ucciso la moglie del suo amante nel 2010. Mentre nei padiglioni maschili alcuni reati rendono un detenuto meno accettato dai compagni, qui le donne sono tutte insieme e non si giudicano. La biblioteca si riempie rapidamente e dentro quella stanza ci saranno almeno 40 detenute. C’è Letizia, 24enne completamente tatuata. Faceva la mistress e un suo cliente ha cercato di abusare di lei. “Per paura che lo denunciassi, come volevo fare, mi ha preceduta. Condannata per rapina tre anni fa. Esco a ottobre. Quando mi hanno arrestata non avevo un soldo, nemmeno per mangiare o comprare l’acqua”. Letizia oggi beve pochissima acqua. Per settimane si attaccava al rubinetto di quella non potabile. “È come se fossi rimasta traumatizzata. Poco dopo il mio arresto è morto mio padre, poi il mio cane. Mio fratello si è ammalato e mia mamma sta impazzendo. Non so come farò quando sarò fuori.” C’è Natalia, arrestata a luglio per un reato del 2004. “Dov’è la giustizia in questo Paese?” e via così, un fiume di racconti dove non basterebbero cento pagine. Ma una cosa la ripetono tutte, in coro. “Vogliamo giustizia. Sappiano che facciamo sul serio. Il sistema andrebbe riformato da zero, questo modo di scontare la pena non serve”. Una di loro mi porge un foglio e mi invita a tenerlo. Una lettera. Alcuni stralci sono stati pubblicati da media e giornali. In questa si annuncia uno sciopero della fame, a cui prenderanno parte praticamente tutte le detenute, comprese le malate oncologiche come Maria: “La responsabilità politica è diffusa. Questa emergenza carceri non è di oggi. Il nostro padiglione sicuramente è più pulito degli altri. ma comunque cade in pezzi. Anche da noi non mancano le blatte e i cuscini e i materassi si sono sbriciolati. In cella non abbiamo le sedie, mangiamo sedute sui letti.”. Una protesta pacifica e lontana anni luce da quelle rivolte che riguardano i padiglioni maschili, da cui le donne si discostano. Unite, tutte dalla stessa parte, educate, ma sfrontate allo stesso tempo. Un femminismo diverso da quello che viene raccontato sui social, un’immagine che rende giustizia alla definizione del termine, più di qualsiasi enciclopedia. Lisa intanto calza delle scarpe con il mezzotacco di un numero molto più grande del suo piede. “Sono bella?”, chiede alle altre. “Lisa non è seguita nemmeno da un avvocato. Nessuno in questi anni è venuto mai da lei. Parenti, amici, legali”, sussurra una di loro. “Chiamami Vera” esordisce lei. “Andremo avanti a oltranza. Chi se la sente farà anche lo sciopero della sete. A cosa serve il decreto carceri? A nulla. Cosa deve succedere qua dentro ancora?”. Vera chiede giustizia per tutte. Scendono altre donne. Non fanno caos, non urlano. Ma il rumore delle loro parole è assordante. Il personale penitenziario ha preso più che sul serio la protesta imminente delle detenute. Dalla dirigenza rassicurano che le donne saranno seguite e assistite quotidianamente. “I giornali ne hanno parlato qualche giorno, nessuno è venuto a chiederci di più nonostante tutto ciò abbia avuto una risonanza mediatica importante”. Quella lettera, in effetti, è arrivata anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Lettera che ci è stata affidata dalla mano di chi l’ha scritta a nome di tutto il padiglione e che pubblichiamo integralmente, in esclusiva, sul sito del giornale. La lettera delle detenute del padiglione femminile delle Vallette: lo sciopero della fame in nome dei diritti Le donne si rivolgono al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “Questo modo di scontare la pena non serve né a noi ‘carnefici’, né alle vittime né alla società libera”. “Indignati tutti per le condizioni della Salis? E per noi? Valiamo meno perché? A noi i politici non si interessano perché siamo interdette al voto? Perché il nostro nome sul giornale non è associato a un logo di un partito?”. Forse, la legge sarà uguale per tutti. Il modo di scontare la pena, invece, non lo è. Forlì. Carcere, la Bernini in visita: “Funziona, ma avanti col nuovo” di Matteo Bondi Il Resto del Carlino, 24 agosto 2024 La ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, è stata in visita ufficiale alla casa circondariale di Forlì “all’interno della campagna ‘Estate nelle Carceri’ promossa dal leader di Forza Italia, Antonio Tajani”, come ricordato dall’onorevole Rosaria Tassinari che ha accompagnato la ministra, insieme all’assessora comunale al welfare, Angelica Sansavini. Una struttura, quella del carcere della rocca, che la ministra conosceva già, come ha ricordato lei stessa, “avendo lavorato all’Università di Forlì. Ho trovato un carcere molto ben organizzato - ha affermato Bernini in uscita dalla visita -. La direttrice, il personale di polizia penitenziaria, tutti coloro che collaborano ad ogni livello sono dei veri professionisti”. Un incontro che aveva lo scopo di ascoltare, come dichiarato dalla ministra, e “capire quali fossero le esigenze - ha sottolineato -, prima fra tutte quella di nuova edilizia carceraria. Questa è una vecchissima storia, io ancora insegnavo all’Università di Forlì quando nacque il primo progetto del nuovo carcere al Quattro: era il 2007. Mi impegnerò per capire quale sia lo stato dell’arte della nuova struttura, perché questo è molto ben gestito, organizzato sotto tutti i profili, ma è un carcere vecchio”. Una condizione che però non inficia la qualità dei servizi, come ha riconosciuto Bernini. “Grazie alla direttrice, alla polizia carceraria, ma anche grazie al mondo dell’imprenditoria e del volontariato - rimarca la ministra, ricordando la visita appena conclusa ai laboratori interni alla struttura -. Elementi che sono importanti per dare una nuova dignità alla loro esistenza in carcere, perché il lavoro ha un valore, loro vengono pagati per questo e comprendono che un futuro esiste anche fuori da qui”. Una funzione rieducativa importantissima soprattutto dopo aver scontato la pena. “Questo è un carcere prospettico - riconosce la ministra -, stanno facendo le cose giuste nella giusta maniera, le dimensioni aiutano perché non è un grande carcere. Abbiamo visitato anche la sezione Oasi, dove ci sono i sex offender, ma anche qui ci sono laboratori che consentono di avvicinarsi ad attività ricreative, aiutando a fare in modo che la socializzazione sia meno difficile”. La visita alle carceri continuerà anche per la ministra nei prossimi giorni, mentre in giornata era stata ospite al Meeting di Rimini. Milano. Ottanta ventilatori per i detenuti: “Donati grazie alle associazioni” di Marianna Vazzana Il Giorno, 24 agosto 2024 Iniziativa lanciata da Alessandro Giungi (Pd): “Apparecchi consegnati nelle carceri di San Vittore e Opera”. La raccolta andrà avanti per tutta l’estate grazie alla mobilitazione di più realtà cittadine tra cui Aiutility. “Abbiamo consegnato 80 ventilatori nelle carceri, tra San Vittore e Opera. E non ci fermiamo”. Un modo per portare conforto a chi si trova in cella e che combatte (anche) contro il caldo in queste giornate roventi d’agosto. Lo fa sapere Alessandro Giungi, consigliere comunale Pd, vicepresidente della sottocommissione Carceri. “I dispositivi anti caldo ci sono, nelle strutture - spiega il consigliere - ma capita che alcuni siano obsoleti o che si rompano per l’utilizzo. Oppure, viste le alte temperature, banalmente ne servono di più. Per questo ci siamo attivati: con me, tanti milanesi e associazioni cittadine. Abbiamo fatto rete riuscendo a raccogliere decine di ventilatori”. Alcuni usati ma perfettamente funzionanti e altri nuovi, che benefattori hanno voluto donare. “Ringrazio tutte le realtà che si stanno prodigando; un grazie speciale ad Aiutility”, fondata durante la pandemia e poi rimasta in vita per aiutare le persone in difficoltà e promuovere iniziative nei quartieri della città. Il “motore” è Cristina Campanini, medico di base, che dopo Ferragosto ha lanciato un appello per raccogliere ventilatori che poi ha stoccato nel suo studio fino alla consegna nelle carceri. “Adesso proseguiamo”. Nei giorni scorsi San Vittore è tornato alla ribalta, dopo la visita dell’eurodeputata di Alleanza Verdi Sinistra Ilaria Salis che ha evidenziato “la situazione di sovraffollamento, assolutamente terribile. In base ai dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è emerso, San Vittore ha una capienza massima di 749 posti, eppure attualmente ospita 1.111 detenuti. Non solo: “Alcune celle sono davvero troppo piccole, non c’è spazio per muoversi, alcuni sono costretti a stare tutto il tempo in branda”. L’eurodeputata ha anche sottolineato “la carenza di impianti di termoregolazione: i ventilatori non sono sufficienti”. Si capisce, quindi, quanto l’iniziativa di donarne altri sia importante. “Un modo per far sentire ai detenuti la presenza delle istituzioni e delle associazioni che si stanno impegnando”, conclude il consigliere Giungi. La raccolta proseguirà per tutta l’estate. Gorgona (Li). L’ex direttore del carcere: “Ideale per i detenuti e il turismo ne può beneficiare” di Stefano Taglione Il Tirreno, 24 agosto 2024 Carlo Mazzerbo è stato a lungo a capo del penitenziario dell’isola e di quello di Livorno: “Loro guide perfette per i vacanzieri”. Gorgona è un progetto di reinserimento sociale che funziona, una colonia penale agricola che andrebbe però adeguata ai cambiamenti della società. Oggi c’è la possibilità, per i turisti, di seguire i detenuti nelle loro attività quotidiane. Non solo andando in giro con una guida ambientale, ma anche insieme a un ospite dell’isola. Possono vivere un’esperienza diretta, si chiamano visite sociali e bisognerebbe incentivarle, integrandole col territorio. Per molti, Gorgona, è un mondo sconosciuto: non è solo un paradiso naturalistico”. A parlare è Carlo Mazzerbo, fino a pochi mesi fa direttore delle carceri di Livorno e Gorgona, dove due anni fa ha accolto anche l’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia, e in passato anche al timone dei penitenziari di Porto Azzurro, e quindi Pianosa, e Massa Marittima. Oggi, in pensione, è entrato in politica, candidandosi in consiglio comunale a Livorno con la lista “Prospettiva Livorno” a sostegno di Valentina Barale. Mazzerbo, Gorgona in quanto a rieducazione dei detenuti è definita un modello... “Lo è: qui gli ospiti imparano a svolgere un mestiere prima di riacquistare la libertà. Basta analizzare il tasso di recidiva: due persone su tre dopo non tornano più in carcere. È una percentuale altissima, inarrivabile altrove”. Lei è rimasto in contatto con qualche detenuto? “Mi capita di incontrarne a Livorno, alcuni sono stati assunti da un’azienda edile. Un altro signore, qualche settimana fa, mi ha salutato con il motorino in via Grande. Altri, pur avendo riacquistato la libertà, ricordano con piacere il periodo trascorso sull’isola, qualcosa che deve farci riflettere sull’efficacia dell’isola-carcere”. Come si può conciliare il turismo con una colonia penale agricola? “La colonia penale agricola va adeguata ai tempi, integrandola con il territorio. Prima le persone che venivano a Gorgona i detenuti non potevano nemmeno vederli da lontano, ora invece possono parlarci e seguirli nelle loro attività giornaliere. È un luogo sicuro per i turisti e prima non era affatto scontato che lo fosse, mi piace ricordarlo, perché è una nostra conquista. Chi viene qui in visita ha la possibilità di riflettere sul mondo che vede: persone che nel rispetto della legge scontano una pena che punta sulla rieducazione e sul loro recupero”. A Gorgona si impara un mestiere... “Nelle isole-carcere, in generale, si impara questo. In un momento storico in cui c’è tanto bisogno di manodopera i detenuti possono apprendere a lavorare come muratori o ad esempio come cuochi, baristi o camerieri Ma il mondo è cambiato e, lo ripeto, bisognerebbe fare di luoghi come Gorgona basi per la formazione professionale, così chi vuole riscattarsi può giocarsi questa carta. Per fare il manovale, ad esempio, servono nozioni nuove, prima magari meno importanti. La colonia penale deve tenerne conto”. Lei è a favore delle carceri sulle isole? “Certo: il bassissimo tasso di recidiva lo conferma. Merito soprattutto di poliziotti, psicologi, educatori e operatori in generale, che con i detenuti svolgono un grande lavoro. Andrebbero remunerati meglio e si dovrebbero garantire loro collegamenti veloci con la terraferma, dato che sono giovani che rinunciano ad alcuni piaceri della vita per vivere e lavorare in un’isola. Inoltre, lavorando a Gorgona, fanno un’esperienza che in futuro potrà essere utile in altre carceri italiane. Per questo sono a favore delle isole-carcere”. A Pianosa lei lo avrebbe riaperto il penitenziario? “Pianosa è l’esempio del fallimento dello Stato: poco prima della chiusura del penitenziario sono stati spesi 30 miliardi di lire per il 41-bis e per opere, inutili dato che è stato chiuso dopo pochi mesi, come la caserma Bombardi. L’isola ha tanti vantaggi, l’elettricità e il molo per le grandi navi ad esempio, quindi potrebbe essere utilizzata come carcere aperto, una seconda Gorgona per recuperare le persone. L’amministrazione secondo me ha perso la possibilità di valorizzarla. Oggi, senza le isole-carcere, molti detenuti in Italia non nutrono più la speranza di arrivarci, perché per loro sono luoghi ambiti, attraverso la buona condotta”. Mistretta (Me). Il sindaco che vuole il super carcere: “Regalo io i terreni allo Stato” di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 24 agosto 2024 La scelta (controcorrente) di Sebastiano Sanzarello, primo cittadino di Mistretta, nel Messinese. Pronta la delibera: vale 15 milioni. Il politico: “È incomprensibile il silenzio delle istituzioni alla mia proposta”. “Siamo pronti a donare allo Stato un’area di dieci ettari, dal valore di quindici milioni di euro, per costruire un nuovo carcere di alta sicurezza che risolverebbe i problemi di sovraffollamento dei detenuti nei penitenziari siciliani: purtroppo non abbiamo ricevuto risposte dai ministeri”. Sebastiano Sanzarello, sindaco di Mistretta, 4.284 anime nel Messinese, non si spiega il motivo: “È davvero incomprensibile questo silenzio”. Il sovraffollamento - Eppure la situazione delle carceri la fotografa il ministero della giustizia: al 31 luglio ci sono 61.465 detenuti contro una capienza regolamentare di 51.282. Il problema è sui tavoli della politica e attende soluzioni. “Già da domani si potrebbero aprire i cantieri perché l’area è burocraticamente disponibile in quanto nel nostro piano regolatore è destinata a penitenziario - spiega il politico, già assessore regionale alla sanità, senatore ed eurodeputato - e si trova a poche centinaia di metri dall’ospedale e dall’elipista. Stiamo realizzando un invaso idrico che la metterebbe al riparo dalla siccità. In più abbiamo una compagnia dei carabinieri, un distaccamento dei vigili del fuoco e della protezione civile”. Il sindaco non le manda certo a dire. “Conosco bene i meccanismi della politica e non mi ritrovo in quella di oggi dove al posto delle soluzioni si rincorrono i like - aggiunge il 72enne, urologo in pensione -. Mi spieghino perché se c’è un sindaco pronto a risolvere un grave problema, non riceve risposte”. I fondi - In passato si era già pensato di costruire un nuovo istituto di pena a Mistretta. “L’allora ministro Angelino Alfano aveva già stanziato 42 milioni di euro ma, poi, il governo Monti li ha revocati”, spiega il sindaco che non vuole sentir parlare di carenza di fondi. “Ma per piacere! Spendiamo milioni di euro in multe perché molte strutture non rispettano la dignità umana e io lancio un appello al governo Meloni”. Quale? “Quei soldi siano impiegati per realizzare una struttura moderna che decongestioni le carceri siciliane, assorbendo i detenuti in alta sicurezza in un luogo a metà strada fra Palermo e Messina e a dieci chilometri dallo svincolo autostradale A-20 di Santo Stefano di Camastra. Oltre che collegata a Catania dalla Statale 117”. Il senatore Sanzarello ha anche un’idea su come eventualmente reperire questi soldi: “Ci sono strumenti di finanza pubblica moderna come il leasing”. Sui tempi aggiunge: “Il ponte Morandi ha dimostrato che una grande opera si può fare in meno di due anni”. La condivisione - Sanzarello è convinto che i suoi concittadini non protesteranno: “Mistretta ha 2.700 anni di storia e non ci sarebbero problemi sociali perché abbiamo sempre convissuto con un carcere: sino alla chiusura nel 2014, sorgeva, addirittura, sul corso principale”. Roma. Beniamino Zuncheddu dal Papa: “Gli scrivevo dal carcere e lui rispondeva” Avvenire, 24 agosto 2024 Il pastore sardo, in cella da innocente per 33 anni, ha incontrato Francesco in Santa Marta. Tra i due per anni è andato avanti un rapporto epistolare: “Bellissimo poterlo abbracciare”. Era uno dei desideri che voleva avverare, quello d’incontrare il Papa, Beniamino Zuncheddu. E alla fine ce l’ha fatta: “È stato bellissimo”. Il pastore sardo in carcere da innocente per trentatré anni alle 10 di stamane, a Santa Marta, ha abbracciato Bergoglio. Lui e Francesco s’erano già incontrati anni fa, quando Beniamino era ancora recluso a Cagliari, in occasione di una visita del pontefice nell’istituto di pena. Zuncheddu era stato selezionato tra i detenuti per leggere il messaggio per il Papa. “Siamo poi rimasti in contatto epistolare. Gli scrivevo durante la revisione del processo - ha rivelato oggi l’uomo ai giornalisti -. Il Papa mi ha sempre assicurato le sue preghiere. Per me erano motivo di conforto e speranza. Oggi l’incontro: una bellissima esperienza. Ci siamo ringraziati a vicenda”. All’incontro hanno preso parte anche l’avvocato di Zuncheddu, Mauro Trogu con la sua famiglia, il parroco e il sindaco del paesino sardo del pastore, la sorella di Zuncheddu: “Anche io ho assicurato le mie preghiere al Papa - ha detto Zuncheddu -. Ci siamo stretti la mano. L’ho visto un po’ affaticato”. ‘Nel corso della revisione del processo, ha poi raccontato il legale, “Beniamino aveva scritto al Papa chiedendo le sue preghiere. Il Pontefice aveva sempre risposto. Uscito dal carcere, Beniamino, attraverso il parroco di Burcei e il vescovo di Cagliari Baturi, aveva scritto nuovamente al Pontefice dicendogli che gli sarebbe piaciuto incontrarlo. Era uno dei pochissimi desideri espressi da Beniamino all’uscita dal carcere. È stato esaudito”. Zuncheddu, che oggi ha 60 anni, col suo avvocato ha scritto un libro intitolato “Io sono innocente”, che ha consegnato al Papa. Tra le pagine, la tragica esperienza che ha vissuto per così tanto tempo: il trasferimento in tre carceri diverse, l’esperienza del sovraffollamento, la disperazione per non essere creduto. E nonostante questo, un’incrollabile fede, che alla fine gli ha anche permesso di perdonare chi lo aveva indicato come il pluriomicida ritrattando poi le sue accuse. Verona. Il cinema “entra” in carcere e i detenuti diventano giurati Corriere del Veneto, 24 agosto 2024 Trentesima edizione per il Film Festival della Lessinia dedicato alla montagna e che anche quest’anno fino al 26 agosto “entra” nelle carceri di Verona e Venezia i cui ospiti potranno non solo assistere ai film con le loro famiglie ma anche far parte di giurie speciali per l’assegnazione di premi. Mentre la politica continua scontrarsi senza soluzioni con il dramma delle carceri sempre più sovraffollate - in un clima di crescente tensione con le proteste anche violente di Regina Coeli, di Casal del Marmo, del Pratello minorile a Bologna, solo per citare quelle degli ultimi giorni - c’è un pianeta di impegno parallelo che si ostina a proporre con regolarità, e nonostante le difficoltà, iniziative per portare se non soluzioni almeno sollievo in quel contesto. Tra questa le rassegna cinematografica internazionale che da trent’anni racconta la montagna, il Film Festival della Lessinia (FfdL) che si svolge dal 23 agosto a Bosco Chiesanuova (Verona), e che anche questa volta in Veneto “entra” in tre penitenziari per offrire le proiezioni dei film in programma ai detenuti e alle loro famiglie. Gli istituti coinvolti sono la Casa circondariale di Montorio Veronese e, a Venezia, la Casa circondariale di Santa Maria Maggiore e la Casa di reclusione femminile Giudecca, dove lunedì 26 agosto nell’ambito della rassegna entrerà anche Gigliola Cinquetti per incontrare le detenute. La manifestazione ha stabilito uno stretto e importante rapporto con il mondo delle carceri fin dalle sue prime edizioni, offrendo alle persone detenute la possibilità di un ideale viaggio al di là delle mura e delle sbarre ricevendo in cambio una presenza di densa umanità: la partecipazione come giurati e negli importanti panni di responsabili della ristorazione presso la Trattoria Sociale e in questa edizione anche come produttori di merchandising grazie alla collaborazione con la cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri e ai gadget delle Malefatte. Nella Casa circondariale di Santa Maria Maggiore e nella Casa di reclusione Giudecca di Venezia - quella che tra l’altro ha accolto per l’ultima Biennale il padiglione del Vaticano - sono allestite due sale per i figli dei detenuti e delle detenute che, insieme alle loro famiglie, potranno assistere a una selezione di film d’animazione e cortometraggi: i più piccoli voteranno la loro opera cinematografica preferita assegnando due premi come Giuria dei bambini. Nella Casa circondariale di Verona invece, da tredici anni, i detenuti costituiscono a loro volta una giuria che dopo la visione delle opere cinematografiche in concorso assegna un premio speciale. Anche quest’anno, a Bosco Chiesanuova, si rinnova tra l’altro la collaborazione con la Casa Circondariale di Verona e l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna (Uepe) per l’impiego di volontari all’interno della Trattoria Sociale in cui lavorano fianco a fianco persone svantaggiate, volontari della Casa Circondariale e seguiti dall’Uepe, ospiti e lavoratori della cooperativa sociale Panta Rei, minori non accompagnati della comunità educativa La Cordata di Corbiolo, persone in carico ai servizi sociali di Bosco Chiesanuova, studenti delle scuole veronesi e volontari del team del Festival. Un’esperienza di relazione, acquisizione di competenze, inclusione, riscatto e apertura per opportunità di impiego future. “Un vuoto dove passa ogni cosa”. Trent’anni senza la fondatrice di Nessuno tocchi Caino di Cecilia Gabrielli L’Unità, 24 agosto 2024 Nessuno tocchi Caino organizza due eventi per ricordare la sua fondatrice, Mariateresa Di Lascia, a settant’anni dalla sua nascita e trenta da quando è venuta a mancare. Il primo evento si svolgerà il 30 agosto nella Casa di reclusione di Opera, nel teatro intestato a Marco Pannella, insieme ai detenuti e ai “detenenti”. Il secondo si svolgerà il 7 settembre, presso l’auditorium Santa Chiara a Foggia, nella sua terra d’origine che ispirò il romanzo “Passaggio in ombra” con cui Mariateresa vinse, postumo, il Premio Strega. Mariateresa Di Lascia, l’ho sentita le prime volte a Radio Radicale, che era sempre accesa nello studio di mio padre la mattina presto. Così è entrata nella mia vita di liceale insonnolita, con la voce giovane e vera che non mascherava niente e l’energia ostinata di attivista che la fece presto vicepresidente del Partito Radicale. Erano gli anni della nonviolenza, del digiuno che rivoluzionava il nostro monotono mondo, delle battaglie contro la fame nel mondo. A un certo punto mio padre andava borbottando che si era messa in testa di far riconoscere uno status giuridico all’omeopatia, per consentire al cittadino di ricevere un’informazione corretta sui metodi di cura ed esercitare, di conseguenza, un reale diritto di scelta. E io pensavo che lui si confondesse con i nomi come gli capitava spesso, che non c’entrasse niente Mariateresa Di Lascia con l’omeopatia, che fosse un’altra persona. Sedevo tra i banchi della facoltà di Scienze politiche, qualche anno dopo, quando lessi che Mariateresa Di Lascia con Sergio D’Elia e Marco Pannella stava fondando Nessuno tocchi Caino e anche quella volta mi venne il dubbio di essermi confusa, mi chiesi se non fosse un’altra persona. Poi, nel 1995, vinse il premio Strega un romanzo che s’intitolava Passaggio in ombra, ne parlavano tutti e l’autrice era una certa Mariateresa Di Lascia. Pensai ancora una volta che i ricordi mi ingannassero, pensai che fosse un’altra e corsi ad accaparrarmi il romanzo. In copertina scoprii che era sempre lei, ma che purtroppo era sempre stata lei, perché era mancata pochi mesi prima, a soli quarant’anni. Ci rimasi male, ero delusa anche dalla mia pigrizia negli anni precedenti, e mentre assaporavo il romanzo in cui si difende “la libertà di non avere nessuna forma”, mi misi a leggere spasmodicamente di lei nel tentativo di afferrare tutte le sfaccettature di un diamante che mi sfuggiva. Così, solo nel tempo, forse, sono riuscita a comprenderla, di certo dopo aver smesso di sorprendermi della sua ricchezza di passioni e impegni. Allora ho potuto apprezzare e rendermi conto di quanto fosse straordinaria la sua integrità, il fatto, cioè, che ogni azione condotta nella sua vita fosse riconducibile a una solida coerenza interiore, come le facce di un adamantino poliedro guardano al suo centro. Il fulcro di tutta la sua vita è l’attenzione incoercibile all’essere umano, nella sua irripetibile individualità. È l’uno che deve mantenere la sua singolarità nel partito e nella comunità; è l’uno che deve essere rispettato e tutelato nella condanna e nella pena sua propria; è l’uno che ha diritto di essere curato senza che la sua unicità sia erosa da un arido e astratto concetto di malattia. Questo, secondo Maria Teresa Di Lascia, poteva realizzarsi attraverso un sentimento di comunità “religioso” (da religo), per dirla con Marguerite Yourcenar, ossia attraverso una comunità fatta di legami, che non scolorisce i singoli, ma li esalta e consente loro la piena realizzazione che non avrebbero mai da soli. Questo era il suo costruire, un modo di raccogliere e ascoltare i singoli per condurli insieme in qualcosa di più grande. E lei, autrice di vita e non solo di letteratura, sapeva crearne tanti di legami, grazie a quella capacità d’introspezione di cui resta ricca testimonianza persino nei personaggi delle sue opere letterarie. Qui, come scrive Antonella Soldo, l’immaginazione opera come principio di unità per ricomporre i frammenti del reale sulla strada della comprensione. E il motore, aggiungo io, è sempre lo sguardo rivolto all’altro, al punto da riuscire a farsi vuoto e consentire di accogliere e lasciar fluire. Proprio come Mariateresa ha scritto per Elsa, protagonista del racconto Emilio, un amore divino: “Aveva già aperto dentro di sé il canale vuoto dove lasciava che gli altri passassero per poterli meglio ascoltare. (...) Poiché il vero senso della vita è che tutto è uno, ed Elsa aveva sempre cercato l’unità di cose”. Basaglia e la liberazione dei “matti”. Un’opera da continuare anche oggi di Vittorio A. Sironi Avvenire, 24 agosto 2024 Cent’anni fa, l’11 marzo 1924, nasceva a Venezia Franco Basaglia, rivoluzionario critico dell’istituzione psichiatrica. Un personaggio passato alla storia come lo psichiatra che chiuse i manicomi ridando dignità e libertà ai “matti”, ispiratore della legge 180 del 1978 (nota appunto come “legge Basaglia”) che portò di fatto all’abolizione degli ospedali psichiatrici istituendo i servizi territoriali pubblici di igiene mentale. Quello messo in atto dal medico veneziano dopo la laurea e la specializzazione in Psichiatria a Padova - cui seguì la direzione degli ospedali psichiatrici di Gorizia e Trieste - fu un cambiamento radicale non solo nella gestione, ma soprattutto nella concezione della malattia mentale, delineandone anche chiaramente i rapporti con la società e le questioni politiche sottese. Nel ricordarlo su un quotidiano genovese due giorni dopo la sua scomparsa, avvenuta nella città natale il 29 agosto 1980, Alberto Cavallin, psichiatra e politico ligure che aveva conosciuto bene l’opera e il pensiero basagliani, affermava con decisione come “ Basaglia non ha mai negato l’esistenza della malattia mentale che invece conosceva davvero come pochi anche dal punto di vista classico” e sottolineava invece come egli “ piuttosto ha saputo cogliere con rigore e lucidità i rapporti profondi tra la malattia e la società, capace prima di lui di preoccuparsi dei folli solo per segregarli, di una società essa stessa troppo pazza perché la pazzia prendesse ai suoi occhi un senso”. Sosteneva infatti Basaglia con convinzione che “tranne casi sporadici, meno frequenti di quello che si pensa comunemente, la cosiddetta follia è un prodotto della società, delle sue regole costrittive, dei suoi tabù, dei suoi ritmi ossessivi”. E ancora affermava: “ Il matto è semplicemente un diverso reso tale dalle circostanze. Esso può essere restituito alla vita normale, sia pure con qualche accorgimento, se tali circostanze verranno modificate. Se la società e anche la famiglia del malato sapranno vivere e anche elaborare questi concetti senza pregiudizi”. Partendo da questi presupposti, ai quali era arrivato dopo la sua (deludente) esperienza universitaria ma soprattutto a seguito della sua pratica clinica negli ospedali psichiatrici di cui era stato direttore, che lo avevano portato a essere un medico attento ai bisogni concreti e alla personalità dei malati che aveva in cura. Basaglia aveva ipotizzato prima e concretizzato poi la sua “guerra” ai manicomi. Agli inizi degli anni Sessanta, al suo arrivo all’ospedale di Gorizia, egli si trovò di fronte a una realtà che gli fece capire immediatamente che in quel contesto manicomiale - come del resto nelle altre strutture italiane analoghe -, in cui i ricoverati erano trattati senza alcun riguardo per la loro dignità personale, era impossibile che tali pazienti potessero essere realmente curati. Da questa presa di coscienza l’inizio di una radicale battaglia per trasformare prima ed eliminare poi questi “manicomi-lager”, intrapresa in nome di una rivoluzione medica ispirata dalle sue appassionate letture in ambito filosofico di autori come Karl Jaspers, Martin Heidegger, Jean-Paul Sartre, Michel Foucault e dall’azione politica che dai tempi giovanili degli studi padovani agli anni della maturità professionale ed esistenziale lo avrebbe caratterizzato, sino alla gestazione della “sua” legge di riforma dell’assistenza psichiatrica. Basaglia intuì che per fare tornare essere umani questi ricoverati bisognava dar loro la dignità di un lavoro, restituire loro la condizione di cittadini, instaurare una modalità di comunicazione diversa con il medico e con gli infermieri, coinvolgerli in assemblee, in laboratori, fare gite, togliere sbarre, mezzi di contenzione ed elettroshock. Realizzare, cioè, “una società umana” prima dentro l’ospedale, poi fuori di esso, in una dimensione globale in grado di ampliare la prospettiva medico-sanitaria in una più completa visione sociopolitica. È ciò che Basaglia rivendica e ribadisce con forza nel suo libro più famoso, L’istituzione negata (Einaudi, 1968), che diventa non solo il manifesto del suo nuovo modo di concepire la psichiatria, ma anche un riflesso e un motore del Sessantotto, un best-seller del tempo che ebbe un enorme impatto sulla società italiana di quegli anni. “La polemica al sistema istituzionale - scrive infatti Basaglia all’inizio del libro - esce dalla sfera psichiatrica, per trasferirsi alle strutture sociali che lo sostengono, costringendoci a una critica della neutralità scientifica, che agisce a sostegno dei valori dominanti, per diventare critica e azione politica”. La presa di posizione di Basaglia contro l’istituzione psichiatrica investe in tal modo la società stessa che l’ha generata e la sua lotta antistituzionale incontra quella degli operati, degli studenti, delle donne e dei popoli oppressi per un mondo più libero e più giusto. Un’attenta e analitica ricostruzione della sua complessa vicenda umana e professionale si trova in Paolo Francesco Peloso, Franco Basaglia, un profilo. Dalla critica dell’istituzione psichiatrica alla critica della società (Carocci 2024), mentre la raccolta completa dei suoi scritti, con una prefazione di Pier Aldo Rovatti e Mario Colucci, è presente in Franco Basaglia. Scritti 1953-1980 (Il Saggiatore 2023). Due libri fondamentali per conoscere il lavoro dello psichiatra veneziano. Il pensiero e il lavoro basagliani producono idee e azioni che si sviluppano progressivamente e produttivamente nel tempo. Nell’ottobre del 1973 alcuni “psichiatri illuminati e contestatori”, che si ritrovano nelle idee di Franco Basaglia, fondano a Bologna un movimento medico e politico insieme per una lotta contro i manicomi a Trieste, ad Arezzo e nel resto d’Italia per convincere le amministrazioni a sposare una causa di civiltà tesa ad aprire le mura delle istituzioni totalizzanti che racchiudevano “i matti” e per persuadere gli psichiatri, gli psicologi e gli infermieri che il lorio lavorio dentro quelle strutture si fondava su un abuso e su una pretesa di scientificità vaga e malposta. Era un impegno sanitario, etico, politico e culturale necessario e irrinunciabile, che comportava impegni, lotte e confronti aperti con altri modi e altre visioni della salute mentale. Era un percorso professionale che implicava scelte e prese di posizione relative a un modo diverso di stabilire modalità di cura e relazioni umane, restituendo dignità e libertà ai malati psichiatrici. Era l’atto rivoluzionario che dava origine a “Psichiatria Democratica”. I cinquant’anni di fondazione di questa istituzione - che si sono festeggiati lo scorso anno - sono ricordati in un ricchissimo volume di grande formato, curato con viva passione e sicura competenza da Emilio Lupo, Cinquanta straordinari anni di Psichiatria Democratica (M & M Editori, 2023), nel quale sono raccolte, insieme alla storia sull’origine e l’evoluzione del movimento, anche le testimonianze di molti operatori che hanno fatto della loro vita un’esperienza continua di lavoro, di fatica e di tensione quotidiana per un cambiamento reale, tra sogni e speranze, perché venisse restituita “ai matti”, dopo la chiusura dei manicomi, anche sul territorio e nella società quella vita normale, fatta di gesti ormai dimenticati, tipica e propria di ogni persona. Il superamento del tabù della malattia mentale non è ancora una realtà consolidata nella nostra società e i pregiudizi alimentati da una riduzione puramente biologica delle patologie psichiatriche rischiano di ritardarlo ulteriormente. L’attualità dell’insegnamento di Basaglia oggi è quello di ricordare come sia fondamentale, in ambito medico e sanitario, distinguere tra manifestazioni psichiatriche come espressioni sintomatologiche di patologie neurologiche e/o organiche e comportamenti psichici inusuali e/o alterati quali espressioni occasionali e/o abituali di disadattamento sociale. Due situazioni che richiedono differenti considerazioni etiche necessitano di mirati interventi socio-assistenziali e presuppongono soluzioni diverse sul piano istituzionale e terapeutico. La costituzione essenziale di Augusto Barbera Il Foglio, 24 agosto 2024 Come tutelare i “beni comuni” che costituiscono una comunità nazionale. Sapendo distinguere tra i valori costitutivi e i necessari mutamenti. Riforme, biopolitica, diritti. Stralci dell’intervento del presidente della Corte Costituzionale. Il presidente della Corte Costituzionale, Augusto Barbera, ha svolto oggi un approfondito intervento al Meeting di Rimini dal titolo “La Costituzione come bene comune”. Partendo dalla distinzione tra “i principi e i valori costituzionali” e le “strutture di governo” destinate “a possibili mutamenti”, Barbera ha offerto subito una illuminante idea riformista del “bene comune” che è la Costituzione, che mentre tutela i “valori” riconosce anche la necessità di possibili mutamenti: “I principi e i valori costituzionali - che della Costituzione rappresentano l’essenza - vanno distinti dalle strutture di governo destinate a possibili mutamenti”, ha detto. “I primi da conservare e difendere, i secondi, se necessario, da adattare o riformare”. Il presidente ha illustrato il “metodo di lavoro della Corte”, sempre indirizzato a raggiungere il “compromesso più ‘alto’” e un “ragionevole bilanciamento fra diritti o valori aventi pari dignità costituzionale” e ha ricordato come recenti decisioni della Corte possano contribuire anche alla “modernizzazione dell’economia italiana”. Ha infine concentrato l’attenzione del suo intervento “su recenti decisioni strettamente legate a temi etici, tra biopolitica e biodiritti”. Di seguito proponiamo alcuni stralci del suo discorso riguardanti questi argomenti. Corte costituzionale e “beni comuni” - I principi costituzionali costituiscono l’”essenza” di un ordinamento giuridico; danno “identità” a una comunità nazionale; la unificano e ne fanno una comunità politica. Bisogna tuttavia evitare di confondere - riprendo il suggestivo tema del Meeting di quest’anno - l’essenza con l’accidens, ciò che connota le proprietà fondamentali di una entità e ciò che invece può variare nel corso del tempo. Per chiarire questo passaggio anticipo quello che intendo dire: i principi e i valori costituzionali - che della Costituzione rappresentano l’essenza - vanno distinti dalle strutture di governo destinate a possibili mutamenti. I primi da conservare e difendere, i secondi, se necessario, da adattare o riformare. Sono principi che caratterizzano la Costituzione repubblicana e su cui si costruisce il “patriottismo costituzionale” degli italiani: il primato della persona; i doveri e le responsabilità sociali della stessa; il valore e la dignità del lavoro; la libera iniziativa privata; i principali diritti sociali; il principio di eguaglianza e il divieto di discriminazioni per sesso, razza, religione; il ripudio della guerra e la cultura della pace; l’apertura alle organizzazioni internazionali; l’informazione libera e pluralista; la valorizzazione dei partiti e delle altre autonomie sociali. Venivano così ribaltati i principi su cui si reggeva il precedente regime autoritario, il regime fascista: la persona in funzione dello Stato; vista come mezzo non come fine; la esaltazione del principio gerarchico; la esclusiva funzione familiare della donna; il partito e il sindacato unico; la guerra come “igiene del mondo”; il rifiuto dei vincoli internazionali; le varie e pesanti forme di censura. (…) A salvaguardare questi beni comuni è ancora una volta chiamata a concorrere la Corte costituzionale; e in settori spesso di sensibile rilievo per la modernizzazione sia dell’economia, sia delle relazioni sociali. Ho usato l’espressione “bene comune” facendo riferimento ai valori costituzionali espressamente previsti dalla nostra Costituzione non ai vaghi principi di ragione o di giustizia su cui una parte della letteratura nordamericana tenta di costruire una via intermedia tra “originalism” e “progressive constitutionalism” (v. A drian Vermeul, Common Good constitutionalism, Polity Press, 2022, p.117 ss.). Ricordo, per limitarmi a qualche esempio, la decisione con cui nelle settimane scorse è stata dichiarata la illegittimità costituzionale di quella normativa statale che, sospendendo il rilascio di nuove autorizzazioni per i servizi di autotrasporto non di linea, ha consentito “di alzare una barriera all’ingresso dei nuovi operatori”, con grave pregiudizio per i diritti dei cittadini (sentenza n. 137 del 2024). Decisioni importanti per la modernizzazione dell’economia italiana; ma io aggiungo decisioni non meno importanti per la modernizzazione della società civile segnalando le sentenze (131 del 2022 e 135 del 2023 e ord. 18/2021) con le quali la Corte ha stabilito che il cognome dei figli deve riflettere il tratto identitario costituito dal doppio vincolo genitoriale (come richiesto sia dal principio personalista, e sia dal principio di eguaglianza e di parità fra i coniugi) e non deve essere legato, necessariamente, alla secolare tradizione patronimico-patriarcale del capo famiglia (salvo diversa decisione degli stessi coniugi). Segnalo altresì alcune decisioni della Corte costituzionale, le quali hanno definito in modo puntuale il ruolo strategico del terzo settore per l’economia e la qualità della vita democratica del nostro Paese. Come specificato in importanti decisioni, la cura dell’interesse pubblico non è monopolio dell’istituzione pubblica ma coinvolge altri paradigmi (in particolare la sentenza n.131 del 2020 ma anche la n. 72/2022 e n. 191 2022). Importanti, al riguardo, le affermazioni nella giurisprudenza della Corte sul “volontariato” che così riassumo “apertura ai bisogni dell’altro che sottolinea la natura relazionale della persona umana”; “apertura che dà un senso alla propria esistenza aprendosi ai bisogni dell’altro” (Sentt.72/2022; 191/2022). E ciò in sintonia con quanto contenuto nel Codice del Terzo settore (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117) laddove si prevede la co-programmazione e la co-progettazione in tutte le attività di interesse generale, sia per quanto riguarda la individuazione dei bisogni da soddisfare, sia le modalità da seguire per la realizzazione degli stessi. Potrei continuare su questi temi. Preferisco rinviare alla ottima sintesi di Claudio Cerasa (“Il Foglio” del 5 agosto), il quale sottolinea che le più recenti decisioni della Corte consentono “più concorrenza e meno rendite, più mercato e meno corporativismo”. Lascio da parte queste ed altre decisioni intendendo concentrare, nel tempo disponibile, l’attenzione su recenti decisioni strettamente legate a temi etici, tra biopolitica e biodiritti. Bipolarismo etico? Alcune recenti decisioni - Materia assai delicata, sia per i contenuti, sia per i parametri costituzionali da utilizzare, non sempre rimasti immobili rispetto alla loro formulazione originaria (basti pensare al concetto di famiglia cui fa riferimento l’art. 29 della Costituzione). Alle consuete bipolarizzazioni politiche del Novecento, fluttuanti fra la destra e la sinistra (cui aggiungere, oggi, quelle indotte dalla crisi climatica, fra ecologisti e produttivisti), si è andato accompagnando l’emergere di un incerto bipolarismo etico. Da un lato i fautori di un’”etica dei valori”: il valore della vita; il valore della famiglia; l’identità nazionale; la appartenenza ad una confessione religiosa; le appartenenze a comunità, territoriali e culturali; i legami delle tradizioni. Dall’altro versante i fautori di una “etica dei diritti” (talvolta definiti “nuovi diritti”): le decisioni personali sul fine vita; la piena disponibilità del proprio corpo; la libera espressione della sessualità; l’identità personale; la fluidità di genere; la piena espansione dei diritti di inclusione per immigrati ed emarginati. Sottolineare che il primo polo caratterizza la “conservazione” e il secondo il “progresso” coglie solo una parte della realtà, trattandosi di temi che fra loro si intrecciano, talvolta anzi sovrapponendosi. E che attraversano comunque sia le formazioni politiche di destra e sia quelle di sinistra (talora per sensibilità politiche e culturali diverse, talora per mero posizionamento politico). Qualche esempio fra i tanti: tutelare il valore della vita o il diritto del paziente di decidere forme e tempi del proprio congedo dalla stessa? Quale il discrimine? Riconoscere il valore della famiglia, società “naturale” e/o il diritto di una coppia, anche se dello stesso sesso, di dare vita ad una comunità di affetti? L’antico Habeas corpus, dal 1215 nel Regno Unito protegge il corpo da coazioni fisiche esterne, ma può anche - come è stato detto - tradursi in un “nuovo Habeas Corpus”, nella piena e libera disponibilità dello stesso da parte di ciascun individuo? Siamo all’interno di “cleavages” che giungono da oltre Atlantico e percorrono l’Europa e l’Italia (Adornato, in Il Messaggero, 19 giugno 2024; Pallante in La Stampa, 2 agosto 2024). Diverse le ascendenze culturali ma spesso comune è il germe dell’intolleranza (o comunque del conformismo ideologico) sia nel linguaggio woke, sia in quello del politically correct, sia in quello che alimenta la cancel culture. E si tratta di temi che attraversano anche gli stessi movimenti; leggo in questi giorni ferragostani una discussione all’interno dei movimenti femminili fra letture opposte: l’esposizione e l’utilizzazione del nudo femminile continua ad essere una deleteria “mercificazione” maschilista oppure è ormai segno di “liberazione femminile”? Mantenendomi in questo terreno richiamo le più significative decisioni degli ultimi mesi, ma devo in anticipo scusarmi per una inevitabile sovrapposizione di temi fra loro così diversi sul piano umano (ed anche emotivo). Mi riferisco alle recenti decisioni: sul fine vita (con un richiamo a quelle più antiche sulla interruzione della gravidanza); sulla gestazione per altri; sul riconoscimento del terzo sesso; sulla prostituzione come diritto; sulla affettività dei detenuti. Le cito perché in esse la Corte è riuscita, grazie al nostro ordinamento costituzionale, a sfuggire a una paralizzante bipolarizzazione fra “valori” e “diritti”. Suicidio assistito - Nei giorni scorsi la Corte costituzionale ha affrontato il tema del suicidio assistito (giornalisticamente conosciuto come “caso Cappato”). Un tema in cui si manifesta con toni drammatici la bipolarizzazione etica sopra ricordata. La Corte è stata chiamata ad operare una sintesi fra posizioni estreme e opposte; la prima: la vita è comunque un valore ed è inviolabile, non disponibile; l’altra, ogni persona ha il diritto di decidere quando e come congedarsi dalla vita. Nel 2018 di fronte a questioni sollevate da diversi Tribunali sulla legittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale, che punisce l’aiuto al suicidio, la Corte, tramite una tecnica giurisprudenziale innovativa, aveva deciso di rinviare l’udienza in cui avrebbe discusso e poi deciso la causa per consentire al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa (Ordinanza n. 207 del 2018). Nell’inerzia del Parlamento la Corte aveva ritenuto conforme a Costituzione la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio, ma solo in presenza di determinate condizioni; tre in particolare: se si tratta di un paziente pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; che sia affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili; che sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale (così la sentenza n. 242 del 2019). Sulla interpretazione dell’espressione “trattamenti di sostegno vitale” erano sorti molti dubbi (che addirittura avevano spinto alcune Regioni ad intervenire) ed è successivamente stata sottoposta una nuova questione alla Corte. Quest’ultima con la recentissima sentenza del 18 luglio scorso (n. 135 del 2024) cerca di andare al di là del riferimento ai soli trattamenti di sostegno vitale forniti da macchine o congegni elettronici e ha precisato che si può fare comunque riferimento anche a trattamenti compiuti da personale sanitario o da familiari (ad esempio lo svuotamento di vescica o intestino); trattamenti che, se sospesi o rifiutati, determinano la morte del paziente. Nessun cedimento ad inammissibili pratiche eutanasiche. Nella decisione viene affermato che “ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga” e a tal proposito si cita la Sentenza (n. 50 del 2022) con cui la Corte aveva non ammesso il referendum abrogativo che avrebbe di fatto reso legittimi possibili forme di eutanasia; viene invece riconosciuto - lo dico in sintesi - non un diritto a darsi la morte ma, se mai, solo un diritto a lasciarsi morire, rifiutando ulteriori terapie (come consentito dall’art.32 della Costituzione). Solo in taluni limitatissimi casi, sarebbe possibile richiedere un aiuto ad agevolare la propria decisione (un aiuto a morire e non solo “nel morire”, come nel ricorso alle cure palliative). Si può ovviamente essere d’accordo o meno sulla soluzione che la Corte costituzionale ha dovuto adottare: chi guarda ai diritti critica la Sentenza e parla di un insufficiente passo in avanti verso una piena libertà di scelta, chi guarda alla vita come valore denuncia una incrinatura dello stesso, in direzione eutanasica. La Corte torna comunque con la decisione a ribadire la necessità di un intervento del Parlamento. Trovo in proposito interessante una recentissima pubblicazione di Monsignor Vincenzo Paglia, dell’Accademia pontificia della vita (v. La Stampa del 8 agosto), laddove sembra superare posizioni che in passato marcavano la presenza di limiti “non negoziabili” e mostra invece interesse ad un dialogo volto a individuare uno spazio perché il Parlamento sia in grado di fare le scelte migliori, che tengano conto delle “diverse sensibilità, culture, religioni”. (…) Maternità surrogata - A tale prospettiva si affianca la appena menzionata sentenza n. 33 del 2021 ove si legge l’ulteriore considerazione che “gli accordi di maternità surrogata comportano un rischio di sfruttamento della vulnerabilità di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate”, spinte ad “affrontare il percorso di una gravidanza nell’esclusivo interesse dei terzi, ai quali il bambino dovrà essere consegnato subito dopo la nascita”. Detto in altri termini: una lesione della dignità della persona. Peraltro la ricerca scientifica ha messo in evidenza che l’utero “non è un semplice incubatore… bensì un raffinato strumento di comunicazione che costruisce un legame indissolubile fra gestante e feto che contribuisce a costituire la struttura psicoaffettiva del nuovo individuo… l’imprinting materno fetale” (E. Porcu in “La repubblica”, 2 giugno 2015). La “gestazione per altri” resta per la Corte italiana un reato, come previsto dall’art. 12 della legge 40 del 2004, senza distinguere (opportunamente a mio avviso) la c.d. surrogazione solidale da quella a pagamento. Che poi questo reato debba o meno essere considerato reato universale è scelta del tutto politica, tema peraltro in queste settimane in discussione in Parlamento e sulla quale non posso interferire. Ma altrettanto deciso è stato l’invito della Corte al Parlamento a riconoscere i diritti dei bambini e delle bambine, figli e figlie di coppie omosessuali (sentenza n. 230 del 2020; e soprattutto Sentenze n. 32 del e n.33 del 2021), secondo scelte che spetta al legislatore realizzare (o la riscrittura delle condizioni per il riconoscimento o una nuova tipologia delle adozioni o altro ancora). L’identità personale - A queste recenti decisioni ne aggiungo altre che hanno approfondito i diritti legati alle identità personali, anche sotto il profilo dell’ordinamento dell’anagrafe (ho già detto prima della decisione relativa al cognome). Erano stati sollevati dubbi nei confronti dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982, nella parte in cui non prevede il riconoscimento anagrafico di un genere “non binario” (né maschile, né femminile). L’eccezione di legittimità è stata dichiarata inammissibile -non si è quindi entrati nel merito - in quanto l’eventuale introduzione di un terzo genere nello stato civile postulerebbe necessariamente un “intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria” (sentenza n. 143 del 2024). Nulla di più! Ho letto invece sia editoriali allarmati sia dichiarazioni soddisfatte. Mi sento solo di precisare che non vi è nella sentenza il tentativo di spingere a legiferare per porre un riparo ad un vulnus ma solo il rinvio al Parlamento, “primo interprete della sensibilità sociale”, alla sua discrezionalità politica, qualora volesse farsi carico di questo “significativo disagio individuale e sociale” alla luce degli articoli 3 e 32 della Costituzione. Ius scholae, asse Meloni-Salvini contro Tajani: ecco il piano per sgonfiare la riforma di Ilario Lombardo La Stampa, 24 agosto 2024 La premier vuole spezzare l’intesa di Forza Italia con il Pd: l’obiettivo di Fratelli d’Italia è il rinvio del dibattito al 2025. Già a settembre la contromozione della coalizione in accordo con Palazzo Chigi per blindare le posizioni degli alleati. I parlamentari di Forza Italia dicono di non averlo visto mai elettrizzato come in questo periodo. Antonio Tajani, non solo non ha mollato la battaglia sulla cittadinanza ai figli di immigrati che hanno compiuto più di un ciclo scolastico, ma rilancia quotidianamente. Fosse anche solo per il calcolo cinico di aver compreso che lo ius scholae ha un mercato elettorale che dilata il potenziale bacino di consenso e dà una rinfrescata al partito, sta di fatto che per Tajani e per gli azzurri è una fonte di energia nuova che ha la capacità immediata di rimettere al centro della scena pubblica il partito fondato da Silvio Berlusconi. Giorgia Meloni lo ha subito intuito e non ha gradito. Un po’ perché si è abituata a trattare con un Tajani più accondiscendente, che di solito le fa da sponda contro i distinguo di Matteo Salvini, un po’ perché vede una grossa insidia per la stabilità della maggioranza nel corteggiamento reciproco tra FI e Pd. Così, la premier si è attrezzata per sgonfiare la campagna sulla cittadinanza. Il piano è già predisposto. Ed è frutto di un’interlocuzione tra Fratelli d’Italia e Lega. L’obiettivo è rinviare al 2025 le proposte dei partiti e, dunque, contemporaneamente spegnere per adesso il dibattito parlamentare e quello mediatico. A settembre arriverà una mozione del Pd che chiederà al governo di impegnarsi per cambiare le norme sulla cittadinanza, calendarizzando a ottobre la discussione. Sarà il primo banco di prova per FI. Il centrosinistra cercherà l’appoggio di Tajani, magari spacchettando il testo in diverse parti. Restano differenze - sugli anni scolastici necessari, in sostanza - ma la direzione delle proposte è ormai la stessa. La mozione, però, non è vincolante ed è un atto squisitamente politico. Votare con il Pd, vorrebbe dire per Forza Italia segnare una rottura con la coalizione di destra. Su un tema altamente sensibile, come si è visto dai toni del botta e risposta con Salvini. Un precedente che Meloni non può permettersi. Al vertice dei tre leader previsto per il 30 agosto non si deciderà nulla. Per neutralizzare l’iniziativa della sinistra e le tentazioni azzurre, la maggioranza dovrebbe presentare una contromozione definita in accordo con Palazzo Chigi, a cui Forza Italia non potrà sottrarsi. Il contenuto, trapela da fonti parlamentari, potrebbe anche prevedere una minima, innocua concessione a Tajani, ma niente di più. In realtà, la disfida estiva a favore di telecamere, a parte rivitalizzare l’elettorato e dare una rispolverata all’orgoglio degli azzurri, non porterà molto lontano. Il primo a saperlo è il segretario di Forza Italia. Il fatto che non ci siano scadenze previste, rende il lavoro sul provvedimento rinviabile. Ma sono soprattutto le condizioni politiche a non permettere grandi conquiste. Nei suoi primi due anni di governo, quando c’è stato da scegliere tra gli orientamenti di Forza Italia e quelli della Lega, Meloni si è quasi sempre spostata nella direzione di Salvini (sull’Ue, sul Mes, sul voto per la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen). Solo sulla guerra in Ucraina, la premier è rimasta più vicina a Tajani. Questione di competizione a destra, un’area d’interesse che meloniani e leghisti vogliono tenere presidiata. Per i berlusconiani è già evidente che le parole di Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura e cognato della premier, siano state di chiusura netta. Sostenere, come ha fatto ieri dal Meeting di Rimini, che “non serva alcuna riforma”, come chiesto da Tajani, e che bastano le leggi attuali, anticipa quello che la maggioranza scriverà nella sua mozione parlamentare. Meloni, per storia, convinzione o posizionamento politico, non crede nei nuovi diritti. L’effetto delle Olimpiadi di Parigi, con tanti giovani atleti di seconda generazione, già cittadini italiani, che hanno vinto con i colori azzurri, è stato dirompente. Ed è confermato da più fonti di FdI che la conseguente e immediata convergenza tra Forza Italia e Pd sullo ius scholae abbia seriamente impensierito Meloni, al punto che qualcuno dentro il partito riferisce che ci sarebbe anche questa ragione dietro la strampalata teoria della cospirazione sulla sorella Arianna e un’ipotetica inchiesta giudiziaria contro di lei, pare mai esistita. La strategia comunicativa messa in atto da Giovambattista Fazzolari, sottosegretario e braccio destro di Meloni, con la complicità del Giornale e di Libero - due quotidiani amici e di proprietà di Antonio Angelucci, parlamentare leghista convertito al melonismo - avrebbe avuto l’obiettivo di spostare su tutt’altro l’attenzione del dibattito politico, fino a quel momento monopolizzato dal risveglio liberale sui diritti di Forza Italia e pericolosamente orientato verso le posizioni del Pd. Meloni ha visto quanto l’argomento abbia una sua popolarità, ma per ora non vuole tradire se stessa, né lasciare a Salvini altro spazio di polemica. Né intende - parole di suoi collaboratori - “farsi dettare l’agenda da Marina Berlusconi” - la figlia del leader di FI morto più di un anno fa che, in una recente intervista, aveva detto di sentirsi più vicina, per sensibilità sui diritti, alla sinistra. Migranti. Siamo un Paese pieno di celle su base etnica di Giovanni Motta L’Unità, 24 agosto 2024 Gabbie sussidiarie ai Cpr, disponibili nelle Questure e diffuse in tutta Italia. Luoghi di privazione della libertà personale non conoscibili e non controllabili perché non è possibile avere nemmeno un elenco di quali sono e dove sono da parte della Pubblica amministrazione. I trattenimenti delle persone straniere non avvengono esclusivamente nei Cpr ma, altresì, nei “luoghi idonei”. Ovvero? Il dl 113/2018 - il famigerato primo “Decreto Salvini” - convertito nella L. 132/2018 ha ampliato la tipologia dei luoghi di privazione della libertà destinati alla detenzione amministrativa delle persone straniere in attesa della convalida dell’accompagnamento immediato alla frontiera. La modifica dell’art. 13 del Testo Unico dell’Immigrazione ha così introdotto la possibilità per i Giudice di Pace, su richiesta del Questore, di disporre il trattenimento dei cittadini stranieri sopracitati presso “strutture idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza” nel caso di indisponibilità di posti nei Cpr. Inoltre, qualora anche dopo l’udienza di convalida permanga l’indisponibilità di posti nelle sopracitate strutture (ndr: i Cpr) di cui all’art. 14 del D.Lgs. 286/1998 (ndr: il Testo Unico dell’Immigrazione), è possibile disporre il trattenimento dei cittadini stranieri in “locali idonei presso l’ufficio di frontiera interessato, sino all’esecuzione dell’effettivo allontanamento e comunque non oltre le quarantotto ore successive all’udienza di convalida” In altri termini, questi luoghi “idonei” destinati al trattenimento dei cittadini stranieri in procinto di essere espulsi sono sussidiari ai Cpr, disponibili presso le Questure e diffusi sul territorio nazionale. Luoghi di privazione della libertà personale, ancor più sconosciuti dei Cpr e non conoscibili perché non è dato avere nemmeno un elenco degli stessi da parte della Pubblica Amministrazione. Le persone trattenute (sempre e solo straniere) possono rimanere in piccole stanze collocate in Questura sotto stretta sorveglianza per un massimo di novantasei ore, al termine delle quali possono essere liberate o rimpatriate, il tutto passa da un’udienza di convalida tenuta da un Giudice di Pace rigorosamente da remoto. I cellulari vengono sequestrati, quindi, la persona trattenuta una volta in Questura non ha modo di comunicare con l’esterno se non per concessione della Questura stessa. Non esiste una legge che disciplini le modalità di questo tipo di restrizione della libertà personale. Negli ultimi mesi questi casi di trattenimenti in “luoghi idonei” sono in aumento (ndr: chi scrive ha appreso di un forte incremento nella Questura di Milano). Tuttavia, le informazioni al riguardo sono pressoché inesistenti. Nebbia fitta insomma. Quello che si sa è che abbiamo delle persone, spesso residenti in Italia da anni, che si recano in Questura per ottenere, ad esempio, informazioni sullo stato della propria richiesta di permesso di soggiorno o di rinnovo dello stesso che poi si trovano letteralmente detenute, impossibilitate o quasi ad avere contatti con l’esterno per contattare il proprio difensore o i famigliari, sottoposte ad un’udienza che dura pochi minuti con un Giudice “da remoto” e poi imbarcate su un aereo. E spesso ci si reca in Questura su un appuntamento dato dagli stessi organi di polizia, appuntamento, questo, atteso, a volte, anni, con la speranza di uscire da quei locali con un permesso di soggiorno. E, invece, in luogo del rilascio dell’agognato titolo di soggiorno il buio della detenzione e dell’espulsione, quasi senza possibilità di difendersi e, ancor prima, di capire quello che sta succedendo. Perché tutto questo? Una risposta la si può trovare nel c.d. “decreto Cutro” (il decreto-legge emanato dal Governo Meloni il 10 marzo 2023) e l’abrogazione del comma 2 dell’art. 12 del D.p.r. 394/1999, con la conseguente soppressione del meccanismo di intimazione a lasciare il territorio nazionale entro il termine di quindici giorni, previsto in occasione della notifica allo straniero del rifiuto/revoca del permesso di soggiorno. E, pertanto, volendo citare la Circolare del Ministero dell’Interno n. 400/B dell’1.6.2023: “In tale prospettiva codesti Uffici, contestualmente alla notifica del rifiuto del permesso di soggiorno, contenente l’avviso di cui al comma 1 della norma citata, valuteranno l’adozione dell’espulsione di cui all’art. 13 del Testo Unico, previa verifica della sussistenza dei presupposti”. Ormai per un cittadino straniero è preferibile recarsi in Questura munito di passaporto, dichiarazione di ospitalità, contratto di lavoro o dichiarazione di disponibilità all’assunzione per il futuro per sperare che il suo trattenimento non venga convalidato avendo dimostrato il suo radicamento in questo paese. Altrimenti, ormai rimpatriato nel paese d’origine, dovrà sperare di trovare un avvocato che si opponga al suo decreto di espulsione. Ormai, volendo citare l’avvocato Maurizio Veglio, si può affermare che: “La semplice osservazione dei luoghi di trattenimento amministrativo, di fatto e di diritto, dei non cittadini - in Italia come nel mondo - consente di affermare che quello che si consuma al loro interno è un rito di separazione su base etnica. Il trattenimento degli stranieri è un poderoso strumento di propaganda a disposizione del governo di turno, che l’attuale riforma (ndr: il Decreto Cutro) porta alla sua massima espansione”. Definiti “luoghi idonei” ma, in realtà, sono luoghi dove si celebra il rito della segregazione nel silenzio dell’opinione pubblica. Come per i Cpr occorre impegnarsi per fare luce su queste zone d’ombra dei diritti totalmente sconosciute per porre fine all’ennesima guerra in corso, quella ai migranti. Migranti. In mare con Mediterranea Saving Humans, benedetti da Papa Francesco di Don Mattia Ferrari La Stampa, 24 agosto 2024 La resistenza dell’umanità. Sono queste forse le parole più appropriate per descrivere la ripartenza della missione in mare di Mediterranea Saving Humans. Pochi giorni fa l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha reso noti i dati di naufragi e respingimenti di questo 2024: dal 1° gennaio al 17 agosto, più di 1.000 persone hanno perso la vita in mare, a causa dell’assenza di soccorso, e più di 13.000 persone sono state catturate e riportate in Libia, in virtù degli accordi Italia-Libia. È il quadro che si è delineato a causa del progressivo ritiro delle missioni di soccorso degli Stati europei e poi degli accordi Italia-Libia, con cui l’Italia e l’Europa finanziano questi respingimenti. Da circa un anno si sono aggiunti i respingimenti in Tunisia, anch’essi finanziati dall’Italia e dall’Europa, e operati dalla Garde Nationale, che spesso si concludono con la deportazione nel deserto. Il cinismo delle decisioni politiche si salda con l’indifferenza di larga parte della popolazione e questo crea quella strage incessante che segna una delle vergogne più grandi della nostra storia. Succede però che anche nelle ore più buie della storia ci sono luci che resistono e che forzano l’aurora a nascere. Una di queste luci è la flotta civile, composta da persone di tutta Europa che si uniscono per andare insieme a salvare le persone migranti. Mediterranea Saving Humans, la piattaforma della società civile, sta tornando in mare: è imminente la partenza dal porto di Trapani. Questa missione, la numero 18, presenta una novità significativa: accanto alla nostra nave, la Mare Jonio, viaggerà una barca a vela di appoggio allestita insieme a Migrantes, l’organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana che si occupa delle migrazioni. La barca a vela ha lo scopo di monitorare e informare su ciò che avviene e a bordo ci sono don Alessandro Messina e Donatella D’Anna, direttori diocesani di Migrantes rispettivamente a Fano e a Caltanissetta. Alla vigilia della partenza inoltre c’è stata la visita a bordo del vescovo di Trapani. Si tratta di un’altra tappa nel cammino di Mediterranea con la Chiesa, un cammino fatto di relazioni di condivisione e fraternità con vescovi, religiosi e religiose, fedeli laici e laiche in tante città. Papa Francesco ha più volte espresso pubblicamente il suo ringraziamento a Mediterranea e a tutte le realtà che svolgono questa missione. Chi si domanda perché la Chiesa partecipi alla missione di Mediterranea trova facilmente risposta nel Vangelo. La Chiesa ha la missione di seguire di Gesù, di amare come Lui ama, di annunciare il Vangelo e di viverlo, prendendosi per mano con tutte le persone di buona volontà. È nel comune amore viscerale, per usare le parole del Vangelo, che Mediterranea e la Chiesa si sono incontrate, e nel comune riconoscimento dell’inalienabile valore della dignità di ogni persona e della fraternità. Oltre alla Chiesa, sono tante le realtà presenti nell’equipaggio di Mediterranea, composto da 25 persone: marinai siciliani e attivisti e attiviste di varie associazioni e movimenti. Capimissione sono Beppe Caccia, veneziano, volto storico dei movimenti sociali, già ricercatore universitario, assessore alle politiche sociali a Venezia e tra i fondatori di Mediterranea, e Denny Castiglione, anch’egli storico esponente dei movimenti e di Mediterranea. La medica di bordo, Vanessa Guidi, è un’attivista romagnola da anni a Bologna, e insieme a lei ci sono Charlotte Giampietro, infermiera, e Ambra Falasco, ostetrica. A bordo c’è Dariush Beigui, che era capitano della Iuventa, la prima nave del soccorso civile a subire un’indagine giudiziaria, iniziata nel 2017 e conclusasi alcuni mesi fa con la caduta di tutte le accuse. Quel processo segnò l’inizio della criminalizzazione della solidarietà: in una società come la nostra la solidarietà è sovversiva e criminalizzarla serve a evitare che le persone ne restino affascinate e si liberino dalle catene dell’individualismo. Con noi c’è poi Iasonas Apostolopoulos, il coordinatore del rescue team, attivo da anni nella lotta ai respingimenti tra Grecia e Turchia e nel soccorso civile nel Mediterraneo centrale. Il più giovane membro dell’equipaggio, Gabriele Lodetti, 20 anni, è uno studente universitario e attivista romano, dei sindacati studenteschi, la Rete degli studenti medi negli anni del liceo e ora Sinistra Universitaria Sapienza, e di Spin Time, il grande palazzo romano occupato, anch’esso noto per la sua relazione con la Chiesa, dove abitano 400 persone di 28 nazionalità diverse e dove operano 600 tra volontari e attivisti. Nell’equipaggio c’è anche Ibrahima Lo, originario del Senegal, arrivato attraverso la rotta della Libia e del Mediterraneo, dove è stato soccorso da Iasonas con la nave Aquarius nel 2017, e ora attivista e soccorritore, nonché autore di diversi libri. Lo scorso 2 luglio ha incontrato Papa Francesco, insieme ad altri migranti accompagnati come in altre occasioni da Mediterranea: il Papa ha toccato e accarezzato le ferite che ha riportato nei lager libici e ha incoraggiato tutti a continuare sulla strada della fraternità. Insomma, in missione con Mediterranea c’è tutta la società civile che lotta su vari fronti e non si rassegna alla disumanità. Tutte queste persone e realtà sociali si uniscono in nome del comune amore viscerale e vanno insieme a soccorrere i nostri fratelli e sorelle migranti, rompendo il muro di cinismo e indifferenza, pronte a obbedire alle norme dell’umanità e alle leggi internazionali e a disobbedire agli ordini ingiusti. La missione di Mediterranea si configura quindi come vera resistenza dell’umanità e come costruzione della fraternità, che si fa carne nei corpi e nelle relazioni di Mediterranea e di tante altre realtà. Questa è una luce che risplende nella notte della storia. Giappone. Stop alle esecuzioni, ma è solo una “tregua olimpica” di Sergio D’Elia L’Unità, 24 agosto 2024 Nella classifica delle medaglie d’oro conquistate ai giochi olimpici di Parigi, tra i primi venti figurano diciannove Paesi del cosiddetto “mondo libero e democratico”. L’eccellenza in campo sportivo rifletterebbe perfettamente quella nel campo dei diritti umani, se non fosse che sul podio dei primi tre sono salite due “democrazie occidentali” come gli Stati Uniti e il Giappone che hanno ancora la pena di morte, la più grave delle violazioni dei principi e valori universali. Non ci consola il fatto che in questi due Paesi le esecuzioni capitali si manifestino, di anno in anno, sempre più raramente. Perché, fino a che non sarà del tutto abolita la pena capitale, non si potrà mai dire che la loro democrazia sia compiuta. Eppure, non solo nei patti e nelle convenzioni internazionali di cui sono parte, anche nelle loro millenarie tradizioni spirituali e religiose si possono trovare ragioni per un salto in alto nella civiltà contemporanea dei loro sistemi giuridici. L’attualissimo, civilissimo “nessuno tocchi Caino” anticotestamentario, può liberare la fascia della Bibbia americana dall’arcaico, letteralmente cieco “occhio per occhio” che ancora la lega. Le divinità e gli spiriti benigni e misericordiosi della tradizione shintoista e buddhista del Paese del Sol Levante possono orientare i ministri della giustizia a rifiutare oggi di firmare condanne a morte. È già accaduto in Giappone che venissero decise moratorie nella imposizione della pena di morte. Non ci furono impiccagioni per più di tre anni dal novembre 1989, dopo che un condannato a morte per l’omicidio di una bambina di 6 anni fu assolto all’inizio di quell’anno in un nuovo processo. Non sono state effettuate esecuzioni da dicembre 2019 a dicembre 2021, una tregua olimpica di fatto, collegata ai giochi di Tokyo nell’estate del 2021. Ora, accade di nuovo che il Giappone non giustizi nessuno da più di due anni, dopo una consuetudine di condannati a morte impiccati ogni pochi mesi sotto il governo guidato dal Partito Liberal democratico. Dopo che il Pld è tornato al potere nel dicembre 2012, Sadakazu Tanigaki ha ordinato 11 esecuzioni, fino a che ha ricoperto l’incarico di ministro della Giustizia terminato nel settembre 2014. Nel 2018, l’allora ministro della Giustizia Yoko Kamikawa ha ordinato le esecuzioni di 13 ex membri della setta apocalittica Aum Shinrikyo, tra cui il suo fondatore Shoko Asahara. L’ultima esecuzione è stata effettuata due anni fa, il 26 luglio 2022, quando è stato impiccato il trentanovenne Tomohiro Kato. Il suo caso corrisponde a quello che viene definito “il più raro tra i rari” perché sia “giustificata” la pena capitale. Kato aveva fatto una strage in cui sette persone sono morte e altre 10 sono rimaste ferite. Il ministro della Giustizia Yoshihisa Furukawa, che aveva impartito l’ordine di esecuzione, forse pentito, si è dimesso il mese successivo. È stato sostituito da Yasuhiro Hanashi, che è stato licenziato tre mesi dopo dal primo ministro Fumio Kishida per le sue dichiarazioni considerate una presa in giro del suo ruolo nell’autorizzazione delle esecuzioni dei condannati a morte. Il ministro della Giustizia è una posizione “di basso profilo” e diventa “una notizia di prima pagina nei notiziari diurni solo quando mette il timbro sui decreti di morte”, aveva detto Hanashi a un raduno politico nel novembre 2022, giorni prima del suo licenziamento. L’ultima interruzione delle esecuzioni potrebbe essere collegata anche al nuovo processo in corso nei confronti di Iwao Hakamata, un ex pugile di 88 anni accusato ingiustamente di un quadruplice omicidio nel 1966. Dopo la condanna nel settembre 1968, il suo stato mentale era peggiorato ed era diventato il condannato a morte più longevo al mondo, prima che nuove prove portassero al suo rilascio nel 2014. Nel frattempo, lo scorso ottobre è iniziato il nuovo processo di Hakamata, presso la Corte distrettuale di Shizuoka, alimentando la speranza che l’ex detenuto venga assolto quando verrà emessa la sentenza prevista il 26 settembre. Che sia il “pentimento” di un ministro-boia o il “rifiuto” di una funzione di giustizia ridotta a mero esercizio patibolare o il rischio di uccidere un innocente, sta di fatto che la forca in Giappone si è inceppata di nuovo. Nel vasto mondo dei kami, le divinità della tradizione shintoista e buddhista giapponese, figura Kannon, la dea della misericordia. Mi piace pensare che un’altra “tregua olimpica” delle esecuzioni sia stata premiata dagli spiriti benevoli della tradizione con il terzo posto del Giappone nel medagliere dei Giochi di Parigi 2024. A riprova del fatto che il male porti male, che il bene chiami il bene. Che occorre sempre pensare, sentire e agire nel modo e nel senso in cui si vuole vadano le cose. Egitto. Dopo Regeni e Zaki il caso Passeri riaccende i fari sulle carceri di Laura Cappon Il Domani, 24 agosto 2024 La mancata assistenza legale e le condizioni disumane denunciate dal giovane pescarese creano un nuovo imbarazzo diplomatico tra l’Italia e l’Egitto di al Sisi. Versioni contrastanti, carte e vizi di procedura. La vicenda di Luigi Giacomo Passeri, il giovane abruzzese condannato da un tribunale del Cairo a 25 anni di carcere per traffico internazionale di sostanze stupefacenti, torna a mettere a dura prova i rapporti tra Italia e Egitto. “C’è un vizio di forma, le indagini sono state fatte senza che lui potesse avere l’assistenza di un avvocato”, dice a Domani Said Shaaban, il legale egiziano di Passeri. Lo raggiungiamo per via telefonica al Cairo dove da due giorni è impegnato a preparare le carte per il ricorso che, secondo lui, dovrebbero portare all’assoluzione del suo assistito. “Sono sicuro che verrà prosciolto”, dice. “Il fatto che Passeri sia stato interrogato senza essere affiancato da un difensore, è sufficiente per far annullare la condanna”. Condizioni inumane - La Farnesina assicura che la sede diplomatica del Cairo sta continuando a seguire il “caso con la massima attenzione” e ha richiesto una visita consolare d’urgenza. Ma intanto Passeri - originario della Sierra Leone, cresciuto a Pescara e residente a Londra - ha già trascorso un anno in detenzione nella prigione di Badr2, penitenziario che dista 70 km dal Cairo. Il suo arresto era avvenuto in un albergo a Sharm el-Sheikh, il 23 agosto del 2023. Secondo le autorità egiziane era in possesso di una grande quantità di sostanze stupefacenti. Da allora, è riuscito a telefonare alla sua famiglia solo una volta e a inviare alcune lettere dove ha raccontato le condizioni inumane in cui è recluso: vive in una cella piccola, condivisa con 12 persone, invasa di insetti e escrementi. Ha subìto maltrattamenti dagli agenti e non ha ricevuto l’assistenza medica adeguata dopo aver subito un’operazione di rimozione dell’appendice. Per nove mesi è rimasto in detenzione preventiva senza la formalizzazione delle accuse, l’udienza preliminare è avvenuta solo a maggio. Un periodo in cui, come sottolinea l’avvocato, Passeri non ha potuto difendersi. L’unico verbale in possesso della famiglia, ottenuto dalle autorità del Cairo, al momento avvalla le accuse e racconta di grandi quantità di droga, di vario tipo, trovata durante una perquisizione. Un documento che non coincide con la versione dei parenti del 31enne pescarese che, invece, affermano, che al momento dell’arresto, il giovane fosse in possesso soltanto di un “piccolo quantitativo di stupefacenti”. Anche se proprio ieri, il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, dal meeting di Rimini ha affermato: “Purtroppo Giacomo Passeri è stato trovato con un importante quantitativo di droga; il nostro Consolato e la nostra Ambasciata hanno seguito la vicenda fin dall’inizio, quando sembrava che si trattasse soltanto di una questione di fumo. Poi invece si è saputo che si è sentito male all’aeroporto perché aveva ingerito diversi ovuli di cocaina ed è ovvio che la condanna sia stata pesante”. Questa differenza di versioni non è trascurabile perché sarebbe decisiva per individuare il reato di cui Passeri potrebbe essere colpevole. Al momento non è chiaro quale quantitativo di stupefacenti possedesse nell’albergo sul Mar Rosso. Il caso è complicato ma la mancata assistenza legale e le condizioni denunciate nelle lettere dal giovane pescarese sono sufficienti a creare un nuovo imbarazzo diplomatico tra l’Italia e l’Egitto. Completamente diverso dal caso Zaki o Regeni ma con un filo in comune: le condizioni disumane, e documentate dai report delle organizzazioni internazionali, a cui vengono sottoposti tutti i detenuti in Egitto. Proprio nel carcere di Badr, lo scorso aprile, è morto un prigioniero politico. Si chiamava Mohamed Mahmud Jad, aveva 62 anni. È stato colpito da un infarto dopo che gli erano state negate le cure per le sue patologie cardiache. Lo scorso 17 luglio, il sottosegretario agli Affari esteri, Giorgio Silli, ha provato a rassicurare la famiglia Passeri: rispondendo a un’interrogazione parlamentare del deputato di Avs Marco Grimaldi, ha affermato che “il 31 enne italiano stava bene e che non aveva riferito di aver subito violenze o trattamenti degradanti in carcere”. A livello diplomatico, l’epilogo del caso Zaki, conclusosi lo scorso anno con la grazia presidenziale, era stato rivendicato come un successo dal governo italiano. Il caso Regeni resta sullo sfondo - l’Egitto ha continuato a non fornire alcuna collaborazione nel processo in corso a Roma - e i rapporti tra Italia e Egitto restano ottimi. Lo scorso marzo, l’Unione europea e l’Egitto hanno firmato una nuova partnership dal valore di 7,4 miliardi di euro per lo sviluppo di politiche energetiche, agricole e per bloccare i flussi migratori. Un programma fortemente voluto dalla presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni che, a sua volta, ha firmato con il Cairo 10 accordi bilaterali. È in questo contesto che si decide il destino giudiziario di Passeri. “Sino a ora il console italiano lo ha incontrato 6 volte, ora io avrò la possibilità di visitarlo una volta al mese”, spiega Shaaban. “Attendo le motivazioni della sentenza per poter formulare una difesa appropriata e provare a riportarlo a casa”. Russia. Rivolta di detenuti in carcere di massima sicurezza: agenti presi in ostaggio, morti e feriti di Antonio Palma fanpage.it, 24 agosto 2024 La rivolta dei prigionieri sarebbe avvenuta durante una riunione della commissione disciplinare della colonia penale di Surovikino, nella regione di Volgograd. I servizi di sicurezza russi hanno riferito che almeno quattro agenti sono stati catturati e alcune guardie sarebbero state uccise. I rivoltosi avrebbero chiesto 2 milioni di dollari e un elicottero. Una violenta rivolta di detenuti è in corso in queste ore in una colonia penale di massima sicurezza in Russia. Lo ha riferito il servizio stampa del Servizio penitenziario federale russo. Come riportano le agenzie di stampa locali, la rivolta è scoppiata questa mattina, venerdì 23 agosto, in una colonia correzionale di massima sicurezza nella città di Surovikino, identificata col codice IK-19, nella regione di Volgograd. La rivolta dei prigionieri sarebbe avvenuta durante una riunione della commissione disciplinare della colonia per decidere eventuali nuove sanzioni su alcuni detenuti. “Durante una riunione della commissione disciplinare della colonia (dove vengono presi in considerazione anche i casi di trasgressori persistenti), diversi prigionieri hanno sequestrato gli operatori”, ha spiegato il dipartimento penitenziario federale russo, aggiungendo che “si stanno accertando le circostanze dell’incidente”. Nella colonia ci sono in totale 1.230 prigionieri. I servizi di sicurezza russi hanno riferito alla Tass che almeno quattro agenti sono stati catturati e alcune guardie sarebbe state e uccise. Si parla di almeno cinque agenti coinvolti e colpiti. Sul posto stanno confluendo diverse unità di forze dell’ordine e la strada per l’IK-19 è stata bloccata dalle autorità russe. Secondo alcune fonti, gli aggressori avrebbero anche affermato di appartenere allo Stato islamico ma questa informazione è da confermare. Secondo Bata, si registrano almeno tre morti mentre un agente penitenziario e un prigioniero sono stati ricoverati in ospedale con tagli e ferite gravi. Tra di loro vi sarebbe il capo della colonia penale di Volgograd-19 che sarebbe riuscito a sfuggire ai rivoltosi che avrebbero chiesto 2 milioni di dollari e un elicottero. Eritrea. L’ex ministro delle Finanze Abrehe muore in carcere, era detenuto dal 2018 agenzianova.com, 24 agosto 2024 Abrehe era stato arrestato dopo la pubblicazione di un libro critico nei confronti del presidente eritreo, Isaias Afwerki, intitolato “Hagerey Eritrea” (Il mio Paese, l’Eritrea). L’ex ministro delle Finanze eritreo Berhane Abrehe, 79 anni, è morto in carcere lunedì 19 agosto, dopo una detenzione in isolamento che durava dal 2018. Lo scrive in un comunicato l’organizzazione per la difesa dei diritti umani eritrea Hunan Right Council (Hrc), che ha sede nel Regno Unito. Abrehe era stato arrestato il 17 settembre di sei anni fa dopo la pubblicazione di un libro critico nei confronti del presidente eritreo, Isaias Afwerki, intitolato “Hagerey Eritrea” (Il mio Paese, l’Eritrea). Da allora era detenuto nel carcere di Carshelli, una grande prigione situata nel cuore della capitale Asmara. Ex militante del Fronte di liberazione eritreo (Elf), cui aderisce nel 1963, dopo aver completato gli studi Abrehe si è trasferito negli Stati Uniti, dove nel 1972 ha conseguito un Master in Ingegneria civile presso l’Università dell’Illinois. Tre anni dopo, nel 1975, aderisce al Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo (Eplf) - una costola dell’Elf presieduta dal capo dello Stato Afwerki - svolgendo un ruolo di leadership significativo nella lotta armata per l’indipendenza. Dopo l’indipendenza dall’Etiopia, ottenuta nel 1993, Abrehe è scelto per diverse posizioni governative di rilievo, tra cui quella di ministro della Terra e dell’Acqua e, in seguito, quella di ministro delle Finanze, ruolo che ricoprirà dal 2001 al 2012. Nel 2011, nonostante la sua posizione di ministro delle Finanze, Abrehe esprime pubblicamente serie preoccupazioni sulle pratiche finanziarie del governo, in particolare sulla gestione delle risorse naturali del Paese. Il ministro si dice anche turbato dalla mancanza di una governance rispettosa della Costituzione, dalla concentrazione del potere nelle mani di un singolo individuo e dal fatto che l’Assemblea nazionale non si sia riunita dal 2002. Allarmato dall’esodo di massa dei giovani eritrei, Abrehe scrive al presidente Afwerki e ai colleghi ministri, sollecitando una valutazione nazionale di queste questioni critiche. Le sue iniziative sono state mal accolte, portando alla sua rimozione dall’incarico nel 2012 e alle successive restrizioni della sua libertà. Il suo arresto, nel 2018, segue di poco la pubblicazione di “Hagerey Eritrea”, in due volumi, nel quale Abrehe ha criticato senza sconti il sistema politico eritreo e ha chiesto riforme democratiche pacifiche. È stato detenuto in isolamento nel carcere di Carshelli, senza che accuse formali siano state espresse a suo carico o un regolare processo svolto, nonostante le richieste internazionali per il suo rilascio. Dopo aver subito un trapianto di fegato, nel 2009, Abrehe ha sofferto di complicazioni legate all’operazione. La sua salute era in peggioramento e aveva sollevato preoccupazione sulle condizioni della sua detenzione. La moglie Almaz Habtemariam, arrestata con lui nel 2018, è stata rilasciata dopo due anni senza processo.