Un indulto “chirurgico” per svuotare le carceri di Donatella Stasio La Stampa, 23 agosto 2024 Il giustizialismo con chi è stato condannato sta violando i diritti civili. Non si risolve il sovraffollamento delle celle pensando di costruire nuovi istituti. Con una lettera pubblicata su questo giornale, le detenute del carcere di Torino hanno scritto al presidente della Repubblica di aiutarle a rompere il muro di indifferenza sull’emergenza carcere alzato dal governo Meloni, sordo a qualunque grido di dolore, cieco di fronte all’inciviltà delle nostre prigioni, inflessibile verso chi marcisce in galera perché la pena deve essere “certa”, feroce verso chi protesta, e pazienza se i diritti fondamentali vengono calpestati, se si muore di carcere “naturalmente” o inalando gas oppure appesi a una corda. Non mi piego e non mi spezzo è il refrain di questo governo, autoproclamatosi “giustizialista dopo la condanna, altrimenti sarebbe una resa dello Stato” spiega il ministro “liberale” della Giustizia Carlo Nordio: l’esatto contrario di quanto ci ha spiegato un altro liberale, uno dei maggiori filosofi del diritto, l’americano Ronald Dworkin, e cioè che la violazione dei diritti fondamentali produce un danno incalcolabile perché “mortifica l’orgoglio e l’onore di una nazione”, mentre il rispetto di quei diritti, lungi dall’essere un “impiccio” di cui liberarsi per placare la paura e riscuotere consensi, è “la briscola”, la carta vincente di ogni partita, anche sulla sicurezza. Parole che, guarda caso, hanno un riscontro nelle ricerche statistiche sulla recidiva degli economisti di tutto il mondo, eppure ignorate, se non travisate, dal governo. Ma attenzione: se, come diceva Anna Harendt, la verità non è annoverata tra le virtù politiche, a lungo andare la menzogna si ritorce contro chi la pratica, con conseguenze gravi per tutti. Vale allora la pena raccontare un po’ di verità, almeno sui numeri tirati fuori dagli economisti. Partiamo proprio dalle donne detenute, anticipando il risultato di una ricerca ancora in via di definizione, condotta da F. Calamunci, G. Daniele, G. Mastrobuoni e D. Terlizzese, riguardante 10.200 detenzioni nell’arco di 10 anni, dal 2012 al 2022. L’universo detentivo femminile è circa il 4,5% della popolazione ristretta in Italia (2.682 su 61.133 persone) e il 7% di quella detenuta nel mondo. In Italia, sono solo quattro gli istituti interamente dedicati alle donne, anzi tre (Roma Rebibbia, Trani, Venezia Giudecca) da quando Pozzuoli è stato chiuso per il terremoto. Pertanto, oggi solo 459 donne scontano la pena in carceri totalmente femminili mentre la maggioranza è confinata in sezioni di carceri maschili, ancora più abbandonate quanto a opportunità lavorative qualificanti, trattamentali e di socialità. Una scelta dettata da motivi economici: siccome le donne sono poche, si ritiene meno costoso relegarle nell’ala di una struttura maschile invece che destinare ad esse un intero carcere. Ma alla prova della recidiva, questa scelta si rivela miope. Gli economisti autori della ricerca dimostrano che, se la pena è scontata in un carcere tutto femminile, la recidiva si riduce tra gli 8 e i 15 punti percentuali rispetto a chi sconta la pena, a parità di condizioni, in carceri miste. Un’altra ricerca firmata sempre da Mastrobuoni e Terlizzese (pubblicata nel 2022 sull’American Economic Journal: Applied Economics) ci dice che, per produrre sicurezza, le carceri devono essere luoghi a prova di Costituzione. La recidiva si riduce fino a 10 punti percentuali per ogni anno di pena scontato in carceri aperte, rispettose del dettato costituzionale, e quindi dei diritti fondamentali, invece che in carceri chiuse (come sono, nella quasi totalità, le carceri italiane) in cui, una volta entrati, viene “buttata la chiave”. Alla luce di questi dati, risulta controproducente il “giustizialismo dopo la condanna” rivendicato dal governo Meloni. Che rifiuta l’ipotesi di un indulto per azzerare il sovraffollamento (siamo già a un esubero di 15mila detenuti rispetto ai posti disponibili) travisando di nuovo i risultati di due ricerche statistiche: dalla prima (Sarzotti, Jocteau, Torrente) emerge che, degli oltre 27mila indultati usciti dal carcere nel 2006, ne sono rientrati, nel 2007, circa il 20%; la seconda (Drago, Galbiati, Vertova) evidenzia che dopo quel provvedimento, il tasso di recidiva è diminuito del 25%, per cui l’indulto è stato “una misura efficace contro il crimine”. In una fase di emergenza che reclama misure urgenti ed efficaci, non si può rispondere “costruiremo nuove carceri”, anzitutto per i tempi biblici necessari, poi per la sperimentata scadente qualità delle carceri “moderne” e infine perché, senza una cultura costituzionale della pena, avremo solo “contenitori di corpi” e “cimiteri dei vivi”. E allora, che fare? La Corte costituzionale ci ha ricordato che la società è corresponsabile della risocializzazione del condannato. Dunque, il governo deve rimboccarsi le maniche subito per riorganizzare un servizio che favorisca quell’esito e la magistratura di sorveglianza deve stare con il fiato sul collo dell’amministrazione per garantire il rispetto dei diritti fondamentali, entrando in carcere più di quanto non faccia ora. Ma perché ciò sia possibile, bisogna anzitutto eliminare il sovraffollamento. E l’unica strada è, realisticamente, un indulto “chirurgico”, come chiedono i Garanti territoriali dei detenuti. Dopo non ci saranno più alibi per continuare a violare i diritti dei reclusi, riaffermati dalla Consulta: la dignità, “valore che non tollera riduzioni”; la salute, diritto “non bilanciabile con alcun motivo di sicurezza”; l’affettività, da coltivare con la necessaria intimità per evitare la “desertificazione affettiva” del carcere, “l’esatto opposto della risocializzazione”. E poi lavoro, istruzione, privacy. Impossibile? Assolutamente no. Ci riuscì un direttore, Eugenio Perucatti, tra il 1952 e il 1960, che riuscì a trasformare quella Caienna del carcere di Santo Stefano in una comunità operosa e rispettosa della Costituzione. Poi il clima politico virò a destra e tutto finì: il governo Tambroni (un monocolore Dc con l’appoggio esterno del Movimento sociale italiano) troncò quella realtà virtuosa - definita una “villeggiatura” dai media allineati - in ossequio all’idea di carcere come segregazione per garantire “ordine e sicurezza”. L’Italia non è ancora in grado di giocarsi la briscola della Costituzione perché, purtroppo, non è ancora un Paese con una vera mentalità costituzionale. E tuttavia, bisogna sapere che le bugie sulla “certezza della pena” e sul “giustizialismo” non garantiscono la nostra sicurezza e che, per vincere questa partita, bisogna pretendere il rigoroso rispetto dei diritti dei detenuti. Non è un’opzione ma un dovere di chi governa, a prescindere da quel che è stato fatto, o non fatto, “prima”, e senza aspettare che a imporlo siano la Consulta, il Quirinale, oppure l’Europa, come nel 2013. All’epoca, solo di fronte allo spauracchio di gravi sanzioni economiche si mise in moto un processo virtuoso che, però, non è stato portato a compimento perché mancò il coraggio politico di affrontare gli elettori con la Costituzione in mano. Forse oggi è ancora più utopistico riprendere quel cammino, sebbene sia in gioco “l’onore della nazione”. Ma come dice un proverbio magrebino, “se nessuna carovana ha mai raggiunto l’utopia, solo le utopie fanno andare le carovane”. Il dramma carceri non è roba per dilettanti di Franco Corleone L’Espresso, 23 agosto 2024 Il decreto Nordio è un pasticcio che sulla liberazione anticipata sta facendo impazzire i magistrati. Bruno Visentini, una grande personalità legata a Treviso e a Venezia, metteva in guardia dal “filar caigo”, cioè filare nebbia. Il ministro Carlo Nordio invece si sta caratterizzando nel realizzare il nulla. Anzi sul carcere adotta misure inutili e dannose come ha fatto con il decreto numero 92, approvato con la solita doppia fiducia, senza discussione e confronto reale. Il risultato è un pasticcio che sta facendo impazzire i magistrati che dovranno decidere sulla liberazione anticipata. Per non parlare dell’albo di comunità chiuse per consumatori di droghe, con meno diritti del carcere, gestite da associazioni amiche e proibizioniste. Si è trattato di una provocazione, ma i detenuti stanno dando prova di maturità evitando episodi di scontro violento. Dopo due anni di attività di questa compagnia di giro non ci si può aspettare un’idea di riforma se non quella di cancellare l’articolo 27 della Costituzione. Eppure potrebbero realizzare cose facili per migliorare la vita quotidiana nelle celle: installare piastre elettriche per sostituire le pericolose bombolette a gas, prevedere la dotazione di ventilatori e frigoriferi (perché l’amministrazione fornisce solo i televisori?). Nordio si è risvegliato dal torpore e promette per settembre la fine del sovraffollamento con l’espulsione dei detenuti stranieri (19.150) e l’affidamento dei cosiddetti tossicodipendenti (17.405) in comunità. Prima di tutto gli consigliamo con fermezza di ritirare subito il disegno di legge sicurezza che prevede il reato di nonviolenza per i detenuti, il carcere anche per le donne che devono partorire (aggravando il Codice Rocco) e altre norme di stupida repressione. Per il resto sappiamo che le suddette misure sono pura propaganda e non sortiranno alcun effetto. Basta leggere i dati sulle presenze in carcere per la legge antidroga per constatare che oltre il 34% dei detenuti (19.521 prigionieri) è per violazione dell’art. 73 del DPR 309/90 che prevede pene draconiane (assurde per un reato senza vittima) per detenzione, piccolo spaccio e finanche cessione gratuita di sostanze stupefacenti illegali. Una scelta saggia sarebbe quella di prevedere una riduzione delle pene allucinanti da sei a venti anni di carcere e consentire così di usufruire di tutta la gamma di misure alternative, compresa la messa alla prova. Invece, il governo ha appoggiato l’aumento delle pene per i fatti di droga di lieve entità. Probabilmente è questo intervento di politica criminale ad avere prodotto il picco di aumento dei detenuti a 61.133. Se l’eliminazione del sovraffollamento fosse raggiungibile con le promesse di Nordio, proprio il ministro dovrebbe spiegare il motivo per cui ha previsto un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria. In tal caso ci sarebbero tanti posti e sarebbe semmai necessaria una opera di riqualificazione degli spazi, cioè di nuova architettura come si sta facendo nel carcere di Udine. A settembre il governo dovrà dare il parere sulla proposta di istituire le case di reinserimento sociale, gestite dai sindaci, per detenuti che hanno da espiare una pena sotto i dodici mesi: sono 7.962 persone, un target significativo per una sperimentazione intelligente. In ultimo: il tempo a disposizione per applicare la sentenza della Corte costituzionale per il diritto alla affettività è ormai scaduto. Nordio sarà ossessionato dall’ombra di Banco. Non basta ridurre i detenuti, la “rieducazione” sia un motivo in più per vivere di Paola Binetti ilsussidiario.net, 23 agosto 2024 Solo nel 2024 tra reclusi e agenti si sono suicidate 71 persone: il sistema penitenziario, però, deve dare al detenuto una nuova possibilità di vita. Nonostante il mondo scientifico abbia svolto molte ricerche per cercare di capire le ragioni per cui ad un certo punto una persona desideri togliersi la vita, il mistero resta comunque affidato alla libertà individuale e custodito nell’intimità personale. A volte è la letteratura, che nei suoi racconti o, meglio ancora, nei suoi romanzi, dischiude nuovi orizzonti in cui è possibile introdursi per cogliere, almeno ex post, il senso e il significato di determinati gesti. Ma prevederlo realmente, calcolare il famoso fattore di rischio, resta una delle imprese più difficili, soprattutto quando lo scenario è quello di un carcere. A posteriori, si possono anche fare ipotesi ragionevoli, ma a priori l’alea di incertezza resta sempre enorme. Eppure, prevedere il fattore di propensione al suicidio consentirebbe di attivare una prevenzione del rischio a forte caratterizzazione individuale, quindi più efficace. Nessuno vuole che qualcuno si suicidi, perché si sente solo, perché subisce una prevaricazione insopportabile, perché l’anonimato dell’indifferenza lo soffoca, perché il futuro è come un tunnel senza via d’uscita. Una delle emergenze più importanti nel nostro Paese riguarda il sovraffollamento delle carceri, a cui è strettamente legato il dramma dei suicidi che proprio lì si verificano. Sui 51.347 posti disponibili, i detenuti sono in realtà 60.634, di cui 18.987 stranieri. Fino ad oggi, nel solo 2024, sono stati 65 i detenuti che hanno deciso di togliersi la vita, a cui si debbono aggiungere anche sei agenti della polizia penitenziaria, per un totale di 71 casi. Si entra in carcere per scontare una pena per una colpa commessa, e prima ancora per accertare se ci sia effettivamente la colpa; ma un detenuto non immagina di doversi confrontare con temi e problemi che vanno al di là di ciò che lui stesso ha commesso, a cominciare dal sovraffollamento, dalla carenza sanitaria e psicologica, dalle strutture fatiscenti, e, ultimo ma non ultimo, da condizioni igieniche oggettivamente precarie. Il degrado del sistema penitenziario si trascina, governo dopo governo, da almeno 25 anni, con pesanti responsabilità che si trasmettono da uno schieramento all’altro, da un partito all’altro. Senza che nessuno possa sentirsi escluso e senza che mai affiori una soluzione condivisa da tutti. Nordio è solo l’ultimo di una lunga serie di Guardasigilli, pieno di ottime intenzioni che è difficile si traducano in soluzioni ideali, senza la collaborazione dell’intero governo e del parlamento. Tutti sono pronti a riconoscere che non sempre in quei luoghi vale il principio del rispetto dei diritti umani. A cominciare dal rispetto dei tempi della giustizia, che a volte si protraggono oltre ogni ragionevole limite. Ma la défaillance più grave a volte sta in alcune cose concrete; per esempio, a volte manca l’acqua corrente poiché le condotte idriche interne al carcere sono vecchie e se si aumenta la pressione esplodono. Ma se la pressione è bassa, nelle celle non arriva acqua, con le conseguenze che è facile immaginare. In un clima di profonda incertezza rispetto al futuro e in un contesto oggettivamente umiliante per quanto riguarda il presente, può prendere forma il desiderio di farla finita. I detenuti si impiccano, inalano il gas dei fornelli, si tolgono la vita infilando la testa in buste di plastica. Nella maggior parte dei casi sono giovani, alcuni hanno pene brevi da scontare, ma ne ignorano i contorni, i limiti. Sono abbandonati a sé stessi, come abbandonato a sé stesso è il personale, per mancanza di risorse, per una formazione inadeguata, per un supporto psicologico scarso, per una fragilità anche fisica che nasce dal logoramento costante. Il disfacimento strutturale delle carceri, anche in fatto di igiene e di sicurezza, pesa sui detenuti ma anche sul personale di polizia penitenziaria che a volte deve affrontare turni h24, ininterrotti. L’assistenza sanitaria, soprattutto per quanto riguarda la salute mentale, è scarsa; quindi, si può immaginare che le persone vivano in uno stato di sconforto che possa condurre a gesti estremi. Disturbi psichici e degrado - Non c’è dubbio che le caratteristiche del contesto carcerario giochino un ruolo importante, molto importante ma non determinante, altrimenti non parleremo di 56 persone su 60.634. basta pensare alla regolarità dei ritmi e delle modalità delle attività svolte, orari, incarichi, mensa… tutto è programmato da una direzione penitenziaria che dovendo regolare e controllare un’intera comunità non tiene in conto le necessità dei singoli. Ognuno desidera essere conosciuto e riconosciuto con la propria personalità, con il proprio nome e cognome, non con un generico numero o peggio ancora con il numero della cella, come se questa fosse garanzia di identità personale. Quel bisogno incoercibile di lasciare il segno della propria personalità, dei propri gusti e dei propri interessi; quel naturale egocentrismo per cui ognuno pretende di adattare l’ambiente a sé, piuttosto che sé all’ambiente. L’anonimato imposto al gruppo suscita in alcuni il desiderio di ribellione, che porta a far emergere la propria identità, con tutte le fragilità che ognuno si trascina dall’infanzia e che in questo caso possono esplodere vistosamente. Le caratteristiche stesse della detenzione sono un fattore deflagrante per certe personalità più depresse, che si vedono annullate dal modello di vita a cui sono costrette: morte prima del tempo. Disturbi psichiatrici latenti si rivelano in forma drammatica; in alcuni casi possono esserci stati precedenti tentativi di suicidio in famiglia, o gli stessi detenuti possono aver già lanciato in precedenza alcuni segnali d’allarme. Cercano aiuto ma in genere non lo trovano, né nel personale, non di rado usurato da lunghi anni di permanenza nelle diverse case circondariali, né nei colleghi di detenzione, perché assorbiti dal loro stesso malessere. A volte ci sono episodi di violenza, di abuso sessuale, tutte dinamiche che sottolineano la propria debolezza e fanno rivolgere contro sé stessi la propria aggressività. A volte prevale un effetto manipolatorio e il tentato suicidio serve ad ottenere qualche vantaggio secondario, come lo spostamento in un altro carcere, ritenuto a torto o a ragione più vivibile. Ma l’obiettivo principale, se si vuole rispettare il detenuto nella sua dignità personale, è prevenire sia il suicidio che il tentato suicidio. E il sovraffollamento fa effetto massa, non certamente effetto comunità, gruppo, appartenenza. Ci si schiaccia a vicenda, destando rancori e desideri di rivalsa, che nulla hanno a che vedere con le cause della detenzione, ma che diventano icona della detenzione stessa. Prevenire il suicidio - Ridurre il numero delle persone nelle carceri è condizione necessaria ma non sufficiente. La prima cosa sarebbe ricordare perché uno sta in carcere: è vero ha commesso un reato, ma il carcere oltre che riparazione è anche rieducazione; non è solo punizione, ma scoperta di un panorama nuovo in cui si iscrivono quei diritti umani che sono diritti di tutti, anche dei detenuti. La libertà viene provvisoriamente limitata, per imparare a farne miglior uso. In Italia la pena di morte non c’è; non c’è l’omicidio del consenziente e non c’era neppure fino a poco tempo fa il suicidio assistito. Semplicemente, almeno sul piano teorico in cui sono definiti i nostri valori, il nostro sistema carcerario ribadisce il valore della vita; quindi, si prodiga in ogni modo per non permettere che la gente si suicidi, né in carcere né fuori. Perché la vita vale, perché è un diritto fondamentale. Perché siamo amici della vita sempre e in ogni circostanza: quindi in carcere non ci si può andare per suicidarsi, ma per capire cosa non ha funzionato finora e imparare a farlo funzionare meglio. Non ci scandalizziamo davanti al suicidio in carcere, addossandone tutte le responsabilità al governo e alla società, e poi ci prodighiamo per estendere il ricorso al suicidio assistito per tutti coloro che hanno perso il gusto e la speranza della vita. Altrimenti il ministro Nordio potrebbe fornire un Kit, rigorosamente gratuito, per l’aspirante suicida in carcere per morire il più dignitosamente possibile, anche questo potrebbe essere un sistema svuota-carceri. Ma non ne ha mai parlato, nonostante la creatività delle alternative al carcere di cui pure ha tracciato molte linee alternative. Non vuole che il detenuto muoia, perché non ce la fa più. Vuole che viva, in carcere o in un sistema alternativo, ma che viva e affronti le sue difficoltà e le sue responsabilità. Non ha mai pensato ad una sorta di eutanasia sociale, in cui chi non vuol più vivere ottiene un ticket di Stato per sparire, senza ulteriori sofferenze. Vuole qualcosa di più dal sistema giudiziario che governa. Come noi vogliamo molto di più dal nostro Servizio sanitario nazionale, perché la gente preferisca vivere e non si rifugi in un ipotetico “paradiso” senza dolore e senza calore umano. Vogliamo che le ASL curino davvero il dolore fisico e morale, psicologico e sociale, da cui ci sentiamo a volte sopraffatti… Come i nostri detenuti, se opportunamente aiutati, ce la possiamo fare. Suicidi in carcere, la politica resta indifferente di Luciano Giacobbe* La Nuova Calabria, 23 agosto 2024 Sono trascorsi ormai quattro mesi dall’appello “Sui suicidi in carcere servono interventi urgenti” con cui il Presidente della Repubblica invitava la classe politica del nostro Paese ad adottare, con urgenza, misure immediate per allentare il clima di tensione che si respira nelle carceri italiane, causato principalmente dal sovraffollamento, dalla carenza di personale e dall’inefficienza dell’assistenza sanitaria intramuraria e dalle Circolari del DAP sul trattamento penitenziario. Messaggio ribadito anche recentemente, quando il Presidente della Repubblica, condividendo con l’opinione pubblica la lettera dei detenuti del carcere Canton Mombello di Brescia (il secondo carcere più sovraffollato d’Italia), ha affermato: “la descrizione è straziante. Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è - e deve essere - l’Italia. Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, non va trasformato in palestra criminale”. Il Garante comunale di Catanzaro evidenzia che con amarezza e grande preoccupazione la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali si trova a constatare, ancora una volta, la sostanziale indifferenza della politica rispetto all’acuirsi dello stato di sofferenza delle persone detenute, rispetto al peggioramento delle condizioni di vivibilità nelle carceri italiane che, lungi dal consentire “quell’inveramento del volto costituzionale della pena”, continuano a tradire i basilari principi costituzionali, europei e internazionali, su cui regge lo Stato di diritto e a umiliare, quotidianamente, la dignità umana delle persone ristrette. Nell’inerzia delle Istituzioni, si sta allungando l’elenco delle persone detenute che, da gennaio 2024 ad oggi, si sono tolte la vita: sono 66 le persone suicide di cui uno all’interno del Cpr di Ponte Galeria, a cui è doveroso aggiungere il numero dei 7 agenti di polizia penitenziaria che, nello stesso arco di tempo, pure hanno deciso di togliersi la vita. Altrettanto preoccupante è l’aumento dei casi di autolesionismo e il dilagare di fenomeni di violenza e di tortura che si consumano nelle carceri italiane. Così come allarmanti sono i casi di proteste, anche violente, che, in conseguenza delle condizioni di detenzione che ledono la dignità umana, si stanno registrando in diversi Istituti Italiani. Luoghi comuni, etichette e stereotipi impediscono di vedere la reale dimensione del fenomeno. Cosa che, allo stato, non è, in primis per effetto del preoccupante indice di sovraffollamento che, ad oggi, è arrivato ad essere pari al 130%. I detenuti, infatti, ad oggi, sono 61.480 a fronte di una capienza effettiva ammontante a 47.300 posti disponibili. Se si analizzano i dati per singoli contesti regionali, si evince poi che ci sono contesti in cui tale indice è nettamente superiore al 150% (Puglia 169,7%; Basilicata 160,2%; Lombardia 153,5%; Veneto 152,3%). Sconfortanti sono anche i dati ricavabili da un’analisi, non solo quantitativa, ma qualitativa della popolazione detentiva italiana. Considerando la posizione giuridica delle persone detenute, appare sconcertante sapere che: 41.529 sono le persone che stanno scontando una pena detentiva; 7.027 sono le persone che devono scontare meno di un anno di carcere; 21.075 sono le persone che stanno scontando un residuo di pena da 0 a 3 anni; 19.951 sono le persone la cui condanna non è ancora definitiva, di cui circa 9.500 sono in attesa di primo giudizio. Dati allarmanti, conseguenti anche a scelte di politica penale che, in un’ottica puramente repressiva e securitaria, hanno portato all’introduzione di nuove fattispecie di reato, all’innalzamento della durata di pene detentive per alcune fattispecie di reato, all’inasprimento dell’applicazione di misure cautelari, anche per reati di lieve entità. La Conferenza nazionale del Garanti territoriali, dunque, non può che esprimere la propria preoccupazione per ciò che sta succedendo e per ciò che potrebbe accadere di drammatico in questa calda estate in cui, presso gli Istituti di pena, sono sospese molte attività ricreative, scolastiche, universitarie e/o di risocializzazione e si riduce la presenza del personale, in ragione del piano ferie. A fronte di tutto ciò, ritengo che le misure contenute nel recente Decreto-Legge n. 92 del 4 luglio 2024 recante “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personate del Ministero della Giustizia”, nonché le modifiche ad esso apportate dal Senato in sede di conversione risultino inadeguate rispetto alle proporzioni dell’emergenza carceraria. Ritengo che il recente Decreto-Legge presenta diverse criticità. La più evidente riguarda la qualità e il carattere della normativa da poco introdotta, la quale, oltre ad avere carattere eterogeneo, non è immediatamente applicabile e, dunque, non è in grado di rispondere prontamente ad una vera e propria emergenza. La Conferenza nazionale del Garanti territoriali è consapevole che tale misura, da sola, non basta a migliorare nell’immediato le condizioni di vivibilità delle carceri italiane. È necessario superare concretamente la visione carcero-centrica del sistema di esecuzione penale e far sì che la detenzione in carcere sia davvero una extrema ratio, rendendo più snello e veloce il procedimento volto a garantire l’accesso alle misure alternative ai detenuti che, tra quei circa 30 mila che stanno scontando una pena o un residuo di pena inferiore ai tre anni, si trovano nelle condizioni di potervi accedere. Il carcere deve essere un luogo di riscatto, di speranza e di rieducazione, per questo sono necessarie più risorse per contrastare la povertà sociale, economica e culturale che dilaga specie nella sezione della media sicurezza a partire da maggiori incentivi economici per favorire il lavoro intramurario; investire in importanti opere di ristrutturazione degli Istituti penitenziari per migliorare le condizioni di abitabilità e igienico-sanitarie degli stessi ambienti; assumere più personale esperto nel prevenire e gestire il disagio psicologico troppo diffuso in carcere, che rischia di sfociare in gesti di autolesionismo, aggressione al personale penitenziario o ad altri detenuti e, ancor peggio, nella decisione di togliersi la vita. Ed ancora, si dovrebbe incominciare a valutare d’introdurre il numero chiuso nelle carceri. Come già affermato in diverse occasioni pubbliche, indignarsi non basta più. Ritengo che non sia più rinviabile 1’adozione di soluzioni giuridiche che siano in grado di impattare nell’immediato sulle drammatiche condizioni detentive e di ridare, a più di 60 mila persone, speranza e dignità, prima che sia troppo tardi. *Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale di Catanzaro La nostra denuncia: extrema ratio contro il degrado delle carceri di Sergio D’Elia* Il Dubbio, 23 agosto 2024 D’Elia difende l’iniziativa giudiziaria contro via Arenula e dice: la legge di Giachetti e Nessuno tocchi Caino è alla Camera dal 2022, l’abbiamo sollecitata in tutti i modi. “Contro la criminalità politica e comune”, Pannella aveva promosso azioni politiche e giudiziarie e addirittura una lista elettorale, quella antiproibizionista sulla droga. Per perseguire i crimini contro l’umanità ha promosso l’istruzione di processi penali e l’istituzione di tribunali penali internazionali. Davanti al tribunale e nel carcere dell’Aja sono finiti e anche morti capi di stato come Milosevic. Quando si dice: politica criminale del governo, non significa solo avere e fare una politica “sulla criminalità”, può anche accadere che sia e si faccia una politica “criminale”. E la responsabilità politica di un fatto che si ha l’obbligo giuridico di impedire è ben più grave della responsabilità penale che pure ne deriverebbe. Obbligo “giuridico” vuol dire anche “di legge”, di chi le leggi le fa e di chi le deve applicare. E il fatto qual è? Il fatto è quello per cui l’Italia è stata già condannata dalla Corte Edu nel 2013: la violazione dell’articolo 3 della Convenzione che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti nelle carceri. A seguire, lo Stato italiano è stato anche dalla magistratura di sorveglianza condannato a risarcire 24.301 detenuti in base all’articolo 35- ter OP. Fosse lo Stato un comune cittadino, diremmo: è recidivo, un delinquente abituale, professionale e per tendenza. “Non si può mettere una questione politica nelle mani dei Pm”, dice Enrico Costa. “È una commistione tra politica e processo”, aggiunge Desi Bruno. In nome del “garantismo” e della “separazione dei poteri”. Ma cosa c’entra il garantismo e la separazione dei poteri con la nostra denuncia? L’iniziativa di Roberto Giachetti e di Nessuno tocchi Caino è stata messa innanzitutto nelle mani del Parlamento. E ha seguito perfettamente la via più classica della nonviolenza radicale pannelliana. La nostra è stata una lunga via, sulla quale si è proceduto per tappe con dovizia di dialogo e fiducia nelle istituzioni. La denuncia è stata l’ultima tappa, per ora. Ripercorriamo brevemente il percorso. Come Nessuno tocchi Caino abbiamo effettuato negli ultimi anni centinaia di visite agli istituti penitenziari: 120 nel solo 2023 e 70 quest’anno. Dalle visite sono emersi rapporti puntuali per il Capo del Dap. La proposta di legge sulla liberazione anticipata è stata depositata alla Camera da Roberto Giachetti nel 2022. Per la sua calendarizzazione lo stesso Giachetti e Rita Bernardini hanno fatto uno sciopero della fame durato mesi. Rita ha fatto anche due giorni di sciopero della sete per scongiurare l’ennesimo rinvio del voto. Durante questo periodo il tentativo di interlocuzione coi massimi responsabili del governo è stato continuo e portato avanti fino all’ultimo minuto utile. Niente da fare. A ogni piè sospinto i responsabili di Via Arenula dichiaravano: sarebbe una “resa dello stato”, non vogliamo lo “svuota carceri”. Cioè, esattamente quello che chiede il Consiglio d’Europa agli Stati membri: svuotare (un po’) le carceri, addirittura, non per risolvere ma per prevenire il problema del sovraffollamento. Ed evitare la tortura di stato che è reato ben più grave della sua resa. La “commistione”, peggio, la connivenza “tra politica e processo” è un dato di fatto. All’esecuzione di una pena illegale concorrono (è un concorso nel reato) il decisore politico e il controllore giudiziario. Se si eccettuano i bravi magistrati di sorveglianza che concedono misure alternative e rimedi risarcitori per i trattamenti inumani e degradanti subiti in carcere, non si vedono altri magistrati - procuratori, giudici delle indagini e del processo e giudici supremi - che rifiutino di firmare provvedimenti cautelari, sentenze penali e ordini di esecuzione per le condizioni inumane e degradanti del luogo in cui si va a finire. Una chiara ed effettiva distinzione tra i poteri dello Stato richiede proprio che la politica entri nel processo e, viceversa, il processo nella politica. Cosa sono d’altro canto i ricorsi alla Cedu? Altro che commistione! La nostra denuncia, semmai, richiama - intanto - tutti i responsabili nazionali all’esercizio chiaro e distinto delle proprie responsabilità. Assistiamo invece al fatto che il decisore politico scarica sull’esecutore giudiziario l’onere e l’onta di una custodia e una pena illegali. Mentre il controllore giudiziario non imputa, anzi, tollera ogni responsabilità del decisore politico rispetto allo stato di abbandono e di degrado delle carceri. Gli uni e gli altri cagionano ciò che hanno l’obbligo giuridico di impedire. L’obiettivo della nostra denuncia è ridurre il sovraffollamento che è all’origine di tutti i misfatti che avvengono nelle carceri. Non siamo innamorati della nostra proposta di liberazione anticipata. Ogni altra che portasse, con l’urgenza che la fragranza di reato impone, a una riduzione drastica del carico di dolore che grava sull’intera comunità penitenziaria, dei detenuti e dei detenenti, sarebbe per noi benvenuta e per me ragione sufficiente per ritirare la denuncia. Non sono innamorato del diritto penale e anche rispetto a un diritto penale migliore preferisco qualcosa di meglio del diritto penale. Tanto poco mi appassiona il penale che semmai dovesse l’esposto arrivare a processo, cosa altamente improbabile, io personalmente in quel processo non mi costituirei parte civile. Non mi interessa la giustizia della bilancia e della spada, del delitto e del castigo. Mi convince quella che ripara e riconcilia. Non vedo l’ora che questo Stato corra ai ripari sulla situazione delle carceri. Sarebbe quella l’ora anche della riconciliazione. *Segretario di Nessuno Tocchi Caino Morto il Garante nazionale dei detenuti. Nordio: “Grazie per tutto quello che ci ha dato” di Liana Milella La Repubblica, 23 agosto 2024 Un malore improvviso, il ricovero inutile in ospedale. Si apre adesso il problema della sua successione. Il co-garante Serio: “Era molto stressato nell’ultimo periodo e anche amareggiato per le polemiche sui suicidi”. Un malore improvviso, forse un infarto, è costato la vita a Felice Maurizio D’Ettore, il Garante dei detenuti scelto dal Guardasigilli Carlo Nordio e al vertice della struttura da gennaio di quest’anno. Aveva solo 64 anni. Era in Calabria con la famiglia per qualche giorno di vacanza. Un malore improvviso, l’immediato ricovero in ospedale, dove poi è morto nel giro di una dozzina di minuti. A darne l’immediata notizia il giurista Mario Serio, civilista palermitano, che fa parte del collegio del Garante, e che descrive il suo presidente come “molto stressato nell’ultimo periodo e anche amareggiato per le polemiche sui suicidi”. D’Ettore, carattere gioviale e pronto a parlare anche con chi ne aveva contestato sia la nomina che la sua riservatezza, tant’è che si rifiutava di fare interviste, era però sempre disponibile, anche con dovizia di dettagli, a spiegare quale fosse la situazione. In un recente colloquio con Repubblica, proprio D’Ettore, alla domanda su come avrebbe risolto il problema dei suicidi e del sovraffollamento, aveva risposto semplicemente: “Chiederei al governo di metterci molti più soldi”. A dare la notizia ufficiale della scomparsa il Guardasigilli Carlo Nordio. Che ne ricorda “con commozione l’integrità morale e la grande preparazione intellettuale, manifestata anche nella sua ultima funzione quale Garante” ed esprime “gratitudine per tutto quello che ci ha dato”. Ovviamente la scomparsa di D’Ettore, proprio in questo momento delicatissimo per le patrie galere, apre un problema per la sua sostituzione, anche se i due co-garanti, Mario Serio e l’avvocata Irma Conti sono al loro posto. Proprio Serio ha interrotto un suo viaggio all’estero per tornare immediatamente in Italia. La scelta di D’Ettore, giusto ad agosto dell’anno scorso, aveva suscitato più di una polemica. Prendeva il posto del giurista Mauro Palma - che adesso esprime cordoglio “per questa triste notizia” - che aveva retto la struttura per sette anni. La sua nomina fu contestata come troppo “politica” per via del passato di D’Ettore, ex deputato di Forza Italia, passato poi a Coraggio Italia e ancora a Fratelli d’Italia giusto a ridosso delle elezioni politiche del 2022. Docente di diritto privato a Firenze, D’Ettore si era subito sospeso dal suo incarico. Suscitò sorpresa il fatto che non venisse audito dalle commissioni Giustizia di Camera e Senato com’è prassi, anche se informale, prima di una scelta come questa. Ma proprio alla Camera, in quella commissione, è stato poi ascoltato a lungo per parlare del dramma dei suicidi. E alla Camera era passato ancora la settimana scorsa, come racconta più di un deputato. Allegro come sempre e pronto alla battuta. A D’Ettore va riconosciuto il pregio, di pochi, di parlare anche con chi lo aveva criticato duramente. L’addio a Maurizio D’Ettore, Garante dei detenuti di Franco Insardà Il Dubbio, 23 agosto 2024 Cordoglio unanime per la scomparsa del Garante dei detenuti. Il governo dovrà individuare un’altra personalità che continui il suo lavoro per affrontare l’emergenza carceri. Umanità, professionalità, generosità, disponibilità, ironia, giurista raffinato, con un grande senso delle Istituzioni. E si potrebbe continuare per molto a elencare le doti che tutti riconoscono a Felice Maurizio D’Ettore, presidente del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, scomparso improvvisamente oggi a 64 anni all’ospedale di Locri, colpito da un infarto mentre era in vacanza con la sua famiglia. Alla notizia della sua morte è stato un susseguirsi di messaggi di cordoglio e di ricordo dell’attività accademica, parlamentare e istituzionale del professor D’Ettorre. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ha dato la notizia ufficiale, ricorda “con commozione l’integrità morale e la grande preparazione intellettuale, manifestata anche nella sua ultima funzione quale Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale”. In una nota la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, esprime il dolore suo e dell’esecutivo per una persone “di cui tutti abbiamo apprezzato la dedizione e la professionalità, in particolare in un momento così difficile per il mondo penitenziario”. Per il presidente del Senato, Ignazio La Russa, D’Ettorre è stato “un uomo capace che ha dedicato la propria vita alla politica e al lavoro, come ha dimostrato anche nel suo ultimo ruolo di Garante nazionale dei detenuti”. Lorenzo Fontana, presidente della Camera, rivolge “un pensiero anche a chi ha condiviso con lui il percorso lavorativo e l’impegno politico”. Nato a Napoli il 22 luglio del 1960 e laureato in giurisprudenza a Pisa, dal 2005 D’Ettore era professore ordinario di diritto privato alla Scuola di Economia e Management dell’Università di Firenze. Prima aveva insegnato anche all’Università dell’Insubria di Varese e in vari seminari organizzati da vari ordini professionali ed enti di formazione. L’attività politica inizia come consigliere comunale a Bucine, fino a diventare nel 2007 coordinatore provinciale del Popolo delle Libertà prima e di Forza Italia poi per la provincia di Arezzo. Alle politiche del 2018 viene eletto alla Camera dei Deputati nel collegio uninominale di Arezzo, sempre per FI. Nel 2021 aderisce invece a Coraggio Italia, il nuovo partito fondato dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, del quale diventa coordinatore regionale in Calabria. Nel 2022 abbandona il partito e dopo il passaggio al Misto nella componente Vinciamo Italia approda definitivamente a FdI. A settembre 2023 il governo Meloni lo nomina a presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale affiancato al professor Mario Serio e all’avvocata Irma Conti, succedendo a Mauro Palma. Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia con delega al trattamento detenuti, sottolinea le caratteristiche di “un uomo leale, appassionato, curioso, che ha saputo interpretare con senso dello Stato e viva partecipazione anche il ruolo di Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale”. In una nota Andrea Delmastro delle Vedove, deputato di Fratelli d’Italia e sottosegretario alla Giustizia, ricorda la “persona dalla profonda integrità morale e dall’instancabile impegno, qualità inequivocabilmente dimostrate nello svolgimento delle sue mansioni, da ultima quella di Garante nazionale dei detenuti, ove si è speso senza sosta in questi mesi”. Il capo del Dap Giovanni Russo ricordando che “nel corso di questi otto mesi dalla sua nomina continue e preziose sono state le interlocuzioni tempestive, accorate, intrise di vera umanità e alto senso della funzione che tutti noi al Dap abbiamo avuto con la sua persona e il suo ufficio. E tutti ricordiamo la generosità con la quale si è speso in questi mesi visitando gli istituti penitenziari e raccogliendo le numerose istanze e le speranze dei detenuti che puntualmente trasformava in interlocuzioni con il Dipartimento. Ci mancherà il senso della misura e la garbatezza dei suoi modi”. Il portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali e garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, esprime “a nome mio e della intera Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale, amarezza per la morte improvvisa e prematura del Garante nazionale Felice Maurizio D’Ettore”. Giorgio Mulé, deputato di Forza Italia e vicepresidente della Camera, ne tratteggia la figura: “fine giurista e amante del diritto e delle garanzie. Solo alcuni giorni fa discutemmo dei temi delle carceri, lui che ricopriva il ruolo di Garante nazionale dei detenuti. Lo faceva con passione e con sofferenza. Perché Maurizio era persona schietta, mai incline ad accettare compromessi. È stato un valente parlamentare, un eccellente professore di diritto, soprattutto una bellissima persona”. Il presidente del Movimento 5Stelle, Giuseppe Conte, sui social ricorda “un Collega di fine ingegno, ironico e gioviale, con il quale ci siamo ritrovati spesso a chiacchierare a Firenze, a Novoli, nelle pause tra una lezione e l’altra ai nostri studenti”. La ministra delle Riforme istituzionali, Elisabetta Casellati, lo cita come “uomo delle istituzioni, accademico e politico di valore, di cui ricordo il grande impegno in difesa dei diritti fondamentali della persona”. Per Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera resta “l’esempio di uomo intelligente e sensibile che ha svolto con serietà e passione il ruolo di Garante nazionale dei detenuti”. Su X la presidente della commissione parlamentare Antimafia, Chiara Colosimo, lo ricorda come “sempre sorridente, umano e disponibile. Ci aveva accompagnato con abnegazione in una calda giornata di luglio anche nell’ultima missione della Commissione antimafia al Beccaria”. Debora Serracchiani, responsabile Giustizia nella segreteria nazionale del Pd, esprime a nome di tutto il partito “profondo cordoglio per la prematura scomparsa di Felice Maurizio D’Ettore”. Maria Elena Boschi, di Italia Viva, parla di: “un rapporto che è sempre stato caratterizzato da stima e amicizia pur nella doverosa e leale dialettica politica e nelle differenti visioni”. Enrico Costa, deputato di Azione, scrive: “Conoscevo molto bene Maurizio, collega alla Camera nella scorsa legislatura: persona perbene, brillante, che ha sempre saputo portare un contributo importante nel dibattito parlamentare”. Angelo Bonelli, deputato di AVS e portavoce nazionale di Europa Verde, riconosce a “D’Ettore impegno, integrità e una grande disponibilità al dialogo, contribuendo a mantenere alta l’attenzione su temi di estrema rilevanza, come il sovraffollamento delle carceri e il dramma dei suicidi”. Il segretario di Più Europa, Riccardo Magi, scrive: “Lo ricordo nella scorsa legislatura come un collega appassionato, arguto e dotato di grande ironia”. Maurizio Turco e Irene Testa segretario e Tesoriere del Partito Radicale, in una nota, ricordano di aver “condiviso tutte le campagne referendarie sulla giustizia a partire dai referendum Tortora per la giustizia giusta del 1986. Perdiamo un amico e un compagno che abbiamo avuto al nostro fianco nelle battaglie di libertà”. D’Ettore, come ha scritto Errico Novi sul Dubbio, stava svolgendo un ruolo importante per consentire al governo di uscire dall’impasse sull’emergenza carcere, con alcune proposte per ridurre il sovraffollamento, documentato proprio dai report periodici. Ora la sua scomparsa apre scenari politici complicati per la sua sostituzione, in considerazione anche delle aperture di Forza Italia a politiche carcerarie deflattive, indigeste al resto della maggioranza. Salvatore Buzzi: “Da ex detenuto vi spiego la soluzione per migliorare le carceri” di Gaetano Mineo Il Tempo, 23 agosto 2024 Tornato libero lo scorso settembre, Salvatore Buzzi. Il cosiddetto ras delle cooperative romane è stato coinvolto nella maxi-indagine denominata Mondo di Mezzo. Dopo la condanna della Corte di Cassazione a 12 anni e 10 mesi di reclusione, Buzzi ha già espiato 6 anni e 7 mesi. Poi ha avuto la liberazione anticipata per circa un anno e due mesi. “Mi rimango 4 anni e 4 mesi che sto scontando in affidamento”, ci dice. E dopo la sua esperienza carceraria, è convinto che due sono le direttrici su cui agire: interventi immediati e ridurre drasticamente le pene detentive compensandole con quelle alternative. Buzzi, da ex carcerato, come percepisce questo dibattito politico che anima le cronache di questi giorni? “Voglio usare una metafora. Se c’è una nave che sta affondando, non posso aspettare che se ne costruisca un’altra per salvare i passeggeri. Certo, posso avviare i cantieri per una nuova nave, ma da subito devo attivarmi per salvare le persone che sono a bordo per evitare che muoiano. In pratica, di fronte a 61 mila detenuti su 47 mila posti, che poi in realtà i posti sono anche di meno perché non si tiene conto delle celle inagibili, con una situazione agostana per laquale, in certi casi, si soffoca, o come in Sicilia, in Calabria e anche in Campania, dove in molti penitenziari non c’è nemmeno l’acqua in tutte le ore, che si fa? Aspettiamo la costruzione di nuove carceri?”. Ritiene che questo scenario accresca i suicidi in carcere? “È indubbio che il sovraffollamento nelle carceri ha una sua componente nei suicidi, sovraffollamento dovuto maggiormente per carenze strutturali e per carenze di organico. Ma va detto pure che all’interno delle carceri spesso manca il supporto di un psicologo, sei abbandonato a te stesso e quindi è facile che un detenuto possa essere preso dalla disperazione”. Non solo detenuti ma anche guardie carcerarie si sono tolte la vita... “Deve sapere che i suicidi degli agenti di custodia a volte superano quelli dei detenuti. Questo vuol dire che anche le guardie penitenziarie vivono lo stress di queste prigioni inumane. Va ricordato che la guardia penitenziaria è il front-office, che sta davanti al disagio, alla disperazione e anche ai disordini dei detenuti”. Ritiene di raccontare un episodio? “Lo scorso anno ero detenuto a Catanzaro. Avevamo una situazione inumana, cioè temperature elevatissime, carenza d’acqua e di aria. In più, eravamo in due in una cella che invece ne poteva ospitare uno. Queste sono le situazioni, come fai a vivere in queste condizioni? E intanto, fuori dalle carceri, i politici discutono comodamente attorno a un tavolo o in un talk show beatificati dall’aria condizionata”. Quale sarebbero le prime cose da fare, alla luce di questo scenario? “Ritengo che allo stato l’unica misura deflativa e non generalizzata per decongestionare le carceri sia la rapida approvazione della proposta di legge Giachetti-Nessuno Tocchi Caino che aumenta lo sconto di pena per la liberazione anticipata dagli attuali 90 giorni ogni anno di pena espiata a 120 giorni. Se vogliano andare a salvare la nave che affonda, per me è l’unica immediata proposta. E se fosse applicata retroattivamente, potrebbero uscire dal carcere circa 6-7 mila persone. E non è uno svuota carceri, perché parliamo di una misura premiale già esistente e che va nella direzione intrapresa dal ministro Nordio”. Dopo la sua esperienza giudiziaria, che idea s’è fatto della giustizia italiana? “Non ho più fiducia nella giustizia italiana. Io ho avuto una condanna a 12 anni e 10 mesi, abnorme, per fatti banali. Fiducia che continua a vacillare anche alla luce di queste inchieste ad persona o ad oras che vengono fatte”. A cosa si riferisce? “Mi riferisco alla più recente ed eclatante vicenda giudiziaria dell’ex governatore della Liguria, Giovanni Toti. Perché è stato arrestato? I ricatti, o parli o non esci dal carcere vendono sempre fatti con tutti i detenuti in fase di incarcerazioni preventive. Il caso Toti è la punta di un iceberg. Ed è divenuto di dominio pubblico perché era un presidente di Regione. Cosa sappiamo invece di tutti quei cittadini anonimi che non hanno gli strumenti di cui può avvalersi Toti e che sono caduti nelle maglie della giustizia in modo accidentale?”. Al caldo del carcere, col terrore di rivolte e sanzioni: così vive un poliziotto penitenziario di Leo Beneduci* Il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2024 Il sole d’agosto brucia implacabile sulle mura grigie del carcere di Rebibbia, ma potrebbero essere quelle di Secondigliano, Torino, Sulmona, Sollicciano, Perugia, Prato, in questo momento il panorama non cambia. Un tempo, in questi giorni, i giornali italiani si riempivano di storie di cani abbandonati sulle autostrade. Oggi parlano di carceri sovraffollate, di detenuti che soffrono il caldo. Ma c’è un’altra storia di abbandono che nessuno racconta, un dramma che si consuma 365 giorni all’anno, non solo d’estate. Varco i cancelli del penitenziario e l’aria pesante, carica di tensione, mi investe. Non è solo l’atmosfera creata dai detenuti. C’è altro. Lo vedo negli occhi dei poliziotti, lo sento nel modo in cui camminano, parlano, respirano. Questi donne e uomini in divisa sono veri prigionieri qui, ostaggi di un sistema amministrativo e giudiziario che li ha dimenticati. Un agente fresco di corso e distaccato a Roma per ì gravi motivi di salute della madre, mi guarda. Nei suoi occhi leggo ancora di ideali, ma anche di grandi paure. Paura di non farcela, voglia di congedarsi prima ancora di iniziare. “Sono qui, ma rispetto a quello che immaginavo quando ho scelto di arruolarmi c’è un abisso”, dice, la sua voce trema, incerta. Lo scarto tra scuola e carcere è un baratro che minaccia di inghiottirlo. Accanto a lui, un collega con dieci anni di servizio sorride amaramente: “Aspetta e vedrai quanti capelli bianchi che avrai tra un anno ed i lividi delle aggressioni”. Ogni giorno, questi agenti affrontano una missione impossibile. Devono mantenere l’ordine in un sistema al collasso, con risorse insufficienti e un sovraffollamento cronico. Ma la vera sfida è sopravvivere all’indifferenza di un’amministrazione che sembra averli abbandonati. I direttori ed i vertici del dipartimento d’estate vanno in vacanza che tanto loro, i capi, quello che gli agenti devono fare lo hanno messo per iscritto e poi succeda quello che deve succedere, il peso delle emergenze su chi resta. “Quando un detenuto fa una rivolta, raramente viene punito”, mi spiega un veterano, gli occhi stanchi di chi ha visto troppo. “Ma se noi alziamo la voce, anche solo per difenderci, veniamo sanzionati, sospesi, indagati, perseguitati.” I media parlano ancora oggi di Santa Maria Capua Vetere, di San Gimignano. Scandali, accuse di tortura. Ma chi parla delle torture quotidiane che questi agenti subiscono? Non solo violenza fisica, anche se c’è anche quella; parlo di una violenza più subdola: l’essere costantemente sotto accusa, l’essere considerati colpevoli fino a prova contraria, l’avere paura di fare il proprio dovere e di doversi poi giustificare, l’avere paura persino di muoversi: meglio diventare un automa senz’anima ed eseguire solo gli ordini se pure ce ne sono. Un assistente mi mostra i segni sul polso, residuo di un’aggressione recente. “Sai cosa è successo al detenuto che mi ha fatto questo? Nulla. Sai cosa sarebbe successo a me se avessi reagito? Sospensione immediata e metà stipendio per anni, forse la fine della mia carriera… e della mia famiglia”. L’indulgenza verso i detenuti e il rigore con gli agenti creano un paradosso kafkiano. Mentre il famigerato articolo 14-bis, una sorta di daspo carcerario per i detenuti più violenti, rimane inapplicato, gli agenti vivono nel terrore costante di sanzioni per il minimo errore. Esco dal carcere con un peso sul cuore. Ho visto donne e uomini che hanno giurato di servire lo Stato, ridotti a ombre di se stessi. Sentinelle della legalità, dimenticate da quello stesso sistema che dovrebbero proteggere secondo la legge istitutiva del Corpo di Polizia penitenziaria e il regolamento carcerario del 2000. Questa è la vera emergenza penitenziaria di cui nessuno parla. Non ci sono una sola versione della storia ed un solo lato delle sbarre. C’è un intero capitolo che viene sistematicamente ignorato, censurato, dimenticato. In un Paese che si definisce civile, in una Repubblica fondata sul lavoro, come possiamo permettere che coloro che incarnano la legge vengano abbandonati in questo modo? Mentre il dibattito pubblico si concentra sui diritti dei detenuti - una battaglia giusta e necessaria - chi difende i diritti di chi quei detenuti deve custodire e vigilare tutelando l’ordine e la sicurezza pubblica? Le mura del carcere non dividono solo i colpevoli dagli innocenti. Dividono anche coloro che la società ricorda da coloro che ha scelto di dimenticare. E in questo oblio collettivo, stiamo perdendo non solo degli individui, ma l’essenza stessa della giustizia che pretendiamo di servire. Il mestiere di sopravvivere in carcere non dovrebbe essere quello del poliziotto penitenziario, eppure, in Italia, questa è la triste realtà quotidiana. *Segretario Sindacato Polizia Penitenziaria In attesa di giudizio di Sabino Cassese Il Foglio, 23 agosto 2024 Giustizia ritardata è giustizia negata, sosteneva un politico inglese a fine ‘800. Sembra l’Italia di oggi. Gli arretrati, i processi, il rapporto con il Pnrr e il digitale: lievi miglioramenti ma ancora un confronto impietoso con gli altri Paesi “Justice delayed is Justice denied”. Questa massima, già ben nota prima, fu adoperata da quel grande politico inglese, primo ministro per 12 anni e a lungo cancelliere dello scacchiere, che ha costruito l’esecutivo inglese, alla fine dell’ottocento, William Ewart Gladstone. Se fosse interamente vera, dovremmo riconoscere che in Italia non c’è giustizia. I tempi della giustizia civile in Italia - Quali sono i dati statistici per il nostro paese? Isotta Valpreda, il 28 giugno 2024, ha scritto per l’osservatorio sui conti pubblici italiani - Ocpi, una breve e compendiosa analisi intitolata “I tempi della giustizia civile si sono ridotti grazie al Pnrr?”. Ha osservato: “Dal 2010 al 2018, la durata dei processi civili che arrivano al terzo grado di giudizio è scesa da otto anni e due mesi a sette anni e tre mesi, restando comunque più alta di quella degli altri principali paesi europei. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) si propone di ridurre, entro giugno 2026: (i) del 40 per cento la durata media di tali processi, rispetto al 2019; e (ii) del 90 per cento il numero dei processi pendenti a fine 2022 (se originati dopo il 2016 per i Tribunali e 2017 per le Corti d’appello). Per raggiungere questi obiettivi, sono previste riforme quali la digitalizzazione dei processi, la promozione di metodi alternativi di risoluzione delle controversie e il miglioramento delle procedure esecutive e tributarie. Tuttavia, finora il calo nella durata osservato tra il 2019 e il 2023 è stato solo del 17 per cento e se la riduzione procedesse allo stesso passo nel 202425, il calo complessivo sarebbe solo del 24 per cento, ben al di sotto del target del 40 per cento. Nella riduzione dei casi pendenti gli andamenti sono più favorevoli: al 2023, la riduzione per i pendenti iscritti presso i Tribunali tra il 2017 e il 2022 è stata del 50 per cento e quella presso la Corte d’appello tra il 2018 e il 2022 del 43,4 per cento, un buon risultato in un anno, quando ancora ne restano due per il raggiungimento della riduzione del 90 per cento”. Insomma, ci vorranno ancora più di cinque anni per avere una decisione giudiziaria definitiva e - cosa singolare - riduzione dei tempi dei processi, riduzione dei casi pendenti e riduzione degli arretrati sembrano non procedere. Può essere allora utile esaminare i dati pubblicati dal ministero della Giustizia, dipartimento per la transizione digitale della giustizia, l’analisi statistica e le politiche di coesione, direzione generale di statistica e analisi organizzativa, nella Relazione sul monitoraggio statistico degli indicatori Pnrr - anno 2023, pubblicata il 19 aprile 2024. Lì si può leggere che “per il settore civile, i dati del 2023 segnalano la seguente riduzione rispetto alla baseline 2019 -17,4 per cento del disposition time totale. Il miglioramento è apprezzabile in tutti i gradi di giudizio, a partire dalla Cassazione che fa registrare una riduzione del 23,0 per cento. […] il disposition time calcolato sull’intero anno risente del fisiologico rallentamento dell’attività definitoria durante il periodo feriale. Alla stagionalità dell’indicatore è imputabile la variazione più ridotta del Dt rispetto alla baseline in confronto a quella osservata nel I semestre dell’anno. Ne è evidenza il fatto che la riduzione annuale, del 2023 rispetto al 2022 (-6,3 per cento), sia coerente e anche più elevata di quella registrata confrontando il I semestre del 2023 con il I semestre del 2022 (-1 per cento). Nell’anno la variazione del Dt è stata maggiore nei Tribunali (-8,7 per cento, in lieve accelerazione rispetto al periodo precedente), rispetto alla Corte di appello (-5,5 per cento) e alla Cassazione (-5,6 per cento). Dopo il lieve incremento osservato nel 2022, nel 2023 il Dt della Cassazione è ritornato ai livelli del 2021”. Per il lettore: Disposition time è un dato prospettico, la misura di tempo prevedibile di decisione che si ottiene confrontando le pendenze di fine anno con il flusso dei procedimenti definiti nell’anno. I tempi della giustizia e i settori - È molto importante considerare i settori e le materie dove si forma l’arretrato. Questo, nelle corti di appello e nei tribunali, è concentrato nelle materie dei contratti, delle controversie di diritto amministrativo e su leggi speciali, della responsabilità extracontrattuale, del lavoro e dei diritti reali, mentre una parte molto limitata è occupata da materie come successioni, locazioni, separazioni e divorzi, diritto di cittadinanza, protezione internazionale, equa riparazione. I tempi della Corte di Cassazione - Esaminiamo ora più da vicino i dati relativi alla Corte di Cassazione. La durata media effettiva dei procedimenti civili alla Corte di Cassazione è di tre anni e mezzo. Il paradosso è che si riduce l’arretrato, ma aumentano le nuove iscrizioni, e cioè i ricorsi. Si aggiunga che il 43 per cento dei ricorsi è costituito dal contenzioso tributario, che aumenta del 36 per cento e la cui durata media è di quattro anni e 8 mesi. Cosa ancora più grave è che misure deflattive sono state adottate, anche in virtù del Piano nazionale di ripresa e di resilienza, ma si sono rivelate scarsamente efficaci. Tra queste il processo telematico, il filtro per inammissibilità, improcedibilità e manifesta infondatezza, le decisioni in camera di consiglio. Quindi, anche gli interventi del Piano nazionale di ripresa e di residenza hanno fatto registrare modesti miglioramenti dell’andamento delle decisioni I confronti che ci accusano - Per capire come stanno le cose, bisogna guardarsi in giro, e per farlo occorre utilizzare i dati raccolti dalla Cepej, la Commissione europea per l’efficienza della giustizia. Questa è stata istituita dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nel settembre 2002 con il compito di proporre soluzioni concrete per gli Stati membri del Consiglio d’Europa e di promuovere una migliore organizzazione della giustizia, per tener conto dei bisogni degli utenti e contribuire a prevenire le violazioni dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e così ridurre la congestione della Corte europea dei diritti dell’uomo. Composta di esperti dei 46 membri del Consiglio d’Europa, ha iniziato nel 2004 a valutare ogni due anni i sistemi giudiziari dei membri del Consiglio d’Europa e di alcuni paesi con lo stato di osservatori. Ha pubblicato l’ultimo rapporto nel 2022, con dati che risalgono al 2020: si tratta del nono ciclo di valutazione biennale e può aiutare a capire comparativamente dove stanno i problemi. L’elaborazione dell’osservatorio dei conti pubblici italiani sui dati della Cepej mostra, in termini comparativi e su base pluriennale, per il decennio 2010-2020, lo stato costantemente critico della giustizia italiana. Questa impiega un tempo da due a sei volte maggiore della giustizia francese, di quella tedesca e di quella spagnola. Due esempi stranieri, d’oltreoceano - Può essere interessante ricordare due esempi stranieri, relativi il primo agli Stati Uniti d’America, il secondo al Canada. Negli Stati Uniti, nel 1974 fu adottato lo “Speedy Trial Act”, che stabilisce i requisiti di tempo per le decisioni giudiziarie penali. Nel 1990 fu approvata una legge per ridurre i tempi della giustizia, con il risultato che le corti federali raggiungono normalmente una decisione in un arco di tempo di un anno-un anno e mezzo. Più drastica la soluzione adottata nella provincia del Quebec, dove è stata approvata una norma che prevede che la decisione giudiziaria debba essere presa entro sei mesi dall’inizio della procedura. È una norma che non sempre viene rispettata, ma che costituisce un forte stimolo alla rapidità delle decisioni giudiziarie. La riforma della giustizia è stata affrontata in Italia in molti modi, come l’avvio delle procedure relative alla separazione delle carriere o le norme sulla limitazione delle intercettazioni, ma il compito fondamentale di una riforma della giustizia dovrebbe essere quello di ridurre i tempi dei processi. I rimedi sono molti e numerosi di essi sono stati anche sperimentati, ma, per coordinarne l’azione e tenere vivo il processo riformatore, manca una centrale, al ministero della Giustizia, dotata di esperti di statistica e di organizzazione, che non solo introducano “best practices”, ma che ne seguano il percorso e cerchino anche di stimolare la competizione tra i vari organi giudiziari. La giustizia è uno dei campi a cui si applicherebbero con maggiore facilità i princìpi di quella che uno studioso e operatore francese, Gabriel Ardant, chiamò, in un suo libro intitolato “Technique de l’état”, “concurrence sur papier”, cioè esame comparativo degli andamenti per tribunale, in modo che dalla comparazione vengano sia correzioni ai piani di riforma, sia stimoli alla competizione. “Niente guerre con le toghe”, FI sterza persino sulla giustizia di Errico Novi Il Dubbio, 23 agosto 2024 Dal dirigente della segreteria di Tajani un’evidente frecciata a FdI per le polemiche sul caso Arianna Meloni: ma l’analisi ignora l’allarme arrivato dalla vicenda Toti. Alessandro Cattaneo è stato un giovanissimo militante berlusconiano. Può essere considerato fra i veterani della delegazione azzurra a Montecitorio nonostante abbia alle spalle solo un’altra legislatura in virtù del proprio percorso movimentista, vicino ai cosiddetti “Circoli” inventati da Marcello Dell’Utri, e di un attivismo che, nel lontano 2009, lo portò a diventare sindaco di Pavia, ad appena 30 anni. Cattaneo è insomma della vecchia guardia forzista: non a caso è stato vicecoordinatore nell’interregno che ha preceduto l’elezione di Antonio Tajani, ed è tuttora responsabile Dipartimenti di FI. E perciò un po’ si resta spiazzati, nel leggere le parole consegnate ieri dal deputato azzurro al Foglio: “Noi di Forza Italia non vogliamo il ritorno a una fase di contrapposizione tra magistratura e politica, non vogliamo guerre sante”. Forse un inedito, nella storia di un movimento segnato in modo irreversibile dalle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi. A proposito delle quali, Cattaneo puntualizza: “Quella stagione l’ho vissuta da vicino, il Cav resta un caso unico e irripetibile. Ma credo che oggi, per fortuna, siamo lontani da quei toni e da quel periodo”. Sono argomentazioni che suonerebbero persino mediamente scontate, se non provenissero da un berlusconiano. E sono frasi che non hanno un senso facilmente intellegibile, all’infuori di una lettura strettamente ancorata alla strategia inaugurata da Forza Italia con lo Ius scholae. Strategia che consiste nel distinguersi chiaramente dagli alleati, innanzitutto da Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni, competitor a cui gli azzurri ritengono di poter portar via consensi e con il quale i figli del Cavaliere non intendono “confondersi”. La logica dello smarcamento moderato non cambia persino quando la premier lascia trapelare propositi bellicosi rispetto al protagonismo dei pm, sollecitata dai timori di un’indagine sulla sorella Arianna. Ecco: che FI, pur di allontanarsi da Meloni, arrivi a contraddire la leader dell’Esecutivo sulla giustizia e sul potere debordante delle Procure, è davvero straniante. Il punto è che, come ricordato nei giorni scorsi su queste pagine, la premier è determinatissima nel voler dare slancio alla separazione delle carriere, non appena la ripresa dei lavori parlamentari lo consentirà. Uno dei suoi dirigenti più fidati, il capogruppo FdI a Montecitorio Tommaso Foti, ha persino sorpreso Forza Italia e Lega quando, una decina di giorni fa, ha annunciato che il ddl sul divorzio fra giudici e pm arriverà nell’aula della Camera con un diritto di precedenza rispetto al premierato, la madre di tutte le riforme, nella prospettiva iniziale di Palazzo Chigi. Come si comporterà, il partito di Tajani, nel momento in cui il resto della maggioranza serrerà le fila per arrivare il prima possibile all’ok sulle carriere separate? Quale sarà la linea degli azzurri nel momento in cui, a fronte di quelle accelerazioni, l’Anm metterà in azione la propria contraerea mediatica? Davvero i berlusconiani proveranno a esibire un profilo moderato, addirittura “laico”, sulla giustizia, anche sulla modifica costituzionale che dovrebbe smilitarizzare le toghe, depotenziare i pm negli assetti di potere interni alla magistratura e svuotare il peso politico dell’Anm? Cattaneo - in un’intervista che davvero sembra spiegarsi, nei passaggi sulla giustizia, solo con lo sfizio di marginalizzare il rancore di Meloni per l’ipotetica ipotesi di traffico d’influenze a carico della sorella - qualifica, come detto, la vicenda del Cavaliere come irripetibile. Sorprende però l’assoluta indifferenza del responsabile Dipartimenti di Forza Italia rispetto al caso Toti, che ha riproposto eccome il nodo delle pretese moralizzatrici coltivate dalla magistratura nei confronti della politica. Nell’indagine ligure, e nella censura avanzata da pm e giudici contro la ricerca di sostegni economici da parte dell’ex governatore, ci sono elementi che dovrebbero allarmare il centrodestra, anziché tranquillizzarlo al punto da indurre la sua componente più orgogliosamente garantista a proclamare che non è più tempo di conflitti con la magistratura. Chissà cosa ne pensa la schiera di parlamentari- avvocati che, in questi due primi anni di legislatura, ha consentito a Forza Italia di distinguersi proprio per l’approccio liberale sulla giustizia. Pensiamo al viceministro Francesco Paolo Sisto, ma anche agli altri penalisti di professione che, nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato, si sono battuti con successo su dossier altrimenti blindati dalla vocazione securitaria di FdI e Lega: Tommaso Calderone, Annarita Patriarca e Pietro Pittalis a Montecitorio, Pierantonio Zanettin a Palazzo Madama. Sono stati loro a proporre e ottenere misure come il primo serio stop alle intercettazioni a strascico e la legge sul prelievo di dati dallo smartphone dell’indagato. Bene, ora ci aspettiamo che, tutti insieme, facciano comprendere a Cattaneo come a tenere vivo il conflitto non è il centrodestra, e neppure Arianna Meloni, ma proprio la magistratura. Chissà se basterà a evitare che FI, nell’apprezzabile sforzo di consolidare l’identità moderata, non arrivi a rinnegare idee capaci di assicurarle il buon successo delle ultime Europee. Cittadinanza e carceri, riforme senza bandiere di Mara Carfagna* Il Giornale, 23 agosto 2024 Il dibattito politico che si è aperto sulla cittadinanza agli immigrati di seconda generazione e sulla condizione delle carceri è una buona notizia, anche sotto il profilo politico. Sono due problemi concreti, reali, che chiamano in causa la capacità dell’Italia di difendere i valori costituzionali e di organizzare il suo futuro. Il significato rieducativo della pena, i diritti di chi è cresciuto nel nostro sistema di regole, istruzione, valori, e tuttavia è trattato da “straniero” ogni volta che deve rinnovare un documento o affrontare un passaggio burocratico. Non è un caso che la discussione sia stata rilanciata dalle prese di posizione del mondo moderato, che ha sempre guardato con pragmatismo alle questioni del Paese e che ha come faro un principio semplice: prima le persone, poi l’ideologia e i distinguo identitari. Sarebbe opportuno, per tutti, riconoscere due dati fondamentali in questo dibattito. Il primo: il tema delle carceri e quello della cittadinanza non possono essere affrontati nella logica delle “bandierine”. Lo ha fatto la sinistra, in passato, arrivando quasi all’approvazione dello Ius Culturae e poi affondandolo per timore di un contraccolpo elettorale guidato dalle destre. Lo hanno fatto le destre quando, con la recente riforma delle carceri, hanno eluso il tema del sovraffollamento per paura di scontentare il loro elettorato “legge e ordine” anche se erano perfettamente consapevoli dell’assoluto disastro dei penitenziari, tra suicidi e rivolte. Superare questo approccio, e vengo al secondo dato, è indispensabile davanti a questioni di portata emergenziale come queste. Lo fecero i padri fondatori della Repubblica affrontando questioni sociali ineludibili come il divorzio e l’aborto, con leggi controfirmate da premier democristiani che pure avevano idee di principio diverse. Lo abbiamo fatto anche noi nei passaggi più delicati della crisi economica, quando i capi di partito sostennero e votarono norme di salvataggio che non erano nei progetti di nessuno ma risultavano indispensabili a mandare avanti l’Italia. Recuperare questo spirito, dunque. E non trincerarsi dietro la formalità dei programmi che come succede sempre anche in questa legislatura sono stati largamente rimaneggiati in ossequio al principio di realtà, altrimenti avremmo già in corso blocchi navali, flat tax, quota cento e ogni altra promessa spesa in sede di campagna elettorale. Al Paese serve un campo di riforme condivise, che non possano essere usate da una parte per bastonare l’altra perché tutti avranno dato il loro contributo: su carceri e cittadinanza credo che questo spazio possa essere trovato visto che ogni forza politica, in passato, ha generato proposte ragionevoli e molto simili per affrontare entrambi i problemi. Lo Ius Scholae di cui si discute non è un tema “immigrazionista”, anzi è un potente antidoto alle sacche di clandestinità e di rifiuto dell’integrazione. La destra politica sa benissimo che i ghetti generano solo diffidenza reciproca, se non odio e violenza. Tante volte ha fatto riferimento al suo passato di comunità esclusa come a un fattore sciagurato per la democrazia, e infatti solo due anni fa si esprimeva in favore della cittadinanza ai ragazzi che avevano assolto l’obbligo scolastico in Italia per dieci anni. Cosa è cambiato da allora? E la sinistra, che rilancia posizioni estremiste sulla cittadinanza a chiunque sia nato in Italia, vuole cambiare le cose o soltanto generare l’ennesimo scontro improduttivo? Sulle carceri valgono simili domande: quanti suicidi, quante rivolte, che percentuale di persone private della libertà in attesa di processo ci servono per decidere che si è passato il segno? Possiamo sopportare che in Italia esista un’enclave, i penitenziari, dove i diritti costituzionali alla salute e alla vita sono sospesi? Ecco perché il campo di dibattito aperto dai moderati va coltivato con energia e orgoglio. Non è il solito teatrino, riguarda questioni essenziali della nostra democrazia, può migliorare l’Italia. Poi, su tutto il resto, il nostro bipolarismo può continuare a dividersi su visioni contrapposte che esistono, sono innegabili e a lavorare in direzioni alternative, ma deve esistere una sfera dove si agisce sulla base del principio di responsabilità: da italiani prima che da portatori di interessi elettorali o di potere. *Presidente di Azione Con un avviso di garanzia ti rovinavano, ora basta il sospetto di un avviso di Frank Cimini L’Unità, 23 agosto 2024 Una delle ragioni per cui Mani pulite non è finita e sembra non finire mai è la responsabilità della politica. Non c’è uno schieramento o un partito che rinunci a strumentalizzare le inchieste giudiziarie quando sotto tiro ci sono gli avversari, e questo aumenta ancora di più in modo spropositato il potere della magistratura. La novità degli ultimi giorni sulla quale vale la pena di soffermarsi - ma non più di tanto per evitare di farsi distrarre dai problemi reali del paese - è che siamo arrivati dalla strumentalizzazione al tentativo di utilizzare una inchiesta che non c’è e che al 99% non ci sarà mai. Arianna Meloni è dirigente di un partito, il primo partito del paese. Le nomine le fanno i partiti che governano, a volte nel consociativismo con l’opposizione, per cui non si capisce perché ci dovrebbe essere una indagine giudiziaria. Quando governava Matteo Renzi, lui e suoi procedevano alle nomine, adesso invece Arianna Meloni dovrebbe spiegare le sue scelte politiche. Dopo l’articolo de il Giornale, il centrodestra si è indignato, ovviamente gridando al complotto, sempre in relazione e a una indagine di cui non c’è traccia. Ma si è indignata pure l’Associazione nazionale magistrati, dedicandosi alla sua attività preferita, “ci vogliono delegittimare”. Parliamo di una categoria che ha già dimostrato ampiamente di essere in grado di de-legittimarsi da sola con una grandissima capacità di auto-assolversi e auto-amministrarsi, come è accaduto in relazione al caso Palamara, radiato come unico responsabile di una ottantina di nomine sottobanco nel regno del traffico di influenze, che però in questo caso nessuno ha contestato formalmente. Si tratta del reato di cui secondo le fantasie dovrebbe rispondere Arianna Meloni, del reato che ai comuni mortali di solito viene contestato per molto meno di quanto accade al Csm. Ma queste strumentalizzazioni delle inchieste da una parte e dall’altra portano poi vantaggi a chi le fa? Non pare proprio. A Bari, dove la destra aveva dato addosso al centrosinistra sul voto di scambio, altro reato evanescente al pari del traffico di influenze, hanno vinto gli avversari. Alle elezioni europee non sembra aver influito l’inchiesta di Genova sulla presunta corruzione Toti-Spinelli. E, in vista delle elezioni del 27 ottobre in Liguria, il centro-destra pare restare con un buon vantaggio, nonostante la mobilitazione di piazza contro l’allora governatore detenuto in casa. Insomma, sembra che gli elettori se ne freghino ampiamente e che chi strumentalizza la giustizia faccia un buco nell’acqua, a differenza di trent’anni fa. Sicilia. Sanità nelle carceri all’anno zero: cure insufficienti per 7 mila detenuti di Alessia Candito La Repubblica, 23 agosto 2024 Il sovraffollamento degli istituti penitenziari riduce al lumicino le ore di visite specialistiche per i reclusi. Apprendi: “Urgente la creazione di una unità che risponda realmente alle esigenze di chi è dietro le sbarre”. Mese dopo mese ha visto il mondo stingersi, stringersi, spegnersi, mentre la cataratta che gli velava l’occhio diventava muro. Adesso L.C, detenuto settantenne del Pagliarelli, da un occhio non ci vede più. Ma solo da poco la richiesta di visita specialistica per mesi sollecitata è stata inoltrata all’ufficio competente dell’azienda sanitaria provinciale. E toccherà aspettare ancora. Sette, otto mesi almeno. La scandalosa ghigliottina delle liste d’attesa lunghe mesi non ha appello per i detenuti, per loro non c’è neanche la possibilità - per chi possa permetterselo - di far ricorso all’intra-moenia o al privato. E per chi ha più patologie, è roulette ancor più rischiosa. Mario, nome di fantasia, ci gioca tutti i giorni. Ha un linfoma ed un enfisema polmonare, che affronta da sieropositivo ma è riuscito a farsi visitare solo dagli specialisti di malattie infettive. Per tutto il resto attende, mentre i suoi legali inutilmente presentano richieste di domiciliari sanitari. Non si tratta di casi isolati, ma della naturale conseguenza di un sistema che servizi non ne offre a chi sta fuori e ancor meno a chi sta dentro. Per i 1.883 detenuti adulti ospiti delle due carceri palermitane - l’Ucciardone, con tasso di sovraffollamento pari al 108% e il Pagliarelli, dove si supera il 118% - le ore di visite specialistiche esterne settimanali si contano sulle dita di una mano. Al Pagliarelli sono solo due per cardiologia, medicina e neurologia, 4 di oculistica e ortopedia, 5 di otorinolaringoiatria, 12 di diagnostica per immagini. Per le oltre 80 donne detenute, ci sono solo 2 ore di visita ginecologica a settimana. Per alcune branche specialistiche, incluso diabetologia e pneumologia, le ore messe a budget sono pari a zero. E lo stesso succede all’Ucciardone, dove le ore di visite specialistiche esterne sono ancora di meno. Le 15 previste per psichiatria - dice chi lì ci lavora - sono lungi dall’essere sufficienti. Così come non bastano le ore previste per gli psicologi. Appena 130 a settimana per gli oltre 1.155 detenuti del Pagliarelli, 91 per i quasi 600 dell’Ucciardone. E solo 13 per i ragazzi dell’Ipm Malaspina. Sono trenta, dovrebbero essere cinque in meno. Ma come quasi tutti i minorili d’Italia oggi quello palermitano è sovraffollato. “Merito” del decreto Caivano, che ha inasprito pene e misure, finendo per mettere a rischio anche il fragile equilibrio di una giustizia minorile che in Europa era diventata modello. E oggi anche una visita dal dentista per un ascesso che non va via diventa un problema. O un incubo che ritorna se il giovane detenuto che ne ha bisogno è sopravvissuto a un cancro alla mandibola avuto ad appena nove anni. È toccato al garante cittadino dei detenuti Pino Apprendi dedicare giornate a districare il garbuglio burocratico che divorava ogni richiesta di visita perché l’istanza del ragazzo venisse presa in considerazione. “È necessario e urgente convocare un tavolo tecnico all’Asp con i direttori sanitari dei tre penitenziari per capire quali siano le reali esigenze e un incontro con l’assessorato alla Sanità della Regione”. Obiettivo? Creare un dipartimento di sanità penitenziaria, in grado di rispondere davvero alle necessità di salute di chi sta dietro le sbarre. In Sicilia sono 6.855. Troppi per le strutture che ci sono. Ma stando agli ultimi dati forniti dal Collegio dei garanti nazionali, potrebbero facilmente essere molti di meno. A partire dagli 833 condannati a pene che non superano i tre anni o gli oltre 1.800 a cui rimangono meno di 36 mesi da scontare, tutti titolati ad accedere a misure alternative. Soluzione che per loro nessuno sembra aver preso in considerazione. Puglia. Niente soldi per i reclusi psichiatrici: la Regione li dà alle cliniche private di Antonio Della Rocca Corriere del Mezzogiorno, 23 agosto 2024 Distratti i 6,8 milioni per le residenze ad hoc. Uno degli internati il responsabile dei disordini. La presa d’atto che uno dei detenuti coinvolti nei disordini dello scorso 17 agosto nel carcere di Bari fosse confinato in attesa di trasferimento in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), riaccende le polemiche sul dirottamento, da parte della giunta regionale, di 6.8 milioni di euro alla rete dell’assistenza psichiatrica gestita dai privati. Soldi vincolati in forza di una legge statale alla creazione di tre nuove Rems da affiancare alle due già esistenti, ma completamente sature. “Ritengo che se ci fosse stato spazio in una Rems, il detenuto psichiatrico che ha messo a subbuglio il penitenziario barese, avrebbe avuto un destino migliore e sarebbe stato curato anziché rimanere senza la necessaria assistenza dietro le sbarre”, reclama Antonio Perruggini, presidente dell’associazione di categoria Welfare a Levante. Inoltre è assai critico Perruggini sulla scelta dell’esecutivo regionale guidato da Emiliano di distrarre i quasi sette milioni di euro riservati all’attivazione delle Rems di Accadia, Spinazzola e San Pietro Vernotico, per incanalarli nelle strutture di assistenza psichiatrica private. Rumors sempre più insistenti che echeggiano in ambienti politici e sanitari, parlano di una presunta accondiscendenza della giunta ai desiderata dei privati. Nella delibera 1198 del 7 agosto scorso, peraltro, la giunta regionale ammette che “l’utilizzo dei fondi vincolati di cui al capitolo ... è una misura transitoria prevista esclusivamente per l’anno 2024”. Una precisazione che suona come una nota a discarico per giustificare lo spostamento dei fondi sottoposti a vincolo. Antonio Perruggini incalza: “Sapere della tempestiva disponibilità finanziaria assicurata dalla Regione Puglia alle strutture psichiatriche a supporto delle Rems non può che farci piacere perché trattasi di un settore delicato che riguarda migliaia di persone e in particolare la situazione complessa di chi è detenuto e non riesce a ottenere il diritto di una assistenza dignitosa. Al tempo stesso le Rsa e i centri diurni della Puglia non vivrebbero le note difficoltà e non sarebbero prive del doveroso finanziamento se a seguito delle complesse procedure imposte dalla Regione si fossero trovate in diritto di ottenere lo stesso trattamento riservato alla psichiatria o a altri settori”. Le Rems hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) aboliti nel 2013 e chiusi definitivamente il 31 marzo 2015. Fatto sta che quasi 7 milioni di euro agganciati ai progetti delle nuove Rems, andranno ai privati che operano nel settore dell’assistenza sanitaria psichiatrica, i quali, secondo indiscrezioni, avrebbero battuto i pugni sul tavolo chiedendo più soldi per i servizi espletati. Una richiesta alla quale la Regione non avrebbe potuto dire di no per non mandare all’aria i delicati equilibri di forze su cui si reggono i rapporti tra politica e imprenditoria attiva in un settore delicato come quello dell’assistenza psichiatrica. Campania. Il Garante dei detenuti: “Sovraffollamento sorprendente” Il Mattino, 23 agosto 2024 Un appello anche alla magistratura di sorveglianza affinché verifichi “in tempi brevi persone che possano andare in prova con un lavoro all’esterno del carcere”. I detenuti presenti in Italia sono 61.465 a fronte di 46.898 posti disponibili. Nella regione Campania 7.581 le presenze mentre i posti disponibili sono 5.664. E ancora, 432 detenuti in Campania devono scontare meno di sei mesi mentre coloro che devono scontare appena un anno di carcere sono 999. Per quanto riguarda i suicidi da inizio anno al 16 agosto se ne contano 63, ben 7 in Campania. Sono alcuni dati resi noti da Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti e portavoce della conferenza nazionale dei garanti delle persone private della libertà personale, in una conferenza stampa su sovraffollamento, suicidi nelle carceri della Campania. “Sono dati sorprendenti per il sovraffollamento sia per i 2mila detenuti in più in quindici istituti della Campania, sia per 1.402 tossicodipendenti ai quali potremmo evitare il carcere. Ma l’altra cosa che mi ha colpito è che abbiamo 1.061 detenuti dai 18 ai 29 anni: è cambiata la tipologia di presenza negli istituti di coloro che commettono reati a vario titolo” ha commentato Ciambriello. A fronte di un quadro a tinte fosche, fa da contraltare il numero di detenuti che, quest’anno, sono usciti grazie a misure alternative: 2.727. Per quanto riguarda gli adulti in area penale esterna, in totale in Campania, ve ne sono 6.334 (mentre le persone in carico per indagini sono 3.125). “Abbiamo bisogno di educatori ed assistenti sociali, altrimenti queste persone se non trovano chi fa da ponte tra loro ed il loro inserimento sociale, c’è il rischio che continuino a vivere la recidiva”, ha aggiunto sulla questione minorenni: in Campania ci sono 113 minorenni detenuti a fronte di 117 posti disponibili “Non credo che per loro il carcere sia da deterrente: piuttosto che punire occorre prevenire”. Da qui un appello alla politica: “Ci sono tante buone prassi in Campania nei diversi istituti e dobbiamo incrementarle. Ma abbiamo bisogno, in questo momento, di un appello concreto alla politica: misure deflattive subito e in tutta Italia, 8mila devono scontare meno di un anno. Pensiamo a quelli che devono scontare meno di un anno e non hanno reati ostativi e soprattutto mettiamo in campo proposte concrete perché dire assunzione di 500 nuovi agenti di polizia penitenziaria nel 2025, 500 nel 2026 sapendo che già in tutta Italia entro dicembre più di 2mila agenti andranno in pensione, ci inorridisce”. Una panoramica sulla detenzione delle donne in Campania. A Secondigliano se ne contano 75 dopo l’evacuazione di Pozzuoli a causa di eventi sismici, ma altre sono a Perugia, Venezia, Milano, Benevento e Salerno. “Io chiedo che possano tornare al più presto a Napoli. Perché come si fa a difendere una persona se sta lontano dal territorio? Come possono i familiari vivere gli affetti se devono fare chilometri e chilometri?”, ha proseguito. Sovraffollamento carceri, in Campania troppi in attesa di giudizio - Un appello anche alla magistratura di sorveglianza affinché verifichi “in tempi brevi quelle pratiche di persone che possano andare in affidamento in prova ai servizi sociali con un lavoro all’esterno del carcere. E verificare quanto prima di aumentare i permessi per consentire di reinserirsi gradualmente nella società”. Firenze. Malato e in carrozzina, detenuto si lascia morire: “Non doveva stare lì” di Pietro Mecarozzi La Nazione, 23 agosto 2024 Un uomo di 63 anni ha rifiutato cure e pasti per settimane. Le sue condizioni si sono aggravate e mercoledì sera è arrivata la fine. La legale: “Non era la struttura più adeguata per una persona così”. Ivano G. è morto di stenti in una cella. Rifiutando le cure e i pasti per settimane, preda di turbe mentali che difficilmente trovano sollievo dietro in cancelli di un carcere. È morto all’ospedale di Torregalli, ma il suo corpo si è spento lentamente al centro clinico di Sollicciano mercoledì sera. Dal referto medico, la causa del decesso sarebbe la cachessia, ovvero un profondo deperimento organico che si manifesta con una perdita di peso, indebolimento fisico, alterate capacità psichiche, e può portare alla morte. L’uomo - che era seguito dall’avvocato Claudia Baccetti - soffriva di gravi patologie psichiatriche, come il disturbo paranoide di personalità, era tossicodipendente, affetto da epatite C e, dopo alcune operazioni all’anca, non più autosufficiente e costretto su una sedia a rotelle. Una storia di solitudine e disperazione, conclusasi nel peggiore dei modi. L’uomo, 63 anni, era originario di Firenze, non aveva famiglia, pochi amici, ma tanti conoscenti soprattutto nell’ambiente del Serd. Ha vissuto per anni in una casa popolare, poi il demone della droga ha preso le redini della sua vita. Spacciava, oltre a consumarla, e ogni volta che lo beccavano e lo assegnavano a una delle comunità sparse sul territorio, lui evadeva. Nel 2023 è poi arrivata una condanna per cumulo di pene a due anni e sei mesi, ridotti, su richiesta dell’avvocato e per la sua buona condotta, di qualche mese per un fine pena fissato a metà 2025. Da Sollicciano, purtroppo, Ivano non è uscito da uomo libero, ma steso su una barella in gravi condizioni. La procura di Firenze ha disposto l’autopsia sul cadavere, per avere un quadro clinico più preciso, visto che i non si è mai voluto far visitare. Aveva infatti deciso che non valeva più la pena lottare: le spire delle dipendenze, come quelle di un boa, si stringevano sempre più a ogni suo tentativo di reazione. E alla fine, ci ricadeva tutte le volte. “Forse non è colpa di nessuno, ma sicuramente è una sconfitta per tutti - commenta l’avvocata Baccetti - Ivano non voleva starci lì dentro, me lo ripeteva tutte le volte. Sollicciano non era la struttura più adeguata per una persona nelle sue condizioni”. Ma che alternative c’erano? “Poche, anzi nessuna - conclude il legale - perché Ivano aveva una doppia diagnosi, cioè quella psichiatrica e la tossicodipendenza. In più non era più autosufficiente. Una comunità o un centro del genere, nonostante tutti gli sforzi, è stata impossibile da trovare. Manca una rete sociale per i più fragili”. Solo qualche settimana fa, Sollicciano è stato teatro di un suicidio di un detenuto di 20 anni, che provocò successivamente una violenta rivolta con materassi in fiamme e sezioni demolite. Due epiloghi diversi, ma in parte simili, per la volontà di entrambi, Ivano e il giovane, di mettere fine alle proprie sofferenze. E uscire, nel modo più tragico, da quell’inferno di cemento armato e ferro chiamato Sollicciano. Sciacca (Ag). “Mio figlio sta morendo in cella. È malato, minaccia il suicidio” di Paola Pottino La Repubblica, 23 agosto 2024 Il 23enne è detenuto a Sciacca dove non c’è reparto di psichiatria. In quattro mesi ha perso quaranta chili. Una candela che si spegne un poco per volta. Così appare agli occhi di suo padre, un ragazzo di 23 anni, detenuto nel carcere di Sciacca, affetto dalla sindrome di Cushing e da una grave forma di psicosi ossessiva. “Mio figlio sta male - dice Nino Montalbano, 69 anni, pensionato - e ogni giorno minaccia di suicidarsi. Non ce la fa più e io e mia moglie ci sentiamo impotenti perché non riusciamo ad alleviare la sua sofferenza”. Il ragazzo, che da cinque mesi si trova recluso in carcere in attesa di processo, ex sportivo, fino a poco tempo fa pesava 110 chili, oggi ne pesa 70. Le gambe e le braccia sono diventate sempre più sottili, soffre di osteoporosi e di ipertensione, ha il corpo cosparso di acne e avrebbe bisogno, così come hanno raccomandato i medici, di una dieta iperproteica che in carcere non può essere somministrata. “Quando, un mese fa, sono andato a trovare il giovane al Pagliarelli di Palermo - racconta Pino Apprendi, garante dei detenuti della città, che in questi giorni ha aderito alla campagna sullo sciopero della fame a staffetta per chiedere una amnistia svuota carceri - ho trovato un ragazzo dismesso e senza forze che, alle mie domande, rispondeva a monosillabi, fortemente demotivato. Ho scritto immediatamente al direttore sanitario per informarmi sullo stato di salute del giovane, ma dopo un mese, non ho ancora ricevuto risposta. Ho saputo che poi è stato trasferito al carcere di Sciacca dove non esiste un reparto di psichiatria”. Il ventitreenne ha già tentato il suicidio e la sua intenzione è quella riprovarci. Il malessere è forte: emicrania, dolori alle ossa e in tutto il corpo rendono la sua vita in cella devastante. “Mi ripete sempre di non farcela più - racconta Montalbano - e dice che soltanto con la morte riuscirebbe a raggiungere la tranquillità tanto agognata. Ma come fa un padre a restare indifferente a queste parole?”. I certificati medici parlano chiaro: “Paziente con malattia di Cushing che determina una alterazione delle capacità psichiche, con alternanza di fasi di eccitazione e di depressione”. “In carcere gli danno gli psicofarmaci che però lui si rifiuta di prendere perché gli procurano sbalzi ormonali - continua il padre - Mio figlio ha bisogno di guarire dalla sindrome di Cushing perché questa malattia gli provoca la psicosi. Dovrebbe prendere gli integratori e seguire il piano terapeutico che gli era stato prescritto dai medici del Niguarda di Milano. Per le sue malattie gli è stata riconosciuta una pensione d’invalidità pari all’80%. Così combinato, dovrebbe stare ai domiciliari perché dovrebbe mangiare ogni tre ore, stare in un ambiente tranquillo e il carcere sicuramente non lo è. Si sta consumando come una candela, mi ha chiamato lunedì e mi ha detto, ancora una volta, che proverà ad ammazzarsi”. Quest’anno nelle carceri italiane ci sono stati 72 suicidi. Sessantacinque erano detenuti e 7 agenti penitenziari. Milano. Alta tensione nelle carceri: disordini al Beccaria, mentre San Vittorie scoppia di Marianna Vazzana Il Giorno, 23 agosto 2024 Disordini, agenti aggrediti e tentativo di evasione all’istituto minorile. Il sindacato di polizia: “Baby criminali, agiscono in branco”. Un materasso a fuoco. Un agente aggredito. Il furto di chiavi, preludio verosimile a un tentativo di evasione. Disordini che hanno scosso, ancora una volta, ieri notte il carcere minorile Beccaria. Una polveriera che non si placa. Allarme anche a San Vittore per “le condizioni critiche” e “il sovraffollamento” come denuncia l’eurodeputata Ilaria Salis dopo la visita alla casa circondariale per adulti dove “i problemi - evidenzia - sono molti, troppi. L’emergenza è strutturale. Bisogna intervenire subito”. Al Beccaria “tutto è successo - riferisce Alfonso Greco, segretario per la Lombardia del Sindacato autonomo polizia penitenziaria - perché un detenuto aveva la tosse: a mezzanotte gli hanno procurato lo sciroppo ma lo ha rifiutato. Poi un gruppo di reclusi ha incendiato un materasso e, quando un agente ha aperto la cella per intervenire, i ristretti lo hanno accerchiato e picchiato. Gli hanno rotto il labbro, la testa e spruzzato l’estintore in faccia”. I detenuti, sempre secondo il racconto di Greco, sono poi scesi, hanno colpito altri colleghi e hanno preso le chiavi “per poi uscire all’aria. Di sicuro volevano evadere”. Stando a quanto risulta al Giorno, avrebbero approfittato del momento di emergenza, mentre erano in corso le operazioni di spegnimento da parte dei vigili del fuoco, per agire “in branco”, mentre una ventina di loro venivano spostati altrove. Da qui, la richiesta di aiuto. E a dare manforte in via Calchi Taeggi sono intervenuti prima i carabinieri e poi anche la polizia di Stato. Tre detenuti lievemente intossicati sono stati accompagnati in ospedale in codice giallo. Al pronto soccorso per le inalazioni di fumo anche quattro agenti della polizia penitenziaria mentre il collega ferito è stato soccorso per contusioni. “Ancora c’è chi si ostina a chiamare “poveri ragazzi” questi delinquenti criminali?”, si chiede il segretario del Sappe. Per don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria, “aiutare questi ragazzi è una sfida educativa difficile ma che bisogna affrontare. Molti sono minori stranieri non accompagnati, arrivano dalla strada, e non comprendono il perché di questo “stop” forzato. A ogni negazione agiscono sopra le righe. Molti sono in astinenza da droghe”. La situazione nel carcere degli adulti, invece? “La prima cosa, lampante, che mi è saltata agli occhi è la situazione di sovraffollamento, assolutamente terribile”, ha detto l’eurodeputata di Alleanza Verde Sinistra Ilaria Salis. “Il personale sanitario e gli psicologi - evidenzia - sono calcolati sulla capienza e non sulle persone effettivamente presenti. In base ai dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, San Vittore ha una capienza massima di 749 posti, eppure attualmente ospita 1.111 detenuti”. È rimasta colpita dalle celle: “Alcune sono davvero troppo piccole, non c’è spazio per muoversi, sono costretti a stare tutto il tempo in branda”. Disagi e proteste dei detenuti anche al carcere di Busto Arsizio, dove sono rotte le pompe dell’acqua. Milano. IPM Beccaria, nuove tensioni e vecchi problemi ordineaslombardia.it, 23 agosto 2024 L’Ordine degli Assistenti Sociali della Lombardia ha appreso, con sgomento e preoccupazione, le recenti notizie relative al carcere minorile Beccaria di Milano. Le notizie dei disordini nella notte tra il 20 e 21 agosto, che hanno richiesto l’intervento dei pompieri e di altre forze di polizia e che hanno portato in Pronto Soccorso diverse persone tra agenti di polizia penitenziaria e detenuti, ci interroga sulle reali condizioni di vita in questo IPM. Domande supportate dall’analisi del Garante delle persone ristrette che, nel recente report (dati aggiornati al 18 agosto), ha reso noto come, a fronte di una capienza per 37 detenuti, al Beccaria siano attualmente rinchiuse 60 persone tra minori e adulti infra ventiseienni, con un tasso di sovraffollamento del 162,16 per cento (IPM più affollato d’Italia). Queste notizie non possono che portarci a sottolineare come elementi quali il sovraffollamento, le pessime condizioni di vita dei detenuti, e di lavoro per tutti gli operatori coinvolti, si allontanino dall’art. 27 della Costituzione italiana che dispone “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Principi di ancor maggior valore negli IPM che dovrebbero essere luoghi di accoglienza in grado di fornire sostegno e programmi trattamentali volti al recupero dei giovani detenuti, istanze educative definite dalla Corte costituzionale assolutamente prominenti nell’esecuzione penale minorile. Rifiutando e rimarcando il nostro fermo rifiuto a qualunque forma di violenza che non può mai trovare una minima giustificazione, auguriamo agli agenti di polizia penitenziaria e ai detenuti feriti una rapida guarigione. Nel contempo chiediamo al Ministero di Giustizia un rapido ed efficace intervento per rendere il Beccaria un luogo sicuro in cui le disposizioni legislative italiane vengano rispettate ed applicate. I ripetuti fatti del Beccaria denunciano ancora una volta senza filtri, la necessità di una presa di coscienza non più rinviabile, sul senso di tenere dei minori in un contesto disumanizzante, di sopraffazione e di abbandono, alimentando e riproducendo solo disagio e sofferenza. Torino. La Garante dei detenuti: “I reclusi hanno perso la pazienza” di Sandro Marotta quotidianopiemontese.it, 23 agosto 2024 “La stagione delle battiture e delle proteste pacifiche sembra finita, la voce si sta facendo più grossa”: così analizza l’attuale situazione carceraria Monica Gallo, che riveste il ruolo di garante delle persone private della libertà personale a Torino. Perché i detenuti protestano proprio ora? Che richieste arrivano al Garante? Ci sono state violenze sui detenuti rivoltosi? Lo abbiamo chiesto a Gallo, a distanza di poche settimane dalla rivolta nel carcere minorile Ferrante Aporti e dalle proteste al Lorusso e Cutugno. Monica Cristina Gallo, i detenuti hanno segnalato episodi di repressione violenta dopo le proteste delle scorse settimane? Innanzitutto devo precisare che sia io che i miei collaboratori stiamo andando in carcere regolarmente per i colloqui nonostante il periodo complesso la nostra attività non si è interrotta. Detto questo, non ci sono arrivate segnalazioni di repressione violenta durante i disordini. Al Ferrante Aporti ho assistito personalmente al trasferimento di alcuni detenuti che avevano protestato e gli agenti hanno agito adottando empatia. Indubbiamente le persone private della libertà ci dicono che sono situazioni molto complesse di vivibilità. Cioè? A noi si rivolgono soprattutto coloro che non condividono i metodi delle proteste o delle rivolte, ma che in qualche modo ne sono coinvolti. Ci sono arrivate narrazioni di detenuti che non hanno partecipato a queste azioni, ma che trovandosi nella stessa sezione hanno inevitabilmente respirato fumi di materassi bruciati. Iniziano ad esserci delle difficoltà di convivenza. Che richieste le sono arrivate dai detenuti più violenti? In realtà quasi nessuna, chi mette in atto proteste, anche violente non è predisposto a percorsi di dialogo e mediazione e quindi difficilmente si rivolge al garante. Non hanno fiducia? Non saprei se si tratta di fiducia, penso piuttosto che il ruolo del Garante non sia visto come indipendente e quindi con difficoltà da parte di alcuni detenuti di confronto. Periodi di grande difficoltà come questo rendono anche meno effettivo ed impattante il ruolo di garanzia dei diritti, è difficile dialogare con chi vive la detenzione con rabbia e frustrazione. Perché? Hanno perso la pazienza. C’erano delle attese in particolare di misure deflattive. Ad esempio la liberazione anticipata (presentata alla Camera dal deputato Giachetti nel 2022 e attualmente ancora ferma in Commissione ndr); anche nell’attuale decreto (d.l. 92/2024 anche detto “decreto carceri” ndr) non vedono misure immediate che permettano loro di vivere meglio. C’è anche molta frustrazione: un detenuto con problemi di tossicodipendenza potrebbe, ora, andare a scontare il resto della pena in comunità riabilitativa, ma sa bene che la lista dei luoghi per accedere non è ancora attiva e ci vorrà ancora tempo. La stagione delle battiture e delle proteste pacifiche sembra finita, la voce si sta facendo più grossa. Che cosa le dicono i detenuti giovani durante i colloqui? É più facile che lo prendano come un momento di sfogo. Spesso mi raccontano il loro viaggio che li ha portati ad entrare in carcere, il loro percorso di vita. La maggior parte degli incontri avviene in gruppo in modo che per i ragazzi sia più semplice raccontare e raccontarsi. Alcuni detenuti fanno parte della scena rap/trap torinese. Le è mai capitato di ricevere richieste di giovani musicisti che vorrebbero tempo e attrezzatura per provare a trasformare il proprio talento in un lavoro una volta fuori? No, anche questo tipo di richieste non ci arriva. Forse si confidano maggiormente con i formatori. Perché protestano proprio in questo periodo? L’estate è un periodo molto difficile per chi è in carcere. Sia per il caldo torrido, sia per l’interruzione delle attività di studio, formazioni, culturali e ricreative. Per molti lo stop a queste attività dà inizio a un periodo di profonda riflessione che senza supporto a volta alza il livello di conflittualità. Firenze. Accordo per trasferire fuori da Sollicciano chi è in gravi condizioni fisiche e mentali di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 23 agosto 2024 Un protocollo tra carcere di Sollicciano, Comune e Asl per offrire continuità assistenziale ai detenuti la cui condizione di salute è incompatibile con la reclusione. Non si parla di numeri insignificanti, ma di diversi detenuti che, a causa delle loro condizioni fisiche o mentali, dovrebbero scontare la pena lontano dalle sbarre ma che non possono farlo a causa della mancanza di posti idonei. Grazie a questo protocollo sarà possibile effettuare il trasferimento di alcuni reclusi in strutture socio-sanitarie esistenti. Ad annunciare questo nuovo progetto l’assessore alle politiche sociali Nicola Paulesu, ieri in visita al carcere di Sollicciano con il presidente delle Camere Penali Luca Maggiora, il garante comunale dei detenuti Eros Cruccolini, il sindaco di Bagno a Ripoli Francesco Pignotti e al capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale Alberto Locchi. Un protocollo ancor più importante alla luce del fatto che, nei giorni scorsi, come segnalato da Maggiora, “un detenuto con patologie complesse è morto durante l’ennesimo ricovero ospedaliero, una persona che in ragione della sua totale indigenza non è riuscito a trovare nel tempo alcuna collocazione alternativa nonostante le ripetute richieste di differimento della pena”. La visita ha permesso di appurare, una volta di più, le “condizioni drammatiche” del penitenziario. “La sezione transito è un disastro”, dice Maggiora. Che si è poi soffermato sullo stato della cucina di più recente realizzazione: “Sta crollando il terreno sottostante”. Vercelli. La metà dei detenuti ha disturbi psichici: “E i farmaci non bastano a impedire i suicidi” di Andrea Zanello La Stampa, 23 agosto 2024 Il dottor Cancelliere è uno dei due specialisti dell’Asl in servizio nel carcere di Billiemme: incontra in media 20 pazienti al giorno. “La psichiatria in carcere è diversa da quella fuori. Quando varchi la soglia di ingresso cambia qualcosa, è inevitabile”. Il dottor Francesco Cancelliere è uno dei due psichiatri dell’Asl Vercelli che lavora all’interno del carcere di Biliemme. I Radicali, che hanno visitato sabato il carcere con una delegazione guidata da Filippo Blengino, hanno diffuso dati che raccontano come a Vercelli 60 detenuti siano tossicodipendenti, 14 sottoposti a terapia metadonica. I dipendenti da alcol sono 2. I pazienti psichiatrici sono 100, 30 detenuti a settimana sono attenzionati per rischio suicidio e su 264 carcerati 168 sono sottoposti a farmacologia per disturbo psichiatrico. Con questo, e molto altro, si confrontano il dottor Cancelliere e il suo collega. Di coordinare le attività sanitarie dei detenuti (in carcere e all’esterno) si occupa il dottor Francesco Mancuso, direttore della Medicina penitenziaria: attività che coinvolge psichiatri, psicologi e medici servizio dipendenze, e tutto il personale medico e paramedico necessario alle esigenze delle persone recluse. “Fuori ci si occupa dei disturbi psichiatrici, ma dentro al carcere spesso la sofferenza psichica non è connessa per forza a disturbo mentale - spiega Cancelliere -. Essere rinchiusi comporta sofferenza psichica: disturbi che potevano essere latenti e non erano comparsi prima possono manifestarsi acuiti dalla condizione di disagio in contesti di libertà limitata”. Cancelliere e il suo collega a turno fanno almeno 6 ore a settimana, “che poi sono sempre di più”, in cui vedono 20 pazienti in media al giorno. Si tratta di attività di consulenza, senza prendere in carico le persone. “In questi anni si è incrementata l’utenza, le visite sono triplicate: c’è grande necessità”. Le situazioni di adattamento alla condizione della privazione di libertà sono diverse: “Un aspetto diretto dello psichiatra in carcere è la somministrazione farmacologica: la richiesta è enorme”. Ansiolitci, antidepressivi, antipsicotici la cui somministrazione deve anche fare i conti con dipendenze da droghe e alcol che i detenuti si portano dietro dalla vita precedente. “L’utenza è eterogenea ma il contesto è di grande disagio sociale, specie per stranieri e irregolari”. Un tema ricorrente è il rischio suicidi. Fino allo scorso luglio ne sono stati sventati 3, nel 2022 i tentativi erano stati 4, l’anno scorso 7. “Tra i più a rischio ci sono i nuovi giunti. Ma ci sono anche periodi insidiosi: quelli comuni a tutti, come le feste, e quelli legati alla sfera individuale: quando arriva una sentenza, soprattutto se definitiva, il detenuto va monitorato. Anche le ricorrenze o gli anniversari di una sentenza sono a rischio perché ricordano la condizione di recluso”. Sono 192 i detenuti a Vercelli con sentenza definitiva, uno ha l’ergastolo. In 72 sono in attesa di giudizio. “Negli anni c’è stato un buon lavoro di rete tra diverse aree: quella giuridico trattamentale, quella penitenziaria, quella sanitaria con incontri regolari sul rischio suicidi che hanno acceso l’attenzione su situazioni difficili risolvendo molti problemi”. Parma. “I detenuti poveri non possono nemmeno fare una telefonata a casa” di Christian Donelli parmatoday.it, 23 agosto 2024 La denuncia della Camera Penale: “Una circolare del Dap ha reso difficoltoso possedere detersivo e sapone efficaci e sufficienti per le pulizie e la propria igiene personale”. La Camera Penale di Parma ha visitato il carcere di via Burla il 19 agosto nell’ambito dell’iniziativa ‘Ristretti in agosto’, promossa dall’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane. Dopo il suicidio di Atef, il ragazzo di 36 anni tunisino che si sarebbe impiccato nella sua cella nella serata di Ferragosto - è il terzo dall’inizio dell’anno nel carcere di via Burla - l’attenzione è ritornata sulle condizioni di detenzione. I familiari, intanto, hanno chiesto l’autopsia e gli esami tossicologici sul corpo del 36enne. “Ai “poveri” in carcere sono spesso precluse anche le telefonate ai propri famigliari, a causa dell’elevato costo” si legge in una nota. Oltre a questo ci sono altre criticità. “Le precarie condizioni igienico sanitarie delle celle e delle persone, anche a seguito di una circolare del Dap che ha reso difficoltoso possedere detersivo e sapone efficaci e sufficienti per le pulizie e la propria igiene personale” “Come già emerso nella precedente visita del 13 maggio le criticità del carcere cittadino sono molteplici e riguardano soprattutto le sezioni di media sicurezza e di isolamento disciplinare, dove è ristretto un alto numero di detenuti tossicodipendenti, affetti da patologie psichiatriche che spesso manifestano il loro disagio con gesti di autolesionismo o aggressività verso terzi. È bene ricordare che i suicidi avvenuti a Parma hanno riguardato proprio queste sezioni. I detenuti sono costretti a trascorrere in cella circa 20 ore al giorno, stante la concreta difficoltà di accedere nella stagione estiva all’area passeggi, l’inadeguatezza dei locali destinati alla socialità e l’insufficienza delle attività trattamentali. “Il tutto è acuito dalle precarie condizioni igienico sanitarie delle celle e delle persone, anche a seguito di una circolare del Dap che ha reso difficoltoso possedere detersivo e sapone efficaci e sufficienti per le pulizie e la propria igiene personale Permangono, inoltre, gravi carenze a livello sanitario, stante l’alto numero di detenuti malati, il sottodimensionamento del reparto detentivo ospedaliero, l’insufficienza delle cure fisioterapiche, a cui hanno diritto moltissimi detenuti ed in particolare i detenuti paraplegici. Ciò nonostante, la Direzione del Carcere, il Comandante e il personale tutto cercano di essere vicini alle esigenze dei reclusi, prestando ascolto e sollecitando le risposte dagli organi competenti, tentando di migliorare le condizioni di detenzione, con l’aiuto dei tanti volontari e, per quanto possibile, anche con soluzioni frutto dell’ingegno e della buona volontà dei singoli. Auspichiamo che i consiglieri comunali presenti possano riportare quanto direttamente appreso alle istituzioni cittadine e farsi promotori di iniziative finalizzate a rendere più umana l’espiazione della pena e possibile il successivo reinserimento nella società. La Camera Penale non mancherà di far mancare il proprio appoggio e la propria collaborazione in tal senso” Firenze. Un’altra donna incinta in cella a Sollicciano di Pietro Mecarozzi La Nazione, 23 agosto 2024 Il presidente della Camera penale, Maggiora: “La detenzione non cura”. Oggi sopralluogo degli avvocati con il garante al penitenziario. Non sarà da sola la giovane fiorentina incinta detenuta da sabato scorso nel carcere di Sollicciano. Non sarà da sola perché a farle ‘compagnia’, in una sorta di reparto ostetricia dietro le sbarre, troverà una ragazza di origini bulgare al sesto mese di gravidanza. Entrata a fine luglio, la 38enne ha alle spalle un ‘curriculum’ costellato di furti, rapine e reati di vario genere. Un cumulo di pene che gli è valsa un pass per Sollicciano, nonostante i mesi di gravidanza fossero già cinque. Intanto, il caso della 30enne non smette di far discutere. Una donna in gravidanza chiusa dentro una cella di un carcere, per di più fatiscente e insalubre come quello fiorentino, non è la migliore cartolina di una società civile. Ma è anche vero che sulla storia della giovane fiorentina gravitano numerosi altri fattori, come la tossicodipendenza e la mancanza di un lavoro e di una dimora fissa, che tendono a far pensare che la reclusione sia in fondo la scelta più adeguata. È davvero così? Non c’è nessun’altra alternativa possibile? “Il carcere non cura, questo è certo - spiega l’avvocato, nonché presidente della camera penale di Firenze, Luca Maggiora (che oggi, insieme al garante dei detenuti, farà visita a Sollicciano) -. Soprattutto nel caso di Sollicciano, dove le condizioni sono le più degradanti che un detenuto può incontrare. Ma nel caso specifico, se garantita un’assistenza a lei e al feto, e previsto un passaggio una struttura come la comunità, la decisione del gip può avere una sua logica”. Se sulla detenuta bulgara, la carcerazione ha fatto perno sulla montagna di precedenti accumulati nel corso degli anni, sulla 30enne fiorentina hanno pesato le sue condizioni di salute e quelle del nascituro. Tossicodipendente, senza lavoro e una dimora fissa, la giovane è un caso limite, che necessità di una assistenza specifica in luoghi come la comunità. “Le strutture ci sono - continua Maggiora -, anche per casi difficili come questi, ovvero di una ragazza tossicodipendente e incinta. Esiste anche un progetto del 2023 condiviso tra Regione Toscana e Cassa delle ammende che prevede l’inserimento nelle comunità di persone in esecuzione penali, anche minori, o vittima del reato. Quindi la rete sociale è presente”. Dov’è il problema, allora? “Vanno solamente attuate. Sicuramente la richiesta di accesso è molto alta, ma spesso manca la conoscenza puntuale di tutte le realtà presenti anche da parte di giudici e magistrati - conclude Maggiora -. E inoltre manca personale: le comunità lamentano carenza di lavoratori, mentre la ‘domanda’ continua a crescere. Segno anche di una disperazione in aumento nella nostra società. Insomma, le risorse ci sono, ma lo Stato deve saperle mettere a disposizione”. La legale della ragazza, Alessandra Brienza, si è già attivata per trovare una struttura che possa accoglierla. E la giovane, durante l’udienza di convalida, ii è dimostrata determinata a cambiare la sua vita e a prendersi cura del figlio. È bene ricordare che a metà marzo, una detenuta incinta di quattro mesi, dopo alcune gravi complicazione, ha perso sua figlia dopo quattro mesi di gravidanza. Busto Arsizio. Penalisti in visita al carcere: “Migliorano le condizioni, rimane il sovraffollamento” di orlando mastrillo varesenews.it, 23 agosto 2024 Una delegazione della Camera Penale ha effettuato una visita approfondita della casa circondariale di via per Cassano riscontrando un miglioramento sia a livello strutturale che nell’area trattamentale. Sono entrati alle 9,30 e sono usciti alle 15,30. È stata una visita particolarmente approfondita di tutte le sezioni dell’istituto, dalle celle alle varie zone dedicate alle attività fino agli spazi esterni, quella effettuata questa mattina (giovedì) da una delegazione della Camera Penale di Busto Arsizio all’interno della casa circondariale di via per Cassano. Il giudizio complessivo degli avvocati, capitanati dal presidente Samuele Genoni, è positivo rispetto ad un anno fa anche se la struttura sconta problemi non risolvibili direttamente dalla direzione come il sovraffollamento e il problema delle sezioni chiuse. Le migliorie dal punto di vista strutturale consistono nell’imbiancatura della maggior parte delle sezioni e nell’installazione di ventilatori in tutte le celle che hanno migliorato le condizioni di vita nelle celle. Gli avvocati hanno preso atto positivamente anche dell’aumento dei detenuti ammessi al lavoro; l’amministrazione carceraria, infatti, vuole implementare il numero di chi lavora ampliando la rete di attività che collaborano col carcere. La Camera Penale ha potuto constatare che è partita anche l’attività della falegnameria interna che sta ristrutturando gli arredi del carcere stesso. Rimane, come anticipato, il grave problema del sovraffollamento con 440 detenuti su 280 posti disponibili con parecchie celle con tre letti. Risolto, invece, relativamente in fretta il problema della mancanza d’acqua emerso negli ultimi giorni: tutto l’istituto era rimasto senz’acqua ma il problema è stato risolto con la sostituzione di un pezzo che si era danneggiato. Altri problemi irrisolti sono la mancanza di educatori, anche se finalmente si è raggiunto il numero previsto dalla pianta organica (che però è tarato sui 280 detenuti) e la mancanza di specialisti in area sanitaria: gli avvocati specificano che si tratta di un problema che non dipende dall’amministrazione carceraria ma dal fatto che questi posti sono poco ambiti anche per via delle paghe troppo basse. Una riflessione finale, poi, sul dibattito in corso in queste settimane nella politica per trovare una soluzione al problema del sovraffollamento, quella di Samuele Genoni: “È vero che questo governo non ha causato il problema ma non vediamo da parte loro proposte sensate. Andrebbe approvata la proposta Bernardini-Giachetti sulla liberazione anticipata (passare da 45 a 75 giorni lo sconto di pena ogni sei mesi, in caso di buona condotta) e misure alternative alla detenzione. Non vogliamo provvedimenti svuota-carceri ma soluzioni ragionate che possano alleggerire le situazioni più critiche, favorendo il reintegro del detenuto nella società civile”. Grosseto. Biblioteche innovative in carcere, arriva in vista l’ex ministro Flick maremmaoggi.net, 23 agosto 2024 Il professor Giovanni Maria Flick, già ministro della Giustizia e presidente emerito della Corte Costituzionale, da sempre sostiene l’importanza e il valore della cultura in ambito penitenziario e mercoledì 21 agosto ha incontrato gli studenti “ristretti” del corso Biblioteche innovative in carcere nella casa circondariale di Grosseto, insieme alla presidente del Cesp (Centro studi per la scuola pubblica) Anna Grazia Stammati, per entrare nel merito del progetto. Biblioteche innovative in carcere, è un progetto a cura di Luisa Marquardt (Università Roma Tre) e di Anna Grazia Stammati (presidente Cesp), nato otto anni fa a Rebibbia (Roma) che si basa sul presupposto dello sviluppo della biblioteca in carcere quale luogo privilegiato di relazione per un apprendimento interattivo, in cui le conoscenze diventano abilità spendibili all’esterno e che, grazie all’impegno della “Rete delle scuole ristrette”, costituita circa dodici anni fa dal Cesp, si sta diffondendo in più penitenziari (per rimanere in Toscana il progetto è stato approvato anche nella casa circondariale di Livorno e nella casa di reclusione di Gorgona). Il presidente emerito Giovanni Maria Flick, che condivide i principi di base del Cesp e della Rete, per i quali istruzione e cultura dovrebbero costituire gli elementi centrali dell’esecuzione penale, ha donato circa mille volumi della sua biblioteca privata ai detenuti di Rebibbia di Roma e il Fondo, costituito principalmente da monografie, più alcune annate di prestigiose riviste, come “Foro Italiano”, è stato inventariato e classificato proprio dai corsisti “ristretti” di Rebibbia che stanno redigendo anche una guida ragionata del Fondo che sarà presentata entro fine anno. Poiché il progetto è attivo dal febbraio scorso anche nel carcere di Grosseto, primo istituto, dopo Rebibbia a credere nel ruolo che la biblioteca può svolgere in ambito penitenziario fornendo risorse per i programmi educativi e riabilitativi del carcere, il professor Giovanni Maria Flick, che ha già visitato la casa circondariale di Grosseto, durante il suo mandato in qualità di ministro della Giustizia, si è confrontato con i vertici dell’istituto proprio sull’importanza che la biblioteca e la lettura rivestono in un percorso trattamentale consapevole e realmente riabilitativo. Dopo i saluti istituzionali il presidente Flick si è intrattenuto per circa un’ora con i corsisti discutendo sul valore dei percorsi trattamentali, sul senso e sulla capacità di recupero e riabilitazione attraverso i percorsi di istruzione e i progetti culturali in carcere e ha approfondito con gli studenti ristretti, il significato di alcuni articoli della Costituzione che dovrebbero costituire il perno per la costruzione di un sistema penitenziario rispettoso di quattro principi fondamentali in essa contenuti: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità; le pene devono tendere alla rieducazione del condannato; la Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell’uomo; tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Cagliari. Un cammino sinodale anche per i detenuti (che scrivono ai Turetta) di Mario Girau Avvenire, 23 agosto 2024 Nella Casa circondariale sarda il cappellano don Iriti ha creato un gruppo di lavoro nel 2021. Tra i tanti frutti del confronto anche una lettera ai genitori del giovane che uccise Giulia Cecchettin. “Ha partecipato al cammino sinodale svolto all’interno del carcere”. Forse è l’ordinanza di scarcerazione più originale che un magistrato abbia mai scritto per aprire le porte della casa circondariale di Cagliari Uta “Ettore Scalas” a un detenuto giunto al termine della reclusione. Potrebbe essere anche il documento pastorale più singolare tra quelli che finiranno agli atti del cammino sinodale della Chiesa italiana. “Sicuramente - dice don Gabriele Iriti, da cinque anni cappellano dell’istituto di pena cagliaritano - è il riconoscimento ufficiale del ruolo educativo svolto dalla Chiesa all’interno del sistema carcerario, che si è aggiunto alle altre voci positive messe insieme nel dispositivo giudiziario per rimettere in libertà una persona”. Dal gruppo sinodale costituito in carcere nel novembre 2021 sono venuti altri segnali di un cammino di rinnovamento e di partecipazione alla vita della comunità ecclesiale, pur stando al di là delle sbarre. Fra questi la lettera “Conosciamo il vostro dolore” inviata a “papà Nicola e mamma Elisabetta”, i genitori di Filippo Turetta, il giovane reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin, il cui processo inizierà il prossimo 23 settembre. “Il Cammino sinodale - spiega don Iriti - è un’esperienza in crescendo. Dal novembre 2021 a oggi vi hanno aderito una cinquantina di ospiti della casa circondariale alle porte di Cagliari. Non è stato semplice iniziare, perché mettere insieme sezioni carcerarie diverse organizzativamente non è facile. Si è costituito un gruppo sinodale che ogni mercoledì per ottanta settimane si è incontrato secondo lo stile della conversazione spirituale, di ascolto attivo, migliorata nel tempo. Una metodologia applicata dai detenuti anche per parlare dei loro problemi e della vita carceraria in generale: confronto dialettico, rispetto delle opinioni, osservazioni critiche, proposte costruttive. Una crescita apprezzata anche dai responsabili della casa circondariale”. L’avvio del cammino sinodale? Con una slide proiettata da don Iriti durante l’omelia domenicale: “La Chiesa ha bisogno di conoscere il vostro pensiero. Siete disponibili a darlo?”. La risposta è nei fatti. “Si sono sentiti investiti di una responsabilità e non si sono tirati indietro - testimonia il cappellano -. Una serie di questionari con risposte aperte hanno evidenziato il loro rapporto con la Chiesa. Non sono mancate osservazioni utili alla riflessione pastorale e il riconoscimento per il ruolo degli oratori nell’educazione e dell’ora di religione a scuola”. Il percorso sinodale è stato celebrato nel corso di una manifestazione musicale, “Camminare insieme… verso la libertà”, con testimonianze e interventi sull’esperienza ecclesiale vissuta dagli ospiti della casa circondariale. “L’evento in carcere - ha affermato l’arcivescovo di Cagliari, Giuseppe Baturi - testimonia la bontà dell’intuizione di papa Francesco, che con l’avvio del cammino sinodale ha voluto offrire a tutti la bellezza di sentirsi protagonisti di se stessi, della propria vita, della missione della Chiesa e della rinascita della società. Una possibilità offerta anche a coloro che vivono nel carcere, i quali grazie al cappellano e al gruppo sinodale hanno ripreso in mano la loro vita, generando dei gesti capaci di parlare a tutti gli uomini. Con quello spettacolo musicale i detenuti hanno voluto parlare alle persone della possibilità di un cambiamento e di una vita migliore”. Un passo significativo di questo cammino è stato il messaggio, scritto nello scorso novembre, dai “sinodali” del carcere cagliaritano alla famiglia Turetta. “Si pensava a una lettera ai genitori di Giulia - racconta don Iriti - ma il gruppo dei reclusi ha deciso diversamente, anche sulla base della propria esperienza”. È nata così la lettera ai genitori di Filippo, trasmessa attraverso il parroco di Torreglia (Padova). Tajani-Salvini, ora è scontro aperto sullo Ius Scholae di Mauro Bazzucchi Il Manifesto, 23 agosto 2024 Il segretario azzurro difende la legge sulla cittadinanza al Meeting di Rimini. Il leader leghista tira in ballo Berlusconi: “Era contrario”. E i forzisti s’infuriano. Un video postato sui canali social dalla Lega, proprio mentre Antonio Tajani parlava sul palco del meeting di Rimini, ha rinfocolato lo scontro in maggioranza, già abbastanza rovente, sullo ius scholae. Perché il video in questione, rilanciato anche dallo staff di Matteo Salvini nella chat riservata ai giornalisti, riprendeva una partecipazione di qualche anno fa di Silvio Berlusconi alla trasmissione “Che tempo che fa” condotta da Fabio Fazio, nella quale il Cavaliere si schierava nettamente contro l’ipotesi sia dello ius soli che di uno ius scholae concesso dopo la frequenza di un solo ciclo scolastico. Il titolo e la didascalia dal sapore vagamente di sberleffo nei confronti del ministro degli Esteri, messi a corredo del video dai social media manager del Carroccio, poi, hanno fatto il resto: “Noi ius soli e ius scholae”, si legge nel post, “parola del grande Silvio”. “Ascoltate”, prosegue la didascalia, “le parole inequivocabili”. Nel video Berlusconi afferma che “non bastano questi dati di frequentazione di un ciclo scolastico, di sapere l’italiano: occorre che questo ragazzo sia sottoposto a un esame”. La mossa di comunicazione di Salvini è arrivata dopo che da giorni Tajani e il gruppo dirigente di Fi ripetono il mantra secondo cui il Cavaliere fosse contrario allo ius soli, alla concessione cioè della cittadinanza italiana per il solo fatto di nascere sul suolo nazionale, ma favorevole allo ius scholae. La risposta seccata del segretario azzurro, prontamente incalzato dai cronisti a Rimini, non si è fatta attendere: “Non faccio polemiche”, ha affermato, “credo di conoscere bene il pensiero di Berlusconi e non credo che Berlusconi debba essere utilizzato per fare polemiche politiche”. “Io non ho fatto”, ha proseguito, “e non intendo fare polemica politica con nessuno. So quello che diceva Berlusconi e lui si riferiva a un percorso di studi di cinque anni. Noi diciamo che serve un corso di studio completo, quindi la scuola dell’obbligo fino a 16 anni con il raggiungimento del titolo”. “Questa è una linea”, ha detto ancora, “che garantisce molta più integrazione di quella prevista dalla legge attuale che dice che a 18 anni puoi diventare cittadino italiano”. “Preferisco uno che non ha il cognome italiano e che ha i genitori non nati in Italia”, ha concluso, “e che canta l’inno di Mameli a uno che è nato in Italia e ha genitori italiani e che si rifiuta di cantare l’inno di Mameli”. In precedenza, prima e durante il dibattito a cui ha partecipato, Tajani aveva completamente ribadito la linea di Forza Italia sul tema, affermando di volerlo porre all’attenzione del suo gruppo parlamentare, anche se non fa parte del programma di governo e i suoi alleati dissentono platealmente. “Siamo partiti diversi”, ha detto il vicepremier, “se no saremmo un partito unico. Siamo per il programma di governo, quello che ci vincola è il programma. Per quanto riguarda lo Ius scholae, non è parte del programma di governo, ma noi possiamo esprimere il nostro giudizio, così come ci sono altri punti che non sono nel programma di governo che vengono sottolineati da altri alleati e ne parliamo”. “Però”, ha proseguito, “non è che perché un tema non è nel programma di governo non se ne può parlare. Ognuno ha diritto di dire. Io non impongo niente a nessuno, ma non voglio neanche che nessuno imponga qualche cosa a me, quindi sono libero di parlare”. “Perché io dico che bisogna andare avanti? Non perché sono un pericoloso lassista che vuole aprire le frontiere a cani e porci, ma perché la realtà italiana è questa”, ha concluso, “e dobbiamo pensare a quello che sono gli italiani oggi”. In giornata, anche da FdI era arrivate le severe considerazioni del capogruppo alla Camera Tommaso Foti a ribadire il fastidio di Palazzo Chigi per la querelle avviata dagli azzurri: “Ci sia consentito dire una cosa agli alleati”, ha detto Foti, “nel programma di governo non c’è questo argomento e non c’è neanche nei singoli programmi dei partiti. Gli elettori hanno votato un programma: è legittimo discutere di questioni esterne al programma, ma c’è il fondato dubbio che questo sia un argomento speculare dell’opposizione per creare confusione nella maggioranza”. Più possibilista sembra il vicepresidente di Montecitorio Fabio Rampelli, sempre di FdI spesso su posizioni dialettiche rispetto alla linea del partito, mentre ha ribadito il suo sì allo ius scholae il leader storico di An ed ex-presidente della Camera Gianfranco Fini. Quanti studenti prenderebbero la cittadinanza italiana con lo Ius scholae? In 5 anni ci sarebbero 560 mila “nuovi” italiani di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 23 agosto 2024 I dati del ministero: oltre 890 mila studenti senza cittadinanza italiana. L’elaborazione di Tuttoscuola: nel primo anno di applicazione della legge, 310 mila “nuovi italiani” dopo aver completato il primo ciclo di istruzione. Sono 869.336 gli studenti con cittadinanza non italiana che hanno frequentato le scuole statali quest’anno: lo dice l’ultimo report del ministero dell’Istruzione, in base ai dati pubblicati a settembre scorso in vista dell’anno scolastico 2023/24. In gran parte erano nella scuola primaria (oltre 331 mila), ma è stata consistente anche la fetta di alunni nella secondaria di II grado (228.124) e di studenti delle scuole medie (più di 195 mila). Minore la presenza nelle scuole dell’infanzia, poco più di 114 mila bambini. La percentuale più alta di studenti non italiani era in Lombardia, regione da record con 219.275 ragazzi e ragazze senza cittadinanza, seguita da Emilia-Romagna (109.106) e Veneto (92.471). Ai dati dell’ultimo report vanno aggiunti gli studenti (1.336) della Valle d’Aosta e i 19.893 del Trentino-Alto Adige (dati dell’anno precedente), per un totale di 890.565 studenti senza cittadinanza italiana. Ma quanti di questi studenti potrebbero, con le norme attualmente in discussione, diventare cittadini italiani? Secondo un’elaborazione di Tuttoscuola, i potenziali beneficiari dello Ius Scholae sarebbero circa 560 mila, di cui oltre 300 mila nel primo anno di applicazione e i restanti nei successivi quattro anni. Sei alunni stranieri su 10 che attualmente studiano nelle aule scolastiche otterrebbero la cittadinanza italiana. Corrispondono a circa il 7% della popolazione scolastica complessiva e all’1,2% degli aventi diritto di voto. L’effetto sarebbe molto diverso sul territorio: 5 potenziali nuovi concittadini italiani su 6 vivono al centro e, soprattutto, al nord. Meno del 15% nel Meridione. La stima di Tuttoscuola è basata sull’ipotesi che lo Ius scholae venga riconosciuto a chi ha frequentato l’intero primo ciclo del sistema di istruzione italiano, fino alla terza media. Gli studenti che potrebbero avvalersi dello Ius scholae per il primo anno sarebbero quindi quelli iscritti in terza media delle statali e delle paritarie, più quelli iscritti alle superiori (che avrebbero alle spalle già il primo ciclo e beneficerebbero “a ritroso” della nuova norma), e infine gli iscritti ai percorsi di istruzione e formazione professionale (IeFP) gestiti dalle Regioni. Vediamo quanti sono. In base ai dati dell’anno scolastico 2022-23, Tuttoscuola stima che, su circa 550mila alunni iscritti all’ultimo anno della scuola secondaria di I grado, gli alunni stranieri erano quasi 55mila: loro avrebbero i requisiti per beneficiare dello Ius scholae. Ma nel primo anno di entrata in vigore anche gli studenti stranieri della secondaria di II grado potrebbero vantare il possesso del requisito di frequenza dei due cicli scolastici. Si tratta di 217.614 studenti di istituti statali e 4.533 di istituti paritari, per un totale di 222.147 studenti stranieri che vanno ad aggiungersi ai 54.919 del terzo anno di scuola secondaria di I grado. Vanno infine considerati anche i circa 35 mila giovani stranieri che frequentano i corsi IeFP (Istruzione e Formazione Professionale) gestiti dalle Regioni. Quindi se il Parlamento approvasse una legge che prevede per gli alunni stranieri l’acquisizione della cittadinanza italiana dopo aver completato l’intero primo ciclo di istruzione, ne beneficerebbero nel primo anno di applicazione circa 310 mila ragazzi. Cosa succederebbe invece negli anni successivi? Considerando un quinquennio e stimando che dei 262 mila iscritti tra quarta primaria e seconda media una piccola parte (il 5%) non raggiunga la licenza di terza media, si arriva a 249 mila alunni. In totale nel quinquennio i “nuovi italiani” sarebbero circa 560 mila. Imane Khelif e i veleni della crociata anti gender di Grazia Zuffa Il Manifesto, 23 agosto 2024 Il lasso di tempo trascorso dall’attacco alle Olimpiadi alla pugile Imane Khelif permette di meglio cogliere i tanti risvolti e significati della vicenda e di soffermarsi su alcuni di questi. In primo luogo, colpisce l’esposizione politica del governo italiano ai massimi livelli, niente di meno che con le parole della stessa presidente del Consiglio a difesa della pugile italiana Angela Carini, dopo che questa si è sottratta al confronto “impari” con Khelif: così l’aggredita sarebbe Carini, costretta a gareggiare iniquamente con un’atleta “con caratteristiche genetiche maschili”, seguendo “alcune tesi che rischiano di impattare sui diritti delle donne”. Più truce l’immagine rilanciata dalla ministra Santanché, “un algerino prende a pugni una donna italiana”. Anche la ministra Roccella ha lamentato che un’atleta italiana sia stata “vittima di un’ideologia che colpisce lei e con lei tutte le donne”, oscurando il “fatto” che Khelif è “una persona con cromosomi maschili, con corpo e fisicità maschili”. Nel mirino è (ancora una volta) la “ideologia di genere”, contro la “realtà” del “sesso”. Che nelle intenzioni dei nostri/nostre governanti il no all’ ideologia di genere sia destinato a diventare il fiore all’occhiello di una rinnovata cultura della destra ultraconservatrice, è evidente da molti indizi: non ultime, le irruzioni nel Comitato Nazionale di Bioetica, interpellato dal governo a rivedere un precedente parere favorevole su un farmaco usato per la disforia di genere; mentre alcuni/e componenti sostengono la necessità di rilanciare la “medicina di sesso”, giustapponendola all’ormai consolidato lessico -e contenuto- della “medicina di genere”. Di certo il palcoscenico delle Olimpiadi sarà sembrato una ghiotta occasione di grancassa mediatica per il rilancio del “no gender”. Destinata però a misero naufragio, a seguito dell’improvvida ricompensa economica offerta ad Angela Carini per la “ingiusta sconfitta” da parte della screditata International Boxing Association, a guida di un oligarca russo. Tanto basti a far capire quali siano i compagni di strada nella santa battaglia contro “l’ideologia di genere”. C’è un aspetto degno di menzione e particolarmente odioso: in nome della presunta “certezza” (oggettiva) del sesso biologico, Imane Khelif è stata dichiarata “non donna”. Peraltro, il granitico biologico è stato autorevolmente da più parti messo in discussione: si veda il genetista Giuseppe Novelli, per il quale esistono differenze interne nei sessi, che vanno studiate caso per caso. Ma è l’aspetto simbolico di quella agitata “verità” del sesso biologico a inquietare di più perché spinge a calpestare la soggettività delle persone. La “certezza” - che risuona lugubre parente stretta della “purezza” (ora del sesso, un tempo della razza) ha travolto l’esperienza umana di Imane, una donna che come tale ha sempre vissuto e gareggiato. Difficile immaginare qualcosa di più violento di quel verdetto “non sei una donna”: con in bocca i “diritti delle donne”, ma dimenticando le differenze fra donne e la dignità di ognuna. Con semplicità lo ha ricordato Imane: la mia è una vittoria per tutte le donne. Molto altro ci sarebbe da dire sulla battaglia “no gender”, scavando alle radici fino a individuarne le tante ramificazioni avvelenate. Come spiega Judith Butler nel suo recente libro Chi ha paura del gender?: far circolare il fantasma “pigliatutto” del gender è anche un modo per i poteri attuali (stati, chiese, movimenti politici) di spaventare le persone e farle rientrare nei ranghi: al tempo stesso spingendole a buttare fuori le loro paure e a rovesciare odio verso le comunità vulnerabili. Imane Khelif è una donna africana. Forse per questo ha dovuto affrontare l’ingiustizia di non vedersi riconosciuta come donna, forse per questo non aveva diritto di vincere, hanno detto molte algerine e molti algerini. E forse non a torto. “Sulla cannabis light è più autorevole Bugs Bunny di certi politici mistificatori” di Loredana Lipperini L’Espresso, 23 agosto 2024 Il personaggio dei cartoni animati usa l’astuzia per generare cambiamento. L’opposto di molti che popolano il Parlamento. E che spacciano battaglie ideologiche per scienza. Se fossimo nel mondo dei sogni dove ogni cosa diurna si trasforma nel suo contrario, come sosteneva fra l’altro James Hillman, potremmo dire che nel regno onirico Maurizio Gasparri è Bugs Bunny. Partiamo dal secondo, anche per dar sollievo a chi legge: Bugs Bunny non è solo un coniglio dei cartoni animati, ma un semidio. Lo sostenne Marco Giusti in un bel libro del 1993, “Cartoni animali”: Bugs è l’anti Mickey Mouse ed è parente stretto de “L’uomo di fiducia” di Herman Melville, che ingannava con arte i passeggeri di un battello a vapore. È insomma, un trickster, e il trickster non è un volgare imbroglione ma una creatura sacra, destinata a produrre cambiamento in un mondo stagnante. Bene. Maurizio Gasparri è l’esatto opposto: come è noto, all’inizio di agosto la Camera ha approvato l’emendamento al ddl Sicurezza che equipara la cannabis light a quella con Thc. Il che non comporta solo l’annichilimento di decine di migliaia di lavoratori del settore, ma anche una non sorprendente incompetenza. Gasparri è dunque lieto di dichiarare: “Chi difende la cannabis light difende sostanzialmente attività ambigue e pericolose. Va stroncata ogni forma di incoraggiamento all’uso delle droghe e alla propaganda delle droghe. Non mi meraviglio quindi che quelli che vogliono legalizzare le droghe difendano anche la cannabis light”. Naturalmente non un dato a supporto, ma sarebbe chiedere troppo. Ora, Fanpage ha intervistato Marco Pistis, farmacologo del gruppo dipendenze patologiche della Società Italiana di Farmacologia, professore ordinario di Farmacologia all’Università di Cagliari, direttore della scuola di specializzazione in Farmacologia. Dunque, uno che ne sa. Pistis ha dichiarato che la cannabis light, che per legge deve contenere una bassissima percentuale di Thc per essere definita tale, “non è una droga” perché “non ha effetti psichici nemmeno lontanamente paragonabili a quelli del tetraidrocannabinolo e non ha di certo la capacità di dare dipendenza che in alcuni casi può avere il Thc”. Farmacologicamente, insomma, non è una droga, ma “in senso giuridico, se non è più legale, è una “droga” a tutti gli effetti”. Insomma, è l’emendamento ad aver reso una droga quella che non lo era, il tutto in nome del solito decoro, spettro agitato da sinistra (decreto Minniti 2017, la premessa per le panchine anti-uomo e la decenza di facciata) e da destra (il decreto anti-rave). Poco importa che non abbia senso, esattamente come non lo hanno quei meravigliosi comunicati della questura che, dopo una manifestazione musicale e culturale con decine di migliaia di partecipanti, dichiarano di aver sequestrato 300 grammi di hashish, sempre 300 anno dopo anno, al punto che lo spettro di Fibonacci si sta chiedendo come sia possibile che l’hashish non si moltiplichi come i suoi conigli. Per questo, la cosa preziosa di oggi è “Out of the grid. Italian zine 1978-2006”, libro e progetto artistico curato da Dafne Boggeri con un nutrito numero di collaboratori e pubblicato da Les Presse du réel (sarà in mostra a Milano a fine novembre). Sono 100 riviste italiane pre-Internet, ciclostilate o fotocopiate, che nel tempo hanno sperimentato l’Arte Postale, la segreteria telefonica, il fax, il vinile, i nastri magnetici, i floppy disk, i vagoni dei treni fino ad arrivare al mondo dei blog. Un universo di intelligenza e di voglia di cambiamento da non rimpiangere, ma semmai da far rivivere. Perché sempre dalla parte di Bugs Bunny bisogna stare. Un “uso moderato” della guerra? I conflitti creano dipendenza di Mario Giro Il Domani, 23 agosto 2024 Non si vuole ammettere: la guerra è una droga che ci ha assuefatto al suo protrarsi senza limiti. Lo spettacolo scandalosamente più grave dei “drogati di guerra” lo offrono gli europei, anche peggiori degli statunitensi. In Italia alcune voci dissonanti anche se il nostro paese non incide quanto potrebbe. “Smetto quando voglio; ne faccio un uso moderato; non sono dipendente; la prendo solo il weekend”. Quante volte abbiamo sentito queste affermazioni sulla bocca di chi assume cocaina o pillole varie. Ora le sentiamo nei discorsi dei responsabili politici di fronte alla guerra. Siamo ormai drogati di guerra: come un allucinogeno non se ne può fare a meno ma non si vuole ammettere. Le scuse si moltiplicano ma la realtà è che non si riesce a smettere. Sentiamo ossimori del tipo: escalation controllata, invasione difensiva, guerra non generalizzata, armi solo difensive; armi per bilanciare armi. L’esempio più clamoroso è “atomiche tattiche”, quasi si trattasse di ordigni solo un po’ più potenti. Tutto sembra andare nel verso della guerra eternizzata ma resta molta riluttanza ad ammetterlo. È innanzi tutto il discorso di chi vive in mezzo alla guerra. L’Iran parla di ritorsione senza escalation e fa la vittima dopo aver propagato terrorismo. Israele non pone limiti alla rappresaglia nemmeno se si tratta di civili: anzi sostiene che sarebbe “morale” anche affamarli. Per Hamas è giusto sacrificare il proprio popolo, e non sa più dire nemmeno in cambio di cosa. I russi si scandalizzano e fanno i sorpresi perché vengono attaccati sulla propria terra: la chiamano aggressione ma quella del 24 febbraio era forse diversa? Gli ucraini hanno stragiurato agli occidentali che non avrebbero mai attaccato la Russia e che volevano soltanto liberare il proprio territorio ma ora parlano di “offensiva difensiva”. Al di là dei giudizi che si possono avere sui diversi attori dei conflitti, chi sta in guerra - ingiustamente o no, aggredito o aggressore, addirittura entrambe le cose - ha almeno l’attenuante di essere dentro una logica bellica reale, che tutto inquina e che costringe a ragionamenti o a reazioni semplificate. Molti di costoro si possono - parzialmente - paragonare a quei bambini che nascono da madri tossicodipendenti e lo divengono senza colpa. Sono nati dentro il conflitto, talvolta da generazioni come palestinesi e israeliani, e non conoscono altra realtà né altro linguaggio se non quello della guerra: azione/reazione, attacco e rappresaglia, mors tua vita mea. Ma lo spettacolo scandalosamente più grave dei drogati di guerra lo offrono gli europei, diventando anche peggiori - almeno stavolta - degli americani che tanto sono stati criticati per l’abitudine al conflitto. La Commissione Europea (tra l’altro uscente) ha dato il beneplacito all’offensiva ucraina in Russia senza nemmeno formali convocazioni e senza attendere: si possono usare le armi europee nell’offensiva in Russia mentre il parlamento europeo aveva più volte votato il contrario. Coi si è precipitati a dare il proprio assenso e ad approvare il solo linguaggio delle armi. Tale rapidità irriflessa stupisce dolorosamente: il conflitto pare divenuto una droga a cui la Ue pare essersi assuefatta e non riuscire a liberarsi, perdendo la propria vocazione originaria e quindi la propria utilità. Smentendo i luoghi comuni, oggi l’Europa fa peggio degli Usa che almeno ci hanno pensato un po’ prima di dire la loro sull’attacco alla regione di Kursk, e che sono comunque sempre in contatto con i russi (gli europei invece non fanno nulla a tale riguardo). I più “drogati di guerra” sono ovviamente coloro che spargono il terrore della Russia, tanto da rischiare la profezia che si autoavvera: invocare cioè la guerra grande per poi alla fine ottenerla. Tra gli assuefatti agli stupefacenti bellici ci sono anche quegli europei che in Medio Oriente si rassegnano alla logica della ritorsione infinita (non importa da che parte). È corretto aggiungere che, almeno sulla guerra in Ucraina, in Italia sorgono dubbi bipartisan, come testimoniano Guido Crosetto o Graziano Del Rio, distinguendosi dall’unanimità degli altri stati membri, anche se il nostro paese non incide quanto potrebbe e forse vorrebbe. Questa droga di guerra è micidiale: nasce dalla convinzione che non ci sia altro mezzo (è così che si comincia a drogarsi: per darsi un aiutino… in molti sensi); continua perché “lo fanno gli altri” cioè per conformismo; si eternizza perché “tanto non ci sarà escalation, non perderemo il controllo”. Insomma: smetto quando voglio. Non è così. La guerra non è un gioco, nemmeno quell’atroce gioco con la propria vita rappresentato dalla droga vera. La guerra coinvolge molti altri: compromette popoli e futuro; colpisce gli innocenti (come quando guidi drogato e uccidi); distrugge le possibilità di vita (e della natura); annulla la cultura della convivenza. Se ne pagano le conseguenze per moltissimo tempo, nello spirito dei popoli prima ancora che materialmente. Popoli che hanno vissuto la guerra ne emergono sfigurati, irriconoscibili. Chi ha conosciuto i sierraleonesi o i cambogiani prima delle loro terribili guerre racconta di popoli miti, tolleranti, indulgenti, gentili. La guerra ha seminato tra di loro aggressività, violenza, faziosità, alterandoli in profondità. Succede a tutti ogni volta che si combatte, sia per chi è dalla parte della ragione che per l’aggressore: in questo l’ingranaggio malefico della guerra non fa differenze… Siamo drogati di guerra: per questo non ragioniamo più e dobbiamo urgentemente disintossicarci. La prova più tangibile è che non ce ne accorgiamo: come quando si è drogati davvero, si vive di negazione, rimozione o perenni giustificazioni. Prova ne sia che non sappiamo immaginare né la fine di queste guerre né la loro soluzione ma soltanto ci siamo assuefatti ad una guerra infinita: è questa la droga. Per reagire serve un salto di immaginazione che cambi i comportamenti e le decisioni. Riguarda tutti, in primis i popoli in guerra: ci vuole un’idea alternativa perché non c’è avvenire nella guerra costante. Ma è un compito soprattutto dell’Europa, che ha iniziato il suo processo di integrazione e unione precisamente per superare l’odio delle due guerre mondiali. Altrimenti cosa esiste a fare? Solo a divenire una specie di Nato-bis? Difendere gli ucraini è una cosa. Smettere di ragionare perché drogati di guerra come unica prospettiva possibile, è tutt’altra cosa. Proteggere il diritto di Israele a esistere in sicurezza è una cosa. Accettare la vendetta perenne e la cancellazione dei palestinesi, tutt’altra. Proviamo ad uscire dall’inganno allucinogeno e ad immaginare la pace. *Politologo Medio Oriente. Gli stupri dei detenuti palestinesi. Sondaggio choc: non è un crimine da punire di Andrea Umbrello Left, 23 agosto 2024 A proposito dell’arresto di militari israeliani accusati di abusi sessuali nella famigerata prigione di Sde Teiman, ecco i dati inquietanti di una rilevazione dell’università di Tel Aviv. Continuiamo a mantenere alta l’attenzione sul dramma dei palestinesi, come abbiamo fatto in questi mesi fin dal 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco terroristico di Hamas al festival nel territorio israeliano e come abbiamo fatto a lungo in precedenza documentando la violazione dei diritti umani, l’occupazione illegale dei Territori palestinesi (come di recente ha dichiarato la Corte internazionale di giustizia), il sistema di apartheid messo in atto dal governo di Tel Aviv denunciato da Amnesty International. Il silenzio, la complicità e l’impunità non nascono dal nulla. Sono la conseguenza di un sistema che giustifica l’orrore e lo trasforma in normalità. Un sondaggio condotto dall’Institute for National Security Studies (INSS) dell’Università di Tel Aviv ha rivelato le opinioni degli israeliani riguardo a un tema che dovrebbe turbare le coscienze: è giusto perseguire penalmente soldati israeliani che hanno violentato detenuti palestinesi? La risposta, brutale nella sua onestà, svela una realtà inquietante: il 65% degli israeliani crede che quei soldati debbano essere disciplinati solo a livello di comando, come se un atto di tale barbarie potesse essere risolto con una pacca sulla spalla e un rimprovero. Solo il 21% ritiene che dovrebbero essere perseguiti, mentre il restante 14% preferisce non prendere posizione. Questo sondaggio è figlio di una vergognosa vicenda accaduta circa un mese fa. Dieci soldati israeliani sono stati arrestati e sottoposti a interrogatorio per aver abusato sessualmente di un detenuto palestinese della Striscia di Gaza nella prigione di Sde Teiman, nel deserto del Negev. Non è un’accusa leggera, non è una voce di corridoio. Un video (qui un servizio Cnn ndr), diffuso dai media israeliani, mostra chiaramente alcuni di questi soldati passeggiare tra una trentina di prigionieri palestinesi, tutti con la pancia in giù, vestiti solo di biancheria intima, con le mani legate. È una scena di caccia, non di guerra. Dopo pochi minuti scelgono la loro preda, un giovane. Lo alzano, lo strattonano, lo trascinano via. Lo portano fuori dalla portata della prima telecamera, ma un’altra riprende tutto. Il giovane viene messo all’angolo, circondato dal resto dei militari. Uno dei soldati aizza un cane contro di lui, come se il terrore del giovane non fosse già sufficiente. Poi inizia l’orrore vero e proprio: lo violentano per ore, tanto che le lesioni interne sono così gravi da impedirgli di camminare. E mentre la violenza si consuma, gli altri detenuti, immobili, ascoltano le urla, inermi, chiedendosi quando e se arriverà il loro turno. Questo è il contesto in cui, dopo l’arresto dei soldati, il 29 luglio, la destra israeliana, politici inclusi, ha fatto irruzione in due basi militari per protestare contro la loro detenzione. Tra i sostenitori, non potevano mancare figure di primo piano del governo: il ministro della Sicurezza nazionale di estrema destra, Itamar Ben-Gvir, e il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich. Il 4 agosto, i procuratori militari hanno rilasciato tre dei soldati arrestati, mentre altri due erano già stati liberati in seguito a un’udienza presso il tribunale militare di Kfar Yona il 30 luglio. Infine, il tribunale militare ha ordinato il rilascio degli altri cinque soldati, accusati di abusi sessuali, ponendoli agli arresti domiciliari fino al 22 agosto, in attesa delle indagini. Eppure, il sondaggio ci mostra un volto ancora più spaventoso, scavando più a fondo nel baratro. È stata posta un’altra domanda: “Israele dovrebbe o non dovrebbe obbedire al diritto internazionale e mantenere i valori morali in guerra?” Il 47% degli israeliani ha affermato che l’esercito non deve obbedire al diritto internazionale, mentre solo il 42,5% ritiene che dovrebbe farlo. Un ulteriore 10,5% si limitano a fare spallucce, preferendo non esprimersi. Tutto ciò rappresenta la normalizzazione dell’orrore. Quando il ministro Bezalel Smotrich definisce questi soldati “eroici guerrieri”, chiedendo il loro immediato rilascio, e quando Itamar Ben-Gvir li saluta come “i nostri migliori eroi”, la disumanizzazione ha raggiunto il suo apice. Alla domanda di Ahmad Tibi, uno dei parlamentari arabi della Knesset, se fosse legittimo “inserire un bastone nel retto di una persona”, Hanoch Milwidsky, membro del partito al governo Likud, ha risposto: “Se è un Nukhba [militante di Hamas], tutto è legittimo da fare! Tutto!”. Chi può fermare questa deriva? Chi potrà mai spegnere l’incendio dell’odio che divora questa terra? Chi può chiedere il rispetto dei diritti umani più basilari, quando i crimini di guerra vengono giustificati, applauditi e trasformati in atti di eroismo dalle più alte istituzioni locali? Ma fino a che punto si può giustificare l’indicibile in nome di uno Stato che, giorno dopo giorno, abdica sempre di più alla propria umanità? La risposta dell’Occidente, purtroppo, ci costringe a essere spettatori passivi di questo orrore, complici silenti di un genocidio a fuoco lento. Tunisia. Condannata in per le sue idee. Legali in campo per l’avvocata Sonia Dahmani di Roberto Giovene Di Girasole Il Dubbio, 23 agosto 2024 Si era svolta il 20 giugno scorso a Tunisi l’udienza di appello nel processo in corso contro l’avvocata tunisina Sonia Dahmani, in carcere dall’11 maggio 2024, quando venne arrestata all’interno della sede dell’Ordine Nazionale degli Avvocati di Tunisia (ONAT). Il 6 luglio 2024 Sonia Dahmani è stata condannata a un anno di reclusione per “diffusione di notizie false” dalla giustizia tunisina per alcune affermazioni fatte nel corso della sua partecipazione ad una trasmissione televisiva avente ad oggetto la situazione politica e sociale della Tunisia, con riferimento all’arrivo di migranti dall’Africa subsahariana. Nel corso dell’udienza di appello, alla quale ha assistito, quale osservatore, un avvocato per conto dell’Osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo (OIAD), i difensori di Sonia Dahmani hanno protestato per la sua mancata traduzione in aula, chiedendo con forza il rinvio dell’udienza, considerata l’espressa volontà della loro assistita di essere presente al dibattimento. Secondo quanto riferito dai difensori la direzione del carcere le aveva imposto di modificare il proprio abbigliamento per poter entrare in aula, secondo requisiti umilianti, non previsti da alcuna normativa. La Dahmani aveva acconsentito a tali richieste, pur di partecipare all’udienza, ma la traduzione non era stata comunque disposta. La corte, che aveva intenzione di procedere in assenza dell’imputata, ledendo gravemente i diritti della difesa, alla fine, dopo le insistenti richieste dei difensori, ha deciso di rinviare l’udienza al 10 settembre 2024. Il Consiglio Nazionale Forense, con un comunicato del 12 maggio scorso, aveva condannato le modalità con le quali era stato eseguito l’arresto della Dahmani, “operato da persone in abiti civili e con il volto coperto da passamontagna, che si sono introdotte con la forza nella sede dell’Ordine forense”, chiedendone l’immediata liberazione. Il CNF nell’occasione aveva espresso la propria solidarietà all’Ordine Nazionale degli avvocati della Tunisia (ONAT), vincitore del premio Nobel per la pace 2015, quale componente del “Quartetto per il dialogo nazionale”, al quale il CNF è legato da un accordo di cooperazione sottoscritto il 5 giugno 2015, chiedendo alle autorità tunisine la cessazione degli atti di repressione e intimidazione nei confronti dei colleghi tunisini. Secondo le informazioni in possesso dell’Oiad sono più di 60 gli avvocati, giornalisti e oppositori politici che sono stati oggetto di inchieste giudiziarie in Tunisia. L’Osservatorio degli avvocati in pericolo ha chiesto al governo tunisino di rispettare il Patto internazionale sui diritti civili e politici, che la Tunisia ha ratificato nel 1969, ed in particolare l’articolo 19, paragrafi 1 e 2, che tutela la libertà di espressione dei cittadini, esortando altresì la Autorità ad applicare i principi fondamentali delle Nazioni Unite relativi al ruolo degli avvocati, con specifico riferimento al principio 23 in base al quale: “Gli avvocati, come tutti gli altri cittadini, devono godere della libertà di espressione, di credo, di associazione e di riunione. In particolare, essi hanno il diritto di partecipare a discussioni pubbliche riguardanti la legge, l’amministrazione della giustizia e la promozione e protezione dei diritti umani, e di aderire a organizzazioni locali, nazionali o internazionali”.