Se la politica nega il dramma delle carceri di Francesco Petrelli* La Stampa, 22 agosto 2024 Della realtà occorre prendere atto e trarne le necessarie e ragionevoli conclusioni. Non farlo è un grave errore politico. Salvo che non si voglia percorrere la via del “negazionismo”, negando radicalmente l’esistenza di una emergenza carceri, o ponendo questioni sui limiti della delega, come ha fatto il sottosegretario Delmastro, al quale i detenuti non competono, oppure affermando, come ha fatto il ministro Nordio, che “da noi i detenuti rispettano limiti Ue”. La realtà è un’altra. Sappiamo bene che nel nostro Paese ci sono scompensi clamorosi: 14 mila detenuti in più rispetto alla capienza ordinaria e 18 mila gli agenti di Polizia penitenziaria in meno. Se anche si dovessero immettere risorse imponenti al fine di portare in efficienza i Tribunali di Sorveglianza, le strutture trattamentali interne ed esterne agli istituti, occorrerebbe almeno un decennio per restituire efficacia e congruità costituzionale (affettività compresa) all’universo carcerario del Paese. Quanto all’edilizia carceraria, anche ad essere ottimisti e credere nelle virtù salvifiche dei nuovi Commissari, dovremmo immaginare esiti utradecennali, a fronte della necessità e l’urgenza di dismettere o di ristrutturare un gran numero di carceri (si pensi a Sollicciano), ritenute oramai impraticabili. Il buon senso dovrebbe indurre a riconoscere, fuori da ogni condizionamento ideologico, che ogni intervento deve essere valutato non solo in base ai suoi possibili effetti positivi o negativi, ma anche per la sua capacità di sviluppare tali effetti nell’immediato o in un futuro più o meno lontano. Sarebbe stato sufficiente riconoscere, in tal senso, che (al netto di interventi non condivisibili) il decreto carceri si poneva esclusivamente in quest’ultima prospettiva, al di fuori di ogni pretesa risoluzione dell’emergenza. Ma una simile ammissione implica inevitabilmente anche la necessità di riconoscere la grave insufficienza delle risorse attuali rispetto ai bisogni della accresciuta popolazione carceraria. Si stenta ancora, tuttavia, ad operare un simile riconoscimento e ad ammettere di conseguenza la inevitabile necessità di alleggerire con urgenza la pressione del sovraffollamento. E che al di là dell’odioso termine “svuota-carceri” - che offende innanzitutto la dignità della persona detenuta, come fosse materiale di risulta - un meccanismo automatico e rapido di deflazione deve essere assolutamente individuato. Anche i cosiddetti “domicili protetti” di cui ha parlato ultimamente il ministro Nordio, ai quali destinare i detenuti con pene brevi che non hanno la disponibilità di un domicilio adeguato o non ne hanno affatto, si ammette che di tali strutture non ve ne è traccia alcuna e che si dovrebbe ancora provvedere a “fare dei bandi per trovarle”. Ma anche in questo caso si è ribadito che - per carità - il governo non si assumerà la diretta responsabilità di automatismi attuativi di simili eventuali misure deflattive, in quanto saranno sempre “i giudici che devono decidere”. Se il vaglio giurisdizionale sarà inevitabile, la questione non è quella di “sostituirsi a loro”, come dice il ministro, ma di adottare un meccanismo di agile e immediata e automatica applicazione che lasci al giudice uno spazio minimo di discrezionalità, così come è previsto per la liberazione anticipata speciale. Ma in questo futuro ipotetico, collocato nel crepuscolo dell’improbabilità, anche la proposta della “detenzione domiciliare” da applicare ai detenuti con fine pena breve sembra immersa nella più grande confusione sia teorica che operativa. Una legge dello Stato già prevede infatti che i condannati con pene residue inferiori ai 18 mesi, salvo le consuete limitazioni relative al titolo di reato, possono essere sottoposti al regime della “detenzione domiciliare”, ed analoga misura è prevista dal nostro ordinamento penitenziario per le pene residue inferiori a 24 mesi. Si tratta di un regime di sostanziale “autodetenzione” di cui fruire presso il domicilio indicato dal condannato, una volta verificatane la idoneità. Che cosa di diverso sono i “domicili protetti” di cui parla il ministro Nordio? Strutture carcerarie a custodia attenuata? Luoghi chiusi controllati da personale di Polizia? Una nuova misura, dunque, non prevista dal nostro ordinamento e certamente peggiorativa rispetto al presente, sotto il profilo delle modalità del controllo. Da cosa nasce questa claustrofilia? Questa ostinazione securitaria che induce a puntare verso soluzioni impraticabili nell’immediato, tradendo ogni buon senso ed ogni senso del reale? Siamo anche in questo caso totalmente al di fuori da ogni accettabile concretezza dei rimedi rispetto ad una situazione la cui drammatica realtà non può essere negata. Le misure prospettate, peraltro, non offrono alcuna base numerica o statistica sulla quali confrontarsi. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e il Ministero forniscano alla discussione politica tutti i dati che sono in loro possesso al fine di consentire un approccio serio ed orientato in senso empirico sulla agibilità degli strumenti possibili e di quelli proposti. È quanto esige la gravità del contesto che non può essere in alcun modo sottovalutata. Una situazione ingravescente, come testimoniano le “rivolte”, come quella barese o quella romana nel carcere di Regina Coeli, che appaiono più segnali di disperazione che di rivolta. Ma si tratta di sintomi altrettanto pericolosi che devono essere rapidamente eliminati proprio perché esprimono quella identica mancanza di prospettive di vita e di speranza. È infatti una medesima pulsione disperata quella che può spingere la violenza a rivolgersi in senso distruttivo verso se stessi, con il suicidio, o verso l’esterno. Si sarebbero dovuti ripiegare da tempo gli slogan, e si sarebbe dovuto provare a ragionare di queste complessità, e dell’urgenze che pone la realtà, ma non pare che sia questa la strada che si è inteso sino ad ora seguire, non comprendendo che si sta perdendo una ulteriore occasione di progresso, perché una seria riforma del carcere, ampia e condivisa, costituisce una opportunità di evoluzione per l’intera collettività. *Presidente dell’Unione camere penali Carceri sovraffollate e senza personale: la riforma Nordio non si occupa di nulla di Giovanni Iacomini* Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2024 È innegabile che gli istituti penitenziari versino in condizioni preoccupanti. I ripetuti appelli del Presidente della Repubblica e del Papa, le sanzioni europee, le proteste in forme più o meno contenute, il numero crescente dei suicidi non solo tra i detenuti ma anche tra gli agenti di Polizia penitenziaria, non sono che sintomi di una situazione di profondo disagio. Nessun giovamento ha potuto apportare l’afa estiva che ha afflitto la gran parte delle città italiane per un periodo quanto mai lungo. E puntuale come la calura anche quest’anno è tornato il dibattito sul sovraffollamento e la necessità di un provvedimento deflattivo del numero dei detenuti. In poco più di 200 istituti sono recluse quasi 62 mila persone. Non si tratta di un numero eccessivo se paragonato ad altri contesti (negli Usa sono oltre 2,5 milioni su una popolazione di 300 milioni, quindi proporzionalmente molti di più), né se si pensa alla quantità di reati che noi cittadini onesti siamo costretti a subire. Siamo nella patria delle mafie e grandi organizzazioni criminali, dello scarso sviluppo del senso civico, dove la devianza e il mancato rispetto delle regole sono radicate nei secoli, a creare un ambiente corrotto in cui si è perfettamente integrata la micro-criminalità d’importazione. I detenuti sono troppi rispetto al numero dei posti effettivamente disponibili. Lo stesso DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) fornisce i dati su un tasso di affollamento medio del 130% negli istituti di pena italiani. Situazioni particolarmente critiche in Lombardia e Puglia. A Rieti e Roma-Regina Coeli nel Lazio. Si tratta di condizioni evidentemente ed effettivamente degradanti che vanno a pregiudicare la funzione rieducativa della pena prevista dall’art. 27 c.3 della nostra Costituzione. Un trattamento “contrario al senso di umanità” che alla fine si rivolge contro la collettività: non solo perché è strettamente correlato all’aumento della recidiva dei condannati una volta rimessi in libertà (più che assistere all’afflittività della pena, interesse prioritario della società dovrebbe essere quello di vivere in maniera ordinata e sicura, senza dover sopportare soprusi e reati), ma anche per le numerose condanne da parte della Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo con conseguenti provvedimenti tendenti a svuotare le carceri, inserire la cosiddetta “sorveglianza dinamica” e altri escamotage per non dover pagare sanzioni milionarie e risarcimenti ai sensi dell’art.35 ter dell’Ordinamento Penitenziario. Dev’essere atroce, ancor più con il caldo estivo, stare in quattro (spesso in sei con aggiunta della terza fila di letti a castello) in una cella con bagno alla turca adiacente al fornello dove si cucina, docce esterne malfunzionanti, servizi igienici da terzo mondo. Ma il vero sovraffollamento è un altro, non relativo agli spazi vitali e ai metri “calpestabili” variamente disciplinati da norme e sentenze interpretative. Molto più incidente è lo scollamento tra il numero dei detenuti e la struttura amministrativa che complessivamente è tenuta a occuparsi di loro. Tutti noi cittadini subiamo le difficoltà e angherie di una P.A. sempre più inefficiente in tutti i campi: scuola, sanità, trasporti, tutela del patrimonio urbano e paesaggistico, non c’è un servizio pubblico che non soffra dello smantellamento dello stato sociale messo in atto negli ultimi decenni da tutti i governi, senza distinzione, in nome del dogma delle liberalizzazioni e privatizzazioni. Nessuno si aspetterà che le cose possano andare diversamente nel settore della giustizia. I penitenziari sono organismi tricefali con una Direzione, con annessi uffici amministrativi, un’Area educativa e un corpo di Polizia penitenziaria. Ebbene (come nel corso del mio lungo servizio nel carcere di Rebibbia ho potuto constatare direttamente) negli anni abbiamo assistito a un vorticoso calo non solo degli agenti di polizia, con invecchiamento e pensionamenti non rimpiazzati da un valido turn over, ma anche di dirigenti (in Casa di Reclusione, per fare un esempio, qualche anno fa da un Direttore e quattro vice che potevano dividersi le mansioni nei diversi settori si è passati per un periodo a una sola “reggente”, impegnata a scavalco in altri Istituti, e una vice-direttrice che svolgeva anche la funzione di responsabile dell’Area educativa; più recentemente per fortuna le cose sono migliorate ma si è arrivati a una Direttrice e due vice), di funzionari educatori, psicologici e tutto il personale annesso perennemente sotto-organico. Le persone private della libertà dipendono per ogni aspetto della loro vita, anche per le esigenze più banali e quotidiane, da istanze cosiddette “domandine” inviate a uffici sempre più deserti, dove l’unico segno di vita sono telefoni che squillano ininterrottamente senza alcuna risposta. Fuori dal carcere ci sono altri uffici, assistenti sociali, UEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) che lamentano ugualmente carenze di personale. La Magistratura di Sorveglianza, che detiene l’ultima parola in tema di reinserimento in società, soccombe sotto un cumulo di 200 mila pratiche inevase. La Magistratura ordinaria, civile e penale, da cui comunque dipende quel 30% di detenuti in attesa di giudizio, notoriamente non vive giorni migliori. Di fronte a questo sfacelo fa male sentire le dichiarazioni che provengono dai piani alti del governo. È stato approvato un decreto-carceri che di carceri non si occupa se non in minima misura. Ci si è fermati al tentativo di assestare qualche colpetto basso alla Magistratura per il solito regolamento di conti con la politica di scuola craxiana e quindi berlusconiana. Invece di pensare a innovare un Codice Penale “Rocco” ormai ultra novantenne, si continua a ingarbugliare norme procedurali che vanno ad acuire lo strabismo della giustizia: forte con i deboli (come magistralmente ha scritto Scarpinato qualche giorno fa su queste pagine), debole con i forti. Si è creata una giungla normativa in cui possono districarsi solo i potenti, i protetti e coloro che con proventi di varia natura possono permettersi di pagare gli avvocati giusti. Pochi giorni dopo il suo decreto, il ministro della Giustizia ha riproposto in un’intervista i soliti rimedi. Chiunque abbia una minima contezza dei problemi che affliggono l’esecuzione della pena resta incredulo a sentir parlare ancora una volta di aumento di strutture e di posti (con il personale allo stremo e fondi insufficienti per aumentare decentemente le assunzioni in tempi brevi), rimpatri di stranieri (impresa mai riuscita neanche ai più duri dei governi leghisti), tossicodipendenti in strutture (che non esistono o sono profondamente inadeguate). E poi separazione delle carriere, obbligatorietà dell’azione penale, riforma del CSM, questioni che potrebbero essere interessanti ma sono rivolte a un futuro ancora ben lontano mentre il degrado è qui e ora e ai detenuti chiusi in cella non resta che sperare in un clima più mite con l’arrivo dell’autunno. *Professore di Diritto ed Economia nel carcere di Rebibbia Carceri in emergenza, non bastano interventi spot: alla politica servono coraggio e dignità di Antonino La Lumia* e Elisabetta Brusa** Il Riformista, 22 agosto 2024 Il dramma di oggi chiede risposte: non si può pensare di limitarsi a costruire nuovi istituti o ad assumere mille agenti nei prossimi due anni. Bisogna puntare su liberazione anticipata e su misure alternative. Il carcere è un tema scomodo, perché non crea consenso, e se ne continua a discutere in termini puramente ideologici: (presunta) certezza della pena o svuota-carceri, tertium non datur. È l’approccio più inutile, perché mette la propaganda davanti alle esigenze di assicurare un essenziale equilibrio in ambito penitenziario mantenendo l’azione politica nell’alveo dei valori costituzionali. Chi è fuori dal carcere non ha idea di come si svolge la vita all’interno, non conosce il perché degli innumerevoli suicidi. Bisogna, invece, essere consapevoli ed entrare dove quasi nessuno vuole entrare per pudore, per disinteresse o semplicemente per arroganza: attraversare le sezioni, le celle e le infermerie, i corridoi e gli spazi dove quotidianamente si evolve la delicatissima dinamica umana tra agenti, detenuti, educatori, medici e volontari. Il carcere non si muove a compartimenti stagni: tutti respirano la stessa aria, dietro le stesse sbarre, da ristretti e da operatori. Non è una Mecca, non deve essere un cimitero. I numeri fanno a cazzotti con lo stato di diritto: l’ultimo report del Garante nazionale (29 luglio 2024) segnala, a fronte di 47.004 posti regolarmente disponibili, un numero di detenuti di 61.134, con un indice di affollamento del 130,06% (che sale al 224,38% a Milano San Vittore e al 209,34% a Brescia Canton Mombello). Un’abnorme promiscuità di sofferenze, dove si sconta anche una cronica carenza di agenti che - pur con limitate risorse - svolgono un’attività encomiabile. Davanti all’emergenza, che non nasce certo con il governo Meloni, dobbiamo chiederci se lo Stato voglia abdicare alla funzione prevista dall’art. 27 della Costituzione oppure se intenda farsi carico di interventi immediati per ridurre il sovraffollamento, con un progetto di rigenerazione del sistema carcerario e di esecuzione della pena in chiave di rieducazione. La politica deve mostrare concretezza prospettica, senza farsi inquinare da ingiustificati dualismi: gestisca efficacemente l’esistente, ma con la capacità di realizzare una visione più ampia. Ecco perché la soluzione non può essere solo la costruzione di nuovi istituti o l’assunzione di mille agenti nei prossimi due anni: misure che possono contribuire a un riassetto generale, ma inadeguate nel dramma odierno. Servono scelte coraggiose: congruo aumento dello sconto di pena per liberazione anticipata (immediato e automatico, salvo provvedimento negativo), introduzione di percorsi trattamentali e misure alternative di più ampio respiro, nonché un rafforzamento delle pene sostitutive, incrementando il numero degli operatori (medici, educatori, mediatori culturali) per assicurare un reale accompagnamento, così come la presenza dei magistrati di sorveglianza, costantemente sotto organico, affinché il trattamento inframurario si traduca nella concessione di benefici, affidati al loro giudizio. È un primo passo per restituire dignità alle persone. E anche allo Stato. *Tesoriere OCF - Presidente Ordine Avvocati Milano **Commissione Carcere OCF La prigione non è l’unica via: un cambio culturale può salvare i detenuti e lo Stato di Tiziana Maiolo Il Riformista, 22 agosto 2024 Il sottosegretario Delmastro insiste sull’edilizia penitenziaria: può risolvere alcuni problemi, ma non è in grado di spegnere il fuoco negli istituti. Un primo passo? Aumentare i giorni di sconto. Non può prevalere la logica del “buttiamo via la chiave”. Di nuovo in agitazione ieri il carcere minorile milanese Beccaria, con agenti finiti all’ospedale. E a poco valgono le parole dello storico cappellano, oggi 84enne, Gino Rigoldi, che si sgola a spiegare come per rieducazione non si può intendere l’imbottire i ragazzi di psicofarmaci, che inducono assuefazione e poi crisi di astinenza e comportamenti violenti. Spiega quel che è inevitabile, da riformatore. Uno più vicino al “codice Gozzini” e alle riforme degli anni 70 e 80 del Novecento che al codice Rocco del Ventennio fascista. Sorvegliare e punire - come dissero Montesquieu e poi Foucault - e quindi dare, a ogni azione illecita, una risposta violenta irrazionale e disumana come il carcere, oppure ricucire lo strappo con la società operato dal comportamento illegale attraverso il trattamento che riporti alla ricostruzione della persona? Persino attraverso la detenzione in cattività? Sono due visioni opposte, e le risposte non coincidono necessariamente - in politica - con destra e sinistra. Non occorre scandalizzarsi se il sottosegretario di un governo di centrodestra come Andrea Delmastro ritiene - e a questo scopo si impegna, e lo scrive con orgoglio su La Verità - che tutti i problemi del carcere, a partire dai 61 suicidi, e poi il perenne sovraffollamento e l’inciviltà delle condizioni di alcuni istituti, si risolveranno costruendo nuove prigioni. Non è scandaloso neppure per chi nel carcere come soluzione per i comportamenti illeciti non crede proprio. Perché l’edilizia penitenziaria, se trattata con una visione riformatrice (per esempio sull’orma dell’istituto di Bollate e di quei direttori visionari come Luigi Pagano, che quell’istituto volle e realizzò), può comunque risolvere alcuni problemi. Certo non subito, e questo è il limite, e non è poco. Tuttavia - lo dico al sottosegretario ma anche al direttore Maurizio Belpietro e ai tanti che sono sinceramente convinti del fatto che la certezza del diritto debba coincidere con la certezza della pena e questa con la certezza del carcere - se la casa brucia si chiamano i pompieri. Per esempio la proposta del deputato Enrico Costa (che ci importa se è di destra o di sinistra?) di aumentare il numero di giorni di sconto per la liberazione anticipata a me sembra ragionevole per cominciare a spegnere il fuoco dell’estate 2024. Ma poi occorre anche vedere quale carcere si vuole costruire. Siamo d’accordo per esempio sul fatto che la cella debba essere solo il luogo in cui si va a dormire? Poi occorre tutto il resto, naturalmente: lo studio, la formazione professionale, il lavoro. Cioè il minimo sindacale perché la privazione della libertà non porti con sé quella monumentale pena accessoria che è l’annientamento della persona. Quel che non fanno più la pena di morte o la tortura, insomma, lo produce la mortificazione del corpo. Quella che ti priva dell’ossigeno e ti toglie la coscienza del tempo e dello spazio. L’intervento del sottosegretario Delmastro è stato suscitato da un dibattito tra il direttore de La Verità, Maurizio Belpietro, e un detenuto - oggi ai servizi sociali - che è l’esempio vivente di un uso utile del carcere, visto che a Rebibbia si è anche laureato, Salvatore Buzzi, uno dei protagonisti del processo “Mafia capitale”, la bufala messa in piedi dall’ex procuratore Giuseppe Pignatone, e che mafia non era, ma solo malaffare in gran parte della sinistra romana. “Svuotare le carceri? No, costruiamole”, aveva scritto, rivolto al ministro Carlo Nordio, La Verità del 19 agosto. Belpietro, con un buffetto neanche tanto soffice, aveva ricordato al Guardasigilli che “da Giorgia Meloni e dalla sua squadra” gli elettori “si aspettano legge e ordine, ovvero si attendono che i delinquenti siano assicurati alla giustizia, cioè condannati e rinchiusi”. Buttare la chiave, insomma. E invitare esplicitamente Nordio a decidere “da che parte stare”: la “maggioranza silenziosa che l’ha votata” o quella rumorosa che protesta per il sovraffollamento. Prima di dare la parola a Buzzi, che ha spiegato in nove punti a Belpietro che non lo sa, che cosa è il carcere, mi permetto di suggerire una domanda: siamo così sicuri che il disastro carcerario che produce follia, malattia e morte fino ai suicidi, non sia la conseguenza diretta di una pessima amministrazione della giustizia? E anche una constatazione: sono tanti i cittadini che hanno votato il centrodestra perché c’erano anche persone come Carlo Nordio (per non parlare del ricordo di Berlusconi), e sulla giustizia giusta e il superamento del carcere come principale sanzione hanno preso la parola, in Parlamento e fuori. Non c’è solo la maggioranza silenziosa che piace a Belpietro e Delmastro, nel centrodestra. Salvatore Buzzi ha spiegato che, se la sinistra si è sempre applicata nell’aumento delle pene, questo centrodestra si sta esercitando nell’aumento del numero dei reati. È così. Siamo sicuri che dopo il fallimento dell’omicidio stradale, che non ha per niente diminuito i reati, fosse necessario anche l’omicidio nautico? Certo, ci rassicura il sottosegretario Delmastro: il governo ha varato un piano di investimento di 250 milioni di euro per la costruzione di nuove carceri. Ottimo, se ne riparlerà tra vent’anni. Ma nel frattempo potremmo discutere in linea generale su quale è il confine tra il lecito e l’illecito e anche sull’origine della norma penale e il carcere come conseguenza di un processo che spesso è ingiusto. Se per esempio in un furore talebano qualche governo decidesse che non solo l’assunzione di sostanze psicotrope ma anche di nicotina fosse reato, lei - che è fumatore - accetterebbe stoicamente la detenzione nell’attesa che qualcuno butti la chiave? La vergogna dei bimbi detenuti, sono 23 in tutta Italia. Allarme dei Garanti: “Potrebbero aumentare” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 22 agosto 2024 L’ultimo report sulla presenza dei piccoli in prigione con le madri carcerate. Agosto lo stanno passando dietro le sbarre con le loro madri senza neanche lo svago di quelle ore fuori al nido o all’asilo, in queste settimane d’estate chiusi in prigione. Sono ben 23 i bambini, che, da innocenti, vivono in carcere con le mamme carcerate e - lanciano l’allarme i garanti dei detenuti -potrebbero aumentare soprattutto con l’entrata in vigore delle nuove norme che non escludono più la detenzione per le donne con figli minori di un anno. Ventitré bambini con 19 mamme, reclusi o negli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri) o nelle sezioni nido di carceri ordinarie. Nell’Icam di Lauro, in Campania, sono 4 attualmente i bambini insieme alle loro mamme. La struttura ne può ospitare fino a 30. “Nel tempo ne ho incontrati diversi. Assisto sempre alla solita scena: appena cominciano a parlare, usano sostanzialmente due parole: ‘apri’ e ‘chiudi’. Questo fa capire che in quei luoghi fin da piccoli imparano le regole del carcere”, racconta all’Adnkronos Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza dei garanti territoriali dei detenuti e Garante della Campania. “In passato ho incontrato nella struttura anche due donne incinte, dentro per reati gravi. Hanno partorito in carcere”. Il piccolo Giacomo ancora a Rebibbia - “Apri e chiudi” come Giacomo, il piccolo di due anni e mezzo che continua ad essere chiuso a Rebibbia insieme alla madre e che, a quell’età, dice solo queste due parole. La sua è anche una terribile storia di malaburocrazia denunciata da Repubblica ma alla quale ancora nessuno ha posto rimedio. Molti parlamentari nelle ultime settimane sono andati a Rebibbia a fargli visita ma la situazione non è cambiata e il piccolo e la sua mamma, che potrebbero benissimo essere assegnati ad un Icam o ai domiciliari, sono ancora in carcere. Ciambriello non vede all’orizzonte prospettive imminenti di cambiamento. “Piuttosto che umanizzare le carceri, si è adottata una visione carcerocentrica che rema contro l’obiettivo ‘mai più bambini dietro le sbarre’. Se in Parlamento passerà questa misura, è probabile che i numeri aumenteranno. E così invece di farli uscire, ci saranno più bambini insieme alle mamme negli Icam”. Vuoi iscriverti a Nessuno tocchi Caino? No prigioniero, te lo puoi scordare! di Rita Bernardini* L’Unità, 22 agosto 2024 La giustificazione è che l’associazione alimenta la destabilizzazione e la rivolta in carcere. Ma come può farlo un gruppo fondato sulla nonviolenza? È un crimine battersi contro l’ergastolo? Un detenuto al 41bis del carcere di Novara ha scritto a Roberto Giachetti raccontandogli cosa gli è capitato quando ha chiesto tramite lettera al fratello, di versare i cento euro per l’iscrizione a Nessuno tocchi Caino. È successo che l’ufficio di Sorveglianza di Novara ha emesso un “decreto di trattenimento” della missiva perché “numerose circolari dipartimentali - ma se ne cita solo una del 2015 - hanno disposto di intercettare tutte le missive in qualche modo afferenti a tale associazione, che è una lega internazionale di cittadini e parlamentari per l’abolizione della pena di morte nel mondo, poiché le stesse potrebbero favorire l’insorgere di proteste da parte della popolazione detenuta compromettendo l’ordine e la sicurezza all’interno dei reparti”. Il detenuto che scrive a Giachetti ha 53 anni, è stato condannato all’ergastolo, sta in carcere da 21 anni ed è sottoposto al regime del “carcere duro” da 18 anni. Dice di essere “basito” e commenta: “vorrei sapere se io da ergastolano non posso sostenere chi si batte contro “la morte per pena”, quindi contro l’ergastolo a vita”. Ce lo chiediamo anche noi che portiamo la responsabilità di Nessuno tocchi Caino, associazione che l’anno scorso ha compiuto trent’anni, che è stata fondata da Marco Pannella e Mariateresa Di Lascia, che ha ottenuto all’Onu lo straordinario successo della “moratoria universale delle esecuzioni capitali” e ha contribuito in modo determinante all’abolizione in Italia dell’ergastolo ostativo. Noi, che da radicali e grazie all’esempio di Marco Pannella, pratichiamo da sempre la nonviolenza, saremmo provocatori di proteste che possono compromettere l’ordine e la sicurezza negli istituti penitenziari? Noi, che abbiamo avuto il nostro attuale segretario Sergio D’Elia che nel 1987, con un permesso speciale, dal carcere ove era ristretto, è andato al congresso del Partito radicale per consegnare la banda armata Prima linea al partito della nonviolenza con un discorso di immenso, attuale, valore: “Vi consegniamo Prima linea, però... vogliamo un riscatto. Vi abbiamo offerto disposizione dello spirito e piena dedizione, da voi ci aspettiamo un dono più grande, ci aspettiamo una tecnica della speranza e della nonviolenza, un sentimento della politica e della conoscenza, ci aspettiamo una filosofia politica e una educazione sentimentale... finalmente al servizio della Democrazia”. Ammesso che le “numerose circolari dipartimentali” esistano e circolino ancora, quel che non dovrebbe essere ammesso è che un magistrato di sorveglianza (anche dei diritti dei detenuti) decreti sulla base di documenti riservati segnalati da un “ufficio censura” carcerario di valore giuridico di quarto o quinto livello. Che tali “circolari” siano considerate fonte di prova sulla natura di un’associazione fondata e, finché è stato in vita, presieduta da Marco Pannella. Che tali note siano state elevate a fonte giuridica, prevalente rispetto a manciate di articoli della Costituzione afferenti ai “principi fondamentali”, recepiti anche nell’ordinamento e nel regolamento penitenziari, oltre che consacrati da patti e convenzioni internazionali sui diritti umani. In quel “decreto di trattenimento” della missiva, c’è dell’altro. Il magistrato di sorveglianza di Novara, infatti, rincara la dose di inaudita irragionevolezza della decisione con queste testuali parole: “L’iscrizione, ove attuata, potrebbe in effetti condizionare l’operato dell’associazione Nessuno tocchi Caino e favorire iniziative della stessa, destabilizzanti per l’ordine e la sicurezza interna degli istituti, e ciò a maggior ragione ove anche altri detenuti a regime differenziato, emulando il (qui viene scritto il cognome del detenuto) chiedessero poi di aderire alla stessa associazione che finirebbe per essere finanziata da tesserati in regime di 41bis dell’Ordinamento penitenziario.” Che noi si sia contrari (come da tradizione radicale e pannelliana) al 41bis, all’ergastolo, alle leggi speciali, ai codici fascisti, alle carceri “illegali” che non rispettano le regole costituzionali italiane e convenzionali europee, credo sia noto a tutti. Non è recente, data a ventidue anni fa l’uscita del libro-denuncia sul “carcere duro” dal titolo emblematico “Tortura democratica”, che Sergio D’Elia e Maurizio Turco hanno scritto dopo aver fatto il giro nelle sezioni del 41bis e cella dopo cella intervistato 650 detenuti. Così come è noto a tutti (come da tradizione statutaria del Partito radicale) che da noi “chiunque”, senza esclusioni e come è scritto da trent’anni anche nel nostro statuto, si può iscrivere alla nostra associazione. Ricordo come nel 1987, quando era in corso la campagna di iscrizioni del Partito radicale denominata “o lo scegli o lo sciogli”, Marco Pannella destò lo scandalo di molti benpensanti (anche dirigenti radicali) di rendere noto che, assieme a premi Nobel, parlamentari di tutto il mondo, sindaci, scienziati e popolarissimi appartenenti al mondo dello spettacolo e dell’arte, anche due feroci assassini avevano preso la tessera radicale. Si trattava del “padrino” Giuseppe Piromalli e del pluriassassino Vincenzo Andraus. “Non ho necessità di chiedermi perché mai lo facciano” - scriveva Pannella - “visto che noi abbiamo chiesto a tutti i cittadini italiani di farlo, e quindi anche a loro. Se mai il mio e nostro problema è di capire perché mai gli altri non lo facciano e non l’abbiano fatto fin qui!”. “Posso però immaginare” - proseguiva Pannella - “che il “padrino” Piromalli, capo di una famiglia che ha esercitato molto potere nella sua regione, condividendolo con la classe politica, trovandosi ora a oltre sessant’anni chiuso, probabilmente per sempre in galera e conoscendo meglio dei più la serietà, l’onestà, il rigore, la capacità dei radicali e anche l’efficacia della loro nonviolenza, avendo oggi più che mai anche lui bisogno di giustizia e di “giusti”, sia lieto, potendolo, di dare una mano a costoro, che gliela chiedono. Posso immaginare anche che Vincenzo Andraus, come altri violenti “politici” e non solo “comuni”, voglia rendere omaggio, testimoniare rispetto e amicizia per chi, con il passare degli anni, sa dimostrare quanto la nonviolenza sia conveniente, sia più forte, più bella e praticabile, e quanto il rispetto delle leggi, delle regole - se davvero fosse possibile - possa valere la pena di crederci, e di praticarlo”. L’opera nonviolenta e gli scopi più che legali di Nessuno tocchi Caino, organizzazione non governativa riconosciuta dal Consiglio d’Europa e anche dal ministero degli Esteri in Italia, sono certificati in centinaia di provvedimenti e concessioni del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Dal 2009 fino a oggi, Nessuno tocchi Caino è stata autorizzata a tenere i suoi Congressi biennali all’interno degli istituti penitenziari, a tenere i laboratori “Spes contra Spem” nelle sezioni dell’Alta sicurezza, a poter realizzare dentro il carcere di Opera il docu-film di Ambrogio Crespi contro l’ergastolo ostativo con la partecipazione dell’allora capo del Dap Santi Consolo, docu-film presentato dall’allora guardasigilli Andrea Orlando al festival del Cinema di Venezia. L’opera laica di Nessuno tocchi Caino di misericordia corporale, “visitare i carcerati”, si è rinnovata centinaia di volte negli ultimi anni con gli ingressi in carcere, alcune volte anche nelle sezioni del 41bis, già autorizzati e che continuano a essere autorizzati dal Dap, con il cui Capo attuale Giovanni Russo (come accadeva con Santi Consolo, Carlo Renoldi e Dino Petralia) manteniamo un leale rapporto di collaborazione grazie anche ai report che gli mandiamo sulle visite, report in cui evidenziamo lo stato dei singoli istituti, le condizioni di vita dei detenuti e di lavoro dei “detenenti”, comprese le disfunzioni, le irregolarità e le vere e proprie illegalità perpetrate nei confronti di tutta la comunità penitenziaria dovute tutte più che a problemi di gestione a una legislazione carcero-centrica che determina la violazione sistematica dei diritti umani fondamentali. Un’opera di conversione dalla violenza alla nonviolenza, dall’odio all’amore, dal delitto al diritto, è questa la cifra dell’associazione radicale nonviolenta transnazionale e transpartitica Nessuno tocchi Caino. Perciò, quando accade che una persona che ha commesso gravi crimini violenti decide di prendere la tessera di un’organizzazione nonviolenta, il fatto dovrebbe essere salutato come un evento salvifico, non come una iattura, una minaccia per lo Stato e - addirittura - per la nostra stessa esistenza. A meno che non si voglia mai cogliere il bene e si preferisca invece coltivare il male, maledire e inchiodare per sempre i condannati ai loro delitti, a essere cattivi per sempre, esibirli come trofeo di uno Stato forte che non perdona. Noi vogliamo ancora credere allo stra-citato articolo 27 della Costituzione e concludere con le parole di Marco Pannella a proposito delle iscrizioni di Piromalli e Andraus: “Cosa volete aspettarvi - a parte la storia cristiana delle redenzioni, quella laica del giudicare attraverso le opere - dai “criminali” in carcere? Che assassinio, onde per vostra tranquillità confermarvi che loro sono belve e voi persone?”. *Presidente di Nessuno tocchi Caino Svuotare il peso politico dell’Anm: il piano di Nordio e Palazzo Chigi di Errico Novi Il Dubbio, 22 agosto 2024 Con la separazione delle carriere, si otterrebbe un effetto decisivo: “smilitarizzare” la magistratura. È la vera “riforma” che il guardasigilli spera di realizzare, a partire dal ridimensionamento del potere che oggi i pm esercitano sui colleghi giudicanti e sul “sindacato”. Sarà un’offensiva? Può darsi. Di sicuro, sulla giustizia Giorgia Meloni ha cambiato registro. E con lei, l’intera maggioranza. Ma dove può arrivare la “minaccia” del centrodestra nei confronti della magistratura? Prima di rispondere, bisogna prefigurare uno scenario: la difficilissima sfida autunnale delle elezioni in Liguria. L’alleanza di governo le affronterà con Giovanni Toti in attesa di giudizio: prima le Regionali, poi il dibattimento. Non è il viatico ideale. Sebbene la vicenda dell’ormai ex governatore sia un illuminante paradigma delle forzature che la magistratura è in grado di operare, e continua a operare, rispetto alla separazione dei poteri. C’è però poco tempo per trasferire simili convinzioni agli elettori. Sono analisi che tutti i partiti del centrodestra condividono (e che peraltro su questo giornale hanno trovato spazio anche di recente, per esempio con l’intervento firmato la settimana scorsa da Alessandro Barbano), ma sono anche analisi troppo sofisticate per essere oggetto di campagna elettorale. Non che perdere Genova costituirebbe il preannuncio di una crisi di governo. Ma certo non è neppure la polizza per un autunno tranquillo (ieri Repubblica lo ha immaginato assai “caldo”, ma per i magistrati). In realtà a Palazzo Chigi e a via Arenula si comincia a mettere a fuoco un disegno più complessivo: portare la magistratura fuori dal conflitto politico, sottrarle il peso di potere antagonista, e ridimensionare, quindi, la valenza dell’Anm nel dibattito pubblico. Insomma: ristrutturare la separazione dei poteri in una forma più coerente con la Costituzione, e certamente rovesciata rispetto allo schema del ventennio berlusconiano, che non a caso Giorgia Meloni, nell’autodifesa sul presunto controllo ai danni di sua sorella Arianna, ha per la prima volta evocato come una deriva da non ripetere. Come ci si arriva? Con la separazione delle carriere, of course. Perché secondo la visione dei più attenti, nel governo, alle dinamiche della magistratura, a cominciare da Carlo Nordio, il “divorzio” giudici-pm consentirebbe di sopprimere per sempre l’egemonia politico-sindacale dei “requirenti” rispetto ai colleghi “giudicanti”. Nella riforma proposta dal guardasigilli, e affidata ora alla commissione Affari costituzionali di Montecitorio, il punto chiave non è nei diversi percorsi concorsuali per l’accesso alla carriera togata, ma nella scissione dell’attuale Csm in due Consigli superiori, uno per i giudici, appunto, e uno per i pm. È il vero cuore del ddl costituzionale: con i pubblici ministeri “confinati” in un “organo di autogoverno” tutto loro, i giudici saranno finalmente liberi dall’influenza, dal peso - e secondo alcuni, dalle pressioni implicite nell’esercizio stesso della funzione - delle Procure. Gli uffici inquirenti, da Mani pulite in poi, hanno sempre costituito l’epicentro del potere politico, nella magistratura: la gran parte dei presidenti Anm viene dal pubblico ministero (l’attuale vertice Giuseppe Santalucia, giudice di Cassazione, è una delle rare eccezioni). Seppur minoritari nell’attuale Csm unico, i “requirenti” riescono a condizionare le scelte sulle nomine e l’indirizzo generale del Consiglio perché dell’Anm hanno quasi sempre guidato innanzitutto le correnti. Ma se i pm se ne vanno altrove, se i giudici staranno per conto loro, e voteranno per conto loro nomine, promozioni, bocciature e pareri sulle riforme, l’influenza delle Procure è destinata inevitabilmente ad affievolirsi. Nelle correnti e, per conseguenza, nel Csm dei “giudicanti”. Ecco la chiave che Nordio e Meloni hanno individuato per smontare il potere politico della magistratura. Il disegno di via Arenula e Palazzo Chigi si completa con un corollario: una volta “smilitarizzata” l’Anm, svuotata dal peso ingombrante, pervasivo e politicizzato delle Procure, tenderà a diradarsi anche la politicizzazione dei magistrati generalmente intesi. La “pancia” dell’ordine giudiziario - composta in maggioranza dai giudici civili, con giudici penali e pubblici ministeri in netta minoranza - potrebbe mutuare, dal nuovo assetto politico-ordinamentale delle due magistrature, un’idea diversa, un approccio meno “politicamente partecipe”, più laico e tecnicamente orientato nell’esercizio della funzione. Certo, i pubblici ministeri resterebbero come sono, e anzi un organo di autogoverno, un Csm tutto per loro rischia di costituire un’anomalia di sistema, con inquietanti rischi di deriva delle Procure verso un potere superpoliziesco sganciato da ogni controllo, fatta eccezione per il presidente della Repubblica. Ma è un rischio che Nordio innanzitutto e ora anche Palazzo Chigi sono ben lieti di correre. In gioco c’è l’opportunità di allontanare quel 70 per cento di magistrati che di processo penale neppure si occupano da una concezione militante della giustizia, e dunque dalla stessa Anm. Un’idea sofisticata, che ovviamente non porterebbe frutti nel corso dell’attuale legislatura, ma la cui “consapevolezza larvale” potrebbe già cominciare a insinuarsi, nell’ordine togato. Con effetti inimmaginabili in termini di riequilibrio tra potere politico e potere giudiziario. Csm “equilibrista”, sull’assalto ai pm sceglie la prudenza di Giulia Merlo Il Domani, 22 agosto 2024 Il presidente Santalucia aveva chiesto un intervento del consiglio. Tra i togati c’è chi lo avrebbe gradito, per altri sarebbe stato poco corretto che il vicepresidente parlasse. Davanti a una stagione complicata come quella presente, la politica giudiziaria non va mai in vacanza, anche se in superficie non appare. Per questo, l’appello del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia al Consiglio superiore della magistratura per “tutelare l’autonomia e l’indipendenza e quindi anche l’immagine della magistratura” in seguito agli attacchi sulla presunta (e ad oggi inesistente) indagine a carico di Arianna Meloni, non è caduto nel vuoto a palazzo Bachelet. Benché il consiglio sia formalmente in vacanza, nelle chat e a livello di interazioni informali c’è stato ampio dibattito sull’opportunità di un intervento del vicepresidente, Fabio Pinelli e su Repubblica, ieri, è intervenuto a titolo personale il laico eletto in quota Italia Viva Ernesto Carbone. A margine, va ricordato che il consiglio sta vivendo una fase delicata, con una frattura sempre più netta tra laici e togati e la complicata vicenda che riguarda la consigliera in quota Fratelli d’Italia, Rosanna Natoli, autosospesa dalla sezione disciplinare e sotto indagine presso la procura di Roma dopo essere stata registrata mentre violava il segreto della camera di consiglio con una magistrata sotto procedimento. Anche alla luce dei complessi rapporti tra membri del consiglio, dunque, in questo momento l’interlocuzione interna è particolarmente tesa. Inoltre, davanti agli attacchi alla categoria arrivati dal centrodestra dopo il retroscena de Il Giornale, soprattutto i togati si sono sentiti chiamati in causa. Le tesi dei togati - Sentiti da Domani, una parte dei consiglieri - soprattutto di area progressista - avrebbe “gradito” una presa di posizione del vicepresidente, pur nella consapevolezza che sarebbe servita una interlocuzione che non ha potuto compiutamente svolgersi. Esiste poi anche una corrente di pensiero più moderata secondo cui la vicenda, per la sua estrema delicatezza visto che la presidente del Consiglio chiama in causa l’intera categoria della magistratura, meriti non la risposta personale del vicepresidente Pinelli, ma un atto di natura collegiale e che dunque investa l’intero consiglio. Per questo, una delle ipotesi al vaglio è quella di lavorare su una delibera del plenum, per esempio con una pratica a tutela. In questo modo, ad attacco diretto all’intera categoria, potrebbe arrivare una risposta corale. Tuttavia, ad oggi l’attenzione è tutta a capire se la vicenda si smorzerà nei prossimi giorni e quindi se possa dirsi conclusa per quando il consiglio riprenderà i lavori. A domanda, su questo ha risposto il consigliere togato indipendente Andrea Mirenda, secondo cui “il Csm deve comportarsi in modo strettamente istituzionale: suo dovere è tutelare l’indipendenza del singolo magistrato quando attaccato da altri poteri, politici o economici che essi siano, in termini che esulano dal diritto di critica risolvendosi in sottile minaccia”, è il ragionamento. Nel caso specifico, invece, “manca la premessa: non si sa di cosa stia parlando la Presidente del Consiglio e il suo intervento, certo scomposto, non addita alcun magistrato ma si risolve in un’accusa grossolana a tutta la magistratura. Accusa che, per i suoi contorni inconsistenti e generici, ha già ricevuto adeguata risposta dall’Anm, per bocca del suo presidente”. La prudenza del vicepresidente di area centrodestra Pinelli - che il 25 settembre interverrà al meeting di Rimini -, appare aver interpretato il sentire di buona parte dei suoi consiglieri in questa fase, anche nell’ottica di non cadere in un dibattito pubblico che da una fonte togata è stato definito “isterico” intorno ai temi della giustizia. “Noi di Forza Italia non vogliamo tornare alle guerre sante con la magistratura” di Ruggiero Montenegro Il Foglio, 22 agosto 2024 Parla Alessandro Cattaneo. L’esponente azzurro torna sul caso di Arianna Meloni: “Nessuno scandalo. Ha un ruolo in un partito che ha vinto le elezioni”. E sullo ius scholae: “A breve presenteremo la nostra proposta concreta per un’iniziativa parlamentare, pronti a parlare con tutti. Sui diritti noi ci siamo”. “Noi di Forza Italia non vogliamo il ritorno a una fase di contrapposizione tra magistratura e politica, non vogliamo guerre sante”. L’onorevole Alessandro Cattaneo getta acqua sul fuoco. Parla del complotto giudiziario evocato dalla premier Giorgia Meloni e dei paragoni con Silvio Berlusconi. “Quella stagione l’ho vissuta da vicino, il Cav. resta un caso unico e irripetibile. Ma credo che oggi, per fortuna, siamo lontani da quei toni e da quel periodo”, dice al Foglio l’ex sindaco di Pavia. “Certo alcune anomalie restano. Una piccola minoranza di magistrati ancora non si rassegna e vuole sovvertire il risultato democratico per via giudiziaria. È capitato spesso col centrodestra, ma non solo. Penso a quanto accaduto in alcune regioni non governate da noi o alle vicende che hanno coinvolto Renzi”. Per fortuna nel caso di Arianna Meloni si tratta per ora di un articolo di giornale, mentre la procura di Roma ha smentito l’esistenza di una inchiesta. “E da uomo delle istituzioni - sottolinea Cattaneo - non posso che fidarmi. Ma mi faccia aggiungere una cosa”. Prego. “Qualche giorno fa Giovanni Toti ha spiegato bene che quando si tratta di nomine è normale che la politica faccia la sua parte. Io condivido le sue parole. Arianna ha poi smentito ogni coinvolgimento, ma in ogni caso non ci sarebbe stato nulla di scandaloso. Ha un ruolo in un partito che ha vinto le elezioni. È una questione di democrazia. Piuttosto il mio consiglio è quello di evitare approcci troppo fideistici, a destra e a sinistra. C’è tanto da fare nei prossimi mesi”. Cattaneo pensa alle prossime sfide del governo e rilancia quindi le priorità di FI: una riforma della giustizia “da fare insieme alla magistratura o almeno a quella parte riformista che vuole cambiare” e una legge di bilancio che si preannuncia difficile, ma su cui gli azzurri vogliono incidere. Come? “Con la nostra impronta liberale. Chiediamo per esempio di procedere senza indugio alle privatizzazioni. Si può partire da Poste, ma non è l’unico caso. È giusto che in determinati asset possano affluire capitali privati. Vogliamo fare in modo che i fondi pensione investano di più in Italia e poi va rivista la spesa dell’Inps: l’assistenza quando è necessaria va bene, se è assistenzialismo no”. Nella ricetta economica di Cattaneo c’è spazio anche per le pensioni minime, storica battaglia di FI. “Anche su questo vogliamo dare un segnale concreto. Le abbiamo aumentate con Berlusconi da 540 a 620 euro. Si può fare ancora qualcosa”. Andrà spiegato soprattutto agli alleati leghisti che sulle pensioni vogliono issare la propria bandierina e che ultimamente non perdono occasione per attaccare. Lo hanno fatto anche ieri (in compagnia dei colleghi di FdI): accusavano FI di essere strumentale sullo ius scholae e di inciuciare con il Pd. “La riforma della cittadinanza non è nel programma di governo, lo sappiamo. E infatti sarà un’iniziativa parlamentare: a breve presenteremo la nostra proposta concreta, pronti a parlare con tutti. Nella scorsa legislatura abbiamo discusso anche della Legge Zan, di cui condividevamo l’impianto generale. Poi i dem hanno preferito farne un totem ideologico. Ma quando si tratta di diritti, noi ci siamo. Certi temi - conclude Cattaneo - non sono esclusiva della sinistra. E poi il campo largo, pur con mille contraddizioni, se si unisce è competitivo. Il centrodestra deve provare ad allargare. E se destra non c’è più spazio, questo compito spetta a noi”. Dal carcere allo Ius Scholae. A destra la riscossa dei moderati di Gianpaolo Annese Il Resto del Carlino, 22 agosto 2024 Avanti, al centro c’è posto. Dal sovraffollamento delle carceri allo Ius Scholae, passando per un low profile sui diritti civili (dal fine vita ai temi ‘genere’) anche a Modena il sismografo politico rileva un sensibile spostamento di una componente del centrodestra verso posizioni ancora più moderate rispetto al passato. Antonio Platis, vice coordinatore regionale di Forza Italia, candidato in pectore alle Regionali, e l’ex ministro Carlo Giovanardi di Popolo e Libertà, sono l’avanguardia sotto la Ghirlandina di un riposizionamento impercettibile ma continuo negli ultimi mesi, motivato da condizioni che vedremo a breve. Prima però vale la pena tornare su alcuni dei recenti interventi degli interessati. Platis sulla situazione allarmante al Sant’Anna (554 detenuti su 372 posti disponibili) ha sostenuto per esempio l’urgenza di “far scontare la pena agli stranieri nel proprio paese d’origine e dare l’opportunità di recupero ai tossicodipendenti nelle comunità”. Già in occasione delle amministrative per Modena presentando Piergiulio Giacobazzi aveva sottolineato il valore aggiunto di una candidatura moderata come sindaco per Modena. Allo stesso modo Carlo Giovanardi sul quotidiano L’identità nei giorni scorsi ha pubblicato un articolo ‘Ius Scholae’ perorando l’ineludibile necessità di “concedere la cittadinanza ai bambini, nati in Italia da almeno un anno, se dopo la nascita sono vissuti in Italia e vi risiedono legalmente al momento dell’iscrizione alla scuola dell’obbligo”. La ragione? “L’Italia che sta subendo da decenni un crollo della natalità, con la conseguenza che di qui a pochi decenni gli italiani autoctoni saranno complessivamente una minoranza della popolazione, ma ancora la maggioranza di una sterminata platea di anziani la cui assistenza (vedi colf e badanti) e le cui pensioni saranno pagate con le tasse corrisposte da milioni di lavoratori stranieri di prima o di seconda generazione”. Un esponente del Partito democratico non avrebbe saputo dirlo meglio. Sebbene tra i Dem preferiscano una soluzione ancora più radicale, lo Ius soli: si diventa italiano in automatico nel momento in cui si nasce in Italia. Non che Platis e Giovanardi non la pensassero già prima in questo modo su carceri e Ius Scholae (l’ex ministro aveva presentato un disegno di legge in tal senso già nel 2013). Ma, come dire, adesso è il momento buono per rilanciare questi temi. E vediamo il perché. Dopo le amministrative e le Europee si sono illuminati tre indicatori politici che covavano da un po’ di tempo: il primo è la famiglia Berlusconi che ha chiesto al segretario Tajani uno strattone rispetto alla linea dettata dalla premier Meloni, che sta scegliendo di rimanere invece su posizioni radicali (Europa, carceri, diritti civili, scelte economiche) per non scoprire il fianco alla sua destra. Il secondo aspetto è che i partiti che si dichiarano di centro - Azione, Italia viva, +Europa - non hanno brillato alle ultime elezioni e - ed è il terzo motivo - il Partito democratico sta muovendo un passo di lato verso sinistra. Forza Italia, Noi moderati, Popolo e Libertà anche a Modena hanno capito che c’è dunque uno spazio politico al centro che è rimasto scoperto e che si può politicamente ‘aggredire’. L’unico interrogativo è: quanto consistente è questo spazio al centro? Tempi di festa, e per tanti tempi di sofferenza di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 22 agosto 2024 In questa lettera vorrei sfogare i miei dolori, comuni a tanta umanità, partendo per l’ennesima volta dalle sensazioni provate durante le festività ferragostane, soffrendo assieme ai detenuti anche se questa volta non li sono andati a trovare, e a mio fratello come i tanti fratelli e sorelle in ospedale, in residenze, in quello stato d’animo fra malato e abbandonato, comunque colpevolizzato dalla sua situazione, come lo siamo tutti noi malati, perché dipendiamo da qualcuno e il sistema non è certo studiato per farci sentire senza colpa. Ho assistito per anni all’attesa dei familiari che attendevano di entrare all’ora di colloquio coi loro parenti detenuti. Io entravo per svolgere qualche attività, magari di sabato, e sentivo il loro sguardo. Non c’era rabbia, penso, solo sensazione di differenza. Quel poco di istinto che abbiamo mantenuto in noi fa sì che sentiamo a pelle la differenza delle situazioni, dei ruoli, e capiamo che sono diversi dai nostri. D’altra parte io mi sono sempre chiesto, col mio cinismo assoluto, quanto le attività pedagogiche o ludiche che tenevamo in carcere facessero bene più a noi, che ci sforzavamo di tirare fuori il nostro meglio, e ci sentivamo più buoni, che non a loro, anche se ho avuto dei riscontri positivi. Ma durante le feste, ed ancora più durante l’estate, i volontari, le cooperative, diminuiscono le loro attività, forse gli agenti di polizia penitenziaria hanno diritto a più turni di riposo, ripeto forse, e tutti i mondi a parte diventano più a parte. Negli ospedali, ed ancora di più nelle RSA, negli ospizi, se ancora posso usare questo termine, avviene lo stesso, e i poveri ospiti sentono, anche se non hanno mezzi per esprimersi, questa “differenza”. Ne sono ben conscio da una vita, e nonostante abbia partecipato a redigere progetti sulla vecchiaia sopportabile, sulla disabilità vivibile, lavorando ai servizi sociali, vorrei tanto che i cittadini che non vivono sulla loro pelle queste situazioni, le venissero a conoscere. E’ sufficiente stare li, o qui, qualche ora, per sentire il dolore altrui e la propria impotenza, che può giungere a soffocarci, a farci stare male, a sentirsi in colpa a nostra volta. In questi giorni nei quali sembrano riesplodere le carceri, a Torino a Bari ovunque, io non ho visitato neanche Montacuto di Ancona, al quale mi legano molte vicende ultima quella di Matteo Concetti, morto suicida il 5 gennaio. Probabilmente la mia voce, come per mio fratello, per i tanti fratelli che sento, non sa esprimere più appelli, proposte di legge, comunicati stampa. Tanto è il senso di impotenza, di distanza anche da ciò che leggo, e forse anche da quello che ho scritto fino a poco tempo fa, da impegnarmi a ricordare che chi sta male non va in vacanza né a Natale, né a Ferragosto, e neanche il 25 aprile o il 1 maggio. Non ci vanno gli operatori, in qualsiasi luogo di ricovero o di restrizione, e fanno fatica a convivere coi degenti e detenuti, i quali spesso hanno atteggiamenti duri da sopportare e indisponenti. Quest’anno il male si è materializzato addosso a me; il mio corpo, la mia mente, si sono ribellati, e mi sono bloccato per un po’ di giorni. Ebbene, da ex attivista, non ci lasciate soli: vorrei che lo faceste con leggi adeguate, con prese in carico, ma almeno fatelo come persone che ci possono far sentire meno di peso, sia i vari tipi di degenti che noi parenti. Uno sforzo vi può migliorare. Sardegna. Sovraffollamento, diffide e il silenzio assordante del governo di Pasqualino Trubia Gazzetta Sarda, 22 agosto 2024 Nelle carceri sarde, il sovraffollamento ha raggiunto livelli insostenibili: con un tasso dell’83%, oltre 2.100 detenuti vivono in condizioni che definire precarie sarebbe un eufemismo. A fronte di questa situazione, l’Associazione Luca Coscioni ha deciso di intervenire con fermezza, inviando diffide alle Aziende Sanitarie Locali (ASL) non solo in Sardegna, ma in tutta Italia, per richiamarle al rispetto del loro dovere: garantire il diritto alla salute all’interno degli istituti penitenziari. L’iniziativa arriva dopo l’ennesima dimostrazione di disinteresse da parte del Governo, che nel recente decreto carceri ha ignorato l’urgenza di adottare misure strutturali per affrontare la crisi che attanaglia i nostri penitenziari. Filomena Gallo e Marco Cappato, figure di spicco dell’Associazione, hanno sottolineato l’assurdità di un sistema che sembra chiudere gli occhi di fronte alle violazioni dei diritti fondamentali. “La mancanza di interventi concreti sulla salute in carcere è un chiaro segnale di una politica che ha abbandonato i più vulnerabili”, affermano. Le diffide non sono un semplice atto burocratico, ma una denuncia forte e precisa: le ASL hanno il compito di vigilare sulle condizioni igienico-sanitarie delle carceri e di intervenire quando queste non rispettano gli standard minimi di dignità. Eppure, le testimonianze raccolte parlano di celle infestate da parassiti, spazi in condizioni igieniche degradanti, e servizi essenziali carenti o del tutto assenti. Questi scenari, che sembrano usciti da un romanzo distopico, sono invece la realtà quotidiana per migliaia di detenuti. Il dramma si riflette nei numeri: 64 suicidi tra i detenuti solo quest’anno, un dato che dovrebbe far rabbrividire chiunque, e che si aggiunge al suicidio di sette agenti di polizia penitenziaria, schiacciati da un lavoro sempre più difficile e logorante. La situazione sarda, pur essendo meno grave rispetto ad altre regioni come la Puglia o la Lombardia, non può essere sottovalutata. Ogni detenuto che vive in queste condizioni rappresenta una sconfitta per lo Stato di diritto. Nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica, l’Associazione Luca Coscioni ha anche lanciato il podcast “Voci del XV Libro Bianco sulle Droghe”, un viaggio attraverso le storie e le statistiche che raccontano il peso insostenibile del proibizionismo sulle carceri italiane. È un’ulteriore chiamata all’azione, rivolta a chi ancora crede nella necessità di un sistema giusto e umano. Se le diffide dovessero rimanere inascoltate, l’Associazione ha già annunciato che non si fermerà. Sono pronte nuove iniziative per costringere le istituzioni a fare il loro dovere, a tutela di una dignità che non può essere negata nemmeno a chi ha sbagliato. È una battaglia di civiltà, che riguarda tutti noi e che non può più essere rimandata. Friuli Venezia Giulia. “Nelle carceri il Volontariato non è sostituto delle Istituzioni” triesteallnews.it, 22 agosto 2024 La consigliera regionale Serena Pellegrino ha così dichiarato riguardo la presenza del volontariato nelle carceri, rispetto alle azioni delle Istituzioni. “La raccolta fondi che ha permesso l’acquisto di 38 frigoriferi per le persone private della libertà personale, detenute presso la Casa circondariale di Udine, è sicuramente un atto di civiltà di cui andarne fieri”. Lo afferma, in una nota, la consigliera regionale di Alleanza Verdi Sinistra, a margine del comunicato stampa con cui il Garante dei detenuti del Comune di Udine ha informato della positiva raccolta fondi con cui sono stati acquistati gli elettrodomestici. “Ritengo però - prosegue Pellegrino - che la questione sia un po’ più complessa: i deficit sempre più acclarati delle istituzioni, in questo specifico caso quella carceraria, non può venire compensata dall’attento e pronto intervento della cosiddetta società civile, sempre attiva e presente. Il problema del sovraffollamento nel carcere di via Spalato, con la conseguente situazione di disagio manifestata a più riprese dai detenuti anche dalle carceri di tutto il territorio regionale, non può essere demandato alla buona volontà del privato”. “Il depotenziamento del servizio pubblico, esso sia riferito alle carceri o alla scuola, ma anche al sociale o alla salute pubblica è ormai arrivato a livelli di difficile sostenibilità. La politica - incalza l’esponente delle Opposizioni - agisca in forza dei principi costituzionali e affronti in modo organico e sinergico tutti i problemi sociali. Non è più accettabile che a fronte dello strozzamento continuo dei servizi pubblici si cerchi di ovviare con azioni, seppur meritevoli e caritatevoli, che non possono certo essere compensative e soprattutto continuative. I rimedi devono essere trovati con interventi chiari e fattivi delle istituzioni”. “Il volontariato, per quanto nobile e anche eseguito in modo professionale, come nel caso della progettazione degli spazi, delle strutture e degli arredi interni, non si può sostituire al lavoro che deve essere di competenza e appannaggio del servizio carcerario. L’azione volontaria, come purtroppo sta accadendo in molti settori, non può sostituire i doverosi oneri che sono in capo alle istituzioni. Le conquiste sociali sono tali se sono riconosciute in modo universalistico. L’alternativa - conclude Pellegrino - è lo scollamento della Res publica che trova il suo terreno fertile nelle continue picconate alla nostra Costituzione fondata innanzitutto sul principio di sussidiarietà”. Torino. Il Garante: “Troppo facile bollare come ‘rivolte’ le proteste dei detenuti” di Ilaria Dioguardi vita.it, 22 agosto 2024 In queste settimane il Lorusso e Cotugno di Torino è l’epicentro delle proteste per le condizioni di vita nei penitenziari italiani. Cosa sta succedendo? Parla il Garante Bruno Mellano: “Non semplifichiamo tutto sotto il termine “rivolta”. Distinguiamo gli episodi violenti da proteste e manifestazioni necessarie a richiamare l’attenzione su luoghi di grande sofferenza”. Sei agenti feriti e due intossicati, in seguito ai disordini che si sono verificati a Ferragosto nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino, detto anche Le Vallette. “Non si tratta di una rivolta. Impariamo a usare le parole giuste”, dice Bruno Mellano, garante delle persone private della libertà personale del Piemonte. “Nella casa circondariale di Torino dall’inizio dell’estate si susseguono tensioni, episodi violenti ma anche proteste in molti casi non violente e di dialogo. Ci tengo a dirlo perché è un po’ facile semplificare tutto sotto il termine “rivolta”. Credo che sarebbe un’azione culturalmente importante quella di distinguere gli episodi violenti (che pure ci sono stati) da manifestazioni più corali e di ampia partecipazione che sono volte a cercare di attirare l’attenzione sulla situazione, in generale, dell’esecuzione penale, in questo momento in Italia e, nello specifico, nella casa circondariale di Torino. Che è, indubbiamente, il carcere più complesso d’Italia. Perché è il carcere più complesso d’Italia? A fronte di una capienza regolamentare di 1.077 posti, la presenza giornaliera dei detenuti è attorno ai 1.500. I posti disponibili si sono ridotti sotto i mille, nelle ultime settimane, a causa di episodi che hanno visto rendere fuori uso un certo numero di celle. Il sovraffollamento è al 136%. Al carcere Lorusso e Cutugno, la direttrice del carcere Elena Lombardi Vallauri, il garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Felice Maurizio D’Ettore e il garante delle persone private della libertà personale del Piemonte Bruno Mellano Oltre al sovraffollamento, quali altri fattori fanno del Lorusso e Cutugno l’istituto penitenziario “più complesso d’Italia”? Una situazione specifica di una casa circondariale che è una sedimentazione di una scelta anche edilizia, costruttiva, penitenziaria che ha fatto aggregare in vari padiglioni un unico carcere. Abbiamo l’esperienza di Rebibbia, a Roma, con vari direttori, vari comandanti, varie organizzazioni. Invece, il carcere di Torino ha un unico direttore, una direzione fatta con una vice direttrice “a scavalco” Assuntina Di Rienzo, che è direttrice della casa di reclusione di Fossano (in provincia di Cuneo) e che si divide tra i due istituti. In questo momento, al Lorusso e Cutugno, non c’è il comandante della Polizia penitenziaria. Negli ultimi anni abbiamo avuto un’estrema carenza di ispettori e di sovrintendenti di Polizia penitenziaria, quindi di corpi intermedi. Anche l’immissione che c’è stata di nuovi agenti a seguito dei corsi di formazione fa sì che i nuovi ingressi, soprattutto d’estate, nei turni festivi e notturni, siano gli unici che presidiano la struttura. Quindi, una difficoltà strutturale che si unisce a una difficoltà organizzativa e di personale. In questo quadro, c’è l’espressione di una casa circondariale che è diventata tutt’altro. Può spiegarci? Le case circondariali sono luoghi per detenuti con pene inferiori ai cinque anni, in attesa di giudizi ricorrenti o appellanti. Noi abbiamo molti detenuti definitivi, anche con pene lunghe, con circuiti detentivi che non dovrebbero stare a Torino, come l’Alta sicurezza, i collaboratori di giustizia e, nell’ambito del presidio sanitario, persino al 41 bis. Come garante regionale, anche con le interlocuzioni avute con il ministro della Giustizia Carlo Nordio e con il vice ministro Francesco Paolo Sisto, ho più volte affermato di rappresentare le difficoltà ma anche le scelte organizzative sbagliate. L’istituto penitenziario di Torino deve essere semplificato. Torniamo ai disordini dei giorni scorsi… Credo siano anche, in parte, la matrice di una serie di problematiche e di tensioni che sono endemiche nel carcere. Nel momento in cui ci sono tanti circuiti penitenziari, tante situazioni da gestire singolarmente e separatamente, diventa difficilissimo riuscire a prendere in carico le persone nuove giunte, oppure transitate da altri istituti, oppure quelle problematiche provenienti da altre carceri, che vengono a Torino per delle analisi psichiatriche o psicologiche e che rimangono qui. L’estate in carcere è il periodo peggiore... Da metà giugno a metà settembre, il periodo in cui si addensa il maggior numero di suicidi nelle carceri italiane (già 66 nel 2024, ndr), è il periodo più drammatico. Non ci sono attività formative né didattiche, molte attività di volontariato vengono interrotte o sospese perché manca il personale che possa seguirle, dal punto di vista della sicurezza. Nei mesi estivi, più che un limbo, c’è nelle carceri italiane un girone infernale che non può che dare i suoi nefasti frutti di tensione, di difficoltà di presa in carico. Abbiamo registrato anche in Piemonte (e anche a Torino) episodi sanzionabili di violenza. Ma, contrariamente a quello che è successo all’Istituto penale minorile Ferrante Aporti, non possiamo dire che alle Vallette nei giorni scorsi ci sia stata una rivolta, una protesta violenta generalizzata, un contesto di perdita del controllo della situazione. Quello che registriamo è una tensione, una temperatura che si alza che diventa difficilmente gestibile in un periodo estivo con il caldo, con la mancanza di attività, con la mancanza di personale specifico per il periodo delle ferie e una difficoltà a gestire tutte le criticità. Nei disordini di Ferragosto alle Vallette ci sono stati sei agenti feriti e due intossicati dal fumo... Nel momento in cui c’è una lite tra detenuti, una rissa, gli agenti di turno cercano di intervenire nell’immediato e, per dividere i litiganti, può capitare che si rimanga feriti. Paradossalmente, quando ci sono le rivolte è meno frequente che gli agenti si feriscano perché la Polizia penitenziaria si organizza chiamando rinforzi da altri padiglioni o da altri istituti. L’intossicazione che spesso è denunciata dagli agenti (nel caso recente di Torino, due agenti sono rimasti intossicati) avviene quando un detenuto dà fuoco ad un materasso, a un cuscino, a delle lenzuola. Materassi e cuscini sono ignifughi, quindi fanno essenzialmente fumo perché i detenuti ci buttano sopra un vestito, della carta. Gli agenti intervengono per evitare conseguenze per altri detenuti o per altro personale. Le faccio un esempio di come i detenuti stanno cercando di protestare in modo non violento. Mi dica... Alle Vallette di Torino abbiamo avuto i detenuti del padiglione C (che sono circa 450), diventati famosi di recente per un video in cui si vedeva la vandalizzazione della sezione, che hanno firmato un appello e fatto una segnalazione delle problematiche strutturali e gestionali del carcere. Lo stesso hanno fatto i detenuti del padiglione B. Anche le donne (che sono 130) della sezione femminile del carcere di Torino hanno scritto una lettera (pubblicata da La Stampa, ndr) in cui hanno preannunciato lo sciopero della fame quando terminerà la pausa estiva del Parlamento. I detenuti del padiglione C, a fine luglio, per differenziarsi e segnalare la diversità di approccio da detenuti che in alcune occasioni avevano causato danni a persone e cose, hanno messo in campo una dimostrazione di protesta non violenta. Sono scesi alle 9 in cortile e, anziché tornare in cella alle 11 per tornare fuori alle 13, sono rimasti fino alle 18, quando sono rientrati in sezione “cotti” dal sole. Faccio notare che i detenuti possono usufruire dell’”ora d’aria”, anche d’estate, dalle 9 alle 11 e dalle 13 alle 15. Ribadisco, lo dico soprattutto a voi giornalisti: dobbiamo trovare le parole giuste per descrivere. Per descrivere cosa? Per spiegare la differenza tra le rivolte, gli episodi gravi ma singoli di violenza, i tentativi di porre all’attenzione della politica e delle istituzioni territoriali che c’è un regolamento penitenziario da applicare, delle norme che permettono di fare cose diverse rispetto a quella detenzione che ha poco senso e poco margine di successo “qui e ora”. Dopo gli appelli dei detenuti dei padiglioni B e C, che dicevo pocanzi, ho contattato il garante nazionale Maurizio Felice D’Ettore per invitarlo a venire a colloquiare con questi detenuti e, dall’altro, il presidente del Tribunale di sorveglianza di Torino Marco Viglino. Quest’ultimo perché una parte delle questioni legate ai permessi, alle pene alternative sono già ora possibili con dei “paletti” che devono essere risolti. Se c’è bisogno di una casa, di un lavoro, di una rete sociale occorre affiancare all’amministrazione penitenziaria progetti, iniziative, sostegni che devono essere garantiti dalle istituzioni del territorio. Non ha senso accomunare le tensioni delle carceri di Torino a quelle di Ivrea e Biella, come è stato fatto in questi giorni. Perché? Nei casi di Ivrea e Biella si trattava di proteste individuali legate a una situazione, nel primo caso, di sostegno dei detenuti a un loro compagno che chiedeva un trasferimento, nel secondo caso, di sostegno dei detenuti ad un detenuto con un problema sanitario che, secondo alcune fonti, non era preso in carico. Le detenute del carcere di Torino, nella lettera indirizzata a La Stampa a cui faceva cenno, scrivono che inizieranno lo “sciopero della fame ad oltranza e a staffetta, pacificamente affinché venga concessa la liberazione anticipata speciale o qualsiasi misura che riduca il sovraffollamento e riporti respiro a tutta la comunità penitenziaria”. Le detenute proseguono affermando che il decreto carceri “non serve a nulla” e fanno appello al Presidente della Repubblica: “Ci affidiamo al Presidente Mattarella affinché “scuota” l’indifferenza dei decisori”… Come Conferenza nazionale dei garanti territoriali, che raggruppa tutti i garanti regionali, comunali e provinciali abbiamo preso sul serio le parole del Presidente della Repubblica Mattarella che il 18 marzo scorso, ricevendo al Viminale i rappresentanti della Polizia penitenziaria, aveva indicato nel problema del sovraffollamento e nella questione drammatica dei suicidi due elementi su cui la politica doveva dare delle risposte. Come Conferenza abbiamo fatto iniziative tutti i mesi da marzo, il 18 di ogni mese, per richiamare quelle parole, quell’insegnamento di Mattarella. Cosa pensa del decreto carceri appena diventato legge? Come molti anche noi, come garanti, siamo delusi dal decreto carceri. L’uso del decreto “di necessità e di urgenza” faceva presupporre una consapevolezza del governo di una necessità di intervento urgente e necessario. Si tratta di un decreto che in parte non affronta le questioni, in parte quando le affronta rimanda a circolari e regolamenti come per le telefonate (aumentate da quattro a sei al mese, ndr). Noi abbiamo avuto il 7 agosto un importante confronto con il ministro Nordio e con il vice ministro Sisto a cui abbiamo riportato questa attesa frustrata di un decreto che non affrontava delle questioni. Abbiamo anche ribadito che la scelta di intervenire sulla liberazione anticipata, ampliando uno strumento già esistente che ha dato buona prova di sé, non deve essere di parte ma una scelta lungimirante. Per quanto riguarda la mancanza di personale? Abbiamo riferito al ministro che mancano i magistrati di sorveglianza, i cancellieri ai magistrati di sorveglianza, gli addetti e gli operatori di segreteria. In Piemonte abbiamo attivato in questi mesi volontari negli uffici di sorveglianza di Vercelli, Novara, Cuneo e adesso stiamo facendo un appello per Torino. Se c’è, al momento attuale, la questione della liberazione anticipata bisogna trovare la modalità per rendere questo un meccanismo che ampli il target delle persone che riescono ad uscire. Abbiamo voluto segnalare che, di oltre 61mila detenuti presenti nelle carceri italiane, circa 21mila hanno un residuo pena inferiore ai tre anni e 8mila una pena inferiore ad un anno. Possiamo cominciare a riflettere su cosa fare, almeno per quegli 8mila? Dire che mandiamo in comunità terapeutica circa 15mila detenuti tossicodipendenti o all’estero il 30% dei detenuti stranieri possiamo discuterlo ma non è una questione che risolve i problemi “qui e ora”. Cosa pensa dei 1000 agenti di Polizia penitenziaria promessi dal decreto nei prossimi due anni? La situazione è tale per cui gli agenti che arrivano quasi non riescono a coprire gli agenti che vengono traferiti o che vanno in pensione. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo ha affermato che sono consapevoli che, accanto agli agenti, servirebbero anche altri 1000 educatori. Lo sottoscrivo, altrimenti non si riesce a impostare quella progettualità che ci permette di abbattere la recidiva. La sicurezza esterna si garantisce anche con un carcere che riesce a ridurre la recidiva, che ha una media del 68%. Noi sappiamo che abbiamo percorsi, progettualità, iniziative con il territorio che riescono ad abbassare la recidiva al 20%, al 10% e, in alcuni casi, come per l’esperienza del Polo universitario dell’istituto Lorusso e Cutugno di Torino, vicino allo 0%. Milano. Proteste al Beccaria, l’Ipm che cerca di rinnovarsi di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 agosto 2024 Il Garante dei detenuti di Milano, Franco Maisto: “Fase delicata per il nuovo direttore”. “L’istituto vuole mettersi alle spalle la vergogna degli agenti arrestati per tortura”. Ancora una notte di tensioni e violenze, nel carcere minorile Beccaria di Milano. E ancora una volta le dinamiche non sono affatto chiare e divergono su punti sostanziali, a seconda se a riferire i fatti sono certi sindacati di polizia penitenziaria oppure altri osservatori dell’Istituto penale per minori (Ipm) milanese. L’unica cosa inequivocabile è il numero di persone finite al pronto soccorso intossicate dal fumo che si è sprigionato da un rogo in una cella: tre detenuti e sei poliziotti, di cui uno anche con trauma cranico. Nessuno è stato ricoverato. Secondo il sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), per esempio, si tratterebbe di una “rivolta” messa in atto da un “gruppo” di reclusi. “Tutto è successo perché un detenuto aveva la tosse: a mezzanotte gli hanno procurato lo sciroppo ma lo ha rifiutato. -ha riferito alle agenzie il segretario per la Lombardia Alfonso Greco - Poi un gruppo di detenuti ha incendiato un materasso e quando il poliziotto ha aperto la cella per intervenire, i ristretti lo hanno accerchiato e picchiato. Gli hanno rotto il labbro, la testa e spruzzato l’estintore in faccia. Sono scesi, hanno colpito altri colleghi e hanno preso le chiavi e sono usciti all’aria. Sicuro volevano evadere - attesta il sindacalista - È arrivato supporto anche dai vigili del fuoco, polizia e carabinieri. Tre detenuti inviati in ospedale, rientrati all’Ipm entro due ore mentre i poliziotti feriti sono sei, quello picchiato con trauma cranico e gli altri intossicati”. Diversa è la versione del Garante delle persone private di libertà della città di Milano, Franco Maisto, che riferisce al manifesto di “una protesta individuale di un ragazzo magrebino con problemi psichiatrici che ha dato fuoco ad un materasso nella sua cella, trascinandosi dietro poi altri 4 o 5 reclusi che si sono associati, come spesso avviene”. Non che sia indice di minore gravità dei fatti, ma la questione non è se si tratti di “poveri ragazzi” o di “delinquenti criminali”, come nel distinguo che piace al Sappe, sindacato della destra estrema. “Il problema - spiega Maisto - è che negli ultimi tempi il numero di giovani con disturbi psichiatrici è aumentato notevolmente anche negli Ipm. Per la maggior parte si tratta di minori non accompagnati che non reggono psicologicamente l’impatto con la nuova realtà, diventano disadattati e finiscono per delinquere. Vanno fuori di testa. E i più consapevoli chiedono solo farmaci, solo di essere sedati”. Secondo il più recente rapporto di Antigone sugli Ipm, nell’ultimo anno si è registrato un fortissimo aumento di ingressi nelle carceri minorili dovuto all’inasprimento delle leggi sugli stupefacenti contenute nel “decreto Caivano”. Ebbene, il 51% dei minori o dei giovani adulti reclusi in queste strutture è straniero, e sono stranieri il 29,2% dei ragazzi complessivamente avuti in carico dai servizi della giustizia minorile, il 38,7% dei collocati in comunità, il 48,7% di chi entra in carcere. Ma c’è un’altra questione che riguarda nello specifico l’istituto milanese: “Bisogna capire che siamo in un momento di passaggio del Beccaria, sia dal punto di vista stagionale - nel senso che tra poco riprendono tutte le attività trattamentali e dunque si intensifica il lavoro per tutti - e sia dal punto di vista della fase”, è l’analisi di Maisto. “Non va dimenticato che questo Ipm sta cercando di mettersi alle spalle lo scandalo emerso ad aprile, con l’arresto di 13 agenti e la sospensione dal servizio di altri 8, accusati a vario titolo di tortura e violenze nei confronti dei giovani reclusi, e con 3 poliziotti ancora in carcere. E dopo 18 anni di direttori che venivano dagli istituti per adulti e non erano lì a tempo pieno, il direttore insediatosi a fine 2023, Claudio Ferrari, ha finalmente riportato un approccio rieducativo vero, riattivando attività trattamentali ferme da tempo e imprimendo un vero cambiamento verso la legalità. C’è chi non digerisce affatto questo cambio di registro. Le fasi di passaggio, si sa, - conclude Maisto - sono sempre delicatissime, per la gestione del personale e dei ristretti”. Firenze. Riparare o pagare? La differenza di diritti nelle carceri italiane di Massimo Lensi Corriere Fiorentino, 22 agosto 2024 Ho perso il conto di quante delegazioni sono andate in visita al carcere di Sollicciano negli ultimi due mesi. Un via vai continuo. Qualche giorno fa anche Matteo Renzi ha visitato il nostro istituto di pena, carcere ributtante della capitale della “bellezza” (ironico). Quando ero consigliere provinciale, l’allora giovane presidente della Provincia Renzi rispose al mio appello aderendo alla “doverosa e bella” richiesta di Marco Pannella. Renzi dichiarò che la battaglia per l’amnistia era “impegno morale, civile e sociale della comunità italiana”. Poi, da presidente del Consiglio, cambiò idea. Niente di male, si cambia idea nella vita. Figuriamoci, non sono certo un moralista o un censore delle idee altrui. Il senatore all’uscita del carcere ha, poi, così commentato: “Noi siamo qui per dire che è giusto che chi ha sbagliato paghi ma è anche allo stesso tempo giusto che lo Stato non sia fuori legge”. Dichiarazione irreprensibile. Vorrei però far notare l’uso classico del verbo “pagare” nella penalità generale. Chi ha sbagliato paghi. È proprio questo il confine tra una penalità giustizialista e un’altra che guarda all’utilità della pena. Pagare non serve a niente. Chi ha sbagliato ripari. I cocci che rimangono, però, non sono suoi. Ci si potrebbe scommettere un euro bucato. A settembre, come ogni settembre, l’emergenza carcere tornerà in secondo o terzo piano, e le promesse da marinaio della politica ferragostana finiranno dritte nel cestino della spazzatura. Così è sempre stato, così sempre sarà. Tanto l’emergenza è permanente. A Sollicciano rimarrà soltanto l’eco delle tante polemiche. In primis, quella riguardante l’annoso dibattito: demolire o ristrutturare? Non sarà fatto niente, e si continuerà a discutere all’infinito. La vera urgenza è nel modello dell’esecuzione di pena. Il carcere. Il castigo. È il concetto di punizione di Stato ad avere necessità di una seria riforma. Del resto, il diritto penitenziario non è parte del diritto penale. Si integrano a vicenda, certo, ma le due gambe camminano felicemente separate e così non può essere altrimenti. Rispondono, infatti, a due esigenze diverse della società: la sicurezza e la punizione. Si collegano teleologicamente soltanto nella finalizzazione della quantità: più reati, più reclusi. Meglio se “marginali”. Pratica ora dominante. Lo Stato, rispetto ai singoli individui, realizza un sistema organizzato di norme costituenti il diritto positivo. L’elemento coattivo dovrebbe essere dunque posto al centro di un’adeguata riflessione del sistema di garanzie individuali in cui è il rispetto della legge, l’elemento di coesione sociale dell’ordinamento chiamato Stato. La chiave di lettura è la personalità giuridica. Il rischio, altrimenti, è girare a vuoto. Eppure la Corte Costituzionale ha affermato in una famosa sentenza (26/1999) il principio della minima sofferenza necessaria sul quale occorrerebbe porre maggiore attenzione. Esiste cioè un ampio nucleo insopprimibile di diritti della persona che non devono venire meno neanche con la carcerazione. La punizione di Stato ruota attorno, e ormai nega, questo principio. Riparare, dunque, non “pagare”. Napoli. “A Poggioreale ci sono celle con nove letti. Settecento detenuti oltre la capienza” napolitoday.it, 22 agosto 2024 La denuncia della deputata di Forza Italia, Annarita Patriarca. “La situazione nel carcere di Poggioreale è particolarmente critica: su una capienza teorica di 1.600 posti (ridotti però a 1.300 per la chiusura per lavori di un padiglione che riaprirà non prima di tre anni) ci sono 2.056 detenuti di cui circa 800 in custodia cautelare. Molte celle hanno fino a nove letti. Di fatto, a Poggioreale ci sono oltre 700 detenuti in più del consentito”. Lo ha detto la deputata di Forza Italia Annarita Patriarca, componente dell’ufficio di presidenza di Montecitorio e membro della commissione Giustizia, a conclusione della visita tenutasi questa mattina nella casa circondariale di Poggioreale, a Napoli, nell’ambito del progetto “Estate in carcere”, promosso dal segretario nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani. Alla visita hanno preso parte, tra gli altri, anche il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, e il presidente della Camera penale di Torre Annunziata Renato D’Antuono. “Malgrado il grande impegno della dirigenza, della polizia penitenziaria e di tutti gli operatori, sanitari e non, che con grande spirito di sacrificio e abnegazione si confrontano ogni giorno con le enormi difficoltà di lavorare in un contesto complesso e doloroso qual è quello carcerario, bisogna riconoscere che la situazione nella casa circondariale presenta profili allarmanti. La questione delle strutture detentive in Campania e, più in generale in Italia, rappresenta - ancora Patriarca - un tema di grande rilevanza che richiede un approccio equilibrato tra le esigenze di sicurezza e il rispetto della dignità umana. Le strutture penitenziarie del nostro Paese affrontano sfide complesse, tra cui il sovraffollamento, la carenza di personale e condizioni che spesso non rispettano gli standard minimi di vivibilità. È necessario, dunque, affrontare queste problematiche con un piano strategico a cui il nostro partito è in grado, come ha dimostrato in queste settimane il segretario nazionale Antonio Tajani, di offrire proposte e idee importanti su cui discutere con gli alleati”. Sul sovraffollamento, la deputata ricorda che nel Sert di Poggioreale “sono ospitati 250 detenuti tossicodipendenti su un totale di 600 reclusi nell’intera struttura. Si tratta - ha evidenziato - di numeri imponenti che rappresentano uno dei primi banchi di prova per il Dl Carceri, recentemente approvato, che può contribuire a decongestionare i padiglioni”. “Un sistema carcerario efficiente non può limitarsi a custodire chi ha commesso reati, ma deve anche fungere da luogo di recupero e reintegrazione - ha aggiunto Patriarca. È in questo contesto che emerge la necessità di potenziare le misure alternative alla privazione della libertà, soprattutto per reati minori e per persone con problematiche specifiche, come appunto i tossicodipendenti. Tali misure, se ben attuate, possono contribuire a ridurre la pressione sulle strutture esistenti, migliorando al contempo le possibilità di reinserimento sociale per i detenuti”. “Il legislatore deve lavorare sulle misure alternative al carcere non solo per quel che riguarda i tossicodipendenti, che potrebbero essere spostati in comunità e centri di recupero addirittura prima di varcare la soglia di Poggioreale, grazie a un lavoro di accelerazione delle procedure e di snellimento dei passaggi burocratici in capo ai giudici di Sorveglianza, ma anche sull’abuso della custodia cautelare che rappresenta uno dei grandi temi di una seria riforma della giustizia”, ha aggiunto la deputata di FI, per la quale l’edilizia carceraria rappresenta “certamente una risposta a tanti dei problemi che affliggono il settore”, ma prevede “dei tempi di realizzazione e di funzionamento eccessivamente lunghi, che non rispondono alle esigenze di attualità”. “Il dibattito politico in corso, con Forza Italia in prima linea, evidenzia l’importanza di trovare un punto di equilibrio tra il rigore della giustizia e la tutela dei diritti fondamentali delle persone, pur sottoposte a misure restrittive della libertà. Noi - ha evidenziato Patriarca - non siamo per indulti o amnistie quanto, piuttosto, per una seria e chiara riflessione sulle riforme da mettere in campo. Non bisogna commettere l’errore, infatti, di creare dei parallelismi tra la sicurezza dei cittadini e l’annullamento dei diritti e della dignità dei reclusi; così come è sbagliato ritenere che l’umanizzazione delle condizioni di detenzione debba tradursi in una riduzione della certezza della pena”. La parlamentare di Forza Italia si è infine soffermata sul possesso, da parte dei detenuti, di telefonini e smartphone utilizzati per comunicare all’esterno. “La proposta di dotare i penitenziari di jammer e di disturbatori di frequenza - ha sottolineato - che avevamo avanzato nei mesi scorsi, a seguito dei ripetuti episodi di cronaca che si erano verificati non solo in Campania ma nel resto d’Italia, a Poggioreale non è purtroppo attuabile perché la struttura raggiunge dimensioni così imponenti che sarebbe impossibile riuscire a schermarla interamente con dei singoli dispositivi. Bisognerebbe, invece, isolarla del tutto creando poi dei canali autorizzati e riservati, per le connessioni web e digitali, in uso al personale della struttura”. “Servono rinforzi per la polizia penitenziaria, per la struttura sanitaria (che riesce, nonostante le difficoltà, ad assicurare un alto livello qualitativo nell’assistenza ai detenuti) e per le figure professionali di supporto: due soli psichiatri per la popolazione carceraria di Poggioreale sono assolutamente insufficienti. Non possiamo, quindi, più far finta di nulla - ha concluso Patriarca -. Le carceri sono un tema, anzi una emergenza su cui bisogna lavorare tutti insieme, senza pregiudizi e preclusioni. Solo attraverso un approccio integrato, che tenga conto delle diverse esigenze del sistema penale, sarà possibile costruire un percorso virtuoso che garantisca un futuro più giusto e sicuro per tutti. Forza Italia è pronta come sempre a fare la sua parte”. Napoli. La protesta nell’inferno del carcere di Poggioreale di Gennaro Scala Corriere del Mezzogiorno, 22 agosto 2024 La protesta dei detenuti del reparto “Avellino”. L’allarme dei sindacati: aggressioni agli agenti, risse e atti autolesionistici sono all’ordine del giorno. Nel carcere di Poggioreale, il più affollato d’Europa, nel pomeriggio, un detenuto ha incendiato un materasso e nell’istituto di pena si è scatenato il caos. La vicenda è stata raccontata da Tiziana Guacci, segretario per la Campania del Sappe, il Sindacato autonomo polizia penitenziaria: “Un detenuto italiano, recluso al 416 bis, del primo piano del Reparto Avellino (in cui sono presenti 151 detenuti) aveva una visita programmata di mattina: in prima battuta - spiega Guacci - ha rifiutato la visita, poi ci voleva andare, ma purtroppo per lui, la visita era già stata annullata. Poi, verso le 15, ha chiamato dicendo che si sentiva male. “Mentre il collega apriva per farlo scendere al pronto soccorso per le cure del caso - aggiunge Guacci - i detenuti hanno prima dato vita alla battitura e poi incendiato un materasso nella sezione”. I detenuti spostati nelle aree del passeggio - La “battitura” è una vecchia forma di protesta che consiste nel “battere”, appunto, stoviglie o oggetti vari, contro le sbarre. Il fumo generato dall’incendio ha portato all’evacuazione di tutti i detenuti del primo piano e secondo piano, che sono stati condotti nelle aree dedicate al passeggio. Quasi tutti sono stati refertati. La sindacalista evidenzia che “le condizioni del carcere di Poggioreale continuano ad essere allarmanti, ma continua ad aumentare il numero dei detenuti che ad oggi è pari a 2.056, nonostante la chiusura del reparto Napoli, che ospitava circa 350 persone”. Intervenuti anche i vigili del fuoco - Nella casa circondariale sono intervenuti anche i vigili del fuoco per scongiurare che l’incendio si propagasse. La Guacci ha anche evidenziato che “il Sappe, in più occasioni, ha chiesto pubblicamente che si tenga in considerazione le criticità dei penitenziari campani che evidentemente non sono più in condizione di gestire le troppe tipologie di detenuti, con una presenza di soggetti violenti, senza alcuna possibilità di diversa collocazione all’interno della Regione”. Poi rincara la dose, esprimendo sconcerto per “l’assenza di provvedimenti contro chi si rende responsabile di queste inaccettabili violenze e di irresponsabili atti critici, determinando quasi un effetto emulazione per gli altri detenuti violenti. Aggressioni, colluttazioni, ferimenti contro gli agenti, così come le risse ed i tentati suicidi, sono purtroppo all’ordine del giorno”. Anche Leo Beneduci dell’Osapp interviene sulla questione: “Si tratta dell’ennesimo episodio che mostra le condizioni di vita in carcere. Poggioreale non fa eccezione, anzi è tra i luoghi con le peggiori condizioni detentive e di lavoro del personale penitenziario, sul territorio nazionale”. Questa mattina la visita della parlamentare di Fi Patriarca - Una fotografia di Poggioreale l’ha scattata proprio questa mattina la deputata di Forza Italia, Annarita Patriarca, componente dell’ufficio di presidenza di Montecitorio e membro della commissione Giustizia, a conclusione della visita nell’ambito del progetto ‘Estate in carcere’: “Su una capienza teorica di 1.600 posti (ridotti però a 1.300 per la chiusura per lavori di un padiglione che riaprirà non prima di tre anni) ci sono 2.056 detenuti di cui circa 800 in custodia cautelare. Molte celle hanno fino a 9 letti. Di fatto, a Poggioreale ci sono oltre 700 detenuti in più del consentito”. Alla visita hanno preso parte, tra gli altri, anche il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, e il presidente della Camera penale di Torre Annunziata, Renato D’Antuono. “Presenti 2.056 reclusi a fronte di una capienza di 1.600” - “La questione delle strutture detentive in Campania e, più in generale in Italia - ha affermato Patriarca - rappresenta un tema di grande rilevanza che richiede un approccio equilibrato tra le esigenze di sicurezza e il rispetto della dignità umana. Le strutture penitenziarie del nostro Paese affrontano sfide complesse, tra cui il sovraffollamento, la carenza di personale e condizioni che spesso non rispettano gli standard minimi di vivibilità”. “È necessario, dunque, - ha continuato - affrontare queste problematiche con un piano strategico a cui il nostro partito è in grado, come ha dimostrato in queste settimane il segretario nazionale Antonio Tajani, di offrire proposte e idee importanti su cui discutere con gli alleati”. Oltre 250 detenuti tossicodipendenti - Sul sovraffollamento, la deputata ricorda che nel Sert di Poggioreale “sono ospitati 250 detenuti tossicodipendenti su un totale di 600 reclusi nell’intera struttura”. “Si tratta di numeri imponenti - conclude Patriarca - che rappresentano uno dei primi banchi di prova per il Dl Carceri, recentemente approvato, che può contribuire a decongestionare i padiglioni”. Torino. Siamo stati in carcere. Ecco il racconto della vita in cella fra rabbia e speranza di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 22 agosto 2024 Spazi minuscoli e detenuti malati che chiedono aiuto “Ma i medici non vogliono più lavorare in questo posto”. Sono le 6 di un martedì pomeriggio. È il 20 agosto. Sono appena uscita dalle Vallette, dopo 6 ore. Mezza giornata in carcere non basta per comprenderlo ma sicuramente è abbastanza per cogliere aspetti che nel “mondo dei liberi” faticano a saltare agli occhi. I padiglioni di cui quotidianamente si sente parlare non si vedono da fuori. Edifici bassi, vecchi e mai ristrutturati che lasciano intuire siano abitati solo da dettagli come le scarpe annodate alle sbarre delle finestre. I corridoi di questi blocchi sembrano infiniti. La luce filtra timida attraverso altre finestre e va a illuminare muri che a modo loro raccontano storie diversissime tra loro. Da quelli appena ridipinti a quelli che non vedono una mano di bianco da tanto, troppo tempo: dai variopinti disegni ai cartelli che dettano le regole del posto dove ci troviamo. Mi accompagnano la direttrice Elena Lombardi Vallauri e la dottoressa Arianna Balma, responsabile dell’area trattamentale del Lorusso e Cutugno. Le donne vengono fermate da qualcuno ogni dieci passi che fanno. Detenuti, agenti, operatori. “Direttrice, ha un minuto?” la donna prende carta e penna. Segna nome, cognome, richiesta. 10 passi. “Dottoressa, posso?” Altri 10 passi: “Scusi, è urgente. La mia ernia, l’operazione. Aspetto da un po’” chiede un uomo. Nel penitenziario ci sono anche alcune problematiche molto simili a quelle che si trovano fuori. “Lavoro in carcere da 35 anni” spiega Roberto Testi, responsabile Asl per la struttura “Siamo sotto organico anche noi. Mancano almeno 8 unità. Nessuno vuole venire a lavorare qui. Un ambiente troppo poco sicuro. Per gli stessi soldi, un giovane preferisce fare la guardia medica.” Passiamo davanti alla cucina. La stessa cucina che serve i pasti a tutti i detenuti, tranne di un padiglione, ma di quello parleremo poi. Mille persone mangiano cosa viene cucinato in quella cucina. “C’è un menù stagionale” e per chi ha esigenze specifiche? Mussulmani, celiaci ad esempio? “Se ci sono diete prescritte ne teniamo conto”. Ma la contaminazione è certa. “Una cucina è troppo poco” ammette la direttrice. In tanti mangiano in “stanza”. Una cella di 9 metri quadrati per mangiare, dormire, leggere, andare al bagno e cucinare la propria spesa. Spesso abbiamo scritto sulle nostre pagine del problema dei fornelli a gas. Costosi, difficili da smaltire, pericolosi. Ci sono detenuti che si sono ammazzati con quel gas, altri hanno colpito compagni o agenti. “Non possiamo usare le piastre elettriche. Inciderebbero tantissimo sulla bolletta, già salata”. Mi aspettavo un carcere immobile, cristallizzato per il mese di agosto. Le attività sicuramente sono meno, ma ci sono. C’è chi studia, grazie ai professori che vengono a insegnare. In tanti lavorano. E in molti non fanno nulla. Ma non è questione di periodo dell’anno: non c’è spazio. Non c’è posto per altri edifici. Questo posto sta esplodendo. Nonostante i detenuti che intervisto - da sola - mi parlano di personale che ci prova a migliorare le cose. E non ci sono soldi per tante cose. O mancano le risorse. “Ci sono le palestre, nei padiglioni. La boxe, ad esempio, non la facciamo più”. E intanto sono davanti a un “cortile passeggio”. E capisco perché lo chiamano così. Un piccolo fazzoletto di cemento dove trascorrere, in centinaia, l’ora d’aria. Aria ferma. Come l’esistenza che si vive qui. Bologna. Disordini in carcere, il Garante dei detenuti: “Gli Istituti da soli non ce la possono fare” bolognatoday.it, 22 agosto 2024 In visita alla Dozza, Roberto Cavalieri fa il punto dopo i recenti episodi di violenza. Fp Cgil: “Situazione destinata a peggiorare se non si risolvono i problemi”. “È sempre più chiaro il fatto che il carcere da solo non ce la può fare”. Dopo i recenti episodi di disordine all’interno delle case circondariali bolognesi - tra cui, per ultimi, una rissa tra detenuti nella Dozza e un’aggressione nell’Istituto penale minorile in via del Pratello che hanno causato il ferimento di alcuni agenti penitenziari - sulla questione delle condizioni di vita e di sicurezza negli istituti carcerari interviene anche Roberto Cavalieri, Garante dei detenuti dell’Emilia Romagna al termine della visita all’interno della Dozza insieme al garante comunale, Antonio Iannello: “È sempre più chiaro - ribadisce Cavalieri - come l’opera di trattamento dei detenuti da parte delle carceri sia incapace di fare fronte alle complessità e criticità di cui sono portatori i detenuti”. Da tempo i Garanti sollevano allarmi sui servizi carenti e sul sovraffollamento. La Dozza è una delle carceri che ne soffre di più in Italia con 836 reclusi mentre al Pratello i detenuti minorenni sono arrivati a 43. Problemi strutturali come ambienti malsani, scarsa sicurezza e tentativi di evasione. A questi si aggiungono quelli legati alla provenienza dei detenuti, molti dei quali extracomunitari, per i quali Cavalieri auspica “una maggiore presenza degli enti locali con i loro servizi che devono superare le barriere imposte dal possesso di regolari documenti e della residenza da parte delle persone ristrette. La stagione estiva e la diffusa povertà dei detenuti ne rendono complessa la gestione”, resa ancora più complicata, conclude il garante, “quando tra i detenuti ci sono soggetti in sofferenza psichiatrica e persone assuntrici di psicofarmaci e stupefacenti”. Non di rado le difficoltà portano i detenuti più fragili a togliersi la vita: sono 67 i suicidi avvenuti all’interno delle carceri italiane a inizio anno. L’ultimo a Bologna risale allo scorso luglio. Durante la visita, i due garanti si sono confrontati anche con la direttrice Rosalba Casella sul reparto penale, la sezione nuovi giunti e il reparto femminile. Qui si sono tenuti dei colloqui riservati con alcune detenute da cui è emersa “la prioritaria necessità di migliorare la qualità della vita all’interno dell’istituto”, aggiunge Antonio Ianniello. Richieste, quelle avanzate dai reclusi della sezione penale, anche “meramente materiali” e di portata quotidiana come “un congelatore ben funzionante per la conservazione degli alimenti acquistati”. Sulla questione è tornato anche il responsabile del comparto della polizia penitenziaria della Fp Cgil, Salvatore Bianco: “Se non si affrontano i nodi strutturali quali sovraffollamento e carenza di personale, comprensivo di quello psicopedagogico, la situazione è destinata a peggiorare ogni giorno di più - puntualizza -. Promesse unilaterali di inasprimento delle misure solo repressive, presentate come salvifiche, alimentano un’illusione di risoluzione del problema, quando nella realtà possono contribuire a peggiorare la situazione in un crescendo di azione e reazione senza fine”. Bologna. “Al carcere minorile il Comune paga il personale al posto dello Stato” di Micaela Romagnoli Corriere di Bologna, 22 agosto 2024 L’assessore comunale Rizzo Nervo e il Pratello: “Dovrebbe pensarci lo Stato”. “L’allarme dei sindacati lo abbiamo rilanciato diverse volte anche dal consiglio comunale. La situazione nell’istituto penitenziario minorile resta preoccupante e in estate purtroppo lo è ancora di più”. A dirlo è l’assessore comunale al Welfare, salute e nuove cittadinanze Luca Rizzo Nervo, commentando l’ennesimo caso di aggressione al carcere minorile del Pratello, accaduto nei giorni scorsi, ai danni di un agente della polizia penitenziaria e del comandante di reparto: stavano portando a termine il trasferimento di un detenuto che, rifiutando di farsi ammanettare, li ha feriti. Assessore, i sindacati lamentano la presenza di detenuti particolarmente aggressivi, limitazioni strutturali, difficoltà gestionali e di sicurezza. Parlano di “tracollo del sistema dietro l’angolo”. Una situazione nota in questi termini anche al Comune? “Come giunta e consiglio comunale abbiamo posto fin dall’inizio del mandato sull’istituto penitenziario minorile molta attenzione, che si è tradotta in diverse udienze conoscitive, anche in presenza dei sindacati della polizia penitenziaria, proprio per monitorare la situazione e i problemi emersi dopo l’ampliamento della struttura”. Quali? “Ciò che ci viene segnalata è la carenza di personale, accentuata nel periodo estivo, a fronte di una struttura che è raddoppiata senza assolutamente aver visto raddoppiare la propria dotazione in termini di organico, sia per quanto riguarda la polizia penitenziaria, sia per gli educatori e i mediatori culturali. Quindi, quando i sindacati chiedono allo Stato di farsene carico è un’esigenza sacrosanta. Oggi mancano le condizioni per consentire una gestione della struttura che non metta a rischio né gli operatori né i detenuti”. Come Comune che margini di intervento avete? “Siamo andati oltre il nostro ruolo. A fronte di una collaborazione con la direzione dell’istituto che abbiamo da sempre, attraverso la Programmazione triennale sulle carceri, abbiamo investito in particolare sul Pratello, circa 70 mila euro”. Per fare che cosa? “Per garantire un educatore 38 ore settimanali dal primo agosto e un mediatore linguistico per 30 ore da fine giugno. Non ce ne dovremmo occupare noi, ci sono gli organi dello Stato preposti, però, nella nostra logica di carcere come parte integrante della città, abbiamo deciso di destinarvi queste risorse, che si aggiungono al servizio di consulenza legale e ai servizi sociali di presa in carico. Cogliendo la complessità crescente di quel luogo, abbiamo messo in campo risposte concrete e puntuali, delle quali anche la direzione è soddisfatta e grata. Rimane il problema del personale e dell’esposizione degli operatori, che ovviamente ci preoccupa”. Tra i detenuti ci sono minori stranieri non accompagnati. È un tema molto delicato che anche la scorsa estate lei ha riproposto con forza al governo. Ci sono stati sviluppi? “La popolazione carceraria minorile è molto varia, diversa, articolata. È indubbio - lo stiamo urlando e denunciando da due anni a questa parte - che il carico dei minori stranieri non accompagnati sia grande e che rischino di trovarsi già in partenza dei loro percorsi migratori all’interno di sistemi criminali e di micro criminalità locale: questo è un tema enorme che ci preoccupa tantissimo”. Che cosa state facendo? “Continuiamo anche in questo ambito a fare un lavoro supplementare e supplente rispetto alle nostre competenze e funzioni. Per noi avere un sistema di integrazione dei minori non accompagnati che metta in campo strumenti di formazione, avviamento al lavoro è fondamentale per provare a costruire percorsi adeguati e non devianti. Questo vale anche per il carcere: ci interessa avere possibilità educative per i ragazzi. Ecco perché abbiamo voluto fare l’investimento che dicevo”. Sono in crescita i minori non accompagnati in città? “Abbiamo un dato costante dei 350 posti del Sai, a cui si aggiunge la struttura a Villa Angeli aperta dalla Prefettura, in questo momento molto ricettiva degli invii a livello nazionale. La pressione purtroppo non è equamente distribuita in Italia, non esiste un sistema di distribuzione nazionale come invece succede per gli adulti. È una situazione che permane, come la nostra preoccupazione”. Parma. “Via Burla, situazione drammatica: siamo in emergenza” parmatoday.it, 22 agosto 2024 L’appello della Garante dei diritti dei detenuti, Veronica Valenti: “Stiamo raggiungendo dei numeri record di suicidi. Mai così a Parma. Ecco cosa abbiamo chiesto al ministro Nordio nell’incontro del 7 agosto”. La casa circondariale di via Burla vive una situazione drammatica, di piena emergenza. Dopo il terzo suicidio in otto mesi, l’aria nel carcere di Parma si è fatta ancora più pesante. Dal problema del sovraffollamento alla liberazione anticipata (prevede l’innalzamento della detrazione da 45 a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata) proposta dall’esponente di Italia Viva, Roberto Giacchetti, fino ai detenuti che devono scontare una pena inferiore a un anno. Queste le proposte messe sul tavolo dalla Garante dei diritti dei detenuti di Parma, Veronica Valenti, durante l’incontro con il ministro della Giustizia Nordio, il 7 agosto. “Abbiamo presentato la realtà che noi quotidianamente viviamo entrando in carcere - ha raccontato -. Si è trattato del terzo suicidio avvenuto nel giro di otto mesi a Parma: credo che sia un record. La vittima è un ragazzo di 36 anni che era stato trasferito per motivi di ordine e sicurezza, proprio la sera prima. Il 14 agosto era arrivato a Parma. Direi che anche su queste dinamiche di trasferimento di soggetti con problematiche ci sarebbe qualcosa da ridire. C’è bisogno di interventi immediati, perché le misure varate recentemente da questo Governo possono portare dei benefici nel medio o nel lungo periodo, ma il dramma, l’emergenza è adesso. Ad esempio: stiamo raggiungendo dei numeri record di suicidi in tutte le carceri italiane. Nel giro di otto mesi abbiamo superato 66 suicidi a livello nazionale e, in moltissimi casi, nel 78% degli istituti italiani, abbiamo un problema di sovraffollamento molto evidente. Qui a Parma, ringraziando il Cielo, si tratta di un problema che incide fino a un certo punto. L’affollamento è a dei livelli inferiori rispetto alla media nazionale”. Valenti, dopo l’incontro con il ministro della Giustizia, illustra la situazione: “Da quando è finita l’emergenza Covid, nel giro di due anni, i numeri sono notevolmente aumentati. Come conferenza dei garanti territoriali noi abbiamo chiesto, diciamo così, delle misure immediatamente costruttive. Il sovraffollamento è una concausa dei suicidi, abbiamo speso delle parole avallando anche la proposta Giacchetti per la liberazione anticipata speciale, abbiamo fatto presente che ci sono negli istituti italiani circa 8mila e più persone detenute che stanno scontando una pena inferiore a un anno. Anche per queste persone si può fare qualcosa, si deve fare qualcosa proprio perché c’è bisogno in qualche modo di trovare delle misure e incentivare i dispositivi alternativi. Ma anche per rendere più efficiente l’azione amministrativa penitenziaria - conclude Veronica Valenti -, in quanto registriamo dei problemi che incidono sulla tutela dei diritti e delle persone ristrette e sul lavoro di chi quotidianamente opera in carcere. In questi in questi mesi abbiamo sentito anche la testimonianza dei sindacati della polizia penitenziaria e, più volte da più parti, hanno sottolineato come così non si possa più andare avanti”. Bergamo. Giustizia come perdono: le esperienze di Casa Samaria e Patronato di Sorisole di Francesco Ferrari santalessandro.org, 22 agosto 2024 Riprendere in mano la propria vita, dentro un percorso di cura, fatto di una dimensione familiare, la ripresa dei ritmi di lavoro e la costruzione di legami positivi: Casa Samaria da una ventina d’anni è uno dei tanti servizi offerti dall’Istituto Palazzolo a Bergamo. Una realtà piccola (ospita al massimo sei donne) che offre però un segno di cura prezioso: la costruzione di progetti alternativi alla detenzione in carcere che permettono poi un positivo reinserimento nella società. “Casa Samaria è nata nel 2005, dalla riflessione portata avanti insieme dai cappellani delle carceri, da Caritas e dalle suore delle Poverelle - racconta suor Margherita Gamba, superiora della Casa -. Ci siamo chiesti cosa potevamo offrire alle donne quando uscivano dal carcere o prima di uscire, per evitare che i trovassero da sole fuori dal carcere, senza sapere dove andare”. “Guardiamo la persona, non il reato” - A Casa Samaria vivono tre suore, insieme a sei donne che hanno ottenuto dalla legge la possibilità di scontare una parte della pena fuori dal carcere. “Noi le accogliamo e cerchiamo di fare famiglia con loro - prosegue suor Margherita -. La prima cosa che diamo è l’accoglienza, senza giudicare: guardiamo la persona, non il reato. Con alcune donne ci conosciamo già prima del loro arrivo, perché io faccio servizio anche dentro il carcere e già lì abbiamo modo di parlare”. La vita a Casa Samaria è fatta di semplicità e vuole aiutare le donne a riprendere una vita normale. “L’intento è tornino nella società come risorsa, non come problema. Qui devono tornare a rispettare degli orari e delle regole. Vengono coinvolte nella gestione giornaliera della casa: dalla pulizia alla preparazione dei pasti. Dedicano poi ogni mattina e ogni pomeriggio il loro tempo a un piccolo laboratorio di sartoria, nato in funzione prima del carcere: produciamo magliette e boxer da portare ai detenuti che non hanno nessuno”. Dalle 9 alle 12 e dalle 14.30 alle 18 le donne dunque sono all’opera in laboratorio. “Questo impegno rappresenta una prima messa alla prova per il futuro, a partire dal rispetto degli orari e dei ritmi. Per sostenere economicamente le nostre attività, produciamo anche altro: qualcuno che ci conosce ci commissiona borse o magliette”. Grazie al sostegno di Caritas e della fondazione Pia Opera Calepio le donne ricevono una piccola somma, che hanno a disposizione da gestire. “Possono iniziare a fare delle piccole spese, come la scheda del telefono, e devono gestirla, sempre sotto la nostra custodia. I soldi spesso sono alla base dei reati: in questo modo tornano a rispettare le regole”. Aiuto per trovare lavoro e autonomia - Casa Samaria si prende cura delle donne anche quando finisce la loro permanenza qui. “Cerchiamo di trovare uno sbocco lavorativo all’esterno, spesso grazie a delle borse lavoro. Abbiamo due appartamenti, in via Zanica e in Palazzolo, dove alcune di loro vivono i primi passi dell’autonomia quando escono da qui. Ad alcune di loro siamo riuscite anche a proporre corsi di formazione, come quello di parrucchiera e il corso Asa: questo permette di fare un salto di qualità e spendersi diversamente nella società”. Accanto all’impegno delle suore, a Casa Samaria gravitano anche diversi volontari, i ragazzi del Servizio civile e gli studenti che svolgono l’alternanza scuola-lavoro, oltre ai ragazzi di scuole e oratori che vengono per conoscere questa realtà. “Siamo una casa piccola, forse ancora poco conosciuta - conclude suor Margherita -. Ci piacerebbe sensibilizzare la società tutta rispetto alla preziosità dei percorsi alternativi al carcere, che portano a una diminuzione della recidiva, al benessere della persona e ad un reinserimento più facile nella società. I percorsi delle donne passate di qui in questi anni sono stati quasi tutti di successo: sono pochissimi quelli interrotti prima di una conclusione positiva”. Casa Samaria ospiterà uno degli incontri del triduo in preparazione alla festa patronale di Sant’Alessandro: giovedì 22 alle 20.45 suor Margherita dialogherà con don Dario Acquaroli, direttore della Comunità don Milani del Patronato di Sorisole, sul tema della fraternità ferita e della giustizia come perdono. Treviso. “Il disagio giovanile è complesso, la famiglia da sola non basta più” di Margherita Bertolo Corriere del Veneto “Rispetto a un tempo, il contesto sociale in cui siamo immersi è così pervasivo che l’educazione non può più essere prerogativa delle sole famiglie, ma di tutta la comunità”: ne è convinto don Paolo Slompo, Direttore dell’Ufficio Pastorale Giovanile della diocesi di Treviso. “Deve crearsi una mentalità diffusa di paternità e maternità - aggiunge - dove anche l’istruttore di scuola guida, per fare un esempio, sviluppi uno sguardo adulto nei confronti dei ragazzi”. Quello delle comunità parrocchiali è un osservatorio privilegiato sul mondo giovanile e sulle sue situazioni di disagio: dall’ autolesionismo, al disturbo alimentare, all’esplorazione della propria identità sessuale talvolta attraverso una eccessiva ricerca di esperienze. Una realtà che sfida gli adulti a posare lo sguardo sulla persona nel suo complesso, perché la sua fragilità rappresenta solo una parte. In questo senso l’adulto è un educatore della speranza, che però tra i ragazzi sembra scarseggiare. Del resto, secondo una ricerca svolta nel 2022 dall’Osservatorio dipendenze di Treviso su un campione di 4.859 studenti delle superiori, circa il 20% degli intervistati pensa di avere poche chances di buona riuscita rispetto alla propria professione futura, alle relazioni affettive e sociali. Proiettando questa percentuale sull’intera popolazione tra i 14 e i 19 anni della Marca, i “disillusi” risulterebbero circa 9mila. Un numero che spaventa, e che chiama in causa l’intera comunità. “Per ogni ragazzo che assume comportamenti sopra le righe, cene sono centinaia di impegna tinello sport (la città conta più di 100 società) ma anche nello studio, nella cultura e nel volontariato” tiene a sottolineare il primo cittadino di Treviso, Mario Conte. Eppure, i casi di disagio esistono eccome. Anzi appaiono sempre più frequenti e necessitano di risposte. “Sarebbe facile attribuire le colpe di questa condizione alle famiglie, alla scuola, alle istituzioni che non creano le condizioni adeguate, all’imperversare di internet, dei social network e delle chat - aggiunge il sindaco -. Tuttavia, ritengo che l’unica vera mancanza sia quella di un modello sociale positivo”. Un sistema che parte dal supporto ai genitori nella crescita dei bambini della fascia 0-6 anni, offrendo a tutte le famiglie il supporto educativo degli asili nido e delle scuole dell’infanzia, valutandone anche l’obbligatorietà. E passa dalle scuole, con l’ampliamento della proposta formativa anche in chiave extra-curricolare e l’istituzione di polisportive scolastiche che partecipino ai vari campionati. Sono alcuni degli spunti che il sindaco ha condiviso con il Governo, invitandolo a contribuire con fondi statali. Per Conte, però, tutto questo non può prescindere da regole chiare: i ragazzi vanno indirizzati molto prima di cadere, ma chi sbaglia deve comprendere il disvalore sociale di suoi atti. A pagare le conseguenze delle proprie azioni, ci sono anche i detenuti nel carcere minorile di Santa Bona. Stupisce come i reati dei più giovani spesso indichino la direzione che sta prendendo la società: il mito dei soldi, la fame di acquistare oggetti di valore portano alla rapina, le fragilità allo spaccio.Ma per intervenire sui giovani, bisogna farlo prima di tutto sugli adulti. “Servono genitori credibili, che investano nella relazione con i figli in alleanza all’interno della coppia, quando c’è, con continuità e non soltanto in certe stagioni come l’adolescenza - afferma Adriano Bordignon, presidente del Forum Nazionale Associazioni Familiari -. Non basta portare a casa la pagnotta ma dare ai propri ragazzi strumenti affinché possano essere liberi e responsabili nella propria vita”. Nel frattempo, il territorio non rimane con le mani in mano. Un’esperienza positiva è stata l’iniziativa “Ci sto? Affare Fatica!” che ha visto tantissimi ragazzi impegnati nella riqualificazione dei beni comuni, supportati da artigiani e volontari. E poi c’è il Progetto Giovani con i corsi di videomaking, graffiti, fumetti, le sale prove per fare musica ed il festival “Good Vibes”, quest’anno dedicato alla creatività. Mentre il 24 settembre al liceo “Leonardo Da Vinci” si terrà l’incontro con il medico e psicoterapeuta Alberto Pellai per un dialogo aperto con famiglie, docenti, educatori e ogni espressione della cittadinanza. Insomma, c ‘è speranza. Ius soli, ius sanguinis. La legge sulla cittadinanza torna di nuovo nell’agenda parlamentare di Valentina Stella Il Dubbio, 22 agosto 2024 In questi giorni il tema dello ius scholae sta tenendo banco nella discussione politica. Ma prima di capire cos’è nel dettaglio vediamo il quadro entro il quale ci muoviamo. Come dettaglia il centro studi della Camera, l’attuale legge sulla cittadinanza è la numero 91 del 1992 e si basa sul cosiddetto modello dello ius sanguinis (diritto di sangue). Secondo questo principio, acquista di diritto la cittadinanza alla nascita colui che sia nato da madre o padre cittadini italiani. L’ordinamento italiano riconosce anche il criterio alternativo dello ius soli (diritto di suolo), pur prevedendolo soltanto in via residuale e per casi limitati a: coloro che nascono nel territorio italiano e i cui genitori siano da considerarsi o ignoti o apolidi; coloro che nascono nel territorio italiano e che non possono acquistare la cittadinanza dei genitori in quanto la legge dello Stato di origine dei genitori esclude che il figlio nato all’estero possa acquisire la loro cittadinanza; i figli di ignoti che vengono trovati (a seguito di abbandono) nel territorio italiano e per i quali non può essere dimostrato, da parte di qualunque soggetto interessato, il possesso di un’altra cittadinanza. Lo straniero che sia nato in Italia può divenire cittadino italiano a condizione che vi abbia risieduto legalmente e ininterrottamente fino al raggiungimento della maggiore età e dichiari, entro un anno dal compimento della maggiore età, di voler acquistare la cittadinanza italiana. Inoltre gli stranieri coniugi di cittadini italiani ottengono la cittadinanza se possono soddisfare, contemporaneamente, determinate condizioni. Non è previsto tuttavia lo ius soli puro, ossia l’acquisizione della cittadinanza di un Paese come conseguenza del solo fatto giuridico di essere nati sul nostro territorio. In Italia nessuna proposta di legge ha mai preso in esame lo “ius soli” puro. Nel 2015 venne fatta una proposta su un cosiddetto “ius soli temperato”: prevedeva che un bambino nato in Italia diventasse automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori si trovava legalmente in Italia da almeno 5 anni. La pdl prevedeva anche una seconda condizione per ottenere la cittadinanza: il cosiddetto ius culturae, in base al quale avrebbero potuto chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che avessero frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato con successo almeno un ciclo scolastico. Questa proposta venne approvata alla Camera sotto il Governo Renzi, ma non diventò mai legge dopo essere rimasta bloccata per due anni al Senato. Dopodiché la legislatura finì. Una proposta di legge fatta nel 2022 su iniziativa della deputata Boldrini legava la cittadinanza italiana di un minore sempre al sistema scolastico, ma aveva parametri leggermente differenti rispetto allo ius culturae e venne per questo chiamata ius scholae: si tratta di un modello che lega l’acquisizione della cittadinanza al compimento di un percorso di studi in Italia. La proposta di legge solo annunciata alla Camera nella scorsa legislatura, prevede che un minore, nato in Italia o che vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età e che risieda legalmente in Italia, possa acquisire la cittadinanza qualora abbia frequentato regolarmente, per almeno cinque anni nel territorio nazionale, uno o più cicli scolastici. Secondo alcune stime, potrebbe rendere immediatamente italiani circa 135.000 studenti già presenti nel Paese. Altre proposte di ius scholae estendono il periodo formativo a dieci anni ed è quello a cui è favorevole la premier Meloni perché sarebbe l’equivalente nel nostro attuale obbligo scolastico da 6 a 16 anni di età, e che comprende gli otto anni del primo ciclo di istruzione (elementari e medie) e i primi due anni del secondo ciclo. Cosa accade negli altri Paesi europei? Nascere europei da genitori stranieri si può, almeno in quei Stati dell’Unione che concedono la cittadinanza ai piccoli nati sul territorio europeo con origini non comunitarie. Si tratta dei Paesi che applicano il cosiddetto ius soli temperato che non è un diritto acquisito (come negli Stati Uniti) ma prevede almeno un’altra condizione oltre al fatto di essere nati nel territorio dello Stato. È il caso, ad esempio, fino ad oggi di otto Paesi: Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Grecia, Olanda e Irlanda. In particolare in Germania, un bambino acquisisce la cittadinanza tedesca alla nascita solo se almeno uno dei due genitori ha un permesso di soggiorno permanente (da almeno tre anni) ed entrambi i genitori risiedono in Germania da almeno otto anni. In Francia, invece, i nati nella Repubblica da almeno un genitore straniero, a sua volta nato nel Paese, ottengono automaticamente la cittadinanza francese. Inoltre i figli di stranieri, che risiedono da almeno cinque anni nel Paese, possono invece richiedere la cittadinanza quando diventano maggiorenni se hanno risieduto nel Paese per almeno cinque anni dall’età di 11 anni in poi. Cittadinanza, ecco cosa chiedono i ragazzi di seconda generazione di Diego Motta Avvenire, 22 agosto 2024 Parlano i responsabili delle associazioni che rappresentano i giovani stranieri nel limbo: basta rinvii, è ora di agire. Fare presto, fare bene. La richiesta delle nuove generazioni di ragazzi stranieri al Parlamento e al Paese è semplice e diretta: basta rinvii, è ora di agire. Non occorrono riforme epocali, ma buon senso. I 20-30enni che rappresentano il movimento dei giovani finiti nel limbo non hanno dubbi: questa partita è innanzitutto politica, ma farne un tema divisivo nei confronti dell’opinione pubblica com’è accaduto finora sarebbe un boomerang. Meglio assecondare le richieste della società civile, che si è già mostrata più avanti del Palazzo. È una posizione, questa, che ricalca lo slogan con cui qualche tempo fa si presentarono alle istituzioni, dicendo: “Noi siamo pronti. E voi?”. Parole che fanno capire l’ansia e anche un po’ di stanchezza con cui si sta vivendo l’ennesimo dibattito sulla cittadinanza. Lo spiega bene Noura Ghazoui, presidente del Conngi, il Coordinamento nazionale delle nuove generazioni italiane, che dal 2017 riunisce diverse associazioni radicate sul territorio, dal Piemonte alla Campania. “Stiamo lavorando da tempo a una nuova campagna per l’autunno, che avrà come tema centrale proprio la riforma della cittadinanza - spiega Noura -. Lo Ius Scholae? Può andare bene, perché almeno un ciclo scolastico è necessario. Avere una generazione di nuovi italiani proprio in età adolescenziale sarebbe un segnale importante”. Nel prossimo autunno, è previsto un incontro del tavolo delle associazioni con parlamentari di diverse forze politiche, già riuniti in un intergruppo ad hoc. “Quello della mancata cittadinanza è un diritto negato, speriamo che si trovino delle soluzioni e che ciò a cui stiamo assistendo non sia soltanto una trovata propagandistica”. Non è ovviamente a una sola voce il movimento dei “nuovi italiani”. In questi anni non sono mancati distinguo, fughe in avanti, rivendicazioni anche nette. Dentro le stesse associazioni. Piuttosto critica sullo scenario attuale è ad esempio Kwanza Musi Dos Santos, che con la Rete per la riforma della cittadinanza ha lanciato una mobilitazione dal titolo “Dalla parte giusta della storia”. “Il rischio che sia tutto fumo negli occhi, purtroppo, c’è” dice. “In tanti hanno promesso cose mai realizzate, a sinistra ma anche destra” osserva. Il suggerimento di chi rappresenta, tra gli altri, anche le comunità numerose dei cosiddetti afrodiscendenti, è invece quello di “riconoscere un doppio percorso: per chi nasce in questo Paese e per chi cresce, completando un ciclo di studi. Quel che è certo è che in futuro bisognerà evitare le discrezionalità che fin qui ci sono state da parte della pubblica amministrazione: i percorsi di riconoscimento della cittadinanza non si possono fermare per un timbro o per presunte inadempienze indipendenti dalla nostra volontà”. Per Noura, “tagliare il traguardo di fine scuola media con il titolo di “italiani” sarebbe l’ideale: da un lato vorrebbe dire che c’è stata una semplificazione burocratica evidente, visto che ancora oggi tanti bambini perdono giorni di scuola in fila davanti alle questure con i propri genitori per avviare le pratiche; dall’altra, si riconoscerebbe così alla scuola, com’è giusto, un ruolo cruciale nella formazione dei giovani cittadini”. Il fantasma dell’autoreferenzialità, anche per chi rappresenta gli stranieri nati e cresciuti in Italia, è presente, inutile negarlo. Secondo Daniela Ionita, di Italiani senza cittadinanza, “è il momento invece di essere pragmatici, di provare ad aprire il confronto con tutti i partiti, a sinistra come a destra. Noi lo stiamo facendo, ragionando con altre realtà del Terzo settore, ipotizzando anche l’utilizzo di uno strumento come il referendum”. Quanto alle formule giuridiche, “per ora non sono la cosa più importante - continua Daniela Ionita -. Penso sia invece fondamentale trovare compromessi che ci leghino alle buone pratiche in vigore anche in altri Paesi, superando le regole rigide e spesso senza senso legate alla continuità di residenza richiesta e al tema del reddito”. Quel che si chiedono le nuove generazioni è soprattutto se e come individuare un principio normativo in grado di sanare tante situazioni a oggi irregolari. Le nuove norme potranno cioè essere retroattive o dovranno limitarsi a prendere in considerazione soltanto chi chiederà la cittadinanza in futuro? È un interrogativo cruciale, per evitare di prolungare ancora per tanti quella situazione sospesa, nel limbo, in cui la legge odierna li ha intrappolati. Scontro sulla cittadinanza, Lega contro Forza Italia: ma Piantedosi ora apre di Eleonora Camilli La Stampa, 22 agosto 2024 Il ministro dell’Interno: “Discussione da affrontare, no a valutazione ideologiche. Il nostro Paese è al primo posto in termini assoluti per concessioni di nazionalità”. “Non è una priorità, non è nell’agenda di governo. Legge che funziona non si cambia”. Matteo Salvini è perentorio e chiude ancora una volta a qualsiasi ipotesi di riforma della legge sulla cittadinanza. Lo fa dal palco del meeting di Rimini rispondendo a distanza all’altro vicepremier, Antonio Tajani, che in un’intervista a Repubblica aveva invece parlato della necessità di adattarsi al cambiamento. E in un’Italia che cambia, gli italiani sono sempre più a favore dello “ius scholae”. Eppure il tema continua a tracciare delle crepe nell’alleanza di governo, tra Lega e Forza Italia le posizioni non potrebbero essere più distanti. Il Carroccio fa quadrato intorno alle posizioni del leader. Rossano Sasso, rispolverando una vecchia intervista del Cavaliere, rinfaccia agli alleati la posizione del fondatore: “Non si può dare la cittadinanza italiana solo per il fatto di aver frequentato la scuola. Parole sagge, quelle dette dal presidente Berlusconi qualche anno fa, che condivido - sottolinea il deputato leghista, che poi si chiede: “Cosa accadrebbe ai genitori dei minori stranieri, neo-cittadini grazie allo ius scholae? Si estenderebbe la cittadinanza anche a loro, non potendo giustamente separare genitori e figli? Con lo ius scholae i trafficanti di esseri umani punterebbero da tutto il mondo verso le nostre coste”. Parole che non tengono conto dei paletti previsti da tutte le ipotesi di riforma della legge 91 del 1992 ma che chiariscono una posizione di chiusura netta. Più conciliante invece quella espressa da Raffaele Speranzon, vice gruppo di Fratelli d’Italia in Senato: “Noi non abbiamo un approccio dogmatico, ma entreremo nel merito quando e qualora ci sarà una proposta di legge scritta, per valutarla nel dettaglio” dice. E parla di “ragionamento condivisibile” quello fatto da Tajani anche se “non essendo stata prevista nel contratto di governo e nelle proposte fatte agli elettori, un’eventuale riforma della cittadinanza non si può discutere alla cieca”. A simulare un’apertura è il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, anche lui ospite di Comunione e liberazione. “Se la discussione sulla cittadinanza serve ad aggiornare il panorama delle valutazioni che un paese come il nostro deve fare sui processi di integrazione, va benissimo - dice -. Io però credo che vada fatta scevra da condizionamenti ideali o addirittura ideologici”. Il ministro, sottolineando che è lecito “porsi il problema di come rendiamo i migranti nostri cittadini”, ricorda però che l’Italia è tra i paesi europei che concedono più cittadinanze ogni anno. E, pur più soft di Salvini, precisa che nel nostro ordinamento c’è già “uno spunto di ius soli” perché “i 18 anni trascorsi in Italia e una frequenza della scuola proficua sono già valutati. Dovremo invece ragionare sul fabbisogno di manodopera”. A scanso equivoci, insomma: l’Italia fa già il suo. Intanto, mentre nella maggioranza il dibattito si fa sempre più acceso, dall’opposizione si pensa a proposte più concrete. +Europa è pronta a depositare il quesito referendario per abrogare alcune parti della legge attualmente in vigore e rendere così le procedure per l’acquisizione della cittadinanza più snelle. Il testo definitivo dovrebbe essere ultimato nelle prossime settimane per iniziare la raccolta firme sulla piattaforma digitale a settembre. “Il nostro obiettivo è di rimuovere alcuni degli ostacoli oggi presenti e allineare la normativa a quella della maggior parte dei paesi europei” spiega il segretario Riccardo Magi. Tra le proposte del quesito quella di portare da 10 a 5 gli anni di soggiorno regolare previsti sul territorio italiano per richiedere la cittadinanza. “Questo avrebbe un effetto importante e immediato su un’ampia platea di persone che vivono regolarmente nel nostro paese, che qui hanno una famiglia, lavorano e pagano le tasse”. +Europa sta lavorando per allargare la proposta anche agli altri partiti dell’opposizione con cui il confronto è già aperto. “Non faremo mancare il nostro appoggio neanche a Forza Italia se si decide per lo ius scholae, ma solo se la riforma non sarà piena di paletti e criteri punitivi”. Anche secondo Angelo Bonelli di Avs ora i forzisti devono aprire un “dialogo costruttivo e condiviso per realizzare lo ius scholae, un passo avanti necessario per il progresso culturale del Paese”. Il ministro Tajani: “L’Italia è matura per lo Ius scholae” di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 22 agosto 2024 È prudente, risposta dopo risposta. Attento a preservare l’intesa con Giorgia Meloni e l’equilibrio instabile con gli alleati. Ma all’ennesima domanda sullo Ius scholae che FI vuole e la destra non sopporta, Antonio Tajani entra in un’altra dimensione: “Ma mica ho sentito Schlein per fare un inciucio. Né lavoro ad un accordo sottobanco con il Pd. È solo quello che pensiamo, da sempre. È quello di cui ha bisogno il nostro Paese. Ragazzi, l’Italia è cambiata! Abbiamo ricevuto in due anni 170mila ucraini. È la nostra storia, l’impero romano accoglieva, in Sicilia è pieno di cognomi di origine araba. Abbiamo comunità arbereshe: ma sono italiani, eh! Il mio stesso cognome è di origine araba. Negli Usa qualcuno pensa che non siano buoni americani gli italoamericani? Nancy Pelosi non è americana? Alain Delon aveva la nonna di Cassino. Sarà la mia educazione cristiana, ma per me non esistono differenze di colore o etnia. Un buon italiano è chi crede nell’Italia, la conosce, la difende. Quanti militari figli di stranieri ci sono nel nostro esercito? E poi gli atleti, le scuole in cui vanno i nostri figli. Il mondo cambia e continua a cambiare, svegliamoci”. Ministro Tajani, tutto giusto. Ma si prepari, Meloni e Salvini a settembre la bloccheranno dicendo: non è nel programma, addio Ius scholae... “Primo: verissimo, non è nel programma, ma nei programmi di governo non sempre c’è tutto, si possono arricchire. Secondo: non è la nostra priorità, che sono altre: l’economia e l’emergenza carceri. E però non siamo un partito unico, ognuno ha le sue idee. Non c’è stata nessuna trasformazione di FI, lo Ius scholae lo voleva già Berlusconi. Neanche Ursula era nel programma di governo: noi l’abbiamo votata, Meloni e Salvini legittimamente no. Non è che cade il governo se abbiamo votato diversamente su von der Leyen o se portiamo avanti le nostre idee sulla cittadinanza”. Quali sono queste idee? “Non basterà essere iscritti. Servirà un percorso di studi completo. E tutto questo non ha nulla a che vedere con l’immigrazione illegale: mica diamo la cittadinanza ai clandestini, né parliamo di Ius soli. Parliamo dei figli di ucraini fuggiti dalla guerra o di chi lavora regolarmente dopo essere arrivato, magari con il decreto flussi” Meloni era per lo Ius scholae, oggi non più. Alla fine FdI segue la Lega negli snodi essenziali: Mes e Ursula. Siete la foglia di fico moderata in un governo di destra? “Ma che c’entra destra e sinistra? Ieri ho letto che il più accreditato a fare il leader dei conservatori inglesi è Cleverly, sua madre è della Sierra Leone. Sunak è per caso di sinistra? Io comunque non faccio polemica, dico che è solo la nostra identità”. Quindi pronto in Parlamento a presentare la proposta? Centristi e grillini sono d’accordo, ci stesse il Pd la cosa si farebbe seria... “Ripeto: nessun inciucio col Pd, nessun tradimento. Ma se il Pd si dice d’accordo con me, non posso essere io a cambiare idea. I sondaggi dicono che gli italiani sono a favore dello Ius scholae. Detto ciò, c’è tempo. Prima ne voglio parlare con i gruppi di FI. E sarebbe un’iniziativa dei nostri parlamentari, non del governo”. Visto che parliamo di diritti: il governo dovrebbe concederne di maggiori anche alle coppie Lgbtq? “Adesso, ripeto, la priorità sono economia e carceri. Le ricordo che uno degli ultimi spot di Berlusconi fu proprio sulle carceri, che sono - queste sì - un’emergenza cruciale”. Quando Marina ha detto di essere in sintonia con la sinistra sui diritti, lei ha cambiato linea... “Ma non è così! La famiglia Berlusconi non mi hai mai imposto niente. Non chiamano e non condizionano, esprimono singole posizioni, che tra l’altro coincidono con quelle del padre, e che io raccolgo come quelle di veri amici”. Pier Silvio l’ha criticata, Tajani. Confalonieri ha fatto un casting per rinnovare i volti di FI. Dica la verità: con il 10 % delle Europee, si aspettava maggiore gratitudine? “Non mi è arrivata alcuna critica”. Sono dichiarazioni pubbliche... “Guardi, io sono amico dei fratelli Berlusconi da quarant’anni. Da loro ho solo giudizi positivi. Non posso leggerle gli sms privati, ma mi creda: è così. Poi c’è chi è preoccupato dall’eccessiva crescita di FI e chi vuole delegittimarci come fossimo un partito padronale, ma ripeto: stima e amicizia. Pier Silvio ha solo detto pubblicamente che FI deve andare avanti, io sono d’accordo e in piena sintonia”. Sarà un autunno di casse vuote e con una manovra di austerità. Tempi difficili? “La manovra non sarà di austerità o “lacrime e sangue”, ma certo non sarà facile. Bisognerà essere prudenti. Abbiamo delle priorità: il taglio del cuneo fiscale, la decontribuzione per madri lavoratrici con più di due figli, l’aumento delle pensioni minime. Il 30 agosto con Meloni e Salvini avvieremo il confronto”. Salvini già parla di cambiare quota 41. Pessimo segnale per l’Europa che ci ha messo sotto procedura per deficit, non le pare? “Comincia un confronto, anche noi guardiamo ai pensionati, valuteremo. Si tratta di collaborare, senza imporre o accettare diktat. Noi porteremo avanti le nostre idee. Penso ai giovani, con il rilancio del fondo per studenti meritevoli da trenta milioni di euro. E con 300 milioni di garanzie dello Stato per i mutui prima casa per le giovani coppie under 36. Infine, le privatizzazioni: per esempio quella del Monte Paschi e di alcuni servizi dei porti”. Potreste raccogliere risorse anche con gli extraprofitti delle banche? L’anno scorso questa idea fece infuriare i Berlusconi... “Non è quello il modo di fare cassa. Tutti, anche le banche, collaborano pagando le tasse, ma non servono blitz. Colpire le banche di credito cooperativo significa colpire famiglie e start up. Ora semmai serve una riduzione del costo del denaro per liberare credito e aiutare la crescita. Per questo dico che la Bce dovrebbe imitare la Fed e tagliare i tassi”. E soddisfatto della scelta di von der Leyen alla guida della Commissione? Lei temeva instabilità sui mercati per l’Italia, senza un accordo in Europa... “Ora le istituzioni sono solide. Anche il governo è stabile. Si possono avere idee diverse, ma noi siamo leali e rispettiamo i patti. Però tutti nella coalizione devono capire che essere attivi significa occupare uno spazio politico: il nostro è al centro, diciamo tra Meloni e Schlein. Non vedo il problema, anzi: allarghiamo i confini della coalizione”. Parliamo di Arianna Meloni e del Giornale: le sembra normale che una premier denunci un complotto senza fare nomi? Detenete il potere e avreste una responsabilità... “Con Berlusconi è successo, è un nervo scoperto. Non posso escludere quello che ha detto Sallusti, è un giornalista serio. Se ha scritto quello che ha scritto, avrà avuto le sue informazioni. In Italia cose simili sono già accadute”. Ma sono accuse lanciate nella mischia. Lei sa qualcosa? “Non ho notizie, dico solo che è verosimile. Onestamente poi non ho mai visto Arianna Meloni partecipare a incontri sulle nomine”. C’entra lo scontro sulla separazione delle carriere? “Purtroppo c’è una parte minoritaria della magistratura che è attestata su posizioni conservatrici, ma molti magistrati sono a favore”. L’Anm è contro, veramente... “Non è che se il sindacato è contrario, non possano esserci tanti giudici a favore”. Infine, uno sguardo ai conflitti. Lei resta contrario all’uso delle armi italiane nel Kursk? “Non siamo in guerra con la Russia e non siamo per l’utilizzo delle nostre armi in territorio russo. Detto ciò, Gli ucraini si stanno difendendo. Bisogna evitare l’escalation, ma c’è sempre un aggredito e un aggressore”. Su Gaza crede davvero in un accordo di pace, questa volta? “Conosco bene Blinken, parlo con il governo egiziano e con tutti gli altri attori: c’è la volontà di raggiungere la pace. Un’escalation non conviene a nessuno”. Migranti. Un mediatore culturale curdo è detenuto da maggio a Catania di Leandro Perrotta La Sicilia, 22 agosto 2024 L’accusa: “Interprete di un terrorista”. L’uomo, in Italia dal 1997, ha tradotto le parole del “signore del crimine” turco Baris Boyun e per i magistrati era a conoscenza delle sue attività illecite. Da metà luglio circola un partecipato appello per la sua scarcerazione, “Free Heval Talip”. Da metà luglio un appello per la scarcerazione del 50enne Abutalip Burulday, noto come Heval Talip, ha raccolto adesioni in tutta Italia. Tra queste quelle di rappresentanti di associazioni antirazziste e che promuovono l’integrazione dei migranti e di personalità come l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, da poco eletto al parlamento europeo. La storia del resto riguarda il coinvolgimento in una inchiesta sul terrorismo di un uomo che per vent’anni ha svolto attività in supporto dei richiedenti asilo. Burulday è arrivato dalla Turchia sulle coste della Calabria alla fine di dicembre del 1997 come rifugiato curdo, e da allora svolge la professione di mediatore culturale, anche per i tribunali. In Sicilia è iscritto al relativo albo regionale. A Cosenza ha dato vita ad una associazione di supporto agli esuli curdi, e da alcuni anni risiede a Catania. Proprio nella sua abitazione etnea all’alba del 22 maggio è stato arrestato dalla guardia di finanza in esecuzione di una operazione internazionale coordinata dalla procura di Milano e che ha coinvolto altre 18 persone in vari luoghi. L’accusa: far parte dell’organizzazione di Baris Boyun, “signore del crimine” curdo dedito a terrorismo, traffico di droga, sfruttamento dell’immigrazione. Burulday, detenuto a piazza Lanza, secondo l’accusa sarebbe stato “interprete personale di Boyun” e “prestanome per far giungere in Italia denaro di provenienza illecita dalla Turchia”, scrive il Gip nell’ordinanza. “Ma non è coinvolto nei reati di fine” sottolinea il suo avvocato, Giacomo Giuliano, richiamando quanto contenuto nell’ordinanza. Secondo la difesa dell’imputato Burulday avrebbe avuto contatti con Boyun dal 2022 in quanto richiedente asilo arrivato sulle coste calabre dalla Turchia. Allo stesso modo l’arrivo del denaro sarebbe stato effettuato mediante l’uso del money transfer “una cosa normale fatta anche per gli altri migranti”, spiega l’avvocato.Il Riesame già il 14 giugno ha rigettato la scarcerazione ed il legale, dopo aver ricevuto le motivazioni del rigetto a fine luglio, ha fatto ricorso per Cassazione: l’udienza è stata fissata per il 15 ottobre.Dall’arresto all’udienza in Cassazione saranno passati cinque mesi in custodia cautelare per Abutalip Burulday. Un caso che agli autori dell’appello ricorda da vicino quello di Maysoon Majidi, detenuta in Calabria da oltre sette mesi con l’accusa di essere una scafista. Majidi, curdo-iraniana, ha anche scritto al presidente della Repubblica. Migranti. “Liberate Havel”, migliaia di firme per il mediatore arrestato col “boss” curdo di Giuseppe Bonaccorsi Il Dubbio, 22 agosto 2024 Nel caso Boyun, presunto mafioso-terrorista accusato da Ankara, anche un interprete in Italia da trent’anni. Un delicato e contorto intrigo internazionale, con al centro un mediatore culturale e traduttore finito in carcere e un boss, entrambi di origine curda. Un caso che ha già sollecitato la raccolta di migliaia di firme in favore di Abutalip “Havel” Burulday, il mediatore immigrato in Italia dal 1997, quando arrivò in Calabria a bordo di uno dei tanti barconi della speranza. Le firme sono state sottoscritte in giro per la Penisola dalle associazioni antirazziste che promuovono l’integrazione dei migranti. In campo anche quella dell’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, oggi europarlamentare per i Verdi- Sinistra. Sono gli ingredienti di una vicenda internazionale della quale si sta interessando un avvocato del Foro di Catania, Giacomo Giuliano, che difende il mediatore, finito in manette a Catania il 22 maggio su richiesta della Procura di Milano con l’accusa di aver favorito un boss giunto in Italia dai Balcani. Havel, che da oltre vent’anni svolge in Italia l’attività di mediatore culturale a supporto dei richiedenti asilo, sarebbe coinvolto, secondo gli inquirenti, in una inchiesta (che riguarda anche altre 18 persone) su presunti atti di terrorismo, in particolare per il supporto che avrebbe offerto al boss turco Baris Boyun, accusato di terrorismo, traffico di droga e sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Secondo l’accusa proprio Havel, oggi rinchiuso in una cella a “piazza Lanza”, sarebbe un “interprete personale di Boyun e prestanome per far giungere in Italia denaro di provenienza illecita dalla Turchia”, come scrive il gip nella propria ordinanza. L’avvocato Giuliano la pensa diversamente e aggiunge un particolare di non poco conto, in aperto contrasto con quanto sostenuto dalle associazioni antirazziste che sostengono Havel: “Premettiamo che io non mi trovo affatto d’accordo con quanto sostenuto dalle associazioni sul presunto assoggettamento del nostro ordinamento giudiziario nei confronti del governo turco. Secondo le associazioni, ci sarebbe una sorta di servilismo del nostro sistema giudiziario nei confronti di Ankara, come se la Turchia, tramite la magistratura italiana, stesse punendo un mediatore curdo che in questi oltre 30 anni avrebbe fatto politica contro la Turchia. Ho chiarito che a me non risultano elementi tali da favorire questa lettura. Quello, invece, che dal mio punto di vista ho da dire in questa vicenda è che il signor Abutalip Burulday da oltre 30 anni si trova in Italia ed è persona perbene che si è sempre spesa per fare il mediatore culturale oltre che il traduttore per conto di diverse Procure italiane. Mai il mio assistito è stato raggiunto da notizia negativa, come se avesse tradito il suo mandato. Nel 2022 ha conosciuto Bayoun Boris, di cui mi ha detto, prima di allora, non sapere nulla. Il signor Bayoun arriva in Italia e viene presentato al mediatore come un politico curdo perseguitato dal governo turco. Tra i due nasce un rapporto, e a Talip viene chiesto di fare da mediatore e traduttore anche perché nel frattempo il signor Bayoun viene raggiunto da una richiesta di estradizione da parte della Turchia. Ne viene fuori un procedimento penale per cui era necessario che qualcuno facesse da interprete e traduttore. Quindi il mio assistito ha fatto solo questo. Ora, in tutte le intercettazioni in cui figura il mio assistito, mai si fa cenno a qualcosa di illegittimo e illegale di cui il signor Abutalip Burulday possa essere venuto a conoscenza per individuare la vera identità del boss”. I legale continua: “Secondo la costruzione accusatoria il signor Abutalip Burulday, essendo componente della comunità curda, non poteva non sapere che il signor Bayoun fosse un noto criminale in Turchia. Ma il mio assistito ha più volte detto che da oltre 25 anni non mette piede in Turchia e non è a conoscenza dei fatti che accadono in quel paese. Anche per la questione contestata dei fondi trasferiti in money transfert”, aggiunge il legale, “i sistemi sono tutti tracciati, per cui io ho chiesto prima al Tribunale del Riesame, che ha rigettato, e adesso alla Cassazione la scarcerazione del mio assistito per assenza della gravità indiziaria. Non ci sono, a mio giudizio, indizi che si possano qualificare gravi ai sensi della legge. Né sussiste pericolo di reiterazione del reato e di alcuno dei reati- fine, reati gravi come terrorismo, spaccio, contrabbando… c’è semplicemente una mera partecipazione”. Intanto le associazioni antirazziste contestano anche la lunga carcerazione preventiva. “A settembre - spiega un componente del direttivo della Lega di Catania - terremo, insieme all’avvocato, una conferenza stampa. Attendiamo solo di conoscere le motivazioni in base alle quali il Riesame che ha rigettato l’istanza di scarcerazione”. Egitto. Giacomo Passeri condannato a 25 anni di carcere per traffico di stupefacenti di Viola Giannoli La Repubblica, 22 agosto 2024 Il fratello: “Siamo scioccati, l’Italia ci aiuti”. Il 31enne di Pescara detenuto da agosto scorso al Cairo. L’appello della famiglia: “Lui si dichiara innocente, riportatelo a casa”. Venticinque anni di carcere da scontare nelle prigioni egiziane, per traffico di stupefacenti. È una condanna pesantissima quella arrivata il 19 agosto scorso dal Cairo per Giacomo Passeri, un ragazzo italiano di 31 anni, originario della Sierra Leone, cresciuto a Pescara e residente da qualche anno a Londra dove faceva il pizzaiolo e l’intrattenitore. “Mi hanno incastrato, venticinque anni... è un ergastolo! Mi stanno prendendo la vita, sono rotto, a pezzi, aiutatemi o mi ammazzo qui dentro”, grida lui dalla prigione di Badr in cui è rinchiuso da un anno in qua, senza poter chiamare casa né avere colloqui con i suoi familiari. È il 23 agosto del 2023 quando in un hotel di Sharm el-Sheik, poco prima che s’imbarcasse di nuovo per l’Inghilterra, Passeri viene fermato da quattro agenti della polizia egiziana, arrestato e portato nel Centro correzionale a nord del Cairo voluto da Al Sisi e dipinto più volte dalle organizzazioni internazionali come “inumane”. Alla sua famiglia Passeri racconta di essere stato trovato in possesso di una “modica quantità di droga”, qualche spinello di marijuana insomma. Ma le accuse dall’Egitto parlano di altro e cioè - è il racconto dei poliziotti egiziani - di grosse quantità di stupefacenti trovate nella stanza d’albergo e anche dentro numerosi ovuli, da lui ingeriti (di cui però non c’è traccia nel referto medico dell’ospedale del Cairo che Repubblica ha potuto vedere), e di una rete di traffico illegale per lo spaccio sul mercato egiziano di cui l’italiano farebbe parte. Addebiti che portano all’accusa di detenzione e traffico internazionale di stupefacenti e ora alla durissima condanna dei giudici. Il ricorso e l’appello al governo - “Siamo scioccati”, raccontano adesso i fratelli Andrea e Antonio Passeri, “è un epilogo che non ci saremmo mai aspettati. Lui si è sempre dichiarato innocente, noi gli crediamo. E adesso si sente abbandonato”. Attendono a giorni le motivazioni della sentenza, poi insieme all’avvocato Said Shabaan, “ancora convinto di poter dimostrare la sua innocenza”, proveranno a muoversi su un doppio binario: il ricorso in appello e la richiesta di estradizione. E sul piano politico lanciano un nuovo appello al governo: “Chi può ci aiuti, bisogna fare qualcosa, chiediamo allo Stato, alla politica italiana di farlo tornare in Italia, di interessarsi almeno al caso attraverso la documentazione ufficiale rilasciata dalle autorità egiziane in mio possesso. Giacomo è ingiustamente trattenuto lì, si faccia qualcosa per riportarlo al più presto a casa. Se l’Italia non si muove marcirà in cella, non vogliamo che faccia la fine di Regeni, anche perché sue le condizioni psicofisiche di Luigi non sono affatto ottimali”. Le lettere dal carcere - Dal 23 agosto, giorno dell’arresto, la famiglia sostiene di non aver avuto un unico contatto telefonico con Passeri e di non averlo mai potuto vedere in carcere. Ci sono solo delle lettere, decine, che il detenuto ha scritto dalla sua prigioni ed è riuscito a inviare via Whatsapp ai fratelli fotografandole con i telefoni dei parenti degli altri detenuti. Lettere in cui ha raccontato di essere stato “torturato”, “rinchiuso per ore in una cella piena di feci, urine, scarafaggi, con le manette talmente strette da non far più scorrere il sangue nelle dita”, trasferito poi in un’altra gabbia con “12 detenuti accusati di omicidio, tentato omicidio”, operato d’appendicite e “abbandonato senza cure per giorni”, tra agenti che gli “tiravano acqua addosso” e lo “minacciavano in arabo”. Nell’ultima dice: “Sono rotto, mi ammazzo se non esco di qui”. Un caso non semplice - Un caso, quello di Passeri, seguito “con la massima attenzione” dalla Farnesina e dall’Ambasciata italiana al Cairo, ma non semplice da gestire. Dall’Italia si sperava in una maggiore clemenza da parte dei giudici egiziani, anche se i reati legati al traffico di stupefacenti sono sempre sanzionati pesantemente dal Cairo. I margini, stretti, per riportarlo in Italia - L’Ambasciata, anche sulla base delle condizioni di detenzione definite “inumane” dalla famiglia Passeri, si è schierata con il suo avvocato per un possibile trasferimento in Italia o un’espulsione dopo la condanna. Il problema è che l’Egitto ha sempre fatto resistenza. I margini di manovra sono estremamente ridotti. Quando verrà depositata la sentenza di condanna, il legale di Passeri farà ricorso. Poi, quando arriverà la sentenza definitiva che si auspica riduca considerevolmente la condanna si potrà ragionare di come riportare Passeri in Italia. Avs: “Sentenza shock, cosa ha fatto il governo?” - “Siamo preoccupati, indignati e sconcertati”, dicono il deputato di Avs Marco Grimaldi e il segretario abruzzese di Si Daniele Licheri, “dopo aver appreso della sentenza shock”. “Abbiamo visto la vicenda Regeni, la vicenda Zaki, non ci fidavamo di chi diceva che in Egitto andava tutto bene”, aggiungono per poi concludere: “Cosa ha fatto il governo per evitare che Luigi Giacomo Passeri non subisse un processo farsa e una detenzione che rischia di portargli via tutta la sua giovane vita?”. Italia Viva: “Tajani convochi l’ambasciatore” - Sul caso interviene anche il senatore di Iv, Ivan Scalfarotto: “Il ministro Tajani prenda immediatamente contatto con il suo omologo egiziano, anche eventualmente convocando l’ambasciatore dell’Egitto alla Farnesina, per far sentire la protesta più vibrante per una decisione che non presenta alcuna ragionevolezza o proporzionalità. Poi, tramite l’avvocato egiziano, i famigliari proveranno a muoversi su due binari: chiedere l’estradizione e fare ricorso in appello. Sul piano politico tornano a lanciare un “appello forte alle istituzioni, affinché si impegnino per far tornare il giovane in Italia”. Medio Oriente. “Israele tiene i prigionieri palestinesi in gabbie all'aperto come animali” di Nello Del Gatto Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2024 “Sde Teiman è solo la punta dell'iceberg della situazione dei detenuti palestinesi che, dal 7 ottobre, è solo peggiorata”. Ne è convinta Jenna Abuhasna, consulente legale di Addameer, una organizzazione non governativa che si occupa della tutela dei prigionieri palestinesi. Sde Teiman è l'ex base dell'esercito che ospita i detenuti arrestati a Gaza. Nove i militari arrestati per violenze e torture, fisiche e psicologiche, denunciate dai prigionieri nelle scorse settimane. Uno ha denunciato di essere stato violentato. Gli arresti nella Guantanamo israeliana hanno scatenato proteste degli estremisti di destra contro il governo. Accendendo, ancora una volta, un faro sulle terribili condizioni delle carceri israeliane per i palestinesi. Come è la situazione dei nuovi prigionieri palestinesi arrestati nella Striscia di Gaza? I gazawi arrestati nella Striscia vengono portati in due ex basi dell'esercito, una di queste è Sde Teiman, e interrogati per settimane. Gli viene vietato qualsiasi incontro con gli avvocati. Per cui le informazioni sulle loro condizioni sono davvero poche, a causa proprio dello stato con le quali sono tenuti. I pochi avvocati che sono riusciti a incontrare i detenuti da Gaza parlano di condizioni fisiche e psicologiche molto difficili e molto più pesanti delle condizioni in cui si trovano i detenuti palestinesi arrestati in Cisgiordania. Quanti sono e come sono le loro condizioni? Non abbiamo i numeri di quanti da Gaza siano stati arrestati, li abbiamo più volte chiesto come Ong ma l'esercito non ce li ha mai dati. Sappiamo solo che sono per la maggior parte uomini, rinchiusi in gabbie all'aperto come animali, non in stanze chiuse, quindi soggetti anche alle condizioni atmosferiche, particolarmente dure in questo periodo per il caldo. Vengono bendati. Soffrono torture fisiche e psicologiche. A Sde Teiman i militari sono stati accusati di violenza sessuale su un detenuto? È così. Abbiamo un caso certificato di violenza sessuale su un detenuto che è dovuto ricorrere alle cure dei sanitari. Siamo oltre le torture e la violazione dei diritti umani. Nessuno, neanche i loro familiari, ha notizie sui detenuti, neanche dove si trovino e se sono vivi o no. Si sa quanti sono allo stato attuale i prigionieri palestinesi in Israele? Al momento si stima che ci siano 9.900 prigionieri palestinesi nelle prigioni israeliane, 3.500 in detenzione amministrativa. Numero che aumenta ogni giorno perché ci sono arresti quotidiani. Le donne sono 1.817, oltre 250 i minori, dei quali quaranta minori sono sotto detenzione amministrativa, quella forma che permette la reclusione senza accuse note che può arrivare ad un massimo di sei mesi rinnovabili. Quanto e come sono cambiate le cose dopo il sette ottobre? La situazione è notevolmente peggiorata. La vita dei prigionieri è diventata più complicata e difficile. C'è stato un aumento delle violazioni commesse sui detenuti, sia fisiche che psicologiche. Tutto questo accadeva anche in passato… Sì, ma quello che abbiamo registrato è che è aumentata l'intensità delle torture e delle violenze dopo il 7 ottobre. Come una sorta di punizione collettiva estesa a tutti i prigionieri palestinesi e, indirettamente, anche alle loro famiglie. Fame, isolamento, negazione delle cure mediche, torture nelle celle o durante gli interrogatori sono diventate la norma. È cambiato poi anche il numero dei prigionieri nelle carceri. Le celle che prima contenevano sei persone, ora ne contengono 12. Ci sono stati morti in carcere? Si stima che dall'inizio della guerra 57 prigionieri provenienti da tutte le province palestinesi siano morti nelle carceri israeliane a causa di torture, condizioni disumane, abusi sistematici e attacchi deliberati. Tra questi, 38 erano prigionieri di Gaza.