Il sovraffollamento delle carceri è responsabilità di chi governa ora, non solo di chi c’era prima di Francesco Petrelli* Il Foglio, 21 agosto 2024 Alla base dell’emergenza sociale che coinvolge il sistema penitenziario c’è una storia fatta di continue omissioni e silenzi. Di fronte a una simile, nefasta, mancanza di prospettive occorre un esame di coscienza da parte della politica. Capita di poter avere ragione e torto al tempo stesso. Quando la senatrice Bongiorno ammonisce ricordando che “se siamo al sovraffollamento” la responsabilità è dei governi precedenti, dice una cosa vera perché gravi sono state le omissioni della politica intera e gravissime le mancanze di coloro che oggi rappresentano l’opposizione. Ma tali responsabilità diffuse non elidono affatto l’obbligo che grava sul governo attuale di risolvere quella emergenza sociale e politica giunta al suo apice critico. Quando vigili del fuoco, rianimatori, chirurghi e forze dell’ordine intervengono per porre rimedio alle urgenze del caso, non si attardano a ragionare circa la loro personale responsabilità nella produzione di quegli eventi nefasti. E tanto meno si impegnano, piuttosto che a risolvere l’emergenza in atto, a immaginare e progettare rimedi per un tempo futuro, necessari anch’essi, ma certo privi di quella concretezza e tempestività che il caso richiede. Ha ragione la senatrice quando dice che è “inaccettabile che si attribuisca a questo governo un problema antichissimo”, ma ciò che si rimprovera non è affatto di averlo provocato (nonostante alcuni tentativi idonei che vanno in tal senso) ma di non fare nulla per risolverlo. Di prospettare rimedi inconsistenti nonostante l’incedere di una crisi devastante e inarrestabile, che ha nei sessantaquattro suicidi solo il sintomo più drammatico. Di fronte a simili tragedie si interviene d’urgenza, non si almanacca del passato e del futuro. Si opera efficacemente sul presente. Quando poi la senatrice Bongiorno dice che provvedimenti di “indulto” o “svuota carceri” sarebbero “anacronistici” e che chi “all’improvviso viene rimesso in libertà torna a delinquere” opera una arbitraria semplificazione. C’è infatti da chiederle come pensa che vivano il loro ritorno in libertà coloro che per fine pena escono dall’inferno di Sollicciano, di Canton Mombello, di Poggioreale e di quante altre strutture carcerarie in sofferenza, che non sono in grado di garantire né umanità né dignità. Occorre chiedersi di quale trattamento risocializzante abbiano potuto fruire in quei luoghi e in che modo le condizioni di deprivazione in cui sono stati costretti a vivere potranno costruire quella auspicata prospettiva di vita migliore che la pena costituzionalmente intesa avrebbe dovuto garantirgli. Come ben sa la senatrice quel “tendere” alla rieducazione, come recita l’art. 27 della nostra Costituzione, riguarda la non coercibilità della compliance del condannato, ma non l’offerta trattamentale dello stato. Cosa dovremmo rispondere a tutti coloro che escono dal carcere dopo aver scontato la loro pena facendo esperienza dell’incapacità dello stato di rispondere ai propri obblighi. Dopo aver visto la sua inidoneità “a garantire la dignità dei detenuti”, che - al contrario - per la senatrice Bongiorno dovrebbe essere onere inderogabile dello stato nei confronti di tutti i condannati, esposti al contrario a quel trattamento inumano e degradante del quale ha dato cruda esemplificazione la lettera citata dal presidente Mattarella. Questo credo che sia il vero scandalo, questa la “resa dello stato”. Se, invece, con un provvedimento responsabile, il governo riconoscesse la tragedia in atto e varasse subito provvedimenti di clemenza condizionati e generalizzati o incrementasse in maniera consistente la liberazione anticipata in favore dei soli condannati meritevoli, si ridarebbe non solo immediato respiro alle strutture carcerarie, ma si farebbe un atto di giustizia riparatrice e si porrebbe in essere un atto di lealtà istituzionale. *Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Record di suicidi, aggressioni e polemiche: il Capo delle carceri italiane è sotto accusa di Nello Trocchia Il Dubbio, 21 agosto 2024 Alla guida del Dap c’è Giovanni Russo, un magistrato di lungo corso che finora non ha inciso sul sistema. Per i sindacati racconta una realtà che non esiste. Il direttore di un istituto spiega l’abbandono nel quale operano i dirigenti: “Non ci ha mai ascoltati, la distanza è ormai incolmabile”. “Un numero due passato presto all’irrilevanza”. La frase, pronunciata da un funzionario che conosce bene il carcere, descrive vita, opere e fallimenti di Giovanni Russo, magistrato e dal dicembre 2022 capo dell’amministrazione penitenziaria. Il Dap è il dipartimento del ministero della Giustizia che dovrebbe occuparsi dell’universo carcere. Il condizionale è d’obbligo, visto che il sistema è ormai collassato. Uno stallo che è dovuto anche al conflitto tra le anime che convivono nel palazzo di via Arenula e che hanno trovato, quasi due anni fa, una complicata mediazione puntando proprio su Russo. Il sostituto di Gratteri - Il numero uno del Dap ha una lunga esperienza alle spalle iniziata, negli anni Ottanta, nella procura calabrese di Castrovillari prima di trasferirsi da pubblico ministero a Napoli, terra natia (è originario di Marigliano). Una carriera che lo ha portato alla Dna, la Direzione nazionale antimafia, dove è diventato sostituto procuratore, prima di assumere l’incarico di aggiunto. Per alcuni mesi è stato anche reggente in Via Giulia, quando l’ex capo Federico Cafiero De Raho, oggi deputato del M5s, è andato in pensione. Era lì quando negli uffici della direzione nazionale lavorava Pasquale Striano, militare della guardia di Finanza, finito sotto indagine della procura di Perugia perché avrebbe effettuato illegittimamente migliaia di accessi alle banche dati. L’inchiesta coinvolge alcuni giornalisti (tra gli indagati c’è anche chi scrive) e il magistrato Antonio Laudati che era un gradino sotto nella scala gerarchica di Russo, quest’ultimo estraneo alle indagini. Eppure gli strali delle destre, nei giorni caldi in cui i giornali raccontavano la vicenda, si concentravano unicamente sulla gestione De Raho, salvando Russo da qualsiasi critica. Il magistrato è fratello di Paolo, per anni deputato di Forza Italia, e poi transitato in Azione. Nei giorni della scelta del nuovo capo del Dap Fratelli d’Italia spingeva per Nicola Gratteri, oggi procuratore capo a Napoli, ma alla fine l’accordo di coalizione è arrivato sul nome di Russo, la seconda scelta, spinto anche dal potentissimo sottosegretario, Alfredo Mantovano. “Per capire l’impossibilità di cambiare registro devi partire da una domanda, perché, in stagioni politiche diverse, Nino Di Matteo e Gratteri sono arrivati alle porte del dipartimento e poi sono stati scalzati dalla poltrona più alta? Perché sarebbe cambiato tutto, invece, oggi comanda la burocrazia ministeriale e vince il Gattopardo”, dice chi conosce a menadito personale, carcere e dipartimento. Il sistema carcere è al collasso, ci si avvicina al record di suicidi, siamo a 66 tra i detenuti e sette tra gli agenti penitenziari, ogni giorno si registrano rivolte, sommosse, feriti e violenze. Un bollettino di una guerra che in tv quasi non si vede come se non esistesse. Il principale sindacato dei dirigenti di polizia penitenziaria era arrivato addirittura a suggerire ai parlamentari che si recano in carcere a Ferragosto di evitare le visite “perché si portano dietro le scie di rivolta”. Raggiungiamo un direttore di un carcere di media grandezza che, dietro l’anonimato, racconta lo stato di abbandono e isolamento. “Non siamo in grado di esercitare alcuna prerogativa propria del ruolo poiché privati di qualsiasi potere connesso alla funzione. Siamo responsabili di qualsiasi cosa possa accadere all’interno di un carcere ma non abbiamo alcun potere per gestirlo: l’autonomia contabile è limitata poiché ci sono pochi fondi destinati alla manutenzione ordinaria, negli istituti manca tutto anche sistemi contro le intrusioni. Abbiamo una quantità di detenuti psichiatrici abbandonati unicamente agli agenti”, dice. E Russo? “Le interlocuzioni con i vertici sono solo censorie, non siamo mai stati ascoltati dal capo. La distanza tra politica penitenziaria e strutture periferiche è ormai incolmabile”, conclude, ricordando la difficoltà di rilasciare interviste per via delle tardive autorizzazioni. Le sospensioni a caso - Alla distanza con i direttori si aggiunge la questione delle sospensioni che crea malumore tra gli agenti. Ci sono poliziotti riammessi in servizio, come nel caso dei registi del pestaggio e del depistaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, mentre altri restano sospesi per vicende diverse e meno gravi, senza dimenticare quelli indagati e promossi, come raccontato più volte da Domani. Alla bocciatura della gestione Russo si aggiungono anche i sindacati, ma solo alcuni. “Ci ha convocati la prima volta per il saluto di presentazione il 26 gennaio del 2023 e la seconda il 31 luglio scorso (dopo un anno e mezzo). In mezzo il vuoto. Nell’ultima riunione ha dipinto una situazione lontanissima da quella reale”, dice Gennarino De Fazio, che guida la Uilpa. “Il nulla cosmico di Russo è dovuto anche al protagonismo di Delmastro che è riuscito in un’unica operazione, quella di farsi amare da quasi tutti i sindacati. Non è da escludere un possibile avvicendamento, Russo diventerebbe la vittima sacrificale del disastro”, dice Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato di polizia penitenziaria. Al posto di Russo sarebbe già pronta la preferita di Fdi e di Delmastro, Lina Di Domenico. Solo un’ipotesi, la realtà è che il carcere è al collasso. Il silenzio del Garante nazionale dei detenuti sull’emergenza nelle carceri di Giulia Merlo Il Domani, 21 agosto 2024 Nominato dalla maggioranza senza audizioni, l’Ufficio del Garante non ha di fatto rilasciato dichiarazioni sull’emergenza carcere, ma solo report numerici. A sopperire sono intervenuti i Garanti territoriali. Che fine ha fatto il Garante nazionale delle persone private della libertà? Nella drammatica crisi del nostro sistema di detenzione, con un sovraffollamento medio del 130 per cento e un numero record di suicidi sia di detenuti che di poliziotti penitenziari, la voce del soggetto indipendente deputato a intervenire non si sente. Dall’Ufficio del Garante - composto dal presidente ed ex deputato di Fratelli d’Italia Felice d’Ettore, da Irma Conti e Mario Serio - non è arriva alcuna dichiarazione per chiedere un impegno maggiore del governo o interventi anche di tipo emergenziale per fare fronte a un agosto dalle temperature torride in strutture detentive ormai ben oltre i limiti della capienza. Le uniche dichiarazioni reperibili nell’ultimo mese hanno riguardato la fredda fotografia dei numeri, reperiti dai dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Si dirà: i numeri parlano da soli. Spulciando nel report, si trova anche un’affermazione che, seppur espressa con lessico burocratico, confuta parzialmente quanto sostenuto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio: secondo l’analisi comparativa “è ipotizzabile che all’aumentare del sovraffollamento si possa associare un incremento di quegli eventi critici che, più di altri, sono espressione del disagio detentivo, quali atti di aggressione, autolesionismo, suicidi e tentativi di suicidio”. Traggano i lettori le dovute conclusioni, perché qui si ferma la lettura dell’Ufficio del Garante. Dello stesso tenore sono anche i comunicati delle visite nelle carceri che sino ad oggi i tre membri dell’ufficio hanno portato avanti: foto di rito coi vertici dell’istituto e della polizia penitenziaria e nome dell’istituto visitato. Nessuna considerazione aggiuntiva che chiarisca lo stato delle strutture visitate, eventuali difficoltà rilevate o istanze da sollevare presso il ministero. Da che dunque il Garante era stato istituito come figura terza e indipendente che doveva appunto accendere un faro sulle condizioni detentive, in virtù dei suoi estesissimi poteri ispettivi, oggi quella luce appare definitivamente spenta. Esattamente questo, del resto, era stato il timore manifestato dalle opposizioni al momento della nomina di D’Ettore, politico della stessa area del governo e senza alcuna precedente esperienza in materia di carceri. Tanto che, al momento della nomina, il centrodestra aveva irritualmente impedito la sua audizione nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato e rimbalzato le critiche rispetto alla provenienza smaccatamente politica del Garante. I Garanti territoriali - Per sopperire a questo costante silenzio sono scesi in campo invece i garanti territoriali e il loro coordinamento, che in questi mesi hanno preso in mano le redini delle iniziative per sollevare l’attenzione sull’emergenza carceri. Già ad aprile, infatti, il portavoce dei garanti territoriali Samuele Ciambriello, nel denunciare lo “stillicidio insopportabile” di morti “in carcere e di carcere”, aveva annunciato iniziative in tutta Italia e soprattutto dato parere positivo in un documento ufficiale alla proposta di legge Giachetti che portava a 60 i giorni di liberazione anticipata speciale: “Si guarda con favore ad ogni misura immediatamente deflattiva del sovraffollamento”. Il Garante nazionale, invece, in audizione aveva espresso il suo no al testo (su cui anche il governo era contrario): “rimedio sintomatico, servirebbe una risposta sistemica”. Nel frattempo il sovraffollamento ha continuato ad aumentare. Fino allo strappo definitivo, consumato con il via libera al decreto carceri. Al momento dell’approvazione di una misura che - a detta di tutti gli operatori - poco o nulla inciderà sull’emergenza, il Garante nazionale non è intervenuto. Una dura presa di posizione, invece, è arrivata dal coordinamento dei garanti territoriali, con Ciambriello che ha sottolineato come “questo decreto si riconferma una scatola vuota per i detenuti e inutile per fronteggiare l’emergenza carceraria”. L’ennesima sovrapposizione antitetica, l’ennesimo silenzio del Garante nazionale che non aiuta a smentire la critica di una sua eccessiva contiguità col governo. Suicidi in carcere, Anm spaccata. E Magistratura Indipendente detta la linea del silenzio di Valentina Stella Il Dubbio, 21 agosto 2024 Il presidente del sindacato delle toghe prova a rompere il muro insieme a Md e AreaDg. Ma al momento prevale la magistratura più “conservatrice”. Due giorni fa l’Associazione Nazionale Magistrati si è affrettata a diramare una breve nota per ribattere in merito alla querelle sollevata dal Giornale su un presunto complotto tra magistratura, stampa, politica contro la sorella della premier Giorgia Meloni. Un ritrovato protagonismo che arriva dopo un silenzio “ostinato” perché nessun comunicato in queste ultime settimane sulla questione carceraria? Eppure c’è una evidente emergenza, se si pensa al sovraffollamento e ai suicidi negli istituti di pena, tanto è vero che tanti in questi giorni hanno detto la loro per denunciare sia l’inadeguatezza del decreto carceri sia le successive mosse del Ministro Nordio dopo l’approvazione: garanti, avvocatura, associazioni di volontariato, cappellani, partiti di sinistra. Nulla dall’Anm. Il motivo potrebbe risiedere nel fatto che la magistratura associata non abbia una visione unanime su quale risposta suggerire al legislatore per porre fine al dramma che si sta vivendo in carcere in questa infernale e mortale estate. Chi impedirebbe di prendere una posizione forte e compatta per denunciare la gravità della situazione sarebbe la corrente più conservatrice di Magistratura Indipendente. Basta riprendere le istantanee di questi ultimi mesi. Ad aprile, al termine di un Comitato direttivo centrale, l’Anm aveva approvato una mozione all’unanimità ma molto al ribasso rispetto alle reali esigenze degli istituti di pena e dei reclusi. Il dibattito che l’aveva preceduta aveva fatto emergere la distanza profonda che esiste all’interno della magistratura sul tema. Da una parte appunto MI, con una visione decisamente carcerocentrica della pena, dall’altra le correnti progressiste, AreaDg e Magistratura Democratica, con una prospettiva volta all’umanizzazione della stessa. Unicost si è attestata nella posizione del mediano. Enrico Infante di Mi aveva detto, e lo si può risentire tutto su Radio Radicale: “già con la Cartabia le sanzioni sostitutive sono ampliate a 4 anni. Ancora dobbiamo ampliare? Il nostro sistema penale si è eccessivamente illanguidito, sbracato dire. Giorgio Marinucci, penalista iscritto a Rifondazione Comunista nel ‘ 95, diceva che con l’incremento dell’affidamento in prova e delle sanzioni sostitutive il nostro sistema si è disintegrato. L’efficacia deterrente della pena è venuta meno”. Oggi però le statistiche dicono altro sia in Italia che all’estero: meno carcere, meno recidiva. Stefano Celli di Md poi, parlando della circolare del DAP sulla “media sicurezza”, che ha riportato tutti gli istituti al precedente regime c. d. “chiuso”‘ ove i detenuti trascorrono venti ore all’interno di celle sovraffollate, perché le attività trattamentali da svolgere fuori dalle celle non ci sono, aveva detto: “durante il Covid siamo stati in un regime paragonabile agli arresti domiciliari per due mesi e sembrava che ci avessero tagliato una mano, due braccia, due gambe e noi stavamo a casa nostra nel nostro letto, cioè non in quattro in un letto, non in otto in una stanza dove normalmente si sta in due”. E dalla platea una esponente di Mi: “ma noi eravamo innocenti”. La stessa Loredana Micciché, Presidente di Mi, in una intervista a questo giornale a maggio aveva proposto la seguente soluzione: “Vanno costruite in fretta nuove carceri e reperiti locali utili da riconvertire. Riteniamo inoltre che vada valorizzata la rieducazione dei detenuti attraverso il lavoro, coinvolgendo al massimo le associazioni del terzo settore. Le carceri devono fare giustizia e non vendetta. Infine abbiamo proposto un potenziamento dell’assistenza medica, anche sul versante psicologico e psichiatrico”. Invece le correnti progressiste in questi mesi si sono dichiarate a favore dell’amnistia, dell’indulto e della proposta Giachetti-Nessuno Tocchi Caino sulla liberazione anticipata speciale. Ma lo hanno dovuto fare con singole prese di posizione. Così come si è espresso criticamente più volte il presidente dell’Anm Santalucia. Proprio l’11 luglio aveva partecipato alla maratona oratoria organizzata dall’Unione Camere Penali per denunciare lo stallo del Governo rispetto a sovraffollamento, carcere, morti di Stato: “Anche noi abbiamo cercato nel nostro piccolo di rappresentare al ministro la drammaticità aggiungendo la nostra voce a quella dell’avvocatura penale chiedendo interventi importanti ed efficaci nel brevissimo periodo. Avvocatura e magistratura sono fortemente sensibili al tema. La drammaticità dei suicidi è l’attestazione più evidente che bisogna intervenire”. E aveva poi criticato il dl carceri: “ci saremmo aspettati di trovarvi qualche misura che potesse decongestionare il carcere nell’immediato. E invece nulla. Capisco le esigenze securitarie ma dico a chi le porta avanti che non c’è migliore sicurezza della società di un carcere in cui si rispetti la sua missione costituzionale”. Infine all’incontro organizzato da Andrea Pancani, nell’ambito della kermesse Mediterranea organizzata a Sabaudia il primo agosto, sempre Santalucia in un dibattito acceso con il vice ministro Sisto, aveva detto: “Ci furono i suicidi durante Mani Pulite ma oggi ne abbiamo oltre 60 e non credo che siano meno importanti di quelli di allora. Noi insieme all’avvocatura abbiamo chiesto alla politica di intervenire”. Bisogna anche specificare che Santalucia non ha mai specificato di parlare a titolo personale e né a seguito delle sue dichiarazioni ci sono state dichiarazioni o interviste di esponenti di Mi per rimarcare la loro diversa posizione. Che sia il sintomo di un cambio di sensibilità che spingerà tutti i gruppi associativi a sottoscrivere un documento per denunciare la situazione? Lo capiremo nel prossimo comitato direttivo centrale che si terrà il 14 e 15 settembre. Suicidi nelle carceri: il “prima si salva” non è nel Dna del governo Meloni di Luca Casarini L’Unità, 21 agosto 2024 Un provvedimento immediato, utile a fare uscire una quota di esseri umani, e i 28 bambini per primi che sono un abominio, in modo da rispondere subito al grido di sofferenza e di morte che da anni giunge dal carcere, dovrebbe essere un atto “ovvio” per chiunque si dica umano. Si può discutere di tutto. Del sistema penale, della sua deriva dallo stato di diritto allo stato di polizia. Della giustizia, che è subordinata alla diseguaglianza materiale nella quale la legge non è uguale per tutti. Dall’altro canto i governanti potrebbero invece opporre l’idea che questo è il modo migliore possibile di gestire una dinamica sociale, per impedire la guerra civile e il disastro totale. Potrebbero dire, e lo dicono, che l’alternativa può essere anche peggio, sventolando le foto con gli impiccati di Teheran. Si può dire tutto. Ma difronte ad uno e più suicidi al giorno nelle carceri, difronte alla condizione disumana, di tortura, contro migliaia e migliaia di esseri umani, non si dovrebbe anteporre il dibattito al fare subito qualcosa di concreto. E cioè, in virtù di questa condizione, promuovere immediatamente un provvedimento di uscita dal carcere per migliaia di detenuti e detenute che potrebbero scontare la pena a casa o in maniera alternativa. Prima si salva, dalla morte e dalla tortura, e poi si discute. Ma è proprio sul “prima si salva” che il potere misura di che pasta è fatto. L’ho visto in tanti anni per mare, lo rivedo a terra: il “prima si salva” non è nel dna di questa gente che ha il potere. La civiltà invece, dovrebbe basarsi proprio su quanto “prima si salva” è insito nell’esercizio di ogni potere. La differenza tra il mero utilizzo del potere, e la funzione di governo attraverso quel potere, è anche determinata da questo, dal livello di “prima si salva” contenuto nell’atto pubblico della gestione sociale. Lo spettacolo vergognoso che abbiamo davanti è invece quello di un potere che discute “se salvare”. In carcere, come in mare. Un provvedimento immediato, utile a fare uscire una quota di esseri umani, e i 28 bambini per primi che sono un abominio, in modo da rispondere subito al grido di sofferenza e di morte che da anni giunge dal carcere, dovrebbe essere un atto “ovvio” per chiunque si dica umano. E invece, quando delle nullità, dei miserabili di coscienza e di anima, prendono il potere, accade questo. Giocano con la morte degli altri, di quelli che di potere non ne hanno. Non governano, comandano. Secondo la loro attitudine, deboli con i forti e implacabili con i deboli. E cosi, la loro miseria umana diventa un’aurea che avvolge l’intera società, facendo diventare questa l’immagine di ciò che siamo. Le nullità, i miserabili sadici con il potere in mano, fanno grandi grandissimi danni. Irreparabili quando causano la morte. Per superare l’affollamento delle carceri +Europa propone il “numero chiuso” di Elisa Calessi Libero, 21 agosto 2024 Il segretario Magi: “Liberazione anticipata dei detenuti e capienza fissata per legge in ogni istituto penitenziario”. Il Verde Bonelli: “Bloccare subito il decreto Nordio”. Prevedere il “numero chiuso” per l’ingresso nelle carceri. Un po’ come si fa per alcune università. La proposta è di Riccardo Magi, segretario di +Europa, e si aggiunge à dibattito innescato, come ogni estate, ma forse quest’anno di più, dall’inaccettabile sovraffollamento delle carceri e dai troppi casi di suicidi. “Il governo”, ha spiegato il segretario di +Europa, “ha una responsabilità politica diretta della situazione drammatica delle carceri”. Ha aggiunto che nel decreto carceri, approvato dal Parlamento poco prima della pausa estiva, “non c’è nulla che abbia un effetto immediato deflattivo rispetto ai numeri che ci sono, inoltre l’impennata degli ingressi in carcere registrata negli ultimi mesi è direttamente collegata alle misure di aumenti di pene o creazione di nuovi reati”. Serve, non c’è dubbio, una soluzione. Lo dice il buon senso, la civiltà e l’Unione europea che continua a condannare l’Italia per lo stato delle sue carceri. Qual è, dunque, la soluzione? Non costruire nuove carceri, come propone la maggioranza (o meglio una parte di essa). Il segretario di +Europa lancia due proposte. Primo, “una misura di rafforzamento della liberazione anticipata speciale, su cui c’è già una proposta a prima firma Giachetti”. Secondo, “prevedere il numero chiuso negli istituti penitenziari rispettando la capienza regolamentare del sistema penitenziario italiano”. Ogni carcere ha una sua capienza. Se si raggiunge, stop agli ingressi. E se uno deve essere recluso? Si trova altro. Infine, “riformare il carcere: noi abbiamo depositato una proposta di legge affinché chi ha meno di un anno di pena da scontare possa farlo nelle case di reinserimento sociale, strutture volte alla formazione lavorativa e alla formazione professionale. Inoltre va rispettata anche la sentenza della corte costituzionale sull’affettività in carcere”. Altra proposta arriva, poi, da Alleanza Verdi e Sinistra: se “Forza Italia ha a cuore il problema del sovraffollamento delle carceri”, ha detto ieri Angelo Bonelli, “blocchi” il decreto Nordio che, “per stessa ammissione del ministro Nordio non risolve il problema del sovraffollamento e dei suicidi e si torni in Parlamento per varare nuove norme, che vogliano risolvere il problema seriamente, in questo caso noi saremo pronti à confronto”. Intanto Forza Italia continua, come altri partiti, il giro negli istituti penitenziari. Ieri Mauro D’Attis, vicepresidente della commissione nazionale Antimafia ha visitato le case circondariali di Brindisi e Lecce, nell’ambito dell’iniziativa fortemente voluta dal segretario nazionale, Antonio Tajani. In entrambe le strutture, ha spiegato il parlamentare azzurro, “abbiamo registrato un importante sovraffollamento e una significativa carenza di organico: una circostanza che determina condizioni delicate e richiede un immediato potenziamento del numero di agenti di polizia penitenziaria”. Raffaele Nevi, invece, portavoce nazionale di Fi, ha visitato la casa circondariale di Perugia-Capanne, parlando di un “grave problema che riguarda il comparto sanitario”, essendoci “diversi detenuti con problemi psichiatrici importanti”. No ai ricatti sulle carceri: abbiamo un piano per l’edilizia da 250 milioni di Andrea Delmastro* Libero, 21 agosto 2024 C’è da chiedersi perché gli esecutivi precedenti non siano intervenuti: la sinistra si ricorda delle condizioni di vita dentro le celle solo quando è all’opposizione. I numeri dimostrano che le misure alternative funzionano. Caro direttore, ho letto la riflessione che lei ha aperto sul sovraffollamento e sulla necessità di un imponente piano di edilizia carceraria, Condivido integralmente il suo pensiero e il governo sta agendo coerentemente: da quando sono nato esiste il sovraffollamento, da quando sono nato ciclicamente arrivano svuota-carceri, variamente definiti, che altro non rappresentano che colpi di spugna che erodono la certezza della pena e aggravati dal fatto che non hanno funzionato se siamo in queste condizioni. Il successivo intervento di Salvatore Buzzi mi trova, invece, in disaccordo e vorrei, seguendo pedissequamente il ragionamento articolato in nove punti, provare ad articolare i motivi del mio dissenso e l’operato del Governo. O Buzzi sostiene che sia fisiologico per un governo di centrodestra costruire nuove carceri e si chiede perché i vari governi che si sono susseguiti non lo abbiamo fatto. Me lo chiedo anche io, estendo la mia domanda ai governi di centrosinistra che si sono succeduti in questi ultimi anni. La capienza detentiva fa parte della umanizzazione della pena che, evidentemente, interessa alla sinistra quando è all’opposizione. Un inciso: non dovrebbe essere “fisiologico” costruire nuove carceri solo per la destra: se mancano posti detentivi sarebbe fisiologico costruire nuove carceri a prescindere da chi governa. Buzzi indica il numero esorbitante di detenuti in misura alternativa, numero superiore ai detenuti reclusi. Tanto dimostra che le misure alternative funzionano e vi si fa ricorso, a differenza di quanto sostenuto nel lunare dibattito esploso questo agosto e volto a tentare di piegare il governo all’ennesimo svuota carcere Buzzi si duole del fatto che i governi del centrodestra aumenterebbero la lista dei reati. Non capisco il senso della critica. Se mancano previsioni normative volte a contrastare chirurgicamente condotte delittuose perché non introdurle? Per il sovraffollamento? Inseguendo questa logica se abolissimo ogni reato saremmo a posto. Più seriamente Lei ricorda direttore quando l’Italia era maglia nera europea di rave party? Quando ogni spallone veniva in Italia a violare decine di leggi, financo quelle relative al traffico di sostanze stupefacenti? Bene! Abbiamo orgogliosamente introdotto la nuova figura di reato e l’aria è cambiata. O Buzzi lamenta che avanzare proposte sulla liberazione anticipata e sugli sconti di pena, alimenta aspettative, successive delusioni e quindi rivolte. Fermo restando che ritengo legittima ogni proposta politica della opposizione, questa critica certo non può essere rivolta al governo. Se poi il luciferino ragionamento fosse volto a sostenere che, poiché l’opposizione avanza la proposta di un nuovo svuota carceri, la maggioranza deve cedere perché diversamente esplodono le rivolte, la risposta deve essere netta. Nessuno può sognarsi di governare dall’opposizione con idee di sinistra perché la destra ha paura di fare la destra: nessuno svuota carceri con il governo Meloni a prescindere da pressioni di qualsivoglia natura Buzzi lamenta sovraffollamento e strutture carcerarie non adeguate. Condivido la fotografia impietosa che inchioda i governi precedenti alle loro responsabilità. Sono orgoglioso che il governo Meloni, viceversa, abbia già investito in meno di due anni oltre 250 milioni di euro per un imponente piano di edilizia carceraria che dovrebbe, secondo le stime, far recuperare 7.00iD dei 10.000 posti detentivi mancanti. Nel Dl Carceri abbiamo poi previsto proprio la figura del Commissario per l’edilizia penitenziaria per accelerare l’esecuzione dei lavori. Questa è la risposta di un Governo di centrodestra che non ha paura delle sue idee. Buzzi lamenta che mancano agenti, direttori e educatori, cioè coloro che sono preposti alla rieducazione del detenuto. Qui Buzzi non ha informazioni aggiornate. Il governo Meloni ha assunto direttori per la totale copertura dei posti vacanti, il governo Meloni ha, per la prima volta, saturato la pianta organica degli educatori. Chi ci ha preceduto faceva appelli da salotto per la rieducazione del detenuto, noi abbiamo assunto le figure professionali che devono fare il trattamento. In ordine agli agenti di polizia penitenziaria è difficile recuperare circa quindici anni di mancate assunzioni in cui nemmeno si garantiva il turn over per il personale che andava in quiescenza. Sono però orgoglioso che in questi 20 mesi di governo siano state finanziate circa 7.000 assunzioni non solo per garantire il totale turn over degli agenti, ma anche per garantire 2.000 assunzioni in più rispetto allo stato catastrofale che abbiamo ereditato. È più facile distruggere che costruire e fa più rumore un albero che cade fino a foresta che cresce, ma la foresta sta crescendo! O Buzzi lamenta che i nuovi reati introdotti dal governo Meloni a tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico aumentare la popolazione carceraria. Ho già risposto al punto 3 e a quello rimando Buzzi critica la scarsità di magistrati di sorveglianza. Condivido e vale per tutti i magistrati. Questo abbiamo ereditato. Sono orgoglioso di poter confermare che abbiamo già trovato le risorse e parzialmente indetto i concorsi per magistrati per saturare, entro la fine del nostro mandato, la pianta organica della magistratura. Avessero fatto altrettanto in passato. Buzzi conclude che non rimane altro che approvare la misura Giachetti. Alla fine mi sembra di poter dire che si scopra il luciferino e non condiviso ragionamento di cui al punto 4. Non rimane che cedere, che gettare il colpo di spugna e accettare uno svuota carceri. No, non è nelle corde del cuore di questo governo che, in ambito penale, si muove su un binario parallelo: enfatizzazione del principio di non colpevolezza per indagati e imputati e certezza della pena per condannati. Mi basti dire che l’omicida di Marco Biagi, con questa proposta, sarebbe uscito molto tempo prima. *Sottosegretario alla Giustizia Istituire una “Giornata di verità sulle carceri”: la proposta dell’Osapp al Governo avellinotoday.it, 21 agosto 2024 Il sindacato vorrebbe che si istituisse tale giornata il 3 settembre, giorno dell’anniversario dell’assassinio del Generale Dalla Chiesa. “Lo Stato dev’essere presente e visibile.” Le parole di Carlo Alberto Dalla Chiesa riecheggiano come un’accusa in un sistema carcerario che di visibile ha solo le mura di cinta. L’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) propone di istituire il prossimo 3 settembre, anniversario dell’assassinio del Generale Dalla Chiesa, una giornata di verità sulle nostre carceri. Afferma Leo Beneduci - segretario generale del sindacato: “Una verità che squarci il velo di ipocrisia che avvolge gli istituti penitenziari e gli uffici del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) su quello che realmente accade nelle carceri italiane. Se dovessimo realizzare una diretta streaming con gli istituti penitenziari, tra gli altri di Prato, Torino, Roma-Regina Coeli, Foggia, Napoli-Poggioreale, Palermo, etc. cosa vedremmo? Non luoghi di riabilitazione, ma centrali dello spaccio, corridoi dove droga, soldi e telefoni cellulari - le nuove scatole nere della criminalità - passano di mano in mano. Celle trasformate in laboratori chimici e distillerie, Poliziotti penitenziari sopraffatti un sistema che li ha abbandonati.” Il Governo parla di decongestionare le carceri, ma Beneduci avverte: “Non sono persone rieducate quelle che usciranno. Sono bombe a orologeria, purtroppo”. L’OSAPP propone: le porte si aprano solo per chi da sei mesi non ha infrazioni disciplinari e risulti negativo ai test tossicologici. “Ma quanti potrebbero essere? Quanti hanno avuto la possibilità di redimersi nell’inferno di cemento e sbarre?”. Il quadro che l’Osapp dipinge è apocalittico: carceri come supermercati della droga, programmi di disintossicazione fantasma, sovraffollamento che alimenta nuove alleanze criminali. Un’amministrazione penitenziaria priva di progetti e risultati, che ‘spreca’ centinaia di migliaia di euro in missioni. costosissime quanto inutili e promozioni per meriti eccezionali discutibili, mentre i tribunali annegano in un mare di ricorsi, denunce e richieste di risarcimento. Il leader dell’Osapp sfida apertamente i vertici: “Nordio, Russo, Ministro Guardasigilli e Capo del Dap, avete il coraggio di Dalla Chiesa? Aprite le porte della verità. Mostrate all’Italia cosa viene scaricato sulle strade e nei quartieri. Mostrate i volti, raccontate le storie, fate vedere come è ridotto il sistema penitenziari da anni.” “Il 3 settembre sia il giorno in cui il sistema penitenziario si guarda allo specchio e invece della legalità e del recupero sociale vede quale ‘mostro’ è cresciuto e pasciuto in carcere”, conclude il sindacalista “perché solo prendendo coscienza della verità, tutti quanti, politica compresa ed in prima fila, potremo cambiarla. Altrimenti, continueremo a vivere nell’illusione di una giustizia che non esiste, mentre il cancro della criminalità si diffonde, nutrito dalla nostra stessa indifferenza.” La sfida è lanciata: Verità o menzogna? Coraggio o codardia? Dalla Chiesa o l’oblio? “Decidete,” ammonisce Beneduci, “ma ricordate: non impedire un evento a volte equivale a cagionarlo”. L’autunno caldo della giustizia: il governo prepara la stretta sulle toghe di Liana Milella La Repubblica, 21 agosto 2024 Dalla legge-bavaglio alla separazione delle carriere alle modifiche sulla Severino, il centrodestra accelera. Nel mirino di Nordio la custodia cautelare. Potrebbe passare alla storia come “l’autunno caldo” della giustizia. Per via della forza dei numeri di una maggioranza di governo che, proprio se si parla di arresti e inchieste, vede in piena sintonia le idee e soprattutto le proposte di Enrico Costa di Azione. Non fosse bastato il bavaglio ai giornalisti - segreta l’ordinanza di custodia cautelare, tranne il solo capo d’imputazione, cioè poche righe, “grazie” al sottosegretario Andrea Delmastro che sta per arrivare in consiglio dei ministri - ecco l’ultimissima idea di Costa, l’intervento del giudice disciplinare sui magistrati nei casi di un’accertata ingiusta detenzione. Destinate alla discussione in aula e al voto proprio le misure nettamente berlusconiane, dalla separazione delle carriere delle toghe, al progetto di smontare la legge Severino sull’incandidabilità dei condannati, al ddl Sicurezza. Un micidiale contenitore, in attesa da un anno, che mescola aumenti di pena ingiustificati, la norma ‘anti Ghandi’ per chi blocca una strada, la stretta sulla cannabis light, il tentativo protezionistico di affidare all’Avvocatura dello Stato l’azione penale sulle polizie, per finire col carcere per le donne incinte. “L’autunno caldo della giustizia” può giustificare il lancio mediatico del presunto complotto toghe-stampa-sinistra contro Arianna Meloni. Anche se non c’è una sola prova che ne dimostri l’effettiva esistenza. Ma la sola idea del complotto, sottoscritto dall’intera maggioranza, può spiegare - ed è questo il retroscena che si coglie parlando con più di un parlamentare di centrodestra - l’imminente stretta sulle toghe che si dipanerà tra Camera e Senato. Mentre il Guardasigilli Carlo Nordio sta già mettendo mano alle nuove regole sulla custodia cautelare. Anche qui un’altra idea di Enrico Costa, presentata con un ordine del giorno al decreto carceri e votato dalla maggioranza, propone di ridurre, se non eliminare, il presupposto della reiterazione del reato per giustificare l’arresto preventivo. Al pm resterebbero solo pericolo di fuga e inquinamento delle prove. Ma andiamo per ordine. La legge simbolo, anche perché costituzionale, è la separazione delle carriere. L’ha presentata a palazzo Chigi Nordio prima delle Europee, giusto dopo aver garantito, al congresso dell’Anm di Palermo, che i tempi sarebbero stati “lunghi”. Invece, due settimane dopo, in mezz’ora di Cdm, il ddl era pronto. Imposto dalla premier Meloni per le prime pressioni sulla giustizia di Antonio Tajani. Ora il ddl è nelle fidate mani di Nazario Pagano, presidente forzista della commissione Affari costituzionali. Lo tratterà a settimane alterne col premierato, ma con l’idea di bruciare i tempi per l’aula. In modo da arrivarci prima di Natale. Pure la modifica della Severino finirebbe nelle sue mani, eliminando la decadenza degli amministratori locali dopo la condanna di primo grado. Forse potrebbero resistere i reati più gravi. Idea che dovrà fare i conti con le sentenze della Consulta - ben due firmate dall’ex vice presidente Daria De Pretis - che nel 2015 hanno confermato la costituzionalità della legge. E sempre a Montecitorio, ma in commissione Giustizia, c’è il ddl sicurezza in cui Costa ha annunciato il suo emendamento, a cui pensa da tempo, per punire con un intervento disciplinare i giudici che hanno chiesto e ottenuto le manette ma sono stati poi bocciati dai colleghi nelle sentenze. Una proposta in sintonia con la stretta sulla custodia cautelare e che mira a ridurla in un’ottica “garantista”. Che piace a Nordio perché manda qualche detenuto in meno in prigione. Lui ha annunciato una sua stretta sulla carcerazione preventiva che potrebbe presentare in chiave svuota carceri. Infine intercettazioni e reati dei colletti bianchi. Manca il via libera dell’aula del Senato al ddl del forzista Pierantonio Zanettin per limitare a 45 giorni le intercettazioni, mentre la leghista Giulia Bongiorno si batte sempre per una revisione complessiva dei reati sulla Pubblica amministrazione che Nordio le promette da oltre un anno. L’Anm torna alla carica ma sulle carriere. La premier Meloni è decisa a non fare sconti di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 21 agosto 2024 Nei giorni dello scontro più duro con la magistratura, la premier Meloni fa sapere che non ha alcuna intenzione di trattare sulle riforme in agenda. E così, nei giorni del presunto complotto contro la sorella, il governo tira dritto sulla separazione delle carriere. Per Santalucia le polemiche servono ad accelerare la riforma. Pagano (Fi): “Avanti come previsto”. “Vengono costruite ad arte insidie del tutto inconsistenti per poi poter dire che la magistratura va riformata e dare così sostegno a riforme improvvide come quelle in cantiere”. Il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, nell’intervista concessa ieri a Repubblica per rintuzzare la tesi della maggioranza secondo cui vi sia una trama occulta delle toghe per indagare la sorella maggiore della premier e azzoppare così il governo, con un volo semi- pindarico ha finito per svelare ancora una volta cosa preme maggiormente ai magistrati in questa fase. Rifiutando sdegnosamente la teoria del complotto delle toghe, infatti, Santalucia ha montato quella del complotto contro le toghe, il cui fine primario del governo e dei media fiancheggiatori sarebbe quello portare a casa la contestata riforma dell’ordinamento giudiziario, licenziata dal Consiglio dei ministri prima delle elezioni europee, contente la separazione delle carriere e attualmente in esame alla commissione Affari costituzionali di Montecitorio, dove prima di entrare nel merito del provvedimento dovrà essere svolto un ciclo di audizioni. Il polverone sollevato dalle presunte indiscrezioni circa l’inchiesta a carico di Arianna Meloni per traffico d’influenze, dunque, stando alle tesi del numero uno dell’Anm, servirebbe non tanto per stoppare eventuali azioni della magistratura politicizzata, quanto per facilitare il percorso del ddl Nordio. Nello scontro ormai trentennale tra poteri che accompagna vita politica italiana vi sono fasi acute come la presente, e Santalucia continua a lavorare per sbarrare il passo alla riforma più invisa. Tanto che, alla domanda se la polemica di questi giorni fosse il pretesto per fare la riforma più in fretta, ha risposto “è assolutamente probabile”. Dalla masseria pugliese dove la presidente del Consiglio sta trascorrendo le proprie vacanze, però, sembra trapelare, almeno su questo punto, assoluta fermezza e determinazione nel non mettere in discussione la road- map prevista per il ddl costituzionale che reca la firma del Guardasigilli. Che il contrattacco delle toghe andasse a colpire proprio quel provvedimento era apparso dalle parti di Palazzo Chigi fin troppo prevedibile, ma da questo punto di vista le dichiarazioni rese dal capogruppo alla Camera di FdI, Tommaso Foti, una settimana fa costituiscono, nel ragionamento dell’inner circle meloniano, la prova inconfutabile che il percorso della riforma dell’ordinamento giudiziario non sarà legata o condizionata in alcun modo alle oscillazioni del dibattito politico sul tema. Lo scorso 14 agosto Foti, in un’intervista, ha detto chiaramente che in aula arriverà prima la separazione delle carriere, benché in commissione, per non scontentare nessuno, si sia deciso di procedere una settimana con l’esame del premierato e una col ddl Nordio. Una scelta dettata, secondo le ricostruzioni più accreditate, da una parte dall’esigenza di spostare in avanti nel tempo l’approvazione definitiva del premierato, in modo da celebrare il probabilissimo referendum sul finire della legislatura, evitando così scossoni all’esecutivo, dall’altra dalla necessità di dare soddisfazione a Forza Italia, maggiore sostenitrice della riforma, dopo l’approvazione dell’Autonomia, bandiera della Lega. Tra l’altro, confermare l’accelerazione sulla separazione delle carriere viene visto da Palazzo Chigi anche come un atto utile a calmare il pressing degli azzurri su altri fronti, a partire dallo ius scholae, spina nel fianco sia di FdI che della Lega. Qualcosa in più si potrà capire, da questo punto di vista, alla ripresa dei lavori parlamentari e più precisamente il quattro settembre, data in cui è stata fissata la riunione dell’ufficio di presidenza della Affari costituzionali di Montecitorio, integrato dai rappresentanti dei gruppi, che metterà a punto il nuovo calendario. Interpellati sulla questione, ieri sia il presidente di commissione Nazario Pagano che Pierantonio Zanettin (entrambi di Forza Italia) hanno affermato che l’esame del ddl Nordio procederà velocemente, secondo i tempi stabiliti, a prescindere dai “dibattiti agostani”. La questione, però, è abbastanza semplice: se la separazione delle carriere riuscirà ad approdare in aula entro il mese di novembre, prima cioè dell’inizio della sessione di bilancio, vorrà dire che il governo fa sul serio, se invece tutto slittasse a dopo la pausa natalizia, arrivare al 2025 senza aver completato una sola delle quattro letture necessarie, costituirebbe un serio indizio circa la mancanza di convinzione politica. Gli eventi degli ultimi giorni, in ogni caso, sembra abbiano rafforzato la determinazione della premier a non farsi condizionare e a tirare dritto sulla riforma. Tornando alle parole di Santalucia, la reazione più dura nel centrodestra l’ha provocata la parte in cui il rappresentante delle toghe ha chiesto al Csm (oggetto della riforma Nordio) di prender parte alla polemica incorso: “Il Csm”, ha detto Santalucia, “per Costituzione è chiamato a tutelare l’autonomia e indipendenza, e quindi anche l’immagine della magistratura”. Gli ha replicato, tra gli altri, il capogruppo di Fi al Senato Maurizio Gasparri, per il quale “ci vuole grande sfrontatezza per invocare la protezione del Csm” per un “uso politico della giustizia, che nel passato ha visto in Silvio Berlusconi il suo principale obiettivo e che oggi potrebbe essere rinnovato nei confronti dell’attuale governo”. Ingiuste detenzioni, l’idea Costa: “Adesso paghino anche le toghe” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 agosto 2024 Il deputato di Azione annuncia un emendamento al ddl Sicurezza. Dal 2018 al 2023 abbiamo speso più di 190 milioni, sanzioni solo nello 0,2% degli errori. “A settembre presenterò un emendamento al ddl sicurezza per fare in modo che ogni fascicolo di ingiusta detenzione pagata dallo Stato venga automaticamente trasmesso al titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, e anche alla Corte dei Conti. Oggi a pagare è solo lo Stato, non chi sbaglia”. Questo l’annuncio lanciato dal deputato e responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa dalla piattaforma X. Come ci racconta lo stesso parlamentare, negli anni è emerso “un quadro sconfortante: dal 2018 al 2023 sono state risarcite dallo Stato ben 4.368 persone ingiustamente arrestate, per una somma complessiva di 193.547.821. Ma paga solo lo Stato, perché a fronte di questi numeri, dal 2017 al 2023 sono state avviate appena 87 azioni disciplinari, con il seguente esito: 44 non doversi procedere, 27 assoluzioni, 8 censure, 1 ammonimento, 7 ancora in corso. Sanzioni solo nello 0,2% degli errori. I magistrati non pagano mai sul piano disciplinare. E cosa ha fatto questo governo? Di azioni disciplinari su casi di ingiusta detenzione ne sono state avviate, dal ministero della Giustizia, una nel 2022 e tre nel 2023, anni in cui complessivamente si sono pagati oltre 50 milioni di euro di riparazioni per ingiusta detenzione. Praticamente nulla, se pensiamo che Bonafede ne aveva avviate 22 nel 2019 e 19 nel 2020. A questo si aggiunga che il 95% delle segnalazioni disciplinari al procuratore generale della Cassazione è archiviato de plano, e che il ministero della Giustizia non si oppone mai a queste decisioni”. Ma come si arriva all’azione disciplinare? “Nel momento in cui una persona viene assolta in via definitiva, dopo aver trascorso un periodo in custodia cautelare, in carcere o ai domiciliari, si rivolge alla Corte di Appello competente per richiedere la riparazione per ingiusta detenzione. Nel 30 per cento dei casi le domande vengono accolte, nel 70 per cento no. Questo perché la legge prevede, secondo una formulazione assai controversa, che non debba essere risarcito chi avrebbe concorso, con dolo o colpa grave, all’errore del magistrato. Una postilla che consente alla giurisprudenza di negare il risarcimento nella maggioranza dei casi, attraverso il ricorso a varie acrobazie argomentative. Fino a poco tempo fa non si veniva risarciti, ad esempio, se l’indagato si avvaleva della facoltà di non rispondere: per fortuna siamo riusciti a modificare, di recente, quest’ultima previsione”. Secondo Costa “il punto cruciale è che la Corte d’appello stabilisce un risarcimento che verrà pagato dal ministero dell’Economia. Si tratta, dal 1992 ad oggi, di 874 milioni di euro complessivi. Lo Stato paga e finisce là. Il fascicolo del risarcito non viene trasmesso ad alcuno: non c’è chi sia chiamato a valutare se dietro l’ingiusta detenzione vi sia stata una responsabilità del magistrato”. Invece per il deputato “se un amministratore comunale sbaglia e provoca un danno erariale, viene aperto un procedimento, e si valuta se il suo comportamento sia causale rispetto al danno erariale: ebbene, così dovrebbe essere anche per i magistrati”. E come si dovrebbe procedere, in concreto? “Nel momento in cui il Mef paga, quel fascicolo verrà trasmesso anche alla Corte dei Conti, che valuterà se esiste un responsabile per danno all’erario. Ci tengo a precisare che la sanzione non sarebbe automatica per ogni fascicolo, ma scatterebbe solo in caso di responsabilità”. Ma in che modo sono state avviate quelle pur poche azioni disciplinari condotte in questi anni? “Di solito il difensore della persona assolta invia una segnalazione. La verifica si attiva anche in casi in cui il risarcimento è dovuto non in virtù di un’assoluzione ma perché il magistrato ha fatto scadere i termini di custodia, dimenticandosi in carcere una persona”. È bene ricordare, come si legge nella relazione al Parlamento su ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, che “la riparazione può riconnettersi ad ipotesi del tutto legittime di custodia cautelare accertata ex post come inutiliter data: di frequente, la richiesta e la conseguente adozione di misure cautelari si basa su emergenze istruttorie ancora instabili e, comunque, suscettibili di essere modificate o smentite in sede dibattimentale. Va poi sottolineato che, per costante giurisprudenza di legittimità, il diritto alla riparazione è configurabile anche nel caso in cui sia stato presentato un atto di querela, successivamente oggetto di remissione, ovvero in relazione a reati di cui venga in seguito dichiarata la prescrizione, o anche nel caso in cui l’ingiustizia della detenzione sia correlata alla riqualificazione del fatto in sede di merito, con relativa derubricazione del reato contestato nell’incidente cautelare in altro meno grave, i cui limiti edittali di pena non avrebbero consentito l’applicazione della misura custodiale. Appare evidente, dunque, come il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione non possa essere ritenuto, di per sé, indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto”. In ultimo, Costa annuncia di non escludere “che in futuro si possa studiare una fattispecie particolare di reato, in quanto una privazione per colpa della libertà personale è un fatto grave almeno quanto una lesione colposa”. Spese legali restituite agli assolti, pochi fanno domanda: il ministero diffonderà i dati sul sito di Errico Novi Il Dubbio, 21 agosto 2024 Nel 2023 solo 700 istanze, e il trend non sembra migliorare: si rischia la soppressione del fondo. Il dato non migliora. Non sembrerebbe, almeno. Non esiste ancora una statistica completa ma, dalle “proiezioni” che il ministero della Giustizia può fare al momento, le domande per ottenere il rimborso delle spese legali in seguito a un’assoluzione sono di gran lunga inferiori alle attese, anche per il 2024. Non si potrà che attendere la fine dell’anno, prima di tirare le somme e comunicare quanti cittadini risultati innocenti hanno chiesto, e ottenuto, il ristoro. Ma intanto a via Arenula sono preoccupati. Sanno che la persistente esiguità delle istanze (nel 2023 erano state appena 700, per un importo erogato di 2 milioni 800mila euro, a fronte dei quasi 14 milioni disponibili) è un segnale tanto incomprensibile quanto pericoloso, perché può portare al taglio dello stanziamento. E hanno deciso così di trasferire all’esterno un allarme il più possibile chiaro: da settembre, i dati sul rimborso introdotto nel 2021 saranno disponibili e accessibili a tutti sul sito del dicastero guidato da Carlo Nordio. Che intende far arrivare il il seguente messaggio: si tratta di un’opportunità preziosa, che anzi l’attuale guardasigilli, nei primi mesi del proprio mandato, aveva tenuto a rafforzare, con la richiesta, accolta, di un forte incremento del fondo (dagli 8 milioni previsti all’epoca di Alfonso Bonafede ai 15 milioni inseriti nella Manovra per l’anno 2023), ma attenzione, perché se per il terzo anno consecutivo, nel 2024, si confermasse lo scarso successo di questo istituto, il pericolo è che l’Esecutivo tagli, o addirittura sopprima, il relativo fondo. Già nella legge di Bilancio per il 2024 una pur piccola riduzione c’era stata: da 15 milioni, si era passati a 13 milioni e 740mila, per una “sforbiciata” di poco inferiore al 10%. Si tratta di un beneficio diverso (ma altrettanto importante) rispetto ai risarcimenti per ingiusta detenzione. E se esiste, lo si deve innanzitutto a Enrico Costa, il deputato e responsabile Giustizia di Azione del quale riportiamo, in queste pagine, la proposta di trasmettere i fascicoli per i quali lo Stato ha risarcito chi è stato ingiustamente recluso ai titolari dell’azione disciplinare, oltre che alla Corte dei Conti, in modo che qualche giudice o pm, almeno nei casi di colpa grave, possa essere chiamato a dar conto delle proprie decisioni. Nel caso del rimborso istituito, con la legge di Bilancio per l’anno 2021, a vantaggio di chi è prosciolto dall’accusa penale con una formula “ampiamente liberatoria”, il discorso è diverso. Parliamo non solo di un atto di giustizia, ma anche di una misura simbolica. Nel nostro Paese la cultura prevalente iscrive la disavventura di un procedimento penale ingiusto fra le circostanze che il cittadino deve mettere in conto, gli piaccia o no. Capita, è terribile, a volte mostruoso, ma ci devi stare. Perché? In virtù di quell’idea sostanzialmente autoritaria della giustizia per cui il pubblico potere prevale sui diritti e sulla libertà del “suddito”. Se non permanesse tuttora una visione del genere, non si spiegherebbe come possa esistere, per esempio, nel 2024, un codice antimafia che, attraverso le cosiddette misure di prevenzione (i sequestri e le confische innanzitutto), consente ancora di punire chi, nel processo penale vero e proprio, viene assolto. La ragion di Stato e le sue eventuali conseguenze, anche amare, schiaccino pure l’aspettativa del malcapitato. E in fondo, l’idea di restituire almeno parte delle spese legali (fino a 10.500 euro) al malcapitato poi assolto da tutte le accuse è (dovrebbe essere) anche il segnale per affermare un altro principio, per ribaltare lo schema e riconoscere che essere travolti da un’accusa ingiusta non è un’eventualità ineluttabile a cui rassegnarsi, tanto è vero che lo Stato si fa eventualmente carico dei costi materiali prodotti dalla vicenda, qual è appunto il necessario compenso per l’avvocato che ha sostenuto il cittadino nell’affermare la propria innocenza. Non è un caso che, prima ancora dell’emendamento alla Manovra presentato da Costa nell’autunno 2020, fosse stata l’avvocatura a condurre una paziente battaglia per introdurre il diritto dell’imputato assolto a vedersi risarcite le spese legali: il primo progetto di legge in materia è da attribuirsi al Consiglio nazionale forense, che aveva trovato, negli anni precedenti, diversi parlamentari disponibili a presentare la modifica, ma mai un governo e una maggioranza capaci di comprendere davvero il valore non solo materiale ma anche culturale di quella proposta. L’attuale deputato e responsabile Giustizia di Azione ha avuto il merito, quattro anni fa, di far propria quell’idea, e di ottenere che diventasse legge da un ministro della Giustizia, Bonafede, certamente non orientato, nella propria azione politica, a dare priorità alla tutela delle garanzie. Anche il ministro del Movimento 5 Stelle ha dimostrato sensibilità per un tema così delicato. Ma se l’opportunità di ottenere il rimborso delle spese legali continua a essere còlta da un numero così ridotto di potenziali aventi diritto (sulla carta sarebbero oltre 100mila l’anno) forse è perché la cultura della rassegnazione allo Stato onnipotente è più forte anche della buona volontà dei singoli. Roberti: “Il Csm non ha più voce, pm sempre più soli. Spero in Mattarella” di Giulia Merlo Il Domani, 21 agosto 2024 Per l’ex procuratore antimafia: “FdI vuole indebolire la magistratura”. Poi ricorda Falcone: “Voleva rispetto e collaborazione con la politica”. “La guerra tra poteri è la negazione dello stato di diritto” è la sintesi di Franco Roberti, ex procuratore nazionale antimafia ed ex europarlamentare del Pd, per commentare lo scontro tra magistratura e governo in merito alla presunta ma inesistente inchiesta su Arianna Meloni. Cosa sta accadendo, secondo lei? La premessa è che stiamo ragionando sul nulla, perché non esiste alcun fatto concreto che autorizzi a supporre che ci sia un avvio di indagini a carico di Arianna Meloni. Il punto è un altro: la strumentalizzazione di questa non notizia da parte del governo e dei giornali d’area. Questo rientra in quella strategia di vittimismo inaugurata dal governo e la leggo come un modo per mettere le mani avanti e prevenire così eventuali asseriti attacchi, ma anche per giustificare i fallimenti e l’inadeguatezza del governo rispetto ai problemi enormi che ha davanti e che dovrebbe affrontare. La magistratura è il nemico perfetto? Indebolire e screditare la magistratura, suffragando l’esistenza di una sorta di complotto, si iscrive nella strategia che punta a concentrare il potere nelle mani del governo. Il raggiungimento di questo obiettivo passa ineluttabilmente per l’indebolimento degli altri poteri di garanzia. Così il premierato depotenzia il Quirinale, la separazione delle carriere indebolisce la magistratura, l’autonomia differenziata toglie potere al parlamento. Il governo sostiene che le riforme non tocchino i poteri delle toghe. Lei cosa pensa? Io penso che la riforma del Csm, la separazione delle carriere, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la riscrittura del reato di traffico di influenze illecite, insieme alla mancata riforma carceraria facciano parte di una strategia di svuotamento dei poteri della magistratura. Questo indebolimento è funzionale al fine di concentrare il potere nelle mani dell’esecutivo e, per farlo, viene usata l’arma del discredito, anche propalando notizie ad oggi infondate. Una tecnica già vista altrove. A cosa si riferisce? La relazione dell’Ue sullo stato di diritto che Meloni ha criticato ha segnalato rischi per l’Italia, con riferimento sia alla libertà di informazione che alle riforme in corso in materia di giustizia. Ricordo che Ungheria e Polonia sono sotto accusa proprio per violazione dello stato di diritto e, in quei paesi, la strategia è stata quella di screditare la magistratura, per poi assoggettarla all’esecutivo. Questi precedenti dovrebbero insegnare qualcosa e l’allarme europeo andrebbe accolto. L’Anm è intervenuta, parlando di delegittimazione delle toghe e chiedendo l’intervento del Csm. Sarebbe necessario? In condizioni normali sarebbe giusto chiedere e anche aspettarsi che il Csm intervenga, spendendo una parola a tutela dell’istituzione rappresentata dal potere giudiziario, a tutela dell’equilibrio tra poteri e dello stato di diritto. Credo però purtroppo che un intervento non ci sarà, perché il Csm sta attraversando un momento di difficoltà interna. È un Csm senza voce, quindi? È un Csm in cui chi potrebbe parlare sembra non avere voce. Non ho sentito nella parte togata e men che meno tra i laici una voce che esprima una opinione autorevole a nome del Consiglio. La magistratura è sola davanti agli attacchi? Il Quirinale è intervenuto molte volte a difesa dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, ma mai in riferimento a casi specifici. Tuttavia, il Colle che è anche presidente del Csm è forse l’unica istituzione che, per prestigio e unanime credibilità, potrebbe dire una parola di ragionevolezza e di richiamo al rispetto reciproco tra giustizia e politica. La magistratura ha qualche responsabilità rispetto alla situazione? La magistratura associata ha certamente responsabilità e la vicenda Palamara ha lasciato uno strascico sul piano della credibilità dell’istituzione. Le sue scorie ancora avvelenano l’immagine della magistratura. Però il Csm rimane l’organo che dovrebbe ripristinare l’ordine nei rapporti istituzionali. Criticare un magistrato è legittimo e lo è anche criticare una sentenza, ma quella di questi giorni è una azione preventiva per gettare un’ombra di sospetto sull’intera categoria. È questa genericità che radica la strumentalità dell’iniziativa del centrodestra. La domanda allora è: quale deve essere la reazione delle toghe? La magistratura deve continuare a fare il suo lavoro, in modo credibile e in silenzio. In questo momento tutti i poteri dello stato vivono una condizione di debolezza e un recupero di autorevolezza passa necessariamente per uno scatto di buona volontà dei singoli. Penso all’esempio di Giovanni Falcone, che andò al ministero della Giustizia anche incassando forti critiche, ma in virtù di una visione più lungimirante. Lui era convinto che, se non si fosse creato un clima di reciproco rispetto e collaborazione tra politica e magistratura non se ne sarebbe usciti. Questo lui voleva fare, glielo hanno impedito uccidendolo. Questo clima influisce sul contrasto alle mafie? Lo rende certamente più difficile, perché il contrasto alle mafie si fonda su tre pilastri: l’antimafia politica, sociale e giudiziaria. Servono tutti e tre, altrimenti il contrasto si indebolisce. Falcone insisteva sul fatto che l’equilibrio tra poteri è essenziale per l’affermazione della legalità e che il potere politico e quello giudiziario devono essere autonomi e indipendenti per essere forti e credibili. Penso ai miei anni da procuratore nazionale antimafia: la collaborazione con la commissione Antimafia di Rosy Bindi fu un’esperienza straordinaria. Dovrebbe essere sempre così. Ora invece? Ora purtroppo stiamo assistendo a uno scenario politico che nel suo insieme è screditato e a un governo che reagisce tentando di screditare la magistratura, invece che rispettarla e pretendere rispetto. Toscana. Emergenza carceri, una diffida alle Asl: “Non è garantito il diritto alla salute” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 21 agosto 2024 L’associazione Coscioni: non rispettano il diritto alla salute, le istituzioni facciano qualcosa. Una diffida alle Asl affinché facciamo rispettare quel che oggi non viene garantito, il diritto alla salute nelle carceri, toscane e non solo. L’iniziativa dell’associazione radicale Luca Coscioni chiama in causa le aziende sanitarie, ma punta anche il dito sul sovraffollamento (a Sollicciano 130%) e sulle istituzioni che “non prendono provvedimenti adeguati all’emergenza”. Nove giorni vissuti in carcere in condizioni “disumane e degradanti” ne valgono uno di libertà. O una contropartita di 8 euro al giorno. È l’effetto della sentenza Torrigiani, che in Toscana riguarda tutti gli istituti, dipende dal momento: è facile ottenere ragione se si è detenuti a Sollicciano; a seconda delle sezioni e del sovraffollamento è altrettanto semplice ottenere lo sconto a Massa e Pistoia, mentre legali stanno lavorando per dare la stessa possibilità ai detenuti della Dogaia di Prato. La storia di F. è esemplare: ieri stava compilando in cella, proprio a Prato, quel foglio che forse gli darà uno sconto di pena. Ma per cosa? “Per il fatto che sei stato qui”, gli ha spiegato il suo legale. Se l’istanza che accompagna il modulo sarà accolta dal tribunale di sorveglianza sarà libero un anno prima (sui 12 che deve scontare). Se l’istanza fosse accettata solo dopo la sua scarcerazione, invece, riceverà un risarcimento: nel suo caso circa 30 mila euro. Quel foglio, “dentro”, è diventato un pezzo di carta famoso, con diversi soprannomi: “Sfollamento”, “Torreggiani”, “35 Terra”. L’avvocato Sara Mazzoncini, componente della commissione Carcere della Camera penale di Prato, spiega che proprio nel carcere nella sua città sono previste nei prossimi giorni “nuove planimetrie per certificare la condizione degradanti della struttura”, dove - lo ricordiamo - nell’ultimo mese si sono suicidati due detenuti. “Nella nostra visita al carcere abbiamo trovato a Prato una situazione involuta, ma ancora non ci riconoscono inspiegabilmente il 35 ter. In alcune celle - spiega Mazzoncini - non funziona il bagno, ci sono le cimici del letto ovunque, alcuni detenuti hanno la scabbia, ci sono 35 gradi nell’infermeria”. Il 35 ter o “sentenza Torreggiani”, dal cognome di uno dei ricorrenti, fa riferimento alla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo che nel 2013 ha condannato l’Italia perché in molte delle sue carceri infrange l’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Ogni detenuto dovrebbe avere infatti un numero di metri quadri preciso a disposizione, l’accesso all’acqua, condizioni igieniche e di temperatura degli ambienti dignitose. Ma spesso, quasi sempre, così non è. Undici anni fa, dopo la sentenza, si gridò allo scandalo con editoriali di sdegno e condanne sui social. Che tuttavia hanno potuto poco rispetto al cambio di rotta. Sino al capolavoro. Si è capito molto presto che la situazione degli istituti, spesso fatiscenti, senza spazi e tempi adeguati per la dignità delle persone che li abitano, sarebbe stata difficile da cambiare in fretta. Così l’anno dopo, nell’estate del 2014, un decreto legge (n. 92) ha introdotto nell’ordinamento penitenziario l’articolo 35-ter (da cui uno dei soprannomi, 35 terra). Umbria. “Le carceri scoppiano”: l’associazione Luca Coscioni diffida le Usl di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 21 agosto 2024 Il Garante, Giuseppe Caforio: “A Terni i detenuti come gli animali in batteria”. “Violazione strutturale del diritto alla salute” dei detenuti delle quattro carceri umbre. Con questa motivazione l’associazione Luca Coscioni diffida ad adempiere anche le due Usl dell’Umbria, chiamate in causa con altre cento unità sanitarie locali per le condizioni che ci sono negli istituti di pena italiani. L’Umbria è al vertice della classifica del sovraffollamento, stimato al 119 per cento per la presenza di mille e 531 detenuti uomini e di 69 donne. È il carcere di Terni ad avere il primato delle celle che scoppiano, con 562 detenuti, 140 in più rispetto alla capienza regolamentare. Il sovraffollamento riguarda anche Perugia, Spoleto e in misura minore Orvieto. La diffida dell’associazione guidata da Luca Coscioni, attiva a tutela dei diritti a partire da quello alla salute, segue l’iniziativa del garante dei detenuti per l’Umbria Giuseppe Caforio, che di recente ha presentato un esposto in procura perché indaghi sulle condizioni anche sanitarie dei detenuti. “Apprezzo l’iniziativa dell’associazione - dice Caforio - che si inserisce nell’ambito del coro di allarmi sulle carceri. Primo fra tutti quello del presidente Repubblica, Sergio Mattarella, che è tornato a segnalare la gravissima situazione in cui vivono i detenuti. Io stesso - aggiunge il garante dei detenuti - sono stato obbligato a presentare un esposto alla procura della Repubblica di Perugia perché si possano incentivare iniziative concrete e immediate per far si che si diano risposte sotto il profilo dell’assistenza sanitaria oggi gravemente carente nelle carceri umbre soprattutto a Terni, Perugia e Spoleto, dove ci sono situazioni paradossali”. In queste ore la presa di posizione dell’associazione Luca Coscioni, che ha inviato “diffide alle Usl affinché adempiano al proprio compito stabilito dalla legge procedendo a sopralluoghi nelle strutture penitenziarie di loro competenza con il fine di apprezzare le circostanze relative all’igiene e le profilassi delle stesse, della fornitura di tutti i servizi socio-sanitari e di agire di conseguenza, qualora esse non siano a norma”. La segretaria nazionale dell’associazione, Filomena Gallo punta il dito contro la “pressoché totale mancanza di misure strutturali e sull’assenza di misure all’altezza della gravità della situazione”. A scrivere le diffide gli avvocati Francesco Di Paola, Simona Giannetti e Silvia Sole Savino col coordinamento di Filomena Gallo e Marco Perduca, promotore dell’iniziativa per l’associazione Luca Coscioni: “Come organizzazione della società civile potevamo solo attivare quanto previsto dal nostro ordinamento e non restare inerti di fronte all’illegalità diffusa contro cui le istituzioni continuano a non adottare misure all’altezza della gravità della situazione”. Il garante dei detenuti della regione Umbria rincara la dose: “La problematica è di tale gravita che non consente alcun differimento di iniziative che necessitano di immediatezza. L’auspicio è che si ponga fine anche al conflitto di competenze tra ministero, regioni e aziende sanitarie e che si proceda anche con tavoli concertati a dare immediate risposte alla domanda di salute, che ricordo essere un diritto costituzionale”. Giuseppe Caforio commenta la situazione ternana dopo la nuova visita a Sabbione che risale a quattro giorni fa: “La situazione è invivibile, ci sono spazi limitatissimi in celle con quattro detenuti con i metri quadrati a persona che raramente superano i due. Questa è una violazione delle normative indicate dalla corte di giustizia Europea e dalla giustizia italiana. Noi - tuona Giuseppe Caforio - abbiamo i detenuti come gli animali in batteria. È una vergogna a cui va data risposta, non programmatica ma immediata e reale perché ormai siamo a un punto di non ritorno”. Piemonte. Carceri, la violenza tra le rovine di Stefano Lorenzetti Corriere di Torino, 21 agosto 2024 Nei 13 istituti piemontesi soffitti che crollano, infiltrazioni d’acqua, docce inagibili. Lunedì pomeriggio due detenuti si sono scagliati contro il Consiglio di disciplina, cercando di colpire i componenti - il direttore, un educatore e uno psicologo - con sedie e scrivanie. Solo l’intervento della polizia penitenziaria ha evitato il peggio. L’episodio si somma ad altre decine di casi che si ripetono da mesi all’interno del penitenziario. Un penitenziario che deve anche fare i conti con seri problemi strutturali e un sovraffollamento ormai fuori controllo. Problemi, questi, che riguardano anche gli altri dodici istituti penitenziari del Piemonte: muri e soffitti che cadono a pezzi, finestre rotte, bagni e docce inagibili, infiltrazioni d’acqua. Un altro pomeriggio di violenze ha caratterizzato lo scorrere lento delle giornate all’interno del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Due detenuti si sono scagliati contro il Consiglio di disciplina, cercando di colpire i componenti con sedie e scrivanie. Solo l’intervento della polizia penitenziaria ha evitato il peggio. La cronaca racconta la paura che si è respirata al piano terra del Padiglione A. Intorno alle 13 di lunedì gli agenti hanno accompagnato quattro detenuti di fronte al Consiglio di disciplina - l’organo interno presieduto dal direttore dell’istituto (in questo caso sostituito per esigenze di servizio dal collega di Alba) e composto da uno psicologo e un educatore - perché accusati di aver picchiato un compagno. Uno per volta i reclusi sono sfilati davanti alla commissione, la situazione è degenerata quando è stato il turno di un senegalese: l’uomo non ha preso di buon grado il provvedimento disciplinare - sette giorni di isolamento - ed è andato in escandescenza. In pochi istanti ha distrutto il computer, ribaltato l’arredo dell’ufficio, rotto un ventilatore, un tavolo e una libreria e minacciato il Consiglio. Con fatica gli agenti sono riusciti a bloccarlo e a trascinarlo verso la cella, ma giunti all’altezza della rotonda del piano terra del padiglione l’uomo ha cercato di ribellarsi spaccando alcune sedie e inveendo contro i poliziotti. Le urla e gli insulti del detenuto hanno attirato l’attenzione di un altro carcerato, un brasiliano: poco prima anche a lui erano stati inflitti sette giorni di isolamento per aver preso parte al pestaggio. L’uomo, che era già rientrato in cella, ha chiesto al personale di potersi recare in palestra. Ma una volta raggiunto il piano terra, ha dato manforte al compagno senegalese: è entrato nell’ufficio dove era riunito il Consiglio e ha scagliato una sedia contro il direttore, colpendolo. Un episodio, quello di lunedì, che si somma ad altre decine di casi che si ripetono da mesi all’interno del penitenziario. “Ormai la situazione è fuori controllo - sottolinea il segretario generale dell’osapp Leo Beneduci -. Il personale di polizia penitenziaria è abbandonato a se stesso nel marasma più totale, il carcere è una vera e propria bolgia infernale dove ogni giorno si rischia la vita. È inaccettabile che l’amministrazione penitenziaria centrale sia silente a fronte di un dramma di una portata così imponente. Chiediamo al prefetto di mandare l’esercito”. “Così non si può più lavorare - chiosa il segretario piemontese del Sappe Vicente Santilli. Quel che è accaduto evidenzia come dentro le carceri del nostro Paese, ma in particolare a Torino, siano saltati tutti gli schemi. Chissà se ora che il destinatario delle violenze è stato un direttore, anziché il solito appartenente alla polizia penitenziaria, la sensibilità delle istituzioni sarà sfiorata dal senso di pericolosità e precarietà che quotidianamente si respira in carcere”. Sicilia. Nelle prigioni siciliane l’estate si trasforma in una prova di resistenza di Giacomo Di Girolamo linkiesta.it, 21 agosto 2024 Tra sovraffollamento, strutture fatiscenti e carenza di personale, le carceri sono ormai al collasso, in un clima di totale indifferenza. Mentre la politica sembra incapace di dare risposte concrete, la condizione dei detenuti è un’offesa alla dignità umana. Nella Sicilia della siccità ci sono luoghi dove l’acqua non arriva, ma gli ospiti non possono lamentarsi. Nell’isola delle temperature record e delle notti tropicali ci sono corpi madidi di insonnia e sudore, senza il piacere dell’aria condizionata, la pietà di un ventilatore, la sapienza di una finestra socchiusa, come facevano gli antichi, quel tanto che basta per fare passare un filo d’aria. Nella Sicilia degli allarmi per i turisti in fuga, anzi no, anzi, sono troppi e non sappiamo che farne, ci sono luoghi che registrano un overbooking osceno, un’offesa alla dignità delle persone. Sono le ventitré carceri siciliane, che hanno vissuto, come il resto delle carceri italiane, un’estate tormentata, nel disinteresse di gran parte dell’opinione pubblica e nell’incapacità della politica tutta di trovare una soluzione che permetta alla pena, giusta, di non essere anche un supplizio infame. In Sicilia il sovraffollamento ha superato la soglia del centosedici per cento. Mancano inoltre, nella pianta organica, ottocento agenti di polizia penitenziaria in tutta la regione. Le condizioni degli istituti di pena sono, nella gran parte dei casi, fatiscenti, con interventi di ristrutturazione di padiglioni ed edifici che vengono rimandati da decenni per mancanza di fondi, infissi arrugginiti, spazi angusti. Sono i dati che emergono dall’ultima relazione del Garante dei Detenuti, Santi Consolo. L’Ucciardone, il carcere simbolo di Palermo, quello che i mafiosi chiamavano “Grand Hotel Ucciardone”, per la facilità di contatti con il mondo esterno e di visite riservate (molti summit di mafia si tenevano proprio per riservatezza in carcere, ed erano leggendarie le cene organizzate per i detenuti e le visite delle prostitute su richiesta…) è oggi sulla soglia della crisi igienico sanitaria. Una situazione che però è meno grave di quella di Augusta: lì, per ogni detenuto sono garantiti solo 5,4 metri quadrati di spazio. Il minimo per legge, in teoria, è di nove metri quadrati. I detenuti sono esasperati: proprio negli ultimi giorni uno di loro, per protesta, ha dato fuoco alla cella. Una situazione spaventosa, soprattutto d’estate, quando le lunghe turnazioni idriche costringono i detenuti a fare i conti con l’impossibilità di una semplice doccia, nel caldo infernale delle celle che di notte supera i quaranta gradi. Cosa fare? Deputati regionali e nazionali, nella settimana di Ferragosto, hanno visitato gli istituti di pena e stilato un report impietoso. Di fronte alla disperazione di alcuni detenuti, i deputati regionali Ismaele La Vardera (Sud chiama Nord) e Valentina Chinicci (Partito democratico) hanno messo mano al portafoglio e donato centotrenta ventilatori da collocare in altrettante celle dell’Ucciardone. Un alito di solidarietà in un clima sempre più infuocato. Donatella Corleo è a capo della delegazione dei Radicali che ogni anno, in estate, visita le carceri italiane. Ne ha viste di tutti i colori, ma, sono parole sue, dalla visita all’Ucciardone è uscita “sinceramente provata”. Quello che era già un carcere al tempo dei Borbone oggi è una “una struttura inadeguata per accogliere i detenuti e che è lontana dal progetto di reinserimento sociale dei reclusi che per lo più sono di estrazione socio economica molto bassa”. Migliore la situazione al carcere minorile, l’Ipm Malaspina. Alcune camere sono inagibili per un incendio del 2023, e ci sono enormi problemi di bullismo e di scontri tra italiani e stranieri. Il personale è poco, gli arredi fatiscenti. Altro che “Mare Fuori”: la serie tv di culto prodotta dalla Rai ha reso popolari gli Ipm, ma la realtà è molto diversa dalla fiction, come sempre. Più che il mare fuori, come le spaziose celle con vista mare della serie Rai, questi hanno il mare dentro, per l’umidità che devono sopportare. Davanti l’Ucciardone, il giorno di Ferragosto, diverse associazioni per i diritti degli ultimi hanno organizzato un sit-in. Tra i manifestanti anche Totò Cuffaro, sempre lui, che è stato in carcere a Rebibbia per cinque anni e che da quando ha toccato con mano il mondo dei detenuti lotta per i loro diritti. Le proposte sono sempre quelle: amnistia e indulto, svuotare, in pratica, per trovarsi di nuovo con l’acqua alla gola, tra qualche anno, senza una riforma strutturale. “Questi uomini e queste donne, anche se hanno commesso errori - dice Cuffaro - hanno una loro dignità che va rispettata e preservata”. Le storie da dentro, che arrivano fuori, sono tante. Storie di suicidi - anche tra appartenenti alla polizia penitenziaria (a Palermo, il 2 agosto, un agente dell’Ucciardone si è tolto la vita, è il settimo dall’inizio dell’anno) - di aggressioni, di gravi patologie non curate, di chi non ce la fa. Storie di persone che attraversano strazi particolari e chiedono solamente un gesto di umanità. È il caso di un giovane che si trova al carcere di Trapani, dove i detenuti, per dirla con Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, “stanno drammaticamente stretti”. Un appello è stato lanciato dalla famiglia del giovane G.M., classe 1997, che da oltre un anno è detenuto. G.M. ha subito un intervento chirurgico ortopedico alcuni anni fa, con l’applicazione di una protesi alla gamba. Tuttavia, durante il periodo di detenzione, ha sviluppato seri problemi: le protesi si sono spostate, provocando fuoriuscite evidenti, dolori intensi e gravi difficoltà a fare anche dei semplici passi. “Nonostante la gravità della situazione, gli operatori sanitari del carcere si sono limitati a somministrare blandi antidolorifici, -racconta la sorella - ignorando la necessità di interventi più adeguati”. Solo dopo una caduta del giovane e una vibrata protesta dei compagni di cella, G.M. è stato trasportato d’urgenza all’Ospedale di Trapani. Qui è stato sottoposto a un intervento chirurgico tampone per rimuovere la protesi, ma i medici hanno comunicato che era necessario un intervento più complesso presso un centro di alta specializzazione ortopedica. Il paradosso è che, dopo l’intervento, senza alcuna degenza ospedaliera, G.M. è stato riportato in una cella affollata e priva di accorgimenti igienico-sanitari. Nel carcere di Trapani, tra l’altro, i detenuti stanno in cella venti ore al giorno, escono per sole due ore, caso unico in Italia. Nei bagni non c’è aerazione. Dai rubinetti l’acqua esce di colore marrone. Questo ambiente comporta un alto rischio di infezioni, che si sono puntualmente verificate nel caso di G.M: nonostante due urgenti ricoveri ospedalieri per i forti dolori alla gamba operata è stato sempre riportato in cella. Il detenuto ha sporto denuncia contro i sanitari del carcere per le cure tardive e inappropriate. Tuttavia, il paradosso è che ora dovrebbe essere curato e seguito dagli stessi operatori che ha denunciato. Ad oggi, quasi due mesi dopo l’ultimo intervento, non è stato ricoverato in una struttura ospedaliera adeguata. Il suo difensore ha presentato ben cinque istanze al magistrato di sorveglianza per chiedere la sospensione della pena o il ricovero in una struttura ospedaliera, ma non ha ricevuto alcun riscontro. “Mio fratello soffre di una gravissima infezione che, se non trattata adeguatamente, potrebbe degenerare in cancrena, nella più assoluta indifferenza delle istituzioni - racconta la sorella tra le lacrime - Chiediamo che venga trattato con la dignità e le cure che ogni essere umano merita”. E invece, per un’infezione non curata, adesso rischia di perdere una gamba. Milano. “A san Vittore nessun trattamento inumano: solo disagio” di Gianni Alati Il Dubbio, 21 agosto 2024 Il giudice rigetta il reclamo di un detenuto. Il carcere di San Vittore “è una struttura vetusta, con spazi comuni non sempre adeguati, ma si tratta di una situazione di mero disagio, collegata a un contesto murario poco confortevole che non costituisce però un trattamento inumano o degradante”. Lo scrive la giudice del Tribunale della Sorveglianza di Milano, Gloria Gambitta, nel provvedimento in cui rigetta il reclamo di un detenuto che chiedeva un risarcimento dei danni lamentando “la privazione dello spazio standard previsto dalla normativa nazionale ed europea nel periodo compreso tra il 20 ottobre 2022 e il 20 aprile 2023 espiato a San Vittore”. Secondo gli ultimi dati diffusi dalla Camera Penale, nella casa circondariale è presente più del doppio dei detenuti rispetto alla capienza (1007 per 450). Nell’ordinanza la giudice scrive che M.G.B., il 63enne italiano che ha presentato il reclamo, “ha sempre potuto fruire di uno spazio libero individuale superiore alla soglia dei 3 mq, avendo occupato, da solo o con al massimo un altro detenuto, camere di 9 mq, al netto dell’annesso locale bagno e al lordo dei due letti singoli, aventi ciascuno superficie di mq 1,81”. Richiamandosi alla relazione fornita dal carcere, aggiunge che “ogni camera è dotata di annessi servizi igienici, separati in modo da garantire la privacy; sia la stanza che il bagno sono dotati di finestre con ante apribili dagli occupanti e affaccio all’aria aperta, e sono adeguatamente illuminati e riscaldati; tutte le camere sono dotate degli apparecchi televisivi. In ogni piano vi è il locale docce con acqua calda e fredda e l’assistenza sanitaria è garantita h24.” Viene bocciata anche una seconda richiesta di M.G.B. relativa a un punto molto dibattuto, quello del regime delle celle chiuse, introdotto nel 2022, al posto di quelle aperte che consentivano di trascorrere fuori dalla gabbia più delle otte ore già previste per le ore d’aria e per svolgere attività. M. G. B, assistito dalle avvocate Valentina Alberta e Francesca Salvatici, ha chiesto “l’immediato ripristino del precedente regime degli spazi comuni per lesione del diritto di trascorrere almeno otto ore al giorno fuori dalla cella”. Ma la giudice ribatte che “non esiste uno specifico diritto soggettivo di trascorrere un tempo ragionevole fuori dalla camera di pernottamento ove la limitazione non si traduca nella lesione dei diritti fondamentali di derivazione costituzionale, quali il diritto alla salute, allo studio o altro”. Da un report del Ministero della Giustizia sui suicidi nel 2024, è emerso che tra inizio anno e il 5 luglio, 44 persone si sono tolte la vita nel regime a custodia chiusa, pari all’ 88%, 6 in quelle a custodia aperta, pari al 12%. Le legali di M. GB. ricorreranno contro la decisione della Sorveglianza su entrambi i temi, del sovraffollamento e del regime a custodia chiusa. Milano. Ilaria Salis: “San Vittore un inferno, anche l’Italia viola i diritti dei detenuti” di Viola Giannoli e Fabio Tonacci L Repubblica, 21 agosto 2024 L’eurodeputata di Avs per la prima volta in visita in un penitenziario dopo i quindici mesi trascorsi in quello di massima sicurezza di Budapest, sei dei quali senza contatti con la famiglia: “Qui a molti stranieri succede lo stesso”. Ilaria Salis è tornata in carcere, ma la destra non esulti: questo non è l’incipit della notizia che vorrebbe leggere. Piuttosto è l’inizio dell’attività politica, sul campo, dell’insegnante di Monza che il voto europeo ha liberato dal pozzo ungherese dov’era precipitata un anno e mezzo fa. L’aveva detto che una volta fuori si sarebbe occupata di detenzione e detenuti, col piglio di chi ha vissuto qualcosa che non augura a nessuno. L’azione, tuttavia, deve passare dalla conoscenza diretta. Dunque Ilaria Salis alle 9 di ieri mattina, accompagnata da due collaboratori, si è presentata al cancello della prigione più sovraffollata d’Italia mostrando il tesserino da europarlamentare. “Visita istituzionale”. Prego, entri pure, hanno risposto i piantoni di San Vittore. Tre mesi esatti dopo aver riguadagnato la libertà, eccola di nuovo tra mura di cinta, le celle, le finestre sbarrate. Questa volta il cammino è sciolto, senza il tintinnio di catene che ritmava il passo costretto. Però i fantasmi ci sono ancora, non se ne sono mai andati. I volti persi, il tempo fermo, la costrizione, l’assenza. Le mani dei detenuti che penzolano stanche da sbarre d’acciaio quasi sempre chiuse. “Quelle mani erano anche le mie, a Budapest”, racconta a Repubblica l’eurodeputata di Alleanza verdi e sinistra. “Mi sono rivista nelle stanze soffocanti, dove dormono in tre e non possono alzarsi dalla branda perché non hanno spazio. Ho rivissuto la sensazione di smarrimento quando i detenuti stranieri che ho incontrato mi hanno detto che sono dentro da due mesi e non hanno ancora potuto fare una telefonata”. Lei dovette aspettarne sei di mesi. Riuscì a mandare una lettera a suo padre Roberto in cui raccontò tutto: i ceppi alle caviglie, il guinzaglio durante le udienze, i giorni senza neanche gli assorbenti, i topi. Stavolta Ilaria Salis ascolta le storie degli altri, prende appunti, immagina come lei, a Strasburgo, potrà essere utile alla popolazione carceraria nell’anno del record dei suicidi. Tre ore di visita, nella calura agostana di Milano. Con lei la vice direttrice della casa circondariale e il vice capo delle guardie penitenziarie. “Il sovraffollamento in Lombardia ha numeri spaventosi - dice Salis - Solo a San Vittore è del 221 per cento, può ospitare 450 persone e ce ne sono più di mille. Gli assistenti sociali sono assegnati in base alla capienza e non alle presenze, sono oberati e questo impedisce i colloqui per la messa in prova e il passaggio alla semilibertà”. Salis ha visitato il reparto femminile, la sezione dei giovani adulti dove stanno gli under 25, l’infermeria e un raggio del maschile. “Ho cercato di parlare il più possibile con i reclusi, ne ho incontrati tanti”. Molti l’hanno riconosciuta, Ilaria, Ilaria, la chiamavano, sei quella che è stata per tanti mesi nella galera di Budapest, le dicevano. Le hanno mostrato i tagli sulle braccia e sulle gambe, le fasciature, le cicatrici, i segni dell’autolesionismo. E lei, “forza”, “dovete resistere”, “fatevi coraggio”. San Vittore non è paragonabile al penitenziario di massima sicurezza di Gyorskocsi utca a Budapest, dove il regime della democrazia illiberale teorizzata da Orban rinchiude criminali e dissidenti, ma anche qui si avverte la lesione dei diritti. “Qualcuno attende da più di un mese di sapere quando potrà essere visitato da un medico. E ci sono stranieri, il 75 per cento dei reclusi a San Vittore, che non riescono a chiamare a casa e le famiglie li danno per dispersi…”. Di nuovo i fantasmi ungheresi, lei in una cella in condizioni inumane per 15 mesi, sei dei quali senza contatti con il padre e la madre. Ilaria Salis non ama mostrare emozioni, non si sente un simbolo per nessuno, né dà peso alle continue polemiche della destra sul suo passato di attivista del movimento per la casa e di occupante di immobili. Le parole escono a fatica quando le si chiede di raccontare com’è stato il ritorno in carcere, seppur ora da libera. “A San Vittore ho provato tristezza e rabbia”, risponde. “Tristezza perché donne e uomini rinchiusi mi fanno ripensare al mio dolore. Rabbia perché vedo violazioni gravissime, come nell’accesso alle cure mediche. Sulle carceri l’Italia sta tornando indietro. Solo nel femminile e in un raggio chiamato Nave le celle sono aperte, come dovrebbero essere. Altrove sono sempre chiuse, tranne che nelle ore d’aria e di socialità. Stiamo regredendo. Quindi sì, è rabbia che provo, perché nessuno dovrebbe stare così”. Quest’ultimo “così” va spiegato, perché ha un significato duplice: Ilaria Salis intende sia l’attuale situazione di emergenza in cui affoga il sistema, sia il carcere come istituzione in sé. Nelle misure su cui sta tergiversando il guardasigilli Nordio per alleviare il sovraffollamento non nutre alcuna fiducia: “Non serviranno a rendere più tollerabile la vita dei detenuti, e non credo nemmeno gli interessi farlo. L’unica logica che segue questo governo è punitiva e vendicativa”. Tre sono i provvedimenti immediati per cui Salis s’impegnerà politicamente: “Favorire al massimo il ricorso alle pene alternative, garantendone l’accesso a tutti coloro che ne hanno diritto ma non hanno mezzi economici né un domicilio perché stranieri”. La questione di classe, in cella, divide chi esce da chi resta dentro. “Bisogna poi limitare l’uso del carcere per chi è in attesa di giudizio. E, infine, depenalizzare i piccoli reati contro il patrimonio compiuti per necessità, chi ruba nei supermercati perché ha fame e non ha lavoro, chi occupa una casa perché non può permettersi un tetto e gli enti che gestiscono l’edilizia popolare non assegnano le abitazioni sfitte”. San Vittore è stata la prima incursione in un penitenziario per l’eurodeputata che ha conosciuto il carcere ungherese per necessità, e ora vuole conoscere quelli italiani per missione politica. Ne seguiranno altre, di visite. “Io però credo che si debba andare verso una società che superi il carcere…”. Eccolo il secondo così. “Davanti ai rapporti di ingiustizia un approccio è l’espulsione delle persone dalla società, chiuderle in un luogo per sentirsi al sicuro e non prendersene più carico. Io penso invece che si debba lavorare sulle cause, sulla prevenzione, creando una società basata sulla giustizia e l’uguaglianza. Poi c’è sempre chi sbaglia, l’obiettivo deve essere il reinserimento nella società, invece di concentrare un sacco di persone in un unico luogo dove anche se entri pulito esci criminale”. E anche questa è Ilaria Salis, prendere o lasciare. Genova. In sedia a rotelle a Marassi, sollevato dagli altri detenuti per poter andare in bagno di Erica Manna La Repubblica, 21 agosto 2024 Sovraffollamento e disperazione. Il report della visita della delegazione del Partito Radicale nel carcere del capoluogo. Mario - lo chiameremo così - è in sedia a rotelle. È recluso nella casa circondariale di Marassi da un anno e mezzo: ma al centro clinico non c’è posto, perché è tutto pieno. Così è costretto a restare in cella. E ogni volta che deve andare in bagno, siccome la carrozzina non passa, i suoi compagni devono aiutarlo. È solo una delle tante storie che filtrano dall’inferno delle carceri italiane: arriva dalla casa circondariale genovese di Marassi, dove il sovraffollamento non è nemmeno più una notizia. Seicento ottantotto reclusi per una capienza di 530 posti. Cifra, quest’ultima, sulla quale Deborah Cianfanelli - che fa parte della segreteria Partito Radicale, a Marassi nei giorni scorsi per la ricognizione di metà agosto realizzata per la campagna di denuncia sulle condizioni disumane in cui vivono i detenuti - solleva qualche dubbio. “La capienza regolamentare è lievitata, prima era di 450 posti: eppure, non risulta alcuna modifica strutturale. Sono molte le celle da sei detenuti. La cosa che mi ha fatto impressione è che le porte restano di nuovo chiuse - sottolinea Cianfanelli - questo accade da ottobre scorso. Prima, infatti, i direttori risolvevano parzialmente il problema delle celle anguste tenendole aperte nei reparti. Ma poi è intervenuta una ordinanza del Dap, che dice che devono restare serrate. Così vedi braccia che si protendono, che ti chiamano per raccontarti la loro disperazione, chiedono se lo Stato sta facendo qualcosa. E cosa puoi dire, che lo Stato non rispetta la Costituzione? Purtroppo il decreto Carceri del ministro della Giustizia Carlo Nordio non va a risolvere il problema”. E ancora: “Visito questa casa circondariale periodicamente da molti anni - spiega Cianfanelli a Repubblica - ma questa volta sono uscita con le lacrime agli occhi”. In una cella, il lavandino non scarica. Nel senso che da sotto spunta un tubo penzolante che i detenuti hanno convogliato dentro a un secchio, che poi svuotano nel water. È così da mesi: ma c’è solo un idraulico in tutta la casa circondariale, e ancora nessuno è venuto a ripararlo. E poi c’è il paradosso dei detenuti stranieri: entrano in carcere con un permesso di soggiorno, escono da irregolari sul territorio. Altro che reinserimento sociale: per tanti di loro, l’ingresso in una casa circondariale ha questo effetto surreale. “Durante la detenzione non riescono a espletare le procedure burocratiche per rinnovare il permesso: così scade. In pratica, diventano irregolari a causa dello Stato: il risultato è che non potranno trovare un lavoro, nemmeno prelevare i soldi dai libretti della loro indennità di disoccupazione. Ma dov’è il reinserimento previsto dalla Costituzione se lo ostacoliamo?”. Il tema dei permessi di soggiorno che scadono è particolarmente cogente qui, dove su 688 detenuti, 270 sono stranieri. Ma sono tante le istantanee che raccontano l’inferno del carcere, con 63 persone che si sono suicidate dietro le sbarre in Italia dall’inizio dell’anno, stando ai dati aggiornati il 16 agosto nel report del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Un altro tema che scotta è quello della salute, come più volte raccontato su queste pagine anche attraverso gli allarmi lanciati dal garante regionale delle persone private della libertà Doriano Saracino. “Ho ricevuto lamentele corali su questo fronte - racconta l’esponente del partito Radicale - i detenuti lamentano scarsa attenzione da parte della dirigenza sanitaria, si sentono abbandonati a sé stessi. Il centro clinico è pieno, e a breve sarà oggetto di ristrutturazione: questo ci preoccupa. È pieno anche il cosiddetto repartino da otto posti del San Martino. Ma la salute non può aspettare”. Altro nodo, quello del lavoro. “A Marassi il 30 giugno ha chiuso la panetteria del carcere, per mancanza di ordinazioni: era un’attività storica. Sono rimasti poi tre impiegati per il laboratorio di serigrafia, e il 9 agosto ha aperto il negozio esterno in piazza Fossatello: una nota positiva”. Più problematico, il tema dei pagamenti. “A Marassi ci sono stati problemi riguardo alla retribuzione dei lavoratori: Inps infatti non versa l’indennità di disoccupazione sui conti correnti del carcere - spiega Cianfanelli - così hanno stipulato una convenzione con Poste italiane per aprire i libretti, ma non possono prelevare. E quando usciranno ci sarà un problema per le persone straniere che usciranno da irregolari, visto che dentro non hanno potuto rinnovare il permesso”. Quanto al decreto carceri del governo diventato legge, Cianfanelli è pessimista: “Non è sufficiente. E la risposta a problemi come questo dei detenuti stranieri, secondo Nordio sarebbe rimandarli al proprio Paese. Non è la soluzione per un Paese civile. Mi chiedo, poi, dopo queste visite drammatiche che ho compiuto negli ultimi giorni: il ministro è mai entrato in un carcere a visitare i detenuti cella per cella?”. Bari. “In carcere ho perso ogni diritto, insultati e curati solo con l’aspirina” di Anna Puricella La Repubblica, 21 agosto 2024 Trovammo un compagno impiccato, lo salvammo: ho ancora gli incubi”. Dopo la rivolta nel carcere di Bari, con il sequestro di un infermiere poi rilasciato e il ferimento di un poliziotto, parla un detenuto che in quel carcere è stato. “Un inferno, gira tantissima droga. E i telefoni portati da fuori”. Il tempo ha messo la giusta distanza, e ora D.G. riesce a raccontare. Dieci anni fa, quando di anni ne aveva 34, è finito in carcere. Inizialmente a Foggia, poi è stato trasferito prima a Trani e infine a Bari, e l’uomo - di origini romene - è stato in cella per quattro anni. Adesso ha ricominciato a vivere, ha una sua officina in un paese non lontano da Bari e la sua famiglia. “Ma a volte faccio sogni strani, vedo gente che era lì con me - dice - Quello che ho vissuto resta sempre nella memoria, e quando mi sveglio non mi rendo subito conto che sono a casa”. Qual è stata la sua prima impressione del carcere? “Era la prima volta che ci finivo, e quando si è chiuso il portone alle mie spalle è finito tutto. Lì dentro è un’altra vita”. Con quante persone era in cella? “All’epoca eravamo 28 persone, tutti insieme nella stessa cella. Le condizioni delle carceri sono queste, e c’era un solo bagno per tutti e 28. Era difficilissimo vivere, venivano sempre fuori problemi, sia fra detenuti sia con le guardie”. Cioè? “Non è il detenuto che crea problemi di solito, a volte si viene istigati. Non davano quello che chiedevi, e se per esempio volevi fare una telefonata non lo permettevano. Io facevo la richiesta e poi non veniva approvata. E lì c’erano persone che venivano da tutte le parti, e che non potevano parlare con i familiari. Non davano il permesso di chiamare”. Il cibo? “È scarso e non è buono. Mia moglie veniva sempre a portarmelo: quello del carcere neanche lo mangiavo, faceva schifo. Ci davano cibo buono soltanto quando veniva in visita qualche commissione, come quella per i diritti umani, e allora si vedeva la carne buona. Per il resto no, e se istigavi ti davano la purga”. Lei è stato vittima di violenza o di razzismo? “Quando mi hanno trasferito da Trani mi dicevano “tu uscirai da qui quando lo dico io”, lo facevano per istigare. Ho avuto un litigio, una volta, poi si è capito che la ragione l’avevamo noi detenuti. Non tutti sono razzisti, ci sono anche agenti che aiutano, ma io gli insulti li ho sentiti, mi dicevano “romeno di m...”. A Trani non succedeva, c’era maggiore rispetto. Invece a Bari ti fanno diventare matto”. Perché? “Non ci sono programmi di riabilitazione, non c’è niente. Ho avuto problemi alla cistifellea, ma lì il dottore dava soltanto aspirina per ogni tipo di dolore. Io mi facevo portare le pastiglie da casa, perché se avessi spiegato al dottore cosa mi succedeva sarebbe stato più probabile che mi lasciassero morire prima di fare un controllo”. Lei lavorava in carcere? “Sì, sono riuscito a lavorare ma soltanto negli ultimi quattro-cinque mesi. Lavoravo in cucina e distribuivo i pasti. Ma anche se nella busta paga c’era scritto che ricevevo 1.600 euro, alla fine ne ricevevo soltanto 300. Perché devi pagare tutto, anche lo stare in carcere”. Ventotto persone in una cella è disumano. E agenti ce n’erano? “Le guardie c’erano, avevano turni di sei ore e per ogni turno ce n’erano due o tre per sezione. Non sono poche. E nel momento in cui rispettano i detenuti non ci sono problemi. Il guaio è che appena entri in carcere non ti danno diritti, quindi succedono questi casini”. Avrà letto dei disordini di sabato... “Succede così quando il gatto non c’è e i topi ballano. A Bari i detenuti vengono trattati peggio dei terroristi, e questo le commissioni che vanno in visita non lo vedono. Magari si fermano alla sezione femminile, che è un’altra cosa, o passano dal minorile e dalla sezione lavorativa. Ma le cose non stanno così, è da trent’anni che purtroppo continuano ad andare male”. Com’erano le sue giornate? “Non fai niente, stai nella stanza. A un certo punto hanno ricavato alcune stanzette per attività comuni, come giocare a carte, si andava giusto un’ora. Poi un’ora all’aria e niente più. Su 24 ore, per 21 stavi nella stanza con tutti gli altri. Io ero più fortunato degli altri perché uscivo per dare da mangiare, ma non durava molto”. Circolava droga? “Sì, la droga entra come l’acqua, e pure i telefoni. Era una cosa normale. C’era chi aveva i telefoni per non usare quello comune con i soldi del conto, perché lì registrano le telefonate”. E come si pagava la droga? “Si paga da fuori. Lì dentro non circolano contanti, ma la droga e i telefoni in carcere ci sono e ci saranno sempre”. Il suo ricordo più brutto? “Quando uno si è impiccato nella nostra stanza. L’abbiamo salvato, ma non si è saputo niente all’esterno”. E ora che è libero come sta? “Gli ultimi tre mesi li ho passati a casa, è stato bellissimo tornarci dopo anni. Ormai sono libero, e ti innamori della libertà. Lì dentro ho visto di tutto, ho visto pedofili in cella con persone normali, si facevano un sacco di sbagli. Ora ho la mia officina e la famiglia. Ma a volte ricordo, e faccio sogni strani. È una cosa che rimane per sempre nella memoria, e quando mi sveglio non mi rendo subito conto di essere finalmente tornato a casa”. Bari. “Il carcere non è sicuro: in piena città e sovraffollato, è un rischio per la salute di tutti” di Anna Puricella La Repubblica, 21 agosto 2024 Dopo la rivolta di sabato sera si riaccende l’allarme sull’istituto penitenziario: parla Dario Capozzi, segretario Fp Cgil per l’area metropolitana di Bari e segretario generale. In Puglia le carceri più sovraffollate d’Italia, denuncia l’associazione Luca Coscioni sulla base dei dati ministeriali. Il primato è da vergogna: la Puglia è la prima regione d’Italia per sovraffollamento delle carceri, con il 144 per cento di detenuti. Il dato registrato al 31 luglio dal ministero della Giustizia ha dato il la all’associazione Luca Coscioni, che ha diffidato le Asl di tutta Italia - Puglia compresa - “perché la totale mancanza di attenzione alla salute nell’ultimo decreto del governo in materia di carceri fa emergere una situazione di violazione strutturale, fra gli altri, del diritto alla salute delle persone ristrette”. I disordini di sabato scorso nel carcere di Bari, con un gruppo di detenuti che ha ferito un agente e sequestrato un infermiere, sono l’ultima goccia di un vaso pronto a traboccare. Fra sovraffollamento - a Bari ci sono 388 detenuti dove dovrebbero starcene 294 - e carenza di agenti della Polizia penitenziaria - 221 invece di 254 - la miccia è più che innescata. “E avere un carcere nel centro della città non va bene”, dice Dario Capozzi, segretario Fp Cgil per l’area metropolitana di Bari e segretario generale. Capozzi, non ci sono rimedi al sovraffollamento? “No, l’unico sarebbe una seria politica assunzionale. L’amministrazione penitenziaria è messa male, come pure il ministero. Mancano i poliziotti penitenziari, gli assistenti sociali, gli amministrativi. Non si tratta soltanto di personale che lavora nel carcere, ci sono anche quelli degli Uffici di esecuzione penale esterna degli istituti minorili, coloro che accompagnano gli assistenti sociali a fare le visite dell’Ufficio di servizio sociale per i minorenni. La soluzione è assumere”. La carenza di organico è cosa nota. Ma ciò che è successo la sera del 17 agosto fa pensare che ci fossero meno agenti del previsto, considerando il periodo di ferie... “Sapere quanti agenti fossero al lavoro quella sera è un dato sensibile che l’amministrazione non darà. Ma rispetto alle forze in essere, bisogna ricordare che quel totale di 221 agenti si divide in quattro turni e quindi per turno ci sono circa una cinquantina di agenti. È inimmaginabile per un carcere come quello di Bari, che ha quasi 400 detenuti. Se succede qualcosa, devi sperare che ci sia un poliziotto in grado di contenere la situazione come è stato quella sera”. Visto il sovraffollamento, il problema sarà anche igienico... “Sta tutto dentro i concetti di salute, tutela e sicurezza sui luoghi di lavoro. Mancano sia per chi lavora sia per chi è ospite, a Bari. Le carceri non sono mai stati posti salubri, ma con il sovraffollamento è peggio. In una cella non ci sono meno di cinque, sei persone. Come si fa a non impazzire quando ci sono 40 gradi? Stare in tanti in una stanza con quelle condizioni climatiche è impossibile: dove si va a fare l’ora d’aria, se fuori fa così caldo? Il problema è che un carcere come quello di Bari non va più bene”. In che senso? “Se è vero che vogliamo stare dentro le norme costituzionali, le carceri dovrebbero essere luoghi di rieducazione. Però nel 2024 avere un carcere nel centro della città, come a Bari, è pura follia. Da fuori c’è chi passa sotto e lancia cartoni di vino in cui ci trovi di tutto: siringhe, droghe, alcol, telefoni cellulari. Dovremmo tenere i detenuti lontani da ciò che li ha portati in carcere, ma se arrivano tutte quelle robe dall’esterno come si fa? Le carceri nel cuore delle città non vanno bene”. I disordini sono partiti da un detenuto con problemi psichiatrici. Più che in carcere doveva essere in una Rems, una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Ma in Puglia non ci sono posti... “Non ce ne sono. E quando diciamo che il carcere di Bari è un hub sanitario, a quali malattie pensiamo? Ci sono i malati oncologici, certo, ma pure i tossicodipendenti che si devono disintossicare. E ci sono pure i detenuti con problemi psichiatrici. È una questione complicata. E nonostante una serie di strumentazioni ci siano, magari capita di dover portare un detenuto a fare una Tac fuori dal carcere. Ecco, in un caso come questo servono quattro agenti per accompagnarlo e si torna al discorso di prima: se i poliziotti sono pochi e non riescono neanche a coprire i turni, come fanno ad accompagnare un detenuto? È un cane che si morde la coda. Se facessimo funzionare il mondo degli educatori e degli assistenti della giustizia minorile, forse qualcosa potrebbe cambiare”. Per risolvere i problemi delle carceri lei fa riferimento sempre ai minorenni... “Se ci fossero più poliziotti, educatori e assistenti sociali nella giustizia minorile potremmo provare a recuperare i minori, così ci sarebbero meno ingressi in carcere, che magari per un giovanissimo che è già stato all’Ipm diventa un luogo di ritrovo dove costruire una rete criminale. Quindi per evitare una serie di conseguenze gravi, disordini compresi, dovremmo cominciare a far funzionare gli istituti di pena minorili, perché moltissimi poi traslocano nel tempo nelle case di reclusione per adulti e lì restano. E non dimentichiamo che i detenuti costano, soprattutto in un hub sanitario dove si sono poliziotti, ma anche medici, infermieri e assistenti”. Milano. Nuova protesta all’Ipm Beccaria di Fabrizio Capecelatro fanpage.it, 21 agosto 2024 Nuovo episodio di violenza al carcere Beccaria di Milano: nella notte fra martedì 20 e mercoledì 21 agosto alcuni giovani detenuti hanno dato fuoco a un materasso. Gli agenti della Polizia penitenziaria hanno quindi evacuato le celle, portando una ventina di loro in cortile. A quel punto sarebbe scoppiata una rivolta all’interno dell’istituto penitenziario e, durante la sommossa, un secondino ha ricevuto un colpo alla testa. La situazione è rientrata grazie all’intervento del nucleo Radiomobile dei Carabinieri e della Squadra Volanti della Questura di Milano. Cinque agenti di Polizia penitenziaria e tre detenuti sono quindi stati portati in ospedale per una leggera intossicazione. Purtroppo la situazione dell’istituto penitenziario minorile di Milano risulta sempre più complessa, soprattutto a causa del sovraffollamento e della mancanza di progetti volti al recupero dei giovani detenuti. Una situazione a cui il nuovo direttore, Claudio Ferrari, sta cercando di porre rimedio, ma non è facile dopo anni e anni di malagestione. A maggior ragione dopo l’inchiesta della Procura della Repubblica di Milano che ha appurato l’esistenza di un sistema di torture e soprusi sui detenuti operati da molti dei poliziotti in servizio presso la casa circondariale. Già prima i riflettori si erano (finalmente) accesi sul Beccaria, quando sette ragazzi sono evasi in prossimità delle festività natalizie. E in molti avevano iniziato a interrogarsi sulle condizioni in cui i ragazzi reclusi dovevano vivere e di quanto questo fosse molto distante dall’idea di rieducazione e reinserimento sociale che qualsiasi carcere dovrebbe avere, a maggior ragione quello minorile. Da quel momento è stato un continuo susseguirsi di episodi gravi, fino alla scorsa notte, quando - intorno all’una - un gruppo di detenuti ha dato alle fiamme un materasso in una cella. I poliziotti hanno quindi evacuato una parte della struttura, per precauzione. Radunati in cortile, i ragazzi hanno dato vita a una protesta. Un agente è stato anche colpito alla testa durante i tumulti. Il personale interno all’istituto penitenziario, sempre più sguarnito, nonostante aumenti il numero dei detenuti, non riusciva a gestire da solo quella situazione e quindi è stato costretto a chiedere il supporto a Polizia e Carabinieri, che hanno inviato sul posto alcune volanti. La protesta è stata quindi sedata. Nel frattempo sono intervenuti anche cinque mezzi dei vigili del fuoco per spegnere le fiamme, ma cinque agenti e tre detenuti sono stati trasferiti in ospedale per intossicazione. Bologna. Carcere della Dozza, protesta con stoviglie e piatti sbattuti di Federica Orlandi Il Resto del Carlino, 21 agosto 2024 Detenuti protestano con la “battitura”. Sovraffollamento e criticità denunciate dai sindacati. Garanti visitano la struttura. La tensione alla Dozza resta altissima. Dopo le aggressioni ai danni di tre poliziotti penitenziari finiti all’ospedale mentre cercavano di sedare una rissa tra alcuni detenuti, la situazione non si è placata. Fino alla tarda serata di lunedì una decina di detenuti del piano penale ha protestato con la tecnica della ‘battitura’, che consiste nello sbattere pentole e stoviglie contro le sbarre delle loro celle, creando una insopportabile cacofonia, per i disagi ormai tristemente noti, il sovraffollamento in primis. Ricordiamo che la Dozza ospita al momento poco meno di 850 detenuti a fronte di una capienza massima di 446. Ieri poi, il secondo piano giudiziario - quello che ospita il reparto ‘chiuso’ 2B, particolarmente problematico proprio per gli episodi di violenza che vi si verificano e che ha ospitato appunto quello di lunedì, sia la rissa tra i detenuti sia il ferimento dei tre poliziotti - ha fatto eco alla ‘battitura’, che si è ripetuta anche ieri pomeriggio, assieme a qualche momento di tensione e protesta ben presto rientrato. Proprio ieri, inoltre, il garante regionale dei diritti dei detenuti Roberto Cavalieri e quello comunale Antonio Ianniello, sono andati in visita alla Dozza per accertarsi di persona della situazione all’interno della casa circondariale e delle persone che ospita. Le problematiche, del resto, sono a più riprese denunciate dai sindacati di polizia penitenziaria che operano nella casa circondariale Rocco D’Amato. “Il carcere è il ripostiglio dei problemi sociali”, l’aveva metaforicamente descritto Nicola D’Amore, poliziotto penitenziario e sindacalista Cisl parlando con il Carlino un paio di settimane fa, che puntava il dito anche contro le scarse opportunità di lavoro e di rieducazione per i detenuti e la problematicità nella gestione di soggetti psichiatrici o con dipendenze, come ribadito anche ieri alla luce del grave accaduto nel penitenziario bolognese. Bellizzi Irpino (Av). Nel carcere celle sovraffollate e acqua razionata: “Dramma senza fine” di Alessandra Montalbetti Il Mattino, 21 agosto 2024 “Le condizioni dell’Istituto Penitenziario di Avellino sono oggettivamente drammatiche”. Alle vecchie problematiche vissute dalla popolazione detentiva, se ne sono aggiunte anche alcune nuove, legate al periodo estivo tra le quali il razionamento dell’acqua. Mancano le attività ricreative, ma come se non bastasse, si registra una cronica carenza di personale e al contempo un continuo sovraffollamento dei vari reparti”. A denunciare le criticità annose riscontrabili nel carcere di Bellizzi Irpino, gli avvocati Gaetano Aufiero, Michele Fratello, Mauro Alvino e Luca Pellecchia, in rappresentanza della Camera Penale Irpina. I quattro componenti lunedì si sono recati, accompagnati dalla Direttrice del carcere Rita Romano, e dal Primo Dirigente Stefania Cucciniello, all’interno della Casa Circondariale di Avellino Bellizzi Irpino per effettuare una visita ispettiva e valutare le condizioni di vita dei detenuti e quelle lavorative del personale di Polizia Penitenziaria, aderendo all’iniziativa “Ferragosto in Carcere” promossa dall’Unione delle Camere Penali e dall’Osservatorio Carcere. Alla visita ha partecipato l’onorevole Michele Gubitosa, deputato irpino del Movimento 5 Stelle, che ha dato ampia disponibilità per riscontrare de visu le condizioni di vita dei cittadini detenuti. La delegazione ha con estremo sconcerto “evidenziato il sovraffollamento carcerario, oramai fisiologico, con circa 150 detenuti oltre l’ordinaria capienza, una gravissima carenza di organico della Polizia Penitenziaria. Precisamente mancano oltre 80 Agenti di Polizia Penitenziaria rispetto ai 250 Agenti di organico ordinario. Inoltre, è riscontrabile l’assenza totale di assistenza psichiatrica nonostante i circa 150 detenuti in cura per tali patologie, nonché l’estrema e talvolta insuperabile difficoltà dei detenuti ad accedere alle cure mediche ordinarie ovvero a visite specialistiche per le quali occorrono, talvolta, mesi anche quando segnalate quali assolutamente urgenti, le condizioni di assoluto disagio di reclusione in considerazione della fatiscenza delle celle e di assoluta disumanità in particolare in alcune sezioni, il razionamento dell’acqua in orario notturno e talvolta anche in orario diurno, la totale assenza di corsi di formazione ovvero di attività ricreative per i detenuti”. Questi sono soltanto alcuni, ma certamente i più gravi, dei problemi riscontrati rispetto ai quali “occorre porre immediato rimedio”. La Camera Penale Irpina, nel denunciare quanto sopra, espressamente chiede “che tutte le competenti Autorità Giudiziarie ed Amministrative verifichino le condizioni di vita della popolazione carceraria all’interno dell’Istituto Penitenziario di Avellino, adottando tutti i provvedimenti necessari ed urgenti per porre fine al devastante e non più tollerabile orrore che le parole non potranno mai adeguatamente descrivere”. Condizioni drammatiche quelle vissute all’interno del carcere di Avellino riscontrate già in una precedente visita effettuata da una delegazione della Camera Penale Irpina lo scorso 6 luglio, ed oggi, come allora “sono state riscontrate problematiche di assoluta gravità che, purtroppo, rendono l’Istituto Penitenziario avellinese, sotto molti profili, ben oltre i confini della legalità costituzionale”. I rappresentati della Camera Penale Irpina hanno anche precisato “che la Direttrice dell’Istituto Penitenziario e tutto il personale sia amministrativo che della Polizia Penitenziaria svolgono con apprezzabile abnegazione e con grande professionalità il loro lavoro in condizioni, tuttavia, di estrema difficoltà ed altresì, si ritiene, di totale abbandono da parte delle competenti Istituzioni”. Forlì. Carcere, i Radicali in visita: “Istituto ben organizzato, pur con alcune criticità” di Paola Mauti Il Resto del Carlino, 21 agosto 2024 La delegazione del partito ha promosso con riserva la Casa circondariale: “Situazione migliore nel settore femminile. In arrivo alcuni medici neolaureati”. È un tema caldo quello della situazione delle carceri italiane: strutture fatiscenti, sovraffollamento, carenza di personale addetto alla sorveglianza e di quello sanitario. Problemi che si trascinano da molto tempo e i 56 suicidi registrati tra i detenuti dall’inizio di quest’anno ne costituiscono la spia, un doloroso segnale che arriva alle coscienze di tutti. Nell’ambito della recente intesa tra Partito Radicale e Forza Italia, i leader di quei partiti hanno messo in calendario una serie di visite presso gli istituti penitenziari su tutto il territorio nazionale. Per questo, Maura Benvenuti e Vito Laruccia, membri del consiglio generale del Partito radicale, erano ieri nella Casa Circondariale di Forlì, ubicata, come è noto, presso l’antica Rocca medievale. Una visita, peraltro, che segue quella effettuata una settimana fa da Rosaria Tassinari, deputata di Forza Italia ed ex assessora comunale. E se, nel complesso, l’Istituto, con 159 detenuti presenti, di cui 20 donne, su una capienza di 165, a giudizio dei due esponenti politici, è risultato sostanzialmente promosso, le criticità evidenziate sono pressoché tutte riconducibili all’inadeguatezza strutturale. “Pochi giorni fa ci era arrivata la notizia che erano ripresi i lavori per la costruzione del nuovo carcere - dice Maura Benvenuti -. Adesso, pare ci sia un nuovo stallo, perché la ditta che ha perso l’appalto, come accaduto in passato, ha fatto ricorso. Intanto, si sono registrati furti in cantiere, e questo farà lievitare i costi”. Le celle, soprattutto nel reparto maschile, sono piccole e, da qualche tempo, i detenuti sono costretti a conviverci in due o tre, perché dopo l’alluvione dell’anno scorso un intero reparto è stato chiuso per inagibilità. Migliore la situazione nel reparto femminile, “con celle più spaziose e bagni nei quali le detenute spesso riescono ad organizzare una cucina”. Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, che da qualche anno era carente, “con il reclutamento di alcuni medici neolaureati, sarà ora possibile garantirla ai reclusi anche di notte”. Un problema che il carcere di Forlì condivide con gli istituti penitenziari di Ravenna, Ferrara e Rimini è l’assenza del garante. “Ci stiamo ponendo il problema di individuare provvedimenti che consentano di svuotare le carceri - conclude Benvenuti - un tema su cui anche il ministro Carlo Nordio è d’accordo quando dice che ci sono almeno 5mila detenuti che potrebbero essere ospitati presso strutture alternative. Noi, e su questo non concordiamo con Forza Italia, proponiamo un’amnistia, oltre ad una riforma radicale della giustizia”. Benevento. “Carcere di contrada Capodimonte: buona gestione ma criticità nel settore sanitario” ottopagine.it, 21 agosto 2024 La Camera penale ha visitato oggi la struttura di contrada Capodimonte. La Camera Penale di Benevento, con una delegazione composta dagli avvocati Simona Barbone, presidente, Nico Salomone, componente di Giunta e membro dell’Osservatorio nazionale carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane, Laura Cancellieri, Fiorita Luciano e Andrea Tranfaglia, nell’ambito dell’iniziativa “Ristretti in agosto”, organizzata dall’Osservatorio Carcere dell’UCPI, ha visitato oggi la casa circondariale di Benevento. Grazie alla disponibilità e alla guida del direttore Gianfranco Marcello e del vice comandante della polizia penitenziaria Alessandra Iandiorio, oltre che del personale di P.P., la delegazione ha fatto ingresso nei reparti maschile e femminile. In una lunghissima nota si legge che “rispetto alla capienza regolare di 261 unità, sono presenti attualmente in istituto 412 detenuti (così suddivisi, 259 definitivi, 70 in attesa di 1° giudizio, 42 appellanti, 37 ricorrenti, 1 internato provvisorio), di cui 204 AS (alta sicurezza), 82 MS (media sicurezza), 10 in isolamento fiduciario, 22 protetti, 83 donne (di cui 15 in settore protetti), 4 autorizzati al lavoro esterno ex art. 21 O.P. e 6 semiliberi. Il descritto sovraffollamento grava sulle spalle del personale di polizia penitenziaria (in evidente affanno) e civile, determinando difficoltà di ogni tipo, sul piano logistico-organizzativo e trattamentale. Il personale di polizia penitenziaria consta di 215 agenti, tra posizioni apicali, dirigenti (2), ispettori (27), sovrintendenti (29) e agenti assistenti (157), tra i quali permane una sensibile e problematica situazione di sottorganico (rispetto ai 174 agenti assistenti previsti in pianta organica), aggravata dal sovraffollamento. Il personale civile composto dai funzionari giuridico-pedagogici (cd. “educatori”) consta di unità sotto la decina (6) che si rivelano carenti in rapporto alle esigenze del “trattamento intensificato/individualizzato” per i detenuti, che dovrebbero di fatto vivere il carcere all’esterno della singola cella, impegnati in attività rieducative e di reintegrazione. Al fine di assicurare l’attività trattamentale prevista dall’O.P. sarebbero necessari all’interno dell’Istituto penitenziario almeno due educatori per ogni sezione, cosa che almeno per il momento appare irrealizzabile”. Una criticità definita “significativa insiste ancora nel settore sanitario: sono previsti in organico 7 medici e 13 infermieri per la continuità assistenziale; come specialisti interni, vi sono unicamente una ginecologa e una dentista. Il resto delle visite specialistiche è demandato all’esterno con lunghi tempi di attesa. Il turno giornaliero del singolo medico presente in istituto lo costringe a ritmi massacranti; lo stesso vale per il personale infermieristico. Sotto il profilo dell’assistenza psichiatrica, l’ASL garantisce in concreto la presenza di uno psichiatra (a rotazione) all’interno dell’istituto solo per quattro volte al mese (che di fatto si riducono spesso a due o tre al mese), assolutamente insufficiente, oltretutto con un’attività limitata a non più di 5 consulenze per ogni accesso (dal marzo 2023 ad oggi, sono state effettuate quasi trecento consulenze psichiatriche, il che è indicativo di una folta presenza in carcere di detenuti con disagio, numeri rispetto ai quali l’assistenza fornita, come descritta, si rivela appunto gravemente inadeguata). L’articolazione sanitaria, inoltre, in generale, è priva di autonomia strutturale, situata al fianco del reparto MS e con équipe a rotazione con organico strutturalmente carente. L’articolazione Ser D dell’ASL territoriale garantisce per un solo giorno a settimana la presenza di proprio personale (medico, psicologo e sociologo in équipe) ai fini dell’assistenza ai detenuti tossicodipendenti (attualmente circa 40 in struttura); anche qui numeri insufficienti”. L’Istituto “garantisce attività scolastica (scuola dell’obbligo, istituto alberghiero ed altri corsi di formazione) e lavorativa; all’interno è presente una sartoria dotata di strumenti all’avanguardia, dunque in grado di produrre lavori sartoriali di buona fattura (in fase pandemica erano state prodotte mascherine per la cittadinanza e ordinariamente vengono prodotte divise per i lavoranti e manutenute le divise della polizia penitenziaria). Più limitata è l’attività trattamentale di tipo culturale e ricreativo, demandata come sempre alla buona volontà dei volontari, che pur organizzano eventi teatrali e cinematografici all’interno dell’istituto, con una certa frequenza, anche grazie all’impegno della Direzione, degli educatori e degli agenti. I locali palestra interni ai reparti sono desueti e sostanzialmente inutilizzati, con macchine ormai fuori uso e obsolete. I locali per la socialità appaiono spogli, in particolare nel reparto comuni, con connesse forti lamentele dei detenuti. L’istituto ha attivato ormai da tempo un servizio e-mail per le comunicazioni con i detenuti ed ha implementato, per i colloqui, l’utilizzo delle videochiamate, pur avendo ripristinato il sistema ordinario delle visite in vigore precedentemente all’emergenza pandemica. È sempre presente in struttura il “totem” elettronico messo a disposizione dei detenuti per la spesa, oltre che una ludoteca utilizzata per i colloqui con i familiari dei detenuti con figli e un servizio anagrafe per i documenti di identità. Per quanto appreso direttamente dal personale e soprattutto dai detenuti medesimi, le visite al carcere da parte dei magistrati di sorveglianza per i colloqui richiesti e periodici sono effettuate di rado; e negli ultimi anni i colloqui si svolgono prevalentemente (quasi esclusivamente) con modalità telematiche. A tale carenza, si aggiunge - sempre in termini di colloqui con i detenuti - il peso dell’assenza di un vice direttore in pianta stabile”. Sul versante delle lamentele, se ne raccoglie più di qualcuna “da parte dei detenuti per l’acqua calda presente ad intermittenza in alcuni reparti a causa di problematiche strutturali, acqua calda oggi praticamente assente da oltre un mese ai piani superiori (in particolare al quarto, media sicurezza). La Direzione ha completato i lavori per risolvere tale disagio, ma la recente problematica della carenza d’acqua a Benevento colpisce l’istituto in modo grave, determinando forti tensioni tra i detenuti. Almeno temporaneamente, vista l’urgenza, la Direzione ha messo a disposizione dei detenuti del reparto comuni bombolette per il riscaldamento dell’acqua. Il servizio lavanderia, che per anni e ancora oggi serve anche la struttura di Ariano Irpino, presenta disfunzioni in qualche reparto. Le celle, nonostante il sovraffollamento, appaiono in condizioni mediamente accettabili, con qualche caso più evidente di spazio eccessivamente ristretto, ai limiti delle misure ritenute “umane”, secondo i criteri individuati dalla CEDU, dalla giurisprudenza di legittimità e dalla legislazione nazionale”. Il carcere di Benevento, in definitiva, “si appalesa come un istituto penitenziario che tra le mille difficoltà connesse alla carenza di fondi, personale, strutture e alla scarsa attenzione della Politica e delle Istituzioni, si muove lungo una linea di buona gestione e impegno che garantisce ascolto e detenzione mediamente “sopportabile”, ma con l’urgenza ormai non più rimandabile di provvedere da parte delle autorità sanitarie competenti a garantire una concreta assistenza psichiatrica, e sanitaria in generale, degna di un Paese civile. La scelta legislativa di “esternalizzare” la sanità penitenziaria ha contribuito a condurre allo stato critico attuale: la sanità regionale appare spesso “sorda” rispetto alle problematiche dei detenuti, lenta, farraginosa e carente. È assolutamente necessaria un’inversione di rotta. Più in generale, la grave condizione di sovraffollamento rende cogenti interventi legislativi di deflazionamento detentivo/carcerario, interventi seri ormai non più rinviabili; provvedimenti come l’amnistia e/o l’indulto, oltre che una seria estensione della gamma delle misure alternative alla detenzione e dell’applicazione della liberazione anticipata”. Vicenza. Ex poliziotto, rapinatore e detenuto. “Ora aiuto chi esce dal carcere” di Claudia Milani Vicenzi Giornale di Vicenza, 21 agosto 2024 Anni di colpi per pagarsi il gioco d’azzardo. Dopo le condanne la detenzione, la casa lavoro e San Patrignano. La sua storia ha ispirato la rappresentazione teatrale di Gianfelice Facchetti, “La confessione di Agostino”, con l’attore Claudio Orlandini. Da poliziotto, quando aveva 20 anni, a operatore che si occupa di detenuti, oggi che di anni ne ha più di 60. In mezzo un lungo periodo tra scommesse e notti al casinò, rapine agli uffici postali e nei centri commerciali, condanne e poi, ancora, il carcere, la casa lavoro, la comunità. Tante vite, quelle di Agostino Paganini. Vite di eccessi e di errori, ma anche di dolore e di guarigione. E lui, che oggi ha saldato ogni debito con la giustizia, parla senza problemi del suo passato. Quando incontra i giovani nelle scuole lo racconta, lo spiega, riesce persino ad essere ironico e a scherzarci su. “Cerco di far capire ai ragazzi, facendoli anche sorridere, i rischi che si corrono con il gioco d’azzardo, le conseguenze che scelte sbagliate possono avere sulla vita di ciascuno. Parlo della mia sofferenza per fare in modo che altri non debbano viverla. Sono incontri che lasciano il segno. Non posso dimenticare quando una studentessa, dopo avermi ascoltato, mi ha abbracciato, raccontandomi la sua difficile situazione in famiglia”. Prima agente e poi bandito - Sembra la trama di un film. Di sicuro la sua vicenda ha ispirato la rappresentazione teatrale di Gianfelice Facchetti, “La confessione di Agostino”, con l’attore Claudio Orlandini. Tutto è nato con una lettera pubblicata sulla Gazzetta dello Sport. Una lettera scritta da un detenuto, Paganini appunto, che ricordava quando, bambino, andava a San Siro con il padre e vedere le partite. Dopo averla letta Facchetti decise di scrivergli in carcere: seguì un lungo scambio epistolare, e nacque un’amicizia che continua ancora oggi. Facchetti parla di lui anche nel libro “C’era una volta San Siro”. Racconta di quello che può essere considerato il giorno che ha segnato la vita di Agostino. L’arrivo, appena quindicenne, all’ippodromo dopo essere andato a vedere l’Inter a San Siro. “Si voltò e vide Oderisi ai nastri di partenza. Fu quell’animale a scalciare il suo destino” si legge nell’opera. Perché quel giorno Paganini, originario di Nerviano, vicino a Milano, fece la sua prima puntata, cinquemila lire, la mancia della nonna. E andò bene, anzi benissimo. Vinse un sacco di soldi - Inevitabile che tornasse la settimana dopo. E allora perse. “In quella disfatta - scrive Facchetti - firmò il suo patto con il diavolo. In fretta sarebbe diventato un giocatore incallito”. Il gioco gli costò la bocciatura all’ultimo anno delle superiori, perché al mattino preferiva andare a vedere gli allenamenti dei cavalli e accumulò troppe assenze. Poi, una volta diplomato, iniziò a lavorare, un modo per avere soldi da giocare. Tutte le date significative sono impresse nella sua mente ma una lo è in particolare: il 18 settembre 1981. “Fu quel giorno che ebbi per la prima volta la certezza che dovevo cambiare vita”. Passando davanti a un commissariato la decisione di diventare poliziotto. Un tentativo di sfuggire ai propri demoni, che però si è rivelato vano. “Lavoravo a Ventimiglia, troppo vicino a Sanremo e a Monte Carlo, con i loro casinò e le loro tentazioni. In servizio il mio comportamento è sempre stato ineccepibile, ma finito il turno continuavo a giocare”. Nel 1987 la decisione di lasciare la polizia e di intraprendere la carriera di agente immobiliare. Lui era bravo, il periodo ottimo per il settore e gli affari andavano a gonfie vele. Peccato che, ancora una volta i soldi guadagnati, tanti, finissero sui tavoli da gioco. Assenze dal lavoro sempre più frequenti, dissidi con i soci e la decisione di lasciare, mettendosi in proprio. Ma ormai la credibilità era persa e riuscire a lavorare più difficile. La prima rapina - Nel 2007 la prima rapina, in un centro commerciale, l’arresto, la condanna a tre anni nel carcere di Alba. Poi il trasferimento a Padova, la semi-libertà a Vicenza con il progetto Jonathan e la nuova ricaduta. “Continuavo a giocare, facevo puntate al telefono e avevo accumulato un debito di 7.200 euro che dovevo pagare entro il 1° dicembre. Per saldarlo sono evaso, sono corso a Milano e in 16 giorni ho messo a segno 17 colpi”. Sempre da solo, sempre armato “soltanto” di pistola giocattolo o di coltello, sempre prendendo di mira uffici postali o case scommesse (“Quasi volessi riprendermi indietro i soldi che avevo perso”). Poi il nuovo arresto e la condanna, pesante, a 12 anni. Il carcere, la casa lavoro, la libertà vigilata, sempre in balia del demone del gioco e infine tre anni a San Patrignano”. E finalmente la libertà, quella fisica ma soprattutto dal gioco d’azzardo, diventato finalmente un ricordo. Il 9 novembre 2022 un’altra data storica: da quel giorno non è più considerato “socialmente pericoloso”. Ultima tappa del cammino il ritorno a Vicenza - Nella comunità Jonathan, non più come ospite, ma come operatore. “Nonostante il dolore e la sofferenza ho pianto poche volte. Una di queste è stata nella casa lavoro, l’esperienza più traumatica che io abbia mai vissuto in tanti anni. Inizialmente non capivo perché la definivano “ergastolo bianco”, poi mi è stato chiaro. È stato un prolungamento della pena nonostante avessi già pagato, prolungamento che non sapevo quanto sarebbe durato. Ed è stato peggio del carcere. Il giudice di sorveglianza può stabilire la permanenza di un detenuto, chiamato “internato”, in una di queste strutture. La misura però è reiterabile. Un ergastolo a tutti gli effetti per certe persone. Ho conosciuto un internato che era lì dal 1968”. Bergamo. “Nelle loro lettere i detenuti spiegano ai miei studenti che cosa significa sbagliare” di Fabiana Tinaglia L’Eco di Bergamo, 21 agosto 2024 Adriana Lorenzi, scrittrice e insegnante, racconta del suo impegno ventennale alla casa circondariale di Bergamo nei laboratori di scrittura con i detenuti. Il suo sogno di bambina? Diventare una lettrice e una scrittrice: Adriana Lorenzi lo ha realizzato e ci ha unito anche la rara abilità di essere formatrice e insegnante tra la casa circondariale di Bergamo e una scuola secondaria di primo grado della provincia di Bergamo. “Cerco - racconta nella video intervista - di trasformare ciò che vivo in scrittura. La mia scrittura è una scrittura di esperienza: mi succede qualcosa e ho voglia di provare a rifletterci con la parola”. Nel suo ultimo libro “Dalla parte sbagliata” (Sensibili alle foglie editore, 2022) ripercorre in forma di finzione letteraria l’esperienza ormai ventennale di laboratori di scrittura nel carcere di Bergamo. “Cerco di lavorare sulla dimensione rieducativa dei detenuti in carcere: avere con loro uno spazio in cui si riflette su quello che è stato e che potrebbe essere, ripensare a ciò che è accaduto, passare dal “così è stato” al “così ho fatto” in un’assunzione di responsabilità”. E speciale è il rapporto che è riuscita a costruire a distanza tra i detenuti e i suoi studenti attraverso uno scambio di lettere in cui chi è in carcere può spiegare ai ragazzi che cosa significa sbagliare, gestire le propria rabbia, ascoltare i genitori. Lodi. “Altre storie”, le esperienze del carcere sul “Cittadino” Il Cittadino, 21 agosto 2024 Sul primo numero l’esperienza di Agnese Moro, ospite in carcere. “Altre storie”. È il titolo dello spazio che “il Cittadino” riserverà al carcere di Lodi, alla vita dei detenuti, alle loro esperienze e alle attività della struttura. Dalla chiusura di “Uomini Liberi” il carcere era un po’ più povero. Rimediamo con questo nuovo impegno, nato dalla collaborazione fra la nostra testata e la direttrice del carcere e reso possibile grazie a un gruppo di volontari e alla dedizione dei detenuti, che ringraziamo. Sul “Cittadino” di martedì 20 agosto troverete due pagine di “Altre storie”, un primo passo, per aiutare il carcere ad aprirsi alla città e per aiutare la città a comprendere meglio cosa si fa dentro il carcere, in un frangente molto difficile per il sistema penitenziario italiano come attestano le cronache quotidiane. Lorenzo Rinaldi, direttore “il Cittadino” L’esperienza di Agnese Moro e le “improbabili amiche” Tutti conoscono la storia di Aldo Moro, ma non tutti quella di Agnese. Il 28 maggio 2024 nel carcere di Lodi abbiamo avuto modo di incontrarla e di ascoltare le sue parole. Figlia di Aldo Moro, politico, uomo di Stato, presidente della Democrazia cristiana morto ammazzato con la sua scorta nel 1978 a Roma. Sequestrato prima e poi ucciso dalle Brigate Rosse. Abbiamo avuto modo così di incontrare non solo “la figlia di...” ma una donna, una persona che come tanti altri porta sulle spalle una storia. Un incontro che si inserisce nel nostro progetto “Altre storie” perché questa è una storia che fa la differenza. Con Agnese c’era Grazia Grena, ex militante di un gruppo eversivo attivo negli anni Settanta. Abbiamo incontrato due donne forti, direi speciali: la loro assoluta sincerità era disarmante. Il dolore di Agnese era palpabile, è arrivato a noi in modo tanto diretto da sentirlo quasi nostro. Ci ha detto che prima del percorso sentiva di avere una vita irrimediabilmente segnata dalla vicenda di suo padre e di non riuscire a trovare la sua vera identità di persona perché era sempre e solo conosciuta come “la figlia di Aldo Moro”. Con il percorso di giustizia riparativa si è sentita liberata da un peso, perché finalmente si è sentita riconosciuta; lei è sicuramente una donna forte, ma la sensibilità che ha mostrato in questo frangente ci ha toccato dentro. Grazia, anche se materialmente non ha partecipato all’agguato di Aldo Moro, condivideva le idee della lotta armata che in quegli anni imperversava in Italia. Ha dovuto, e soprattutto ha voluto, fare i conti con il proprio passato non a livello penale, perché il suo debito con la giustizia l’ha pagato, ma a livello morale nel percorso da lei intrapreso prima con sè stessa e poi con Agnese. Sentire Agnese raccontarsi è stata un’esperienza coinvolgente. Ci ha toccato la sua emozione nel rivivere i giorni del sequestro, della morte di suo padre, del senso di vuoto che l’ha accompagnata per tanti anni, le sue paure, il suo non darsi pace per quello che era successo e il desiderio di capire il perché sia successo, di guardare in faccia chi quel dolore gliel’ha procurato e semplicemente chiedergli perché. Sentire lei e Grazia dialogare è stato all’inizio un po’ strano, poi con il passare dei minuti è diventato più chiaro. Sembravano amiche da una vita, o “improbabili amiche” come loro stesse si definiscono, invece erano state proprio le vicende della loro vita a farle incontrare. Erano sulla stessa lunghezza d’onda, parlavano la stessa lingua. Due donne dal passato così diverso, però accomunate dallo stesso tragico evento, e ora dallo stesso obiettivo: riconciliarsi. A noi cosa rimane? La consapevolezza di avere una possibilità in più, quella di poter andare oltre il risentimento e la vendetta. Articolo scritto dai detenuti del carcere di Lodi Per Antigone Giorgio Poidomani resterà sempre un socio onorario: ai salotti preferiva Rebibbia di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2024 Se ne è andato Giorgio Poidomani, che ebbe l’intuizione di fondare il Fatto Quotidiano e che ne è stato amministratore delegato unico per il primo periodo. Aveva compiuto 90 anni lo scorso luglio. Prima di lavorare nel campo dell’editoria, è stato un grande manager di Stato. Una eccezionale carriera, una capacità straordinaria di previsione. In tanti si affidavano ai suoi consigli, che metteva a disposizione con generosità, prima di imbarcarsi in qualche avventura editoriale. Circa quindici anni fa, una sera, si mise al computer e scrisse una decina di mail ad altrettante associazioni italiane. Tra queste c’era Antigone. La mattina dopo trovò due risposte nella casella di posta, una dalla nostra segreteria e una personale del nostro presidente. Erano i due indirizzi ai quali ci aveva scritto. Scelse allora Antigone. Venne a incontrarci e si mise a disposizione per fare il volontario presso la nostra associazione. Era appena andato in pensione e, ci spiegò, non voleva rischiare di diventare un anziano che trova scuse con se stesso per allungare ogni giorno di più la permanenza nel letto alla mattina. E fu così che fino a un paio di anni fa Giorgio per due volte alla settimana usciva di casa, raggiungeva la fermata della metropolitana, scendeva al capolinea di Rebibbia, camminava fino al carcere e teneva la riunione di redazione con i detenuti che collaborano alla nostra trasmissione radiofonica “Jailhouse Rock” realizzando in ogni puntata un giornale radio. Quella stanza era accesa da discussioni appassionate, da ricerche collettive, a volte da liti furibonde. Spesso lui ed io non eravamo d’accordo sui pezzi da registrare. Ovviamente Giorgio andava per la sua strada. Non so se mai qualcuno al mondo gli abbia fatto una volta cambiare idea. Alle riunioni di redazione invitava spesso giornalisti dall’esterno, affinché portassero la loro testimonianza e raccontassero il mestiere di chi a propria volta racconta il mondo. Fedele e instancabile collaboratore di Giorgio in questi anni è stato il suo caro amico Stefano Bocconetti, giornalista in pensione, che con lui ha portato avanti questa esperienza straordinaria. Nell’umanità del carcere Giorgio aveva trovato le relazioni più vere dell’ultima parte della sua vita. I salotti lo annoiavano. Credeva profondamente nella giustizia sociale. Ai miei figli si impegnava a spiegare i principi di un’impresa economica fondata sull’equità nella distribuzione e nei rapporti lavorativi. Anche per questo lo ringrazio. Con i detenuti aveva rapporti autentici, privi di ogni finzione. Che non fosse uno di loro era evidente e non faceva nulla per nasconderlo. Lui, libero, benestante, colto, con un passato di grandi successi alle spalle; loro, chiusi in un carcere, spesso pieni di difficoltà economiche e sociali, a volte senza neanche la terza media. Ma era altrettanto evidente che la considerazione e il rispetto che aveva di sé e di chiunque altro erano gli stessi. Giorgio aveva un grande rispetto per le persone con cui lavorava in carcere. Si percepiva in tutto, a partire dalla precisione con cui si preparava. Andava dritto per la sua strada, senza cedere a distorsioni e meccanismi carcerari, sempre con grande rispetto per tutti: ciò è quanto di meglio si possa fare per il carcere. Per questo Giorgio era trasformativo. Non sempre accade. Troppo spesso il carcere, nei suoi meccanismi in bilico tra premio e punizione, genera quella ipocrisia che lui non sapeva dove fosse di casa e che lo ha fatto amare in quella cittadina dolente che è Rebibbia Nuovo Complesso. In tanti che lo hanno conosciuto e amato in carcere hanno continuato a frequentarlo una volta fuori. Il campanello della sua casa al centro di Roma suonava di continuo. Le chiacchiere cominciate a Rebibbia continuavano davanti a un caffè. Erano le amicizie più care degli ultimi anni. Per Antigone resterà sempre il socio onorario del quale andare fieri e da raccontare ai più giovani che arriveranno. E ci mancherà tantissimo. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Sciascia e l’elogio del giudice umano che ha radici e ali di Giacomo Urbano* Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2024 Ora che nel tirocinio formativo dei magistrati si vuole prevedere per legge (proposta presentata alla Camera l’1.08) la lettura obbligatoria di Sciascia e Manzoni e uno stage in carcere di 15 giorni, pernottamento incluso. Ora che la fiducia nella giustizia è al minimo storico e gli aspiranti giudici studiano sul libro del prof. Gazzoni in cui si legge che “i magistrati uomini sono psicolabili e le donne instabili sulle vicende familiari”. Ora che l’emergenza principale del Paese è la separazione delle carriere. Ora che con l’ennesimo intervento sul codice di procedura penale si è accentuata la sfiducia nel pm. Ora, dunque, portiamoci avanti e immaginiamo a quale delle categorie di don Arena del Giorno della civetta appartiene l’umanità del giudice Bellodi, quella umanità “bella parola piena di vento” del romanzo. E così se si vuole imporre Sciascia per essere un buon magistrato, si può pensare di ragionare con il linguaggio degli scrittori e con il metro della poesia piuttosto che con quello delle pandette. Il giudice ha radici e ali, dentro e fuori il tribunale. Il giudice non vive con la logica della tribù, parla il linguaggio delle procedure ma come lingua non come stereotipo, è figlio non figliastro di sua madre Temi. Il giudice raccontato da Sciascia ha dentro di sé tutto il repertorio dell’esistenza: la spensieratezza e il suo svenimento, la bellezza e il suo contrario, i flirt stantii e le vertigini dei colpi di fulmini, i lampi di felicità e i dolori intermittenti o persistenti. ll giudice, per non essere giudicicchio, non ama la giustizia in modo distorto, non la usa e non nasconde a se stesso e agli altri la propria finitezza. Non crede di essere sempre in credito con la vita ma piuttosto in debito. È colui che scompiglia l’ordinario paludato dello sterile dibattito sulle riforme della giustizia senza mai affrontare l’unico tema che conta veramente, quello dei tempi. Il giudice che ha letto Sciascia, non perché obbligato ma incuriosito, vede nella clessidra della sua scrivania gli altri, tutti gli altri incontrati nel suo lavoro, vissuti, osservati, amati nelle loro derive malinconiche, nelle loro sconfitte quotidiane, nelle loro passioni frustrate; vede nel suo codice ormai ingiallito gli occhi un po’ avviliti, le impazienze, la perdita della speranza, che per Sciascia è come il coraggio di Manzoni. Il giudice, anche se non somiglia affatto a Franco Nero, per un’assoluzione, un’ordinanza, una sentenza combatte, a volte anche contro se stesso e contro le proprie cattive abitudini. Non ambisce a posti di visibilità, non si occupa di fatti mondani, di cronache anodine, prive di furia polemica, per lo più vili, senza denti, con la coda tra le gambe. Non ha il terrore del procedimento disciplinare che lo spinge a una giurisdizione difensiva. Il giudice sa amare il mondo, conosce il dolore di tutti e non si sente un novello Atlante quanto piuttosto un piccolo solitario granello di un qualcosa infinitamente più grande di lui. Il Giudice, quel giudice, anche se poi se ne va al Tar - in questa epoca inerte del bordello ideale, del brodino quotidiano e degli sbrodoloni telegenici - è quello ancora capace di prendere il mare, l’avvento dell’avventura, l’avvenire della solitudine, l’intoccabile. E così magari in questa estate torrida, per non diventare un “quaquaraquà”, quel giudice se ne andrà al mare, magari in quel mare di San Leone di Agrigento, magari frequentato da Sciascia, quel mare che vedeva, come dice nei suoi racconti, “del colore di vino”. Mare, cielo rovesciato, verso il quale gli uomini sono attratti, specie quelli di legge perché la giustizia non è terrena ma divina, e perciò si tufferà e aspetterà quella pioggia tanto agognata, la promessa di matrimonio del cielo che vuole diventare oceano. E da lì al tramonto, come un aruspice del ventunesimo secolo, scruterà le nuvole che al posto delle viscere degli uccelli gli indicheranno percorsi divini e imperscrutabili ma di sicuro in direzione ostinata e contraria alla burrasca in atto. *Pm a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) Intelligenza artificiale, in Italia serve prima un percorso di alfabetizzazione digitale di Simone Durante Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2024 L’intelligenza artificiale (AI) è spesso presentata come la prossima grande rivoluzione tecnologica, capace di trasformare radicalmente ogni aspetto delle nostre vite. Eppure, in Italia, c’è un aspetto critico che tende ad essere trascurato: la capacità dei cittadini di comprendere e utilizzare queste tecnologie avanzate. Secondo i dati più attendibili forniti dall’indagine Piaac-Ocse del 2019, in Italia il 28% della popolazione tra i 16 e i 65 anni è analfabeta funzionale. Questo significa che quasi un terzo della popolazione non è in grado di utilizzare efficacemente le abilità di lettura, scrittura e calcolo necessarie per affrontare le sfide quotidiane, figuriamoci per comprendere il funzionamento dell’intelligenza artificiale. Questo dato, tra i più alti in Europa, è eguagliato soltanto dalla Spagna e superato solo dalla Turchia, dove il 47% della popolazione rientra in questa categoria. L’analfabetismo funzionale in Italia è un problema profondo e complesso. Non riguarda solo la capacità di leggere un testo o di eseguire semplici operazioni matematiche, ma anche l’incapacità di interpretare, analizzare e utilizzare le informazioni in modo critico. In un contesto in cui le tecnologie digitali avanzano a ritmo sostenuto, questa carenza rappresenta una barriera significativa per la diffusione consapevole dell’AI. Il problema è amplificato dalla scarsa diffusione della conoscenza riguardo all’intelligenza artificiale. Molti italiani, infatti, non sanno nemmeno cosa sia realmente l’AI, confondendola spesso con concetti vaghi o stereotipi fantascientifici. Questo disorientamento collettivo rende difficile, se non impossibile, un dibattito pubblico informato su come queste tecnologie possano (e debbano) essere integrate nella nostra società. La mia diffidenza verso l’intelligenza artificiale non deriva da una posizione luddista o retrograda, ma dalla consapevolezza che, in un Paese dove l’analfabetismo funzionale è così diffuso, l’adozione acritica e indiscriminata dell’AI può portare a conseguenze nefaste. Senza una base solida di conoscenza e comprensione, rischiamo di consegnare strumenti potentissimi nelle mani di una popolazione che non è preparata a utilizzarli in modo consapevole e responsabile. Inoltre, l’AI non è semplicemente una tecnologia “neutrale”. Le decisioni e le raccomandazioni prodotte da questi sistemi sono il risultato di algoritmi complessi che riflettono i bias e le priorità di chi li ha programmati. In una società dove gran parte della popolazione fatica a interpretare un semplice grafico o a comprendere un testo di media difficoltà, come possiamo aspettarci che vi sia un controllo critico e democratico su queste tecnologie? È urgente, dunque, avviare un percorso di alfabetizzazione digitale e critica che coinvolga l’intera popolazione. È necessario spiegare cosa sia realmente l’intelligenza artificiale, come funziona, quali siano i suoi limiti e le sue potenzialità. Solo attraverso una maggiore consapevolezza e una diffusa comprensione critica possiamo sperare di trasformare l’AI in uno strumento al servizio della società, anziché in una forza che rischia di esacerbare ulteriormente le disuguaglianze esistenti. L’Italia deve affrontare con urgenza la sfida dell’analfabetismo funzionale, se vuole sfruttare appieno le opportunità offerte dall’intelligenza artificiale senza esserne sopraffatta. Diritti civili. Flick: “Sul fine vita urgente una legge” di Grazia Longo La Stampa, 21 agosto 2024 Il presidente emerito della Corte costituzionale: “Le Regioni non possono andare in ordine sparso. L’Italia laica e pluralista segua la sentenza della Consulta. Le linee guida del Vaticano sono un aiuto”. “Serve una legge sul fine vita, nel solco di quanto stabilito e confermato dalla Consulta per cui è incostituzionale la punizione di una persona che aiuta a morire un malato che si trovi in quattro precise condizioni”. Lo ribadisce Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale ed ex ministro della Giustizia. Quali sono i quattro paletti fissati dalla Consulta? “Infermità irreversibile, sofferenza intollerabile per il paziente, capacità di esprimere la propria volontà e presenza o necessità di trattamenti di “sostegno vitale”. Sull’ultimo paletto c’è stata un’ulteriore apertura della Corte costituzionale con l’ultima sentenza di inammissibilità del Referendum sull’eutanasia... “A mio avviso non si è trattato di un’apertura, ma di una precisazione. Sono state esemplificate delle ipotesi di sostegno vitale maturate nell’esperienza tecnica e medica degli ultimi cinque anni. Già con la sentenza 242 del 2019 la Corte aveva fatto degli esempi (nutrizione e idratazione artificiale e ventilazione forzata), ora ne ha aggiunti altri come il catetere, l’evacuazione manuale, l’aspirazione del muco che vanno a completare il quadro che prima indicava la dipendenza da macchine salva vita. In altre parole il concetto di sostegno vitale va interpretato alla luce dell’evoluzione della scienza e della medicina. Quindi non solo l’intervento meccanico delle macchine, ma anche altri trattamenti come quelli che la Corte stessa ha citato. Se n’è parlato tanto perché nel nostro Paese quello del fine vita è un “tema caldo” proprio perché non esiste una legge”. Perché secondo lei non abbiamo ancora una norma? Il 10 marzo 2021 la maggioranza di centrosinistra alla Camera approvò un disegno di legge. Ma quel percorso terminò con la caduta del governo Draghi... “Purtroppo il discorso si è arenato, suppongo anche per le troppe divergenze che esistono tra l’ala più integralista dei cattolici e quella laica. Spetta al Parlamento impegnarsi per trovare una soluzione. Che, comunque, non potrà superare i confini delineati dalla sentenza della Consulta del 2019. La legge è necessaria, anche per mettere fine al caos della pluralità e della diversità di interpretazioni della sentenza della Consulta da parte delle varie Regioni e dei giudici nell’applicazione di essa. Eppure i quattro paletti indicati dalla Consulta, che devono essere compresenti, sono chiari”. A settembre la discussione di un disegno di legge è stata calendarizzata in Senato. Lei è ottimista? “Non spetta a me fare delle previsioni. Nella precedente legislatura si era arrivati a un traguardo importante con l’approvazione della Camera. Mi auguro che a settembre la discussione avvenga in coerenza con il pluralismo e la laicità della Repubblica, nel rispetto della dignità della persona. Occorre evitare l’irrigidimento delle parti contrapposte: l’una in nome di una assoluta libertà dell’individuo; l’altra in nome di una indisponibilità altrettanto rigida della propria vita. Il Parlamento deve fare una valutazione sovrana di entrambe le posizioni. Ricordando sempre che non vi è un diritto all’aiuto di un terzo in generale per morire, ma che non è punibile chi presta aiuto a un malato nel rispetto dei quattro paletti fissati dalla Corte, quando il malato non è in grado di agire da solo. C’è da augurarsi che si arrivi a un dialogo sereno e non strumentale”. In che modo influirà il “Piccolo lessico del fine vita” recentemente diffuso dalla Pontificia Accademia per la Vita? “In qualche misura è un aiuto di cui si dovrà tenere conto, in virtù della sua saggezza e autorevolezza, come delle altre indicazioni espresse in materia perché la verità non sta mai da una parte sola. Servono dialogo e confronto, tanto più che il tema è molto complesso. In una Repubblica laica e pluralista come la nostra possiamo affidarci alla Costituzione che con gli articoli 2 e 3 stabilisce che impone di non offendere la vita e la sua dignità”. Non è certo facile trovare un’intesa... “Per questo è importante il ruolo del legislatore. Sia la Chiesa sia la Corte Costituzionale lo sollecitano perché lui è l’unico competente a decidere in termini di diritto sul tema del “fine vita”. La Consulta ha anticipato la decisione sulla non punibilità dell’aiuto in presenza di quei quattro paletti”. Che cosa può fare il governo per agevolare l’approvazione di una legge? “Può sollecitare il Parlamento affinché giunga a una decisione in tempi brevi in modo da evitare il protrarsi di un contrasto che può essere strumentalizzato”. E intanto come ci si comporta di fronte ai malati che chiedono di morire e hanno rifiutato le cure palliative? “Se il paziente non accetta la sofferenza e la malattia può farsi aiutare per anticipare la morte. Ma il problema è che al momento nelle Regioni, nelle strutture sanitarie e nelle interpretazioni dei giudici si procede in maniera differente. Bisognerebbe attuare le indicazioni della Corte Costituzionale”. Migranti. Per lo yacht sì, per i barconi no: anche la compassione è diventata selettiva di Maurizio Ambrosini Avvenire, 21 agosto 2024 La tragedia di Palermo, con la mobilitazione per salvare i sopravvissuti e trovare i dispersi, ci spinge a una riflessione ulteriore: perché coi migranti non accade? Ci sono naufraghi e naufraghi. Non sorprende l’emozione suscitata e la grande mobilitazione per trarre in salvo le persone (occidentali e benestanti) coinvolte nel naufragio del mega-yacht Bayesian, nave a vela di 56 metri di lunghezza, al largo di Porticello, 20 chilometri da Palermo. C’è trepidazione per i sei dispersi, tra cui il tycoon tecnologico Mike Lynch, il Bill Gates britannico, mentre i quindici salvati sono stati immediatamente condotti al pronto soccorso di Termini Imerese. Sempre in mare si dovrebbe agire così, sempre si dovrebbe palpitare per la sorte dei naufraghi, sempre bisognerebbe ricoverare a terra gli scampati il più presto possibile. Purtroppo però queste basilari regole di umanità non valgono per tutti. Colpisce la distanza tra la giusta empatia rivolta ai passeggeri dello yacht e il trattamento politico, mediatico, e si potrebbe dire “antropologico” riservato ai naufraghi dei viaggi della speranza dalla costa sud del Mediterraneo. Scaricabarile tra governi, incessanti tentativi di addossare l’onere dei soccorsi alle autorità dei paesi da cui salpano le imbarcazioni (Libia, Tunisia, Egitto, Turchia…), arrivando a ritardi, omissioni, disimpegno delle navi in transito. Monta sempre più l’indifferenza per la sorte delle persone che affrontano il mare per cercare asilo in Europa, e i loro naufragi fanno sempre meno notizia. Macroscopica poi l’ingiunzione alle navi delle Ong, quando sono esse a intervenire, di compiere un solo salvataggio e poi di raggiungere porti lontani, come Genova o Ravenna, infliggendo una permanenza di altri giorni in mare a persone già provate e sofferenti. Poco credibili le motivazioni: il presunto sovraccarico dei porti di sbarco non si verifica, perché le persone una volta approdate vengono subito smistate verso i centri di accoglienza, magari anche riportate al sud via terra. E con il calo degli sbarchi vantato dal governo la dubbia motivazione s’indebolisce ancora di più. La vera ragione è quella di ostacolare i salvataggi, infierendo sui naufraghi, aumentando i costi per le ONG, lasciando maggiormente sguarnito il mare da pattugliare. Certo, si possono trovare delle differenze tra i due casi per giustificare le disparità di trattamento. I naufraghi del Bayesian non avevano nessun bisogno di ricorrere a mezzi di fortuna per raggiungere le coste siciliane, non sapevano di affrontare un rischio esiziale, né tanto meno avevano intenzione di presentare una domanda di asilo, ammesso che questa sia una colpa. Non graveranno sul (precario) sistema di accoglienza e non chiederanno aiuti allo Stato italiano, a parte l’immediato soccorso. Tuttavia la vicenda appare una parabola del dominio della cultura dello scarto di cui parla papa Francesco. Già sappiamo che la mobilità attraverso i confini è selettiva, consentita ad alcuni esseri umani e interdetta ad altri. La selezione si basa essenzialmente su tre criteri: passaporti, portafogli, professioni. Le tre P di una discriminazione planetaria. Chi possiede il passaporto giusto, oppure un portafoglio ben fornito, oppure una professione richiesta nei luoghi di destinazione (quelle sanitarie sono oggi le più ricercate), gode di diritti di mobilità forse mai così estesi. Gli altri sono consegnati a un radicamento forzato nei luoghi di origine o di transito, quali che siano le ragioni che li sollecitano a muoversi. Ora scopriamo che pure i soccorsi, la compassione e l’accoglienza dei sopravvissuti non sono uguali per tutti. Anche le più elementari regole di umanità sono applicate selettivamente, assurgendo a simbolo di un mondo drammaticamente sperequato. Migranti. Caporalato, il coraggio di denunciare. “Aiuti a chi infrange il muro d’omertà” di Antonio Maria Mira Avvenire, 21 agosto 2024 Il coraggio di denunciare caporali e sfruttatori. Trovando per fortuna chi ascolta, aiuta, protegge. Accade al Nord come al Sud, con numeri importanti: 46 braccianti pachistani e afghani a Pordenone, 40 nordafricani a Paternò e Scordia, nel Catanese. Con processi che hanno portato alla condanna di caporali e sfruttatori e a una nuova vita degli immigrati, con permesso di soggiorno e un vero lavoro. “Dopo che abbiamo appreso come stavano le cose per noi, ho deciso che ne avevo abbastanza di essere sfruttato e trattato come uno schiavo”. A parlare così è Humayun Khan, uno dei 46 braccianti pachistani e afghani che nel 2011 si presentarono alla Flai Cgil di Pordenone per raccontare la loro storia di sfruttamento: 14 ore di lavoro al giorno, sette giorni a settimana, nelle vigne ma anche nel trasporto dei polli, anche entrambi i lavori per 4-5 giorni, lavorando di notte. Per 2-300 euro al mese, lasciando il resto al caporale pachistano. Ovviamente tutto in nero. E con gravi rischi, come racconta un altro di loro, Afaq. “Un bracciante si è ferito ad una mano con le forbici. Il taglio era profondo usciva molto sangue e gli faceva molto male, ma Amir (il caporale, ndr) e l’italiano proprietario del campo dove stavamo lavorando, non hanno voluto portarlo in ospedale. Lo hanno fatto sedere con la mano fasciata sul bordo del campo e lo hanno fatto aspettare che noi finissimo di lavorare per andare a casa. Una volta a casa stava molto male, ma Amir invece di portarlo in ospedale lo ha minacciato di fargli ancora più male se non smetteva di lamentarsi. In seguito gli ha portato delle pastiglie e delle bende pulite e lo ha lasciato a casa per una settimana. Poi il ragazzo è sparito e non ho mai saputo più nulla di lui”. Per questa e tante altre disumanità, in 46 decidono di rivolgersi al sindacato. “In Cgil abbiamo appreso che noi eravamo stati sfruttati e che non erano stati rispettati i nostri diritti di lavoratori”, ricorda Tazeeb. Così tutti insieme, accompagnati dai sindacalisti, hanno presentato denuncia, sono partite inchieste e processi. “La vertenza è stata lunga e ha portato alla luce un vasto giro di caporalato e sfruttamento - racconta Dina Sovran, segretaria generale Flai Cgil Pordenone. Aggiungo che dietro a caporali pachistani ci sono anche le aziende italiane che, consapevoli o meno, hanno permesso che questi lavoratori venissero sfruttati”. La denuncia dei 46 fa ottenere a tutti, contemporaneamente, il permesso di soggiorno. Un numero record in Italia. Hanno poi partecipato a corsi di italiano e trovato finalmente un lavoro vero. Humayun fa vedere sul cellulare la foto dei due figli di 5 e 8 anni e riflette. “Sai perché sono partito? Perché vorrei che un giorno questi miei figli impugnassero una penna per scrivere e non un fucile per sparare”. Ci spostiamo 1.400 chilometri a Sud, alle falde dell’Etna, nei Comuni di Paternò e Scordia. Terra ricca, agrumi soprattutto, la famosa “arancia rossa”. “Durante la raccolta, da novembre ad aprile, c’è un forte flusso di lavoratori migranti. Alcuni trovano casa ma molti finiscono nei ghetti- ci dice Rocco Anzaldi, segretario generale della Flai Cgil di Caltagirone -. C’è molto sfruttamento perché i ragazzi che vivono nei ghetti sono disposti a lavorare per qualsiasi cifra. Qui è molto diffuso il lavoro grigio. Le giornate registrate all’Inps sono sempre poche rispetto a quelle realmente lavorate”. A Scordia in 100 vivono in un ex magazzino, un posto invivibile, privo di infissi e servizi igienici, e senza acqua. A Paternò c’è una tendopoli/baraccopoli che ogni anno arriva a ospitare circa mille persone e dove opera la Caritas di Catania. Due mesi fa un ragazzo è morto in un insediamento informale. Non era andato a lavorare perché non si sentiva bene ma quando gli altri sono tornati lo hanno trovato morto, ufficialmente per cause naturali. “Ne sentiamo il peso perché se invece di essere lì fosse stato in un posto normale, con altre persone, forse poteva essere soccorso”. Per questo “bisogna accelerare i tempi per i permessi di soggiorno per chi denuncia. Non possono stare qui senza lavorare per tanto tempo. Se non rendiamo le procedure più snelle andranno a farsi sfruttare da qualche altra parte pur di mandare qualcosa a casa”. Per 40 braccianti è però iniziato un nuovo percorso, grazie all’associazione antitratta Penelope che partecipa al progetto del Ministero per le pari opportunità e ha firmato un protocollo col sindacato. “Negli ultimi quattro anni, da quando è partito il progetto, siamo riusciti a raccogliere 40 denunce di sfruttamento lavorativo, persone che da irregolari hanno deciso di collaborare con la giustizia - ci dice Simona Favara. Grazie a questo hanno ottenuto il nullaosta dai magistrati che hanno seguito le indagini, accedendo poi al permesso di soggiorno e a un programma di protezione”. Penelope ha una casa di accoglienza in emergenza che attualmente ospita 15 persone, ma ne sta aprendo una seconda con altri 10 posti. “Appena acquisiscono la residenza e un contratto di lavoro, possono convertirlo in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Noi cerchiamo di accompagnarli nell’autonomia, poi decidono loro dove andare a lavorare. Fino ad ora nessuno ha avuto problemi”. Migranti. Ius scholae, in Italia ne beneficerebbero oltre 300mila ragazzi senza cittadinanza di Lorenzo Nicolao Corriere della Sera, 21 agosto 2024 La maggioranza vive al Nord e ha origini romene e albanesi. Il 25% degli aventi diritto studia in Lombardia. Tra le altre nazionalità interessate anche quelle cinesi e marocchine. L’acquisizione della cittadinanza italiana è nuovamente al centro del dibattito politico, dopo l’apertura di Forza Italia all’introduzione dello Ius scholae. Un cambiamento, che legherebbe l’acquisizione della cittadinanza al compimento di un intero ciclo di studi (secondo precedenti formulazioni discusse in Parlamento chi ha frequentato regolarmente per almeno 5 anni, uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione) riguarderebbe oltre 300mila dei 914.860 alunni che studiano in Italia e non hanno ancora compiuto 17 anni. Questi ragazzi (11,2% degli studenti totali nel Paese) non hanno la cittadinanza italiana perché figli di genitori stranieri, essendo in vigore lo ius sanguinis). I dati sono frutto di uno studio di Openpolis, che ha elaborato i numeri del rapporto annuale Istat 2022, facendo poi riferimento all’anno scolastico 2022-2023. I numeri, che testimoniano un aumento del 4,9% rispetto all’anno precedente, sono stati diffusi nei mesi scorsi anche da organizzazioni come Oxfam e Save the Children. In Lombardia il 25% degli interessati - I bambini e i ragazzi stranieri iscritti alle scuole di infanzia, elementari, medie e superiori vivono soprattutto nell’Italia settentrionale (14% nel Nordest e 15% nel Nordovest rispetto al totale degli studenti), mentre i numeri scendono lievemente al Centro 13% e di molto nel Sud e nelle Isole, dove si arriva fino al 5%. Proporzionalmente, i bambini che beneficerebbero dello ius scholae si concentrano in regioni come la Lombardia, dove si raggiunge il 25%. Sommati a quelli di Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna e Lazio, si arriva al 68% dei potenziali aventi diritto. Le percentuali rispecchiano una stima di massima, perché basata sull’ipotesi che i bambini abbiano frequentato la scuola dai 6 anni e che non abbiano interrotto gli studi prima dei 16, età limite prevista dalle norme sull’obbligo scolastico. L’aumento dei nati in Italia - Altro dato interessante, questa volta di un rapporto del ministero dell’Istruzione, è quello degli studenti stranieri che sono nati in Italia. Nel quinquennio tra l’anno scolastico 2018-2019 e il 2022-2023 il numero degli studenti con cittadinanza non italiana, ma nati nel nostro Paese, è passato da oltre 553mila a quasi 599mila. Il 65,4 per cento degli studenti stranieri è quindi è nato in Italia, ma non ha la cittadinanza. I Paesi di provenienza. In testa la Romania, seguono Albania e Cina - Sono circa 200 i Paesi di origine degli studenti con cittadinanza non italiana. La maggior parte, ovvero il 44,42 per cento, è di origine europea. Seguono gli studenti di provenienza africana (27,25 per cento) e asiatica (20,27 per cento). Gli studenti di origine rumena, albanese e marocchina rappresentano oltre il 40 per cento degli alunni con cittadinanza non italiana. Infatti, dei bambini che sarebbero interessati da un’eventuale introduzione dello ius scholae, il 26% ha origini romene, il 10,1% albanesi, il 9,6% cinesi. Poi il Marocco, appena fuori dal podio con il 9,1%. Sono percentuali che non riflettono solo la numerosità delle collettività in Italia per le singole nazionalità, ma anche il diverso accesso da parte dei minori alla cittadinanza italiana attraverso i genitori. Per esempio, i cinesi adulti hanno minore propensione ad acquisirla, riducendo le opportunità di un bambino cinese di diventare un italiano di seconda generazione. Diverso il caso dei ragazzi albanesi e marocchini, molti dei quali hanno acquisito la cittadinanza nel momento in cui i genitori sono diventati italiani e sono di conseguenza usciti dalla platea dei potenziali beneficiari della legge. Migranti. Unhcr in Albania, non una garanzia ma un abbaglio di Salvatore Fachile* Il Manifesto, 21 agosto 2024 Il coinvolgimento dell’Unhcr nel protocollo Roma Tirana non rischia solo di legittimare un progetto che ha l’obiettivo di cancellare il diritto d’asilo, ma innesca una dinamica mistificatoria nei confronti dell’opinione pubblica e della società civile che contro un simile proposito dovrebbero battersi. L’Unhcr era stata inizialmente esclusa dal governo dall’operazione Albania, dall’apertura di un centro fuori dal territorio italiano per portare a termine concettualmente l’operazione di esternalizzazione del diritto di asilo. Un’operazione che parte da lontano, fortemente sostenuta dalla Commissione Europea, che mira a svuotare di effettività il diritto di asilo, immaginando il suo esercizio fuori dal territorio europeo, in stato di detenzione, con tempistiche e in una condizione di isolamento tali da eliminare di fatto ogni possibilità di riconoscimento di una forma di protezione internazionale. Era la prima volta che il governo italiano decideva di condurre un’importante operazione nel quadro della esternalizzazione senza l’apporto dell’Unchr. Si pensi all’apertura degli hotspot o allo stesso memorandum Italia-Libia, di fatto uno dei più eclatanti crimini contro l’umanità commesso dall’Italia nel dopoguerra All’Unchr è stato sempre assegnato un ruolo chiave, solitamente di monitoraggio, in pratica una funzione di garante senza poteri. Un meccanismo semplice: un prestigioso ente di garanzia assicura di monitorare l’operato di un’istituzione, garantendo di inviarle in modo riservato le sue segnalazioni. L’istituzione tiene in un cassetto le segnalazioni ricevute e può vantarsi di operare sotto il controllo di un garante super partes, legittimando il suo operato che prosegue senza intralci. L’Unhcr a gennaio aveva quindi pubblicato un documento con un’apparente lettura preoccupata dell’accordo Italia-Albania, concludendo in sintesi che si riservava di esprimere un giudizio, anche eventualmente critico, nel prosieguo. In pratica, secondo i più maliziosi, minacciava il governo italiano di condannare l’operazione se non fosse stata al più presto coinvolta. E così, il governo adesso cede alle pressioni di Unhcr, includendola nell’operazione Albania, coinvolgendola con il solito molo di monitoraggio. Tant’è che subito dopo l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati Filippo Grandi mostra di gradire e dichiara che 1’Unhcr ha elaborato delle proposte per favorire la delocalizzazione fuori dal territorio Ue delle richieste d’asilo “più deboli”. Il risultato è ancora una volta mistificatorio. In una dialettica democratica se il governo prova a guidare l’Italia in un percorso sostanzialmente eversivo - che sovverte i principi costituzionali fino all’abrogazione di fatto del diritto di asilo - spetta alla società civile contrastare questo tentativo. E allora la responsabilità principale rimane in capo a chi, come l’Unhcr, si eleva a presunto “alto” rappresentante dei diritti dei rifugiati, innescando una dinamica mistificatoria che spinge l’opinione pubblica a credere che esista un interlocutore critico dell’esecutivo a garanzia della dialettica democratica, che viceversa muore sotto il peso di un gioco di ruoli dettato dagli interessi dei singoli. *Avvocato dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)