Sponda col Garante dei detenuti: il Governo prova a “ravvedersi” di Errico Novi Il Dubbio, 20 agosto 2024 Dopo un Decreto che è sembrato fatto apposta per ostruire la legge di Giachetti, l’attenzione mostrata dai grandi media sul dramma penitenziario può spingere l’esecutivo a un vero cambio di passo. a partire da una “alleanza” a portata di mano. Prima le proposte deflattive indicate alla Camera, poi la crescente enfasi dei report sul sovraffollamento: così l’Autorità nazionale apre la strada ai rimedi di Nordio. Ferragosto in carcere: è ormai un tòpos della politica. Un rituale. Forse una banalizzazione, almeno rispetto al puntuale e, fino a qualche anno fa solitario, gesto di Marco Pannella, dei “suoi” radicali e degli avvocati, naturalmente. Ma anche i gesti più ritualistici che animati da volontà di cambiamento possono produrre, in modo involontario, effetti utili. Prima di tutto la grande stampa, i grandi media, a cominciare dal servizio pubblico, hanno accresciuto negli ultimi giorni la loro attenzione per l’emergenza carceraria. È la penuria di notizie, si dirà. Anche. Ma non solo. Nell’epoca del contagio digitale, le idee viaggiano secondo meccanismi di emulazione. Ed è così pure per le idee in apparenza “controintuitive”. E se nell’opinione pubblica, nella moltitudine dei social, si diffonde il messaggio del carcere come dramma, oltre che come luogo in cui isolare i reietti, forse l’azione politica può trovare il respiro che, sul punto, finora le è mancato può trovarlo il governo. Che ha fatto sostanzialmente cilecca, con un decreto emanato, e poi convertito in legge dalla maggioranza in Parlamento, con il fine prevalente di sbarrare la strada a misure più decise, come la liberazione anticipata di Giachetti e Nessuno tocchi Caino. Un provvedimento concepito in base all’assunto che non ci fosse bisogno di quell’altra legge, proposta dal deputato radicale di Italia viva insieme con Rita Bernardini. E questo al di là di alcune, rarefatte e comunque marginali norme inserite nel Dl dell’Esecutivo, come la contestuale verifica, in capo al giudice di sorveglianza, dei giorni di “sconto” (maturati cioè in base alla liberazione ordinaria già in vigore dai tempi della sentenza Torreggiani) ogni volta che ci si trovi a decidere su un’istanza di accesso ai benefici: una tautologica vacuità, o quasi: se il problema è che le istanze sono così numerose da accumularsi sulle scrivanie dei magistrati, pure l’ipotetica accelerazione procedurale nel riconoscimento della “liberazione anticipata” andrà a imbottigliarsi nello stesso ingorgo dove già si affollano le migliaia di domande evase in ritardo, così in ritardo da non fronteggiare il flusso dei nuovi giunti e da rivelarsi incapace dunque di contrastare il sovraffollamento, il diradarsi dei percorsi trattamentali e l’inversamente proporzionale progressione dei suicidi. Ma proprio i dati sulle presenze in carcere sono ormai pane quotidiano nella comunicazione di un soggetto “politico” che potrebbe diventare la sponda, per l’Esecutivo e per il ministero di Carlo Nordio, in grado di favorire una “redenzione” del centrodestra rispetto alla colpevole inerzia sulle carceri. Finora l’Autorità preposta alla vigilanza sulle condizioni dei detenuti e di tutte le persone comunque private della libertà personale è stata bersaglio di aspre critiche, per un’iniziale tendenza a sdrammatizzare gli allarmi sul sovraffollamento. Da alcune settimane, però, l’ufficio guidato da Felice Maurizio D’Ettore ha adottato una puntuale, metodica e costante enfasi nel riferire sulle presenze negli istituti di pena. Lo ha fatto anche domenica scorsa, con il consueto report, basato sui dati dello stesso governo, in effetti, cioè del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Ha ricordato che il tasso di reclusi in eccesso rispetto ai posti disponibili raggiunge l’ormai astronomica quota 131,06%, che in strutture come San Vittore si è messi ancora peggio e si viaggia verso un disumano +220%. E ancora, che il disagio da eccessiva densità di popolazione detenuta non risparmia gli Ipm, Istituti per i minorenni. Tutte informazioni note a chi legge questo giornale, ma che hanno una valenza particolare, nel momento in cui il mainstream mediatico si allinea, come in questi giorni, alle rare voci costantemente attive sull’emergenza penitenziaria - dai radicali all’avvocatura, da Ristretti Orizzonti a giornali come il Dubbio - e rilanciano così, con un significato ben diverso rispetto a un burocratico e inoffensivo report, le stesse notizie dell’ufficio di D’Ettore. Non solo, perché il presidente del collegio che costituisce l’Autorità - gli altri due componenti sono l’avvocata Irma Conti e il professor Mario Serio - era stato sommessamente chiaro già quattro mesi fa, all’atto di deporre dinanzi alla commissione Giustizia di Montecitorio, nell’ambito delle audizioni sull’affossanda legge Giachetti. D’Ettore aveva detto con chiarezza che se si voleva evitare di veder evolvere in senso ancora più tragico la situazione del sovraffollamento e dei suicidi, a cominciare dall’espiazione ai domiciliari degli ultimi 18 mesi di pena per i condannati che li hanno raggiunti. Ora, sarà un caso ma, al di là dei wishful thinking un po’ svuotati di senso che il centrodestra in generale continua a proporre - dal trasferimento in comunità dei reclusi con tossicodipendenze agli ormai leggendari accordi con i Paesi d’origine per “rimandare a casa” i condannati stranieri -, il guardasigilli Nordio, nello scorso fine settimana, ha puntato essenzialmente su una chiave, per tenere in vita un barlume di speranza tra i detenuti, e cioè proprio sul passaggio dalla reclusone inframuraria alla detenzione domiciliare (già previsto per legge ma in gran parte inattuato) dei condannati con un anno o meno di pena residua. È chiaro che qui entra in gioco il capitolo - noto sempre alla ristretta cerchia dei volenterosi, oltre che al Dap - dei detenuti stranieri, che in realtà saranno rimpatriati, chissà, forse fra qualche lustro, e dei tanti, fra loro, privi di un alloggio in cui scontare i domiciliari. Ma già se il principio fosse tradotto in norma concreta a breve, un po’ di respiro nelle carceri, lo si porterebbe. E chissà che, rotto il ghiaccio, la maggioranza non riesca ad andare avanti con il resto delle doverose misure che lo stesso Garante nazionale, accusato fin troppo spesso, nella prima fase del mandato, di timidezza, ha in realtà messo sul tavolo della maggioranza già la scorsa primavera. Carceri sovraffollate, l’approccio ideologico della politica e la lezione di Alcatraz di Guido Boffo Il Messaggero, 20 agosto 2024 Uno dei temi drammatici dell’estate, ma siamo sicuri che lo resterà anche nelle prossime stagioni, e nei prossimi anni, è il sovraffollamento carcerario. Tanto per rendere l’idea: al 29 luglio le carceri italiane ospitavano 61.134 detenuti, rispetto a 47.004 posti disponibili: dunque ci sono 14.130 persone che vivono in condizioni estreme, e hanno già varcato la linea sottile tra pena e penosità. È evidente che l’opinione pubblica, al di fuori dalle associazioni che se ne occupano per missione, sia emotivamente soltanto sfiorata da questa emergenza, che riguarda i paria della nostra società, i delinquenti al netto di errori giudiziari, quelli che se lo sono meritato. Ma in proposito la Costituzione italiana parla chiaro: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27). Nelle carceri italiane la rieducazione è un lusso e la sopravvivenza una scommessa quotidiana, anche per chi sta dall’altra parte delle inferriate, le guardie carcerarie e il personale civile degli istituti, sottoposti a un livello di stress insopportabile. Non si contano ormai le rivolte e le aggressioni. Quanto al senso di umanità, il livello di osservanza è ben illustrato dal dato drammatico dei suicidi nelle nostre strutture penitenziarie: solo quest’anno 63, il 43% in più del 2023. L’approccio della politica - Ora la politica sta affrontando la questione con un approccio più ideologico che pragmatico: è vero che sul tavolo del Guardasigilli ci sono una serie di proposte per così dire deflattive, dalla possibilità di far scontare in comunità le condanne per reati legati alla dipendenza dalla droga al massiccio ricorso ai domiciliari nell’ultimo anno di pena. Ma qualsiasi formula svuotacarceri viene contestata da chi, all’interno della stessa maggioranza, teme un colpo di spugna e un colpo soprattutto al programma law and order sulla base del quale sono state vinte le elezioni. Per costoro, la soluzione più efficace è costruire nuovi istituti, in modo da conciliare la certezza della pena con il dettato costituzionale. Non siamo l’unico Paese che si trovi ad affrontare questo dibattito. E sarebbe istruttivo, per i riluttanti solutori, fare un’escursione ad Alcatraz, il carcere di massima sicurezza costruito su un’isola a 2 miglia da San Francisco, circondato dalle acque fredde e dalla nebbia proterva del golfo, violato da un’evasione una sola volta in 29 anni di blindatissima attività. Fu nel 1962 e quell’impresa ispirò un film altrettanto indimenticabile, appunto Fuga da Alcatraz: regista Don Siegel, protagonista Clint Eastwood. Alcatraz, o The Rock, adesso è una meta turistica assai gettonata, un intrico museale di celle intatte (2.7 per 1.5 metri e un’altezza di 2.1 metri, arredate con un letto, un lavandino e un water attaccato al muro) e corridoi ribattezzati con i nomi delle grandi strade americane (in primis Broadway), blocchi contraddistinti con le prime quatto lettere dell’alfabeto (da quello destinato alla segregazione dei detenuti afroamericani a The Hole, per i detenuti in isolamento), una biblioteca in cui i prigionieri meno rassegnati trascorrevano sui libri più ore della media di un lettore statunitense, la sala mensa che si affaccia su una cucina con i coltellacci a vista, le feritoie da cui nelle glaciali notti di Capodanno si poteva udire la musica a festa dei veglioni di San Francisco. Alcatraz servì la sua funzione dall’11 agosto 1934 al 21 marzo 1963, ventinove anni durante i quali rimase un luogo raggelante ma non sovraffollato. In quelle celle, d’altra parte, era fisicamente impossibile che potesse essere ospitato più di un detenuto. Fu chiuso per una ragione di costi, divenuti insostenibili, dopo aver accolto oltre 1500 uomini. La lezione di Alcatraz - Dalla fine di quell’istituto simbolo, ma non del suo mito, la popolazione carceraria degli Stati Uniti si è progressivamente moltiplicata, passando dalle 300 mila unità degli Anni Settanta ai 2,1 milioni nel 2020. E questo perché sono cambiate le politiche repressive, non perché siano diminuite le carceri, tant’è vero che gli Stati Uniti vantano il più alto tasso al mondo di imprigionamenti, un fenomeno ormai di massa (soprattutto afroamericana). La droga, e i reati ad essa legati, sono stati il massimo propellente di questa tendenza, a partire dalle campagne di Nixon e Reagan. Con costi sociali non irrilevanti, pari a un rapporto di 10 dollari per ogni dollaro speso in un istituto correzionale. Più di 10 milioni di bambini americani hanno un genitore dietro le sbarre. Due famiglie su tre con un membro in carcere non riescono a soddisfare i bisogni essenziali (cibo, affitti, cure mediche). In media le prigioni americane costano al contribuente 2000 dollari all’anno. L’educazione di uno studente alle elementari costa 10mila dollari in media all’anno, mantenere un carcerato 32 mila dollari. I reati ovviamente vanno perseguiti, i delinquenti messi dietro le sbarre. Ma la lezione di Alcatraz, e soprattutto di quello che è successo dopo la chiusura di Alcatraz, è che ci sono alcune riforme che possono ridurre l’inflazione dei comportamenti penalmente rilevanti, in alcuni casi prevenirli, in altri creare percorsi alternativi alle patrie galere. Sono illustrati in una sala espositiva all’uscita di The Rock: investire nell’educazione, puntare sulle strutture di salute mentale, combattere i pregiudizi razziali da parte delle forze di polizia, cercare un’alternativa agli arresti e alle espulsioni a scuola, attingere alla giustizia ristorativa, destinare a comunità ad hoc i detenuti con dipendenza da droghe, formare al lavoro chi sta rinchiuso in cella. Gli Stati Uniti non sono l’Italia, ma alcune di queste ricette stanno producendo risultati ad esempio in Germania, Portogallo, Svezia e Norvegia, per restare ai vicini europei. Alcatraz qualche idea utile può darcela, non sembri un paradosso. Come sosteneva Mandela, forte della sua ventisettennale esperienza a Robben Island: “Si dice che nessuno veramente conosca una nazione fin quando non è stato nelle sue carceri. Una nazione non dovrebbe essere giudicata da come tratta i suoi migliori cittadini, ma i suoi peggiori”. Sovraffollamento nelle celle: l’ipocrisia del carcere, neanche i conti tornano di Alessandro Stomeo* lecceprima.it, 20 agosto 2024 “Frottole sovraffollate” è il titolo dell’editoriale di Marco Travaglio che si legge sul Fatto Quotidiano dello scorso 26 luglio; il sarcasmo, o il cinismo, dell’autore lo porta a “scherzare” con il fenomeno del sovraffollamento carcerario e, ancora peggio, con la tragedia umanitaria dei suicidi all’interno delle strutture penitenziarie, 62 detenuti e 7 agenti di Polizia penitenziaria nel 2024, in soli 8 mesi, hanno deciso di togliersi la vita. Travaglio sostiene che il problema del sovraffollamento non sia reale ma frutto di un equivoco nei calcoli visto che la legge sull’Ordinamento Penitenziario del 1975 prevedrebbe 9 metri quadrati per ogni detenuto mentre altre fonti, come la Corte di Strasburgo, ne prevedono 3. Così, secondo Travaglio, le carceri italiane risulterebbero sovraffollate solo perché il parametro di riferimento normativo italiano, i 9 metri quadrati per ogni detenuto, è più ampio di quello europeo che ritiene bastevoli 3 metri quadrati per ogni detenuto per essere in regola con le capienze. Un grosso equivoco, insomma. In carcere si sta bene e sono anche pochi i detenuti rispetto a quelli che dovrebbero essere, nonostante le presenze siano arrivate a oltre 61mila detenuti a fronte dei 47mila ospitabili con sovraffollamento accertato del 136%, in alcuni istituti superiore al 200%. Perché si suicidano, però, Travaglio non se lo chiede. In realtà, i tre metri quadrati indicati dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo (poi recepiti anche dalla Corte di Cassazione) centrano relativamente con il sovraffollamento e stabiliscono, invece, il limite minimo di spazio vivibile nella cella per ogni detenuto; sotto tale parametro l’espiazione della pena si trasforma in tortura (trattamento disumano e degradante) in violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Il sovraffollamento delle strutture carcerarie è una delle cause che possono rendere la detenzione espiata in quei luoghi inumana, non l’unica. Per sopire il delirante pensiero di Travaglio basterebbe ricordare che l’Italia è stata condannata 33 volte dalla Corte di Strasburgo per trattamento disumano e degradante, proprio per la mancanza dei tre metri quadrati di spazio per detenuto e altre carenze igieniche e sanitarie; non ci sarebbe bisogno neanche di aggiungere che esiste una norma dell’Ordinamento Penitenziario, l’art. 35 ter, che obbliga lo Stato a risarcire o a offrire uno sconto di pena a chi si trova detenuto in condizioni di sovraffollamento e disumane, sotto i tre metri quadrati di spazio vitale. E sono migliaia i reclami che i tribunali di Sorveglianza e i tribunali Civili accolgono riconoscendo il diritto al risarcimento e, quindi, la oggettiva condizione di sovraffollamento sulla scorta proprio dei parametri europei e della arcinota sentenza Torreggiani c/Italia. In sostanza, lo Stato tiene il detenuto in condizioni disumane e perciò poi lo indennizza, secondo una logica incomprensibilmente perversa, con denaro, 8 euro al giorno, o sconto minimo di pena, tre giorni per ogni mese di pena disumana subita. Diversamente da quanto sostiene Travaglio, perciò, con dati corretti, è più facile comprendere la scelta di togliersi la vita che molti, purtroppo, hanno adottato in un contesto in cui carcerati e carcerieri vivono oltre i limiti del sopportabile. In ogni caso, l’intervento del giornalista non mi avrebbe scosso, né sorpreso più di tanto, se non fosse che l’alchimia dei numeri mi ha restituito una cifra “magica”, il 27. I tre metri di Strasburgo, moltiplicati per i nove di Travaglio, fanno 27 che è l’articolo della Costituzione mai digerito, più e come tanti altri, da politici ed intellettuali nostrani e, forse per conseguenza, da una buona fetta di italiani: “I) La responsabilità penale è personale. II)L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. III)Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. IV) Non è ammessa la pena di morte”. È indicativo che Travaglio, nell’editoriale citato, invochi anche la certezza della pena, intesa come certezza della pena da espiare interamente in carcere, principio che, però, non è presente nella Costituzione, e al contempo, non si soffermi invece sulla funzione costituzionalizzata della pena, che è “legale” solo se umana e finalizzata alla rieducazione, come dice chiaramente l’art. 27. Travaglio, però, non è un giurista, forse non ha mai letto l’art. 27 della Costituzione o magari non gli è stato ben spiegato e me ne farei anche una ragione. Però, il 14 agosto scorso, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro, già avvocato penalista, visita il carcere di Taranto e poi quello di Brindisi; a Taranto non vuole volutamente incontrare i detenuti e le detenute ma solo il personale amministrativo e gli agenti della Polizia Penitenziaria, sugellando la scelta con la seguente l’affermazione: “Non mi inchino alla mecca dei detenuti”; si reca anche al carcere di Brindisi dove si fa fotografare mentre fuma una sigaretta, all’interno della struttura, proprio sotto un cartello che indica il divieto di fumare. Il comportamento del sottosegretario declina profondo e insanabile contrasto tra il motivo della visita alle carceri, ovvero il problema dei suicidi e del sovraffollamento, e il fatto di ignorare volutamente i detenuti (così come appare incoerente che si voglia portare la legalità in un luogo ove, però, ci si concede di fumare dove è vietato). Le incommentabili “gaffes”, chiamiamole così, di Travaglio e Del Mastro sono emblematiche di una ipocrisia di fondo che domina tutto quanto ruota intorno al carcere. La sofferenza del detenuto è un mantra liberatorio che serve per nascondere l’incapacità di assumersi la responsabilità del fallimento del sistema penale. Il limite alla sofferenza del reo, l’umanizzazione della pena, il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti sono argomenti da “buonisti” (e non è tempo di buonismo). La grande ipocrisia, allora, è proprio nello sbandierare l’art. 27 della Costituzione nella parte in cui attribuisce alla pena una precisa funzione, la rieducazione, e un preciso limite, la sua umanità, ma senza credere veramente né all’una né all’altro. Non c’è la volontà politica, né l’anelito della società, per realizzare un ambiente carcerario quanto più vicino al mondo esterno “sano” che sarebbe l’unico razionale approccio per conferire alla sanzione penale detentiva una utilità concreta e un abito rispettoso del dettato costituzionale. Nessun provvedimento normativo, almeno negli ultimi 50 anni, si è concentrato veramente, ovvero con forti risorse economiche, verso un effettivo miglioramento delle condizioni di espiazione della pena e verso il rafforzamento concreto delle misure alternative. Ecco perché la pena, ancora oggi, costa non solo della limitazione della libertà personale ma anche della sterilizzazione degli affetti, della mancanza di miglioramento culturale, dell’assenza di lavoro utile alla collettività. Non ci si è mai impegnati per arricchire la vita dei condannati di questi contenuti, nonostante dalla loro assenza probabilmente è nato il reato alla base della condanna. In definitiva non ci si è mai liberati dalla idea che il condannato debba soffrire, che il carcere debba restituire una quota consistente di sofferenza, di disumanizzazione, di riduzione delle prerogative fisiche e intellettuali di chi la subisce. Nell’immaginario collettivo - e purtroppo anche in buona parte del ceto intellettuale e della cosiddetta classe dirigente - la vera funzione della pena è la sofferenza catartica del condannato, il resto lo si proclama per essere politicamente corretti, senza convinzione, mettendo da parte, come utopistici pensatori, Calamandrei, Foucault, Turati, Voltaire, Dostoevskij capaci, come tanti altri, di cogliere la vera dimensione della restrizione in carcere, per sensibilità, per cultura o per averne patito gli effetti. Ognuno ha i suoi nemici: da una parte, sono i colletti bianchi, dall’altra, gli immigrati o i frequentatori di rave party. In ogni caso la ricetta è sempre il carcere, più duro possibile, con mille ostacoli per ottenere una misura alternativa non detentiva. L’approccio politico culturale, teso a trascurare gli aspetti socializzanti e rieducativi della pena e a valorizzarne il contenuto di sofferenza, è la matrice dell’attuale condizione delle carceri italiane, unitamente alla demagogia spicciola e alla strumentalizzazione politica che rende le posizioni sicuritarie e giustizialiste più facili da spendere, più accattivanti in termini elettorali, ciò nonostante il calo delle denunce e dei reati documentato anche da studi dell’Eurispes e del Ministero dell’Interno (ultimo rapporto congiunto maggio 2023). I 62 suicidi di detenuti, con età media di 40 anni, alcuni molto giovani e altri in attesa di giudizio, oltre ai 7 suicidi di agenti di polizia penitenziaria, in soli 8 mesi, sono una responsabilità enorme dello Stato e della società perché rappresentano, evidentemente, l’estrema risposta di soggetti fragili a una condizione di isolamento, di incuria e di disumanità nella quale sono stati abbandonati, ammassati in ghetti perlopiù fatiscenti, senza speranza di miglioramento; non vi è altra spiegazione plausibile. Dagli intellettuali, dai politici, dai giornalisti, dai giuristi, mi aspetterei una riflessione e una ribellione a questo fenomeno oramai dilagante che non risparmia responsabilità dello Stato, quantomeno per colpa. Invece, assistiamo a passerelle indecorose, provvedimenti normativi inutili, come l’ultimo decreto legge in materia, n. 92/2024, convertito in legge l’8 agosto, che lascia tutto così come è, senza neanche una norma che riduca immediatamente le presenze nelle carceri e le riporti alla capienza regolamentare, almeno per evitare l’ammasso di corpi e la riduzione dello spazio vitale. Di oggi la notizia di una rivolta nel carcere di Bari, pare con sequestro e liberazione lampo di un’infermiera, feriti e disordini ancora in corso. Il terribile dubbio che mi sovviene allora è che, siccome chiaramente prevedibile viste le condizioni disumane di detenzione, l’avvento delle rivolte non si trasformi nel pretesto, cercato, per una nuova ondata repressiva che soffochi le non più contenibili istanze di trasformazione e intervento che l’ondata di suicidi ha irrimediabilmente sollevato. Spero nell’infondatezza del mio dubbio e mi auguro che, subito, lo Stato si adoperi con misure di clemenza o di riduzione immediata del numero dei detenuti. Tanto, oltre che per ragioni etiche, semplicemente per rendere le carceri luoghi legali ed evitare l’altra assurda ipocrisia che vede lo Stato esercitare il diritto di punire comportamenti illegali tenendo i puniti in luoghi lontani, oltre che dall’umanità, dalla legalità stessa. *Avvocato del foro di Lecce, componente del direttivo di Antigone Puglia e della Camera Penale di Lecce “Francesco Salvi” Caro Giachetti, sono d’accordo con la tua proposta, anzi servirebbe amnistia e indulto, non con la denuncia a Nordio di Desi Bruno* Il Dubbio, 20 agosto 2024 La doverosa premessa: chi scrive condivide in toto la proposta Giachetti sull’aumento dei giorni di liberazione anticipata, con spregio indicata come “indultino mascherato”, ma comunque la si chiami trattasi di un tentativo di ridurre il sovraffollamento liberando detenuti ormai a fine pena, strumento deflattivo già in passato opportunamente utilizzato. Sono ancor più d’accordo con un provvedimento di amnistia e indulto con caratteristiche analoghe a quello ultimo del 2006, accompagnato magari da quegli interventi normativi strutturali e di revisione sistemica dell’universo carcere che parrebbero timidamente comparire nel decreto, oggi legge Nordio sulle carceri, come gli elenchi a disposizione per gli inserimenti comunitari, per detenuti tossicodipendenti o comunque in difficoltà socio- economica e per lo più abitativa, a cui potrebbe aggiungersi l’intervento annunciato sulla custodia cautelare. È evidente che in questi anni è mancato un pensiero organico sul carcere, ed è comprensibile che ci sia allarme sociale rispetto alla fuoriuscita dal carcere di chi potrebbe recidivare in assenza di agganci sul territorio, possibilità abitative, lavorative, ecc. Questo è sempre successo, allarme peraltro acuito da una selvaggia propalazione di processi mass- mediatici a cui nessuno vuole in realtà dire basta. E anche in questi mesi si poteva e doveva lavorare in questo senso, senza demandare anche quel poco di buono che c’è nel decreto Nordio sulle carceri a successivi regolamenti (si veda aumento delle telefonate dal carcere, per esempio). E si è comunque in tempo a farlo. Ma l’amnistia e indulto sono comunque doverosi, a fronte del numero di suicidi e di tutto quello che sappiamo sta accadendo nelle carceri. E questo governo, se davvero intende separare le carriere, ha un’occasione storica per adottare un provvedimento di clemenza, a conclusione di una lunga stagione di processi che almeno in parte giusti non sono stati, se si lamenta, e condivido, che non è ancora stato attuato il principio del giusto processo. Peraltro bisognerebbe anche che alcune forze politiche si dichiarassero apertamente per amnistia e indulto: Forza Italia da che parte sta? E il Pd? A molti non è chiaro. La questione è politica, e sul disastro carcere sono molti i governi e i parlamentari che non sono stati capaci di un efficace intervento e che hanno o dovranno risponderne agli elettori (che peraltro non a caso diminuiscono). Vale la pena ricordare, a futura memoria, la sentenza Torreggiani di condanna dell’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU del 2013. Ma i garantisti (in senso ampio) hanno chiesto e chiedono che non ci sia commistione tra politica e processo e, da ultimo, anche la vicenda del presidente della Regione Liguria costretto di fatto a dimettersi per non essere più pericoloso, qualche interrogativo lo pone. Ma chi ritiene di voler separare politica e processo e di evitare indebite commistioni tra poteri dello Stato non può e non deve presentare esposti volti a chiedere di verificare se esistono i presupposti di una eventuale condotta omissiva, che dovrebbe essere causa diretta dei suicidi in carcere. Già, perché si abbia reato bisogna provare il nesso di causalità tra la condotta e l’evento e deve sussistere l’elemento psicologico del reato. E i suicidi dell’anno 2023, e quelli degli anni precedenti? E la mancata attuazione delle riforme scaturite dagli Stai generali dell’esecuzione penale? Non è una strada percorribile, anzi inasprisce ogni tentativo di addivenire una soluzione. I parlamentari possono chiedere mozioni di sfiducia, ma in democrazia chi è all’opposizione spesso non riesce ad andare oltre. Ma questo è. Vanno riprese le iniziative politiche, altrimenti sembra che la politica si sia arresa, anzi così è, come ha detto Giachetti. Certo il ministro Nordio non è stato all’altezza delle aspettative di chi credeva in un possibile cambiamento. Ma una legge insufficiente, o sbagliata (come altre di questo governo) non giustifica una denuncia penale. Altrimenti ognuno può denunciare il politico o il rappresentante di governo che con scelte politiche sbagliate non ha modificato lo status quo esistente in un determinato settore (si pensi al tema degli incidenti stradali o agli infortuni sul lavoro). Tutti contro tutti, dando spazio all’intervento della magistratura nell’attività politica, cioè quello che si dice di voler evitare. Un conto è la responsabilità politica, un conto quella penale. Almeno su questo dovremmo essere d’accordo. *Avvocato, già Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia- Romagna e del Comune di Bologna Condizioni igienico-sanitarie delle carceri: 102 diffide alle ASL dell’associazione Luca Coscioni di Franco Insardà Il Dubbio, 20 agosto 2024 Le condizioni igienico-sanitarie degli istituti penitenziari italiani sono davvero preoccupanti e per questo motivo l’associazione Luca Coscioni ha inviato 102 diffide alle direzioni generali delle Asl delle città dove si trovano i 189 istituti penali italiani. Si tratta di diffide ad adempiere al proprio compito stabilito dalla legge: procedere a sopralluoghi nelle strutture penitenziarie di loro competenza con il fine di apprezzare le circostanze relative all’igiene e le profilassi delle stesse, della fornitura di tutti i servizi socio-sanitari e di agire di conseguenza, qualora esse non siano a norma. Un’iniziativa lanciata alla luce della pressoché totale mancanza nel recente decreto carceri di misure strutturali volte a garantire il diritto alla salute nei 189 istituti di pena in Italia che tiene in considerazione il fatto che ai direttori generali delle aziende sanitarie spetta il compito di riferire al ministero della Salute e quello della Giustizia sulle visite compiute e sui provvedimenti da adottare. Le Asl hanno l’onere di accertare, anche attraverso visite ispettive agli istituti di pena, che le condizioni di igiene siano rispettate e, in caso contrario, intervenire per interrompere eventuali gravi mancanze. “L’Associazione Luca Coscioni ha deciso di lanciare questa iniziativa perché la totale mancanza di attenzione dedicata alla salute nell’ultimo decreto del governo in materia di carceri, oltre che quanto denunciato sistematicamente dai rapporti dei garanti cittadini e regionali, da notizie di stampa e resoconti di visite ispettive parlamentari, fanno emerge una situazione di patente violazione strutturale, tra gli altri, del diritto alla salute delle persone ristrette nel nostro Paese”, dichiarano in una nota a riguardo l’avvocata Filomena Gallo e Marco Cappato, segretaria e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni. “In quanto organizzazione della società civile, pur concordando con le rare proposte di depenalizzazione e decarcerizzazione e sostenendo la necessità e l’urgenza di misure deflattive come indulto o amnistia, mai evocate nel dibattito parlamentare, potevamo” solo attivare quanto previsto dal nostro ordinamento e non restare inerti di fronte all’illegalità diffusa contro cui le istituzioni continuano a non adottare misure all’altezza della gravità della situazione” prosegue la nota. “Nella speranza che le consuete visite in carcere del mese di agosto possano aumentare la consapevolezza dei trattamenti disumani e degradanti a cui vengono sottoposte oltre 61.133 persone presenti nei 189 istituti di pena, nel caso in cui le nostre diffide dovessero cadere nel vuoto torneremo a interessare le autorità competenti regionali e cittadine nelle forme previste dalla legge nazionale e gli obblighi internazionali dell’Italia affinché la salute in carcere venga fatta godere pienamente come diritto”. Le diffide, tra le altre cose, ricordano come al 31 luglio 2024, 64 persone (67 a oggi ndr.) si siano tolte la vita negli istituti di pena con motivazioni che risultano legate alle condizioni di vita in carcere. Oltre allo stress da sovraffollamento si aggiungono condizioni igienico- sanitarie fuori norma, con presenza di pulci e cimici nelle celle, nidificazione di piccioni negli spazi aperti non puliti, pessima qualità dei servizi igienici, spesso condivisi con zone cottura in celle sovraffollate, scarsa o inadeguata ventilazione dei locali, scarsità d’acqua e/ o mancanza di acqua calda, mancanza di docce nelle celle, docce in comune con muffe e locali insalubri. Sono sette i rappresentanti della polizia penitenziaria che si sono suicidati per motivi legati al loro lavoro, appesantito e reso frustrante dalla cronica mancanza di personale. Carceri in subbuglio, la spada di Damocle sul ministro Nordio di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 agosto 2024 Un “detenuto psichiatrico” - per usare il gergo dei sindacati di polizia penitenziaria - domenica pomeriggio ha dato fuoco alla sua cella nel carcere romano di Regina Coeli. Risultato: due agenti intossicati e portati in ospedale. E ancora ieri “gruppi di detenuti armati di bastoni sono arrivati quasi allo scontro, sembra per stabilire il dominio nei traffici illeciti”, denuncia 1’Fp Cgil. Nelle stesse ore nel bolognese Dozza una rissa scoppiata tra reclusi ha lasciato contusi tre poliziotti penitenziari, e a Castrovillari un incendio appiccato da un detenuto avrebbe costretto un agente alle cure del pronto soccorso. Riavvolgendo il nastro troviamo poi un 17 agosto di paura, a Bari, per un’infermiera che è stata “presa brevemente in ostaggio e, per fortuna, senza conseguenze fisiche” da alcuni detenuti durante una protesta, stando sempre a quanto denunciato dai vari sindacati della penitenziaria. Mentre i116 agosto anche l’Istituto per minori di Casal Del Marmo, a Roma, si è di nuovo infiammato diventando ancora teatro di risse e aggressioni al personale medico e di sicurezza, e “un poliziotto è stato preso a pugni e un altro ha riportato tagli all’addome con una lametta”. ta dinamica delle “rivolte”, come le chiamano gli operatori di polizia e gli esponenti della maggioranza di governo, o “proteste”, come esorta a definirle il Garante regionale dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia, scoppiate nell’opacità delle prigioni. Basti ricordare che quelle del marzo 2020, che durante il primo lockdown da Covid 19 dilagarono in ben 57 istituti senza alcuna coordinazione o regia, si conclusero con un bilancio di 13 reclusi morti. E la commissione ispettiva incaricata dal Dap impiegò due anni per concludere la verifica dei fatti e confermare con lode quanto riferito a caldo dagli agenti presenti. Tanto più difficile però se, con un tempismo invidiabile, la maggioranza di governo si è intestardita nel voler creare la nuova fattispecie di reato della “rivolta” (per ora introdotta nel testo del ddl Sicurezza dalle commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera), nel quale il recluso - adulto o minore che sia, in carcere o nei centri per migranti e rifugiati - può incorrere anche se mette in atto un’azione di resistenza passiva ad un ordine imposto. E tre mesi fa un decreto ministeriale di Nordio ha istituito il Gruppo di intervento operativo (Gio), un reparto specializzato della Polizia penitenziaria per sedare le rivolte in carcere. Ma premesso questo, non vi è dubbio che le carceri e chi vi vive all’interno, per lavoro o per scontare una pena, siano diventate una polveriera. Pronta ad essere innescata. Come potrebbe essere altrimenti, con 66 suicidi dall’inizio dell’anno e se mediamente sono ammassati 130 detenuti in 100 posti, secondo i dati ministeriali registrati il 31 luglio 2024, con punte di sovraffollamento ufficiale del 144% in Puglia (ma la percentuale aumenta se si considerano i posti realmente disponibili), seguita da Lombardia al 143% e Friuli Venezia Giulia al 140%. Chiusi nelle celle, senza ventilatori. Senza lavoro, senza impiego, senza prospettive di ritornare in società riabilitati a pieno titolo. Senza visibilità. E senza alcun diritto alla salute, come nota l’associazione Coscioni che “ha inviato 102 diffide della Direzioni generali delle Aziende sanitarie locali delle città dove si trovano i 189 istituti penali italiani”. E come potrebbe essere altrimenti se in un carcere come quello di Taranto, per esempio, di notte a sorvegliare 960 detenuti rimangono al massimo 7 o 8 agenti. Perché la carenza di organico a livello nazionale viene stimata ben oltre le 11 mila unità (i sindacati parlano di 18 mila), al punto che ben poca roba appaiono le mille nuove assunzioni programmate nei prossimi tre anni dal Decreto carceri. Una polveriera che ora aggrava il divario tra la destra più manettara del governo Meloni (cioè la quasi totalità) e quella che tenta di recuperare (per qualsiasi calcolo politico o per una supposta rediviva convinzione) l’eredità garantista che fu della destra liberale della Seconda Repubblica. Entrambi tirati per la giacchetta dai loro rispettivi referenti politici o sociali, in ogni caso nessuno - né Forza Italia da una parte, né Fd’I e la Lega dall’altra - potrà ancora tentare di ignorare l’emergenza carceri. Le Convenzioni internazionali, prima di tutto, non lo permettono. Perciò, che siano rivolte o proteste, la soluzione “edilizia penitenziaria” o privatizzazione dell’esecuzione penale non sarà sufficiente a neutralizzare la spada di Damocle appesa sulla testa del ministro della Giustizia. Nordio lo sa, settembre è vicino. Carceri, non basta un decreto di Carlo Mastelloni Corriere del Veneto, 20 agosto 2024 Mio nonno obbligò mio padre a visitare il carcere di Poggioreale a Napoli a diciotto anni, e mio padre si comportò in maniera analoga con me non ancora maggiorenne. Perché conoscere il quotidiano dei detenuti e delle guardie carcerarie deve essere un principio di civiltà immanente alla società: la nostra Costituzione, all’ articolo 27, impone la rieducazione del condannato abbracciando la teoria dell’”emenda” trasmessaci da Cesare Beccaria. Nel Dopoguerra, quando ancora si raccoglievano i morti ammazzati nelle strade e nelle campagne i nostri Padri costituenti si trovarono tutti d’accordo nel non accogliere la teoria della “retribuzione”, per intenderci l’”occhio per occhio”. Quando passo per Rio Terà dei pensieri a Venezia, sestiere Santa Croce, e guardo il remoto fortilizio che ancora oggi funziona come Casa Circondariale penso, e io conosco bene quelle mura e quelle stanze, che i governi succedutisi non hanno rispettato alcuni appuntamenti con la civiltà. E in particolare mi riesce difficile pensare che non si sia ravvisata l’esigenza di costruire un carcere moderno così come si sentì a proposito dell’aula bunker per processare i brigatisti. Auspico che i giovani alunni, attraverso docenti e presidi dei vari istituti scolastici, si mobilitino per organizzare visite all’ interno del carcere per capire in che cosa in concreto si traduce l’eterno “sovraffollamento” dei detenuti e la condizione umana in cui versano gli stessi. Una cosa è certa: non basta il solito decretino per normalizzare la situazione o visite strombazzate del nostro ministro della giustizia dalla garbata loquela a risolvere una situazione che dovrebbe essere affrontata ogni giorno. Da chi? Quantomeno dal Dap centrale, Dipartimento amministrazione penitenziaria, che ha fallito, diciamolo pure, il proprio obiettivo non allestendo una scuola-quadri permanente tale da incidere sul cambiamento radicale di una impostazione culturale ripetitiva e non risolutiva continuando, per esempio, a sfornare psicologi per dare un aiutino ai carcerati, ovviamente affetti da una nevrosi di massa. Si è finito per ignorare dunque propositi istituzionali di assoluto rilievo, primo in testa il far vivere decentemente detenuti e agenti in strutture idonee a garantir loro il cosiddetto spazio vitale. Un’ altra cosa è certa: a Venezia e nel Veneto, come in tutta Italia, non mancano i mattoni, e i germi per lasciare un po’ di campo libero a una cultura diversa con cui affrontare i problemi del circuito carcerario. La calda estate delle carceri italiane di Gelsomina Ciarelli* Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2024 Premetto che lavoro in carcere come psicologa dal 1994 con vari ruoli: da esperto art 80 a psicologa ASL con varie funzioni. Più di ogni altra cosa fa venire rabbia la continua mistificazione del problema carceri e le soluzioni ipotizzate. Io mi chiedo perché continuano a prospettare ipotesi che sono impraticabili ma anche confuse e non veritiere. Il Ministro era pur sempre un magistrato se non erro. Per noi che lavoriamo in carcere la mistificazione è la cosa più tremenda. Commento solo il “trasferimento di massa dei detenuti tossicodipendenti nelle Comunità” Ma come questo può avvenire: innanzitutto dovrebbero sapere che le Comunità costano, sono carico delle ASL. Ma Schillaci ci ha messo una lira? Poi deve essere fissata una udienza con tanto di programma. Ma poi tutti questi posti dove si trovano? Vi sono lunghe liste di attesa e non tutte le Comunità accolgono tossicodipendenti provenienti dal carcere perché spesso trattasi di detenzione domiciliare. Sono veramente afflitta ed irritata. Questo dimostra la serietà e la competenza di un Governo a partire dai sottosegretari. Sinceramente necessitano di consulenti un po’ più esperti, anche per evitare le brutte figure a cui sono sottoposti. *Psicologa “La Mecca dei carcerati? Delmastro si penta. In galera c’è più umanità che nel governo” di Oscar Serra lospiffero.com, 20 agosto 2024 “La Mecca dei carcerati? Andrea Delmastro, che è stato mio compagno di partito, dovrebbe pentirsi di tanta cattiveria”. A parlare è Roberto Rosso, ex parlamentare e sottosegretario, vicepresidente della Regione Piemonte con Roberto Cota e poi assessore con Alberto Cirio prima della bufera giudiziaria che l’ha travolto sconvolgendo la sua vita: 64 anni a settembre e sette mesi passati in carcere con l’accusa di voto di scambio politico-mafioso. Ha subito una condanna in secondo grado a 4 anni e 4 mesi, ora attende il 26 novembre quando è in calendario l’ultimo pronunciamento della Cassazione sul suo ricorso. Roberto Rosso, lei in carcere c’è stato. Sta seguendo la polemica di questi giorni? “Certo. Forse i politici dovrebbero capire quanta umanità c’è in quell’ambiente anche tra i detenuti, anzi soprattutto tra di loro”. Le parole del sottosegretario Delmastro, dirigente di FdI, lo stesso partito in cui lei ha militato fino al giorno dell’arresto, l’hanno turbata? “Guardi, se fossi in lui mi farei il segno della croce, andrei in chiesa, entrerei in un confessionale e mi pentirei per tanta cattiveria”. Cosa può raccontare dei suoi sette mesi di reclusione? “Sono stati duri, è normale. Mangi nello stesso posto in cui espleti i tuoi bisogni, lo spazio vitale è ridotto al minimo ma peggio di tutto è l’inedia”. Come passava le sue giornate? “Questo è il tema. Ogni giorno è uguale all’altro: gli occhi si aprono alle 5 del mattino perché la luce entra presto nelle celle. Il manganello delle guardie sulle sbarre segna l’inizio della giornata. Da quel momento nulla da fare e poche ore d’aria per una partita a carte o una passeggiata. Ho imparato a giocare a scala quaranta per ingannare la noia”. Le bastavano le carte? “Alla mattina, dopo l’ora d’aria, avevo ottenuto di poter andare in biblioteca a leggere. Mi ha aiutato”. Cosa manca più di tutto a un detenuto? “Potevo incontrare la mia famiglia solo mezz’ora a settimana, io poi sono stato alle Vallette quando c’era il Covid quindi a un certo punto anche quella mezz’ora è stata interdetta. Nella mia cella c’era un imprenditore arrestato in Albania e poi trasferito a Torino: mi diceva che lì le condizioni erano migliori perché almeno si poteva chiamare casa”. Il regolamento penitenziario in Italia prevede una telefonata alla settimana… “E le sembra normale? Sa cosa vuol dire quando sei rinchiuso poter sentire una persona cara, una compagna o un figlio. È vitale, è ossigeno puro e ridurre così i colloqui è una vessazione inutile. In Italia ci sono delle misure afflittive gratuite che peggiorano una situazione già drammatica per via del sovraffollamento”. Ha citato “le guardie”, cioè la polizia penitenziaria. Anche loro denunciano quotidianamente le condizioni sempre più dure negli istituti di pena… “Ma certo, è una galera anche per loro. Migliorare le condizioni dei detenuti vuol dire rendere il carcere più vivibile anche per loro”. E per il Roberto Rosso politico, quali potrebbero essere le soluzioni? “Partiamo dalle premialità. Oggi in Italia la buona condotta consente di avere un massimo di tre mesi di sconto all’anno. In Francia sono 4, la Germania prevede una sospensione se hai scontato almeno la metà o i due terzi della pena, a seconda dei casi. In Inghilterra, addirittura, ogni giorno di buona condotta produce uno sconto di un giorno sulla condanna”. Si parla spesso di depenalizzazione dei reati minori. Lei cosa ne pensa? “Su questo non sono d’accordo. I piccoli reati sono quelli più odiosi perché spesso vengono perpetrati ai danni dei più deboli: gli anziani o le donne”. Come l’ha cambiata il carcere? “Ha rafforzato la mia fede. Ho sempre creduto, ma durante questa esperienza ho compreso a pieno il significato di una frase come “Non la tua ma la mia volontà sia fatta”. Mi sono chiesto a lungo perché a me, perché non fosse evidente a tutti la mia innocenza”. Caro direttore, sulle carceri si sbaglia, ecco perché di Salvatore Buzzi La Verità, 20 agosto 2024 I detenuti sono in costante crescita, le strutture sono degradate e per costruirne di nuove servono anni Caro direttore, ogni giorno leggo il suo editoriale: molte volte concordo, a volte dissento. In questo caso, oltre a dissentire, mi sento in dovere di inviarle questo appunto per aprire un momento di riflessione. 1. È normale e fisiologico per un governo di destra costruire nuove carceri per far fronte all’aumento dei detenuti, ma per costruirle ci vogliono anni: e nel frattempo che si fa? Perché i vari governi di centrodestra o tecnici non ci hanno pensato prima? 2. I detenuti sono in costante aumento, perché, dai tempi di Mani pulite, sono aumentate le fattispecie di reato e sono aumentate di molto anche le pene: negli anni 90, con 2.000 omicidi l’anno e con guerre di mafia in corso, vi erano al massimo 50.000 detenuti. Oggi, con tutti gli indici di criminalità al minimo storico, abbiamo 61.000 detenuti oltre 78.000 detenuti in misura alternativa (ai domiciliari, semiliberi e affidati) e circa 100.000 persone che sono “liberi sospesi”, cioè aspettano che il magistrato di sorveglianza decida se debbano scontare un residuo pena in carcere o in misura alternativa (come me). Arriviamo a 240.000 persone con limitazioni della libertà. 3. I governi di centrodestra si distinguono per l’introduzione di nuovi reati, mentre i governi di centrosinistra si distinguono per l’aumento delle pene (il governo Renzi aumentò le pene per mafia e corruzione dopo il mio arresto). 4. In carcere si creano aspettative di liberazione perché la gran parte dei detenuti è poco scolarizzata o straniera e le notizie false si propagano alla velocità della luce: dallo scorso anno in molti pensano sia questione di poco l’aumento dello sconto di pena per la liberazione anticipata. Aspettative frustate provocano ribellioni. 5. Nella gran parte delle carceri si vive in condizioni degradanti per il sovraffollamento e la vetustà delle strutture, alcune risalenti al 1800: vedi il carcere di Regina Coeli dove sono presenti 1.100 detenuti a fronte dei 650 posti disponibili. 6. Manca il personale penitenziario: agenti, educatori, direttori. E da anni. 7. Il nuovo provvedimento la detenzione la politica si mette l’animo in pace e alle nuove prigioni non pensa più. Non basta un tratto di penna per far sparire i reati, perché la delinquenza purtroppo esiste anche se qualche ministro decide che per furti, scippi e la cosiddetta criminalità minore oltre a chiudere un occhio, come fa già la magistratura, se ne possono chiudere due. Quanto all’aumento delle fattispecie di in tema di ordine pubblico varato dal governo Meloni e all’esame del Parlamento aumenta le pene ed estende l’area penale: ciò provocherà l’ingresso in carcere di molte persone in un contesto già al limite. 8. I magistrati di sorveglianza sono pochissimi e in parte poco motivati: appena possono, chiedono il trasferimento in posti ritenuti migliori. 9. Io ritengo che, allo stato, l’unica misura deflattiva e non generalizzata per decongestionare le carceri sia la rapida approvazione della proposta di legge Giochetti che aumenta lo sconto di pena per la liberazione anticipata solo per quei detenuti che tengono una buona condotta e partecipano alle attività trattamentali in carceri, dando evidente prova di risocializzazione. Mi fermo qui ma potrei continuare per molto. Sono solo spunti per una riflessione. *Ex detenuto Lei ha passato in cella 15 anni su 26 di condanna. Il suo caso conferma che ho ragione di Maurizio Belpietro La Verità, 20 agosto 2024 Cancellare i reati con un tratto di penna sarebbe un torto verso chi ne è stato vittima. E indulti e amnistie non bastano. Caro Buzzi, ovviamente in fatto di prigioni lei ne sa più di me. Oltre a qualche intervista a detenuti eccellenti (Adriano Sofri nel carcere di Pisa e un componente della cosiddetta banda delle Bestie di Satana nel reclusorio di Opera), le mie frequentazioni in cella risalgono al periodo in cui ho fatto il militare e venni destinato a svolgere il servizio di leva a Peschiera del Garda, dove veniva spedito chi rifiutava di indossare la divisa e chiunque avesse commesso un reato militare. La mia esperienza a stretto contatto con i condannati durò meno di un anno, la sua dietro le sbarre per omicidio volontario credo si aggiri intorno ai nove. Se ricordo il periodo della sua prima detenzione, a cui poi è seguita quella dovuta alle condanne subite per l’inchiesta denominata Mafia capitale, non è per rinfacciarle il passato, che peraltro ai lettori di questo giornale credo sia noto, in quanto ci siamo occupati spesso dei fatti che la riguardano e altrettanto spesso l’abbiamo intervistata. No, cito la vicenda dell’omicidio di un complice che la ricattava (il tribunale le inflisse 14 anni e 3 mesi di carcere in Appello) e il caso dell’indagine sul sistema di appalti del Comune di Roma (per cui lei è stato condannato a 12 anni e 10 mesi) solo per far capire che lei quando si parla di “Svuota-carceri” è anche parte in causa. E non soltanto perché conosce alla perfezione la situazione delle prigioni italiane, avendone frequentato un certo numero, ma perché proprio il sistema che io ho criticato ieri, rivolgendomi al ministro della Giustizia Carlo Nordio, le ha consentito di riottenere la libertà. Infatti, se non sbaglio, dei 14 anni e mesi a cui fu condannato nel 1983 per il delitto del suo socio in affari, lei ne ha scontati in cella circa nove, a cui se ne aggiungono altri due in regime di semilibertà. Per effetto di una serie di riforme (tra cui la legge che porta il nome dell’onorevole Mario Gozzini), lei ha dunque ottenuto un forte sconto di pena. Tra amnistie e indulti, nel 1992, cioè nove anni dopo l’inizio della sua detenzione, ha potuto dirsi un uomo libero. E per quanto riguarda Mafia Capitale, dei quasi 13 anni cui è stato condannato ne ha scontati sei, perché per i restanti ha ottenuto le misure alternative e la riforma dei provvedimenti a suo carico. Mi fa piacere che spesso lei sia d’accordo con le opinioni che esprimo nei miei editoriali. Ma capisco anche che non potrà mai condividere quelle sulle carceri, perché l’ex detenuto Salvatore Buzzi è proprio l’esempio calzante di ciò che io contesto. Attenzione: non mi auguro che lei ritorni in cella e non gliene faccio una colpa, lei ha usufruito con pieno diritto delle possibilità che le ha offerto la legge. Benefici, sconti, perdoni: così una condanna a quasi 15 anni si è ridotta a nove, e una a quasi 13 a sei e mezzo. Lei, a proposito di quest’ultima, dirà nove, includendo la semilibertà e la scarcerazione con condizionale. Ma la sostanza è che dietro alle sbarre per un omicidio volontario lei ha scontato più o meno due terzi della pena a cui era stato condannato e poi ha potuto riprendersi la vita. Ne sono lieto, ma se mi metto nei panni dei parenti delle vittime, di qualsiasi vittima, forse non sarei altrettanto lieto. Dopo di che lei ha ragione: per fare nuove carceri servono anni. Ma la soluzione non può essere abolire le condanne o scontarle di un certo periodo, perché una volta cancellata la detenzione la politica si mette l’animo in pace e alle nuove prigioni non pensa più. Non basta un tratto di penna per far sparire i reati, perché la delinquenza purtroppo esiste anche se qualche ministro decide che per furti, scippi e la cosiddetta criminalità minore oltre a chiudere un occhio, come fa già la magistratura, se ne possono chiudere due. Quanto all’aumento delle fattispecie di reato, che pure mi allarma, soprattutto quando si parla di concorso esterno in un’attività criminale come la mafia, credo che c’entri poco con il sovraffollamento. Prova ne sia che anche prima della stagione di Mani pulite, cui lei fa risalire il fenomeno della moltiplicazione dei comportamenti puniti dal codice penale, non si sapeva dove mettere i detenuti e nemmeno gli indulti e le amnistie ripetute bastarono a risolvere il problema. È vero, le carceri sono fatiscenti e i detenuti costretti in condizioni degradanti, anche a causa del poco personale addetto alle celle. Ma anche in questo caso la soluzione non può essere aprire le prigioni, con un “liberi tutti”. La maggior parte delle carceri sta ormai nel cuore delle città, vedi San Vittore, Regina Coeli, Rebibbia, l’Ucciardone, Poggioreale, Canton Mombello, per citarne alcuni. Vendiamo i vecchi penitenziari ai privati, che nel frattempo potranno fare centri residenziali, e con quello che lo Stato ricaverà faremo reclusori moderni e meno affollati. Ci vorrà del tempo? Sì, ma se non si comincia non li vedremo mai. Quanto poi a ciò che lei adombra, ovvero al fatto che ormai la popolazione carceraria si aspetta un provvedimento di clemenza, perché il parlamentare della sinistra Roberto Giachetti ha presentato una proposta in tal senso, e non vararlo potrebbe scatenare delle rivolte, le ricordo che cosa è accaduto durante il Covid, quando sotto la minaccia delle ribellioni furono consentite anche le scarcerazioni di pericolosi mafiosi. In quel caso si parlò addirittura di un’operazione coordinata dalla stessa criminalità e spero che questa volta non ci sia la stessa mano. Ciò detto, uno Stato che voglia definirsi tale, non può accettare di varare un indulto o un’amnistia (perché di questo alla fine si tratterebbe) sotto la pressione di una rivolta. Né può accettare che “detenuti poco scolarizzati e stranieri” tornino in libertà, magari proprio per ingrossare le fila di quella piccola criminalità che spaventa tanto l’opinione pubblica e molto meno i politici che dentro il Palazzo, con ladri, spacciatori e scippatori hanno poco a che fare. Lombardia. Troppi detenuti, il sovraffollamento supera il 140%. Diffidate le Asl di competenza di Anna Giorgi Il Giorno, 20 agosto 2024 Dietro le sbarre degli istituti di pena della nostra regione ci sono 8.349 uomini e 464 donne. L’associazione Luca Coscioni ha inviato 102 diffide alle direzioni generali delle Asl: devono controllare. Nelle carceri lombarde ci sono 8.349 uomini e 464 donne. Troppi, in base alla reale capienza. Il sovraffollamento nei penitenziari della nostra regione avrebbe raggiunto il 143%, motivo per cui l’associazione Luca Coscioni ha inviato 102 diffide alle direzioni generali delle Asl delle città dove si trovano i 189 istituti penali italiani. La situazione regione per regione - Anche perché se la situazione in Lombardia è drammatica, non va meglio altrove. Questa la situazione del sovraffollamento: Puglia - 144% (4.037 uomini e 220 donne); Lombardia - 143% (8.349 uomini e 464 donne); Friuli-Venezia Giulia - 140% (651 uomini e 27 donne), Veneto - 135% (2.513 uomini e 131 donne); Lazio - 129% (6.409 uomini e 433 donne), Molise - 129% (355 uomini); Basilicata - 125% (460 uomini), Emilia-Romagna - 124% (3.541 uomini e 172 donne); Campania - 120% (7.200 uomini e 331 donne); Liguria - 120% (1.268 uomini e 66 donne); Umbria - 119% (1.531 uomini e 69 donne); Calabria - 110% (2.918 uomini e 67 donne); Marche - 110% (905 uomini e 21 donne); Piemonte - 109% (4.186 uomini e 160 donne); Sicilia - 104% (6.497 uomini e 252 donne); Abruzzo - 101% (1.602 uomini e 88 donne); Toscana - 99% (3.059 uomini e 85 donne); Trentino-Alto Adige - 91% (426 uomini e 46 donne); Sardegna - 83% (2.128 uomini e 50 donne); Valle d’Aosta - 80% (146 uomini) La richiesta alle Asl - In Europa solo la Serbia ha carceri più sovraffollate di quelle italiane, dice un recente studio di Antigone onlus. Con 1.020 uomini e 80 donne, tra cui 8 madri, a fronte di una capienza effettiva di 450 persone, la situazione al carcere San Vittore, il più sovraffollato di Italia, è diventata “insostenibile”. Quello che chiede l’associazione Luca Coscioni è di adempiere al proprio compito stabilito dalla legge: procedere a sopralluoghi nelle strutture penitenziarie di loro competenza con il fine di apprezzare le circostanze relative all’igiene e le profilassi delle stesse, della fornitura di tutti i servizi socio-sanitari e di agire di conseguenza, qualora esse non siano a norma. Un’iniziativa lanciata alla luce della pressoché totale mancanza nel recente decreto carceri di misure strutturali volte a garantire il diritto alla salute nei 189 istituti di pena in Italia che tiene in considerazione il fatto che ai direttori generali delle aziende sanitarie spetta il compito di riferire al ministero della Salute e quello della Giustizia sulle visite compiute e sui provvedimenti da adottare. Le Asl hanno l’onere di accertare, anche attraverso visite ispettive agli istituti di pena, che le condizioni di igiene siano rispettate e, in caso contrario, intervenire per interrompere eventuali gravi mancanze. Calabria. Pannelli in plexiglass alle finestre delle celle: annunciato il ricorso alla Cedu di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 agosto 2024 Le sconvolgenti condizioni delle carceri in Calabria, denunciate dal Garante Regionale dei diritti delle persone private della libertà, Luca Muglia, rivelano un sistema penitenziario al collasso. Sovraffollamento, strutture fatiscenti, carenze di organico e violazioni dei diritti umani fondamentali caratterizzano questa realtà drammatica. Muglia, con la sua Relazione semestrale, ha analizzato la situazione, sottolineando il crescente numero di eventi critici, tra cui suicidi, tentativi di suicidio e atti di autolesionismo. Inoltre, ha evidenziato l’utilizzo improprio di pannelli in plexiglass nelle celle, definendolo come un trattamento disumano e degradante, e ha annunciato l’intenzione di ricorrere alla Cedu per ottenerne la rimozione. Nella relazione si evidenzia un quadro allarmante della situazione carceraria in Calabria. Il sovraffollamento, presente in 10 dei 12 istituti penitenziari, raggiunge picchi nelle carceri di Locri, Castrovillari, Cosenza, Crotone e Reggio Calabria. Le strutture, spesso fatiscenti, umide e prive di manutenzione, rendono le condizioni di detenzione estremamente precarie. Diverse celle presentano finestre schermate da pannelli in plexiglass, limitando gravemente la possibilità di ventilazione e di luce naturale. Carenze di organico e inadeguatezza delle camere detentive, con celle sovraffollate e prive di docce, aggravano ulteriormente la situazione. Particolarmente drammatica è la condizione delle sezioni femminili del carcere di Castrovillari e Reggio Calabria, così come quella degli istituti minorili, dove si registra un aumento del 26,3% degli ingressi rispetto all’anno precedente. I giovani, spesso multiproblematici e dipendenti da stupefacenti o farmaci, rappresentano una sfida più complessa per il sistema penitenziario. Il report degli eventi critici registrati negli istituti calabresi tra gennaio e giugno 2024 è a dir poco sconvolgente. In soli sei mesi, si sono verificati 5.306 eventi, tra cui 2 suicidi, 80 tentati suicidi, 225 atti di autolesionismo e 75 aggressioni fisiche alla polizia penitenziaria. Questi dati, in linea con quelli del 2023, evidenziano le gravi forme di vulnerabilità dei detenuti e i conflitti che si instaurano nelle carceri. Particolarmente preoccupante è il dato della composizione della popolazione carceraria in Calabria, con il 40% circa di detenuti in attesa di giudizio o con posizione mista. Questa elevata percentuale di detenuti non definitivi sottolinea le disfunzioni del sistema giudiziario e la necessità di misure alternative alla detenzione. Non mancano criticità anche per quanto riguarda il carcere minorile, condizionato dai due fattori: l’ingresso di giovani provenienti da altri distretti, buona parte stranieri, e la carenza dei funzionari della professionalità pedagogica. Sempre nel rapporto si conferma la presenza di giovani multiproblematici, dediti all’assunzione di sostanze stupefacenti e farmacologiche, con problemi di controllo selle emozioni, degli impulsi e dei comportamenti. Secondo il garante Muglia, la costante assegnazione dei giovani provenienti da altri distretti continua a determinare precarietà e turbamento degli equilibri interni, anche a causa delle diversità culturali. Continuano, di fatto, ancora a registrarsi ricadute negative anche nello sviluppo di progettualità interne. Un altro aspetto critico riguarda le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, le strutture per l’accoglienza di persone con infermità mentale. In Calabria, i tempi di attesa per l’ingresso in Rems superano i due anni, un dato estremamente preoccupante che riflette l’inadeguatezza del sistema di cura e riabilitazione. Nonostante le gravi criticità, il Garante regionale ha avviato alcune iniziative positive, come la sottoscrizione di protocolli di intesa tra i Comuni e gli istituti penitenziari per affrontare le problematiche legate all’identificazione e al rilascio di documenti per i detenuti senza fissa dimora. Inoltre, ha elaborato linee guida per tutelare il diritto dei figli minori dei detenuti a mantenere un legame continuativo con i genitori. Tuttavia, il quadro generale rimane desolante e richiede interventi urgenti e incisivi. Muglia ha lanciato un grido di allarme, sottolineando che “non c’è più tempo” e che sono necessari provvedimenti legislativi ed organizzativi immediati per affrontare questa emergenza umanitaria. Puglia. Emergenza carceri, pene da scontare fuori dalle celle: mancano servizi e strutture di Elga Montani Quotidiano di Puglia, 20 agosto 2024 Nonostante l’elevato tasso di sovraffollamento nelle 10 case circondariali pugliesi, il ricorso a tali opportunità è ancora limitato. E cresce il numero di detenuti. In un momento in cui in Puglia e in Italia il tasso di sovraffollamento delle carceri ha raggiunto livelli altissimi, sono molti coloro i quali ritengono che una soluzione alla problematica potrebbe essere un maggiore ricorso alle misure di detenzione alternative al carcere. La legge - La legge prevede il ricorso a strumenti quali semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria sostitutiva della detenzione, ma anche la possibilità per i detenuti tossicodipendenti o per gli alcol dipendenti di essere ospitati in comunità. Ad oggi, stando a quanto riporta l’associazione Antigone, tra queste possibilità la misura più utilizzata è l’affidamento in prova al servizio sociale, ossia una “sanzione penale che consente al condannato di espiare la pena detentiva inflitta o residua in regime di libertà assistita e controllata, sulla base di un programma di trattamento”. Anche se dal 2010 in poi è aumentato il ricorso ai domiciliari, a causa del fatto che la legge 199 di quell’anno prevede la possibilità di scontare gli ultimi 18 mesi di pena presso la propria abitazione o in altro luogo privato o pubblico di cura e accoglienza. I numeri - Stando all’ultimo report reso disponibile dal ministero, e contenente i dati aggiornati al 31 luglio scorso, in Italia ci sono 141.115 soggetti in carico agli uffici di esecuzione penale esterna (125.321 uomini e 15.794 donne). Il 66% di questi è soggetto a delle misure, mentre il restante 34% è ancora soggetto a indagini e consulenze. I numeri che riguardano nello specifico le misure alternative alla detenzione ci dicono che il totale è pari a 44.990 (40.705 uomini e 4.285 donne) su un totale di 92.989 soggetti in carico per misure varie. Di questi 30.920 sono in affidamento in prova ai servizi sociali, mentre 12.816 sono agli arresti domiciliari e 1.254 sono in semilibertà. Circa 10mila svolgono lavori di pubblica utilità e 28.276 sono in messa alla prova. La maggioranza dei soggetti interessati da queste misure (il 47,9%) sono soggetti di età tra i 30 e i 49 anni. I dati relativi alla Puglia parlano di 10.943 soggetti in carico così suddivisi nelle diverse province: Bari 3.132, Brindisi 1.485, Foggia 1.466, Lecce 2.811 e Taranto 2.049. Numeri che pur essendo importanti non sono tali da migliorare la condizione carceraria in Italia, considerando che diversi istituti di pena hanno una tendenza a non sfruttare questo tipo di opportunità. L’associazione Antigone - Nonostante le misure alternative siano mirate specificatamente al recupero del detenuto, i dati dimostrano che utilizzare questi strumenti non coincide, almeno non ha coinciso finora, con una riduzione della presenza dei detenuti in carcere. I dati, come sottolineano dall’associazione Antigone, ci dicono che “in linea generale i numeri complessivi dei detenuti e delle persone sottoposte a misura alternativa tendono a procedere lungo binari paralleli (quasi sempre in salita). Al crescere delle misure alternative tende a crescere anche la percentuale della popolazione detenuta, a dimostrazione che la funzione deflattiva attribuita all’estensione delle misure alternative risulta spesso illusoria”. Questo tipo di misure sono invece molto importanti per quanto riguarda la riduzione della recidiva, che in un’ottica di lungo periodo è molto più efficace dello svuotare le carceri qui e ora. Solo nel 3,2% dei casi questo tipo di misure ha un andamento negativo e solo lo 0,8% dei soggetti che ne usufruiscono commettono reati durante la misura. Negli ultimi dieci anni è comunque triplicata l’applicazione di tali misure, grazie all’enorme crescita della messa alla prova, che nel 2014 era ancora quasi inesistente mentre oggi coinvolge in tutta la penisola più di 25mila persone. La media nazionale - La Puglia, comunque, registra percentuali in linea rispetto alla media nazionale. Se in Italia a fine 2023 c’erano 0,7 detenuti per ogni persona in una misura di comunità, in Puglia tale dato è pari a 0,74. Numeri molto più bassi rispetto al Lazio dove questo indice è pari a 1,36 ma molto più alti rispetto al Friuli-Venezia Giulia (0,35). Il tutto è necessariamente legato alle opportunità che il territorio offre da questo punto di vista, dalla presenza più o meno massiccia di strutture adeguate e di personale capace di gestire questo tipo di misure. Sicuramente utilizzare questo tipo di strumenti potrebbe ora essere una ipotesi da considerare, dato che sono ben 7.962 (dato aggiornato al 30 giugno 2024) coloro che hanno una pena residua da scontare fino ad un anno. Bologna. Umanità in briciole, un altro suicidio in carcere di Alex Frongia bandieragialla.it, 20 agosto 2024 Sono circa le 12, ora di pranzo. Sentiamo urla, grida, schiamazzi. Richieste di aiuto. Credo sia la solita scaramuccia tra due “cellanti” che non se le mandano a dire, e invece no: è la tragedia, e si stava consumando a pochi centimetri dal mio naso. L’ennesimo suicidio in carcere, questa volta alla Dozza, dove mi trovo ristretto. È diverso dal leggerlo sui giornali, o sentirlo al TG che dedica quei 60 rapidi secondi. Ci lascia, e lascia la sua famiglia, un uomo di 47 anni di origine albanese. Oltre al danno, la beffa. Da una quarantina di giorni in carcere e messo nella sezione di transito, dove arrivano nuovi giunti e detenuti problematici che non riescono a stare in altre sezioni. Sezione a regime chiuso. Urla continue di richieste più disparate e disperate. Se dovesse esistere mai un inferno, io lo immagino così. Un posto dove spesso si litiga anche per 2 rigatoni in più, dove la sensazione di fame molti giorni non viene placata. Alcuni, alcuni giorni, attendono il carrello delle sezioni vicine, così da poter prendere i residui di cibo avanzati. Anche questa ennesima prova sottolinea l’invivibilità di questi istituti penitenziari. La colpa del gesto è stata già attribuita al sovraffollamento, ma non è la sola ragione. Il primo ingresso in carcere è stato supportato da psicologi, educatori.., ma non si può dire la stessa cosa per i giorni successivi. I nuovi giunti vanno a confrontarsi con i vecchi che danno consulenze gratuite di procedura penale. Creando nel nuovo giunto una visione negativa, con una condanna già assicurata. Ho fatto inoltre una triste scoperta: anche da morto, ci vuole il permesso di un giudice per uscire. Tutto questo malessere potrebbe essere alleviato dalle chiamate in più con i familiari, da ore in più di colloquio, dai colloqui intimi (così come previsto da leggi e sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo o della Corte Costituzionale), per non sentirsi soli e alienati, magari compresi. Queste mie parole non vogliono puntare il dito contro nessuno, vorrebbero però tirare fuori un briciolo di umanità qualora, ancora, ce ne fosse. Milano. Carcere di San Vittore, in arrivo 6 milioni di euro per la ristrutturazione e nuovi agenti di Andrea Gussoni mitomorrow.it, 20 agosto 2024 La situazione nelle carceri italiane è sempre più critica, tra sovraffollamento e l’alto numero di suicidi sia tra i detenuti che tra gli agenti penitenziari e San Vittore a Milano è l’emblema di questa emergenza, con un sovraffollamento che ha raggiunto livelli allarmanti. Il direttore Giacinto Siciliano ha evidenziato i numeri dell’emergenza: solo ad agosto, in un singolo giorno, sono stati accolti 29 nuovi detenuti, portando il totale a 1.007, a fronte di una capienza prevista di 450. Le condizioni di vita sono difficili: in alcuni casi, fino a otto o nove persone sono costrette a condividere una stanza di 33 metri quadrati, e quando gli ingressi eccedono, si aggiungono letti, riducendo ulteriormente lo spazio disponibile per persona. Per alleviare le difficoltà, Siciliano ha riferito che sono stati installati ventilatori in quasi tutte le celle, grazie anche al supporto della Caritas, e l’orario delle passeggiate è stato esteso per far fronte al caldo e alla mancanza di spazio. Inoltre, è stata installata l’aria condizionata nei luoghi comuni dei detenuti e nei box degli agenti. Sul fronte psicologico, dal mese di luglio sono stati assunti 14 psicologi per un totale di 222 ore mensili, oltre a 8 mediatori linguistico-culturali finanziati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per un totale di 1600 ore nel secondo semestre. Tuttavia, il numero dei suicidi è drammatico: 66 persone si sono tolte la vita quest’anno, e il regime di “custodia chiusa”, che ha sostituito quello “aperto”, è stato ampiamente criticato per aver ridotto le ore di socialità. Siciliano ha sottolineato l’amarezza per i casi di suicidio a San Vittore, dove le vittime erano attentamente seguite. Il comportamento dei detenuti sta cambiando: episodi di autolesionismo passano spesso inosservati o non suscitano l’intervento degli altri. Siciliano rileva che l’attitudine di chi entra in carcere è mutata radicalmente negli ultimi anni, con una crescente impulsività e difficoltà nel comunicare verbalmente, forse dovuta alla privazione del telefono, percepito come una parte della propria identità. La situazione di San Vittore ha attirato l’attenzione anche delle istituzioni. Una delegazione delle Camere Penali ha visitato la struttura alla vigilia di Ferragosto, descrivendo l’esperienza come toccante e drammatica. Valentina Alberta, presidente della Camera penale, ha sottolineato l’importanza di condizioni di detenzione dignitose per prevenire la recidiva. Da parte sua, il parlamentare Sandro Sisler ha annunciato lo stanziamento di 6 milioni di euro per la ristrutturazione di due bracci di San Vittore, oltre all’assunzione di mille nuovi agenti e dirigenti di Polizia Penitenziaria, prevista per l’anno prossimo, e la possibilità per i detenuti tossicodipendenti di scontare la pena in comunità Palermo. Suicidi in carcere, il Garante comunale: “Disatteso il diritto alla salute” di Serena Termini ilmediterraneo24.it, 20 agosto 2024 “Necessario un dipartimento della sanità penitenziaria che già in alcune regioni esiste”. Il carcere continua ad essere un luogo di sofferenza per i tanti problemi che ci sono: il dramma della salute mentale, il mancato diritto alla salute, lo scarso numero delle comunità alternative al carcere, la polizia penitenziaria sottodimensionata rispetto ai bisogni e il numero insufficiente di personale. A dirlo è Pino Apprendi, Garante delle persone detenute del Comune di Palermo, da anni impegnato su questo tema. Partiamo dal problema della salute mentale di persone che non dovrebbero stare in carcere? Si tratta di un dramma enorme perché dovrebbero essere accolte nelle Rems. In Sicilia ne abbiamo solo due e siamo da tempo in attesa di una terza struttura. Lo Stato ha il dovere di rispondere a queste persone inserendole in queste comunità. Nel momento in cui non lo fa viola la legge. Continua ad essere disatteso il diritto alla salute? Si continua a morire di carcere perché le visite specialistiche per chi ha patologie sono troppo poche e lontane nel tempo. Purtroppo, si muore di tumori, di infarto, di diabete e di tanto altro. Una persona che doveva fare un intervento urgente di cataratta ad un occhio, dopo otto mesi dal mancato intervento, ha perso un occhio. Cosa si può fare? Mi sto facendo promotore di un tavolo tecnico all’Asp con i direttori sanitari di Ucciardone e Pagliarelli per capire come intervenire. Spero a settembre di fare l’incontro con la commissione sanità dell’Ars per iniziare a lavorare alla creazione di un dipartimento della sanità penitenziaria che già in alcune regioni esiste. Su questa realtà bisognerebbe avere un interesse politico trasversale per il bene di tutta la società. Il personale non è numericamente adeguato rispetto al numero delle persone detenute? Purtroppo sì. Mancano, per esempio, i mediatori culturali per le persone straniere e sono pochi pure i psicologi ed educatori se pensiamo alle 1400 persone del Pagliarelli. Ricordiamoci che gli ultimi fra gli ultimi sono i migranti che sono soli e hanno bisogno di tutto. Il mio apprezzamento va, comunque, a tutte le persone che. a vario titolo. si impegnano ogni giorno nelle carceri. C’è anche una notevole carenza di personale di polizia penitenziaria? La polizia penitenziaria nella maggior parte dei casi cerca di fare il proprio lavoro nonostante sia un servizio particolarmente stressante e logorante. Da gennaio a ora, si sono avuti 7 suicidi ed è un numero altissimo rispetto al resto delle forze dell’ordine. Queste sono sotto organico ma anche sottodimensionate rispetto ai bisogni. Bisogna incrementare le unità con una formazione adeguata che non sia solo di tipo repressivo. Il sovraffollamento nelle carceri come si fronteggia? Il carcere Pagliarelli ha il 15% di sovraffollamento. È un problema nazionale esteso per altre realtà. Non abbiamo bisogno di nuovi carceri. Occorre incentivare la creazione di comunità alternative alla detenzione carceraria e poi, in relazione al tipo di reato, bisogna pensare ad altre misure alternative. Se un giovane viene subito portato nel carcere per adulti di Pagliarelli, ha un rischio fortissimo di perdersi. Bisognerebbe dargli invece opportunità diverse declinate in chiave educativa. Dobbiamo uscire dalla logica del “buttare la chiave” perché la persona detenuta non può essere lasciata sola ad incattivirsi sempre di più. Ogni possibilità che daremo alla persona detenuta di dare una svolta alla sua vita, andrà a beneficio di tutta la società. Mancano i progetti di reinserimento sociale? Una persona detenuta mi ha detto “io appena esco cosa faccio, dove vado non ho casa, sono solo e non ho nessuno”. Questo è il dramma forte di molte persone che andrebbe affrontato già quando stanno per completare la pena. Le associazioni del terzo settore possono dare un contributo importante? Sì, queste possono fare dei progetti molto significativi se sostenuti economicamente anche dallo Stato. Un plauso va pure alle associazioni di volontariato per il supporto e le diverse risposte che danno ai bisogni delle persone detenute. Torino. La rivolta all’Ipm Ferrante Aporti ha causato danni per oltre mezzo milione di euro di Elisa Sola La Stampa, 20 agosto 2024 Il carcere minorile è stato dichiarato parzialmente inagibile ed è semivuoto. Nessun nuovo minore arrestato può essere ospitato nella struttura. Oltre un milione e mezzo di danni. È il bilancio, provvisorio, delle conseguenze provocate dalla rivolta del primo agosto nell’istituto penitenziario minorile Ferrante Aporti. La sommossa era nata di sera, dopo l’ora d’aria. Gruppi sparsi di detenuti avevano appiccato i primi roghi al piano terra, nella biblioteca. E da quel momento il carcere era stato devastato. Mura e porte spaccate. Vetrate infrante. Armadi scardinati e computer fatti a pezzi. Plichi di atti giudiziari e documenti dati alle fiamme. La violenza non aveva lasciato scampo. Anche i bagni erano stati distrutti. I lavandini e i water frantumati con mazze di ferro e bastoni. Le celle rese inagibili dopo gli incendi appiccati a lenzuola e materassi. La mattina dopo quella che è stata definita la più grande rivolta della storia del carcere minorile di Torino, molti detenuti erano stati trasferiti in altri istituti penitenziari, di cui molti al Sud. Non soltanto perché, a quel punto, buona parte della struttura era inagibile. Ma anche perché è prassi comune dirottare altrove i promotori di una rivolta, per evitare il cosiddetto effetto a catena. Ovvero che da una grande agitazione ne scaturiscano altre subito dopo. Tra i presunti autori della devastazione del Ferrante Aporti, ci sono una ventina di detenuti. Un gruppo di oltre una decina di rapinatori nordafricani. E un secondo gruppo, meno numeroso, di italiani. Tra questi, c’è anche il sedicenne condannato per il tentato omicidio di Mauro Glorioso, lo studente di medicina che era stato colpito ai Murazzi del Po da una bici elettrica nel gennaio del 2023. Difeso dall’avvocato Domenico Peila, il ragazzo ha negato di essere un promotore della rivolta. “Anzi - ha detto - sono stati i nordafricani a iniziare e a fare tutto. Io sapevo che quella sera sarebbe successo un casino. E 15 giorni prima che accadesse tutto, lo avevo detto a un’educatrice. Ma nessuno mi aveva dato retta”. Per il tentato omicidio il sedicenne era stato condannato in appello a nove anni e sei mesi. Adesso il giovane è indagato anche, insieme agli altri presunti autori della rivolta, per devastazione. Un reato che prevede pene fino a quindici anni di reclusione. E mentre la procura dei minori, guidata da Emma Avezzù, indaga per risalire alla dinamica di quella notte di caos e alle presunte e singole responsabilità di eventuali altri indagati, continua la conta dei danni nel penitenziario. Ormai è certo che mezzo milione di euro non sarà sufficiente per riparare gli arredi danneggiati e ricostruire ciò che è stato distrutto. Servirà una cifra maggiore. E chi lavora in carcere si chiede, adesso, chi stanzierà il denaro. E soprattutto quando arriverà. Il Ferrante Aporti, dichiarato parzialmente inagibile, è ancora off limits. Nessun nuovo arrestato può essere ospitato nella struttura, ormai troppo danneggiata. Fino a ieri la situazione era sotto controllo. Perché, per puro caso, non sono stati arrestati minorenni a Torino. Ma oggi e domani tutto potrebbe cambiare. E l’emergenza diventare di nuovo esplosiva. Torino. Il carcere minorile è un inferno: spazi inagibili e carenze igieniche torinotoday.it, 20 agosto 2024 Al carcere minorile Ferrante Aporti di Torino i giovani detenuti sono costretti a stare in cella 23 ore su 24. A denunciarlo alcuni esponenti del Partito Radicale che ieri - giovedì 15 agosto 2024 - sono stati in visita dentro la struttura detentiva. Tra questi Sergio Rovasio, presidente dell’Associazione Marco Pannella di Torino, e Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti della Regione Piemonte. “Tra i gravi problemi riscontrati vi sono certamente gli evidenti danni alle strutture dell’Istituto che impediscono la normale quotidianità”, scrivono i radicali in una nota, “il personale deve gestire la sicurezza con infrastrutture danneggiate e con aiuto di agenti provenienti dall’esterno; i detenuti, che abbiamo incontrato, sono di fatto obbligati quasi tutti a rimanere chiusi dentro le celle 23 ore su 24 a causa degli spazi comuni inagibili; vi sono gravi carenze igieniche nelle celle per la mancanza di prodotti di ricambio; almeno quattro celle sono gravemente danneggiate e impraticabili; vi è mancanza dei regolari corsi di formazione educativi. Alcuni detenuti sono stati trasferiti in altre strutture di detenzione. Il grave problema sono i tempi di ristrutturazione che devono seguire tempi burocratici medio lunghi per il ripristino delle aree danneggiate”. I Radicali hanno poi annunciato che nei prossimi giorni invieranno alla direzione degli Istituti per minori una lettera-appello nella quale chiederanno di intervenire con la massima urgenza per ripristinare quanto prima le strutture danneggiate. Inoltre verrà inviato al presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, un report sull’esito della visita anche in vista delle visite da lui programmate prossimamente in alcuni istituti penitenziari. Estate in carcere - La visita fa parte di una campagna ‘Estate in carcerè promossa dal Partito Radicale e da Forza Italia per denunciare le gravissime carenze delle strutture di detenzione: 65 suicidi nel 2024, sovraffollamento supera il 130% (61.140 detenuti rispetto alla capienza regolamentare di 51.269), violenza diffusa con centinaia di aggressioni al personale, gravissime carenze di personale (secondo recenti stime risultano mancanti 18.000 agenti penitenziari rispetto al fabbisogno), strutture fatiscenti, gravi carenze igieniche e sanitarie. Il Partito Radicale ha sollecitato il Ministro della Giustizia Nordio a intervenire anche sulla grave carenza di personale dei magistrati di sorveglianza: 230 magistrati con uffici sotto organico del 50% che devono vigilare su 190 Istituti, 86.000 soggetti in esecuzione penale esterna, 100.000 liberi sospesi con l’ulteriore aggravio di 200.000 pratiche di liberazione anticipata inevase. Firenze. Finisce dietro le sbarre anche se incinta di 3 mesi. Nuovo caso a Sollicciano di Pietro Mecarozzi La Nazione, 20 agosto 2024 Una trentenne incinta e tossicodipendente finisce in cella a Firenze per tentato furto. Polemiche sul carcere di Sollicciano, già al centro di critiche per le condizioni precarie. Nel mezzo della polemica asprissima sul Decreto carceri che investe anche donne incinta e madri con bimbo entro un anno (e la modifica alla previsione della pena differita) ecco che proprio a Firenze, in uno dei penitenziari peggiori d’Italia, una trentenne fiorentina, incinta di tre mesi, con precedenti di polizia, conosciuta come tossicodipendente e senza un tetto sopra la testa, finisce in cella, a Sollicciano. L’accusa mossa dalla magistratura è tentato furto per aver, insieme ad un complice, cercato di svaligiare una scuola di musica di tablet. Reati spesso dettati dalla disperazione per chi è schiavo della droga e vive di espedienti. Tutto accade sabato, in pieno giorno. Dopo aver mandato in frantumi la porta a vetri di un ufficio, i due hanno fatto razzia di tablet, notebook e anche di una macchina fotografica. E una volta portato fuori il bottino con dei borsoni, hanno scavalcato una recinzione finendo in un parco pubblico della zona. Peccato che ad aspettarli hanno trovato i poliziotti, avvisati della loro ‘visita’ dall’allarme perimetrale e dalle telecamere di videosorveglianza. L’uomo è scappato mentre la ragazza è stata arrestata con l’accusa di tentato furto aggravato in concorso e, su disposizione della pm Ornella Galeotti, trasferita nel carcere di Sollicciano in attesa dell’udienza di convalida in programma per stamani. E, in quella sede giudice e pm potrebbero motivare la scelta della custodia in carcere rispetto alle condizioni di salute e alla vita precaria della donna: in cella, nonostante la gravidanza ma almeno non in mezzo alla strada? Oppure in una struttura protetta? Il penitenziario fiorentino è da mesi al centro delle polemiche per l’alto numero di suicidi e per le condizioni di degrado in cui versa: cimici e blatte nelle celle, infiltrazioni di muffa sulle pareti, caldo torrido e mancanza di acqua. Numerosi gli appelli delle istituzioni e della politica, che chiedono il suo abbattimento o interventi di ristrutturazione urgenti. Nella struttura, poche settimane fa, si è tolto la vita un detenuto di 20anni ed è andata inscena una violenta rivolta, con due sezioni penali incendiate dai detenuti. Lì è stata reclusa la giovane in dolce attesa - difesa dall’avvocato Alessandra Brianza -, che già un mese scorso si è ritrovata per un altro furto di fronte al giudice: in quel caso, considerata la gravidanza e lo stato di crisi (anche sanitario) del carcere, optò per l’obbligo di firma. La ragazza ha alle spalle un passato tormentato e vive un presente incerto con un ‘curriculum’ costellato di furti e reati in materia di stupefacenti. Non è il primo caso di una detenuta incinta a Sollicciano. A inizio marzo, una 26enne tunisina scoprì di aspettare una bambina dopo essere stata arrestata e incarcerata. La ragazza, dopo alcune complicazioni nel corso della gravidanza, a metà mese perse la bambina, tenuta in grembo per quattro mesi. Si poteva evitare questo dramma. Modena. “Carceri, allarme sovraffollamento. I tossicodipendenti in Comunità” Il Resto del Carlino, 20 agosto 2024 Platis (FI) e le camere penali: “Al Sant’Anna 554 detenuti su 372 posti: 84 in attesa del primo giudizio. La pena deve favorire il recupero. Incentivare esperienze alternative con tassi di recidiva bassissimi”. “Dati del Sant’Anna allarmanti: bisogna far scontare la pena agli stranieri nel proprio paese d’origine e dare l’opportunità di recupero ai tossicodipendenti nelle comunità. L’obiettivo è recidiva zero”. La denuncia è del vice coordinatore regionale di Forza Italia Antonio Platis. Un tema cui si aggiungono le considerazioni delle camere penali che pongono l’accento sul numero dei suicidi: “La pena - spiega l’avvocato Enrico Fontana, penalista modenese - deve essere effettiva ed immediata, ma senza dimenticare il recupero ed il reinserimento del detenuto. Il vantaggio per la collettività è evidente”. Platis ricorda che “nel penitenziario modenese ci sono 554 detenuti su una capienza di 372. Ben 84 sono in attesa di primo giudizio, 329 sono stranieri. Ci sono 93 protetti e 30 sono detenute di sesso femminile. Al Sant’Anna i detenuti non italiani sono il 60% e vi è un ampio ricorso alla custodia cautelare, ma il 15% dei reclusi non è neppure stato sottoposto ad un processo di primo grado”. Forza Italia non vuole norme ‘svuota carceri’, ma chiede di garantire “i diritti inalienabili con provvedimenti mirati. Il cronico problema di sovraffollamento porta a situazioni di disagio drammatiche sia per i reclusi - vedi l’alto numero di suicidi in cella - sia per gli agenti della polizia penitenziaria che con abnegazione svolgono un ruolo determinante”. Per non parlare di tutti “quei detenuti con problemi di tossicodipendenza che, in un contesto carcerario del genere, non potranno mai essere recuperati. Le strade sono due, l’accordo con i paesi di origine per far scontare le pene agli stranieri nella loro nazione e l’affidamento alle comunità di recupero a chi ha problemi di droga”. Molto spesso, conclude Platis, “ci si riempie la bocca con parole come rieducazione e reinserimento in società, ma sono concetti al momento astratti per quanto riguarda la maggior parte dei penitenziari italiani. Ci sono invece esperienze in comunità di lavoro e recupero, rare ma da incentivare, il cui tasso di recidiva dei detenuti accolti è bassissimo”. Lo stesso avvocato Fontana sottolinea come “chi vive oggi in carcere vive sempre più in un mondo a parte e corre il rischio di essere ancora più escluso dalla società civile e dal mondo del lavoro. I suicidi quasi quotidiani nelle nostre carceri sono un grido di disperazione di un mondo che non può essere taciuto e nascosto. Di un mondo che va cambiato e ripensato. Chi è in carcere deve avere un lavoro, non restare chiuso in una cella gelida d’inverno e bollente d’estate. Chi è in carcere - conclude Fontana - impari un lavoro che gli consenta di mantenersi lecitamente, sia quando è in carcere pagandosi i costi - che ricordiamoci sono enormi - della detenzione, sia quando avrà restituita la sua libertà e tornerà nella società civile”. Avellino. La Camera Penale denuncia: “Visita ispettiva rivela condizioni critiche del carcere” avellinotoday.it, 20 agosto 2024 Gli avvocati della Camera Penale Irpina, accompagnati da rappresentanti istituzionali e dall’on. Michele Gubitosa, chiedono interventi urgenti per migliorare le condizioni di vita dei detenuti e del personale penitenziario. Gli Avv.ti Gaetano Aufiero, Michele Fratello, Mauro Alvino e Luca Pellecchia, in rappresentanza della Camera Penale Irpina, si sono, in data odierna, recati, accompagnati dalla Direttrice, Dott.ssa Rita Romano, e dal Primo Dirigente, Dott.ssa Stefania Cucciniello, all’interno della Casa Circondariale di Avellino - Bellizzi Irpino per effettuare visita ispettiva e valutare le condizioni di vita dei detenuti e quelle lavorative del personale di Polizia Penitenziaria, così aderendo all’iniziativa “Ferragosto in Carcere” promossa dall’Unione delle Camere Penali e dall’Osservatorio Carcere. Alla visita ha altresì partecipato l’On. Michele Gubitosa, Deputato Irpino del Movimento 5 Stelle, che ha dato ampia disponibilità per riscontrare de visu le condizioni di vita dei cittadini detenuti. Una precedente visita era stata effettuata da una delegazione della Camera Penale Irpina lo scorso 6 luglio, ed oggi, come allora, sono state riscontrate problematiche di assoluta gravità che, purtroppo, rendono l’Istituto Penitenziario avellinese, sotto molti profili, ben oltre i confini della legalità costituzionale. Occorre dire che la Direttrice dell’Istituto Penitenziario e tutto il personale sia amministrativo che della Polizia Penitenziaria svolgono con apprezzabile abnegazione e con grande professionalità il loro lavoro in condizioni, tuttavia, di estrema difficoltà ed altresì, si ritiene, di totale abbandono da parte delle competenti Istituzioni. In particolare, gli Avvocati della Camera Penale Irpina, alla costante presenza dell’On.le Gubitosa, hanno con estremo sconcerto evidenziato il sovraffollamento carcerario, oramai fisiologico, con circa 150 detenuti oltre l’ordinaria capienza, una gravissima carenza di organico della Polizia Penitenziaria (mancano oltre 80 Agenti di Polizia Penitenziaria rispetto ai 250 Agenti di organico ordinario), l’assenza totale di assistenza psichiatrica nonostante i circa 150 detenuti in cura psichiatrica, l’estrema e talvolta insuperabile difficoltà dei detenuti ad accedere alle cure mediche ordinarie ovvero a visite specialistiche per le quali occorrono, talvolta, mesi anche quando segnalate quali assolutamente urgenti, le condizioni di assoluto disagio di reclusione in considerazione della fatiscenza delle celle e di assoluta disumanità in particolare in alcune sezioni, il razionamento dell’acqua in orario notturno e talvolta anche in orario diurno, la totale assenza di corsi di formazione ovvero di attività ricreative per i detenuti: sono soltanto alcuni, ma certamente i più gravi, dei problemi riscontrati in data odierna e rispetto ai quali occorre porre immediato rimedio e che, comunque, rendono le condizioni dell’Istituto Penitenziario di Avellino oggettivamente drammatiche. La Camera Penale Irpina, nel denunciare quanto sopra, espressamente chiede che tutte le competenti Autorità Giudiziarie ed Amministrative verifichino le condizioni di vita della popolazione carceraria all’interno dell’Istituto Penitenziario di Avellino, adottando tutti i provvedimenti necessari ed urgenti per porre fine al devastante e non più tollerabile orrore che le parole non potranno mai adeguatamente descrivere. Parma. Il gruppo consiliare Europa Verde partecipa all’iniziativa “Ristretti in agosto” La Repubblica, 20 agosto 2024 Anche il gruppo consiliare Europa Verde - Verdi - Possibile ha partecipato questa mattina all’iniziativa Ristretti in agosto, organizzata dall’Unione delle Camere Penali Italiane. È stata un’occasione importante per entrare direttamente a contatto con i detenuti e raccogliere le loro rimostranze, lo sconforto, ma anche le speranze, i progetti e le testimonianze di percorsi virtuosi in linea con quanto previsto dalla nostra Costituzione. I numeri li conosciamo: circa settecento detenuti (rispetto ad una capienza di 655), di cui 68 al 41 bis, un centinaio in attesa di giudizio, oltre 400 con pena inferiore ai cinque anni, oltre 200 stranieri, 364 agenti di polizia penitenziaria, 11 educatori, 4 psicologi, 21 medici, 160 detenuti inseriti in percorsi di studio, casi di autolesionismo ed aggressioni in aumento… E il dato drammatico di pochi giorni fa, del terzo suicidio dall’inizio dell’anno. La risposta del Governo italiano con il suo Decreto carceri è del tutto inadeguata all’urgenza e alla dimensione dei problemi accumulati in tani anni di assenza della politica. L’Alleanza Verdi e Sinistra, che rappresenta Europa Verde in Parlamento, non ha mancato di sollecitare l’esecutivo anche in questi giorni, in particolare con il lavoro in Commissione Giustizia dell’On. Devis Dori. Ma al di là del dibattito in corso a livello parlamentare, la visita all’Istituto penitenziario di via Burla ha confermato la necessità di interventi specifici nella struttura, per porre rimedio a vari problemi, molti dei quali già evidenziati dal prezioso lavoro della Garante per i diritti dei detenuti. Ci sono apparecchiature di videosorveglianza che non funzionano, rendendo più pesante il lavoro delle guardie carcerarie, l’assenza di climatizzazione con l’unica opzione dell’acquisto di un ventilatore, c’è una palestra senza attrezzature, guasti di ogni genere che richiederebbero poco per essere riparati, lungaggini per assegnare spazi utili ad attività quotidiane come il lavaggio e l’asciugatura degli indumenti, un costo esagerato di due euro a telefonata ed una sistematica mancanza di risposte alle varie richieste che si perdono nel nulla, soprattutto per mancanza di personale. Ci sono tuttavia le esperienze di tanti che sono riusciti a raggiungere un titolo di studio, di chi ha trovato un’occupazione temporanea all’interno del carcere (assistenza sanitaria, recupero di pc, cucina, ecc.), trovando in questa un elemento di sicurezza in più per il futuro reinserimento e di chi si attiva per essere messo nelle condizioni, come tutti i cittadini, di raccogliere i rifiuti in modo differenziato. Europa Verde - Verdi - Possibile, pur riconoscendo l’importanza di un adeguamento delle norme nazionali, vede molto spazio di azione a livello comunale ed è su questo che l’amministrazione si dovrebbe concentrare. Ci sono centinaia di detenuti, in buona parte giovani, con pene inferiori ai quattro anni, che dovrebbero trovare in altri luoghi, diversi dal carcere, una misura alternativa alla pena. C’è molto da fare su questo fronte, se pensiamo che addirittura lo stesso Comune di Parma non è iscritto tra gli enti convenzionati per i lavori di pubblica utilità! Così come si può fare molto per rilanciare l’attività di volontariato e più in generale combattere una cultura giustizialista che ancora pervade tanti ambiti della nostra comunità locale. Firmare online per i referendum è una conquista di civiltà di Lorenzo Mineo Il Domani, 20 agosto 2024 Questo nuovo strumento a favore della partecipazione diretta è frutto dell’attivazione di tutti gli strumenti previsti dalla Costituzione e dalle giurisdizioni internazionali per garantire alle persone un ruolo nella vita civile e politica del proprio paese. Dal 25 luglio la piattaforma per firmare online referendum e leggi d’iniziativa popolare è attiva. L’epilogo di una serie di iniziative giudiziarie, politiche e parlamentari avviate nel 2015 e che nel 2019 hanno visto il punto di non ritorno nel caso Staderini-De Lucia v. Italy, quando l’Onu condannò il nostro Paese per violazioni del Patto Internazionale sui diritti civili e politici a causa degli ostacoli alla raccolta delle firme sugli strumenti di democrazia diretta. La necessità di riformare le modalità per la raccolta firme spinse il Parlamento a includere una norma nella legge di bilancio 2020 che prevedeva la realizzazione di una piattaforma per sottoscrizioni digitali entro gennaio 2022. Da allora sono stati adottati il 9 settembre 2022 un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri e il 18 ottobre 2023 un decreto che trasferiva al Ministero della Giustizia la titolarità dell’impresa. La dimostrazione che cancellati gli “irragionevoli ostacoli” la partecipazione popolare c’è si ebbe nell’estate del 2021 quando l’Associazione Luca Coscioni, grazie a una deroga alla legge conquistata da Riccardo Magi, si assunse gli oneri della raccolta online di firme per il referendum sull’eutanasia lanciato a maggio e per il referendum cannabis che in meno di una settimana superò le 500.000 sottoscrizioni solo online - diventando la più breve campagna di raccolta firme della storia. Le sottoscrizioni digitali furono accettate dalla Cassazione anche grazie a un lavoro di predisposizione tecnologica dell’ufficio referendum. La piattaforma pubblica è gratuita, ovvia quindi i “penultimi ostacoli” dei costi (circa 1,50 Euro a firma). Penultimi perché, come osservato dall’ONU nel 2019, il servizio pubblico radiotelevisivo continua a non garantire l’informazione durante la raccolta firme. Un silenzio che in questi giorni si aggiunge al disinteresse pressoché unanime delle forze politiche e parlamentari sui referendum elettorali del comitato IoVoglioScegliere.it che vogliono abrogare: il voto congiunto obbligatorio, le soglie di sbarramento, ogni privilegio nella raccolta delle firme per la presentazione dei candidati e le pluricandidature. Fatta la piattaforma, adesso occorre che la firma online possa essere utilizzata a livello cittadino, regionale e per presentare liste elettorali. Anche qui l’iniziativa politica è ispirata dai fondatori dell’Associazione Luca Coscioni e di Eumans, e potrebbe portare a ulteriori riforme strutturali. Nell’estate del 2022, Marco Cappato e Marco Perduca hanno lanciato la lista “Referendum e Democrazia” per presentarla alle elezioni politiche solo con sottoscrizioni online. Appelli pubblici a Parlamento e Governo, diffide alla Ministra dell’Interno e un digiuno di dialogo di una dozzina di militanti caddero nel vuoto portando alla compilazione di liste per i tutti i collegi di Camera e Senato e la circoscrizione Europa. In un fine settimana le necessarie sottoscrizioni su piattaforma privata (quindi con costi) furono raggiunte per una dozzina di circoscrizioni. Le liste, presentate di persona in tutte le Corti d’appello, furono rigettate ovunque anche se con motivazioni divergenti, ne seguirono decine di ricorsi che, nel 2024, hanno portato il Tribunale di Civitavecchia ad inviare alla Consulta la questione presentata da Carlo Gentili, che per la sua malattia non può firmare manualmente. L’udienza è prevista entro la fine del 2024. Questo nuovo strumento a favore della partecipazione diretta è frutto dell’attivazione di tutti gli strumenti previsti dalla Costituzione e dalle giurisdizioni internazionali per garantire alle persone un ruolo nella vita civile e politica del proprio paese. Grazie alla piattaforma il referendum può adesso esser proponibile da comitati indipendenti da partiti e sindacati. Può finalmente tornare a vivere la ragione per cui il referendum fu inserito in Costituzione: consentire a chi è fuori dalle istituzioni di inserire nell’agenda della politica temi che altrimenti vengono trascurati. Grazie alla tecnologia vive un diritto antico - sempre che possa esser conosciuto. Intelligenza artificiale e violenza reale di Andrea Malaguti La Stampa, 20 agosto 2024 Siamo ancora in grado di educare i nostri figli? Che cosa ci aspettiamo da loro? Quali responsabilità abbiamo nei loro confronti? Per provare a rispondere metto assieme due cose apparentemente incongrue e sideralmente distanti. Primo: a Sori, nella città metropolitana di Genova, un ragazzino di tredici anni accoltella un quattordicenne per un like postato sul profilo Instagram di una coetanea, ultima follia estiva di una serie di aggressioni da parte di minori, tutte regolarmente filmate, postate e condivise. Secondo: l’Intelligenza Artificiale produce una fotografia in cui Donald Trump bacia ardentemente Kamala Harris, in un’immagine inverosimile, fasulla, eppure credibilissima, che fa il giro del pianeta. Se volete il dettaglio, basta un click in rete. Nel nuovo brodo primordiale degli algoritmi padroni delle nostre esistenze, tutto si trova e tutto si confonde, con il risultato di condizionare non solo il nostro quotidiano, ma la nostra sensibilità in generale. È la società “Onlife” di Luciano Floridi, in cui la differenza tra reale e virtuale è invisibile. L’acqua salmastra dove crescono le mangrovie, innaturale fusione tra le correnti dolci dei fiumi e quelle salate dei mari. Un terreno scivoloso che cambia rapidamente il nostro ecosistema. È un bene? Un male? O una circostanza con la quale avremmo dovuto fare i conti da un pezzo? Genova, l’accoltellamento. Il ragazzino, perennemente connesso, vede sui social un pollice alzato che lo disturba, esce con un coltello (lo porta sempre con sé o solo quella volta?) e, titolare già a tredici anni di una visione patriarcale, maschilista e proprietaria della sua forse ex ragazza, va a cercare il rivale. È furioso, nella sua testa regolare i conti davanti ad altre persone è un modo per ristabilire il suo equilibrio. Si sente umiliato. Tutti hanno visto. Una massa indistinta conosce la sua ferita. E, come dice Byung Chul Han (“Nello sciame”, Nottetempo), in una società pornografica, abituata ad ostentare, priva di compostezza, di contegno, e schiava dell’autorappresentazione di sé, “il medium digitale è il medium dell’eccitazione”. Dunque, eccitato, il ragazzino agisce, nella certezza, temo, che in rete un esercito di anonimi legittimerà la sua scelta scellerata. Era davvero invisibile la sua rabbia? Ne parlo a tavola, con amici torinesi, due sere fa. Una psicoterapeuta e un giornalista con figli. Si scatena un dibattito senza fine. Due le posizioni. I ragazzini, incapaci di gestire le frustrazioni, schiavi della bolla social, paladini dell’”Io non tollero”, scatenano la rabbia contro loro stessi (facendosi del male, tentando il suicidio, precipitando nell’anoressia) o contro gli altri. A sostenerlo è soprattutto l’ala adulta della tavola. Quella per cui: i social fuori controllo sono il nuovo Grande Satana. I più giovani sostengono invece che noi anziani siamo ossessionati, per non dire infastiditi, da ciò che non capiamo (a partire da loro), che la violenza c’è sempre stata e dunque internet - universo ricco di opportunità mai avute prima - si limita a rappresentare una sensibilità sfortunatamente millenaria. Anzi, il web lo usiamo ancora troppo poco. Non sapendo esattamente con chi stare, ma più propenso a dire che i nostri figli gestiscono le frustrazioni con difficoltà (non che noi fossimo particolarmente bravi in questo), chiamo Matteo Lancini, una specie di genio controcorrente della psicologia, presidente della fondazione Minotauro e mille altre cose, che, con gentilezza, sposa una parte delle teorie di entrambe le fazioni da tavola, introducendo però un terzo elemento, dal suo punto di vista decisamente più rilevante: la fragilità degli adulti e il crollo delle agenzie educative, scuola e famiglia. Dunque, estremizzo, colpa nostra. Perché? Secondo Lancini, mentre noi fingiamo di stare comodi dentro un clamoroso, autoassolutorio, equivoco, ci dimentichiamo di ragionare sui motivi che spingono i nostri figli verso questo meccanismo di distruzione-autodistruzione. Così, mentre gli parlo di rottura del patto generazionale dipingendo i social come agenzie di stampa dell’io (definizione di Alain Deneault) in una società che rimuove il dolore, lui m’invita a spostare lo sguardo. Probabilmente ad alzarlo. “Perché tanti ragazzi, penso agli hikikomori, si suicidano socialmente nel momento esatto in cui, invece, dovrebbero “nascere” socialmente?”. Perché sono fragili, gli rispondo. “Perché lo sono gli adulti attorno a loro. Mai vista una generazione di adulti fragile come questa, e guarda che la disperazione dei giovani non arriva solo dalle fasce meno agiate. Questo dimostra che il disagio non è di tipo economico, piuttosto di tipo psichico”. Colpa dei genitori? “Colpa loro e della scuola. Non riescono a mettere i ragazzi al centro. Ad ascoltarli. A capire davvero che cosa vogliono. Mi ha colpito che in una delle ultime occupazioni scolastiche romane, tutti discutessero dei danni fatti e di come rispedire gli occupanti-delinquenti a casa, ma nessuno si chiedesse perché erano lì. E mai come oggi i ragazzi hanno motivi seri per protestare”. Guerre, clima, diritti, lavoro, ascensore sociale bloccato, difficoltà a costruirsi una famiglia. Lista lunghissima, in effetti. Questo giustifica tutto? Naturalmente no, ma spiega molto del loro disorientamento. Anche perché nel complicato mondo dell’Onlife, i più giovani sono stati anticipati da genitori che passano le giornate tra selfie, storie Instagram e post su Facebook. Questo il modello che passa e che passano. Un individualismo senza regole. “Ma raramente un adulto è capace di entrare nella complessità di un adolescente. Anzi, i ragazzi molto spesso si trovano di fronte a situazioni paradossali. In un mondo sempre più interconnesso, in cui l’intelligenza artificiale avanza, all’esame di maturità li perquisiscono - li perquisiscono! - per assicurarsi che non siano in rete”. Se la citazione non fosse pericolosa, sarebbe la fotografia del mondo al contrario. “Siamo in una società adultocentrica senza precedenti. Una volta i nostri genitori ci mettevano al mondo e ci lasciavano liberi. Oggi facciamo i figli perché, tra un corso di nuoto, uno di tennis e uno di inglese, esprimano quello che vogliamo noi e se si fanno un bernoccolo reagiamo come se avessero una frattura scomposta”. Non guardiamo loro, guardiamo noi stessi. Col risultato di lasciarli andare alla deriva. Soluzioni? Discorso complicato, ma per cominciare bisognerebbe scegliere due strade: o l’abolizione di qualunque telefonino e connessione a scuola, per ricreare un antico universo di relazioni. Oppure, strada più contemporanea, sdoganare definitivamente la tecnologia per farne parte integrante di un percorso educativo vero. Ma come lo spieghi a una politica che educata non è per niente, e, da Washington a Roma, da Budapest a Mosca, impone se stessa come Ape Regina, guida di uno sciame incapace di ritrovarsi intorno a un valore comune, a un Noi coerente? Una politica che - sull’onda dei social - ha sepolto l’idea di rappresentanza (condannando il sistema alla mediocrità) per sostituirla con quella di Influencer Capo? Mentre la politica novecentesca si è assunta il compito di cavalcare e governare la modernità - istruzione di massa, welfare, urbanizzazione, salario - la politica del nuovo millennio non solo non la capisce, ma non ambisce nemmeno a governarla. La lascia nelle mani dei nuovi oligarchi della Rete: sono loro, sempre di più, le agenzie educative dell’Occidente. E qui torno al bacio Trump-Harris, all’intelligenza artificiale e a quello che gli esperti chiamano, con un grado di sofisticazione piuttosto indigeribile, il “panottico disciplinare”. Ovvero, sentendoci costantemente osservati, interiorizziamo la sorveglianza. Nell’impossibilità di distinguere il vero dal virtuale, in assenza di regole e di una educazione specifica, il nostro ingresso nell’ecosistema delle mangrovie si fa sempre più rischioso. Chi gestisce l’intelligenza artificiale presto sarà in grado di rimodellare le nostre coscienze, di manipolarle, perché il nostro affidamento al mondo social è così totale, fideistico e abitudinario, che non lo mettiamo più in discussione. Lo diamo per dato, come se la sua presenza fosse neutra, come se ignorarlo ci precipitasse nella squadra dei perdenti. Oggi vedere Trump e Harris che si baciano ci sembra irreale. Presto ci sembrerà tutto vero e tutto possibile, imprigionati in una forma di ipnosi che garantisce pochi eletti e anestetizza tutti noi sempre più bisognosi di un risveglio collettivo per sostituire il medium dell’eccitazione con quello, ancora da inventare, di una ritrovata consapevolezza. Civile e politica. Gli italiani di domani di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 20 agosto 2024 Il ministro che nel 2012 lanciò lo ius culturae: un tempo anche la sinistra non spinse perché “faceva perdere voti”. Il dibattito che si è riacceso sulla cittadinanza ai figli degli immigrati non è una fiammata estiva. Né l’iniziativa di Forza Italia di Antonio Tajani è un espediente per differenziarsi dagli alleati di governo. Il problema è più profondo: la società italiana è cambiata e sente gli immigrati in modo diverso da dieci anni fa. È un’Italia che vede competere con passione alle Olimpiadi o nello sport nazionale immigrati o figli d’immigrati. È abituata, se non affezionata, ai bambini o ragazzi che frequentano la nostra scuola che, in breve, arriveranno a un milione. Ha imparato a incontrare uomini e donne, giovani, con le loro storie e abilità, e a non sentirsi minacciata da una massa “scura” che ci invade. Ha incontrato personalmente le badanti nelle case, spesso notando grande sensibilità nella cura degli anziani, dei malati o dei disabili. Queste persone, nelle famiglie, hanno realizzato un’integrazione positiva e di grande utilità, tanto che oggi c’è carenza di questo personale di fronte di una domanda in crescita. Il Paese è cambiato e sa distinguere le persone e non vede masse indistinte. Nel 2012, come ministro dell’Integrazione, resi omaggio alla tomba di Jerry Masslo a Villa Literno (assassinato nel 1989 in un contesto di sfruttamento del caporalato che, purtroppo, ancora dura in alcune parti d’Italia). Allora ripresi la proposta della cittadinanza ai minori, figli di stranieri, lanciandola come ius culturae. Mi accorsi che l’opposizione veniva da una incomprensione totale del futuro italiano nonché dalla volontà di strumentalizzare la paura dello straniero. Questo soprattutto nel mondo della destra. Ma anche la sinistra non aveva una vera volontà d’agire. Nella XVII legislatura, con governi guidati da esponenti del Pd, non si è fatto un passo in questo senso. “Parlare di stranieri fa perdere voti” - sentenziava un leader di sinistra. In realtà, non si era capito che gli immigrati e la loro integrazione sono una grande questione nazionale, al di là delle schermaglie politiche. Ha ragione Gian Antonio Stella, quando parla della necessità di “un patto oltre le fazioni”. Se le questioni nazionali, tra Ottocento e Novecento, erano i confini o i territori “irredenti”, oggi la questione nazionale è chi saranno gli italiani di domani: l’integrazione dei non italiani d’origine, i lavoratori che mancano, l’identità italiana condivisa. Sono temi su cui si verificano convergenze non solo politiche, ma di forze economiche, sociali e morali del Paese, che guardano al futuro, pur in diverse prospettive. La cittadinanza ai ragazzi in nome dello ius culturae evita che crescano da “stranieri” tra coetanei italiani. Fa crescere la condivisione della cultura e dell’identità fin dai banchi di scuola. L’identità nazionale - spiegava lo storico Federico Chabod - è volontaristica, non frutto di sangue o di terra. Renan diceva che la nazione è il plebiscito di tutti i giorni a partire da una storia condivisa. Non lasciamo vivere a tanti ragazzi, come un gruppo a parte, anni decisivi per la formazione. Si nota, negli ultimi decenni, pur tra varie difficoltà, una capacità attrattiva della lingua e della cultura italiane nel mondo. Nonostante i locutori in italiano non siano tanti come per altre lingue europee, la nostra non è una lingua provinciale. Lo mostra la forte domanda nel mondo di apprendere l’italiano nel mondo, non solo in America Latina. In Romania, grazie all’emigrazione e agli scambi, sono cresciuti i locutori in italiano. In un mondo multilingue, la nostra lingua ha il suo degno posto. Si calcola che circa 700 scrittori non italiani abbiano scelto di utilizzare l’italiano (non solo migranti). Tra essi la letterata Edith Bruck che ne parla come di “lingua di libertà”. L’Italia è demograficamente invecchiata, ma ha ancora le risorse per guidare un processo d’integrazione. Ma questo non sarà più possibile tra un ventennio, se non si rinnova la popolazione con stranieri e nuove nascite. Qui sta la questione nazionale. Ius scholae, la legge a portata di mano e i partiti in ordine sparso di Roberta D’Angelo Avvenire, 20 agosto 2024 Foti (FdI) avvisa Forza Italia: “La maggioranza eviti di dividersi. Non farsi tirare per la giacca”. I forzisti e Lupi insistono, nella Lega apre anche Zaia. Cosa sta succedendo. Pallottoliere alla mano, fermando sulla carta le dichiarazioni d’intento agostane, i numeri per approvare lo ius scholae ci sono. È il portavoce di Europa verde Angelo Bonelli a tirare le somme sull’ipotetica maggioranza trasversale che sosterrebbe la riforma. Al di là delle dichiarazioni, oltre ai distinguo che vedono da sempre Pd e partiti di sinistra orientati per il più corposo diritto di cittadinanza che sarebbe concesso con lo ius soli, o Iv e Azione favorevoli allo ius culturae, una legge che potrebbe concedere lo status di italiani a coloro che abbiano completato il ciclo scolastico sembrerebbe addirittura a portata di mano. Persino nella Lega le sensibilità sono diverse. A fronte del netto no arrivato dalla segreteria, Luca Zaia parla dei “diritti” in senso lato, su cui, dice il governatore veneto, “serve una no fly zone” senza “scontri ideologici”. E insomma, qualche preoccupazione comincia ad avvertirsi nell’entourage della premier Giorgia Meloni, che dopo la pausa estiva avrà un bel da fare con le tante pratiche che la attendono e non ha alcun bisogno di aprire nuovi fronti nella sua maggioranza. Non a caso finora nessuno di FdI è entrato nel dibattito in merito. Si legge quindi come un ammonimento la precisazione del capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Tommaso Foti, per il quale “le indiscrezioni mediatiche su questa o quella proposta da inserire nella prossima legge di bilancio non hanno alcun senso, ma possono creare nei cittadini aspettative ingiustificate allo stato non passibili di valutazione”. Solo quando si conoscerà “il perimetro quantitativo, entro il quale la manovra per il 2025 potrà essere definita”, si capirà quali iniziative “si potranno assumere”. E questo, aggiunge, “vale per la legge di bilancio, come per altro. Che l’opposizione provi a dividere la maggioranza è scontato, ma spetta a quest’ultima non farsi tirare per la giacca e realizzare, con serietà e pragmatismo, il programma che con il loro voto gli elettori hanno approvato, evitando di dividersi su temi che la sinistra oggi ritiene fondamentali, salvo averli accuratamente ignorati quando era maggioranza”. Un discorso ampio, ma con un messaggio chiaro, che non sfugge a Forza Italia e neppure a Noi Moderati, fino a ieri poco presenti nel dibattito. Ma, interpellato, Maurizio Lupi invita ad aprire un confronto “prima nella coalizione e poi in Parlamento, per trovare la migliore soluzione nell’interesse dell’Italia”. Dentro Forza Italia - che ha riacceso i riflettori sullo ius scholae con le aperture del suo leader Antonio Tajani - la strategia sembra essere quella di andare a vedere le carte, senza troppo clamore. “Esistono leggi urgenti, poi ce ne sono altre che sono - più semplicemente - giuste. Una riforma della cittadinanza lo è sicuramente”, ammette il capogruppo azzurro in commissione Affari costituzionali Paolo Emilio Russo. Ragionamento che incoraggia le opposizioni, dove anche il M5s si associa con Gaetano Amato, e chiede di “fare subito” la legge troppo attesa. E allora il leader di Azione Carlo Calenda invita Pd e FI a “ripartire insieme” e in fretta. Mentre da +Europa Riccardo Magi dà dell’”ipocrita” a Foti, ricordandogli che nel 2014 Meloni si diceva favorevole a modificare la legge attuale. Forza Italia riapre i giochi - La novità di questa “fiammata” agostana sta nelle aperture venute dal partito fondato da Berlusconi, seguito da Noi moderati di Maurizio Lupi. Dentro Fi, da sempre contrario allo ius soli, si sta ragionando su 2 proposte: dare la cittadinanza italiana quando una bambina o un bambino hanno terminato due cicli scolastici (quindi a 14 anni d’età) oppure al termine della scuola dell’obbligo, cioè ai 16 anni. Una riunione è già convocata per i primi di settembre. FdI e la linea del silenzio - Il partito di maggioranza relativa della premier ha assunto invece una linea sotto traccia. In pratica nessun esponente di rilievo è intervenuto nel dibattito riapertosi, con tutta evidenza nella speranza che si tratti solo dell’ennesima fiammata estiva destinata a essere depotenziata alla ripresa di settembre. Meloni vuole evitare, davanti a un elettorato in parte comune, perdite di consensi a favore della Lega e per questo avrebbe dato l’ordine di ignorare il tema, anche per spezzare subito la possibile apertura di un dialogo tra il Pd e Forza Italia. Lega: va bene com’è oggi - La Lega dice no a ogni ipotesi di modifica della legge attuale, cioè la 91 del 1992. “La normativa va benissimo così. Non c’è nessun bisogno di scorciatoie”, si legge in una recente nota del partito di Salvini. Una linea tradotta in termini netti anche dal vicesegretario Andrea Crippa: “I numeri dicono che siamo il Paese europeo che concede più cittadinanze, il resto sono polemiche inutili”, ha detto facendo riferimento alle 230mila cittadinanze rilasciate nel 2023 (si tratta però di un boom recente, fino al 2021 i numeri erano più bassi). Dal Pd un ventaglio di ddl - Il Pd ha rilanciato con forza il tema. A partire dal ddl a firma della senatrice Malpezzi, che prevede di concedere la cittadinanza italiana al minore straniero che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il 12° anno di età, che risieda legalmente e che abbia frequentato per almeno 5 anni da noi uno o più cicli scolastici o percorsi di istruzione e formazione professionale. Altre proposte (Boldrini, Orfini, Verducci) si spingono oltre e prevedono un vero ius soli. M5s punta su proposta Baldino - Di fatto nel Movimento 5 stelle non c’è mai stata una netta univocità a favore. Tuttavia vale l’impegno di Vittoria Baldino, vicecapogruppo M5s a Montecitorio, che all’inizio di questa legislatura ha ripresentato la proposta di legge già depositata nei 5 anni precedenti: ricalca quella della dem Malpezzi, incentrata quindi sullo ius scholae da conseguire attraverso un percorso scolastico. “Di questa legge c’è bisogno e lo si sente ogni giorno di più”, ha detto. Anche Avs per lo Ius scholae - L’Alleanza verdi e sinistra appoggerebbe ogni ipotesi di riforma della legge sulla cittadinanza. Tuttavia, nella ricerca già di una prima convergenza con le altre formazioni di centrosinistra, sostiene la soluzione dello Ius scholae: a questo scopo anche Luana Zanella, capogruppo a Montecitorio, ha presentato una proposta targata Avs, ma che ricalca i contenuti di quelle degli altri partiti (vedi sopra), puntando sul criterio-chiave dei 5 anni di studio per avere la cittadinanza. Azione e Iv uniti sul tema - Pur divisi ormai, gli ex “soci” del Terzo polo hanno sempre avuto una posizione concorde su questo fronte. Sin dal programma elettorale del 2022 si prevedeva il rilascio della cittadinanza sulla base del criterio-chiave dei 5 anni di frequenza scolastica, oltre che per tutti gli stranieri che avessero svolto e completato gli studi universitari in Italia. Un impegno a cui ha dato seguito ieri Carlo Calenda, leader di Azione, invitando Pd e Forza Italia a “ripartire insieme” sul dossier. Analogo impegno c’è da parte di Più Europa. Ius soli, Magi: “Pronti a depositare il quesito per il referendum la prossima settimana” di Giacomo Galanti La Repubblica, 20 agosto 2024 Intervista al segretario di +Europa sull’ipotesi di riforma della legge sulla cittadinanza: “Il dibattito tra i partiti di questi giorni mi pare inconcludente”. “La prossima settimana vogliamo depositare il quesito del referendum sulla cittadinanza”. Parola di Riccardo Magi, segretario di +Europa, che non crede molto al dibattito degli ultimi giorni tra le forze politiche: “Mi pare una recita delle solite parti”, spiega. Onorevole Magi, eppure Forza Italia ha aperto sullo Ius scholae.. Mi sembra sia il solito dibattito inconcludente dove i partiti guardano più alla propria identità che alla società italiana. Insomma, tante parole senza però una vera volontà di agire in Parlamento. Ecco perché andiamo avanti con il referendum. Siete pronti? Noi stiamo lavorando al referendum da prima che arrivasse questa botta mediatica dovuta alle Olimpiadi. Stiamo definendo il testo che vorremmo depositare la prossima settimana. Il vostro obiettivo è arrivare allo Ius soli? Bisogna ricordare che lo strumento referendario pone dei limiti perché è di natura esclusivamente abrogativa. Noi stiamo valutando tutti gli interventi possibili, in particolare quelli che abbiano come esito una legge funzionante e che sia un passo avanti rispetto alla situazione attuale. Poi bisognerà raccogliere le firme... Stiamo provando a creare una rete di associazioni e organizzazioni del terzo settore sia laico sia cattolico che in questi anni sono state molto attive su questo tema. Soggetti che sentono la necessità di una riforma per non tradire quei ragazzi e quelle ragazze nati o cresciuti in Italia. Vi siete sentiti con gli altri partiti di opposizione? Abbiamo parlato con M5s e Pd e ho notato un po’ di freddezza, ma si tratta di contatti avvenuti prima dell’apertura di questo dibattito ferragostano. Ora che andiamo a concretizzare, torneremo a provare di coinvolgere tutti. Questa deve essere un’iniziativa più aperta e inclusiva possibile. E soprattutto non contro il Parlamento che può intervenire quando vuole e spero lo faccia. Ma contro l’immobilismo del Parlamento. Sarà la volta buona? Noi insistiamo su questa riforma non solo perché crediamo in un principio di giustizia, ma anche in una visione del paese di come già è e come deve essere nel futuro. Una decina di anni fa c’era la convinzione che una riforma fosse matura. Ricordo le parole del presidente Giorgio Napolitano e dell’allora presidente della Camera Gianfranco Fini. Senza dimenticare che alla fine di luglio, durante il suo viaggio in Brasile, Sergio Mattarella ha fatto un intervento sottolineando come la legge brasiliana che si rifà allo Ius soli dà una lezione di civiltà con la capacità di rendere cittadini persone venute da tante parti del Mondo. Cristina Cattaneo: “Dare un nome ai migranti morti mi ha cambiato la vita” di Paolo Lambruschi Avvenire, 20 agosto 2024 Dal ricordo dell’estate del 2016 (quando si decise di dare riconoscimento ai mille morti del naufragio più tragico del Mediterraneo) alle sfide della medicina legale. Parla la direttrice del Labanof. Guardando nelle tasche dei migranti annegati non solo si ricostruiscono le loro storie e le identità perdute. Si restituisce loro anche la dignità di persone e si difendono i diritti dei vivi. La conoscenza resta una delle poche vie per rompere l’indifferenza che avvolge le tragedie dell’immigrazione e la scelta di Cristina Cattaneo da molti anni è quella di unire impegno scientifico e civile. Scelta che ha avuto una svolta decisiva nell’estate del 2016. La nota docente di medicina legale milanese è da tempo riferimento di procure e investigatori per casi come quelli di Yara Gambirasio, Elisa Claps e Stefano Cucchi, per tanti cold case e per le consulenze per le violenze su donne e minori. Ma è stato nei tre mesi estivi di otto anni fa che la direttrice del Labanof (il Laboratorio di antropologia e odontologia forense della Statale) e da due anni coordinatrice del Musa - Museo universitario delle scienze antropologiche, mediche e forensi per i diritti umani - ha incontrato il dramma dell’identità perduta dei migranti morti durante i viaggi della speranza e ha valorizzato il ruolo della scienza nella lotta alla violenza e nella tutela dei diritti umani. Lei stessa, nata a Casale Monferrato nel 1964, si definisce migrante poiché per il lavoro del padre ingegnere ha studiato e vissuto tra Italia, Canada e Gran Bretagna. Alle spalle ha una formazione articolata. Una laurea in biologia in Canada, poi un master in osteologia, paleopatologia e archeologia funeraria e un dottorato in antropologia in Gran Bretagna quindi la laurea in medicina e chirurgia con specializzazione in medicina legale all’Università degli Studi di Milano. “Qui - ricorda - ho conosciuto Marco Grandi che aveva creato il Labanof. Ho imparato che riconoscere un corpo o uno scheletro di un cadavere è tutelare i suoi diritti”. Perché fu decisiva per lei l’estate del 2016? Dopo il recupero di alcuni corpi con diverse spedizioni, il governo Renzi decise con un’operazione complessa di ripescare il peschereccio di 20 metri partito dalla Libia con a bordo oltre un migliaio di migranti stipati e affondato nel Canale di Sicilia al largo di Malta il 18 aprile 2015. Morirono mille persone in quella che viene considerata la peggior tragedia dell’immigrazione nel mar Mediterraneo. Il prefetto Vittorio Piscitelli, all’epoca commissario straordinario del governo per le persone scomparse, chiese la consulenza del Labanof per identificarli. Avevamo già fatto un tentativo con le vittime dei naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013 a Lampedusa, volle creare una task force per trattare il relitto come se - disse - fosse stato quello di un aereo pieno di italiani. Quelle parole mi colpirono. Era partita l’operazione Melilli, dal nome del molo in cui il barcone venne portato e dove lavorammo tutta l’estate, insieme a colleghi di altre 12 Università, ospiti della Marina Militare. Mi sono trovata in un contesto nuovo su quel pontile della Nato. Ho vissuto tre mesi lì e tra le tende della protezione civile, una cittadina creata per aiutare questa gente. Ho visto un’Italia che ha fatto qualcosa che nessun altro Paese aveva mai fatto. Giorno dopo giorno, trovare la vita nelle tasche di vittime irriconoscibili dopo un anno trascorso a 400 metri sotto il mare mi ha cambiata. È stata un’esperienza tragica trovarsi davanti a questo doppio affronto: primo, la morte di persone giovani affogate senza avere una possibilità di scampo e poi l’indifferenza. Su quel barcone c’erano ragazzi che venivano in Occidente a studiare e cercare lavoro e di cui le famiglie disperate non sapevano più nulla. Come il caso di cui lei ha parlato nel libro Naufraghi senza volto del 14enne del Mali con la pagella cucita nel giubbotto dalla mamma perché i voti presi a scuola potevano mostrare il suo valore... Perciò è giusto restituire a lui e a tutti i morti in mare l’identità e per farlo è necessario lottare. Ancora oggi non riesco a parlare senza commuovermi della bellezza di questa decisione italiana. Come si può bucare quello che il Papa chiama il muro dell’indifferenza verso le tragedie dei migranti? L’umano è indifferente in questo periodo. Il milieu culturale è particolarmente povero. Ma ricordo che quando presentavo il libro una signora mi si è avvicinata e mi ha detto che pensava che non dovessero partire, ma poi leggendo cosa avevano nei vestiti e nelle tasche aveva cambiato idea. Penso che razzismo e discriminazione siano figli dell’ignoranza. In ottica positiva ritengo l’educazione fondamentale. Far conoscere la storia di un orfano abbandonato senza un certificato di morte dei genitori è importante perché gli cambia la vita e rompe appunto il muro dell’indifferenza. È uno dei motivi per cui a Milano abbiamo deciso di far conoscere queste storie attraverso oggetti e parti di lettere che si portavano addosso. Ma l’identificazione non è complessa e costosa? Parlare di vivi e di morti è diverso. I migranti vivi vanno accolti ed è un procedimento più complesso mentre l’identificazione dei cadaveri è meno impegnativa, ma è fondamentale per i familiari. Va implementata perciò la legge 203 del 2012, ma il riconoscimento dei cadaveri dei migranti è un problema europeo e va creata una normativa Ue. Servono investimenti per creare banche dati internazionali dove confrontare il Dna. Con l’aiuto delle Ong, di Comitato 3 Ottobre, della Croce o Mezzaluna rossa e dell’Oim abbiamo dimostrato che si può e si deve agire nei Paesi di origine. A quasi due anni dall’apertura come va il Museo universitario delle scienze antropologiche, mediche e forensi per i diritti umani? Lo stiamo allargando per arrivare a 2.000 metri quadrati dedicati alla migrazione, al crimine e alla ricerca del passato. Abbiamo ricevuto migliaia di scuole in visita. L’ultima stanza in cui ci si svuota le tasche e si confronta il contenuto con quelle dei migranti colpisce molti. Cosa insegna lo studio dei cadaveri del passato? Spiega l’attualità. Una indagine sul Dna di Milano ad esempio insegna che una parte della cittadinanza è sempre stata migrante e che la città è un mix etnico. Comparando i segni della violenza di oggi con le epoche passate arrivano segnali allarmanti. Ha fiducia nei giovani? Sì, hanno menti pulite dai pregiudizi. Sono molto fiduciosa in questa generazione molto più empatica, noi invece siamo diventati disattenti. Da questa situazione possiamo uscire con l’educazione e cercando di cambiare cultura. Ad esempio, a Milano c’è un progetto per aumentare la presenza di medici legali nei pronto soccorso per cogliere tutte le vittime, anche quelle che negano di avere subito violenza. La medicina legale deve agire in fretta per tutelare la salute e fare prevenzione. Come in Francia dobbiamo ancorare i medici legali al territorio per lavorare con vivi e morti con posti di lavoro dignitosi. C’è un progetto futuro che possa dare continuità all’estate del 2016? La partenza di un corso di laurea in ambito umanitario nell’anno accademico 2025/26. Occorre formare professionisti in campo biomedico e antropologico che assistano il medico legale negli ambiti di guerra e che siano in grado di leggere il corpo per scoprire le torture. Penso sempre a quello che ho visto sui corpi di tanti minori stranieri non accompagnati. Dieci anni del Trattato sul commercio di armi ma le forniture illegali continuano di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 20 agosto 2024 Secondo l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri), nel 2023 le spese militari complessive sono aumentate per il nono anno consecutivo e hanno raggiunto il totale mai registrato di 2,4 triliardi di dollari. Alcuni dei più grandi esportatori di armi (gli Usa, da soli, costituiscono il 42 per cento del totale) stanno continuando a effettuare trasferimenti illegali che causano una devastante perdita di vite umane nelle zone di conflitto. “Illegali” perché un accordo internazionale lo vieta: il Trattato sul commercio di armi, entrato ufficialmente in vigore nel dicembre 2014. Il Trattato è stato il primo del genere a istituire standard globali per regolamentare il commercio internazionale di armi e munizioni, legando espressamente i trasferimenti al diritto internazionale dei diritti umani e al diritto internazionale umanitario. Il 2 aprile 2013 155 stati votarono a favore della sua istituzione. Oggi, il Trattato ha 115 stati parte e altri 27 stati firmatari. Del numero totale fanno parte i dieci principali esportatori di armi (responsabili del 90 per cento dei commerci globali), con l’eccezione della Russia. Oggi, in occasione dell’apertura della decima conferenza degli stati parte del Trattato, Amnesty International ha rivolto un nuovo appello affinché le sue disposizioni siano rispettate integralmente, ricordando cosa succede quando vengono aggirate. L’organizzazione per i diritti umani ha documentato l’uso di munizioni prodotte dagli Usa in numerosi attacchi illegali delle forze israeliane, come le Joint Direct Attack Munition (Jdam, munizioni guidate di precisione) in due attacchi illegali nella Striscia di Gaza occupata che, il 10 e il 22 ottobre 2023, hanno ucciso 43 civili: 19 bambine e bambini, 14 donne e 10 uomini. Una bomba GBU 39 di piccolo diametro, fabbricata dall’azienda statunitense Boeing, è stata usata nel gennaio 2024 in un attacco israeliano contro l’abitazione di una famiglia a Rafah che ha causato la morte di 18 civili: 10 bambine e bambini, quattro donne e quattro uomini. I trasferimenti illegali di armi alimentano gli scontri in Sudan, che dall’aprile 2023 è precipitato in una crisi umanitaria e dei diritti umani su scala massiccia. I combattimenti tra le Forze armate sudanesi e le Forze di supporto rapido e tra i gruppi alleati delle une e delle altre hanno causato la morte di oltre 16.650 persone e la fuga di milioni di persone. Quella del Sudan è oggi la più grande crisi di sfollati interni al mondo. Ciò nonostante e sebbene sia in vigore l’embargo del Consiglio di sicurezza sulle armi destinate alla regione sudanese del Darfur, Amnesty International continua a denunciare l’arrivo di ingenti quantità di armi che alimentano il conflitto. L’organizzazione per i diritti umani ha identificato forniture di munizioni ed equipaggiamento militare di recente produzione provenienti da stati come la Cina e la Serbia, entrambi stati parte del Trattato e da stati firmatari come la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti, giunte in gran numero in Sudan e in alcuni casi deviate verso il Darfur. Secondo il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Myanmar, la giunta militare salita al potere con un colpo di stato nel 2021 ha importato armi, prodotti a doppio uso, equipaggiamento e materiale grezzo per produrre armi per un valore di almeno un miliardo di dollari da vari stati, tra i quali la Cina. Nei tre anni successivi al colpo di stato, i militari di Myanmar hanno usato queste armi per attaccare ripetutamente civili e obiettivi civili, spesso distruggendo o danneggiando scuole, luoghi di culto e importanti infrastrutture”. C’è dunque ancora molto da fare per assicurare il rispetto del Trattato ed evitare ulteriori bagni di sangue. *Portavoce di Amnesty International Italia