L’ecatombe di Antonio Bincoletto* Ristretti Orizzonti, 19 agosto 2024 Mentre comincio a scrivere queste righe 61 persone detenute si sono suicidate nelle carceri italiane dall’inizio del 2024. Non escludo che, quando avrò terminato di scrivere, la quota di tale tragico computo sarà salita ulteriormente. Rischia di diventare un fenomeno “normale” agli occhi dell’opinione pubblica, sempre più indifferente a quanto accade dietro le sbarre. E chi governa il sistema dell’esecuzione penale pare non sentirsi toccato da questa somma abnorme di drammi personali che si consumano negli istituti di pena, quasi si trattasse di un problema che non li riguarda, come se i detenuti costituissero una sottoumanità immeritevole di uno sguardo attento e empatico. “Hanno sbagliato, dunque è giusto che paghino”: questo è pensiero comune. D’accordo. Ma a quale prezzo? La pena nel nostro ordinamento consiste nella privazione della libertà, non nella sottrazione di dignità umana, né in sofferenze corporali o psicologiche inflitte dal sistema in aggiunta allo stato detentivo. Anzi, la nostra Costituzione raccomanda che il trattamento riservato ai detenuti sia ispirato a criteri di umanità, teso alla rieducazione e alla risocializzazione dell’individuo (art. 27 Parte prima), condizioni necessarie per ottenere percorsi di revisione critica e il reinserimento degli individui a fine pena. Sta però accadendo che un numero sempre maggiore di carcerati si auto infligga addirittura la “pena di morte” nel corso della detenzione, e che chi dovrebbe gestire il sistema nei termini costituzionalmente definiti rimanga indifferente o consideri “normale” tutto ciò. Se avvenisse la stessa cosa fuori dal carcere come reagirebbero le autorità, gli amministratori, i media, la pubblica opinione? Pensiamo a cosa accadrebbe se in una piccola città di 60.000 abitanti vi fossero 60 suicidi in 6 mesi, uno ogni tre giorni: gli organi d’informazione diffonderebbero la notizia, tutti ne parlerebbero, l’allarme sarebbe massimo e ci s’interrogherebbe sulle cause del fenomeno, cercando rimedi urgenti. Niente di tutto ciò sta ora avvenendo in riferimento alla popolazione carceraria (61.500 persone ca.), anche se si sono superati i 60suicidi, registrando un tasso suicidario quasi 20 volte superiore a quello presente nella popolazione libera. Pure fra gli agenti di polizia penitenziaria il numero di suicidi in Italia è di molto superiore alla media (ce ne sono stati 7 dall’inizio dell’anno): si tratta di uno dei lavori più a rischio sotto questo punto di vista. Ciò rivela un malessere profondo che serpeggia nel contesto delle nostre carceri, coinvolgendo detenuti e detenenti. Cerchiamo di capire come si possa arrivare alla scelta del gesto estremo, e perché oggi il numero di persone che si danno la morte in carcere sia arrivato a livelli così alti, mai visti prima. Chi viene ristretto in reclusione perde i contatti con l’esterno e si trova ad essere affidato all’istituzione per ogni sua necessità. È uno stato di totale dipendenza da altri, anche per le cose più banali, e i tempi delle risposte per qualunque richiesta sono estremamente dilatati. È esperienza quotidiana di ciascun detenuto il chiedere di parlare con qualcuno (direttore, comandante, magistrato di sorveglianza, educatore, psicologo, medico) per le esigenze più varie e di non ottenere alcuna risposta per molto tempo. Le attese sono lunghissime e spesso rimangono senza alcun esito. Chi generalmente risponde presto sono i volontari o il garante, figure deputate all’ascolto e capaci di fornire una qualche risposta, positiva o negativa che sia, su questioni particolari, ma senza un ruolo specifico nella gestione istituzionale. Per il resto gli operatori, spesso oberati di lavoro, non sono in grado di soddisfare alle tante richieste di colloquio avanzate dai reclusi e si limitano a intervenire sporadicamente quando possibile. Ora immaginiamo lo spaesamento di chi, magari per la prima volta, si trova a fare l’esperienza della reclusione e a vivere un tale sentimento d’impotenza. Sommiamo questo ad un possibile senso di colpa derivante dalla consapevolezza del reato commesso e a una percezione catastrofica e di fallimento della propria esistenza, precipitata in un abisso da cui pare impossibile uscire, visto che anche una sola detenzione ti segna per tutta la vita. Si può comprendere come in tali condizioni le persone più fragili e problematiche possano entrare in uno stato di prostrazione o in un circuito depressivo letale che le conduca a decidere di farla finita. In effetti sono molti i casi di suicidio che avvengono nel periodo immediatamente successivo all’arresto, o addirittura in quello che precede di poco la scarcerazione. In quest’ultimo caso entra in gioco pure un altro fattore importante: la paura del mondo esterno, dello stigma, di non farcela a rientrare nella società dei liberi, di non trovare supporti fuori e di ritornare, con maggiori difficoltà di prima, al punto di partenza. Consideriamo anche che in diversi casi (39%) chi si ammazza in carcere ancora non ha una sentenza definitiva e che spesso si tratta di persone giovani (l’età media fra i suicidi in carcere è 39 anni). Quanto detto finora vale in generale. Ma ora chiediamoci: perché in questi anni, e sempre più negli ultimi mesi, il numero di suicidi in carcere è aumentato così tanto? A cosa si può associare tale fenomeno? Cerchiamo qualche possibile risposta che spieghi l’ecatombe in corso. Anzitutto notiamo il sovraffollamento che caratterizza sempre più i nostri istituti detentivi: dopo la fine della pandemia la popolazione carceraria è andata aumentando costantemente ed oggi gli istituti scoppiano. Regolarmente dovrebbero contenere 48000 persone circa, in realtà ne ospitano 61500. Questo significa spazi minori per tutti, ma anche aggravio di lavoro per chi, già sotto organico, opera nel carcere. Chi ne porta le conseguenze, oltre al personale stesso che vive in condizioni di stress e emergenza continui, sono ovviamente i detenuti, che vedono sempre più ridotti spazi vitali, attenzioni e attività trattamentali predisposte nei loro confronti. Perché in queste condizioni aumenta il numero di persone affidate agli educatori, agli psicologi, ai mediatori culturali, al personale sanitario, ai magistrati di sorveglianza, e con ciò diminuisce il tempo - già ridottissimo - che gli operatori possono dedicare a ciascun detenuto, e diminuiscono pure le possibilità di avviare percorsi trattamentali virtuosi, che aiutino la revisione critica, il cambiamento, il reinserimento delle persone ristrette. Dunque ridurre il numero dei reclusi consentirebbe di creare condizioni detentive più dignitose e di seguire maggiormente i singoli soggetti, specie i più fragili e a maggior rischio suicidario, facendo rientrare le nostre carceri entro i parametri di una detenzione conforme ai principi stabiliti e evitando ulteriori multe e richiami da parte delle istituzioni internazionali che monitorano il rispetto dei diritti umani nelle diverse nazioni. Già nel 2013 la CEDU (Corte europea dei diritti umani) con la Sentenza Torreggiani sanzionò l’Italia per mancato rispetto dello spazio minimo dovuto in cella a ciascun recluso (3 metri quadrati). Seguirono misure straordinarie quali l’apertura delle sezioni e la vigilanza dinamica, e con la pandemia si ridusse il numero totale dei reclusi, ma oggi stiamo ritornando alla stessa situazione di 11 anni fa. Tuttavia chi governa pare non accorgersene, o forse considera “normale” e accettabile la sofferenza suppletiva derivante dalla perdita di spazio e di dignità. Un’altra criticità che può contribuire all’aumento dei suicidi è il ritorno di molte sezioni al regime a cella chiusa, dopo tanti anni di sorveglianza dinamica che consentiva l’apertura delle “camere di pernottamento” (=celle) per buona parte della giornata, permettendo ai detenuti di uscire dalla cella e di socializzare con gli altri ristretti nei blocchi. La chiusura di diverse sezioni, introdotta dalla circolare Renoldi del luglio 2022, pur pensata con le migliori intenzioni, ha di fatto riportato all’isolamento per 20 ore al giorno di molte persone recluse, peggiorandone le condizioni di vita quotidiana. Evidentemente non è un caso se l’86,9% dei suicidi del 2024 abbia riguardato persone che stavano in regime di custodia chiusa, fortemente limitati nella possibilità di socializzare e di condividere con altri le giornate. Riaprire le sezioni senz’altro consentirebbe supporto e controllo maggiore per le persone fragili e “a rischio”. Infine l’affettività. Qualcuno ha definito “desertificazione affettiva” la condizione in cui si trova chi entra in carcere. Gli affetti famigliari, le presenze amichevoli, i rapporti affettivi e sessuali certamente sarebbero un importante antidoto alla disperazione per chi è recluso. Se durante la pandemia non si fosse aperta la possibilità di far uscire alcune tipologie di persone e di far comunicare quotidianamente con l’esterno i reclusi sia telefonicamente sia attraverso videochiamate, probabilmente il bilancio di quel periodo nel carcere sarebbe stato molto più pesante. Purtroppo tali misure straordinarie, che avevano consentito una positiva sperimentazione, sono state interrotte allo spegnersi dell’epidemia e oggi si è tornati al “tutti dentro” e alle classiche telefonate settimanali di 10 minuti ciascuna, estese da 4 a 6 al mese con l’ultimo decreto carcere. Un passo indietro che pesa, attenuato solo dalle sagge decisioni di qualche illuminato direttore di concedere più chiamate, in deroga alla norma ordinaria. Se si fosse mantenuto il regime delle telefonate che era entrato in vigore durante la pandemia, chissà quanti fra i detenuti che negli ultimi anni si sono suicidati potrebbero essere ancora in vita, magari grazie ad una chiamata in più, a qualche parola d’amore o di consolazione che non si riusciva a trovare all’interno del carcere nel momento più nero… Come diceva anni fa uno slogan pubblicitario, “una telefonata allunga la vita”. C’è poi la sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale che riconosce finalmente anche in Italia un diritto già da tempo fruibile in molte carceri nel mondo e in una trentina di stati europei: il diritto ad incontri affettivi e sessuali con i congiunti anche in carcere. La sentenza è stata emanata in gennaio del 2024 e il suo dispositivo metteva tutti i soggetti responsabili dell’Amministrazione penitenziaria, dal Ministro fino al singolo Direttore, in condizione di renderla esecutiva da subito. Ora, dopo il blocco voluto dal DAP, a 8 mesi di distanza dall’emanazione di quella sentenza, nulla di concreto pare ancora essere stato fatto per attuare quanto disposto dalla Corte Costituzionale. Quante difficoltà e e quanti fallimenti nei rapporti famigliari si potrebbero evitare se si applicasse al più presto questa norma? E quante morti per “desertificazione affettiva” si potrebbero prevenire? Mi pare tuttavia che la cosa non interessi granché a chi governa il sistema, troppo preso dal voler dimostrare all’opinione pubblica che ora finalmente si vuole garantire la “certezza della pena” inasprendo il sistema punitivo e allargando i reati punibili col carcere (fatta eccezione per quelli che riguardano politici e “colletti bianchi”). Anche la concessione di misure straordinarie (aumento dei benefici di legge per chi ha mantenuto buona condotta, indulto, amnistia) in grado di ridurre oculatamente le presenze negli istituti penali, viene definita come una “resa dello stato” di fronte alla delinquenza, senza considerare che si tratta di misure previste nel nostro stesso ordinamento costituzionale (indulto e amnistia all’art.79 della Costituzione e negli art. 151 e 174 del Codice penale), che dal 1942 ad oggi, quando ancora il Ministero di riferimento si definiva “di Grazia e Giustizia”, sono state emanate una trentina di volte per svariati motivi. Ora la “Grazia” è scomparsa dall’intitolazione stessa del ministero, nonostante i reati più gravi siano in continua diminuzione e le carceri si riempiano sempre più di persone in attesa di giudizio o colpevoli di reati minori. E spesso anche chi si uccide in carcere è in attesa di giudizio o è condannato per reati minori, vive in condizioni sociali disastrose, in qualche caso con problemi psichiatrici o di tossicodipendenza. Insomma, parliamo prevalentemente di detenuti che rappresentano la marginalità sociale, tipologie sempre più presenti nei nostri istituti. Fra persone che si sono suicidate negli ultimi mesi il 26,2% risultavano senza fissa dimora, il 47,54% erano disoccupati. Le prigioni si stanno via via trasformando in “discariche sociali”, luoghi dove confinare quegli “irregolari” che la società non riesce o non vuole sostenere con politiche territoriali di aiuto e d’inserimento. Ecco, tutto questo può contribuire a farsi un’idea sul perché i suicidi carcerari stiano sempre più aumentando e su cosa si potrebbe fare per tentare di contenere questo tragico fenomeno. Ma pare che le uniche risposte provenienti dal fronte governativo siano: più carcere, più reati, pene più lunghe e severe, dura repressione per chi protesta. Questo in realtà a noi pare indicare la vera “resa”, il fallimento di uno Stato, incapace di affrontare il problema attuando quanto stabilito dalla propria stessa legge fondamentale. Noi Garanti, da osservatori indipendenti, continuiamo nonostante tutto a descrivere la realtà e le carenze del carcere e degli altri luoghi di limitazione della libertà, cercando di ottenere ascolto all’esterno e di aiutare all’interno le persone ristrette, nella difesa dei diritti fondamentali dell’uomo che tutti, anche i rei e gli “irregolari” conservano, nella speranza che qualcosa cambi davvero e che quanto disposto dalla nostra Costituzione e dagli Statuti internazionali sui diritti umani finalmente trovi piena attuazione. Siamo cocciutamente convinti che solo quando il carcere saprà trattare con dignità le persone recluse e dare loro una vera speranza di recupero e di riscatto, solo allora avremo fatto un passo avanti verso una società più giusta e più sicura, non certo tornando alla legge del taglione e all’imbarbarimento della società, non predicando la vendetta di stato e assecondando le pulsioni più crudeli e primitive, né chiudendo gli occhi di fronte alle emergenze, alla disperazione, all’ecatombe. 11 agosto 2024 *Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale, Comune di Padova P.S. Da quando ho cominciato a scrivere questo intervento ad oggi sono passati una decina di giorni. Ora siamo arrivati a 65 suicidi fra i detenuti, 7 fra gli agenti di polizia penitenziaria. Nessuna misura è stata deliberata dal Decreto carcere, appena convertito in legge, per far fronte al fenomeno. Il piano Nordio e il bluff del “carcere preventivo” di Donatella Stasio La Stampa, 19 agosto 2024 Ma davvero c’è un’emergenza custodia cautelare in carcere alla base del sovraffollamento delle patrie galere? La risposta è no. I dati dimostrano che i giudici “rispettano il principio di proporzionalità” nel decidere quale misura cautelare adottare e che ricorrono alla custodia detentiva “solo come extrema ratio”. Il che “sta provocando una progressiva riduzione del numero di persone ristrette in carcere in esecuzione di misure cautelari”. Parola di Margherita Cassano, prima presidente della Cassazione. Era il 25 gennaio 2024 e nell’aula magna della suprema Corte - dove si celebra sempre l’inaugurazione dell’anno giudiziario - per la prima volta nella storia repubblicana era una donna a parlare dal pulpito riservato al vertice della magistratura. Toga rossa solo per il colore della mantella indossata, Cassano è una toga storica di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice in cui ha sempre militato Alfredo Mantovano, magistrato fuori ruolo, da decenni in servizio attivo nelle file della destra politica e da due anni addirittura uomo di fiducia della premier Giorgia Meloni. Né l’una né l’altro erano presenti al Palazzaccio quel 25 gennaio, e l’assenza sembrò sospetta perché le parole di Cassano, ancorché misurate e garbate, erano in netta controtendenza rispetto alla narrazione governativa sulla giustizia. Sensazione confermata a distanza di sette mesi. C’era invece il ministro della Giustizia Carlo Nordio, in prima fila accanto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma è legittimo chiedersi se ascoltò davvero la prima presidente. In sette mesi, infatti, il governo ha ignorato del tutto il richiamo di Cassano sul sovraffollamento carcerario, grave già allora ma, già allora, non imputabile a un eccessivo ricorso alla custodia cautelare. Eppure, oggi Nordio (dietro il quale si nasconde tutta la maggioranza “per vedere l’effetto che fa” e poi fingere di prenderne le distanze) parla della custodia cautelare come causa del sovraffollamento, insieme all’eccessiva presenza di stranieri e di tossicodipendenti. Lo ha fatto mentre il Parlamento convertiva in legge il decreto carceri, un guscio vuoto inutile rispetto all’emergenza sovraffollamento, usato fittiziamente solo per introdurre il “peculato per distrazione”, reato senza il quale il Quirinale non avrebbe potuto promulgare la legge di abrogazione dell’abuso d’ufficio, tanto cara alla maggioranza. Erano giorni scanditi dai suicidi di detenuti e poliziotti, giunti, i primi, alla cifra record di 66 e, i secondi, a 7. Erano i giorni delle proteste (chiamate impropriamente rivolte) di fronte all’indifferenza e al cinismo del governo per le morti e le condizioni indegne e insalubri delle carceri. Ebbene, in quei giorni Nordio viene mandato avanti ad annunciare un “piano antisovraffollamento” da presentare a settembre per far uscire dal carcere “15-20mila persone”, a cominciare da tante in custodia cautelare, presunte innocenti fino a sentenza definitiva. Intendiamoci: la custodia cautelare in carcere va ridotta al minimo; deve scattare solo di fronte a una rigorosa prognosi sul pericolo di fuga dell’indagato, o di reiterazione del reato, oppure di inquinamento delle prove; e il giudice non deve farsi condizionare da quella parte di opinione pubblica, cavalcata dalle politiche securitarie della destra, che un giorno reclama il carcere per qualunque reato (specie se commesso da stranieri e poveracci) e il giorno dopo grida allo scandalo per il presunto eccesso di custodia cautelare, con tanto di ispezioni contro i giudici e di modifiche legislative. Ciò detto, torniamo a quel 25 gennaio e alla fotografia di Margherita Cassano sul 2023.I detenuti presenti nelle patrie galere erano 60.166, 10mila in più dei 50mila posti regolamentari (di cui quasi 4mila inutilizzabili). Campania, Lazio, Lombardia, Puglia le regioni con più di mille detenuti oltre la capienza. Insomma, al netto dei periodici report del Garante nazionale dei detenuti, all’epoca ancora l’ottimo Mauro Palma (cui è poi subentrato Maurizio D’Ettorre), sette mesi fa “l’emergenza” era già conclamata ufficialmente. Ma il governo è rimasto a guardare. I detenuti definitivi erano 44.174; 6.385 i non definitivi ma già con una condanna di primo o secondo grado; 9.259 quelli in attesa di una prima sentenza (di cui 3.334 stranieri). In proporzione, niente di fronte ai 20.566 detenuti per droga (il 34% del totale). Ma tant’è. I dati di Cassano rivelano anche che su 82.035 misure cautelari personali emesse nel 2023, i giudici hanno scelto quelle custodiali (carcere, arresti domiciliari, luoghi di cura) nel 57% dei casi. A chi le fece la bontà di ascoltarla, Cassano aggiunse che “l’organico intervento riformatore del 2022” - quindi non quanto prodotto dal governo Meloni - e lo “sforzo dei magistrati” giustificavano un “messaggio di speranza” per il futuro. Sempre che - era sottinteso - la politica penale, penitenziaria e giudiziaria del governo in carica non si muovesse in direzione opposta, com’è invece avvenuto, con una costante, ossessiva moltiplicazione dei reati. Ma torniamo ai dati. Palma ricorda che nel 2010 i detenuti complessivamente in custodia cautelare (senza alcuna sentenza definitiva) erano il 42% (su 67.961 detenuti), nel 2016 il 35,3% su 54.653, mentre il 31 dicembre 2023 sono scesi al 26,6%. Quelli in attesa del primo giudizio sono passati dal 17,08% del 2016 (9.337) al 15,39% di fine 2023 (9.259). Erano 14.367 nel 2009 su 64.791 detenuti (il 22,17%) e sono diminuiti progressivamente fino ad oggi, salvo un lieve incremento negli ultimissimi mesi. Quanto ai reati, tenendo presente che spesso ne vengono contestati più di uno, a fine 2023 la maggior parte dei detenuti era in carcere per reati contro il patrimonio (34.126) e contro la persona (26.211), mentre erano 10.260 i reclusi per reati contro la pubblica amministrazione e 9.109 quelli per associazione mafiosa. Le richieste per “ingiusta detenzione” presentate nel 2023 sono state 1.271 e lo Stato ha risarcito per circa 28 milioni. Insomma, l’equazione custodia cautelare uguale sovraffollamento non sta in piedi. È solo una scusa per rimettere mano al “carcere preventivo”. Per carità, non sarebbe la prima volta che un governo ne riscrive le regole (impossibile, ormai, tenere il conto delle innumerevoli modifiche, ora per ridurre ora per allungare i termini, ora per stringere ora per allargare le maglie, con un andamento a fisarmonica). Ma è poco decoroso che, per intervenire sulla custodia cautelare, il governo usi il drammatico problema del sovraffollamento. Che purtroppo, rimarrà irrisolto. “Dalle celle in dimore sociali o coop”, Nordio bocciato da giudici e tecnici di Liana Milella La Repubblica, 19 agosto 2024 Contro l’emergenza il ministro ipotizza la scarcerazione per chi è in custodia cautelare o deve scontare 12 o 18 mesi di pena residua. Santalucia (Anm): “Tempi lunghissimi, il sovraffollamento non si risolve così”. L’ex direttore di Rebibbia: “Iniziativa senza senso”. Scetticismo, timori concreti per possibili conseguenze deleterie. Diffusi tra toghe, agenti penitenziari, direttori di carceri, politici di sinistra. L’ipotesi del ministro Carlo Nordio per affrontare suicidi e sovraffollamento delle carceri è di mandare chi si trova in custodia cautelare, 16mila persone, o deve scontare ancora 18 mesi o un anno, nelle dimore sociali o nelle cooperative autorizzate da via Arenula - che però è ancora ai bandi di gara - ad ospitare detenuti senza domicilio. La certezza degli addetti ai lavori è che una idea del genere non risolva comunque “adesso” l’emergenza che squassa l’Italia dei detenuti, da Torino a Bari. Con proteste ancora ieri a Regina Coeli dopo quelle di Rebibbia. E i 66 suicidi. Con Repubblica magistrati, agenti e direttori di carceri, politici di sinistra bocciano Nordio. Come Debora Serracchiani, la responsabile Giustizia del Pd: “Lui non ha proprio idea di come funzionano le carceri. Dovrebbe ascoltare di più la magistratura di sorveglianza e parlare con chi lavora nelle prigioni. Da lui arrivano le solite chiacchiere a casaccio. Nessuna iniziativa concreta, solo proposte destinate a non sortire alcun risultato, perché in realtà brancola nel buio”. La proposta Nordio ha il via libera di Forza Italia. Il vicepresidente della commissione Giustizia della Camera Pietro Pittalis, favorevole alla liberazione anticipata di Roberto Giachetti, dice che “queste misure possono contribuire a limitare il sovraffollamento e vanno nella direzione che abbiamo indicato”. Alla bocciatura politica segue quella tecnica. A partire dal presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, tranchant sull’ipotesi Nordio: “Ammesso che si riesca a farla, i tempi sono talmente lunghi da non poter rispondere all’esigenza drammatica del sovraffollamento carcerario”. Qui è il punto. Chi conosce le carceri mette sul tavolo i dubbi. Carmelo Cantone, l’ex direttore di Rebibbia, parla di “un’iniziativa che non può assolutamente stare in piedi per i casi di custodia cautelare che presuppone una stretta vigilanza non garantita in simili strutture”. Non basta, perché Cantone dubita dell’efficacia anche per le pene residue: “C’è sempre il problema dell’articolo 4bis che esclude molti reati, dal piccolo spaccio alle rapine. Per creare spazi nelle carceri bisognerebbe introdurli. Anche se il 4bis è sempre stato vissuto come un totem intoccabile”. Dunque, un ulteriore ostacolo. Che si aggiungersi a quelli del segretario generale della Uilpa Gennarino De Fazio: “C’è un evidente tentativo di privatizzare l’esecuzione penale. Con due conseguenze negative. La prima, meno soldi per le carceri e per le misure alternative, la seconda l’inefficacia per il rischio di fughe e la reiterazione dei reati”. Un ex giudice di sorveglianza come Riccardo De Vito insiste su questo: “L’ex ministra Cartabia aveva previsto le dimore sociali per chi fosse in regola per la risocializzazione e non avesse né casa né altre risorse, ma per tutto ciò serve la mano pubblica perché il rischio è di muoversi silenziosamente verso la privatizzazione delle carceri”. Un esperimento “su cui misurarsi solo nel medio-lungo periodo” ma che, come dice l’ex Garante dei detenuti Mauro Palma, “non ha alcuna potenzialità rispetto all’immediata e all’attuale emergenza” e richiede “il mantenimento della responsabilità pubblica sull’esecuzione penale, cioè il controllo costanze della magistratura di sorveglianza e dei Garanti”. La pazza estate di Nordio, l’annunciatore di riforme di Lorenzo Giarelli Il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2024 Ieri s’è inventato una nuova legge svuota-carceri, la seconda in tre giorni. Il problema: spesso il suo governo gli dà torto. Stare dietro agli annunci di Carlo Nordio è una fatica che può ambire a diventare sport olimpico. Il ministro della Giustizia procede a un ritmo frenetico, utilizzando ora interviste ora veline fatte filtrare dal dicastero. Di solito c’è un filo conduttore: la stragrande maggioranza di questi progetti, ahi lui, muore nella culla per mano di uno o più partiti di maggioranza, che si affrettano a disconoscere i piani del Guardasigilli. Le ultime 72 ore sono un perfetto modello di come funziona da oltre due anni. Ieri Nordio ha parlato al Corriere della Sera annunciando un piano svuota carceri (sarà il quinto o il sesto): stavolta la ricetta prevede di mandare ai domiciliari quei detenuti per i quali i giudici ritengono ci siano i requisiti, ma che al momento sono ancora bloccati in carcere perché non hanno un luogo dove scontare la pena alternativa. Si tratta dunque di far partire dei bandi per ospitare questi detenuti, individuare le strutture e poi spedirli lì. Un gioco da ragazzi, ma diverso dal gioco da ragazzi di due giorni prima: venerdì dal ministero della Giustizia era filtrata infatti tutt’altra idea, ovvero un beneficio generalizzato per tutti i carcerati a cui è rimasto meno di un anno di detenzione, che sarebbero dovuti uscire dalle celle per finire ai domiciliari. La proposta è sopravvissuta per qualche minuto, giusto il tempo che da FdI il sottosegretario Andrea Delmastro leggesse del progetto Nordio, prendesse carta e penna e scrivesse a sua volta una nota per chiarire subito che la strada non era percorribile. Questo modus operandi è ormai un’abitudine. Sempre sulle carceri è memorabile la fuga in avanti del ministro a fine giugno, quando annunciò in un colloquio col Sole 24 Ore di avere pronto un decreto da presentare in Cdm di lì a poche ore: passarono i giorni e pure i Cdm, ma niente… Il Guardasigilli aveva parlato troppo presto: nella maggioranza sul tema sono divisi, con FI che vorrebbe uno sconto di pena per tutti i detenuti condannati per reati non ostativi. Alla fine Nordio ha portato in Consiglio dei ministri un testo molto al ribasso, al punto che ancora oggi passa le giornate a ragionare su come correggerlo. Cose che capitano e ricordano i continui solleciti di Nordio sulla revisione della legge Severino, cavalcati nell’ultima settimana anche da Forza Italia e rinvigoriti dall’inchiesta su Giovanni Toti. Anche qui c’è un problema. A luglio Fratelli d’Italia in Parlamento non ha votato l’ordine del giorno - sostenuto invece da Lega, FI e Pd - per salvare i sindaci condannati. Segno che il tema mal si presta all’annuncite del ministro, implacabile persino su un reato molto delicato, svuotato da Nordio (ma solo a mezzo stampa). Siamo nell’estate 2023 e l’ex pm, parlando a Libero, butta lì la necessità di “rimodulare” il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, considerato “evanescente”, un “ossimoro”, una “contraddizione”. Passa mezza giornata e il sottosegretario Alfredo Mantovano smentisce secco al Fatto: “Il reato di concorso esterno non è in discussione”. C’è poi un’altra fattispecie del Nordio rinnegato. A volte, lo si è visto, lui annuncia e gli altri lo fermano al volo; altre volte il ministro rimanda e Palazzo Chigi invece esegue subito. È il caso della separazione delle carriere. L’11 maggio Nordio va al congresso dell’Associazione nazionale magistrati a Palermo. Trasferta complicata, visto il clima tra pm e governo. Sicché Nordio si presenta con fare missionario: la separazione delle carriere “è nel programma”, certo, ma “è un percorso sicuramente lungo perché prevede una revisione costituzionale”. Ripropone dunque un ragionamento circolato spesso in quei mesi e cioè che non convenisse accavallare una riforma costituzionale (le carriere separate) a un’altra (il premierato) già in corso d’approvazione. A ridosso delle Europee, però, Fratelli d’Italia porta a casa il primo sì al premierato e la Lega strappa l’approvazione dell’autonomia differenziata, ergo Forza Italia ha bisogno di una bandierina elettorale e così il 29 maggio arriva in Cdm la separazione delle carriere. Tanto meglio per Nordio, una cosa di meno di cui occuparsi: tanto c’è una lunga lista di annunci che lo attende. Muro leghista sulle carceri e sulla cittadinanza di Federica Olivo huffingtonpost.it, 19 agosto 2024 Nel giorno in cui Meloni e Salvini potrebbero incontrarsi in Puglia per un punto della situazione, il Carroccio avverte gli alleati: “Se Forza Italia vota lo ius scholae con le opposizioni, è un problema”. Intanto Conte chiama a raccolta le opposizioni: “Abbiamo i numeri”. Si vocifera di un possibile incontro già oggi in Puglia fra Giorgia Meloni e Matteo Salvini per fare un punto della situazione in vista di un autunno delicatissimo, con molti dossier sul tavolo. Intanto, sulle carceri e sulla cittadinanza, Lega alza un muro nella maggioranza. Punti fermi e messaggi chiari agli alleati. In primis sull’idea accarezzata da Forza Italia di uno ius scholae: “Non se ne è mai parlato, né prima né dopo essere andati al governo. Di conseguenza, non mi sembra sia una priorità di questa maggioranza. C’è già una legge che funziona. Semmai, può essere modificata per velocizzare l’ottenimento della cittadinanza da parte di chi la richiede. Eppure in Italia ci sono circa 900mila minori senza la cittadinanza italiana e a beneficiare di un eventuale provvedimento sullo ius scholae sarebbero circa 300mila, secondo le elaborazioni Openpolis/Con i bambini sui dati Istat, che trovano conferme presso Oxfam e Save the Children. Secondo Centinaio, se Forza Italia approvasse una nuova legge sulla cittadinanza insieme alle opposizioni “diventerebbe un problema. Vorrebbe dire ‘liberi tutti’. In Parlamento le maggioranze possono stringersi o allargarsi, ma non possono cambiare così il loro baricentro”. Per il senatore della Lega, quindi, “a settembre potrebbe essere una buona idea sedersi attorno a un tavolo per capire quali sono le priorità della maggioranza da qui alla fine della legislatura”. Comunque, “non c’è da puntare il dito su Forza Italia - sottolinea - il bello della politica è la necessità di trovare un punto di caduta tra idee diverse”. Le opposizioni sfruttano le fratture all’interno della maggioranza. Per il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, in Parlamento ci sono i numeri per approvare lo ius scholae, mentre per Italia Viva, Forza Italia alla fine non riuscirà a superare le resistenze dei partner di governo. Ma Forza Italia insiste: “FI ha la volontà di andare avanti - assicura Giorgio Mulè, parlando al Corriere della Sera - Lavoreremo con la commissione interna del partito sui diritti, che volle lo stesso Berlusconi e che portò, con l’allora ministra Carfagna, alle prime aperture sul tema dei diritti delle coppie omosessuali e sulla omogenitorialità. È nel nostro Dna”. Il vicepresidente del Senato in quota Lega ha poi espresso “qualche perplessità” anche rispetto alla proposta di concedere i domiciliari ai detenuti che stanno scontando l’ultimo anno di pena: “Chi controllerebbe questi ottomila detenuti che andrebbero ai domiciliari?”, si chiede Centinaio. “Le forze dell’ordine sono già sotto organico. Non vorrei che per alleviare il problema nelle carceri rischiassimo di aggravarne un altro sul territorio, dove si allenterebbero il controllo e la sicurezza”. Infine, il senatore della Lega si sofferma sul tema dell’autonomia, affermando che, in caso di stop della riforma in Parlamento, “quello per noi sarebbe ‘il problema’. Continuo a ricordare a tutti che l’autonomia è prevista dalla Costituzione. Da Forza Italia dicono che si deve pensare all’unità nazionale, ma è come chiedere l’ovvio, perché è sempre la Costituzione a garantirla. Non c’è un passaggio della legge Calderoli che dice qualcosa di diverso”. Anche Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, sembra voler frenare sulla proposta dell’ultimo anno di pena da scontare ai domiciliari, in alcune condizioni: “La situazione delle carceri era nota già a fine 2022, quando il governo si è insediato. Chi ci ha preceduto non si era accorto di nulla? Diciamo la verità: per anni sono mancati visione e investimenti, anche di carattere ordinario. Oggi, per la prima volta, è stata approvata una riforma completa, dai temi dell’edilizia al trattamento detenuti”, dice Ostellari a Repubblica. “I penitenziari non sono mai stati adeguati. Noi, invece, abbiamo sbloccato fondi per ristrutturare e costruire nuovi padiglioni e previsto un commissario per l’edilizia. Da domani gli spazi saranno maggiori e più salubri. Il decreto approvato contribuirà a risolvere il problema affollamento in chiave strutturale, puntando sulla rieducazione, che si fa con lavoro e formazione”. Quindi lei non nega il sovraffollamento? “No - risponde - ci sono situazioni di difficoltà, causate anche dall’inagibilità di alcune celle. Ricordo però che in Italia l’affollamento è calcolato sulla base di criteri più stringenti rispetto a quelli previsti della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui deve essere assicurato uno spazio di 3 metri quadri a ciascun ristretto”. Il Garante nazionale dei detenuti: a oggi sovraffollamento nelle carceri è al 131% di Paolo Tripaldi agi.it, 19 agosto 2024 Sono 149 (pari al 78%) gli istituti penitenziari con un indice di affollamento superiore al consentito che in 50 istituti risulta superiore al 150%. Ad oggi detenuti presenti sono 61.465 a fronte di 46.898 posti regolarmente disponibili. A livello nazionale la criticità determina un indice di sovraffollamento del 131,06%. Sono 149 (pari al 78%) gli istituti penitenziari con un indice di affollamento superiore al consentito che in 50 istituti risulta superiore al 150%. Inoltre, l’approfondimento su base regionale mostra una situazione disomogenea, per quanto la quasi totalità delle regioni (17) registrino un indice di affollamento superiore agli standard e solo 3 si collochino al di sotto della soglia regolamentare. Sono alcune delle considerazioni contenute in un report di analisi del sovraffollamento carcerario aggiornato ad aggi e realizzato dal collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Report che si basa sui dati ufficiali del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Da un ulteriore approfondimento si evince che tale criticità è dovuta all’attuale inagibilità di diverse camere di pernottamento e in alcuni casi di intere sezioni detentive (come per esempio CC di Milano San Vittore, ove l’indice di sovraffollamento si attesta al 220,98% ed è l’Istituto che sui 190 detiene il massimo primato). Si evidenzia - si legge ancora sul report - un’estrema differenziazione: regioni quali la Puglia (164,80%), Lombardia (152,24%), Basilicata (149,34%), Veneto (146,46%), Lazio (145,38%) che mostrano un preoccupante indice di sovraffollamento, in buona parte determinato dal divario in negativo tra capienza regolamentare e posti regolarmente disponibili, e tale da dover necessariamente orientare in termini logisticamente mirati i preannunciati interventi legislativi in tema di edilizia penitenziaria, vieppiu’ considerandosi non praticabile una teorica, omogenea, distribuzione della popolazione carceraria su tutto il territorio nazionale, frapponendosi, innanzitutto, la primaria esigenza di salvaguardare la prossimità del collegamento tra detenuto e proprio nucleo familiare di provenienza che impedisce l’automatico trasferimento dei detenuti in regioni come la Sardegna (il cui indice di affollamento si attesta al 95,89%), il Trentino Alto Adige (93,52%), e la Valle d’Aosta il cui indice è del (86,55%). Il nuovo appello dei Garanti territoriali dei detenuti: “Subito misure deflattive” ansa.it, 19 agosto 2024 Il portavoce nazionale Samuele Ciambriello incontra Nordio, numeri e storie alla mano: “Abbiamo bisogno di misure urgenti”. “Sull’emergenza carceri, sovraffollamento, suicidi, dignità della vita da reclusi occorre partire da una premessa basilare. Nell’art. 27 della Costituzione italiana non si nomina nessun tipo di pena, ma si dispone che ‘le pene’ (tutte) devono rispondere a due requisiti: uno, ‘non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’ e due, ‘devono tendere alla rieducazione del condannato. Le pene diverse da così sono fuori legge, sono fuori Costituzione. Con amarezza e grande preoccupazione constato che non è così per i politici”. Si apre così una dichiarazione di Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti e Portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Sul carcere ci sono luoghi comuni - spiega in una nota - etichette, scelte ideologiche che impediscono di vedere la reale dimensione del fenomeno. Che rispetto al sovraffollamento carcerario ha raggiunto livelli allarmanti. Al 29 luglio 2024, le carceri italiane ospitavano 61.134 detenuti, a fronte di soli 47.004 posti disponibili. Questo significa che 14.130 persone vivono in spazi estremamente ristretti, con un tasso di sovraffollamento medio del 130,06%. Mentre la strage dei suicidi continua: con l’ultimo caso a Parma nel pomeriggio di Ferragosto, sale a 67 il numero di persone che si sono tolte la vita nelle carceri italiane dal primo gennaio 2024, ai quali bisogna aggiungere i 7 agenti della Polizia penitenziaria. “Il recente Decreto carceri approvato in Parlamento è minimale - sottolinea Ciambriello - inadeguato, vuoto rispetto alle proporzioni dell’emergenza carceri. Proposte che potrebbero essere un bene nel medio e lungo periodo non sono risolutive per l’oggi. Abbiamo bisogno di misure deflattive urgenti, di immediata esecuzione, per ridurre il numero dei detenuti, garantire cure, assistenza ed ascolto ai soggetti affetti da fragilità e disagio psichico, evitare nuovi ingressi limitando l’adozione di misure cautelari in carcere. Assunzioni di psicologi, mediatori linguistici, assistenti sociali, educatori”. Nell’incontro avuto con il Ministro Nordio, il garante Ciambriello e il Coordinamento della Conferenza nazionale dei garanti territoriali hanno portato i numeri e le storie di coloro che devono scontare meno di un anno di carcere circa ottomila detenuti, e quelli che hanno hanno una condanna residua di tre anni e sono 21.075, su quasi 62mila detenuti. “Vedo cause, veti ideologici, proposte inconsistenti nell’immediato. Le persone detenute, l’intera comunità penitenziaria attende fiduciosa che ognuno faccia la propria parte. L’applicazione della detenzione domiciliare per gli ultimi diciotto mesi c’è, ma va promossa e incrementata, rimuovendo ostacoli e ritardi. Noi garanti vediamo il carcere là dove le contraddizioni si manifestano in maniera acuta. Nel nostro documento presentato al ministro abbiamo scritto che si può partire da misure immediatamente deflattive, come la proposta Giacchetti sulla liberazione anticipata speciale, applicandola retroattivamente o dalla via maestra di un provvedimento di clemenza. Il Ministro Nordio ci ha detto che ci rivedremo a inizio settembre”. Carceri senza cure di Elisa Sola La Stampa, 19 agosto 2024 Nelle Rems mancano i posti e i detenuti psichiatrici restano in cella. Un agente delle Vallette: “I manicomi sono stati ricreati nelle prigioni”. Lo dice sotto voce. Chiedendo di restare anonimo. “Hanno chiuso i manicomi, ma li abbiamo ricreati nelle carceri”. Lavora come poliziotto nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Un luogo dove da inizio mese ci sono state quattro rivolte. Un posto che è stato messo a ferro e fuoco. Dove vivono reclusi 1.500 detenuti quando ce ne starebbero mille. E di questi, molti hanno problemi psichiatrici. Ci sono persone con patologie meno gravi, che vivono nelle celle normali, se così si possono definire. E ci sono detenuti con problemi psichici molti gravi. Persone ristrette nelle sezioni speciali. A Torino, una volta, queste sezioni separate dalle altre si chiamavano “Il Sestante”. Il reparto era considerato fatiscente e disumano e per questo è stato chiuso e ricostruito. La procura di Torino, dopo le prime denunce relative alle condizioni di vita dei detenuti del Sestante, aveva aperto un’inchiesta. Ipotizzando anche presunti maltrattamenti. L’indagine, nata due anni fa, oggi è tutt’altro che chiusa. Gli inquirenti, coordinati dal procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo, non si sono fermati ai sopralluoghi e alla raccolta delle testimonianze. Ma hanno ordinato, alcuni giorni fa, una consulenza tecnica che punta a fare luce sull’organizzazione della gestione medica di tutti i detenuti psichiatrici. Anche se il vecchio reparto non esiste più, la procura vuole approfondire. E capire come vengano trattati questi uomini, che sono stati condannati anche per reati molto gravi. E che forse, dentro a una cella, non dovrebbero stare. Quello che dice, sottovoce, lo stesso poliziotto. “Non dovrebbero stare lì. Fanno pena anche a noi. Vederli fa impressione. Sembrano zombie. Stanno per ore attaccati alle sbarre. Annodano un lenzuolo su se stesso 70 volte di seguito. Spesso tentano di suicidarsi. Per sicurezza togliamo tutto dalle loro celle e restano nudi. Il carcere non è la struttura adatta per loro”. E una questione complicata e dolorosa. Lo sa anche la procura, che riceve le denunce dei detenuti che affermano di non essere curati a dovere. Ma anche quelle dei medici che ogni giorno, mediamente due volte ogni 24 ore, vengono aggrediti. In questo contesto è difficile valutare. “Sul carcere hanno tutti un po’ di ragione ma il quadro complessivo non è quello che vede ogni singola persona”, premette Roberto Testi, referente della sanità penitenziaria della Asl Città di Torino. “E pieno di gente che si erge a paladino dei detenuti - afferma - parlano di privacy. Ma esiste una questione enorme, che non si può fare a meno di affrontare. La sicurezza. Alle Vallette vivono detenuti con problemi psichiatrici gravissimi. Se non sono legati o bloccati, a volte, si uccidono. Noi come medici siamo lì dentro per curarli. Ma non siamo noi a decidere chi sta dentro e chino. La valutazione della compatibilità di queste persone con il regime del carcere non è nostra”. È vero. È la magistratura che stabilisce se un condannato debba andare in carcere. O se debba essere trasferito in una Rems o in una comunità per essere curato. E a Torino, anzi, in generale nel Nord Italia, c’è un problema enorme. Le Rems sono piene. Così capita che dentro alle Vallette siano reclusi detenuti che, per ordine di un giudice, non dovrebbero stare lì. Hanno diritto a un posto in Rems. Ma siccome sono in lista d’attesa, aspettano in prigione. Queste persone in eterna attesa vivono nella sezione dei detenuti psichiatrici. In celle di quattro metri per quattro sorvegliate 24 ore su 24 dalle telecamere. Spesso arrivano qui uomini che hanno provato più volte a togliersi la vita. E qualcuno ogni tanto ci riesce. Altri detenuti che hanno problemi psichiatrici meno gravi, vengono invece dirottati nelle sezioni comuni. Sono curati. Ma vivono nelle altre sezioni, insieme ai detenuti “ordinari”. Quando scoppiano le rivolte, come l’altro giorno a Bari, dove un detenuto, forse con problemi psichiatrici, ha aggredito un agente, sono i più fragili. “Un paziente psichiatrico non è mai la causa delle rivolte - precisa Testi - il problema più grosso è la droga. Poi ci sono le risse. Gli psichiatrici ci vanno sempre di mezzo, anche se alla sommossa partecipano, più o meno consapevolmente”. “Il problema è vecchio e annoso - dichiara Roberto Streva, segretario regionale del sindacato di polizia penitenziaria Uspp - i malati psichiatrici non dovrebbero stare in carcere, ma in strutture idonee, dove possano essere curati, come le Rems. In generale nessun detenuto che soffre di una patologia dovrebbe vivere lì. A volte creano subbugli e sono violenti nei confronti dei compagni e del personale. A volte fanno male a loro stessi. L’amministrazione penitenziaria dovrebbe trovare una soluzione idonea, con le Asl, per curare i detenuti malati”. La calda estate delle carceri italiane di Gelsomina Ciarelli* Ristretti Orizzonti, 19 agosto 2024 Premetto che lavoro in carcere come psicologa dal 1994 con vari ruoli: da esperto art 80 a psicologa ASL con varie funzioni. Più di ogni altra cosa fa venire rabbia la continua mistificazione del problema carceri e le soluzioni ipotizzate. Io mi chiedo perché continuano a prospettare ipotesi che sono impraticabili ma anche confuse e non veritiere. Il Ministro era pur sempre un magistrato se non erro. Per noi che lavoriamo in carcere la mistificazione è la cosa più tremenda. Commento solo il “trasferimento di massa dei detenuti tossicodipendenti nelle Comunità” Ma come questo può avvenire: innanzitutto dovrebbero sapere che le Comunità costano, sono carico delle ASL. Ma Schillaci ci ha messo una lira? Poi deve essere fissata una udienza con tanto di programma. Ma poi tutti questi posti dove si trovano? Vi sono lunghe liste di attesa e non tutte le Comunità accolgono tossicodipendenti provenienti dal carcere perché spesso trattasi di detenzione domiciliare. Sono veramente afflitta ed irritata. Questo dimostra la serietà e la competenza di un Governo a partire dai sottosegretari. Sinceramente necessitano di consulenti un po’ più esperti, anche per evitare le brutte figure a cui sono sottoposti. *Psicologa Carceri: analisi e proposte di Carla Forcolin* Ristretti Orizzonti, 19 agosto 2024 Da molti mesi gli istituti penitenziari del nostro paese stanno ribollendo e la richiesta al Ministero di Giustizia di riforme che vadano a migliorare disfunzionalità ataviche negli istituti di pena italiani sono pressanti. I quasi settanta suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno impongono un’analisi seria della situazione, come lo impongono i suicidi degli agenti penitenziari e l’aumento delle presenze di giovanissimi negli istituti penitenziari minorili (Ipm). Attribuire al sovraffollamento la causa principale di questa situazione è un modo per continuare a non vedere che i detenuti sono esseri umani con gli stessi bisogni profondi che abbiamo noi. Come noi hanno degli affetti o desiderano degli affetti, come noi hanno la necessità di utilizzare il loro tempo in maniera costruttiva; più di noi (e per “noi” intendo i non carcerati) hanno bisogno di rivedere e analizzare i loro tragici errori, che li hanno portati a compiere reati e a perdere la libertà, più di noi devono progettare la loro vita dietro le sbarre o all’uscita dalla prigione. Certamente hanno bisogno di condizioni di vita migliori, ma non ci si suicida perché in cella fa troppo caldo, anche se davvero fa troppo caldo. Depressione, senso di colpa, odio per se stessi, senso di inutilità della vita, lunghe giornate vuote da vivere, perdendo perfino il senso del tempo, in una parola disperazione inducono invece a togliersi la vita. Bisogna quindi remare in senso opposto e non è affatto facile, ma se non si parte da queste considerazioni, anche se si risolve il sovraffollamento, le cose non cambieranno. Ai detenuti va trasmessa la considerazione che loro sono uomini e donne che hanno fatto del male ad altri, ma che possono ancora usare parte della loro vita per rimediare e migliorare l’esistenza propria e altrui. Come? Gli esempi di buone prassi negli istituti penitenziari non mancano, evidentemente le buone prassi vanno incentivate, come vanno incentivati i gruppi di parola con qualificati psicologi, come va incentivato il lavoro, lo studio, la produzione di cose belle, utili e coinvolgenti e, soprattutto, il rapporto con i propri famigliari, i figli in particolare. Voglio fare un esempio: alcuni anni fa la Regione del Veneto finanziò un progetto dal titolo “Lavorare per i propri figli” nella Casa Circondariale di S. Maria Maggiore. Si trattava di restaurare il chiostro dell’antico convento divenuto carcere, perché i figli dei detenuti potessero andare a trovare il padre in quel luogo aperto anziché nel parlatorio. Il progetto era stato proposto dalla APS “La gabbianella” e si avvalse, per la sua attuazione, di due architetti e di bravi artigiani, che guidavano i detenuti nel loro lavoro. L’idea era quella di far imparare un mestiere artigianale mentre si faceva qualcosa di utile e finalizzato all’incontro con i propri cari. Non mi dilungo sul progetto, ma basti dire che i detenuti lo fecero molto volentieri e che uno degli ostacoli che trovammo fu costituito dal fatto che i detenuti dovevano essere pagati, per legge, mentre essi, in alcune circostanze, avrebbero anche lavorato gratis. Non è difficile nelle carceri fatiscenti del nostro paese trovare lavori utili da proporre e far eseguire ai detenuti stessi e il modo di ricompensarli non è solo economico, benché il guadagno sia di per sé la concretizzazione della propria opera e vada perseguito ovunque sia possibile. Ma progetti, finanziamenti, richieste a fondazioni ecc. per far lavorare o studiare con soddisfazione i detenuti sono possibili, se le idee sono buone e c’è la volontà politica di attuarle da parte del Ministero di Giustizia e delle Direzioni delle carceri. Creare con le proprie mani ambienti dignitosi ed insieme imparare un mestiere da utilizzare a fine pena è una gran cosa, che può aiutare a sentirsi utili e a risollevare il morale delle persone detenute. *Fondatrice della APS “La gabbianella e altri animali” Costruiamo più carceri invece di svuotarle di Maurizio Belpietro La Verità, 19 agosto 2024 Caro ministro Nordio, la seguo e la stimo da tempo. Ricordo ancora quando, con l’esperienza accumulata negli anni trascorsi in tribunale, spiegò a un’opinione pubblica ubriacata delle inchieste del pool Mani pulite che la corruzione non si combatteva inasprendo le pene e minacciando anni di galera che poi lo Stato non era neppure in grado di far scontare, ma facendo leggi più semplici, che non fossero applicabili a discrezione dell’impiegato pubblico o del politico. Così come ho ben presente le molte volte in cui criticò l’uso indiscriminato delle intercettazioni da parte della magistratura, che spesso si trasformava in una pesca a strascico con cui anche un innocente, per una frase sbagliata, rischiava di passare dei guai. Sì, ho sempre apprezzato il suo modo pacato e ragionevole di affrontare le questioni che riguardano la Giustizia e non potevo, perciò, che essere d’accordo con l’abolizione dell’abuso d’ufficio, un reato che era diventato, nelle mani dei pubblici ministeri, uno strumento per azzerare sindaci e giunte senza che vi fosse neppure uno straccio di prova che testimoniasse un danno per la pubblica amministrazione o un illecito guadagno di chicchessia. Ciò detto, riconoscendole i meriti accumulati nella sua vita da magistrato e quelli più recenti da politico, devo però manifestarle il mio disappunto di fronte all’idea di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario con una sorta di liberi tutti. È dai tempi di Franco Nicolazzi, ex ministro dei Lavori pubblici ed ex segretario socialdemocratico durante la prima Repubblica, che sento parlare dei limiti dei nostri penitenziari. Con Mani pulite, l’onorevole di Gattico finì al centro di una famosa inchiesta denominata “Carceri d’oro” e si capì che se le celle erano sovraffollate era a causa del fatto che i partiti, invece di costruirne di nuove, preferivano farsi pagare una tangente, con il risultato che i reclusori finivano per costare un occhio della testa e, dunque, se ne facevano pochi. Dal 1948 al 1990 gli “svuota carceri” sono stati 34. In pratica, ogni anno e mezzo il Parlamento votava un’amnistia o un indulto, rimettendo in libertà i condannati prima che avessero finito di scontare la pena. La motivazione era sempre la stessa: le prigioni scoppiavano e non si sapeva più dove mettere i detenuti. Però, una volta aperte le celle, queste tornavano immediatamente a riempirsi: vuoi per la reiterazione del reato da parte di chi era stato rimesso in libertà, vuoi per il generale senso di impunità che l’amnistia e l’indulto davano a quanti erano propensi a delinquere. Nel 1989, cioè prima che una modifica costituzionale innalzasse il quorum parlamentare per l’amnistia o l’indulto portandolo a due terzi dei componenti di ciascuna Camera e rendendo, dunque, più complicata l’approvazione dei provvedimenti di clemenza, i detenuti in Italia erano 30.000 e grazie al provvedimento votato da Montecitorio e Palazzo Madama scesero a 26.000, ma nel 1991 il numero delle persone rinchiuse già sfiorava la soglia dei 36.000. Nel 2006, anno in cui il governo Prodi, con il ministro della Giustizia Clemente Mastella, varò un indulto generalizzato che fece uscire 25.000 detenuti (dei 70.000 rinchiusi), finì esattamente come 15 anni prima. Infatti, nel 2013 i reclusi erano 60.000 ed Enrico Letta, con Annamaria Cancellieri come Guardasigilli, ne liberò 10.000. Penso che sia a lei, caro ministro, che ai lettori non sia sfuggito il fatto che a varare i provvedimenti di clemenza siano stati i governi di centrosinistra, così come non potrà essere ignorato che a ogni svuota carceri sia succeduto un “riempi carceri”, perché molti dei liberati sono tornati a delinquere e, dunque, alla collettività sono costati il doppio, sia per i nuovi reati commessi, sia per gli sforzi compiuti dalle forze dell’ordine e dalla magistratura per assicurarli alla giustizia. Sì, caro ministro. Quella della polizia, e anche dei tribunali, sembra fatica sprecata se poi ogni volta chi delinque viene scarcerato dalla politica che, non sapendo come e dove custodire criminali, li rimette in circolo affinché tornino a fare quello che sanno fare, cioè rubare o compiere quelli che in gergo giudiziario e giornalistico vengono definiti reati minori. Vede ministro, se c’è una ragione per cui la maggioranza degli italiani vota centrodestra, ossia la parte politica per cui lei è stato eletto, è che da Giorgia Meloni e dalla sua squadra si aspettano legge e ordine, ovvero si attendono che i delinquenti siano assicurati alla giustizia, cioè condannati e rinchiusi. Purtroppo da noi è invalso il gioco delle tre tavolette e, per far sparire il sovraffollamento carcerario o i ritardi con cui si accumulano i processi nei tribunali, si fanno sparire i reati oppure li si abbuonano, facendo i saldi di fine stagione sulle pene. L’ultima volta lo ha fatto un cosiddetto governo di unità nazionale, con Mario Draghi e Marta Cartabia. La legge, che porta il nome di quest’ultima, per snellire il lavoro dei giudici ha stabilito che alcuni reati siano procedibili solo su denuncia della parte offesa e dunque, se sei stato derubato o rapinato, oltre ad aver subito il danno, devi pure farti carico di recarti in questura o dai carabinieri e fare la fila, perdendo una giornata, per denunciare qualcuno che poi, una volta preso, sarà liberato. Risultato, dopo la Cartabia alcuni reati sono miracolosamente diminuiti, anche se solo sulla carta, per effetto del calo delle denunce. La realtà, caro ministro Nordio, è che se si vuole restituire alla maggioranza degli italiani un senso di sicurezza e anche la certezza che lo Stato esiste ed è in grado di farsi rispettare, gli indulti, le amnistie, le Cartabia e pure gli svuota carceri non servono a nulla. Serve una sola cosa: costruire nuove carceri. È per questo che il centrodestra è stato votato ed è per questo che ancora oggi è maggioranza nel Paese. Se gli italiani avessero voluto un po’ più di delinquenti in libertà, probabilmente avrebbero scelto il centrosinistra. Dunque decida lei da che parte stare: se con la maggioranza silenziosa che l’ha votata o con quella minoranza chiassosa che ogni giorno protesta per qualche cosa, sovraffollamento delle carceri compreso. Vie alternative alla reclusione: nel decreto 92/2024 solo pochi ritocchi di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2024 Per chi non ha un lavoro, affidamento in prova con attività di volontariato. Con la conversione in legge, nel decreto 92/2024 sono state introdotte alcune novità che provano ad agevolare le alternative alla detenzione. Anzitutto, viene integrato l’articolo 656 del Codice di procedura penale con due nuove disposizioni. Con la prima (nuovo comma 9-bis), si prevede che, prima di emettere l’ordine di esecuzione di una condanna da due a quattro anni di reclusione il Pm chieda al magistrato di sorveglianza l’applicazione provvisoria della detenzione domiciliare qualora: - si tratti di condannati ultrasettantenni; - la pena riguardi condanne per delitti diversi da quelli indicati nell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario (legge 354/1975). La decisione definitiva spetta comunque al tribunale di sorveglianza. Va però considerato che questa disposizione, se ritenuta applicabile anche ai condannati liberi (come farebbe intendere il tenore letterale della norma), porterebbe al rischio, per questi ultimi, di vedersi applicata una misura fortemente restrittiva della libertà personale adottata in assenza di contraddittorio e senza possibilità di impugnazione, esponendosi quindi a dubbi di incostituzionalità. Analoga norma (comma 9-ter, articolo 656 del Codice di procedura penale) riguarda le esecuzioni a carico di soggetti agli arresti domiciliari per “gravissimi motivi di salute”. L’area applicativa della nuova disciplina pare coincidere con quella degli articoli 108 del Dpr 230/2000, 684 del Codice di procedura penale e 147 comma in. 2 del Codice penale, che già consentono l’applicazione del differimento della pena, anche nelle forme della detenzione domiciliare “surrogatoria” della stessa (articolo 47-ter, comma 1-ter, ordinamento penitenziario). Anche in questo caso, il provvedimento provvisorio adottato dal magistrato di sorveglianza dovrà essere confermato dal collegio. In sede di conversione è stato, inoltre, modificato l’articolo 47 dell’ordinamento penitenziario in materia di affidamento in prova al servizio sociale, con il nuovo comma 2-bis che consente la concessione della misura anche se il condannato non dispone di un’attività lavorativa: in alternativa può svolgere un servizio di volontariato o un’attività di pubblica utilità compatibile coni piani annuali concordati tra gli enti territoriali, gli Uepe e le direzioni penitenziarie e comunicati al presidente del tribunale di sorveglianza. La legge di conversione introduce, infine, con il nuovo articolo 658-bis del Codice di procedura penale e alcune modifiche all’articolo 679 dello stesso Codice, una nuova disciplina delle misure di sicurezza provvisorie del ricovero in Rems. In sintesi, si introduce una procedura accelerata, imponendo tempi contingentati alla cancelleria del giudice che ha disposto la misura del ricovero negli ospedali psichiatrici giudiziari o nelle case di cura e di custodia (entrambe ora eseguite mediante il ricovero in Rems) per la trasmissione del titolo esecutivo al Pm e a quest’ultimo per la richiesta al magistrato di sorveglianza di fissazione dell’udienza per il riesame della pericolosità. Nelle more, resta efficace la misura di sicurezza provvisoria eventualmente adottata dal giudice del merito ed è anche previsto che il Pm, fuori udienza, possa chiedere al magistrato di sorveglianza l’applicazione provvisoria di una misura di sicurezza, con provvedimento destinato a essere assorbito dalla decisione definitiva. Liberazione anticipata, ai Pm da comunicare anche i “sì” di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2024 In vigore dal 10 agosto la legge di conversione del Dl che modifica la procedura. Poche le correzioni: non è stata introdotta una disciplina transitoria. La legge 112 del 2024, di conversione del decreto “carceri” (D192/2024), approvata definitivamente e agosto dalla Camera e in vigore dal lo agosto, accoglie solo in parte i molti rilievi critici alla nuova procedura per la concessione della liberazione anticipata emersi nel corso delle audizioni in commissione e nel dibattito aperto tra gli esperti. Di fatto, la novità più significativa introdotta durante il percorso parlamentare è contenuta nell’articolo 5, comma 2, del decreto 92/2024, che modifica l’articolo 54, comma 2, legge 354/1975 (ordinamento penitenziario) nel senso di prevedere che anche la decisione favorevole - non solo quella negativa - del magistrato di sorveglianza sull’applicazione della riduzione di pena a titolo di liberazione anticipata sia comunicata al Pm che cura l’esecuzione. La prima versione della nuova disposizione prevedeva invece la comunicazione al Pm dell’esecuzione delle sole decisioni negative sulla liberazione anticipata (quindi solo quelle che respingevano o dichiaravano inammissibili le istanze formulate inbase all’articolo 54 dell’ordinamento penitenziario). Tuttavia, l’assenza di una comunicazione (anche) delle ordinanze di concessione della liberazione anticipata avrebbe comportato gravi criticità applicative per il rischio di valutazioni di medesimi semestri di pena da parte di magistrati di sorveglianza diversi qualora non vi fosse, da parte del pubblico ministero, una registrazione ufficiale dei periodi di pena già oggetto di decisione. Non solo. Vi era anche il rischio concreto che il Pm perdesse il controllo sul conteggio dei fine-pena provvisori da aggiornare in base alle decisioni della magistratura di sorveglianza, con ricadute negative per la mancata conoscenza dell’effettivo fine-pena, sia nel caso di successivi provvedimenti di cumulo, sia di mutamento del magistrato di sorveglianza competente per il trasferimento del detenuto in altro carcere. Ora, quindi, si prevede che le decisioni del magistrato di sorveglianza in materia di liberazione anticipata (sia le negative che le positive) siano sempre comunicate sia al Pm presso il magistrato di sorveglianza decidente, ai fini dell’eventuale impugnazione, sia al Pm incaricato dell’esecuzione: senza tale comunicazione, quest’ultimo resterebbe del tutto inconsapevole delle decisioni che attengono alle effettive riduzioni di pena applicate dal magistrato di sorveglianza, ai fini del calcolo del fine- pena aggiornato. La legge di conversione non introduce, invece, alcuna disciplina transitoria per l’entrata in vigore della riforma, pur fortemente richiesta dagli operatori. Resta, pertanto, il dubbio se le nuove procedure siano di immediata applicazione o se sarà necessario attendere le modifiche al regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario (Dpr 230/2000), da introdurre entro sei mesi. Trattandosi di modifiche di natura processuale, la regola dell’immediata applicabilità dovrebbe suggerire che la nuova disciplina valga quantomeno in relazione alle istanze presentate dalla data di entrata in vigore della legge di conversione (cioè dal lo agosto 2024). È poi opportuno che la magistratura di sorveglianza concordi protocolli con i Provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria per consentire ai detenuti di presentare richieste di liberazione anticipata integrate dagli elementi ora richiesti dalla legge a pena di inammissibilità e per la trasmissione degli elenchi delle persone con fine pena ravvicinato (almeno sei mesi), così da esaminare le posizioni nel rispetto dei tempi ora indicati dal comma 2 dell’articolo 69-bis dell’ordinamento penitenziario. Alla luce dell’integrale riformulazione dell’articolo 69-bis dell’ordinamento penitenziario, cui rinvia l’articolo 1, comma 5, legge199/2010, resta confermato che, anche per l’esecuzione della pena presso il domicilio, non sarà più necessario il parere preventivo del Pm. La soppressione di questo passaggio è, infatti, del tutto coerente con la ratio della misura prevista dalla legge 199/2010, nata con finalità di deflazione del sovraffollamento carcerario, il cui procedimento applicativo (che già prevedeva un termine ridotto a cinque giorni per il parere del Pm) è ora reso ancor più celere. Ho condannato la mafia ma continuano a dirmi “non basta” di Antonio Aparo* L’Unità, 19 agosto 2024 Confrontarsi pubblicamente e assumersi tutte le proprie responsabilità significa essere restio a una revisione critica? Valutate voi, cari lettori, quanta sensibilità regni nelle carceri. Dopo 32 anni di detenzione chi deve valutare sull’esecuzione della mia pena mi ha finalmente concesso un colloquio. Il 5 agosto 2022 era una giornata come tante altre, e come tutte le mattine, alle prime luci del giorno, ho iniziato il mio lavoro di ricamo. Riflettevo e lavoravo sulla figura che nella mia testa aveva già preso forma: a volte, quando vado di fretta, il filo si raggomitola su se stesso iniziando a formare dei piccoli grovigli che devo pazientemente sgrovigliare. Tutto ciò mi ricorda che devo sempre essere paziente su ogni aspetto della vita per non ripetere i miei errori di gioventù, quando di pazienza ne avevo davvero poca. Il ricamo, oltre a darmi un senso di pace, mi ha aiutato ad avere una visione prospettica delle immagini. Prima, quando osservavo la realtà che si presentava davanti ai miei occhi, la percepivo secondo una mia personale deformazione prospettica. Oggi, forse grazie al mio lavoro di ricamo o a una maggiore maturità, ogni volta che si pone un problema inizio a esaminarlo da diverse sfaccettature. Nel campo degli studi ottici la “giusta” prospettiva indica l’ottica stessa, intesa come percezione visiva. In particolare, indica la pratica per misurare le distanze. Ecco, in passato non sono stato certamente capace di misurare queste distanze… Erano già quasi tre ore che ricamavo, quando all’improvviso sento urlare l’agente di sezione che mi invita a scendere giù presso gli uffici del magistrato di sorveglianza. Sento lo stomaco in rivolta, scruto subito la mia agenda e rilevo che avevo richiesto quel colloquio il 21 febbraio 2021, per una lettera che mi era sequestrata e per la quale ne chiedevo il dissequestro. Poi, nel marzo 2022, avevo inoltrato una richiesta di permesso premio, ma appena quindici giorni dopo veniva rigettata con la motivazione secondo la quale l’equipe non ritiene ancora che io possa avere spazi maggiori di libertà dall’attuale, poiché non ho mai fatto una revisione critica del mio passato: “Egli si mostra restio a entrare nel merito dei reati e delle motivazioni che lo hanno indotto a delinquere”. Vi racconto ora il mio colloquio con il magistrato di sorveglianza. Magistrato: “Ci siamo mai visti prima d’ora?” Detenuto: “Sì, per rogatoria, ma per altri fatti”. M.: “Cosa fai al momento?” D.: “Ricamo!” M.: “Ricami?” D.: “Sì, ricamo! È un dono che ho ereditato da mia madre. A questo proposito, mi permetta di regalarle un telo che riproduce la figura della Ninfa Aretusa, il più famoso mito di Siracusa. La dottoressa Di Rosa, presidente del Tribunale, ne ha un altro simile”. M.: “Uhm… va bene. Cosa vuole?” D.: “Desidero esporle le mie lamentele. La prima è inerente al rigetto che la S.V. mi ha fatto in data 24 marzo. Non è il rigetto che mi fa male, ma la motivazione che è legata alla parola “restio”. Questo maledetto aggettivo che mi perseguita e che combatto, da anni, per sconfiggerlo. Non riesco a comprendere come sia possibile combattere contro i mulini a vento, e cioè con chi non vuole confrontarsi con me. Negli ultimi tre anni ho avuto soltanto alcuni fugaci colloqui con l’educatrice e non ho mai visto, nonostante le mie continue richieste, criminologi e psicologi”. A questo punto il magistrato mi invita a mettere per iscritto le mie lamentele che - mi assicura - avrebbe inoltrato all’istituto penitenziario affinché provveda a redigere la mia relazione di sintesi”. M.: “Hai mai fatto una revisione critica del tuo passato?” D.: “Mi scusi, presidente, ma cosa si intende esattamente per revisione critica?” M.: “Ho capito, sei un caso spinoso”. D.: “Mi permetta di leggerle un passaggio della lettera che la S.V. mi ha sequestrato: sì, sono in possesso di un’altra copia. Desidero informaLa che la stessa lettera è stata pubblicata da vari quotidiani nazionali e regionali. Il suo contenuto è stato persino letto in pubblico il 21 marzo 2022, in occasione del giorno dedicato alle vittime di mafia, dal Tg nazionale Italia1. Questa, in sintesi, la notizia: “Il boss scrive ai giovani: basta omertà. ‘Ai miei concittadini rivolgo il mio appello più accorato: se qualcuno si dovesse presentare a voi facendo il mio nome vi prego di denunciarlo immediatamente, senza indugiare, perché quella persona è un vigliacco e un perdente come lo sono stato io”. Inoltre, ho partecipato ad alcuni convegni organizzati da Nessuno tocchi Caino che si sono tenuti nel carcere di Opera, nei quali non ho mai mancato di sottolineare il mio disprezzo per tutte le mafie. Ora, mi chiedo perché si continui a dire che io sia restio a entrare nel merito dei reati e delle motivazioni che mi hanno indotto a delinquere. Confrontarsi pubblicamente e assumersi tutte le proprie responsabilità significa essere restio a una revisione critica? Valutate voi, cari lettori, quanta sensibilità regni nelle carceri. *Ergastolano detenuto a Opera, associato a Nessuno tocchi Caino La prevalenza della vittima di Vittorio Manes* Il Foglio, 19 agosto 2024 Un credito morale, una nuova identità “politica”: come si è passati dal “populismo penale” al “perbenismo punitivo”. Il processo mediatico, nella gran parte dei casi, rappresenta una sorta di liturgia di socializzazione con la vittima, e quello reale tende a rifletterlo, venendo a perdere così la sua neutralità. Il diritto penale non riconosce nella pena l’unica risposta al reato, né nella punizione l’unica forma di compensazione delle vittime. La pena “giusta”, vista con gli occhi della vittima, non può essere più la pena proporzionata, men che meno quella orientata a rieducazione, bensì la pena commisurata al dolore della vittima. Ma il dolore della vittima, come si sa, è sempre incommensurabile. E come tale non lascia spazio a nessuna forma di pietas. In questa deriva, la condanna diventa un esito scontato, e l’assoluzione un autentico atto di coraggio del giudice sempre rimproverabile come denegata giustizia, come ricorda dolorosamente, tra le tante, la vicenda di Rigopiano. La “vittima” è diventata l’eroe contemporaneo, e ha ormai acquisito un ruolo di assoluto protagonismo sul proscenio della giustizia penale, dentro e fuori dalle aule giudiziarie. Al cospetto di un tema tanto alto e dolente, e così carico di aspettative urgenti e domande inevase, vi è tutta la consapevolezza di toccare un nervo scoperto, un aspetto cruciale dell’idea di giustizia, un problema vertiginoso e irrisolto che vede nella pena una risposta sempre parziale, tardiva e insoddisfacente; e un tema che oscilla oggi più che mai sul crinale del “politicamente scorretto”, esponendo chi si azzarda a parlarne pur solo in prospettiva problematica alla lettera scarlatta dell’impopolarità. Nel “tempo delle vittime”, è molto difficile, del resto, non stare dalla parte delle vittime. Eppure, neanche gli avvocati hanno mai rivendicato questa scomoda posizione, né accettato una simile, assurda contrapposizione, pur consapevoli del “destino di distanziamento” che nel corso del processo separerà imputato e persona offesa: essendo quasi scontato - anche agli occhi del difensore dell’imputato - che la vittima aspiri del tutto comprensibilmente a trovare ristoro, a soddisfare l’urgenza di accertare fatti e responsabilità, e ad appagare la sua impellente e sacrosanta aspettativa di giustizia. Tuttavia, si avverte - ormai da tempo - l’esigenza di segnalare come il sistema della giustizia penale, raccoltosi negli ultimi due secoli attorno all’idea-forza della “magna Charta del reo”, appare sempre più curvato in senso vittimocentrico e sempre più assoggettato all’autoproclamazione della vittima prima e fuori del processo; e vada così perdendo il proprio equilibrio, degenerando progressivamente in una sorta di “profezia che si autoavvera” - fatalmente e inesorabilmente - durante il corso del processo, e colorandosi di aspetti che modificano i princìpi di fondo che guidano - e devono guidare - l’accertamento penale. La deriva si avverte già scrutando l’orizzonte recente delle politiche criminali, e certo non solo nell’esperienza italiana. Nel contesto attuale, un po’ ovunque la vittima ha ormai sublimato i vecchi argomenti dell’”ordine pubblico” e della “difesa sociale” per giustificare, con la sua carica ansiogena ed emotigena, ogni opzione incriminatrice, e catalizzare le più disparate istanze punitive, i più variegati prototipi penali con cui si replica - quasi con un riflesso pavloviano - a ogni irritazione sociale. La vittima, con la sua drammaturgia compassionevole, ha anche una valenza empatica, e stimola nella collettività una naturale spinta alla solidarizzazione, anche perché taluni reati - per la loro dimensione ubiquitaria - implicano una naturale e immediata identificazione con la “vittima potenziale”, quasi un flashforward che avvicina l’osservatore alla “vittima reale”: prendere le sue difese diventa dunque scontato, se non doveroso, e comunque “giusto”, anche perché in quel doloroso ruolo si potrebbe trovare chiunque. Si è così passati dal “populismo penale” al “perbenismo punitivo”: ed è così che ogni giorno vengono forgiate nuove vittime, e queste sono straordinari fattori propulsivi per l’espansione ormai senza limiti dell’intervento punitivo dello stato. Il fenomeno #Metoo, la violenza di genere e il codice rosso - un cantiere perennemente in progress - ne sono la testimonianza forse più tangibile: ma l’opificio vittimocentrico ha ormai prodotto e continua a forgiare prototipi ben più numerosi e variegati. Del resto, è pienamente comprensibile la corsa ad “accaparrarsi” il ruolo di vittima: lo status di vittima conferisce una straordinaria “autorevolezza morale” a chi lo veste, e un ruolo valevole, da solo, a garantire non solo un’aura speciale di soggettività giuridica, ma una vera e propria identità “politica”. Doleo ergo sum. Questo credito morale è immediatamente percepibile, se solo si ripercorrono gli orientamenti giurisprudenziali sul valore probatorio delle dichiarazioni della persona offesa: quello che dovrebbe sempre essere un testis imperfectus, giacché non disinteressato all’esito, appare, in non pochi casi, un testimone inconfutabile, atteso che “la parola della vittima si corrobora da sé”, e certo non solo nei contesti di violenza di genere. Ma sono molti altri gli “effetti di trascinamento” del protagonismo della vittima sul piano processuale: da una posizione di opportuno interpello, meramente “consultivo”, si passa a una interlocuzione vincolante, e di qui a un vero e proprio “diritto di veto”, riconosciuto alla persona offesa nelle diverse fasi e sequenze del processo punitivo, da quella cautelare sino all’esecuzione; dalla titolarità del diritto di querela si passa alla irrevocabilità della stessa, perché dal ruolo di vittima non si torna indietro (basti pensare ai reati in materia sessuale o ancora allo stalking); in definitiva, i binari processuali e le alternative procedimentali si irrigidiscono e sclerotizzano, al cospetto della vittima, in ogni frangente. Ma il primo e più eclatante di questi effetti distorsivi è ben noto: il processo “orientato alla vittima” (victim oriented) ed ormai sempre più “trainato dalla vittima” (victim driven) perde il proprio baricentro, segnato da quella garanzia primordiale che è la presunzione di innocenza: perché riconoscere il ruolo di persona offesa sin dagli esordi delle indagini - e sin dalla più embrionale formulazione dell’accusa - anticipa de facto una valutazione che dovrebbe essere il risultato della ricostruzione processuale, non la sua premessa. Ma questa anticipazione di credito concessa alla (presunta) persona offesa ed alla sua legittimazione, viene erogata iscrivendo, al contempo, una gravosa ipoteca in capo all’imputato, perché se c’è una vittima deve esserci, in qualche modo, anche un colpevole. Il vero salto qualitativo si avverte, però, sul proscenio del processo mediatico, dove la vittima vede autenticamente “sacralizzato” il proprio ruolo, sin da subito e sempre, ovviamente, in assenza di un processo e di una sentenza definitiva. La “sacralizzazione mediatica” della vittima ha evidenti ripercussioni - avvertite o subliminali - sul processo reale, alterando ancor più la microfisica degli equilibri tra le parti, e soprattutto modificando l’angolatura prospettica del giudicante. Si viene a creare un orizzonte di attesa proiettato a veder riconosciute le ragioni della presunta vittima, tanto forte che il giudice non sarà più libero di decidere, in posizione di imparzialità tra le parti, ma nel decidere dovrà, inevitabilmente, “dire da che parte sta”: se sta dalla parte della presunta vittima, ormai celebrata dai media e dall’opinione pubblica che è naturalmente protesa a solidarizzare con la stessa, o dalla parte di un imputato che la vox populi considera già colpevole. In questa deriva, la condanna diventa un esito scontato, e l’assoluzione un autentico atto di coraggio del giudice sempre rimproverabile come denegata giustizia, come ricorda dolorosamente, tra le tante, la vicenda di Rigopiano. Sappiamo bene, del resto, quanta ragione avesse Hobbes nel sostenere che la condanna assomiglia alla giustizia ben più che l’assoluzione; e siamo altrettanto avvertiti del fatto che le parti civili non chiedono giustizia, ma chiedono condanna. Il processo mediatico, nella gran parte dei casi, rappresenta una sorta di liturgia di socializzazione con la vittima, e quello reale tende a rifletterlo, venendo a perdere così la sua neutralità: è così che l’accertamento delle responsabilità e l’identificazione di un colpevole da “obbligazione di mezzi” si trasforma in “obbligazione di risultato”, il cui inadempimento implica di per sé - al giudizio della pubblica opinione - una lacerante, imperdonabile sconfitta. È questo un piano inclinato e pericoloso che oggi si vorrebbe persino ratificare iscrivendo nella Costituzione un esplicito riconoscimento alla tutela della vittima (inserendo nell’art 111 Cost. l’inciso secondo il quale “La Repubblica tutela le vittime e le persone danneggiate dal reato”): una previsione superflua, da un lato, essendo tale istanza di tutela implicita nella stessa potestà punitiva dello stato; e una previsione ambigua, d’altro lato, che può rappresentare il primo, scivoloso passo verso un generalizzato “diritto di ottenere la punizione del colpevole” che andrebbe garantito, appunto, alla vittima. Un definitivo congedo dal modello reocentrico a favore del modello vittimocentrico, e dallo stesso modello liberale del diritto penale, che - come ha messo in luce un recente saggio di Gabriele Fornasari - non riconosce nella pena l’unica risposta al reato, né nella punizione l’unica forma di compensazione delle vittime. La formicolante fucina innescata dal “paradigma vittimario”, inesauribile sul piano delle incriminazioni, e così densa di ricadute sul piano processuale, non è meno prolifica quando si scenda al piano dell’interpretazione dei reati, dove il protagonismo crescente della vittima rappresenta uno straordinario forcipe per letture a estendere il perimetro delle incriminazioni. Alcune sono più visibili e ormai consolidate, come testimonia il passaggio - certo non indolore né esente da criticità - dalla “violenza” al “consenso”, nella lettura dei reati sessuali: non si richiede più la violenza, ma essa è sempre implicita nella mancanza di consenso, pur essendo quest’ultima circostanza tutt’altro che facile da accertare. Altre letture espansive sono forse più paludate, ma non meno cariche di effetti stranianti, pur di garantire, coûte que coûte, maggior impatto alle esigenze di tutela alla vittima: i delitti contro la persona o contro la famiglia offrono innumerevoli esempi di interpretazioni “compassionevoli” volte a estendere analogicamente il reato per offrire maggior protezione alla vittima, alla quale deve dunque inchinarsi anche il principio di legalità dei reati e delle pene. In questa cornice, peraltro, anche la commisurazione della pena - e prima e più in alto, la sua legittimazione - subisce conseguenze di rilievo: la vittima accentua infatti i fondamenti meno razionali del punire. Anzitutto, ne risulta enfatizzata la funzione di prevenzione generale, che spinge verso la previsione di pene “esemplari”: una deriva immediatamente percepibile nella consueta, irrazionale “impennata” delle pene edittali, che rispecchiano sul piano politico-legislativo l’importanza “politica” volta a volta acquisita dalla vittima, ben esemplificata, tra i molti possibili esempi, dalla pena eccezionale e draconiana prevista per l’omicidio stradale. In secondo luogo, l’ascesa della vittima fomenta la riemersione di impulsi squisitamente retributivi, che anelano alla cieca simmetria della “legge del taglione”, riducendo la distanza concettuale tra pena e vendetta, e persino la superano: la pena “giusta”, vista con gli occhi della vittima, non può essere più la pena proporzionata, men che meno quella orientata a rieducazione, bensì la pena commisurata al dolore della vittima. Ma il dolore della vittima, come si sa, è sempre incommensurabile. E come tale non lascia spazio a nessuna forma di pietas, neppure quella genitoriale, come tristemente ha dimostrato la vicenda del colloquio tra il padre di Turetta e il figlio detenuto per l’atroce “femminicidio” commesso. Del resto, neppure la riparazione del danno - che nel paradigma vittimario risulta ormai componente indefettibile della pena - può mai essere tale da compensare e “risarcire” il dolore. Ed è da questa angolatura che si può forse comprendere - pur con tutte le sfide e le criticità che essa implica - la necessaria ricerca e apertura, specie in taluni casi, verso forme di giustizia riparativa: a evitare che il conflitto risulti insanabile, e a evitare soprattutto l’ulteriore degenerazione verso paradigmi vittimari più esasperati, vendicativi e ottusi. Su tutto questo crediamo che sia urgente riflettere: perché se appare scontato - anche a noi - che la vittima sia al centro della domanda di giustizia, una giustizia che mette al centro della scena e del processo la vittima vede profondamente alterati i propri equilibri: rischia di declinarsi sempre più secondo statuti preferenziali di tutela (sul modello del c.d. codice rosso), di riempirsi di istanze irrazionali ed emotive e così di legittimare pene che fuoriescono dai cardini della proporzione, di irrigidirsi e soprattutto di dispiegarsi secondo una inerzia a senso unico, che corre spedita verso la condanna. Un esito obbligato, insomma, dove il “diritto alla giustizia” possa finalmente manifestare la propria effettività riconvertendosi nel “diritto alla punizione”, e dove quella che era una presunta vittima potrà, con una sorta di agnizione postuma ma ampiamente presagita, finalmente essere riconosciuta tale. *Professore ordinario di Diritto penale nell’università di Bologna e direttore della rivista Diritto di difesa - Unione delle Camere penali Criticare un magistrato si può. Anzi, è un dovere prima che un diritto di Claudio Cerasa Il Foglio, 19 agosto 2024 Un corsivo del Foglio, la querela di Piercamillo Davigo che si è sentito diffamato e ora la sentenza di archiviazione che è un piccolo manifesto di libertà. Perché anche un giudice vede nella critica a un magistrato non un’eresia ma un segnale di buon funzionamento del sistema democratico. Sorpresa e doppio wow. Criticare i magistrati non è più un’eresia di stato. Mettere in luce i loro errori, anche con crudezza, non è più un tabù. E utilizzare la libertà di stampa per mettere alcune verità non convenzionali di fronte a un pubblico ministero non è più un atto proibito dalla teocrazia giudiziaria ma è un diritto costituzionale che può e deve essere esercitato da chi svolge una funzione pubblica, anche se questo esercizio comporta l’utilizzo di espressioni dirette, forti, pungenti e persino violente. La storia è questa ed è una storia interessante non solo perché riguarda il nostro giornale. Due anni fa, l’8 febbraio 2022, il Foglio ha pubblicato un corsivo di Luciano Capone. Al centro del corsivo, vi era un ragionamento rivelatosi poi particolarmente centrato: il processo con cui deve fare i conti il magistrato Piercamillo Davigo, processo in cui Davigo è stato da poco condannato in primo grado per rivelazione di segreto d’ufficio, è un processo al centro del quale non vi è il destino di un singolo pm ma vi è il destino del nostro stato di diritto. Se la condotta di Davigo dovesse essere ritenuta lecita, scriveva il nostro Capone, questo vorrebbe dire che un consigliere del Csm potrebbe legittimamente ricevere atti segreti d’indagine da un qualsiasi pm e potrebbe usare queste informazioni riservate, in via informale, per regolare i conti con i nemici fino a condizionare il funzionamento di un organo costituzionale. Nel corso del processo, i legali di Davigo hanno sostenuto più volte che quel che Davigo ha fatto - usare verbali coperti da segreto per denunciare la presunta inerzia della procura di Milano contro la famosa e famigerata loggia massonica chiamata Ungheria, provando a delegittimare al contempo il consigliere del Csm Sebastiano Ardita - lo ha fatto sempre nel rispetto della legge. Sul Foglio ci siamo permessi di notare che il problema è proprio quello: se il comportamento dell’ex pm fosse ritenuto lecito, il Csm diventerebbe una centrale di dossieraggio istituzionalizzato e la rivelazione di segreto sarebbe un reato per tutti tranne che per i pm. Davigo ha scelto di querelarci per questo articolo, ritenendosi diffamato, e due anni dopo un giudice ha scelto di archiviare la sua querela offrendo motivazioni interessanti. Ne è uscito un piccolo manifesto di libertà. Il giudice inizia in modo soft, prendendola da lontano, e dicendo che “la conoscenza da parte della collettività di fatti giudicati di interesse pubblico rappresenta un presupposto necessario per l’esercizio di quella democrazia popolare stabilita dalla Costituzione, in quanto non vi può essere una valida democrazia se il popolo non è adeguatamente informato”. Poi si avvicina alla ciccia: “Il diritto dei giornalisti di comunicare informazioni su questioni di interesse generale è tutelato a condizione che essi agiscano in buona fede, sulla base di fatti esatti, e forniscano informazioni ‘affidabili e precisè nel rispetto dell’etica giornalistica tramite l’esercizio di tale diritto”. Quindi dice che “può accadere che l’esposizione di una notizia leda l’onore o la riservatezza di un soggetto” e che “in tali ipotesi secondo la giurisprudenza può ritenersi sussistente la scriminante in questione, soltanto qualora la notizia diffamante sia vera, pertinente e continente”. E infine spiega perché il diritto di critica ha un perimetro diverso dal diritto di cronaca in quanto, nel primo caso, “la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica”. Il giudice poi entra nel merito della questione e offre altri spunti interessanti. Nell’imputazione, dice, non è esplicitamente contestato a Davigo di aver agito per screditare il consigliere Sebastiano Ardita, ma è ragionevole reputare come questo aspetto sia dedotto dal giornalista dalla lettura dell’atto di costituzione di parte civile del consigliere Ardita, da alcuni episodi contestati nell’imputazione e dall’interrogatorio reso da Davigo. Per quanto riguarda “le considerazioni del giornalista in ordine alle finalità perseguite dal Davigo, opera la scriminante del diritto di critica”. E non solo: “Circa la consegna dei verbali di Amara - scrive il giudice - si è detto che l’imputazione della procura di Brescia attribuisce allo Storari la condotta di consegna degli stessi al Davigo. È discusso tra le parti se una simile consegna sia stata o meno sollecitata dal Davigo. Nell’imputazione che è stata mossa all’odierno querelante si contesta che lo stesso ne entrava in possesso senza specificare se ne abbia sollecitato la consegna. Tuttavia, una simile lettura della vicenda è ragionevolmente giustificabile proprio dalla lettura del verbale di interrogatorio di garanzia a cui si è sottoposto il Davigo, il quale, come dallo stesso dichiarato, aveva bisogno di un supporto alla memoria. Pertanto, era ragionevole credere, così come ha fatto l’autore dell’editoriale, che a un certo punto della conversazione con Storari, il Davigo gli avesse sollecitato l’invio dei file contenenti le dichiarazioni di Amara”. Non solo. Il giudice, come ha fatto il Foglio, nota che “dalla lettura degli atti a disposizione, è plausibile reputare come il Davigo si sia attivato anche per un eccesso di zelo nell’impulso di far sì che si scoprissero tutti i partecipi della loggia Ungheria, che si fossero eventualmente infiltrati nelle istituzioni, in modo tale che, qualora magistrati, fossero anche sanzionati sul piano disciplinare. È, però, del tutto ragionevole credere che una persona possa essere mossa contemporaneamente da più finalità e, nel caso di specie, è plausibile che, come sostenuto dall’editoriale, il Davigo abbia voluto anche sfruttare l’occasione, generata dall’investimento di soggetti posti al vertice delle magistrature e di organi costituzionale (o di rilievo costituzionale), onde mettere l’Ardita in cattiva luce, persona che, ad avviso del querelante, non era più meritevole di fiducia”. Svolta la seconda premessa, il giudice entra nel merito e spiega, con parole chiare, perché un giornalista che mette in luce delle problematiche che riguardano un magistrato, anche con toni aspri, sta solo facendo il suo dovere e sta facendo anche un buon servizio alla democrazia. “La conoscenza da parte della collettività di fatti giudicati di interesse pubblico rappresenta un elemento fondamentale della democrazia - dice ancora il giudice - in quanto presupposto necessario per l’esercizio di quella democrazia popolare stabilita dalla Costituzione è che il popolo sia adeguatamente informato”. E come si fa a capire quali sono i limiti? Ecco qui: “Per valutare la sussistenza di questo connotato dell’informazione bisogna prendere in considerazione molteplici fattori: particolare allarme sociale dei fatti della notizia (ad esempio ipotesi di reato) in ragione della carica negativa che essi esprimono; ambito di rilevanza e attualità della notizia, valutando il contesto istituzionale, economico, sociale, storico e geografico su cui va a incidere; notorietà del querelante; notorietà di altri soggetti coinvolti dalla notizia”. La notorietà, sì. “Sulla notorietà - dice il giudice - va precisato che più la vita di una persona è strettamente connessa a quella del contesto sociale di appartenenza, più l’interesse alla divulgazione della notizia, che la riguarda, è elevato e più è idoneo a prevalere sull’interesse alla riservatezza”. La notizia, dice ancora il giudice citando il nostro articolo, “era di particolare rilevanza sociale, poiché riguardava uno dei magistrati simbolo del pool di ‘Mani pulitè, che ha acquisito notorietà a seguito all’inchiesta di ‘Tangentopoli’. Il querelante è un soggetto noto tra il pubblico, che partecipa a trasmissioni televisive, che rilascia interviste, che esprime le proprie opinioni in materia di giustizia e che, come scritto nell’articolo oggetto di denuncia, è reputato dall’opinione pubblica come ‘un eroe senza macchia e senza paura’. La vicenda di Mani pulite e di Tangentopoli è talmente nota da essere stata persino riportata nell’ambito di una serie tv. Davigo è quindi un personaggio la cui notorietà nazionale è indiscussa così come la sua credibilità in gran parte dell’opinione pubblica. Pertanto, è del tutto legittimo che l’editoriale riporti la notizia delle accuse mossegli dalla Procura presso il tribunale di Brescia. Peraltro, nel corpo dell’articolo l’editorialista pone l’accento sul ‘metodo’ seguito dal querelante per svelare e probabilmente usare le notizie riservate di cui era venuto in possesso, che rendevano l’organo di autogoverno della magistratura, il Csm, una ‘centrale di dossieraggio istituzionalizzato con un incontrollato potere di ricatto e condizionamento su qualunque persona o organismo’”. Il giudice, infine, sembra concordare con noi sul fatto che una storia simile sia un tema cruciale non solo per il futuro del singolo imputato ma anche per il futuro dello stato di diritto. “In sostanza, come chiariva l’autore dell’editoriale, non è in ballo la sorte di Davigo, ma quella delle istituzioni democratiche”. Perché? Semplice: “La notizia coinvolgeva un organo di rilevanza costituzionale come il Csm, nonché il sostituto procuratore di Milano Paolo Storari, il consigliere del Csm Ardita e soggetti, consiglieri del Csm e organi di vertice delle magistrature, nonché il presidente della commissione Antimafia, che avevano ricevuto le confidenze di Davigo sulle inquietanti rivelazioni di Amara. Per quanto qui interessa era una notizia necessariamente da pubblicare e divulgare, onde consentire all’opinione pubblica di capire esattamente il momento storico che stava vivendo la magistratura persino nei suoi organi di vertice, negli organi di autogoverno e nei magistrati simbolo della legalità. Si trattava, peraltro, di una notizia vieppiù necessaria da apprendere, poiché il lettore l’avrebbe potuta confrontare con quella sottesa all’asserito svelamento del segreto da parte del Davigo: da un lato vi era, infatti, un consigliere del Csm che, appresa la notizia dell’esistenza di una loggia massonica insinuata nell’ambito delle istituzioni con i propri membri, reputa di divulgare la stessa ad altri membri del Consiglio e ad altre cariche istituzionali, mentre dall’altro vi era la possibile esistenza di una loggia massonica in grado di incidere sulla vita politica e istituzionale del Paese”. Una notizia necessaria. Prima conclusione: “Pertanto, al di là o meno della liceità della condotta, il lettore, con l’articolo sottoposto alla sua attenzione dal Foglio, avrebbe potuto valutare la condotta del Davigo, vagliando se considerarla come espressione dell’eroe senza macchia e senza paura di Mani pulite, come una sorta di rivalsa nei confronti dell’Ardita o come tentativo di condizionamento del Csm”. Seconda conclusione: “Il problema della continenza è spesso venuto in rilievo nell’ambito della critica politica e giudiziaria. In tali casi, la giurisprudenza ritiene che la critica sia uno strumento che il cittadino ha per contrastare e mettere in discussione i poteri dello stato, essendo un mezzo per attuare la democrazia”. Vale per tutti i poteri dello stato: anche per i magistrati. Ma non basta. Il giudice dice che i magistrati dovrebbero pretendere nei loro confronti più attenzione ancora rispetto a quella che viene riservata ad altri cittadini. “Le condotte nei confronti di un magistrato vanno, però, valutate con un maggiore rigore, atteso che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, tali più intensi limiti trovano spiegazione soprattutto nel fatto che, a differenza di quel che accade per altri soggetti pubblici, il dovere di riservatezza generalmente impedisce ai magistrati presi di mira di reagire agli attacchi loro rivolti”. E infine: “La continenza delle espressioni che hanno prodotto l’effetto di ledere l’altrui reputazione è un concetto che presenta una sua necessaria elasticità ben potendosi ammettere che la durezza della critica e delle definizioni sia direttamente influenzata dalla natura ed essenza dei fatti oggettivi narrati”. E quando un magistrato criticato è un eroe del circo mediatico bisogna anche tenerne conto: “Davigo è persona che partecipa frequentemente a trasmissioni televisive e che rende spesso interviste sui giornali, cosicché è più che verosimile ritenere come sia stato in grado di ribadire più volte la liceità della condotta, replicando così agli articoli asseritamente diffamatori. Di conseguenza non è possibile applicare il medesimo rigore che la giurisprudenza Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) esige per gli altri magistrati che non hanno accesso ai mezzi di informazione”. E dunque: “Le critiche espresse dal giornalista rimangono nell’ambito del tollerabile, perché l’editoriale riguarda un fatto di reato, un soggetto noto tra il pubblico, il fatto investe un’istituzione come il Csm e i giudizi negativi espressi sulla persona del Davigo sono strettamente connessi alle accuse mosse e alle prospettazioni della parte civile Ardita”. La notizia interessante non è che la querela sia stata archiviata ma che anche un magistrato ritenga fondamentale per la salute del nostro stato democratico considerare la critica a un magistrato non come un’eresia di stato ma come un buon funzionamento del nostro sistema democratico. Un dovere, più che un diritto. Veneto. “Sono stata una ragazza ribelle. Il carcere mi rende più umana” di Alda Vanzan Il Gazzettino, 19 agosto 2024 Angela Venezia, avellinese, cresciuta in Puglia, ora dirigente dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto. Di una cosa è convinta: in carcere si espia la pena, ma bisogna anche avere la possibilità di rifarsi una vita. Come? Imparando un lavoro. Panettiere, pasticcere, sarto, addetto alla lavanderia. E se uno, anziché guadagnare mille euro al mese, preferisce prenderne tremila al giorno spacciando droga? “Mi è capitato di sentirmelo dire, la mia risposta è semplice: vorrà dire che ci si rivedrà qui in carcere”. Angela Venezia, 61 anni, campana di Avellino, è dirigente del Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria per il Triveneto, nello specifico direttore dell’Ufficio detenuti e del trattamento. Come è arrivata dall’Irpinia a Padova? “In realtà in Irpinia ci sono stata pochissimo. Mio papà era un distillatore, all’epoca le distillerie erano di proprietà dello Stato, c’era il monopolio. Penso sia stato uno degli ultimi distillatori statali. Gli avevano proposto il Lazio, ma Roma era troppo grande per una persona che veniva da un paese piccolo come Avellino. Così ha scelto la Puglia, Barletta, dove ho studiato fino al liceo classico, poi l’università a Bari, ma nel frattempo ho deciso che non volevo più avere qualcuno che decidesse per me. Sono stata una figlia ribelle”. Ribelle, come? “Ero la prima dei figli e la prima dei nipoti in una famiglia piccolissima, quasi una tribù. Non accettavo le convenzioni, non ho mai fatto niente per dovere ma perché avevo il piacere di fare le cose. Ancora oggi è così. Per i miei genitori non era facile accettarlo. Tra l’altro, prima figlia e prima femmina. Ho fatto da ariete di sfondamento. E mentre facevo l’Università, Giurisprudenza, ho deciso che dovevo lavorare”. Cosa ha fatto? “Tutti i concorsi possibili. Il primo che ho vinto: vigilatrice penitenziaria. Le vigilatrici erano operaie qualificate dello Stato, come gli agenti di custodia. In sostanza, guardie. Avevo 25 anni. Il mio sogno però era la polizia, solo che sono stata scartata per deficit visus: appena tre gradi di miopia, ma niente”. Quindi comincia come guardia. Dove? “Sarà stato il mio cognome? Prima sede Venezia, tre anni al carcere femminile alla Giudecca. L’impatto è stato devastante: io ero la donna dello Stato, le detenute le donne dell’anti-Stato. Non potevi creare amicizia, nessuna relazione che non fosse quella prevista dalla legge. Tra l’altro all’epoca c’erano le suore come nostre “comandanti”, così la conflittualità di noi vigilatrici era doppia: con le detenute e con le suore”. C’è qualcosa che l’ha colpita di quel periodo? “Le nonne. Le persone che venivano ai colloqui con le detenute dovevano essere perquisite e perquisirle per me era la peggiore delle mansioni. Toccare le persone che non avevano commesso nessun reato, persone che però continuavano a credere nella famiglia anche se le loro figlie, nipoti, sorelle avevano commesso un reato. Per me quel compito è stato faticosissimo. Non le capivo, ritenevo che quella loro fiducia fosse mal riposta. Ecco, io questa cosa me la rimprovero ancora”. Perché? “Professionalmente non avrei dovuto esprimere giudizi, dovevo essere lucida, neutra. Però questa colpa mi serve, perché nonostante il mio rigore mi aiuta a essere più umana”. Il caso che umanamente l’ha colpita di più? “Daniele Barillà. Dopo la laurea vinco il concorso da educatore di Area pedagogica e vengo mandata a Bergamo. Il mio credo era il diritto e con Barillà si è infranto. La sua è una storia tristissima, si è trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Ne hanno fatto anche un film, protagonista Giuseppe Giorello. Quando Barillà è arrivato in carcere a Bergamo, dopo diversi anni già di detenzione, aveva i capelli neri. Quando è uscito era brizzolato. Nei colloqui di osservazione arrivava nel mio ufficio carico dei faldoni, continuava a dire: “dottoressa, io sono innocente, non c’entro niente”. Come si poteva avere fiducia di una persona che non ammetteva la sua colpa? Però si vedeva che la sua sofferenza era reale. A un certo punto la dottoressa Lazzaroni, magistrato di sorveglianza che seguiva il carcere di Bergamo, un magistrato illuminato, gli ha dato il permesso. Si sa com’è finita, riconosciuto innocente. Quell’esperienza per me è stata dal punto di vista umano e professionale importantissima, con molta frustrazione ho scoperto che anche i giudici, anche gli operatori sociali sbagliano”. L’ha più sentito? “No, non sento nessuno degli ex detenuti. E se per caso ci incontriamo al supermercato a Bergamo, dove ho la famiglia e dove vivo il fine settimana, sono liberi o meno di salutarmi, liberi di dimenticare il periodo del carcere specie se è stato funzionale al loro recupero”. È vero che nel carcere di Bergamo avevate messo un forno? “Il carcere di Bergamo per me è stato una grande famiglia, ci sono rimasta 17 anni, tutti credevamo nel principio costituzionale del recupero e del reinserimento delle persone, tutti operavamo per lo stesso obiettivo e cioè fare in modo che meno persone possibili rientrassero in carcere. E cosa gli dai per non farli rientrare? I soldi per poter campare. E cioè il lavoro”. Quando arriva a Padova? “Vinco il concorso da dirigente nel 2006, due anni dopo sono a Padova, direttore dell’Ufficio dei detenuti e del trattamento. Il mio compito? Coordinare le attività trattamentali di tutti gli istituti del distretto: 16 carceri in Triveneto di cui 9 in Veneto, 5 in Friuli Venezia Giulia, 2 in Trentino Alto Adige, complessivamente circa 3.800 detenuti”. Sovraffollamento e suicidi, le due emergenze. “Stiamo lavorando tantissimo su entrambi i fronti. Sul sovraffollamento, le direzioni stanno cercando di fare quante più attività trattamentali possibili, sia di natura lavorativa che di istruzione. Perché offrire al detenuto delle opportunità, dei momenti di riflessione, aiuta anche ad intercettare disagi e difficoltà. Sappiamo dei suicidi, che sono l’evento finale; ma quante persone, non lo sapremo mai, abbiamo salvato attraverso le attività, l’impegno, la proposta di azione?”. In galera e buttare via le chiavi. A chi lo dice, cosa risponde? “Che a chiunque di noi potrebbe succedere di avere un figlio, una figlia, un padre, una madre, un fratello, un cugino che commette un reato efferato. E io mi ricordo sempre quelle nonne che dovevo perquisire e che nonostante tutto credevano nella persona che era detenuta. Sia chiaro, non giustifico nessuno e niente. Ma questo lavoro mi ha aiutato tantissimo a perdere quella intransigenza un po’ giovanile e caratteriale. Io sono molto dura con me stessa. L’unica cosa che non sono mai riuscita a controllare è il cibo!”. Espiazione della pena e recupero: ci crede davvero? “Il senso del carcere è il recupero, altrimenti non avrebbe senso. Quando uno ci ricasca e torna dentro, è un po’ un nostro fallimento. Dal quale però bisogna prendere la parte migliore: perché non ce l’ha fatta? in cosa abbiamo sbagliato?”. Sua figlia da piccola capiva che lavoro faceva la mamma? “Fabiana, che adesso ha 30 anni, era terribilmente in difficoltà. Una volta avevo accompagnato lei e le sue amichette alla festa di Carnevale in centro a Bergamo, eravamo in pullman e quando siamo passati davanti al carcere Fabiana ha esclamato: “Guardate, la mia mamma sta in quel carcere lì”. E tutte le signore sul pullman a guardarci con circospezione. Fabiana, le dissi, la tua mamma lavora lì, non sta lì. Però che risate”. Un aggettivo per descrivere suo marito. “I miei amici dicono che è un santo. È un grande, veramente”. Un capo di abbigliamento che non indosserebbe mai. “Perché sono grassa, la minigonna. Ma non solo per quello, anche per principio”. Il regalo più costoso ricevuto? “Ai miei 60 anni mi hanno regalato un viaggio, che però non ho ancora fatto. La Giordania, adesso non è il momento”. Parma. Suicidio in carcere: interventi della Camera Penale e del Garante comunale dei detenuti La Repubblica, 19 agosto 2024 Nel pomeriggio di Ferragosto nel carcere di Parma si è suicidato l’ennesimo detenuto, il terzo nella nostra città e il 67esimo a livello nazionale dall’inizio dell’anno. La perdita di un’altra vita umana segue alla conversione in legge del cosiddetto decreto carceri, alle sconcertanti dichiarazioni del sottosegretario alla giustizia, Del Mastro delle Vedove e all’incomprensibile presa di posizione del consigliere comunale Priamo Bocchi contro la garante comunale per le persone detenute, Prof.ssa Veronica Valenti. Abbiamo l’obbligo, come avvocati e cittadini consapevoli, di ribadire a gran voce che la situazione carceraria in Italia rappresenta la sconfitta dello Stato di diritto. La questione penitenziaria è materia particolarmente complessa: richiede conoscenze tecnico giuridiche a livello nazionale e sovranazionale, una solida formazione democratica, una profonda conoscenza dei diritti umani ma soprattutto un radicato rispetto della dignità della persona umana, che ha carattere assoluto e non negoziabile. Non è accettabile che la gravità del sistema carcere in Italia sia ridotta a becera propaganda politica. Se nelle carceri italiane si suicida un detenuto ogni tre giorni e si registra un aumento dei suicidi degli agenti di polizia penitenziaria è evidente che quanto sinora fatto a livello normativo è totalmente inadeguato rispetto alle emergenze in corso, come del resto già denunciato (anche recentemente) dai sindacati della polizia penitenziaria. Non è possibile in questa sede approfondire il contenuto del cosiddetto decreto carceri (di recente convertito in legge), ma, al di là delle contrapposizioni politiche, possiamo affermare da un punto di vista tecnico che l’aumento delle telefonate ai familiari è irrisorio, nulla è cambiato nella sostanza della liberazione anticipata e le norme sull’aumento degli organici di polizia penitenziaria, educatori e psicologi troveranno forse attuazione, in una previsione fin troppo ottimistica, non prima di un anno e intanto continuerà la tragica conta dei morti affidati alla custodia dello Stato. Cogliamo l’occasione per stigmatizzare le parole pronunciate qualche giorno fa dall’On.le Del Mastro delle Vedove che rivendicava di aver visitato il carcere di Taranto per incontrare gli agenti della polizia penitenziaria e non per inchinarsi “alla Mecca dei detenuti”. È incredibile che l’On. Del Mastro, sottosegretario alla giustizia e titolare della delega del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, non comprenda che le persone private della libertà e ristrette nei nostri istituti (siano esse condannate in via definitiva o in attesa di giudizio e quindi presunti innocenti) sono persone affidate alla responsabilità dello Stato che lui, con frasi di tale inaudita gravità e dopo 67 suicidi, rappresenta. È ancora il momento di mostrare la nostra vicinanza ai detenuti e agli agenti di polizia penitenziaria e di dare voce a chi voce purtroppo non ha. In adesione all’iniziativa “ristretti in agosto” promossa dall’Unione Camere Penali Italiane, il 19 agosto una folta delegazione della Camera Penale di Parma, insieme a esponenti della società civile e della politica locale, farà visita alla struttura carceraria cittadina. Camera Penale di Parma Un’altra tragedia nel carcere di Parma. Un detenuto di origine tunisine, appena trasferito da Ascoli Piceno per motivi di ordine e sicurezza, si è tolto la vita nella giornata di Ferragosto. Ho immediatamente preso contatti con la Direzione dell’Istituto di Via Burla per avere notizie sull’accaduto: i soccorsi, pur immediati, sono stati vani. Ho poi avuto colloqui con gli Assessori al Welfare ed alla Legalità, Ettore Brianti e Francesco De Vanna, ai quali ho riferito le informazioni apprese direttamente dal Carcere. Si tratta del terzo suicidio avvenuto a Parma (il sessantaseiesimo, in Italia) dal mese di gennaio scorso. È davvero drammatico quello che sta accadendo, a Parma come in tutte le carceri italiane. Sembra oramai assolutamente evidente che il nostro sistema carcerario, a causa di condizioni detentive a dir poco critiche, non sia più in grado di assolvere la propria funzione, ingenerando disperazione tra la popolazione dei detenuti e impattando negativamente sul lavoro di chi opera in carcere. Veronica Valenti, Garante comunale dei diritti delle persone privare della libertà personale Torino. Ilaria Salis: “Sostengo le richieste delle detenute. No ai metodi punitivi del governo” di Niccolò Zancan La Stampa, 19 agosto 2024 L’europarlamentare: “Non ho pensato di suicidarmi perché ero aiutata”. Ilaria Salis, sessantasei persone si sono suicidate nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Nel 38% dei casi erano detenuti in attesa di giudizio come lo è stata lei. Ha mai pensato di togliersi la vita quando era in cella a Budapest? “No, non ho mai pensato di ammazzarmi. Ma mi sento di dire che capisco quel genere di disperazione. Capisco che altre persone siano portate a compiere quel gesto estremo, perché il carcere ti induce all’esaurimento. Io ho sempre pensato di andare avanti. Ma ero fortunata perché avevo una rete di solidarietà, questa è la differenza. Quando sei solo, cambia tutto”. Cosa prova di fronte al bollettino dei suicidi? “Sto male. Provo rabbia verso una società che ha come unico paradigma un carcere punitivo e vessatorio. Provo solidarietà per i detenuti”. Come definirebbe il decreto appena varato dal governo? “L’Italia va indietro. Le riforme dovrebbero servire per migliorare le cose, almeno in teoria. E per migliorare il carcere, c’è solo una cosa da fare: renderlo più umano. Ma il decreto rafforza la logica punitiva, in pratica lascia i detenuti nelle condizioni che conosciamo. Nessuno spazio per una giustizia riparativa”. I detenuti nelle carceri italiane sono 61.465, ma i posti regolarmente disponibili sono 46.898. Le detenute del carcere femminile di Torino hanno scritto una lettera in cui chiedono “a coloro che si sono indignati rispetto alle condizioni di detenzione di Ilaria Salis di fare altrettanto per tutti quelli che sono ristretti in Italia”. Cosa si sente di rispondere? “Quelle ragazze, quelle donne, hanno assolutamente ragione. Hanno tutta la mia solidarietà. Ho letto che sono pronte a intraprendere uno sciopero della fame, cioè a mettere in atto una forma di protesta estrema. Che mette a rischio la salute e il corpo, l’unica cosa che resta a un detenuto. Hanno tutta la mia solidarietà perché il sovraffollamento sta raggiungendo livelli estremi. A Milano siamo al duecento per cento. Voglio rilanciare il loro appello. Sono donne coraggiose. Non c’è più tempo da perdere. O si interviene adesso o la vita di altri carcerati è a rischio”. Perdoni la semplificazione, ma cosa si può fare per quelle detenute in attesa di giudizio che non hanno un padre pronto a combattere per la loro libertà come è successo a lei? “A questo deve servire la politica. A non lasciarle sole. Il sistema carcerario andrebbe riformato alla radice. Nel concreto, io mi sento di appoggiare le proposte dell’associazione Antigone”. Ad esempio? “Non possono stare in carcere donne in gravidanza, non possono starci i figli delle detenute. Bisogna cambiare totalmente. Servono più giorni di libertà anticipata. Più telefonate. Più umanità. Bisogna tornare alle celle aperte, agli spazi condivisi. Bisogna favorire la presenza di educatori e mediatori culturali”. Tutto questo il governo lo chiama “colpo di spugna”. Cosa risponde? “Loro rivendicano questa logica punitiva. Io penso che serva una giustizia riparativa. Un fatto è certo: il carcere così come è non rieduca e non favorisce il reinserimento nella società”. La nuova proposta del ministro Nordio per svuotare le carceri è mandare ai domiciliari i carcerati con un anno di pena residua. Cosa ne pensa? “È il minimo. Serve molto di più”. Come si vede tutto questo dal Parlamento Europeo? “Poco e male. Purtroppo la situazione dei detenuti è lasciata in secondo piano. E un tema che si tende a dimenticare. Quindi bisogna lottare per portarlo alla luce”. Qual è il ricordo della sua detenzione che torna più spesso a tormentarla? “L’angoscia per quel processo farsa, in cui per molto tempo non ho avuto neppure accesso ai documenti. Era un processo che sembrava avere la sentenza già scritta. Mi sembrava di essere davanti al tribunale dell’inquisizione. Avevo paura di non uscire mai più da quel carcere”. Lei e suo padre ricevete ancora minacce? “Cerco di controllare i social il meno possibile. Ma sì, succede ancora”. Lei l’ha conosciuto: il carcere cos’è? “È il posto della solitudine estrema. Voglio esprimere ancora tutta la mia solidarietà alle ragazze detenute a Torino. La loro battaglia è la mia. Ho letto che sono molto solidali e mi sembra una cosa davvero importante. La solidarietà e l’unione, oltre a combattere la solitudine a cui il carcere costringe, fanno la forza nella battaglia per la conquista dei diritti”. Torino. Ha i domiciliari ma resta in cella, la protesta dell’avvocato: “Tribunale chiuso” di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 19 agosto 2024 Il Tribunale di Sorveglianza è sotto organico e le pratiche per le misure alternative restano “appese”. Come quella di Luca, difeso dall’avvocato Basile, oggi in carcere nonostante sia idoneo per finire la sua pena a casa. Luca è in carcere mentre potrebbe essere agli arresti domiciliari. “Il 12 luglio ho presentato l’istanza. Il mio assistito è idoneo alla detenzione domiciliare. Il carcere ha inviato la relazione e il luogo dove andrebbe a stare è già stato esaminato da chi di dovere” spiega Maurizio Basile, avvocato penalista e vicepresidente della Camera Penale del Piemonte occidentale e della Valle d’Aosta. Secondo le leggi italiane, i magistrati hanno 30 giorni per trasferire, dalla data di istanza, un detenuto idoneo per i domiciliari. “Mai il tutto avviene nei termini. Ma ad agosto è anche peggio: venerdì 16 io mi sono presentato al Tribunale di Sorveglianza proprio per chiedere lumi sulla situazione di Luca. Non c’erano magistrati, né cancellieri. Alcune strutture non possono chiudere, come le caserme e i commissariati non si fermano ad agosto”. L’avvocato è in contatto con il suo assistito e lo sente tutti i giorni: Luca è rassegnato. Ha scontato due anni ai domiciliari e poi a processo concluso è stato portato alle Vallette. Adesso rientra tra coloro che, con il decreto Alfano, possono usufruire delle misure alternative in quanto la pena che resta è inferiore ai 18 mesi. “Luca è uno dei tanti, ovviamente. Non ho un numero esatto di quanti detenuti siano nella sua condizione, sicuramente ce ne sono diversi. C’è una situazione problematica per quanto riguarda il Tribunale di Sorveglianza a Torino. Lentezza nelle risposte e un organico carente. E siamo in un momento dove l’emergenza carceraria è sotto gli occhi di tutti. I magistrati di sorveglianza sono essenziali: a loro ci si rivolge per chiedere permessi premi e pene alternative”. Basile alle Vallette c’è stato pochi giorni fa: “Detenuti entrano ma non escono. C’è da considerare che tra i reati di natura ostativa troviamo la rapina: uno dei più diffusi al momento”. Un reato ostativo è quello che prevede lo sconto della pena in carcere senza la possibilità di misure alternative. Come l’assassinio, il sequestro di persona, la violenza sessuale e i reati di mafia. “Inutile negare che il sovraffollamento delle carceri sia un fenomeno legato a quello della migrazione. Negli anni 90 i penitenziari torinesi erano colmi di uomini del sud, ora lo sono di marocchini. Gli stranieri dovrebbero potere scontare la pena nel loro paese: gioverebbe a tutti, dalle strutture penitenziarie al condannato stesso che tornando nel luogo di origine gode di una rete sociale di cui qui è sprovvisto. E se fuori non hai nessuno, niente domiciliari e nessuna messa alla prova”. Raggiunto al telefono, Marco Viglino, magistrato e presidente del Tribunale di Sorveglianza, è ancora fuori città per le legittime ferie: “Abbiamo dei turni, qualcuno c’è sempre. È strano il legale abbia trovato il Tribunale di Sorveglianza vuoto: ma io non ero lì, non ero proprio in Italia e al mio rientro verificherò. Quello che è sicuro è che siamo sotto organico rispetto alla mole di lavoro e che i ritardi nei procedimenti sono all’ordine del giorno, sempre. Figuriamoci in agosto”. Bari. Disordini nel carcere, il viceministro Sisto: “Problemi con un detenuto psichiatrico” di Isabella Maselli Gazzetta del Mezzogiorno, 19 agosto 2024 “Nessuno deve minimizzare, ma non bisogna strumentalizzare quello che è successo attribuendolo al presunto mancato funzionamento dei presidi. “Ciò che è accaduto nel carcere di Bari non è legato a problemi di sovraffollamento o sicurezza e non ha nulla a che vedere con il decreto carceri. Tutto è nato dalla presenza di un detenuto con problemi psichiatrici che avrebbe dovuto essere collocato altrove. Stiamo provvedendo con l’incremento di altri 700 posti Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) in Italia proprio per poter ospitare questi detenuti problematici”. Queste le dichiarazioni del viceministro FI alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto. “Nessuno deve minimizzare, ma non bisogna strumentalizzare quello che è successo attribuendolo al presunto mancato funzionamento dei presidi che il governo sta apprestando per risolvere il problema carcerario. Ho parlato direttamente con il capo del Dap e con la direttrice dell’istituto e non mi sembra ci sia nulla che lasci pensare a carenze di strutture o di attenzione da parte del personale, intervenuto per ripristinare la situazione di normalità”. E conclude annunciando la visita nel carcere a Bari, il 23 agosto, nell’ambito dell’iniziativa ‘Estate in Carcerè di Forza Italia: “Sia chiaro: il decreto Carceri non chiude la partita, anzi, è un primo passo. È necessario, ed è in corso, un monitoraggio costante e continuo. Noi abbiamo l’obbligo per Costituzione non soltanto di punire, ma anche di fare in modo che chi entra in carcere ne possa uscire migliore. L’attenzione alla rieducazione dei detenuti ed al welfare della polizia penitenziaria è un work in progress continuo, su cui da parte del governo, ribadisco, c’è la massima attenzione”. Bari. Caiazza: “È la disfatta dello Stato. Rivolte e suicidi destinati ad aumentare” di Ciriaco M. Viggiano L’Edicola del Sud, 19 agosto 2024 “La vicenda di Bari non sorprende affatto. Anzi, sono certo che non si tratterà dell’unico episodio, viste le condizioni in cui vivono i detenuti e le misure recentemente varate dal governo Meloni”: ne è convinto Giandomenico Caiazza, avvocato tra i più affermati in Italia e per lungo tempo presidente dell’Unione delle Camere penali (Ucpi). Avvocato, che cosa pensa dei fatti di Bari? “Faccio una premessa: nessun atto di violenza o sopraffazione può essere accettato. Detto ciò, certi episodi drammatici sono la spia di una situazione esplosiva. Eppure qualche esponente del governo Meloni minimizza e si abbandona a dichiarazioni irresponsabili. Il sospetto è che manchi una totale comprensione della realtà”. E qual è la realtà? “La realtà è fatta di dieci o 12 persone ammassate in celle che ne potrebbero contenere quattro con temperature che, al momento, sfiorano o addirittura superano i 40 gradi. Quelle dei detenuti sono condizioni di vita intollerabili e lesive della dignità umana, nelle quali può succedere qualsiasi cosa. Ecco perché episodi violenti come quello di Bari non sorprendono. Anzi, se ne verificheranno altri, come c’è da aspettarsi che anche i suicidi in cella aumenteranno”. Colpa del governo Meloni? “La situazione delle carceri è la Caporetto dello Stato italiano. Ma questa disfatta ha molti padri, quindi non solo il governo Meloni. Di sicuro l’attuale esecutivo sembra aver firmato una cambiale con un certo elettorato. E questa cambiale impone parole d’ordine come “niente svuota-carceri” o una concezione della certezza della pena tutta orientata verso il carcere”. Quindi le misure recentemente varate dal governo Meloni per arginare il sovraffollamento sono insufficienti? “A dir poco. Direi che sono provocatorie. Secondo il ministro Nordio, gli accordi volti a far sì che gli stranieri scontino la pena nel Paese di origine consentiranno di abbattere il numero dei detenuti di 5-10mila unità. Ma il ministro sa che significa identificare uno straniero, stipulare un accordo col suo Stato di provenienza e fare in modo che quest’ultimo gli faccia scontare la pena? Ancora, il ministro parla del trasferimento dei tossicodipendenti dalle carceri alle comunità. Ma sa che queste ultime sono da tempo al collasso? Certi annunci possono convincere chi non conosce la realtà del carcere, non altri. Non è serio dire certe cose”. Lei ha mai visitato il carcere di Bari? “Con Ucpi e Radicali, oltre che per motivi professionali, ho visitato decine e decine di carceri. Inclusa la casa circondariale di Bari”. E che ricordo ne conserva? “Ciò che accomuna tutte le carceri è l’odore nauseabondo che si percepisce al loro interno. E poi vedo ancora le persone ammassate, le brandine accatastate, i bagni a vista. Soprattutto, però, ricordo il senso di angoscia e di abbandono dei detenuti”. Una riflessione la meritano le Rems, visto che la rivolta di Bari ha avuto tra i protagonisti un paziente psichiatrico… “Le Rems dimostrano come, in materia di detenzione, non ci sia una sola cosa dello Stato che funzioni. Perciò parlo di Caporetto dello Stato”. Come se ne esce? “La proposta Giachetti-Bernardini sulla liberazione anticipata mi sembra ragionevole. Consiste nell’aumentare i giorni di premio per i detenuti, in maniera tale da incrementare le scarcerazioni. Non sarebbe un meccanismo automatico, ma subordinato alla valutazione da parte del giudice e alla valorizzazione del comportamento positivo del detenuto. In questo modo, 10mila persone alle quali restano da scontare pochi mesi di reclusione potrebbero davvero abbandonare le celle”. Bari. “Bastano quattro detenuti violenti per paralizzare un carcere” di Massimo Malpica Il Giornale, 19 agosto 2024 Il sindacato della Polizia penitenziaria dopo l’ultima rivolta a Bari: “Un collega si è offerto come ostaggio”. Sovraffollamento, certo. Ma è la violenza l’altro grande tema da affrontare e risolvere nelle carceri italiane. Due sere fa la rivolta nel carcere di Bari: un agente della penitenziaria preso a testate, un infermiere sequestrato. Nelle stesse ore e poi ieri mattina un bis a Regina Coeli, a Roma. Il tutto a coronare un’estate segnata da rivolte, incidenti e proteste. “L’infermiere barese”, rivela al Giornale il segretario regionale pugliese, e responsabile nazionale del Sappe, Federico Pilagatti, “è stato fatto uscire dal reparto solo grazie al coraggio di un collega, un sovrintendente che si è offerto per uno scambio di ostaggi”. Eppure a innescare tutto è stata una minoranza. “A Bari solo quattro detenuti hanno provocato i disordini”, racconta al Giornale Gennarino De Fazio, segretario nazionale di Uilpa penitenziaria. “Ma a differenza di quanto dichiarano all’Ansa fonti squalificate, rigorosamente anonime, del carcere prosegue De Fazio - questo non ridimensiona la questione, anzi: vuol dire che bastano 4 detenuti a mettere a soqquadro non solo il carcere ma tutta la regione”. Ancora De Fazio racconta del lancio di bombolette di gas da campeggio, incendiate, contro gli agenti, due sere fa a Regina Coeli, nella capitale. Per poi concedere il bis, ieri, “con i detenuti armati di bastoni e armati di armi rudimentali nuovamente in rivolta”, anche se per fortuna “dopo due ore di trattative è tutto rientrato”. “Paghiamo il prezzo del sovraffollamento, il dazio per essere in forte sotto organico”, sospira il sindacalista Uilpa, puntando il dito contro la “disorganizzazione complessiva dell’amministrazione penitenziaria”. Ma il segnale arrivato da Bari allarma come detto anche Pilagatti, che pone l’enfasi sul problema della violenza nelle carceri che, a suo dire “in questo momento sono ormai in mano ai detenuti, tanto è vero che in qualsiasi carcere d’Italia e a qualsiasi ora, basta che 2, 3 o 4 detenuti facciano un po’ di casino per mandare la struttura in crisi, come è successo a Bari due sere fa”. “L’altra sera spiega - a Bari c’erano 14 persone al lavoro in tutto, quindi non più di 7-8 agenti all’interno delle sezioni detentive, a fronte di quattrocento detenuti. Così è ovvio che bastano due detenuti a scatenare il caos”. Pilagatti racconta come casi simili siano quasi all’ordine del giorno: “I detenuti coinvolti avevano già una serie di precedenti per aver creato disordini e disagi in altri penitenziari, sempre in Puglia. Uno, a Foggia, aveva mandato un altro agente in ospedale, un altro, proveniente da Lecce o da Taranto, idem. Un terzo, il boss del gruppo, è un detenuto con problemi psichiatrici, e in virtù di questo aveva mandato negli ultimi 45 giorni tre poliziotti penitenziari in ospedale, sempre a Bari, senza nemmeno beccarsi nemmeno un procedimento disciplinare, ma anzi vedendosi assegnare un programma di ergoterapia”. Insomma, una situazione complicata e di costante tensione. “Basterebbe applicare le leggi che ci sono come deterrente, dall’arresto in flagranza al carcere duro previsto dal 14 bis, oltre a trasferire fuori regione i violenti recidivi in sezioni apposite”, sospira Pilagatti, che conclude: “Ma i quattro dell’altra sera sono finiti tutti in sezioni ordinarie e nella stessa regione”. Vercelli. La dura estate del carcere (sovraffollato), tra proteste, aggressioni e necessità di lavori di Andrea Zanello La Stampa, 19 agosto 2024 I numeri e le criticità del penitenziario e il lavoro del personale. Un’aggressione a diversi agenti di polizia penitenziaria ad opera di un detenuto: erano intervenuti per disarmarlo e impedirgli di ferirsi con lame rudimentali. L’uomo si era ubriacato ricavando l’alcol in cella dalla macerazione della frutta. Poi una protesta che ha visto alcuni carcerati rifiutarsi di rientrare in cella. È la cronaca dell’ultima settimana all’interno del carcere di Vercelli. I sindacati di categoria lanciano ciclicamente appelli ed allarmi invocando risorse dall’alto a salvaguardia del personale di polizia penitenziaria che si ritrova a lavorare sotto organico. Una situazione resa ancora più difficile, in questa estate torrida, in una struttura che ha bisogno di interventi. Un intero piano è attualmente oggetto di lavori ma l’edificio ha diverse criticità. A partire da numerosi infiltrazioni, acuite nelle scorse settimane da una bomba d’acqua che ha colpito la zona del carcere provocando l’allagamento di un reparto. La pioggia caduta all’interno delle celle aveva animato un’altra protesta da parte della popolazione carceraria. In totale attualmente la struttura di Billiemme ospita 264 detenuti a fronte di una capienza di 351 unità, anche grazie a trasferimenti avvenuti ultimamente che hanno portato i numeri a non definire il carcere sovraffollato come invece spesso era fino a pochi mesi fa. A Vercelli la maggior parte dei detenuti è carcerata per reati legati alla droga: Marocco, Tunisia, Albania, Senegal e Algeria sono le nazionalità più presenti tra 113 stranieri carcerati. L’età media dei detenuti comuni è di 35 anni. “Il carcere di Vercelli - aveva spiegato Pietro Oddo, garante dei detenuti della Città di Vercelli - ha un sovraffollamento del 150%”, negli scorsi mesi dopo aver organizzato insieme alla Camera Penale di Vercelli un paio di manifestazioni per raccontare la situazione del carcere cittadino e tenere alta la tensione sull’emergenza suicidi. Tutto questo a fronte di un personale sotto organico, nonostante le ultime assegnazioni ministeriali: a Vercelli sarebbero previsti 186 agenti di polizia penitenziaria ma ne lavorano 164, dei 45 tra ispettori e sovrintendenti previsti ne sono in servizio 11. Sicuramente meglio l’area educatori: i 4 posti assegnati vedono tutti i lavoratori in servizio full time. “Abbiamo percepito un grande lavoro di tutto il personale del carcere vercellese - ha detto Filippo Blengino, tesoriere dei Radicali che ha visitato sabato pomeriggio il carcere di Billiemme all’interno di un tour per tutta Italia all’interno dei penitenziari per verificarne le condizioni -. Penso che sia anche merito loro se a Vercelli non si sono registrati suicidi”. Fino allo scorso luglio ne erano stati sventati 3, nel 2022 i tentativi erano stati 4, l’anno scorso si era arrivati a 7. I rischi però, secondo il tesoriere dei radicali, sono alti dopo quanto ha verificato. Oltre a 60 detenuti tossicodipendenti, 14 sottoposti a terapia metadonica, ci sono 100 pazienti psichiatrici. “Sono presenti moltissime persone con disturbi psichiatrici: 30 detenuti a settimana sono sotto osservazione per il rischio suicidio. Dovrebbero stare altrove. Nel carcere di Vercelli su 264 detenuti ben 168 sono sottoposti a farmacologia per disturbo psichiatrico: è una cifra esorbitante. Anche qui manca la capacità di insistere su iniziative per riempire la giornata delle persone. La gente sta tutto il giorno a letto a fissare il vuoto: questo aumenta il rischio di patologie psichiatriche”. Della popolazione carceraria vercellese, 131 detenuti lavorano (120 come dipendenti dell’amministrazione), altri 39 hanno intrapreso un percorso di studi, dai corsi di alfabetizzazione a quelli universitari. Udine. Un frigo per ogni cella, risultato doppiato. E ora già si pensa a biblioteca e palestra Messaggero Veneto, 19 agosto 2024 Oltre cento persone hanno aderito alla raccolta di fondi. I promotori: “Significa che abbiamo seminato bene”. La società civile di Udine ha offerto una risposta straordinaria alle difficoltà della vita senza speranza dei detenuti e di fronte al mordere del sovraffollamento nel carcere di Via Spalato ha raccolto il nostro appello per un obiettivo concreto, quello di dotare ogni cella di un frigorifero. L’amministrazione penitenziaria installa in ogni camera un televisore (forse per sedare o distrarre) ma non uno strumento che garantisca migliori condizioni e una quotidianità simile a quella della vita precedente. L’adesione di oltre cento persone in pochi giorni è andata oltre ogni aspettativa. Ringraziamo tutte e tutti coloro che hanno contribuito con generosità e secondo le proprie disponibilità. Molte e molti hanno preferito l’anonimato e questo rende impossibile comunicare tutti i nomi. Alcune associazioni esplicitamente hanno dato un rilevante contributo, citiamo OIKOS e l’associazione l’Ortica. Possiamo dire che la soddisfazione maggiore è quella di avere trovato il sostegno, tra le donatrici e i donatori, di persone al di fuori della nostra rete. Questo vuol dire che in questi anni abbiamo seminato bene e che i convegni, l’invenzione del calendario civile, il progetto socializzato di ristrutturazione dell’Istituto, il digiuno a staffetta per togliere il carcere dal cono d’ombra e dare dignità al luogo di privazione della libertà, hanno contribuito a creare una comunità dentro e fuori. Alla conclusione della campagna, segnata da questo successo straordinario, ci è pervenuta una donazione consistente dalla ditta Pinosa Srl che ci consente di immaginare altre azioni di sostegno ai detenuti e alla socializzazione. Il 14 agosto sono stati consegnati 20 frigoriferi e la prossima settimana saranno consegnati gli altri 18 dopo una verifica delle necessità reali. Abbiamo deciso di diffondere la foto dell’arrivo degli elettrodomestici. Ora si pone un problema che intendiamo socializzare. La raccolta fondi è andata oltre ogni più rosea aspettativa, doppiando in una settimana l’obbiettivo: abbiamo raccolto complessivamente 10.549,48 euro. Il venditore, la SME, prendendo atto dello scopo dell’acquisto ci ha offerto un prezzo inferiore a quello iniziale. Ora abbiamo un fondo residuo che dobbiamo destinare. Che fare? Dai detenuti viene la richiesta di acquisto di un attrezzo per la palestra. Nei prossimi mesi sarà disponibile il polo culturale, formativo, di laboratori e la nuova scuola. Un punto di riferimento sarà offerto dalla Biblioteca, uno spazio luminoso e ricco di potenzialità. Abbiamo chiesto all’Arch. La Varra di disegnare il luogo, dalle scaffalature, ai tavoli di lettura e scrittura, alle luci. Una ipotesi potrebbe essere quella di acquistare il legno per far costruire ai detenuti con l’aiuto di associazioni e cooperative la libreria. Vi possono essere altre idee e chiediamo di presentarci proposte e suggestioni. La nostra intenzione è di coinvolgere i detenuti e ascoltare le loro richieste e organizzare intorno alla metà di settembre un incontro con le associazioni promotrici e con questa comunità per decidere insieme. Grazie ancora. Garante dei diritti dei detenuti di Udine, Associazione di volontariato Icaro, la Società della Ragione Migranti. 19enne algerino morto nel Cpr: una raccolta fondi per far rientrare a casa la salma di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2024 Le associazioni: “Quel centro va chiuso”. “Abbiamo bisogno di circa tre mila euro per far rientrare a casa la salma di Belmaan Oussama, il 19enne algerino morto per cause ancora da chiarire nel Cpr di Palazzo San Gervasio”. A lanciare questo appello è il forum dell’immigrazione della Basilicata che di fronte alla tragedia accaduta nei giorni scorsi nel centro di permanenza per il rimpatrio in provincia di Potenza, non è rimasto con le braccia conserte. La morte del 19enne ha fatto anche scoppiare una vera e propria rivolta delle persone rinchiuse, sedata solo dopo alcune ore dalla Polizia. “Siamo in contatto con la famiglia di Belmaan Oussama con la quale stiamo adoperandoci per effettuare - spiega a ilfattoquotidiano.it Umberto Sessa, presidente della cooperativa Iskra che ha promosso la campagna con i colleghi delle coop Adan, Filef, Filocontinuo insieme a Cestrim, Human Flowers, le Rose di Atacama e l’Osservatorio migranti - gli adempimenti necessari per riportare il corpo del ragazzo nel suo Paese d’origine. Si è fatta viva anche la comunità islamica che vuol partecipare a questa nostra iniziativa”. Il comitato ha già raccolto oltre due mila euro ed è pronto ad organizzare con l’imam anche una veglia ecumenica. “La vicenda - dice Sessa - ci ha lasciato sgomenti e ha sollevato nuovamente perplessità sulla detenzione di persone migranti per questioni amministrative e sull’attuale modello detentivo dei Cpr. Il centro va chiuso, e? un modello da superare. Oltre a chiedere di fare chiarezza sui fatti recenti si ritiene che siano inaccettabili le condizioni di permanenza e i rischi ai quali vengono esposti i detenuti trattenuti per detenzioni amministrative e gli operatori delle strutture. La situazione resta esplosiva: è tempo di mettere in discussione l’esistenza stessa dei Cpr che, come da tempo si chiede, vanno chiusi in quanto non garantiscono il rispetto dei diritti umani e condizioni dignitose di permanenza”. Sulla vicenda sono intervenuti anche alcuni parlamentari e consiglieri regionali di Pd, Avs e M5s, avvocati, mediatori, medici, infermieri, rappresentanti di Arci e Cgil che nei giorni scorsi hanno svolto una “visita ispettiva” a Palazzo San Gervasio denunciando che ad uno dei parlamentari sono stati impediti “l’accesso e l’acquisizione di alcuni documenti”. Ora si attende l’esito dell’autopsia, la Procura non esclude alcuna fattispecie di reato così come un atto autolesionistico. “I Cpr - spiega il Foum - sono frutto di una politica migratoria che guarda esclusivamente a operazioni di controllo e contenimento, che ‘fabbrica’ le emergenze e la paura, senza nessuna azione da parte del Governo volta alla gestione del fenomeno migratorio, senza considerare i diritti e l’urgenza di guardare alle persone che arrivano come nuovi europei e pezzi già esistenti della nostra società e quindi come titolari di diritti e non come stranieri”. La fede e il braccio della morte Usa di Papa Francesco Il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2024 Anche il più turpe dei nostri peccati non deturpa agli occhi di Dio la nostra identità: restiamo suoi figli, da lui amati, da lui custoditi e considerati preziosi. Il Vangelo è l’incontro con una Persona viva che cambia la vita: Gesù è capace di rivoluzionare i nostri progetti, le nostre aspirazioni e le nostre prospettive. Conoscere Lui vuol dire riempire di significato la nostra esistenza perché il Signore ci offre la gioia che non passa. Perché è la gioia stessa di Dio. La vicenda umana di Dale Recinella, che ho incontrato a un’udienza, ho conosciuto meglio attraverso gli articoli da lui scritti negli anni per L’Osservatore Romano e ora mediante questo libro che tocca il cuore, è una conferma di quanto detto: solo così si può spiegare come sia stato possibile che un uomo, con in testa ben altri traguardi da raggiungere nel proprio futuro, sia diventato il cappellano, da cristiano laico, marito e padre, dei condannati alla pena capitale. Un compito difficilissimo, rischioso e arduo da praticare, perché tocca con mano il male in tutte le sue dimensioni: il male compiuto verso le vittime, e che non si può riparare; il male che il condannato sta vivendo, sapendosi destinato a morte certa; il male che, con la pratica della pena capitale, viene instillato nella società. Sì, come ho più volte ribadito, la pena di morte non è in alcun modo la soluzione di fronte alla violenza che può colpire persone innocenti. Le esecuzioni capitali, lungi dal fare giustizia, alimentano un senso di vendetta che si trasforma in un veleno pericoloso per il corpo delle nostre società civili. Gli Stati dovrebbero preoccuparsi di permettere ai detenuti la possibilità di cambiare realmente vita, piuttosto che investire denaro e risorse nel sopprimerli, come fossero esseri umani non più degni di vivere e di cui disfarsi. Nel suo romanzo L’idiota Fëdor Dostoevskij sintetizza così, in maniera impeccabile, l’insostenibilità logica e morale della pena di morte, parlando di un condannato alla pena capitale: “È una violazione dell’anima umana, niente altro! È detto: ‘Non ucciderè, e invece, perché lui ha ucciso, altri uccidono lui. No, è una cosa che non dovrebbe esserci”. Proprio il Giubileo dovrebbe impegnare tutti i credenti per chiedere con voce univoca l’abolizione della pena di morte, pratica che, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, “è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona!” (n. 2267). Inoltre, l’azione di Dale Recinella, senza dimenticare l’importante apporto di sua moglie Susan come traspare dal libro, è un grande dono per la Chiesa e per la società degli Stati Uniti, dove Dale vive e opera. Il suo impegno come cappellano laico, proprio in un posto davvero disumano come il braccio della morte, è testimonianza viva e appassionata alla scuola della misericordia infinita di Dio. Come il Giubileo straordinario della Misericordia ci ha insegnato, non dobbiamo mai pensare che possano esistere un nostro peccato, un nostro sbaglio o una nostra azione che ci allontanino definitivamente dal Signore. Il suo cuore è già stato crocifisso per noi. E Dio può solo perdonarci. Certo, questa infinita misericordia divina può anche scandalizzare, come scandalizzava tante persone al tempo di Gesù, quando il Figlio di Dio mangiava con i peccatori e le prostitute. Lo stesso fratello Dale deve far fronte a critiche, rimostranze e rifiuti per il suo impegno spirituale accanto ai condannati. Ma non è forse vero che Gesù ha accolto nel suo abbraccio un ladrone condannato a morte? Ebbene, Dale Recinella ha davvero capito e testimonia con la sua vita, ogni volta che supera la porta di una prigione, in particolare quella che lui chiama “la casa della morte”, che l’amore di Dio è senza confini e senza misura. E che anche il più turpe dei nostri peccati non deturpa agli occhi di Dio la nostra identità: restiamo suoi figli, da lui amati, da lui custoditi e considerati preziosi. A Dale Recinella vorrei, quindi, dire un grazie sincero e commosso: perché la sua azione di cappellano nel braccio della morte è una tenace e appassionata adesione alla realtà più intima del Vangelo di Gesù, che è la misericordia di Dio, il suo amore gratuito e indefesso per ogni persona, anche per coloro che hanno sbagliato. E che proprio da uno sguardo d’amore, come quello di Cristo sulla croce, possono trovare un senso nuovo al loro vivere e, anche, al loro morire. “Salvate le ragazze che lottano per l’Iran, in cella moriranno” di Shirin Ebadi e Taghi Rahmani* La Stampa, 19 agosto 2024 Le prigioniere politiche iraniane stanno subendo una repressione brutale nella sezione femminile del carcere di Evin. Come attiviste e attivisti per i diritti umani, siamo solidali con le donne iraniane e chiediamo un’indagine internazionale indipendente. Settanta donne di idee, affiliazioni e generazioni diverse sono attualmente prigioniere politiche nella più famigerata delle carceri iraniane. Vi si trovano ingiustamente, solo per aver lottato per la libertà e per i diritti umani in Iran. Da lì, ci hanno raccontato che il 6 agosto le forze di sicurezza e le guardie penitenziarie hanno fatto irruzione nella loro sezione con una violenza brutale. Secondo le informazioni ricevute, verificate e confermate da diversi organi di stampa indipendenti, numerose prigioniere politiche sono state picchiate dalle guardie penitenziarie e dagli agenti di sicurezza perché protestavano per l’impiccagione di Reza (Gholamreza) Rasaei, avvenuta quella mattina. Le prigioniere avevano già manifestato in modo analogo, a volte di loro iniziativa e a volte per contribuire ad altre mobilitazioni, per chiedere l’annullamento delle condanne a morte della loro compagna di prigionia Pakhshan Azizi - una giornalista iraniana di origini curde - e di altre tre donne: l’attivista per i diritti del lavoro Sharifeh Mohammadi, l’attivista per i diritti delle donne Varisheh Moradi e Nassim Gholam Simiari. A causa dell’aggressione e delle gravi ferite inflitte, numerose prigioniere hanno perso conoscenza e altre sono state steccate dopo un esame sommario da parte del medico del carcere, senza ricevere cure mediche adeguate. Nel contesto dell’aumento della repressione interna contro attiviste e attivisti per i diritti umani e contro dissidenti politici, esprimiamo allarme per l’aumento delle esecuzioni che hanno raggiunto un drammatico picco il 7 agosto, con 29 esecuzioni in una sola giornata, 26 delle quali collettivamente nella prigione Gesel Hasar della città di Karaj. Lontano dagli sguardi dell’opinione pubblica e mentre l’attenzione della stampa si concentra sulle crescenti tensioni in Medio Oriente, la Repubblica islamica iraniana continua la sua guerra principale: quella in grande stile contro chi le si oppone e contro le donne iraniane. Ora più che mai le prigioniere del carcere di Evin si ergono come bastione della resistenza nella lotta per la libertà. Queste donne, ingiustamente e illegalmente detenute come prigioniere politiche, meritano la nostra ammirazione e urge mobilitarci per loro. In solidarietà con le donne e gli uomini che continuano a rischiare la loro vita per lottare in favore dello stato di diritto, della pace e della democrazia in Iran, noi e le nostre organizzazioni chiediamo: - l’immediata cessazione della pena di morte, una punizione inumana e degradante, coerentemente col nostro impegno per l’abolizione universale della pena capitale; - la scarcerazione di tutte le prigioniere e i prigionieri, arbitrariamente in carcere per motivi politici e di coscienza e la fine dei procedimenti giudiziari che violano i diritti alla difesa e a un processo equo; - l’immediata attuazione, da parte dello stato iraniano, di misure che garantiscano l’incolumità fisica e psicologica delle persone detenute in tutto il paese, soprattutto nella sezione femminile del carcere di Evin; - l’avvio di un’indagine indipendente internazionale per scoprire la verità sulle violenze commessi contro le prigioniere politiche di Evin, le cui incriminazioni dovranno essere doverosamente ricevute dalle autorità iraniane. *Tutte le firme sul profilo Instagram @narges_mohamadi_51