La crudeltà non è giustizia di Giuseppe Anzani Avvenire, 18 agosto 2024 Ma quale svuota-carcere. Il decreto-legge di luglio convertito in fretta nei giorni precedenti al Ferragosto non ha tirato fuori nessuno dalle celle arroventate. Qualcuno è uscito da sé senza attendere il fine-pena, passando col suicidio dalla cella all’obitorio. L’ultimo della serie il numero 67 (chi si ricorda il nome? Cosa conta il nome dei disperati?) il giorno stesso della approvazione della legge. Sensi di colpa? In quelli che governano le pene prevalgono i sensi di vacanza estiva, poi si vedrà. Promesso, sarà il miracolo. Intanto le rivoluzionarie novità sono mille poliziotti in più. La sicurezza, si capisce, a scanso di rivolte. Per i reclusi il beneficio immediato di due telefonate in più al mese (da quattro a sei). Lodevole l’intento anti-suicida, perché come è noto una telefonata allunga la vita. Vi disturba l’ironia? Allora parliamo di giustizia con la serietà di chi sta in faccia ai morti di un sistema carcerario incivile. E per la prima volta proviamo a mettere in gioco i giudici. I giudici hanno le chiavi delle galere. Non entra nessuno in quel tritacarne se non ce lo manda un giudice. I giudici delle condanne usano nel sentenziare una formula liturgica che comincia così: “Visti gli articoli...”. Ed è vero, gli articoli li hanno visti, magari li sanno a memoria, e se c’è scritto reclusione è reclusione. Ma in che cosa consista di fatto la reclusione che viene praticata nelle carceri italiane non è cosa vista, o su cui i giudici mettano gli occhi. Non tocca a loro, si dirà; tocca all’amministrazione, tocca al governo, tocca al Parlamento. Non è così, non del tutto. Certo che tocca all’amministrazione, ma i giudici non possono chiamarsi fuori. E per spiegarlo basta l’alfabeto del diritto penale e costituzionale. Tutti siamo portati a pensare che la reclusione sia qualcosa di ordinario, di consueto, di normale, nel catalogo delle pene. Nel mondo, la fantasia dei castighi ha escogitato una varietà di pene impressionante: la morte, le frustate, il taglio della mano, la gogna, il gulag, il carcere; e in progresso le pene alternative, le prestazioni obbligate socialmente utili. Nell’art. 27 della Costituzione italiana non si nomina nessun tipo di pena, ma si dispone che “le pene” (tutte) devono rispondere a due requisiti: uno, “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e due, “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Le pene diverse da così sono fuori legge, sono fuori Costituzione. Allora, se una norma punisse il borseggio in metrò con il taglio della mano, voi pensate che un giudice, visti gli articoli lo ordinerebbe; o non piuttosto rifiuterebbe la barbarie denunciando la norma alla Corte costituzionale? E allora la strada per far cessare la barbarie del carcere-tortura c’è, se qualche giudice comincia a dire che la pena di “questa” reclusione concreta è disumana e dunque le norme che la impongono vanno mandate alla Consulta una dietro l’altra, finché il sistema punitivo non si converte dal delitto al diritto. Provocazione? La Corte Europea dei Diritti Umani ha punito decine di volte l’Italia per il suo sistema carcerario. Nel 2013 ci ha inflitto la vergogna (sentenza Torreggiani) di trasgressori dell’art. 3 della Convenzione (tortura e trattamenti inumani e degradanti); e ci aveva dato un anno di tempo per far cessare il sovraffollamento che stipava corpi umani in spazi da bestie. Oggi è l’identica tragedia: 61.547 detenuti su una capienza regolamentare di 51.241. Come si fa a non capire che il 61mila nel 51mila sta zero volte virgola qualcosa, cioè “non ci sta”. E allora la condanna a stare dove non ci si sta, e a starci chiuso, è un’ingiustizia indegna, che i giudici devono far cessare. Se la sentono? Ce la faranno? Nel gennaio di quest’anno la CEDU ha condannato per l’ennesima volta l’Italia. Stavolta perché un malato di mente, destinato proprio da un giudice di sorveglianza al previsto ricovero in una Residenza per l’esecuzione di misura di sicurezza è stato tenuto in carcere per quasi due anni aspettando che gli si trovasse un posto. Crudeltà: a ogni volgere d’estate, anche quando non vi sono tetti scoperchiati e pagliericci in fiamme come in passato, è un soprassalto di coscienza sul prezzo e sul frutto del dolore. Non c’è parentela fra giustizia e crudeltà; non c’è neppure guadagno. Carceri al collasso, sovraffollamento e suicidi in crescita: l’allarme di Nessuno Tocchi Caino di Davide Varì Il Dubbio, 18 agosto 2024 Crisi senza precedenti. Dietro le sbarre le condizioni mettono a rischio la salute e la vita delle persone detenute. Il sovraffollamento carcerario in Italia ha raggiunto livelli allarmanti, trasformando le prigioni in luoghi di grave sofferenza. Al 29 luglio 2024, le carceri italiane ospitavano 61.134 detenuti, a fronte di soli 47.004 posti disponibili. Questo significa che 14.130 persone vivono in spazi estremamente ristretti, con un tasso di sovraffollamento medio del 130,06%. Tra questi, 2.686 donne e 19.213 stranieri. La situazione si aggrava in 56 istituti, dove il tasso di affollamento supera il 150%. Cinque strutture superano addirittura il 190%, tra cui Milano San Vittore maschile (224,38%), Brescia Canton Mombello (209,34%), Foggia (195,65%), Potenza (190,30%) e Como (191,96%). Solo 38 istituti su 190 riescono a mantenere livelli di affollamento sotto la soglia critica. Negli ultimi 21 mesi, dal 31 ottobre 2022 al 31 luglio 2024, il numero di detenuti è cresciuto di 4.878 unità, con un aumento medio mensile di 232 persone. A fronte di questo incremento, il numero di posti disponibili è rimasto pressoché invariato, con un aumento di soli 23 posti. Inoltre, circa 4.300 posti risultano inagibili, peggiorando ulteriormente la situazione. Il segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino, Sergio D’Elia, ha denunciato con forza: “Il sovraffollamento rende il carcere del nostro Paese un luogo di privazione non solo della libertà ma di tutto, della salute fisica e psichica e anche della vita”. Le parole di D’Elia riflettono una realtà drammatica, in cui i diritti fondamentali delle persone detenute vengono calpestati quotidianamente. L’emergenza carceraria non si limita al sovraffollamento. Dal 16 agosto 2024, 67 detenuti e 7 agenti della polizia penitenziaria si sono tolti la vita, mentre altri 98 detenuti sono deceduti per cause naturali. Negli ultimi 10 anni, i suicidi in carcere hanno raggiunto quota 621, mentre 907 persone sono morte per cause definite naturali, portando il totale a 1.528 decessi. L’analisi del Garante Nazionale sui suicidi nelle carceri, aggiornata a luglio 2024, rivela che la maggior parte delle persone che si sono tolte la vita si trovava in regimi detentivi chiusi, in sezioni di isolamento o sotto grande sorveglianza a causa di eventi critici precedenti. “Un dato assai rilevante che non può non far interrogare sugli effetti di politiche sempre più repressive e punitive da un lato”, ha dichiarato D’Elia, sottolineando l’impossibilità del personale carcerario di garantire un controllo adeguato e conforme alla legge e alla Costituzione. Per diminuire il sovraffollamento ipotesi domiciliari con un anno di pena residua di Lorenzo Attianese ansa.it, 18 agosto 2024 Ma non basta: il ministero della Giustizia lavora anche ad altre misure per risolvere le emergenze negli istituti penitenziari italiani e tra queste spunta un provvedimento ad hoc per ridurre i suicidi in cella e l’ipotesi della concessione di misure alternative, come i domiciliari o l’affidamento in prova, per quei detenuti condannati che devono scontare pene residue entro un anno, per combattere il sovraffollamento delle strutture. A via Arenula (e non solo) l’impegno è dunque su più fronti: in attesa della nomina di un commissario straordinario, che avrà il compito di attuare in tempi brevi il piano nazionale di interventi per l’aumento di posti detentivi, l’obiettivo a breve termine è permettere al decreto approvato lo scorso luglio di entrare a regime. “Stiamo lavorando per diminuire la popolazione carceraria: far scontare la pena ai detenuti tossicodipendenti presso le comunità”, spiega Nordio, secondo il quale “entro i prossimi due o tre mesi cominceremo a vedere dei risultati”. Il ministro ha anche annunciato l’intenzione di illustrare ulteriori progetti al capo dello Stato: appuntamento che finora non avrebbe ancora una data. Sul tema dei tempi di detenzione ed eventuali sconti, il dibattito è aperto anche nella maggioranza, dove non mancano i distinguo. “Non è nelle corde del cuore del governo una misura che, essendo un colpo di spugna, vanifica e frustra non solo e non tanto le esigenze di sicurezza, quanto e soprattutto la funzione rieducativa della pena”, ribadisce il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, che sottolinea invece i 255 milioni di edilizia penitenziaria sbloccati in venti mesi dal governo per recuperare 7mila dei 10mila posti mancanti e lo stanziamento di “somme mai viste” nel trattamento del detenuto, “avendo completamente saturato le piante organiche degli educatori”. In Parlamento ci sono invece una serie di proposte, come quella del deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, che prevede la modifica del sistema di detrazione di pena per la liberazione anticipata dei detenuti, appoggiata da Forza Italia ma che al momento non trova tutti i suoi alleati d’accordo. Uno dei propositi già annunciati dal Guardasigilli, il quale si è comunque sempre detto contrario a qualunque forma di scarcerazione lineare o amnistia mascherata, è la modifica delle norme sulla carcerazione preventiva. Ma altre novità potrebbero arrivare riguardo all’esecuzione esterna della pena: dopo l’incontro di una settimana fa del ministro con il Garante dei detenuti e gli stessi responsabili regionali, non si esclude l’ipotesi di istituire misure alternative al carcere - tra cui i domiciliari o l’affidamento in prova - per quei detenuti condannati per reati non ostativi, i quali devono scontare pene residue entro un anno. Secondo i calcoli, la misura porterebbe ad un abbassamento di svariate migliaia di posti negli istituti (sono ottomila le persone in questa condizione). Il nodo da sciogliere è però soprattutto burocratico e tra le proposte dei Garanti ci sarebbe quella di utilizzare gli impiegati che lavorano agli uffici matricole delle carceri (i cosiddetti ‘matricolisti’) per eseguire i conteggi delle pene residue, agevolando il lavoro degli uffici giudiziari. È invece già su carta uno studio specifico contro i suicidi negli istituti, alla luce dei numeri allarmanti del 2024. Le persone detenute che dall’inizio di quest’anno si sono tolte la vita in carcere sono 63, secondo i numeri del Garante (per i sindacati le cifre sono più alte) a fronte dei 44 suicidi dello scorso anno. L’ultimo episodio è avvenuto a ferragosto nel carcere di Parma e a morire è stato un detenuto in attesa di giudizio. Sul fenomeno a via Arenula è atteso un report, che i tecnici del ministero stanno stilando a seguito di un’attenta analisi: si tratta di un rapporto scientifico con un piano di prevenzione, che indicherà come intervenire sui fattori di rischio per azioni precise sulla base delle risultanze di quello studio. Dall’opposizione però si moltiplicano gli attacchi, come quello del leader di Italia Viva, Matteo Renzi, che bolla il decreto carcere come “fuffa”. Carceri sovraffollate, ecco il piano del ministro Nordio: “In comunità migliaia di detenuti” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 18 agosto 2024 Il ministro: strutture esterne per chi ha già diritto ai domiciliari ma non dispone di una casa. Migliaia di detenuti fuori dai penitenziari sovraffollati, senza decreto dvuota-carceri e senza spaccare la maggioranza. Una soluzione (almeno parziale) alla tragica emergenza dei penitenziari che ha infiammato la politica di Ferragosto è stata individuata in via Arenula. Trova il consenso anche di Fratelli d’Italia, contraria a tutte le formule generalizzate finora circolate, più o meno sponsorizzate da Forza Italia e non solo. E il ministro Carlo Nordio la anticipa al Corriere: “Non è una misura imposta dal governo. Sono i giudici che devono decidere. Noi non vogliamo sostituirci a loro. Cerchiamo solo di metterli nella condizioni di scegliere liberamente”, è la premessa del ministro. Domicili protetti - Un intervento legislativo immediato, apertamente auspicato da Forza Italia, trova il muro in Fratelli d’Italia. Come se ne esce? Spiega il ministro: “La soluzione è pratica, non giuridica. Dei 16 mila detenuti in custodia cautelare o in esecuzione della pena in carcere ce ne sono migliaia che non dovrebbero essere lì. Sono quelli che hanno i requisiti per poter andare agli arresti domiciliari. I magistrati li ritengono tali. Ma il punto è che non hanno un posto dove andare. Allora noi vogliamo creare la possibilità di inviarli in domicili protetti”. Secondo Nordio “la quasi totalità, diciamo il 99%, di questi casi, è composta da stranieri. Arrivati clandestinamente, senza un lavoro, con i debiti contratti con i traghettatori magari sono finiti a rubare o a spacciare droga e siccome sono reati di un certo allarme sociale i giudici li hanno mandati, giustamente, in prigione. Ma se la pena residua è lieve e il magistrato di sorveglianza ritiene che possono avere una pena alternativa dobbiamo sollevare il giudice dalla responsabilità di rimetterli nelle stesse condizioni di necessità”. Chiacchiere, speranze o un piano operativo? “Non è che possiamo mandarli fuori dall’oggi al domani. Non abbiamo la bacchetta magica per creare queste strutture”, ammette il Guardasigilli. Ma promette tempi brevi: “Dobbiamo fare i bandi per trovarle. E riteniamo che possano essere le comunità”. In questi giorni era circolata l’ipotesi che nel vertice di Palazzo Chigi, simultaneo al voto sul decreto Carceri, si fosse parlato di un imminente intervento normativo del governo per trasformare in arresti domiciliari, in caso di reati di non grave allarme sociale (e fra questi c’era chi voleva includere anche la corruzione) gli ultimi due anni di pena e la custodia cautelare in carcere. “Parola d’onore che non è così, il termine “domiciliari” non è stato nemmeno proferito”, giura il ministro. “Al vertice c’era il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti perché servono soldi, e ce li ha concessi, per l’edilizia carceraria” assicura Nordio, consapevole del fatto che questo è un obiettivo promesso a ogni Ferragosto e mai realizzato. Stavolta, sostiene, “è diverso. Abbiamo dato grandi poteri al commissario per recuperare strutture già esistenti, ma inutilizzate. Alla Giudecca è stata appena realizzata, con il lavoro volontario dei detenuti, un’opera straordinaria. Faremo così anche a Milano dove ci sono strutture abbandonate”. Con il ministro degli Esteri Tajani, in quel Consiglio dei ministri, continua il Guardasigilli, si è discusso di accordi che non contemplino più il via libera del detenuto al trasferimento in carceri del proprio Paese. Anche questa un’intenzione sbandierata da tutti e mai realizzata. “A dire il vero qualcosa si è già fatto. Già ci sono stati rimpatri, se riuscissimo a farne solo la metà, o almeno un quarto, risolveremmo l’emergenza”. Opposizioni all’attacco - Si vedrà se la formula Nordio convincerà anche l’opposizione che, per ora, va all’attacco. Per la responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani “siamo in balia delle chiacchiere di Nordio e delle divisioni della maggioranza”. “Tra l’ala forcaiola di FdI e lo pseudo garantismo di FI la maggioranza non trova soluzioni urgenti”, rincara Ilaria Cucchi di Avs, che chiede anche la revoca delle deleghe per “inadeguatezza” al sottosegretario di FdI Andrea Delmastro. E i penalisti, con il presidente Francesco Petrelli, bocciano “le politiche carcerocentriche del governo” sollecitando misure deflattive. Critiche che non scalfiscono Nordio: “L’emergenza carceri c’è un po’ in tutta Europa. In Francia c’è un picco di suicidi. In Gran Bretagna ci sono proteste. L’Italia è tra i pochi paesi non sanzionati dalla Cedu, la Corte europea dei diritti per l’uomo, per le condizioni dei detenuti che da noi rispettano il limite Ue fissato, per poco che si possa ritenere, in 3 metri quadri per detenuto”. Quanto alle divisioni nel centrodestra, Nordio nega: “C’è una totale e completa armonia”. Il fattore tempo - Però di modifiche alla custodia cautelare si discute animatamente. E al pressing di FI si è unita anche la Lega. Nordio non cede alle richieste pressanti a far presto: “La revisione della custodia cautelare richiede la modifica dell’articolo 274 del codice di procedura penale. Siamo tutti favorevoli alla modifica. Ma serve tempo, sono cose lunghe. Per la mia riforma c’è voluto un anno e mezzo. Vedremo”. Svuota carceri, la via stretta di Nordio tra partiti divisi e i Garanti per l’indulto di Liana Milella La Repubblica, 18 agosto 2024 Lega e FdI non vogliono liberare gli 8mila detenuti con meno di un anno da scontare. Ma anche Forza Italia chiede misure veloci. Sul tavolo di Nordio brucia sempre più il dossier carceri. E i numeri non tornano. Perché l’emergenza, un mix tra suicidi e rivolte, richiede risposte immediate. Forza Italia le pretende. Meloniani e salviniani si oppongono. Al Guardasigilli restano poco meno di due settimane. Poi, al primo consiglio dei ministri, dovrà mettere le carte sul tavolo. Domiciliari per chi deve scontare un anno di pena? FdI e Lega dicono di no, non reggono l’impatto di 8mila carcerati in uscita. Perché questo hanno chiesto i Garanti dei detenuti andando ben oltre la legge del 2010 approvata dal governo Berlusconi dove Meloni era ministro. Fu battezzata “svuotacarceri”, ma in 14 anni ha messo ai domiciliari 1.772 detenuti all’anno. Ora per i Garanti serve molto di più. Lo dice Francesco Maisto, ex presidente del tribunale di sorveglianza dell’Emilia Romagna e Garante dei detenuti di Milano: “Abbiamo chiesto una misura deflattiva di rapida applicazione, sul tavolo due soluzioni per far uscire circa 10mila persone, per cui i detenuti scenderebbero dagli attuali 61mila a 51mila avvicinandosi alla capienza dei 47mila. Serve subito un indulto per le pene fino a un anno o la liberazione anticipata speciale. Non vedo assolutamente altre strade possibili. C’è bisogno di una misura deflattiva, ma dev’essere d’immediata applicazione”. Questo c’è sulla scrivania di Nordio. Una misura che andrebbe incontro alle richieste del presidente dell’Unione delle camere penali Francesco Petrelli che boccia l’ipotesi della detenzione domiciliare per chi deve scontare un anno. “Un vaglio giurisdizionale complesso e il superamento di ostacoli oggettivi” la rendono impraticabile. Anche perché “il governo sarebbe in grado di mettere a disposizione solo 200 domicili”. Un numero che Petrelli considera “irrisorio rispetto alla necessità urgente di misure deflattive”. L’accusa al decreto Nordio è di guardare solo al futuro, ma non tirare fuori ora dalle celle un solo detenuto. Per giunta coinvolgendo i privati. Gennarino De Fazio, il segretario generale del sindacato Uilpa che documenta ogni minuto suicidi e rivolte, dice di “essere in allarme per l’ipotesi che dietro le ultime proposte del governo si possa celare una tendenza a privatizzare l’esecuzione penale come quella di sistemare i detenuti in domicili finanziati dallo Stato, ma gestiti da privati”. Senza risolvere né l’emergenza suicidi, né sovraffollamento e potenziali rivolte. Inutile illudersi sulla sola detenzione domiciliare. Troppi ostacoli che arrivano dai reati esclusi, come rivelano i 14 anni della “svuotacarceri”. Tant’è che il presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze Marcello Bortolato è scettico: “La detenzione domiciliare per gli ultimi 18 mesi c’è dal 2010. Poi c’è quella della Gozzini per gli ultimi due anni, ma esclude i reati dell’articolo 4bis, rapine aggravate, spaccio per ingente quantità, omicidio, violenza sessuale, pedopornografia”. L’affidamento in prova per gli ultimi quattro anni. “Ma non lo hanno già - dice Bortolato - perché non hanno un lavoro, la loro pericolosità è ancora rilevante. Sono senza domicilio”. I reati considerati gravi bloccano l’uscita. La strada di Nordio è stretta. L’urgenza indica la via chiesta dai Garanti, fuori dal carcere chi deve scontare un anno. L’ex Garante dei detenuti Mauro Palma batte il tasto: “Oggi il carcere sta in tre parole, sovraffollamento, chiusura, tensione. Non c’era nessuna proposta nel decreto Nordio per affrontarle e continuo a non vederle. Bisogna saper distinguere tra provvedimenti immediati e quelli di medio periodo, senza confondere i piani. Alcune cose che vanno bene nel medio periodo è inutile presentarle come risolutive per l’oggi. Perché oggi c’è un’emergenza immediata che va risolta con provvedimenti tampone”. L’indulto di un anno è tra questi. Il bluff di Nordio sulle droghe: la sua risposta è solo il carcere di Giulia Merlo Il Domani, 18 agosto 2024 In Italia il 34 per cento dei detenuti è in carcere per droga, il doppio della media Ue, e il 40 è tossicodipendente. L’unica soluzione del governo è fare un albo delle comunità, ma aumentando la possibilità di arrestare i minori. Per ridurre drasticamente il numero di detenuti esiste una categoria su cui incidere: chi è in carcere a causa della legge sulle droghe del 1990 e i tossicodipendenti. Secondo il quindicesimo Libro Bianco sulle droghe curato dall’associazione Luca Coscioni, infatti, nel 2023 sono tornati a salire gli ingressi in carcere per droghe: 10.697 dei 40.661 ingressi in carcere nel 2023 (il 26,3 per cento) hanno avuto come causa la commissione del reato di cui all’articolo 73 del Testo unico, ovvero la detenzione a fini di spaccio. Dei 60mila detenuti in carcere a dicembre 2023, 12.946 lo erano a causa dell’articolo 73 e altri 6.575 in associazione con l’articolo 74, ovvero l’associazione finalizzata al traffico illecito. I numeri restituiscono un quadro impressionante, fuori scala rispetto agli altri paesi europei: in Italia, infatti, il 34 per cento dei detenuti è in carcere per la legge sulle droghe, quasi il doppio della media dell’Ue che si assesta al 18 per cento. Non a caso, chi si occupa del settore sostiene da tempo la necessità di rivedere l’articolo 73 del Testo unico, che punisce con pene dai 6 ai 20 anni e la multa da 26mila a 260mila euro chi “coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope” e, nel caso della “lieve entità”, abbassa la pena da sei mesi a cinque anni e la multa da 1032 a 10329 euro. L’articolo 73, dunque, è l’architrave del sistema repressivo in materia di droghe: estremamente rigido e senza alcuna vera gradazione delle condotte in termini oggettivi, produce una enorme mole di procedimenti penali e denunce, senza tuttavia evidentemente intaccare la diffusione del fenomeno. Non esistono solo i reati di droga, però, ma anche la droga in carcere. Sempre come certificato dal Libro Bianco, quasi il 40per cento di chi entra in carcere usa droghe, ovvero 17.400 persone: un record negli ultimi 18 anni. Infatti, i detenuti definiti “tossicodipendenti” sono il 38 per cento di coloro che entrano in carcere. Persone con estremo bisogno di cure per gestire e cercare di uscire dalla dipendenza, che però si trovano in un contesto di sovraffollamento e di precarietà sanitaria. I tentativi di riforma - Per questo, durante la Conferenza nazionale sulle dipendenze di Genova nel 2021, nella relazione finale si legge che sarebbe utile “sottrarre all’azione penale sia la coltivazione di cannabis a uso domestico, sia la cessione di modeste quantità per uso di gruppo laddove non sia presente la finalità di profitto” e andrebbe superato “il rigido sistema tabellare per stabilire la quantità di prodotto a uso personale e quello che si presume per spaccio, rimettendo il giudizio alla discrezionalità del giudice”. Proprio sulla base di questi dati, rimasti stabili negli anni, il deputato di Più Europa Riccardo Magi, sostenuto anche dal Pd e dal Movimento 5 Stelle, ha depositato una proposta di legge per modificare il Testo Unico sulle droghe, con l’obiettivo di depenalizzare una serie di fatti, commessi soprattutto da giovani e giovanissimi, introducendo una maggior gradazione sulla gravità delle condotte. Inoltre, legalizzando la coltivazione ad uso personale si dovrebbe prosciugare il mercato illegale che oggi è una delle principali fonti di reddito delle organizzazioni criminali. Il dl Caivano - Il governo, invece, ha scelto una via molto diversa e improntata alla repressione. In materia penale, infatti, ha inasprito le pene attraverso il decreto Caivano del 2023 prevedendo l’arresto anche per i ragazzi dai 14 anni in caso di reati di lieve entità e l’allontanamento con Daspo dalle scuole e dalle università anche nel caso di semplice “uso o detenzione di stupefacenti”. L’ultima parola sul carcere per l’adolescente colpevole spetta al tribunale dei minori, ma il decreto prevede un inasprimento sanzionatorio per lo spaccio di stupefacenti di lieve entità, con la possibilità di arresto in flagranza e l’ampliamento dei casi di applicabilità della pena detentiva in carcere sia per i minori che per gli adulti. In altre parole, con il decreto Caivano un adolescente in possesso di cannabis potrebbe non poter più frequentare la scuola e, se colto in flagranza di spaccio anche di pochi grammi di cannabis, può venire arrestato immediatamente. L’effetto è stato immediato: dall’entrata in vigore delle nuove norme, gli Istituti penali per i minorenni hanno raggiunto all’inizio del 2024 circa 500 detenuti presenti, il numero più alto registrato negli ultimi dieci anni e gli ingressi nel 2023 sono stati 1143, la cifra più alta negli ultimi quindici anni. Secondo i dati, inoltre, risulta che la crescita maggiore è quella registrata per le violazioni della legge sugli stupefacenti, con un aumento del 37,4 per cento dei detenuti minori rispetto al 2022. La cannabis light - Al governo Meloni, tuttavia, non basta la già dura repressione in materia di stupefacenti. Tra le modifiche approvate in commissione alla Camera al disegno di legge sicurezza con un emendamento del governo, infatti, c’è anche la messa al bando della cannabis light, che viene sostanzialmente equiparata a quella tradizionale, nonostante contenga quantità di THC inferiori allo 0,2 per cento. Ora bisognerà aspettare l’aula a settembre per vedere se ci sarà il via libera, ma la misura è stata rivendicata dalla maggioranza come una norma per “stroncare il mercato della cosiddetta cannabis light” ha commentato l’azzurro Maurizio Gasparri. Il presidente dei senatori di Forza Italia, infatti, ha sostenuto che “chi difende la cannabis light difende sostanzialmente attività ambigue e pericolose. Va stroncata ogni forma di incoraggiamento all’uso delle droghe e alla propaganda delle droghe”. Peccato che la mossa cancelli una filiera produttiva da 11mila posti di lavoro in Italia in cui negli ultimi anni si sono fatti investimenti significativi e un mercato da quasi 200 milioni di euro. E, potenzialmente, restituisca al mercato illegale nuovi consumatori che rischieranno conseguenze penali. Il dl Carceri - Se dunque per i colpevoli o indagati per reati di droga il governo ha scelto di adottare il pugno duro, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha apparentemente ammorbidito le posizioni invece nei confronti dei detenuti tossicodipendenti. “Se mettiamo assieme la possibilità per i tossicodipendenti di andare in altre strutture, con quella di far tornare nel proprio Paese i detenuti stranieri, sulla quale stiamo lavorando notte e giorno, assieme alla Farnesina, possiamo arrivare a 15-20 mila detenuti in meno. Ecco risolto il sovraffollamento”, ha detto Nordio in una recente intervista al Corriere della Sera. In realtà, però, la strada è lunga e il decreto non è nemmeno l’inizio. Il testo, infatti, prevede di fatto solo l’istituzione di un albo delle comunità, che è una soluzione molto vaga. Secondo i numeri del ministero dell’Interno, in Italia esistono circa 1100 strutture potenzialmente con i requisiti adatti, di cui meno di 800 anche residenziali e comunque non organizzate per la gestione di un alto numero di detenuti. Il decreto, poi, non specifica nemmeno le modalità con cui queste strutture dovrebbero accogliere un soggetto che è comunque detenuto, quindi non è gestibile come un normale cittadino che si ricovera per la disintossicazione. Con un ulteriore problema, fatto notare dalla responsabile Giustizia del Pd, Debora Serracchiani: “Questo comporterebbe spostare su strutture sanitarie la gestione della detenzione? Ricordo che la sanità è di competenza regionale e stabilire una cosa del genere senza interpellare le Regioni poterebbe allo stesso caos provocato con il ddl sulle liste d’attesa”. Se dunque il ministro ha messo a fuoco correttamente uno dei punti più problematici - il carcere non è un luogo adatto a gestire e riabilitare un tossicodipendente - l’iniziativa concreta manca del tutto. Con buona pace di Forza Italia, che ha a parole criticato il decreto ma poi ha ritirato il suo pacchetto di emendamenti, ma che ora sta passando un’estate a girare le carceri insieme al partito radicale, certificando il disagio nella quasi totalità dei penitenziari italiani. Paradossalmente, il decreto Carceri ha avuto una sola vera funzione: l’introduzione del nuovo reato di peculato per distrazione, che certamente non si può dire abbia funzione di ridurre gli ingressi in carcere. Il sovraffollamento? Anche negli istituti penali minorili di Antonio Maria Mira Avvenire, 18 agosto 2024 Nella Relazione sulla condizione dei detenuti minorenni, c’è la conferma che la capienza delle strutture per under 18 non basta più. Il nodo dei trasferimenti nelle celle per adulti. Anche gli istituti penali per minorenni sono strapieni, raggiungendo il 104% della capienza. “Dopo gli anni della pandemia si è constatato un incremento degli ingressi di minorenni e giovani adulti stranieri nei Servizi residenziali della Giustizia minorile, in particolare negli Istituti penali per i minorenni (Ipm)”. Lo scrive il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia, nella Relazione sulla condizione dei detenuti minorenni, relativa al 2023 ma aggiornata ai primi mesi del 2024, inviata recentemente al Parlamento dal ministro Nordio. Nel corso del 2023 “si è registrato un consistente incremento di ingressi” nel sistema di detenzione minorile, e “il dato è tornato ai livelli pre-pandemia”. Nel 2018 gli ingressi erano stati 1.132 per poi calare a 713 nel 2019 ma poi tornare a crescere fino a 1.142 ingressi nel 2023. Un incremento che, scrive il ministero, “ha messo a dura prova il sistema detentivo minorile sia sul piano strutturale che organizzativo”. Lo conferma l’analisi della capienza degli Ipm negli ultimi tre anni. A dicembre 2021 il grado di occupazione nazionale degli istituti raggiungeva il 60% della capienza, mentre “a dicembre 2023 l’anno si chiudeva con una saturazione pari al 100% che già oggi (giugno, ndr) ha raggiunto il 104%”. E l’affollamento riguarda anche le ragazze che a febbraio hanno raggiunto il 95%, mentre non si era ma andati oltre l’80%. A fine 2023 nei servizi residenziali si trovavano 1.402 minori, 495 negli Ipm, 877 nelle Comunità private, 23 nella Comunità ministeriali, 7 nei Centri di prima accoglienza. Altri 13.861 erano in carico in area penale esterna. Ma a preoccupare è la “brusca impennata” della presenza media negli Istituti penali, passata da 320 del 2021 a 425 del 2023. E questo ha portato “ad un progressivo aumento dei trasferimenti a strutture per adulti”, passando dai 60 del 2021 ai 122 del 2023. “L’esigenza di intensificare i trasferimenti alle carceri per adulti - si legge nella Relazione - si è resa sempre più cogente per rispondere alla riduzione del sovraffollamento”. Ma è evidente che i minori in quelle carceri, ancor più sovraffollate, staranno sicuramente peggio. Oltretutto il Dipartimento fa alcune importanti affermazioni. “L’aumento della popolazione detenuta non corrisponde, ad oggi, ad un aumento della devianza giovanile sul territorio nazionale, ma piuttosto ad un aumento della violenza nella commissione dei reati, che implica sempre più spesso risposte sanzionatorie più incisive”. Un’analisi complessa, più approfondita rispetto ad alcune semplificazioni della maggioranza di centrodestra. Così come quella sui minori stranieri non accompagnati, “molti dei quali entrano nel circuito penale per mancanza di punti di riferimento, con i quali è oltremodo difficile instaurare in breve tempo una relazione educativa significativa”. Mentre ne avrebbero assolutamente bisogno in quanto portatori “di gravi disagi psichici e con pregresse esperienze di violenze e abusi subiti, sia durante l’infanzia sia nel corso del viaggio che li porta nel nostro Paese”. Una presenza che “ha portato inevitabilmente un turbamento degli equilibri interni agli Ipm, dando luogo a considerevoli difficoltà di gestione della sicurezza”. La Relazione cita il caso dell’Istituto “Cesare Beccaria” di Milano come “quello maggiormente interessato dal sovraffollamento: al 15 aprile 2024 accoglieva infatti 76 ragazzi, contro una media nazionale per istituto di circa 32 ragazzi”. Un carcere dove si ripetono rivolte, incendi, atti violenti, fughe e tentativi, e dove proprio ad aprile la Procura ha aperto un’inchiesta per torture e maltrattamenti che vede indagati 21 agenti penitenziari. La Relazione fotografa bene la situazione. “Di questi 76 ragazzi, un’alta percentuale ha un retroterra migratorio e spesso si tratta di minori stranieri non accompagnati, target complesso per le caratteristiche peculiari che lo caratterizza. Tra queste - sottolinea il Dipartimento -, particolarmente rilevanti sono certamente le storie di vita pregresse, spesso segnate da eventi traumatici (viaggi estremamente pericolosi, permanenza nei campi di detenzione libici) ma anche dall’assenza di legami e di una rete di sostegno all’esterno, che accompagni il percorso riabilitativo”. Ben altre riflessioni rispetto ai provvedimenti del governo che hanno punito ulteriormente i minori. Invece per gli esperti del Dipartimento è “necessario un intervento al contempo eccezionale e strutturale per tornare a garantire la sicurezza dei ragazzi detenuti e degli operatori”. Il Pd adesso strilla sulle carceri piene, ma quando poteva non ha fatto nulla di Giovanni M. Jacobazzi Libero, 18 agosto 2024 Nel 2015, quando era al governo, lanciò gli “Stati generali” con l’intendo di riformare le prigioni, poi si fermò per non perdere voti. Il Partito democratico ed i suoi giornali di riferimento hanno “scoperto” nella torrida estate 2024 che in Italia le prigioni rappresentano un problema molto serio. “Carceri senza pace”, ha titolalo ieri Repubblica, dedicando le prime tre pagine a quanto sta accadendo all’interno dei penitenziari, dove il sovraffollamento, le rivolte ed i suicidi di detenuti ed agenti della Polizia penitenziaria sono - purtroppo - all’ordine del giorno. Nel profluvio di articoli ed editoriali non poteva mancare, ovviamente, una critica feroce al governo Meloni che sarebbe inerte ed insensibile, oltre a non avere alcuna soluzione per far fronte all’emergenza. Peccato per Repubblica, e per il Pd, che i problemi all’interno delle carceri non siano esplosi dall’ottobre 2022, da quando Giorgia Meloni ha giurato al Quirinale. È sufficiente infatti tornare al 2015, governo Matteo Renzi, in quel momento potente segretario dei dem, per scoprire che l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando per contrastare il sovraffollamento, le rivolte, e i suicidi, quindi gli stessi identici problemi che affliggono adesso le carceri, decise di dar vita agli “Stati Generali dell’esecuzione penale”. La quanto mai pomposa iniziativa aveva l’obiettivo di “portare concretamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto”. Gli Stati generali dell’esecuzione penale, per gli smemorati di Repubblica, presero il via il 19 maggio 2015 presso la Casa di reclusione di Milano Bollate. Orlando, gli va riconosciuto, fece le cose in grande stile, istituendo ben 18 tavoli tematici ai quali partecipano più di 200 fra magistrati, provveditori, giuristi, professori, volontari, in pratica i massimi esperti sul mondo del carcere e dell’esecuzione della pena. Il coordinamento dei lavori venne affidato al professore di penale Glauco Giostra, in passato anche componente del Consiglio superiore della magistratura in quota Pd. Gli Stati generali durarono quasi un anno, accompagnati anche da centinaia di incontri e convegni sui territori. Nessun tema venne trascurato: dall’edilizia carceraria, al reinserimento del detenuto, alla recidiva. Per la prima volta vennero toccati anche argomenti “sensibili”, come l’affettività nelle carceri o la possibilità per i detenuti di avere rapporti con l’esterno senza filtri. “Il filo conduttore dell’iniziativa degli Stati generali, al di là delle specifiche tematiche dei diversi tavoli di lavoro, è stato quello di riportare al centro dell’esecuzione penale il riconoscimento del detenuto come persona, recuperando la funzione rieducativa del trattamento prevista dalla Costituzione e declinata nell’ordinamento penitenziario”, dirà Orlando al termine dei lavori. Come capita spesso in questi casi, si è perso il conto dei documenti prodotti dai vari partecipanti ai tavoli tematici e che dovevano servire da base per la riforma dell’Ordinamento penitenziario che Orlando aveva in mente di scrivere per mandare in soffitta quella in vigore risalente al 1975. La sconfitta di Renzi al referendum costituzionale alla fine del 2016 e l’arrivo a Palazzo Chigi di Paolo Gentiloni stoppò però tutto. Il Pd, da sempre molto pragmatico, decise che il tema del carcere era troppo divisivo e avrebbe fatto perdere voti in vista delle imminenti elezioni politiche, con i manettari del M5S che avrebbero speculato a mani basse. La legislatura in cui si alternano tre premier dem, Letta, Renzi e Gentiloni, si concluse allora sul carcere come era iniziata: con un nulla di fatto. Ora il Pd chiede al ministro Carlo Nordio il miracolo. Troppo facile dare lezioni dopo non aver fatto alcunché per cinque anni. Petrelli (Ucpi): “Il Decreto Carceri non cambierà nulla, misure destinate al fallimento” di Marco Maffettone ansa.it, 18 agosto 2024 “Il governo si è messo in un vicolo cieco dal quale ha difficoltà ad uscire”. È lapidario il giudizio dei penalisti italiani sulle politiche messe in campo dall’esecutivo per fare fronte all’emergenza nelle carceri. Parole che arrivano a poche ore dal bilancio, del tutto parziale, sul numero dei suicidi avvenuti dall’inizio dell’anno all’interno dei penitenziari. Da gennaio sono 63 le persone che hanno deciso di togliersi la vita, numeri in vertiginoso aumento rispetto allo scorso anno quando i gesti estremi, nello stesso periodo, furono 44, diciannove in meno. Il dato che salta all’occhio è che il 38,1% delle persone che hanno deciso di farla finita, 24 detenuti, erano in attesa di primo giudizio. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, prima della pausa ferragostana oltre al vertice con la premier Meloni ha avuto incontro con i Garanti dei detenuti. Molti gli spunti e ipotesi tra cui quello di un provvedimento specifico per la concessione di misure alternative, come i domiciliari o l’affidamento in prova, per quei detenuti condannati che devono scontare pene residue entro un anno, per combattere il sovraffollamento delle strutture. Una iniziativa che, però, incassa la sonora bocciatura dagli avvocati. “L’ipotesi di detenzione domiciliare per i detenuti con fine pena brevi (quelli con fine pena non superiori a un anno sono circa 8000) implica un vaglio giurisdizionale complesso e il superamento di ostacoli oggettivi”, taglia corto il presidente dell’Unione Camere penali, Francesco Petrelli. Per i penalisti “il Governo allo stato sarebbe in grado di mettere a disposizione non più di 200 domicili. Un numero irrisorio rispetto alla necessità urgente di misure deflattive”. Petrelli ribadisce che le Camere penali sono “da sempre favorevoli a politiche e legislazioni che favoriscano l’applicazione di misure alternative al carcere” ma non risparmia una ulteriore stoccata al Governo che, a suo dire, porta avanti “politiche carcerocentriche” che “costituiscono un grave passo indietro anche per la sicurezza dei cittadini e sono destinate inevitabilmente al fallimento”. Sul fronte politico, all’interno della maggioranza, sembrano coesistere più anime. Se il sottosegretario Andrea Delmastro ribadisce che “non è nelle corde del cuore del governo una misura che, essendo un colpo di spugna, vanifica e frustra non solo e non tanto le esigenze di sicurezza, quanto e soprattutto la funzione rieducativa della pena”, dal canto suo Forza Italia per bocca del deputato Francesco Rubano afferma che “il sovraffollamento, l’ormai allarmante numero dei suicidi, le condizioni precarie in cui il personale e gli agenti penitenziari si trovano spesso ad operare, e la fatiscenza delle strutture richiedono interventi non più rinviabili”. Le opposizioni mettono in luce “le divisioni della maggioranza”. “Il decreto carceri - attacca Debora Serracchiani del Pd - era ed è un testo vuoto. L’emergenza drammatica è sotto gli occhi di tutti e le misure per superarla ci sono invece siamo ancora una volta in balia delle chiacchiere di Nordio e delle divisioni sulla giustizia”. Per Ilaria Cucchi, senatrice Avs, l’approvazione della legge Nordio non ha portato a cambiamenti nelle carceri e “le recenti gravissime uscite del sottosegretario Delmastro dimostrano cosa debbano essere, per la destra, i penitenziari: luoghi dove scaricare i problemi della società, vere e proprie discariche sociali. Il ministro Nordio gli revochi le deleghe”. Intanto proseguono i sopralluoghi dei Radicali Italiani nei penitenziari. Dopo Bologna è il turno di Torino, teatro nel giorno di Ferragosto di scontri tra detenuti e agenti. “Abbiamo riscontrato una situazione drammatica - ha commentato Filippo Blengino, - in particolar modo nella sezione maschile, dove sono scoppiate rivolte. Le celle sono in condizioni precarie, con strutture fatiscenti e infiltrazioni. Si avverte una situazione di grande tensione”. Ostellari: “Ci sono difficoltà, ma secondo i criteri europei il sovraffollamento non è così grave” di Enrico Ferro La Repubblica, 18 agosto 2024 Intervista al sottosegretario alla Giustizia: “Nordio ha detto che le sanatorie sono una resa. Agiamo sull’edilizia finalmente”. Senatore Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, anche Forza Italia sostiene che la situazione nelle carceri sia drammatica. Lei no? “La situazione delle carceri era nota già a fine 2022, quando il governo si è insediato. Chi ci ha preceduto non si era accorto di nulla? Diciamo la verità: per anni sono mancati visione e investimenti, anche di carattere ordinario. Oggi, per la prima volta, è stata approvata una riforma completa, dai temi dell’edilizia al trattamento detenuti”. Ma il decreto appena approvato non basta, lo stesso Nordio cerca altre soluzioni. FI propone misure per evitare il sovraffollamento. Non ritiene siano necessarie? “I penitenziari non sono mai stati adeguati. Noi, invece, abbiamo sbloccato fondi per ristrutturare e costruire nuovi padiglioni e previsto un commissario per l’edilizia. Da domani gli spazi saranno maggiori e più salubri. Il decreto approvato contribuirà a risolvere il problema affollamento in chiave strutturale, puntando sulla rieducazione, che si fa con lavoro e formazione”. Quindi lei non nega il sovraffollamento? “No, ci sono situazioni di difficoltà, causate anche dall’inagibilità di alcune celle. Ricordo però che in Italia l’affollamento è calcolato sulla base di criteri più stringenti rispetto a quelli previsti della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui deve essere assicurato uno spazio di 3 metri quadri a ciascun ristretto”. Non crede che le condizioni nella maggior parte delle carceri italiane sia insostenibile? “La gran parte delle carceri italiani è inadatta a un sistema di esecuzione della pena moderno ed efficace. Dare la responsabilità di tutto questo al governo è assurdo, perché si tratta di istituti che aspettano interventi da vent’anni. Interventi che, grazie alla nomina del commissario all’edilizia carceraria prevista nel decreto, finalmente saranno effettuati”. Che pensa dell’idea di far scontare ai domiciliari i residui pena di un anno? “La Lega è contro gli svuotacarceri e le soluzioni che non risolvono il problema alla radice. L’obiettivo costituzionale della pena è di recuperare chi commette dei crimini. Nel decreto la possibilità di far scontare il fine pena nelle comunità esterne è già stata introdotta, per chi non ha un domicilio”. Nordio però potrebbe aprire alle idee di FI, nonostante lo stop di FdI. Come si pone in questa dinamica? “Ricordo volentieri le parole del ministro: svuotacarceri e sconti di pena sono una resa dello Stato. E ribadisco: la pena serve se rieduca”. Perché non crede nella proposta svuota celle, per alleviare le carceri? “Perché è una presa in giro. Lo dimostrano i numeri e le esperienze del passato”. Il suo collega Andrea Delmastro è andato in visita alle carceri di Taranto e Brindisi incontrando solo gli agenti della polizia penitenziaria, non i detenuti. Non ritiene che costoro siano legati a doppio filo? “Delmastro ha la delega alla Polizia penitenziaria, io quella ai detenuti. Lui ha agito nell’ambito del suo ruolo e ha voluto manifestare vicinanza a chi, mentre noi parliamo, dà il massimo e pure di più perché i nostri penitenziari siano in sicurezza”. Lei è stato denunciato da Roberto Giachetti e da Nessuno tocchi Caino. Come l’ha presa? “Ho assunto la delega al trattamento dei detenuti a fine 2022, l’anno record dei suicidi in carcere. Allora non ho denunciato nessuno. Insieme al ministro e ai colleghi sottosegretari, mi sono messo a lavorare. E continuerò a farlo. C’è chi usa la giustizia per fare politica? Io ho un’idea diversa di democrazia”. Giulia Bongiorno: “Affollamento problema antico. Inaccettabile accusare noi” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 18 agosto 2024 L’ex ministra e senatrice della Lega: “Celle e femminicidi le priorità. Basta con questa storia. Nessuno di noi vuole garantire impunità ai colletti bianchi, puntiamo a tutelare tutti i cittadini e ogni abuso va perseguito. Infatti, è già stato introdotto un reato per evitare lacune e in cantiere c’è una riforma complessiva di tutti i reati contro la Pubblica amministrazione”. Giulia Bongiorno, leghista, presidente della Commissione Giustizia del Senato (ma anche una delle più note penaliste italiane), non accetta “la narrazione secondo cui il centrodestra si muove sulla Giustizia per proteggere solo gli amministratori pubblici”. Sulla Giustizia le sensibilità, anche dentro le coalizioni, sono diverse. È strano che l’opposizione di fronte alle nuove leggi, la Nordio e quella sulle carceri, faccia l’opposizione? “Abbiamo approvato interventi di diritto processuale e sostanziale che riguardano tutti. Affermare che tuteliamo la casta non ha alcun fondamento. Anche le riforme approdate recentemente alla Camera sul Csm e sulla separazione delle carriere sono dirette a tutti, perché vogliono combattere le degenerazioni del correntismo e garantire parità tra accusa e difesa in tutti i processi”. Forza Italia preme per una riforma della custodia cautelare, il ministro Nordio pensa di lavorare su chi ha già maturato gli arresti domiciliari ma non sa dove andare. Lei che opinione ha? “Non replicheremo gli errori del passato: no a svuotacarceri”. Le opposizioni hanno attaccato soprattutto sull’eliminazione del reato di abuso d’ufficio e la nascita di quello di peculato per distrazione... “Una contraddizione: se si contesta il vuoto creato dall’abrogazione dell’abuso, non si può al contempo criticare un reato che mira a colmare quel vuoto. È noto che io stessa avevo messo in guardia dai rischi di un’abolizione, ma il nuovo peculato va nella direzione esatta e, a ogni modo, ci sarà una riforma complessiva della materia”. E la legge Severino? Cancellerete anche quella? “Uno dei quesiti del referendum promosso dalla Lega riguardava proprio la Severino, quindi è evidente che un intervento sul tema ci trova favorevoli. Attenzione, però, perché ci sono questioni più urgenti, come il sovraffollamento delle carceri e i numerosi femminicidi”. La riunione di maggioranza mentre alla Camera si approvava il decreto carceri ha suscitato reazioni animate... “Una maggioranza che mentre approva un provvedimento già guarda al secondo e al terzo andrebbe applaudita. La giornata di un detenuto dura duecentoquaranta ore, non ventiquattro. Ed è inaccettabile che si attribuisca a questo Governo un problema antichissimo”. Le carceri e il loro sovraffollamento sono un dramma e una vergogna nazionale, c’è chi torna a parlare anche di amnistia. Che ne pensa? “Lo Stato può e deve privare della libertà chi commette reati, ma deve anche garantire la dignità dei detenuti. Chi continua a invocare amnistie e svuotacarceri fa una richiesta anacronistica: se siamo al sovraffollamento, è anche perché quando si sarebbero dovute costruire nuove strutture si è invece fatto ricorso a provvedimenti che si sono trasformati in porte girevoli: chi all’improvviso viene messo in libertà torna sistematicamente a delinquere. Il ministro presto illustrerà il suo piano, credo che ci occuperemo anche di misure cautelari”. Come pensa che cambieranno? “A oggi non esiste alcun testo. Servirà uno sforzo per cercare dei parametri oggettivi, perché a volte c’è un utilizzo non adeguato di misure eccezionali. Leggo provvedimenti giudiziari in cui si cita il rischio di reiterazione di reati che sono stati commessi anni prima e mai ripetuti nel tempo, mentre a volte a un uomo violento e ossessivo si applica il semplice divieto di avvicinamento alla vittima, anche se l’esperienza insegna che a una violenza ne seguono molte altre”. Quanto ha pesato la vicenda Toti sul nuovo impeto di governo e Parlamento sulla giustizia? “Zero. Nessuno ha mai chiesto accelerazioni a favore di qualcuno, né per Toti né per altri”. Ha accennato ai femminicidi. Il Codice Rosso per le donne vittime di violenza si deve a lei. State maturando altro? “Quando applicato correttamente, il Codice Rosso riesce a prevenire i femminicidi. Non sempre, però, vengono rispettati i tempi previsti. Proprio in questi mesi abbiamo approvato un rafforzamento del Codice Rosso che dà poteri di controllo sui tempi ai procuratori capi. A questo punto, se dovessimo constatare colpevoli ritardi, penseremo a una stretta ulteriore”. E le intercettazioni? Si sta pensando di limitarle al minimo? “La commissione che presiedo ha fatto una lunga indagine ed è pacifico per tutti che le intercettazioni sono indispensabili. Gli interventi fatti, e che faremo, sono chirurgici, su singole norme che richiedono correzioni: nessuno cancellerà mai, o ridurrà drasticamente, le intercettazioni”. Marcello Dell’Utri: “Il carcere un incubo. Da ex detenuto invito il governo ad agire in fretta” di Luca Fazzo Il Giornale, 18 agosto 2024 “Vedo da sempre parole e niente fatti”. È stato uno dei fondatori di Forza Italia, è stato senatore della Repubblica. Ed è stato per cinque anni in carcere. Se si vuole parlare dell’emergenza carceri, che è un volto cruciale dell’emergenza giustizia, è inevitabile andare a parlare con Marcello Dell’Utri. Che nel 2024 celebra un record tanto assoluto quanto amaro: è da trent’anni sotto inchiesta. Da trent’anni, una dopo l’altra, procure del sud e del nord indicano in lui il protagonista delle malefatte più inenarrabili: compresa la più celebre, quella come artefice della trattativa tra Stato e mafia, sgretolata in tutti i gradi di giudizio dalle sentenze di assoluzione. In questi giorni estivi, Dell’Utri legge con attenzione le cronache dalle carceri e dal Parlamento, l’aspro dibattito sulle soluzioni da trovare al sovraffollamento. E la sua reazione è secca, condensata in poche parole: il carcere è un incubo, il governo si muova. Dalle carceri italiane arrivano ogni giorno notizie drammatiche: detenuti che si ammazzano, detenuti che si ribellano… “Ormai assisto quasi ogni anno alla stessa scena, ogni anno riparte l’allarme. E ogni anno assisto a tante chiacchiere e a pochi fatti. A impressionarmi è questo, ci si straccia le vesti, e poi non si fa nulla. Io dico: sbrigatevi, fate qualcosa e fatelo in fretta. Non so dire se il ministro Carlo Nordio abbia davvero in animo di affrontare il problema. Io, da uomo che ha vissuto sulla sua pelle la condizione carceraria, mi posso solo augurare che faccia qualcosa e in fretta”. Da che parte bisogna cominciare? “Costruire nuove carceri è necessario ma richiede tempo. Allora servono decisioni immediate, particolari. Sento parlare di sconti di pena, di liberazioni anticipate. Ma queste sono misure che riguardano solo i condannati. Invece quasi nessuno parla delle decine di migliaia di persone che sono in carcere in attesa di giudizio, senza mai essere state giudicate colpevoli di nulla, e che vengono ugualmente detenute in condizioni inumane. Nella grande maggioranza dei casi è gente che si potrebbe mandare a casa con un braccialetto elettronico, ma i braccialetti non si trovano, e così restano dentro. Io dico: quando si farà il giudizio si vedrà, nel frattempo non è giustizia tenere in galera persone che in tanti casi sono innocenti, che non hanno fatto nessun reato e che verranno assolte”. Com’è il carcere? “Il carcere è un incubo, e devi essere ben preparato per sopravvivere a questo incubo. Ma per essere preparato devi sapere cosa ti aspetta, e invece non puoi mai saperlo perché le regole è come se non esistessero, è un luogo di arbitrio dove il direttore è un dittatore, e dove ciò che è consentito a Rebibbia non è permesso a Parma”. Il governo di centrodestra è chiaramente diviso sulla risposta da dare all’emergenza carceri, c’è chi si preoccupa dei diritti dei detenuti e chi invece vorrebbe buttare via la chiave... “Il concetto di buttare via la chiave” lo trovo inaccettabile, una cosa che non esiste. Capisco che ci siano nella maggioranza idee diverse, capisco che si parli di certezza della pena”, ma c’è una via di mezzo in tutte le cose. Bisogna guardare i fatti concreti, le condizioni di vita delle carceri, e trovare soluzioni adeguate e dare a tutti i detenuti gli stessi diritti. Oggi non è così, ci sono carceri dove i cappellani e i volontari aiutano moltissimo a rendere la vita più vivibile, e carceri dove questo non accade. Lo Stato se ne frega, continua ad aumentare detenuti su detenuti e il sovraffollamento diventa cronico”. Nell’allarme di queste settimane sparisce il tema del 41 bis, il regime di massima sicurezza che è un carcere nel carcere, di cui qualcuno vorrebbe la abolizione. Lei che ne pensa? “Che ci siano restrizioni alla normale vita carceraria per alcuni reati e per alcune figure di detenuti mi sembra inevitabile. Ma a volte le restrizioni avvengono fuori da ogni controllo e diventano eccessive, anche in questo campo a dettare le condizioni di vita è più la dittatura dei direttori che un sistema di norme precise e valide per tutti”. La Procura di Palermo, che l’ha indagata e accusata per decenni, oggi è nella bufera. Gli ex pm Pignatone e Natoli sono accusati di avere aiutato Cosa Nostra, il loro ex collega Antonio Ingroia spara su Pignatone dicendo che suo padre era in contatto con imprenditori mafiosi. Sta leggendo? Che idea si è fatta? “Sto leggendo, sto leggendo. Io sono garantista nei confronti di tutti, e quindi lo sono anche verso i miei accusatori. Dico: lasciamo fare le indagini a giudici seri e competenti che ci diranno cosa è accaduto veramente in quegli anni”. Vuol dire che cose da capire ce ne sono ancora? “Eh sì”. Con Natoli e Pignatone si sta rimpiazzando il mito della Trattativa? di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 18 agosto 2024 La procura di Caltanissetta che indaga i due magistrati oramai in pensione, sospettati di aver favorito la mafia trent’anni fa. Presunti infedeli i pm, al posto degli ufficiali del Ros? La sorprendente e clamorosa iniziativa della procura di Caltanissetta di indagare i due noti e stimati magistrati ormai in pensione Natoli e Pignatone, accusati nientemeno di avere un trentennio fa favorito Cosa nostra insabbiando - nei rispettivi ruoli di esecutore e istigatore - una indagine sui rapporti tra sospetti mafiosi e manager del gruppo imprenditoriale Ferruzzi, suscita interrogativi in diverse direzioni (cfr. anche il precedente intervento su queste colonne di E. Antonucci in data 1 agosto). È legittimo in punto di diritto avviare indagini, anche complesse e di possibile lunga durata, su un’ipotesi di reato che - come in questo caso - sarebbe comunque già ampiamente prescritta? È realisticamente presumibile che, a decenni di distanza, si sia in grado di acquisire gli elementi di conoscenza e le prove necessarie per poter riscontrare l’effettiva esistenza della presunta condotta favoritrice? E rimane non ultimo da chiedersi: considerate la oggettiva difficoltà e incertezza della verifica giudiziale, e tenendo conto della poca credibilità intrinseca di un’accusa così infamante riferita a due valorosi magistrati, celebri invece per il costante impegno antimafia, non vi è il rischio che quest’indagine nissena abbia comunque come perversa conseguenza di gettare su entrambi ombre del tutto immeritate? Si potrebbe, per altro verso, obiettare che interrogativi come questi sottovalutano un’esigenza di fondo scaturente da fondamentali istanze di giustizia sostanziale, di ordine morale prima che giuridico: com’è intuibile, si tratta della persistente aspirazione - di cui i pm nisseni si farebbero carico - a fare maggiore chiarezza sulle cause e sulle dinamiche delle stragi ai danni di Falcone e Borsellino. E ciò non solo per esaudire sacrosante aspettative dei familiari delle vittime, ma anche per soddisfare l’interesse pubblico ad attingere una più completa comprensione di vicende stragistiche che hanno profondamente turbato la coscienza collettiva e scosso la tenuta del nostro sistema democratico. È fuori discussione che questo bisogno di fare maggiore chiarezza sussista, e sia diffusamente avvertito. Ma i valori connessi a questa esigenza conoscitiva possono assumere una posizione “tirannica”, possono aprioristicamente prevalere - senza se e senza ma - su altri importanti valori ed esigenze concorrenti? Sono invero intuibili gli effetti distorsivi che una pretesa di verità e giustizia a ogni costo può provocare sullo stesso processo penale. Una prima tentazione può essere quella di percepire psicologicamente qualsiasi reato come “imprescrittibile”, a dispetto della prescrittibilità legislativamente prevista invece per la maggior parte dei reati (da questo punto di vista, appare sintomatico ad esempio che un giornale come Repubblica, nel manifestare apprezzamento e nel fornire implicito sostegno all’indagine nissena, abbia finora evitato di mettere in evidenza ii problema della prescrizione). È anche vero, peraltro, che non esiste nel nostro ordinamento un divieto legislative esplicito di compiere indagini su ipotesi di reato non concretamente perseguibili perché ormai prescritte. Ci troviamo in proposito in un territorio privo di regolamentazione processuale precisa e vincolante, per cui ampio è di fatto il potere discrezionale e ampia è la libertà di movimento del pubblico ministero. Ma, tanto più in mancanza di vincoli normativi stretti, è ragionevole attendersi scelte di azione attente e ben ponderate, rispettose di tutti i valori e di tutte le esigenze costituzionalmente rilevanti che vengono in gioco. Da questo punto di vista, può darsi in partenza per scontato che la procura di Caltanissetta abbia con la massima perizia tecnica vagliato gli ardui problemi emergenti in punto di fatto e di diritto, e col massimo scrupolo calcolato i potenziali riflessi negativi a largo raggio derivanti dalla prospettazione di un’accusa di favoreggiamento alla mafia talmente pesante e discreditante, da poter apparire arrischiata e poco verosimile in considerazione della storia e del profilo professionale dei due magistrati indagati? È presumibile che Natoli e Pignatone abbiano maggiore interesse, piuttosto che a giovarsi della prescrizione, a eventualmente rinunciarvi per dimostrare l’infondatezza della tesi accusatoria a salvaguardia della loro onorabilità professionale e personale. D’altra parte i punti problematici dell’accusa, ai miei occhi di studioso di diritto penale di lungo corso, affiorano con immediata evidenza. Un primo errore metodologico incombente consiste nell’adottare il cosiddetto “senno di poi”: cioè nel valutare come superficiali od omissive scelte processuali di allora sulla base di conoscenze più certe giudiziariamente acquisite in epoca successiva. Un secondo errore, anch’esso incombente, può indurre a tenere poco conto della intrinseca opinabilità frequentemente insita nella valutazione giudiziaria della rilevanza degli elementi desumibili dalle intercettazioni. Opinabilità che risente anche dell’orientamento culturale e tecnico dei singoli magistrati di volta in volta impegnati nell’ascolto: uno di inclinazione garantista può in buona fede giudicare irrilevanti elementi che un altro di orientamento contrario tenderebbe invece a considerare senz’altro rilevanti (per quanto non solo a chi scrive risulta, sia Pignatone che Natoli sono stati nella loro lunga carriera tutt’altro che indifferenti ai princìpi di garanzia). Se è così, la verifica di un vero dolo favoritistico addirittura nei confronti della mafia non può accontentarsi di sospetti o supposti indizi tratti anche dalla riesumazione di contrasti di vedute e rapporti conflittuali che connotarono la procura palermitana guidata da Giammanco, ma presuppone una prova rafforzata: vale a dire, basata su corposi elementi certi e univoci, così esenti da ragionevoli dubbi da far apparire improponibile ogni spiegazione alternativa. Allo stato delle conoscenze, e grazie a conoscenze ulteriori che potrebbero anche acquisirsi, è realisticamente prevedibile la possibilità di pervenire a una affermazione di responsabilità certa e univoca? Si tenga presente che l’accertamento dell’elemento soggettivo del reato, specie nell’ambito di vicende complesse e scivolose come quella di cui discutiamo, equivale quasi sempre a una probatio diabolica. Ammesso (e non concesso) che i pm nisseni vedano giusto nel rivalutare adesso come rilevanti intercettazioni che trent’anni fa condussero invece a scelte archiviatorie, sembra molto più plausibile escludere che tali scelte derivassero da una precisa e mirata volontà di coprire sospetti mafiosi in combutta con imprenditori e politici. È più realistico e ragionevole pensare che si sia trattato di un differente approccio valutativo ancorato a criteri di giudizio propri della procura palermitana di allora; o in alternativa - perché no? - di una sottovalutazione dovuta semmai a insufficiente attenzione e superficialità di analisi. Una eventuale manchevolezza, quest’ultima, abissalmente lontana da quel dolo di favoreggiamento, che avrebbe poco verosimilmente accomunato Giammanco e Pignatone come perversi co-registi dell’insabbiamento e Natoli come ingenuo esecutore! Con una ulteriore notazione, tutt’altro che irrilevante. A sostegno dell’infondatezza dell’ipotesi accusatoria, depone infatti a nostro avviso anche il seguente dato: di un altro filone della questione mafia-appalti (in particolare del filone siciliano di cui alla nota e controversa indagine condotta dai carabinieri del Ros) si erano occupati, nello stesso periodo, altri pm come Scarpinato e Lo Forte, i quali avevano analogamente finito col formulare una richiesta di archiviazione accolta dal giudice competente. Orbene, dovremmo sospettare anche in Scarpinato e Lo Forte atteggiamenti favoritistici in concorso col capo Giammanco, o considerarli inconsapevoli strumenti in mano al predetto, oppure giudicare oggi anche loro magistrati poco competenti o superficiali? Personalmente, tenderei a interpretare questa più generale scelta di archiviare come sintomatica di una condivisa convinzione tecnica circa la mancata maturazione in quella fase temporale dei presupposti giustificativi di un approfondimento delle indagini, piuttosto che di un disegno criminoso ordito da Giammanco ed eseguito da colleghi complici o succubi. Ma anche se non fosse da escludere che, riconsiderata oggi, quella convinzione di allora possa apparire sotto alcuni aspetti affrettata o professionalmente poco accorta, questo mutato giudizio giustificherebbe un tentativo di pesante criminalizzazione postuma che elegge i soli Natoli e Pignatone a capri espiatori di scelte giudiziarie collettive ritenute a posteriori - a torto o a ragione - per qualche ragione censurabili? Comunque, l’ipotesi accusatoria della procura nissena è talmente scioccante, e al tempo stesso intrigante da suscitare il rischio che il circo mediatico-giudiziario, divenuto orfano del processo-trattativa, assecondi la tentazione di rimpiazzarlo col nuovo mito alternativo dell’indagine su mafia e appalti come movente delle stragi del ‘92, criminalizzando ora, al posto di presunti infedeli ufficiali del Ros, presunti infedeli pubblici ministeri. Se questo rischio si avverasse, ci troveremmo però di fronte a una pregiudiziale contrapposizione di astratte verità che, oltre a non giovare alla possibilità di fare maggiore chiarezza sulle tragiche vicende di trent’anni fa, provocherebbe un ulteriore grave vulnus alla credibilità dell’azione giudiziaria contra la mafia. Come vecchio studioso, sono in ogni caso diventato sempre più scettico rispetto alla possibilità che, una volta trascorsi più decenni, la sede giudiziaria risulti la più adatta a far conseguire maggiori conoscenze su oscuri e drammatici eventi del passato. Non ultimo perché la giustizia penale, per potere attivarsi, ha appunto la necessità di ipotizzare reati e quindi di rileggere la storia secondo un’ottica unilateralmente (o prevalentemente) criminalizzatrice, che induce a distinguere con inevitabili distorsioni o forzature tra buoni e cattivi, colpevoli e innocenti. Mentre le vicende complesse di solito non ammettono la distinzione semplicistica tra bianco e nero a causa della compresenza di zone chiaroscurali, che indossando i guanti di legno del diritto penale non si è in grado di cogliere e ben interpretare. E proprio l’elevata complessità delle vicende esige, da parte dei giudici, capacità analitico-ricostruttive sul piano preliminare dell’ermeneutica dei fatti, che possono risultare molto più impegnative delle prestazioni tecniche richieste dall’interpretazione e applicazione delle norme di legge. Sarebbe, dunque, forse più opportuno affidare il compito di cercare di fare maggiore verità sulle stragi del ‘92 alle commissioni parlamentari e agli storici di professione, pur essendo consapevoli che neppure le vie e gli strumenti delle indagini extraprocessuali possono risultare idonei a raggiungere gli obiettivi conoscitivi sperati. Bari. Disordini nel carcere: sequestrato un infermiere, aggredito un poliziotto di Carlo Testa Corriere del Mezzogiorno, 18 agosto 2024 La notizia diffusa dai sindacati degli agenti penitenziari. La rivolta scoppiata al primo piano, quello dove si trovano i detenuti per reati comuni. Si è conclusa dopo tre ore. Sembra tornata la calma ma nella serata di venerdì 17 agosto si è temuto il peggio per una rivolta scoppiata nel carcere di Bari. Verso le 20 è arrivato un allarmante comunicato dei sindacati della polizia penitenziaria. Questo: “Gravissimi disordini sono in corso presso la Casa circondariale di Bari. Dalle primissime notizie che ci giungono, alcuni detenuti di una sezione detentiva avrebbero sequestrato un’infermiera e aggredito violentemente l’appartenente alla Polizia penitenziaria in servizio, che cercava di impedirlo. Sarebbero stati richiamati gli agenti di riposo e altri sarebbero stati inviati da diverse carceri della regione”. Sono le parole con cui Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, ha diffuso la notizia. In realtà, si è saputo dopo, la vittima del sequestro è stato un infermiere e non una infermiera. La rivolta cominciata alle 20 - La rivolta sarebbe cominciata intorno alle 20, circa settanta detenuti della seconda sezione dell’istituto, al primo piano dove sono reclusi i detenuti per reati comuni, hanno iniziato a protestare, danneggiando suppellettili e dando fuoco a lenzuola e coperte. Nel corso della rivolta è stato sequestrato un infermiere del reparto e aggredito violentemente un agente penitenziario che ha riportato ferite al volto. L’agente è stato portato in ospedale. La protesta dei sindacati - “A Bari - dice De Fazio della Uilpa - a fronte di 252 posti disponibili, sono presenti ben 390 detenuti, gestiti da 220 poliziotti penitenziari quando ne servirebbero almeno 449. Ormai il Re è nudo, è chiaro a tutti che il decreto carceri e la sua conversione in legge non sono serviti e non serviranno a nulla. La premier, Giorgia Meloni, sospenda le ferie e convochi una riunione straordinaria del Consiglio dei ministri”. Anche l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) conferma la ricostruzione della rivolta che coinvolgerebbe l’intera sezione, circa 70 detenuti. “Si ha il motivato timore - dice il segretario generale Leo Beneduci - che la situazione del carcere di Bari in cui sono detenuti anche appartenenti alle famiglie criminali del territorio possa degenerare”. Protesta anche il Sappe: “La seconda sezione del carcere è la stessa dove qualche giorno fa un detenuto magrebino aveva tentato la fuga. Ora basta, bisogna far cessare la violenza in carcere applicando le leggi che ci sono. I detenuti che compiono questi atti non devono rimanete impuniti ma portati immediatamente davanti al giudice”. L’intervento della Procura - Sono in corso accertamenti da parte della Procura di Bari sulla protesta che si è svolta nel carcere. Secondo alcune fonti si è trattato di “un atto di dissenso nei confronti della polizia penitenziaria”. Secondo tali fonti l’accesa contestazione ha coinvolto l’infermiere - che sarebbe stato trattenuto dai reclusi per alcuni minuti - mentre l’agente di polizia penitenziaria ha riportato ferite lievi mentre tentava di riportare la calma. All’esterno del carcere sono intervenuti gli agenti della polizia di Stato e i carabinieri che hanno monitorato la situazione. All’interno anche la direttrice della casa circondariale, Valeria Pirè. Milano. Viaggio nella bolgia di San Vittore: 9 detenuti in una cella di Manuela D’Alessandro agi.it, 18 agosto 2024 Il carcere contiene 1.007 persone, contro la capienza di 450. Il direttore Giacinto Siciliano racconta la sfida quotidiana per garantire dignità nel penitenziario più affollato d’Italia. A San Vittore qualcuno ha scritto col gesso “1+1=3” sulla lavagna di una delle aule scolastiche. Purtroppo, osserva il direttore Giacinto Siciliano fissando gli scarni elenchi affissi sulla porta dei partecipanti agli ultimi esami di Stato, “sono pochissimi quelli che seguono le lezioni e arrivano a fine anno”. I conti che non tornano perché esorbitano sono quelli del sovraffollamento. “C’è stato un giorno ad agosto che sono entrati 29 detenuti, se manteniamo il ritmo preso questo mese potrebbero essere 300 nuovi ingressi”. Intanto siamo a 1.007 totali per una capienza di 450. Un elefante in una stanza. Calcoli che sbiadiscono nell’aria cocente che tramortisce chi varca il carcere restituendo una piccola parte della sofferenza dei reclusi. “Al massimo sono otto-nove in una stanza da 33 metri quadri, nella maggior parte il numero è conforme ai tre metri a persona e, quando c’è un eccesso di ingressi, si ‘forza’ mettendo un letto in più” spiega all’AGI Siciliano. Tre metri per respirare, e respirare i quasi 40 gradi percepiti dividendo il respiro coi propri compagni. “Da qualche settimana in quasi tutte le celle c’è un ventilatore. Centodieci arrivano dalla Caritas, 140 li abbiamo messi noi. Per l’emergenza caldo-sovraffollamento è stata anche ampliata la fascia di apertura pomeridiana delle passeggiate e installata l’aria condizionata nei luoghi di socialità dei detenuti e nei box degli agenti. Nelle stanze più che mettere i ventilatori non possiamo. Certo, mi rendo conto che sono segnali di attenzione più che soluzioni. Quello che possiamo fare lo facciamo, rispettando le persone. Da luglio abbiamo 14 psicologi per 222 ore al mese e altri 8 mediatori linguistico culturali per 1600 ore per il secondo semestre finanziati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria “. Sono già 66 le persone che si sono uccise quest’anno, è stato molto criticato il regime della ‘custodia chiusa’ al posto della precedente ‘aperta’ che consentiva di trascorrere fuori dalla gabbia più delle otto ore previste per le ore d’aria e per frequentare le attività. Siciliano ha una lettura diversa rispetto a quella di chi ritiene che privare della possibilità di uscire dalla cella abbia aggravato i disagi di tutti e in particolare dei più fragili come dimostrerebbe il dato che gran parte dei suicidi avviene in regime ‘chiuso’. “È sbagliato parlare di ‘apertura’ e ‘chiusura’. Si è passati da un sistema di indiscriminata apertura, che era un modo per compensare la situazione di sovraffollamento, a un sistema di differenziazione tra i detenuti. Chi è in grado di rispettate le regole entra nelle sezioni a trattamento intensificato, può passare molte ore fuori dalla camera, partecipare alle attività e godere di margini di autonomia più ampi. Chi fa fatica a rispettare le regole e ad avere relazioni corrette con i compagni è inserito nelle sezioni ordinarie e può uscire dalla camera per partecipare ai momenti di socialità e alle attività organizzate dall’istituto. E, se attiva un percorso positivo, può comunque passare nelle sezioni a trattamento intensificato e godere progressivamente dei benefici di legge. In una grande casa circondariale con molti ingressi e tempi di permanenza brevi questo è ovviamente più difficile. È chiaro che questo cambiamento rende la vita più difficile agli operatori penitenziari che si trovano a gestire carichi di lavoro maggiori con tante persone, ma serve ad assicurare una più attenta gestione delle persone. Proteste? Poche”. Mostra un foglio con una delle prime applicazioni del decreto carcere per cui, appena entrato, al detenuto viene annunciato di quale sconto di pena potrà godere se si comporterà ‘benè. “A questa persona viene detto che ha un fine pena al 31 novembre 2028 ma, se tutto andrà nel migliore dei modi, sarà anticipato al 15 luglio 2027. Prima invece ogni sei mesi dovevi chiedere lo sconto, qui ti viene chiarito subito che, se rispetti le regole, uscirai e credo che questo sia un incentivo a seguire un certo percorso”. Alcuni esperti in materia hanno messo in dubbio che questi ‘automatismi’ sarebbero di così immediata applicazione. Nel 2024 qui non c’è stato nessun suicidio ma Siciliano ne ha affrontati tanti nella sua lunga esperienza, l’ultimo durante la ‘Prima della Scala’ dello scorso anno quando sospese la tradizionale visione dell’opera dopo la notizia. “Posso dire che le persone che si sono suicidate a San Vittore erano tutte molto seguite da noi, in modo capillare, e questo lascia ancora più amarezza”. Osserva un mutamento nelle relazioni tra i detenuti. “Succede adesso che uno di loro compia atti autolesionistici e gli altri non se ne accorgano o comunque non intervengano. Da tre, quattro anni è cambiato completamente l’atteggiamento di chi entra in carcere. Il tossico disperato c’è sempre stato ma una reattività, un’impulsività così forte come quella che registriamo ora, pochi operatori se la ricordano. Anche qui, come fuori, prevale la cultura del ‘likè, del tutto e subito. È molto difficile per loro comunicare a parole, forse perché, senza telefono, gli viene tolto un pezzo d’identità. È venuta meno anche la solidarietà tra loro, prima c’era una sorta di ‘gruppo’, ora vediamo delle schegge impazzite. Per esempio: una volta magari si rispettava un anziano che voleva riposare, ora no. Certo, il sovraffollamento non aiuta. Se due litigano, e, anche per le differenze culturali che ci sono, succede spesso, una persona la devi spostare ma dove la metti se non c’è posto?”. Nelle zone di ‘socialità’, che incarnano l’articolo della Costituzione sulla finalità di rieducazione della pena, c’è un uomo sorridente che assembla materiali come la plastica e rotoli di carta igienica in una piccola stanza. “Fuori ero un tatuatore, qui costruisco assieme ai volontari e ad altri barche, carrarmati, portabottiglie, ciò che la fantasia suggerisce. Mi interessa tutto quello è scarto e si può riciclare”. Nel reparto ‘giovani adulti’ un solo ragazzo sfida il caldo facendo esercizi con gli attrezzi, non proprio nuovi. Il calendario delle attività affisso al muro è fitto, si va dai ‘podcast’, alle percussioni, al calcio. Molte sono promosse dai volontari che a San Vittore sono una forza sempre viva. Chi vuole, “ma sono pochi a farlo”, afferma il direttore, può prendere in prestito un libro dalla biblioteca. L’impressione è che tutto sia molto ‘stretto’ per l’energia che dovrebbe animare o si dovrebbe riaccendere in chi prova a ripartire. Entriamo nell’area devastata da un crollo una ventina di anni fa. Ruderi, calcinacci, lavori in corso. “Un privato che vuole restare anonimo si è offerto di finanziare un pastificio” rivela Siciliano. Torino. “Per i detenuti una tortura, ora denunceremo Nordio” di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 18 agosto 2024 I Radicali in visita al Lorusso e Cutugno: c’è un clima di rabbia. Il viaggio dei Radicali Italiani all’interno del carcere Lorusso e Cutugno conferma, ancora una volta, le difficili condizioni di vita nella struttura. Una presa di consapevolezza non certo nuova per il tesoriere Filippo Blengino. E che il Lorusso e Cutugno sia “al collasso è un dato di fatto. Servono provvedimenti urgenti”, spiega Blengino. Che annuncia la decisione di depositare domani in Procura, a Torino, una denuncia contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il viaggio dei Radicali Italiani all’interno del carcere Lorusso e Cutugno conferma, ancora una volta, le difficili condizioni di vita nella struttura. Difficoltà che condividono migliaia di detenuti e poche centinaia di agenti della polizia penitenziaria costretti ogni giorno a dover affrontare una nuova emergenza. Una presa di consapevolezza non certo nuova per il tesoriere Filippo Blengino, che da anni visita i penitenziari registrando luci e ombre del sistema detentivo italiano. E che il Lorusso e Cutugno sia “al collasso è un dato di fatto. Servono provvedimenti urgenti”, spiega Blengino. Che annuncia la decisione di depositare domani in Procura, a Torino, una denuncia contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio. La quarta per la precisione, se si contano quelle già consegnate ad altri magistrati italiani. “Il reato che ipotizziamo - sottolinea - è tortura. La violazione dei diritti umani è lampante e il governo non fa nulla per tentare di impedire questo scempio. Le responsabilità dal nostro punto di vista sono chiare”. Sono le dieci del mattino quando gli imponenti cancelli automatici del penitenziario si aprono per far entrare la delegazione: in visita non c’è solo Blengino, lo accompagnano i colleghi della direzione e segreteria Alice Depetro e Flavio Martino e anche Enea Lombardozzo, dell’associazione Adelaide Aglietta. Prima l’incontro con la direttrice e con l’ispettore che coordina i poliziotti (il ruolo di comandante è vacante dal giugno scorso). E già da questi brevi colloqui emergono le prime inequivocabili criticità. Il sovraffollamento segna un più 132 per cento - a fronte di una capienza di 1.100 posti, la popolazione carceraria è composta da 1.430 detenuti - e la pianta organica del personale della penitenziaria dice che mancano 250 agenti. Poi i Radicali ottengono di visitare il Padiglione C (era stato negato alla delegazione del Pd per motivi di sicurezza), lo stesso in cui a Ferragosto si è registrato un tentativo di rivolta. “Abbiamo parlato con il detenuto che avrebbe innescato i disordini - racconta Blengino -. Condividiamo il suo malessere, comune ad altri reclusi, ma la protesta deve essere pacifica. Parlando con loro abbiamo riscontrato rabbia. Si aspettavano azioni più incisive dal governo per svuotare le carceri, come un’amnistia o un indulto. La situazione è drammatica, le celle sono fatiscenti, fa un caldo torrido e l’igiene scarseggia”. Delicato, ma meno rovente il clima nella sezione femminile: “Anche lì i disagi e le difficoltà non mancano, ma le detenute non condividono le azioni violente del settore maschile. Piuttosto ne sono preoccupate”. Lasciato il Lorusso e Cutugno, il pellegrinaggio dei Radicali prosegue alla volta del penitenziario di Vercelli. Qui non c’è sovraffollamento, tuttavia Blengino evidenzia che “l’emergenza è rappresentata da coloro che hanno problemi psichiatrici: su 264 detenuti, 168 fanno uso di psicofarmaci e 30 sono monitorati - a vari livelli - perché a rischio suicidio”. Torino. Le detenute scrivono a Mattarella: “Presidente, ci salvi dall’indifferenza!” La Stampa, 18 agosto 2024 Pubblichiamo la lettera delle detenute del carcere femminile di Torino. Siamo le “ragazze” detenute nel carcere di Torino. Con questo scritto vorremmo divulgare pubblicamente che il giorno di Ferragosto faremo lo sciopero del carrello rifiutando il cibo dell’amministrazione penitenziaria e che quando terminerà la pausa estiva del Parlamento inizieremo lo sciopero della fame ad oltranza e a staffetta, pacificamente, affinché venga concessa la liberazione anticipata speciale o qualsiasi misura che riduca il sovraffollamento e riporti respiro a tutta la comunità penitenziaria. Il “Decreto carceri” a cosa serve? A nulla! Cosa deve succedere ancora? La responsabilità politica è diffusa, non è nata oggi questa emergenza. Il sistema andrebbe riformato da zero, perché questo modo di scontare la pena non serve né a noi “carnefici” né alle vittime, né alla società libera, ma ora più che mai c’è bisogno che qualcosa accada perché la misura è stracolma. Siamo 14 mila in più. C’è poco personale, il reinserimento non esiste nonostante esista la legge Smuraglia, tutti i disagi possibili sono “sbattuti” dentro. Chiediamo a tutta l’opposizione di battersi contro la deriva a cui questo governo ci sta portando. Chiediamo a coloro che si sono indignati rispetto alle condizioni di detenzione di Ilaria Salis di fare lo stesso per le condizioni di noi ristretti in Italia! Ci affidiamo al Presidente Mattarella affinché “scuota” l’indifferenza dei decisori. Non c’è più tempo! Vercelli. I Radicali in visita al carcere: “Due detenuti su tre hanno problemi psichiatrici” di Andrea Zanello La Stampa, 18 agosto 2024 Alta anche la percentuale di osservati speciali perché a rischio suicidio. Un’alta percentuale di detenuti psichiatrici e un numero ingente di osservati speciali perché a rischio suicidio. Sono alcune delle dinamiche interne al carcere di Vercelli che i Radicali hanno segnalato ieri. Dopo Roma, Milano, Sollicciano, Poggioreale, Secondigliano, Benevento, Bologna, Torino il tour di agosto dei Radicali Italiani nel pomeriggio è arrivato a Vercelli. Il tesoriere Filippo Blengino, insieme ad una delegazione di altre sei persone, ha verificato le condizioni del carcere di Vercelli di Billiemme. “La situazione qui è diversa da altre strutture italiane, perché più piccola: non è sovraffollata- spiega Blengino parlando dei 264 detenuti presenti nella struttura che ne può ospitare 351 - anche perché ultimamente ci sono stati dei trasferimenti”. La maggior parte dei detenuti è carcerata per reati legati alla droga: Marocco, Tunisia, Albania, Senegal e Algeria sono le nazionalità più presenti. A livello di struttura: “Il carcere ha delle infiltrazioni perché vecchio. Inoltre ci sono zone con le docce in comune: questo viola la normativa corrente. C’è inoltre un intero piano in fase di ristrutturazione e diverse camere non sono agibili. Abbiamo percepito un grande lavoro di tutto il personale: penso che sia anche merito loro se a Vercelli non si sono registrati suicidi tra i detenuti- ricorda Blengino - e qui ci sono moltissime persone con disturbi psichiatrici: 30 detenuti a settimana sono attenzionati per il rischio suicidio. Dovrebbero stare altrove”. Uno dei problemi di questo periodo è il caldo: “È pericolosissimo in questo agosto: fuori ci sono 40 gradi, quindi dentro esposti al sole e senza ventilatore molti detenuti sono a rischio. Altro tema importante è l’autolesionismo: anche oggi a Vercelli abbiamo visto molti detenuti con tagli sulle braccia, anche questo un aspetto psichiatrico. Su 264 detenuti ben 168 sono sottoposti a farmacologia per disturbo psichiatrico: è una cifra esorbitante”. Nota positiva: “La sezione femminile in cui la situazione è nella norma: in cucina sono occupate tre detenute, tutto sommato la situazione è migliore”. A Vercelli come altrove una delle criticità maggiori è che “Manca la capacità di insistere su iniziative per riempire la giornata delle persone. La gente sta tutto il giorno a letto a fissare il vuoto: questo aumento il rischio di patologie psichiatriche”. Vercelli rispecchia il quadro nazionale: “Si sta sottovalutando una condizione che sfocia in situazioni violente. Questo è inaccettabile, anche dal punto di vista penale. C’è una sistematica violazione dello stato di diritto. Vivono male sia i detenuti che il personale del carcere. Se l’Asl visitasse il carcere, come ogni altra struttura di cui si occupa, la dichiarerebbe inagibile anche solo per la muffa sulle pareti. Le condizioni dei detenuti sono disumane, nelle nostre visite abbiamo riscontrato delle strutture fatiscenti, un personale che purtroppo non riesce a gestire l’inferno quotidiano dei suicidi, delle rivolte, del diffuso disagio psichico. Abbiamo più volte denunciato il ministro Nordio per tortura”. Rimini. Sovraffollamento dietro le sbarre. Un detenuto su dieci è under 25 di Francesco Zuppiroli Il Resto del Carlino, 18 agosto 2024 Ai “Casetti” sono rinchiuse 158 persone a fronte di 118 posti regolamentati. Il garante Roberto Cavalieri: “Il boom di ragazzi è legato al periodo estivo, che fa impennare gli arresti per spaccio, furto e rapina”. Ci sta il mare fuori. Fuori dalle sbarre del carcere di Rimini, dove l’Adriatico calamita (in senso figurato) i 158 paia di occhi che sbirciano al di là dell’orizzonte. Tante sono infatti, stando ai dati più aggiornati del Garante regionale per i detenuti, le persone oggi ristrette nella casa circondariale del territorio, dove invece la capienza massima sarebbe di 118 detenuti. Un sovraffollamento di ben 40 persone che rappresenta però quasi un’abitudine per una casa circondariale abituata ad oscillazioni e sovra-stress nel periodo estivo. “È una peculiarità di Rimini”, ammette lo stesso Roberto Cavalieri, garante dei detenuti, che sottolinea anche come “più di uno su dieci persone ristrette ai ‘Casetti’ è under25”. Oltre al sovraffollamento cronico in estate infatti l’altro tratto distintivo del nostro carcere è rappresentato dall’elevata percentuale - la più alta tra le carceri dell’Emilia-Romagna - di detenuti cosiddetti “giovani adulti”. Ai ‘Casetti’ le persone ristrette con età inferiore ai 25 anni rappresenta ben l’11,3 per cento del totale (18 persone), staccando abbondantemente l’altro carcere in cui la percentuale sul totale è elevata (Piacenza fa registrare il 9,8%). “L’impennata di ristretti e il rapporto elevato di under25 sono strettamente connessi al periodo estivo - porge la sua chiave di lettura Roberto Cavalieri -. La città e la provincia di Rimini d’altronde diventano molto più popolate da giugno ad agosto e questo comporta due fattori: una elevata domanda di stupefacenti e quindi reati connessi allo spaccio e una concentrazione di beni che porta a un elevato tasso di microcriminalità legata ai furti e alle rapine”. Ecco perché, di conseguenza, il domino di fattori porta prima a un’impennata degli arresti e così a un picco di presenze in carcere. “Va detto che in una situazione extra periodo estivo la casa circondariale di Rimini è ben dimensionata in rapporto alla popolazione, anche se va da sé che questo rapporto muta con l’aumentare di persone sul territorio”. Secondo il garante insomma “Rimini può passare da picchi di 160 detenuti a una normale occupazione di 110 (in linea con la capienza massima fissata a 118 persone, ndr). Il problema connesso invece ai giovani detenuti - continua Cavalieri - è il breve periodo di permanenza dei ristretti al carcere di Rimini”. I ‘Casetti’ infatti sono una casa circondariale dedicata a periodi di detenzione mediamente brevi e questo “non consente di impegnarsi in interventi trattamentali adeguati, come ad esempio il corso di formazioni professionalizzante per detenuti, che è più difficile da realizzare”. C’è poi il nodo comune a tutte le case circondariali, con il sovraffollamento che porta con sé uno tsunami di disagi. “Ma non c’è da sorprendersi - scandisce il garante -. È come avere un ristorante da 40 posti che si ritrova a doverne gestire 60. Non solo non ci sono gli spazi, ma non c’è neanche il personale adeguato”. A Rimini c’è invece un aspetto “lodevole”, ossia un sovraffollamento là dove la funzione rieducativa del carcere adempie alla propria missione: “Nella sezione dei semiliberi, ossia dove sono ristrette le persone che nel frattempo hanno ritrovato un lavoro, Rimini è piena con picchi di 15 detenuti e questo significa che il territorio offre una buona risposta al reinserimento dei ristretti in società”. Terni. Dal carcere al lavoro nella clinica veterinaria Tyrus: la nuova vita di Renato ed Emanuele di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 18 agosto 2024 I due detenuti lavorano grazie a Seconda Chance, la onlus fondata dalla giornalista Flavia Filippi. “Ho iniziato a lavorare qui il 9 gennaio. Ero in carcere da febbraio 2020 e ancora mi emoziono se ripenso alle sensazioni provate quel giorno. Sono grato a chi mi ha permesso di riassaporare la libertà, per loro ci sarò sempre”. Renato, 52 anni, romano, detenuto nel carcere di Sabbione nella sezione dei semiliberi, è al lavoro nella clinica veterinaria Tyrus. Dopo aver svolto la formazione grazie alla piattaforma messa a disposizione da Unisvet è diventato tecnico veterinario della clinica che sta a due passi dal carcere. Racconta di sé nella stanza dedicata alla riabilitazione di cani e gatti dove affianca il fisioterapista, Simone Bargellini. È al lavoro nello studio ecografico Emanuele, 42 anni, siciliano, anche lui detenuto a Sabbione ma col permesso di uscire per andare nella clinica Anicura dove presta servizio al pronto soccorso. “Prima di iniziare questo lavoro ero in ansia, mi facevo mille domande, pensavo a come potermi presentare al meglio perché volevo dare il massimo - dice Emanuele. Ho lavorato in edilizia e nella ristorazione e non avrei mai immaginato che gli animali avrebbero potuto donare così tanto amore”. La nuova vita di Renato ed Emanuele, in attesa di uscire per il fine pena, è arrivata grazie a una serie di coincidenze che per loro saranno decisive per ripartire con la vita oltre le sbarre. Tutto inizia da una delle stanze della clinica. Il direttore di AniCura Tyrus Paolo Bargellini guarda fuori dalla finestra e di fronte ha l’imponenza e il mistero del carcere. La stanza dà sullo stabile dove vive l’ex comandante della penitenziaria Fabio Gallo e un giorno gli chiede di parlare. La direzione del carcere crede nel progetto e Paolo Bargellini si mette all’opera per trasformare un sogno in realtà. Nasce così il progetto “Una zampa tesa”, che sta dando tanto a quanti lo stanno vivendo: “Siamo orgogliosi di questo progetto, per noi accogliere i partecipanti nella nostra clinica è un privilegio - dice Paolo Bargellini. Crediamo molto nel potere della riabilitazione e della formazione professionale per favorire il reinserimento sociale dei detenuti e siamo grati di poter offrire questa opportunità di crescita personale. Renato ed Emanuele sono membri del nostro team a tutti gli effetti e so che da questa esperienza sto ricevendo tantissimo, molto di più di quello che avrei immaginato”. Un ruolo decisivo l’ha avuto Seconda Chance, l’associazione senza fini di lucro fondata dalla giornalista del TgLa7 Flavia Filippi che in due anni ha procurato 300 opportunità di lavoro a detenuti, affidati in prova ed ex detenuti in tutta Italia impegnati in note aziende, da McDonald’s all’istituto superiore di sanità, da Terna al Vaticano: “Con AniCura stiamo organizzando corsi per tecnici veterinari a Pescara, Novara e Bologna - dice Flavia - e questo sulla scia dell’esperienza ternana. Ci auguriamo che altri imprenditori umbri aderiscano al progetto di Seconda Chance, che garantisce agevolazioni fiscali ed è un’opportunità che restituisce molto in termini di umanità e crescita personale”. Renato ed Emanuele si apprestano a lasciare la clinica, dove lavorano sei giorni su sette, per rientrare in carcere. “Quando rientri la sera torni ad essere niente, solo un numero di matricola e nulla può farti sentire importante - dice Renato. Il dispiacere più grande? Aver fatto soffrire le persone che mi vogliono bene ma ora, dopo aver sbagliato e pagato per i miei errori, so che la mia vita è qui. Non finirò mai di ringraziare Paolo e Sara e lo staff della clinica, il comandante Gallo e la mia educatrice Bravi”. Anche Emanuele toglie la divisa di lavoro per rientrare a Sabbione in attesa del fine pena che arriva tra 10 mesi: “Non tornerò in Sicilia e non so se in futuro questo sarà il mio lavoro - dice. Vado avanti giorno per giorno, intanto però lavoro con amore e dedizione accanto a persone che non ci fanno pesare niente e credono in noi”. Roma. Chiudere la stazione Termini coi cancelli risolverà il dramma dei senza dimora? di Igor Traboni Avvenire, 18 agosto 2024 Il progetto del I Municipio, avallato dal Comune, prevede recinti per evitare i bivacchi notturni. Chi conosce bene la realtà degli ultimi, però, rilancia altre soluzioni. A cominciare da Sant’Egidio. Lo chiamano “il dente cariato”: un po’ per la morfologia, un po’ perché dà proprio l’idea di qualcosa andata a male, con quel brutto colpo d’occhio, una volta usciti dalla stazione Termini sulla sinistra, di un “serpentone” con oltre 20 tra negozi e fast food. Una “carie” che si spinge verso piazza dei Cinquecento, i cui due portici al tramonto diventano l’unica dimora di chi un posto per dormire proprio non ce l’ha e si adatta alla meglio, tra cartoni, vecchie coperte, sporcizia ovunque e piccioni che arrivano a beccare anche i piedi. In base ad un progetto avviato dal I Municipio, il “dente cariato” è destinato ad essere abbattuto e ricostruito in maniera più decorosa, mentre per i due portici di piazza dei Cinquecento, realizzati un secolo e mezzo fa con l’intenzione di farne il biglietto d’ingresso della Capitale per quanti arrivavano a Termini, il proposito è quello di chiuderlo con dei cancelli, recintarli in pratica, per impedirne l’accesso notturno ai senzatetto. Cancellate che dovrebbero poi estendersi all’area del Giardino di Dogali, nella limitrofa piazza della Repubblica, e a viale Pretoriano. Un progetto che, come detto, è del I Municipio, ma che al Comune di Roma già conoscono e a quanto pare condividono, come ha affermato l’assessore ai Lavori pubblici, Ornella Segnalini, al Messaggero: “Lavoriamo in strettissimo contatto. La soluzione studiata per evitare che quei portici diventino il dormitorio di senza fissa dimora è di apporre una cancellata”. Un progetto attorno al quale già si registra una divisione abbastanza netta tra commercianti e residenti, mentre sul fronte del volontariato sociale non raccoglie certo adesioni entusiaste, anzi. “La soluzione non può essere certo quella di spostare i senza fissa dimora duecento metri più avanti”, dichiara Massimiliano Signifredi, che quelle zone attorno alla stazione Termini le conosce come le sue tasche, visto che è il coordinatore delle cosiddette “Cene itineranti” di Sant’Egidio e in particolare dei 30-40 giovani universitari fuori sede che portano cibo, amicizia e calore umano agli ultimi di questa zona tra le più degradate della Capitale, nel solco di un’esperienza e di una presenza ultraventennale della Comunità. “Della tutela del decoro pubblico, della salute, della sicurezza e anche dell’opportuna salvaguardia di monumenti che hanno una loro storia - riprende Signifredi - si parla da tanti anni, ma noi crediamo che l’inizio della soluzione sia invece quello dell’installazione delle quattro tensostrutture, una delle quali è prevista proprio vicino alla stazione Termini. Questo consentirebbe ai volontari delle associazioni di incontrare le persone in un contesto senza dubbio migliore di quello della strada. Per Sant’Egidio non esistono soluzioni generali e generalizzate, “ma siamo convinti che qualsiasi intervento va affrontato con la singola persona. Le cause che portano una persona a finire sulla strada, senza più un tetto, possono essere diverse e vanno affrontate singolarmente, conosciute al meglio, per proporre soluzioni adeguate, come ci insegna la nostra esperienza molto radicata a Roma con i senza dimora e rispetto alla quale ci muoviamo già con interventi concreti. Poco tempo fa, ad esempio, i nostri volontari hanno incontrato una donna indiana che viveva in condizioni estreme proprio sotto i portici di via Giolitti e aveva messo su una sorta di capanna con dei cartoni: incontrandola, cercando di capirne esigenze e aspettative e dialogando anche con pazienza, siamo riusciti a trovare una soluzione adatta per lei che ora vive in una struttura fuori Roma. Questo non sarebbe stato possibile realizzando dei luoghi chiusi che, ripeto, alla fine sposterebbero solo il problema di qualche centinaio di metri. Invece noi vogliamo incontrare le persone che hanno dei problemi, compresi quelli di salute mentale, sempre più numerosi”. Ed ecco dunque che per la Comunità di Sant’Egidio tornerebbero invece utili le quattro tensostrutture: una per l’appunto nei paraggi di Termini e le altre nei pressi delle stazioni Tiburtina, Ostiense e San Paolo. Non siamo estranei, ti racconto che cosa ci lega di Concita De Gregorio La Repubblica, 18 agosto 2024 Vivo giorni di isolamento in una speciale comunità, quella della cura. Qui, in un ospedale, l’equilibrio è tutto: è misura millimetrica dell’ascolto e del rispetto del vicino, dell’altro. Solo chi ci governa si sente, tracotante, nei panni di re Lear. La fine del dialogo, il disprezzo degli altri. Dov’è la sorgente, quale la causa e quale l’effetto? È stata la fine del dialogo - l’isolamento, la vita in cuffia, il soliloquio - ad aver provocato il disprezzo e la paura dell’altro? L’altro, in generale: che arrivi dal mare, che sia in carcere, che abbia diritto a morire come crede, a dirsi italiano per nascita, per studi, ad avere figli in accordo con chi e come vuole senza doverli nascondere per non incorrere in reati universali immaginari. L’altro da te. Oppure è stata la paura della “contaminazione” - sapete: quel timore di essere contagiati da chi ha meno fortuna, salute, da chi con la sua sola vicinanza porta disgrazia - a renderci sordi, dunque inabili alla comunicazione e incapaci di metterci nei panni altrui? Che dilemma interessante, mentre appunto fuori si dibatte di cittadinanza, di pena espiazione e redenzione, di identità e procreazione con una ferocia inaudita, sconcia, insopportabile e misera: schieramenti che trasformano delicatissime questioni personali e universali in battaglie ideologiche in cui nessuno ascolta nessuno, giacché tutti hanno uno slogan a prescindere, e che gli altri non siano liberi ma debbano adeguarsi è conseguenza ovvia. Vivo giorni di grande isolamento in una speciale comunità, quella della cura: qui, in un ospedale, ai margini e nel silenzio, l’equilibrio è tutto: è misura millimetrica dell’ascolto e del rispetto del vicino. Si chiama proprio così, quello di là dalla precaria tenda: il vicino, la vicina. Mi è dunque tornato in mente di quando ero bambina, nella stessa metropoli dove mi trovo oggi: mi sono tornati a mente i vicini. Hai mica del sale?, si chiedevano le donne come oggi, qui, tra noi, ai compagni di stanza di là dalla tenda. Eravamo al limitare della città ma ancora in città, giusto dove la strada inizia a salire verso la collina. C’erano delle piccole casette monofamiliari dove i bambini venivano trasferiti insieme ai nonni, l’estate, per “respirare aria buona”. A cinquecento metri dal centro, a duecento metri di altezza dal mare, forse meno: abbastanza per dirsi in villeggiatura. Le casette erano fatte così: quadrate, piano terra e primo piano, piccolo rettangolo di terra davanti chiamato con solennità giardino (c’era l’altalena, era perciò ufficialmente un giardino), cancello, strada. Tra una casetta e l’altra correva un vicolo. Non una strada, solo lo spazio per una persona a piedi, in bicicletta. Ogni giorno ogni famiglia dedicava un tempo alla cura del suo giardino e altrettanto tempo a pulire con secchiate d’acqua la strada davanti al cancello, a spazzare i vicoli di lato. Lì mia nonna e la vicina si attardavano a parlare dei loro dolori: mentre tenevano in ordine la zona di nessuno tra una casa e l’altra, eppure di ciascuno. Con gli anni le nonne sono morte tutte, le case sono diventate b&b, o sono state affittate a molte persone povere venute da lontano che ne hanno chiamate altre e sono arrivate ad essere moltissime, in quel piccolo spazio. Nessuno ha più pulito le strade di confine, di nessuno, che sono diventate immondezzai, torrenti di liquami, topi giganti e altri animali. I giardini delle altalene sono stati noleggiati come posti macchina e in quelle macchine, nelle strade al limitare della collina, sono iniziati commerci di corpi, pastiglie, cose di cui non conosco il nome ma so che non si può più salire, da molti anni, in quello che è stato il paradiso della mia infanzia, il luogo dove forse mi sono la prima volta innamorata di un bambino è un luogo invalicabile, adesso, pericolosissimo e nero. Credo che tutto sia iniziato quando quella piccola striscia tra le case anziché essere considerata di tutti, da tutti ugualmente curata, è diventata terra di nessuno. Lo spazio comune, il bene comune: certo, non è tuo, ma se lo disprezzi tu lo disprezzeranno tutti. Una strada sporca sarà più facilmente sporcata. Se ci sono già tre lattine a terra sarà più facile buttarne un’altra. In una piazza, in un giardino, in un ospedale pulito nessuno butta niente. Si vergogna a farlo. Qui, in questo luogo di cura, ho sentito una paziente dire alle sei del mattino, a un’infermiera: non ho chiamato prima, alle quattro, perché non volevo disturbare. Ho sentito l’infermiera rispondere io sono qui perché tu non soffra, non mi disturbi mai. Ieri non ero di turno, ma ti pensavo - le ha detto e l’ha chiamata come si usa da queste parti reina, regina. Una sconosciuta. Una straniera. Straniera, sconosciuta, regina. È un ospedale pubblico. C’è una piccola biblioteca in fondo al nostro corridoio. I medici del pronto soccorso parlano lingue diverse, così nessuno si sente straniero. Mi sono commossa diverse volte in questi giorni. Ho pensato, leggendo i giornali: Gerardina Trovato, la cantante, non “è tornata”. È sempre stata lì. Siamo noi che ci siamo dimenticati di chiederle che succede, dove sei, come stai. Siamo noi che ce ne siamo andati. Poi ho pensato che mettere il bene e il male in due file ordinate, come fanno gli urlatori di slogan, è facilissimo. Il bene e il male però vivono intrecciati, abitano lo stesso appartamento. Stanno nella stessa persona, sempre. È tutto un lavoro di equilibrio, è una faccenda di rispetto degli altri. Rispetto. Al suo opposto c’è la paranoia. La paranoia è un meccanismo primitivo dell’essere umano. È utile la Signora della Psicoanalisi, Melanie Klein, per decifrarla e per sapere di invidia e gratitudine, cioè del funzionamento dei social e della legge del consenso, ma non è necessaria. Non vorrei che filosofia e psicoanalisi fossero radical chic. Basterebbe Re Lear, che dice a Cordelia “esci dal mio campo visivo”, non voglio vederti. Colpevole, la figlia, di avergli detto no, padre: non tutto il mio amore è per te, una parte è per qualcun altro. Eh, gli archetipi. Ma anche qui. Un investimento pubblico in conoscenza di Cordelia sarebbe mirabile. Un ospedale pubblico, uno spazio pubblico, un luogo comune. Una panchina in una piazza. La depressione non è solo la bizzarra vicenda occorsa a Gerardina Trovato, che oggi chiede non mi lasciate sola, amici, gente di TikTok. È la nostra storia, quella che dilaga nei nostri figli. Solo chi ci governa si sente, tracotante, nei panni di Lear. Di Salvini, del leader di Vox Santiago Abascal, l’amico spagnolo di Giorgia Meloni, quello che dice più muri e meno neri. Anche se obiettivamente. Gridate di meno, ascoltate di più. La cittadinanza, i figli, la buona morte, i corpi, i diritti. Gridate di meno. C’è quello spazio comune fra casa e casa da liberare dall’immondizia, non è di nessuno ma è di tutti. Fa schifo, in questo momento, e chi ci vive è pieno di rabbia. Proviamo a pulire. A dire, come mi accade in questi giorni in questo luogo: di cosa hai bisogno, vicina dietro la tenda, vicina che non vedo ma c’è. Mi senti, capisci la mia lingua? Ti aiuto. È così semplice. Come mai, urlando, ve lo siete dimenticati. Un capitale sociale fragile rende il nostro paese sempre più diviso e a rischio tensioni sociali di Enzo Risso Il Domani, 18 agosto 2024 Le persone con meno risorse e reti sociali hanno minori opportunità di mobilità sociale e di accesso ai benefici derivanti dalle relazioni. Con questo presupposto, le diseguaglianze finiscono per esacerbarsi. Il capitale sociale langue in Italia. Sono fragili le risorse cui le persone possono attingere grazie alle qualità e quantità delle relazioni sociali e delle reti di connessioni che possiedono. Una recente indagine di Ipsos global Advisor, realizzata in 30 paesi, consente di mettere a confronto la qualità percepita delle relazioni sociali e familiari degli italiani con quelle dei cittadini degli altri paesi e permette di verificare lo stato di salute del capitale sociale presente nella nostra penisola. Le relazioni - Partiamo dalle relazioni sentimentali e sessuali. In Italia sono soddisfatti il 52 per cento delle persone. Un dato che colloca gli italiani al terzultimo posto insieme a Canada (52), Corea del Sud (45) e Giappone (37). In testa alla classifica di appagamento delle relazioni sentimentali ci sono i cittadini di India e Messico (76 per cento). Il primo paese europeo è la Spagna (70), seguita da Olanda (64) e Gran Bretagna (63). La Francia è al 61, poco più sotto l’Irlanda (60), il Belgio e la Svezia (58). Livelli simili a quelli dell’Italia li troviamo in Germania (54) e Ungheria (53). Il secondo aspetto sono le relazioni amicali. La soddisfazione colloca gli italiani al penultimo posto (63 per cento), superati solo dai giapponesi (55). In testa ai livelli di appagamento per la qualità delle amicizie troviamo i residenti in Perù e Indonesia (85 per cento), seguiti da Sudafrica e Thailandia (83). Al terzo posto si collocano olandesi e irlandesi (82). Più sotto: inglesi (81), spagnoli (79), polacchi (77), tedeschi e francesi (76), svedesi (75), belgi (71) e ungheresi (70). Non va meglio se analizziamo il compiacimento per i rapporti di coppia. L’Italia si colloca in terzultima posizione (72 per cento di soddisfatti), superata da Corea del Sud (68) e dal Giappone (69). I più appagati dalle relazioni di coppia li troviamo in Thailandia (92 per cento) e Olanda (91). Negli Stati Uniti il livello di appagamento coinvolge l’87 per cento delle persone, in Gran Bretagna l’86, in Germania l’85, in Spagna l’84, in Francia Polonia e Ungheria l’81. Gli italiani salgono al quart’ultimo posto quando si parla di soddisfazione dei rapporti con genitori, fratelli e parenti (69 per cento). Peggio vanno solo Turchia (68), Ungheria (67), Corea del Sud (81) e l’immancabile Giappone (55). I paesi europei in cui l’appagamento per le relazioni parentali è maggiore sono Spagna e Olanda (81), seguite da Svezia (78), Irlanda e Gran Bretagna (77), Francia e Germania (72), Polonia (71). Complessivamente gli italiani si sentono limitatamente amati (63 per cento afferma di sentirsi amato) e poco apprezzati (58 per cento afferma di sentirsi apprezzato). Nel primo caso l’Italia si colloca al penultimo posto, nel secondo caso si piazza al quart’ultimo posto. L’unico aspetto in cui gli italiani risalgono la piramide della soddisfazione è quello relativo alla soddisfazione del rapporto con i figli (81 per cento). Un dato che colloca il nostro paese sempre nella parte bassa della classifica, ma non in fondo, superata da Turchia, Australia, Polonia, Corea del Sud, Ungheria, India e Giappone. Il livello di soddisfazione italiano è simile ai livelli registrati in Germania e Olanda (83), Gran Bretagna e Francia (84), Irlanda e Spagna (86). Solo la Svezia svetta con il suo 90 per cento. Una situazione fragile - Il quadro che emerge dalla ricerca mostra una sistemica e complessiva fragilità del capitale sociale degli italiani. Un dato che porta con sé numerose e perniciose conseguenze. Bassi livelli di capitale sociale alimentano la frammentazione e l’isolamento degli individui e dei gruppi, riducendo i tassi di coesione sociale; indeboliscono il tessuto della fiducia tra le persone e la loro disponibilità a cooperare per il bene comune; riducono la partecipazione civica e politica; foraggiano l’aumento dell’individualismo e dell’egoismo. Un basso capitale sociale può esacerbare le disuguaglianze esistenti, poiché le persone con meno risorse e reti sociali hanno minori opportunità di mobilità sociale e di accesso ai benefici derivanti dalle relazioni. Non solo. Bassi livelli di reticolarità sociale incrementano la criminalità e i comportamenti antisociali. Una comunità con un capitale sociale carente ha, infine, più difficoltà a far fronte e a riprendersi da eventi traumatici o situazioni di crisi, a causa della mancanza di supporto reciproco e di risorse condivise. Minando la coesione, la fiducia e la capacità di una società di affrontare sfide comuni e perseguire obiettivi condivisi, si prepara un futuro di fragilità e si alimentano le fratture e le tensioni sociali. Ma di questo nel dibattito politico contemporaneo non c’è ombra. Migranti. Lager libici, cimitero Mediterraneo, rotta balcanica: e Piantedosi esulta di Gianfranco Schiavone L’Unità, 18 agosto 2024 La retorica governativa maschera i flussi veri. Lasciar morire affogati o lasciar deportare naufraghi è servito soltanto a far aumentare il numero delle partenze da altri porti. Nel suo rapporto del 13 agosto 2024, l’agenzia europea Frontex ha diffuso dei dati relativi agli arrivi “irregolari” dei migranti in Europa nei primi sei mesi del 2024, suddivisi tra le diverse rotte migratorie. Il dato che balza immediatamente in evidenza riguarda la diminuzione di ben il 67% degli arrivi sulla rotta del Mediterraneo centrale, quella che ha come punto di arrivo l’Italia. La notizia è stata ripresa con grande enfasi propagandistica dal Governo italiano secondo il quale questa diminuzione dimostra il successo della sua politica. I dati forniti dall’agenzia mettono tuttavia in evidenza un parallelo forte aumento degli arrivi nella rotta occidentale verso la Grecia (più 57%) con migranti provenienti in prevalenza da Afganistan, Siria ed Egitto, e soprattutto indicano un’impennata della rotta occidentale atlantica, ovvero quella delle isole Canarie (più 154%). Gli stessi dati evidenziano dunque come le maggiori difficoltà di attraversamento del Mediterraneo centrale (che rimane comunque il canale maggioritario) determinano una diversificazione delle rotte verso l’Unione Europea ma non generano non automaticamente una diminuzione complessiva degli arrivi. Limitare l’analisi a questa sola considerazione sarebbe tuttavia poca cosa; se allarghiamo lo sguardo considerando i movimenti migratori (ed in particolare quelli forzati) a livello internazionale, vediamo che nessuna, ma proprio nessuna, fonte autorevole consente di ipotizzare che sia in atto a livello globale un miglioramento del bisogno di protezione dei rifugiati, con connessa diminuzione delle fughe dai paesi di origine; al contrario, anche nella prima metà del 2024 è proseguita la triste crescita del numero totale dei rifugiati nel mondo, tendenza oramai consolidata nell’ultimo decennio e fotografata dai rapporti annuali dell’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati). Sono proprio i più recenti dati di questa agenzia Onu a confermare l’esistenza di un quadro per nulla positivo. Prendiamo ad esempio alcune delle più rilevanti situazioni di crisi: rispetto alla Siria, Unhcr ricorda che “nel 2024, si stima che 16,7 milioni di persone (8,4 milioni di donne e 8,3 milioni di uomini) avranno bisogno di assistenza umanitaria in Siria, rispetto ai 15,3 milioni del 2023”. Sul Mali, snodo cruciale della rotta dell’Africa centrale, i rapporti Unhcr sottolineano come “sin dall’ottobre 2023 si registra un afflusso massiccio di rifugiati e di richiedenti asilo” da diverse aree del Sahel e del Burkina Faso in particolare, tanto che accanto alle 102mila persone registrate ve ne sono almeno altre 84mila ancora da registrare. Per ciò che riguarda l’Afghanistan nella prima metà del 2024 sono stati registrati 39mila ritorni nel Paese ma essi non sono conseguenza di un miglioramento delle condizioni interne di quel disgraziato Paese, bensì sono imputabili esclusivamente alla decisione del Pakistan (che comunque ospita due milioni di rifugiati) di attuare dei rientri forzati dei rifugiati afgani. Una scelta attuata in violazione del diritto internazionale sui rifugiati che risulta tanto brutale quanto inutile; nella prima metà del 2024 le fughe dall’Afghanistan verso il Pakistan sono state pari a 27mila persone (dati Unhcr). La parziale diminuzione degli arrivi evidenziata da Frontex non può essere considerata un fatto positivo perché non è connessa né ad alcun positivo sviluppo della situazione internazionale, né ad un aumento dei reinsediamenti o ad altre forme di ingresso protetto che tolgono fette di mercato ai trafficanti, bensì è indicatore di una situazione allarmante ovvero la crescita del numero di persone con un bisogno di protezione internazionale che vengono forzatamente bloccate nei Paesi di transito (o che più correttamente dovremmo definire Paesi di confinamento) che in parte non possono, in parte non vogliono, assicurare al numero crescente di persone presenti sul loro territorio alcuna protezione effettiva. Nella citata nota dell’Agenzia Frontex si può leggere ciò che è già a tutti noto ovvero che “Il calo di quest’anno può essere attribuito principalmente alle misure preventive adottate dalle autorità tunisine e libiche per contrastare le attività dei trafficanti. Gli arrivi da questi due Paesi rappresentano il 95% di tutti i migranti segnalati sulla rotta del Mediterraneo centrale.” In queste due parole, “misure preventive” troviamo un immorale stravolgimento del linguaggio che non è finalizzato a descrivere la realtà bensì ad occultarla: non è infatti in atto in Libia, nella quale cresce la tensione interna tra le aree del Paese controllate dal governo di Tripoli e quelle che rimangono controllate dal governo di Haftar, alcuna azione finalizzata a proteggere e tutelare i diritti fondamentali delle persone in fuga e a contrastare la violenza verso di loro da parte dei trafficanti di esseri umani e dei corpi di polizia statali più o meno formali (sul cupo ruolo dei corpi statali/parastatali in Libia, Tunisia, Egitto, Algeria e altri paesi dell’area come agenti di sistematici atti di violenza sui migranti rinvio all’articolo pubblicato il 2 agosto). La Libia continua a non avere alcuna normativa che preveda forme, neppure minime, di protezione verso i rifugiati i quali sono imprigionati, torturati e venduti ovunque nel Paese. Nello stesso tempo dalla Libia non è in atto, né in previsione, la realizzazione di alcun serio programma di reinsediamento verso l’Unione Europea. Quanto alla situazione in Tunisia essa è precipitata nel corso dell’ultimo anno per ciò che riguarda il rispetto dei diritti umani degli stranieri nonché dei cittadini, e i rifugiati oltre a non accedere a nessuno status di protezione vengono deportati nel deserto dove vengono lasciati morire di stenti come confermato da tutte le fonti nonostante i tentativi di coprire tali fatti. Dove andranno le persone respinte e violentate nel corpo e nella psiche che sopravvivranno alle violenze? Proseguiranno comunque il loro viaggio verso l’Europa, soltanto più lentamente, con maggiori deviazioni e maggiore sofferenza e soprattutto maggiore sarà il giro d’affari legato al traffico di esseri umani che si declama voler contrastare (mentre invece lo si incentiva) in quanto vige la stessa legge economica che regola gli altri campi: più complessa è l’operazione del viaggio, più alto è il prezzo da pagare. Quanto ai rientri volontari da paesi terzi verso il paese di origine il loro numero rimane molto modesto se paragonato ai movimenti migratori nel loro complesso, né potrebbe essere altrimenti se non mutano le cause che hanno portato alle fughe dai paesi di origine. I rientri realmente volontari non sono mai possibili per i rifugiati, per chiare ragioni, ma poche volte sono praticabili anche per gli altri migranti a causa dei radicali cambiamenti che la scelta di partire produce nella vita delle persone e sul contesto sociale e familiare che hanno lasciato alle spalle. Tra gennaio e giugno 2024 l’Iom (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) ha effettuato 3.500 rimpatri cosiddetti volontari dalla Tunisia, con un aumento del 200% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Vi sono seri motivi per dubitare della natura realmente volontaria di gran parte di tali rientri, e quindi della loro legittimità in relazione allo stesso mandato dell’agenzia che li realizza con finanziamenti europei, la quale dovrebbe iniziare a porsi dei seri interrogativi sul proprio ruolo e sulle proprie funzioni. Non c’è alcuna volontarietà se la scelta del ritorno rappresenta l’ultimo tentativo per sottrarsi a una situazione di violenza estrema. Tornando in conclusione ai dati forniti dall’agenzia Frontex, due fenomeni in apparente contraddizione tra loro ci dicono molto della situazione reale: da un lato la forte diminuzione dei transiti lungo rotta balcanica (meno 75%), in particolare di cittadini afgani e siriani, e dall’altro, come già evidenziato, il netto aumento degli arrivi in Grecia. I due dati vanno letti insieme: a causa dell’assenza di un piano europeo di ricollocazione dalla Grecia verso gli altri Paesi europei e di una politica di accoglienza ed inclusione nella stessa Grecia, sempre più respingente verso i rifugiati, pressoché tutti coloro che sono già arrivati e che arriveranno in questo Paese di frontiera dell’Unione proseguiranno il loro viaggio attraversando i paesi della rotta balcanica uscendo dall’Unione Europea per rientravi più a nord, a Lubiana, a Trieste o a Vienna. La contrazione degli ingressi registrata nei primi mesi del 2024 lungo la principale rotta terrestre che porta verso l’Europa risulta dunque del tutto temporanea ed è assai probabile che nel prossimo periodo si verifichi un aumento dei transiti e un parallelo netto aumento delle violenze e dei respingimenti lungo la rotta balcanica attuate per contrastare i nuovi flussi. Ciò deve allarmare gli enti di tutela dei diritti umani, nonché il Parlamento europeo, portando a decidere di attuare un costante monitoraggio su quest’area dell’Europa che rimane incredibilmente poco monitorata nonostante la sua rilevanza: le violenze lungo la rotta balcanica sono infatti eventi di radicale illegalità che avvengono dentro l’Unione Europea e gli attori di tali violenze non sono dittatori di paesi terzi, bensì i nostri governi ancora vincolati al rispetto dello stato di diritto. Il caso di un giovane italiano detenuto in Belgio, affetto da malattia mentale di Giovanni Russo Spena Left, 18 agosto 2024 Il ragazzo ha problemi psichici seri. Sappiamo bene che, purtroppo, il carcere non aiuta. Anzi, l’isolamento potrebbe indurlo a compiere gesti di autolesionismo. Ancora una volta poniamo attenzione all’asprezza della condizione carceraria, al garantismo, allo Stato di diritto. Qui parliamo della vita di un giovane italiano, detenuto da più di tre mesi nel carcere belga di Hasselt. Il ragazzo ha problemi psichici seri. Sappiamo bene che, purtroppo, il carcere non aiuta. Anzi, l’isolamento potrebbe indurlo a compiere gesti di autolesionismo. Ne parliamo con il padre. Perché suo figlio è in carcere? Mio figlio ha 27 anni ed è rinchiuso in un carcere belga da metà maggio, accusato del furto di otto collanine. Non sostengo l’innocenza di mio figlio, perché non è questo il punto. Tengo, però, a dire, che l’avvocatessa che difende mio figlio, a fronte dei trenta mesi di detenzione richiesti dal Pubblico ministero, ha sostenuto la piena assoluzione in base ad un’attenta analisi probatoria. Cito solo alcuni elementi. Addosso a mio figlio non è stata rinvenuta alcuna refurtiva, non è stata eseguita alcuna analisi delle telecamere presenti, non è stato eseguito alcun controllo delle impronte digitali e nessuna lettura del Dna sullo spray ritrovato. Non è stata, inoltre, svolta alcuna indagine sui numeri di telefono trovati sul cellulare di mio figlio di coloro che si è supposto fossero i suoi complici. Esistono, infine, altri fascicoli per fatti simili avvenuti nella stessa data. Il che lascia intendere che altri autori fossero “attivi”. Non solo: l’avvocatessa ha tenuto a specificare alla Corte che una pena detentiva fissa per mio figlio non era assolutamente una soluzione adeguata, che esistono soluzioni alternative e che devono essere prese in considerazione. Il punto fondamentale, peraltro, è evidenziare il background di mio figlio, la sua situazione medica e psicologica: è stato seguito dal SerD per disturbo da uso di cannabis e di cocaina e per “disturbo dell’umore e di personalità”. Malesseri già certificati nel 2017 da un perito del Tribunale. Come sta il ragazzo? Riuscite a comunicare? Il ragazzo oscilla pericolosamente tra alti e bassi. Più passa il tempo e sempre più frequenti sono le fasi down. Ci sentiamo perché in cella ha un telefono fisso a pagamento che ci permette di comunicare, anche se l’apparecchio è difettoso e spesso non capisco cosa mi dice, cade continuamente la linea e l’ascolto è disturbato da acuti fischi. A che punto è la vicenda? Come sta tentando di aiutare suo figlio? Stiamo attendendo l’11 settembre per il verdetto. Non mi ero mai trovato in un simile frangente. Ho contattato immediatamente sia l’organizzazione di Ilaria Cucchi sia Antigone. Ho dato mandato per la difesa all’avvocatessa fiamminga prima citata in modo di liberarmi dal silenzio totale dell’avvocato d’ufficio. Cosa spera di ottenere? Spero che mio figlio rientri il prima possibile in Italia in modo che possa riprendere le cure psichiatriche che non gli sta fornendo la struttura carceraria, cioè almeno un colloquio diretto ogni quattordici giorni con uno psichiatra che parli italiano e che conosca la storia di mio figlio, affinché il medico possa rimodulare la diagnosi e la posologia dei farmaci in base del colloquio diretto e dalle impressioni avute nel vederlo. Penso sia questo il modus operandi di uno psichiatra. Sta trovando condivisione e aiuti in questo difficile momento? Mi hanno aiutato alcune associazioni e particolarmente con la parlamentare Ilaria Cucchi che sentirà a gorni anche l’europarlamentare Ilaria Salis. Mi hanno aiutato amici giornalisti (come voi state facendo) in questi tre lunghissimi mesi e, tra gli intellettuali democratici, vorrei ricordare l’interesse immediato alla vicenda sia di Pino Cacucci, sia di Ascanio Celestini. Mi è sembrato, invece, insufficiente il ruolo dell’ambasciata italiana in Belgio. Ho discusso via mail con il personale addetto, ma ho dovuto sottolineare che alcune mie affermazioni+, peraltro scritte, venivano travisate. Forse per incomprensioni. Gravi, in questi frangenti. Preferisco avere questa convinzione, piuttosto che pensare che vi sia stata noncuranza verso alcune mie richieste d’aiuto avanzate all’Ambasciata. Alla quale chiederò di svolgere il suo compito con impegno. Nordio vuol spedire in Algeria il rifugiato Hichem Riah, condannato a morte di Marco Grasso Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2024 Il ministero (bocciato dalla Corte) dà l’ok al rimpatrio di Hichem Riah, mentre in Senato si discute del Piano Mattei sull’energia. È inizio agosto, e a Portofino siamo nel pieno della stagione balneare. Fra la folla di turisti la polizia ferma un uomo in vacanza. Non ha il phisique du rôle del latitante: ha pernottato in un hotel con i suoi documenti, come farebbe chiunque non abbia nulla da temere. Eppure su Hichem Riah, 46 anni, rifugiato in Svizzera da anni, pende una nota dell’Interpol e un mandato di cattura internazionale. L’Algeria, il Paese in cui è nato, lo cerca per eseguire una sentenza per omicidio: un agguato a coltellate avvenuto al termine di una rissa. La condanna prevede la pena di morte. Questa circostanza per le autorità elvetiche è già stata ritenuta sufficiente per concedere a Riah lo status della protezione internazionale. Rimandare un condannato a morte nel suo Paese è una condizione espressamente vietata dalla legge italiana, da sentenze della Cassazione e della Corte Costituzionale. Ma per il governo Meloni sembra non essere un problema se a chiederlo è l’Algeria, primo fornitore di gas dopo l’invasione russa dell’Ucraina, oltre che alleato cardine nella lotta agli sbarchi e nel cosiddetto Piano Mattei. Il ministero della Giustizia, a sorpresa, smentendo persino se stesso, si pronuncia a favore dell’arresto e sembrerebbe pronto a consegnare il ricercato accontentandosi della buona volontà espressa solo a parole dalle autorità nordafricane: Algeri da molti anni sostiene di non applicare più pene capitali, ma sul punto non ha ancora sottoscritto questo impegno con l’Italia. Ragione per cui la Corte d’Appello di Genova, accogliendo la richiesta della Procura generale, bastona il ministero e dispone la scarcerazione immediata di Riah. Il diretto interessato, senza farselo ripetere due volte, ha rimesso in valigia i bermuda e si è dato alla macchia. La vicenda è stata discussa durante un’udienza pochi giorni fa. Per perorare la causa dell’estradizione, il ministero, pur ammettendo l’assenza di un accordo bilaterale, aveva sostenuto che in Algeria non si eseguono pene capitali dal 1993 e si era riservato di chiedere garanzie ad Algeri. “È una rassicurazione che non vale niente - spiega Stefania Fiore, avvocato di Riah - se un domani cambiasse il governo, quella parola potrebbe venire meno. Per non parlare delle condizioni di detenzione. Non era stato considerato, inoltre, che si tratta di un richiedente asilo a cui la Svizzera aveva riconosciuto la protezione internazionale”. Per la Procura generale di Genova, anche la detenzione cautelare, in queste condizioni, è del tutto illegittima. In condizioni simili l’estradizione è espressamente vietata dalla legge italiana. Ed è persino in contraddizione con le posizioni ufficiali del governo italiano. Da anni Roma e Algeri tentano invano di chiudere un accordo bilaterale. A far discutere è proprio l’articolo 5 della bozza di trattato, cioè quello sulle estradizioni. Una prima versione, si fermava a “subordinare l’estradizione” a condizione che l’Algeria si “impegnasse a raccomandare al capo dello Stato la commutazione della pena di morte con altra specie diversa”. La raccomandazione non era abbastanza per l’Italia, e a valle di una fitta corrispondenza diplomatica, la nuova bozza, in discussione al Senato, prevede che l’estradizione sia concessa a patto che “la pena di morte non sia applicata”. A comunicarlo al suo omologo algerino, in una lettera inviata il 29 settembre 2023, era proprio il ministro Carlo Nordio. Per tutte queste ragioni la Corte d’Appello venerdì ha disposto la scarcerazione immediata di Riah. Il caso, a dir poco imbarazzante per l’esecutivo, avviene sullo sfondo del Piano Mattei, che vede proprio nell’Algeria uno dei più preziosi alleati con cui il governo Meloni sta stringendo accordi in tema di lotta all’immigrazione clandestina, cooperazione energetica, industriale e agroalimentare. Una ritrovata amicizia suggellata da un viaggio che ha portato la premier ad Algeri nel gennaio del 2023. Una missione celebrata da una “conferenza stampa” in cui, in pieno spirito del tempo, non erano ammesse domande da parte dei giornalisti. Intervista a Silvia Stilli: “A Gaza è genocidio, Europa sotto l’ombrellone assuefatta alla guerra” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 18 agosto 2024 “Non basta definire inaccettabile quello che sta succedendo a Gaza, il governo italiano agisca e si smetta di aver paura di definirlo genocidio, come ha già fatto l’Aja”. Silvia Stilli, presidente dell’associazione delle Organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (Aoi): a Gaza continua la strage di innocenti. L’infanzia viene cancellata, come denunciano Unicef e Save the Children. E il mondo sta a guardare. A Gaza un padre torna a casa dalla registrazione anagrafica dei gemellini appena nati e trova loro e la moglie uccisi da un bombardamento israeliano. Erano questi i pericolosi terroristi da eliminare? Quanto dura l’indignazione? Qualche ora, una giornata, due? Da ottobre 40mila sono i palestinesi uccisi nella Striscia, di cui quasi 16mila minorenni. Le drammatiche storie di chi ha perduto tutto, sembrano scivolare presto sulla pelle della politica e anche dell’opinione pubblica. Ma la diplomazia internazionale non può più permettersi di stare a guardare, perché lo scenario di guerra è regionale. Qualche spiraglio di luce, se pure flebile, forse si può intravedere. Quale? L’uccisione due settimane fa in Iran del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha segnalato al mondo il superamento del limite territoriale della crisi di Gaza: Netanyahu porta Israele in guerra con l’Iran, ma anche con il Libano per la “questione Hezbollah”, che ha visto il proprio capo ucciso a Beirut a fine luglio. Gli Usa si sono attivati nella ricerca di una soluzione per la crisi perché intravedono la possibilità, nell’avvio di un dialogo diplomatico per far cessare il fuoco a Gaza, di riaprire le trattative con Teheran in relazione al nucleare ad uso civile. Anche all’Iran farebbe comodo il protagonismo politico nella risoluzione della crisi di Gaza, perché ne sancirebbe la leadership tra i Paesi islamici. Nonostante questo, a Doha non si sono presentati né Hamas, né Hezbollah, né l’Iran. Ma a Doha si trova il capo negoziatore di Hamas, che potrebbe comunque essere consultato senza che ciò venga ufficializzato. Netanyahu insiste per mantenere il controllo militare permanente del confine meridionale di Gaza, così da limitare la maggior parte dei ritorni a nord della Striscia delle persone. È una condizione non prevista nel piano di Biden che potrebbe compromettere un possibile esito positivo delle trattative. La guerra non si placa. Gli scontri al confine israeliano con il Libano, la ripresa dell’azione militare di Hamas e poi l’ennesima strage a Gaza: nella scuola bombardata di al-Tabin, dove, secondo Israele, erano nascosti capi di Hamas, le vittime civili sono state 100. A Khan Younis, a sud della Striscia, le forze militari israeliane stanno evacuando i palestinesi, in vista di un’ulteriore offensiva. È evidente che per le Ong ogni sforzo e tentativo per raggiungere la pace e salvare vite umane è determinante, ma allora perché la regia dei tavoli delle trattative non si affida alle Nazioni unite? Troppi gli interessi in gioco. Cos’altro deve accadere per sanzionare Israele? Se quello in atto a Gaza non è un genocidio, come definirlo? Mi pare evidente che l’esercito israeliano a Gaza sta attuando un genocidio, sotto indicazione del suo governo. Non ho remore nel dirlo chiaramente. I numeri di morti, dispersi, feriti, le condizioni oggettive di vita nella Striscia lo testimoniano chiaramente. Qualunque siano le ragioni per non volere che si parli di genocidio per Gaza non cambia certo il risultato agghiacciante, anzi terrificante, dell’enorme massacro di donne, anziani, bambini e uomini innocenti. Unhcr ogni giorno pone l’attenzione sul prezzo delle guerre in termini di perdite di esseri umani, di condizioni di vita insostenibili per le popolazioni profughe in fuga da violenze e morte. Lo fa anche in queste settimane in cui l’aria vacanziera sembra voler cancellare l’orrore delle immagini da Gaza e le notizie delle riprese delle morti civili in Ucraina. C’è un rischio di assuefazione? L’assuefazione alla guerra purtroppo rischia di farsi strada e radicarsi nell’opinione pubblica, che vede comunque ancora lontana, in Europa sicuramente, la minaccia di un conflitto che coinvolga i territori in cui vive. La comunità mondiale è gravemente colpevole di aver permesso fino ad oggi ad Israele di annettere terre di un altro popolo e renderne le persone profughe, di negare ai palestinesi di Gerusalemme le libertà individuali e i diritti, di bombardare e invadere la più grande enclave del mondo, Gaza, isolandola del tutto, privandola di acqua, cibo, medicine, fonti di energia. Il rispetto della memoria sul piano internazionale del genocidio degli ebrei nella Seconda guerra mondiale, non può automaticamente essere una giustificazione per non condannare le azioni di Israele in Palestina, Se il pacifismo non è più un pensiero diffuso e apprezzato, almeno lo sia la giustizia. E la giustizia delle Nazioni unite si è espressa. Il 26 gennaio scorso la Corte dell’Aja ha chiaramente definito l’azione militare israeliana a Gaza a “rischio plausibile” di genocidio e ha ammonito il governo di Tel Aviv all’adozione di misure immediate per garantire i mezzi di sussistenza e l’entrata di aiuti umanitari nella Striscia, laddove, come ricorda Oxfam, l’accesso all’acqua è ridotto del 94% e 3.500 bambini sono a rischio di morte per disidratazione. Sono ancora 1.800 i containers internazionali bloccati in Egitto al valico di Rafah. Il Procuratore capo del Tribunale a maggio ha chiesto l’emissione di mandati di cattura nei confronti dei leader di Hamas, di Netanyahu e del ministro della Difesa israeliano per crimini di guerra. Un monito rivolto a tutti i 124 Stati aderenti alla Corte penale internazionale, di cui peraltro Israele non fa parte. Cos’altro deve accadere, appunto? Di fronte alla scuola rasa al suolo, il ministro Tajani si è limitato ad affermare che è “inaccettabile “. In questo scenario apocalittico, il mondo solidale, di cui Aoi è parte attiva, cosa si sente di chiedere a governo, Parlamento e alla sinistra? Chiediamo a tutte le istituzioni democratiche italiane più decisione e autorevolezza nel condannare il genocidio in corso a Gaza, chiamandolo per quello che è e attuando misure adeguate nel contribuire a porvi fine. Non ci si può fermare all’aggettivo “inaccettabile”, perché a nulla serve senza un’azione conseguente. Questo vale ovviamente per la Farnesina e la maggioranza che governa il nostro Paese, ma anche per le opposizioni. Ringraziamo e apprezziamo quelle e quei parlamentari della sinistra, a partire dall’intergruppo della Camera per la pace tra Palestina e Israele, che hanno condiviso le condanne dei massacri, le interrogazioni e gli interventi a sostegno delle nostre azioni umanitarie e che hanno preso parte alla missione organizzata a Rafah nel marzo scorso al fine di sbloccare i containers degli aiuti delle organizzazioni italiane per la popolazione di Gaza e per testimoniare le violazioni dei diritti umani. E alle forze di sinistra? Chiediamo di superare la difficoltà a compattarsi nel richiedere unitariamente misure e deliberazioni certe dell’Esecutivo nei confronti del governo di Netanyahu. Il Governo italiano chieda formalmente e con fermezza a quello israeliano l’apertura dei valichi per far entrare gli aiuti per la sopravvivenza della popolazione civile nella Striscia e pretenda l’entrata degli operatori umanitari senza blocchi e vincoli. Aoi chiede che le attività umanitarie delle Ong riprendano subito. Governo e Parlamento condannino apertamente la colonizzazione dei territori palestinesi da parte di cittadini dello Stato di Israele, che in questi giorni ha dato l’ok ad altre occupazioni. Adesso nell’immediato si tratta di accogliere il monito della Corte internazionale di Giustizia, di farlo proprio e di garantire la vita a milioni di civili innocenti e sostenere il dialogo a livello internazionale per il cessate il fuoco e il rilascio delle persone israeliane ancora ostaggio di Hamas. Null’altro che questo.