Suicidi, rivolte e 24 bimbi dietro le sbarre: fine pena mai di Ilaria Beretta Avvenire, 17 agosto 2024 Ventiquattro i piccoli reclusi con le madri nei penitenziari italiani. E con il dl carceri il numero rischia di aumentare. Il pediatra Paolo Siani: “Così non si tutelano i minori”. Sessantasette suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno, sette agenti che si sono tolti la vita, novantotto vittime il cui decesso è per cause da accertare. Se c’era bisogno di un bilancio a Ferragosto, oltre al famigerato sovraffollamento che tocca il 120% secondo gli ultimi dati, questi numeri dicono tutto. Degli oltre 61mila detenuti ristretti, più di 6mila sono in carcere ma ancora in attesa di giudizio, e condividono con i condannati a pena definitiva tutte le criticità dei penitenziari italiani tra cui le condizioni strutturali e igieniche degli edifici. L’altra faccia dell’emergenza, poi, resta il caso dei bambini dietro le sbarre: sono 24 e non c’è nessuna volontà a livello parlamentare di “liberarli” dalla condizione di restrizione in cui anche loro, da innocenti, si trovano. Da Torino a Parma - Nel giorno dell’Assunta, nel carcere di Torino è scoppiata una rivolta di detenuti che hanno danneggiato le luci, il sistema di videosorveglianza, bruciato un materasso e ferito 6 agenti che cercavano di sedare i disordini; mentre, in serata, un 36enne di origine tunisina si è impiccato nel carcere di Parma. L’uomo era stato trasferito in Emilia-Romagna da appena 24 ore e scontava una pena definitiva di 3 anni e 8 mesi per rapina, ricettazione e violazione delle norme sugli stupefacenti, al termine della quale avrebbe dovuto essere eseguita l’ordinanza di espulsione dall’Italia. Sullo sfondo delle dichiarazioni resta irrisolto pure il nodo dei bambini detenuti in carcere con le loro madri. Ad oggi sono 24, divisi tra Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) e sezioni nido di carceri ordinarie. Ma potrebbero diventare di più. Con l’approvazione del decreto carceri, infatti, sono stati bocciati gli emendamenti delle opposizioni sull’articolo 12 che riguarda proprio le madri detenute e rende facoltativo l’attuale obbligo di rinvio della pena per le donne in gravidanza e le madri con figli al di sotto di un anno. Il punto è stato criticato dalle associazioni per l’infanzia e quelle che si occupano di diritto carcerario che hanno specificato che per queste donne, quando non è possibile uno sconto di pena alternativo, sono necessarie particolari condizioni detentive. Unicef Italia, per esempio, ha pubblicato una nota sottolineando la necessità di finanziare gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri e ha aggiunto: “I diritti dei bambini e delle bambine dovrebbero essere al di sopra di ogni generalizzazione o strumentalizzazione e ognuno dovrebbe riconoscerne e sostenerne l’inviolabilità”. L’interesse violato del minore - “Le donne incinte condannate per reati minori - spiega ad Avvenire il pediatra e già parlamentare Paolo Siani - non possono stare in carcere perché è impossibile garantire loro la necessaria assistenza e tutelare l’interesse del minore. È noto che rispetto alle donne incinte della popolazione generale, le donne in carcere hanno maggiori fattori di rischio associati a esiti perinatali sfavorevoli, tra cui neonati pretermine e piccoli per l’età gestazionale e un rischio maggiore di essere sottoposte a taglio cesareo. Vivere i primi anni di vita in un carcere per un bambino, poi, è un’esperienza tossica che ne segna, in negativo, la vita per sempre”. Questo non significa non punire le madri ma usare, per quel che riguarda reati lievi, pene alternative come gli arresti domiciliari o lo spostamento in casa-famiglia. “L’Icam non vale - precisa Siani -. Anche se non è un carcere duro, il bambino lo percepisce allo stesso modo. Anche se qui ogni mamma ha una stanza con un bagno suo, la luce è sempre accesa, ci sono le sbarre alle finestre, la porta è sempre chiusa. Per un bambino è un trauma: la letteratura ha appurato che chi ha fatto questa esperienza parla e cammina più tardi, sviluppa disturbi di alimentazione e del sonno. Inoltre, vivendo in un ambiente deprivato e con pochissimi stimoli, avrà una crescita deficitaria. Così mentre cerchiamo di rieducare una persona, ne condanniamo un’altra a una vita non dignitosa”. Le visite dei politici - Sotto questa cattiva stella, dunque, si è come al solito svolto il “Ferragosto in carcere” di sindaci, avvocati e parlamentari di tutte le parti politiche, per competenza inaugurato dal ministro Carlo Nordio che ha raggiunto la casa circondariale femminile della Giudecca, a Venezia. “Penso che con la nomina del commissario straordinario e con l’attuazione del nuovo decreto Carceri - ha dichiarato il Guardasigilli al termine della visita - entro i prossimi due o tre mesi cominceremo a vedere i risultati”. E tra i provvedimenti allo studio del Ministero contro il sovraffollamento ci sarebbe anche l’ipotesi della concessione di misure alternative, come i domiciliari o l’affidamento in prova, per quei detenuti condannati che devono scontare pene residue entro un anno. Non sembrano convinte le opposizioni, che criticano fortemente l’efficacia pratica del dl appena adottato. “In tutta Italia - ha scritto, per esempio, su X Matteo Renzi, in visita al carcere di Sollicciano - abbiamo un sovraffollamento inaccettabile e il provvedimento del governo Meloni su questo tema è fuffa spaziale, anche a giudizio degli operatori del settore”. Polemiche pure sul sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro per una foto postata sui social e poi cancellata che lo ritrae nel carcere di Brindisi con una sigaretta accesa tra le dita sotto a un cartello di divieto di fumo; nonché per la visita nel carcere di Taranto, dove Delmastro ha specificato di aver incontrato non i detenuti ma soltanto gli agenti di custodia. Sulla vicenda l’Organismo congressuale forense ieri ha detto che “la decisione del sottosegretario di rivolgersi esclusivamente al personale penitenziario, escludendo deliberatamente qualsiasi dialogo con i reclusi, non è in linea con il ruolo istituzionale e anzi può apparire come un tentativo di creare un’inaccettabile frattura ideologica all’interno dell’ordinamento. La nostra Costituzione è chiara: ogni persona, indipendentemente dalle sue colpe, ha diritto a un trattamento dignitoso e umano, ed è responsabilità delle istituzioni, e quindi del ministero della Giustizia, assicurare che ciò avvenga”. Il caso Regina Coeli - A Roma, in due momenti diversi, il vice capogruppo Pd alla Camera, Paolo Ciani, e il sindaco Roberto Gualtieri hanno varcato la soglia di Regina Coeli. Qui la situazione resta esplosiva: in un anno e mezzo si sono verificati 7 suicidi, la struttura ospita 1.200 detenuti, il doppio dell’effettiva capienza, e anche gli agenti sono sotto organico. Due settimane fa la Garante dei detenuti Valentina Calderone aveva presentato in Consiglio comunale una relazione sulle condizioni delle carceri romane spiegando che ad aggravare la situazione ci sono condizioni strutturali fatiscenti, stanze da due che ospitano cinque persone, dove le temperature d’estate toccano i 40 gradi, infiltrazioni di acqua e muffa alle pareti, lavandini che perdono, acqua calda che non funziona e aule scolastiche e spazi comuni usati come dormitori d’emergenza. Ferragosto di visite e proteste, ma anche di suicidi: sono 67 di Franco Insardà Il Dubbio, 17 agosto 2024 Il giorno di Ferragosto per le carceri italiane non è stato solo un giorno di visite di delegazioni di parlamentari e associazioni. Purtroppo bisogna registrare un altro suicidio, questa volta a Parma, e una protesta dei detenuti al carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Le visite di Ferragosto dei parlamentari nelle carceri italiane, negli ultimi anni, stanno diventando una sorta di rito al quale in pochi si sottraggono. Oltre al tradizionale impegno dei radicali e degli avvocati, Camere penali in testa, che quotidianamente denunciano la condizione di estrema emergenza dei nostri istituti penitenziari, si registra un interesse bipartisan che coinvolge anche i maggiori media nazionali. Molto critico Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria: “Mentre gran parte della politica si ricorda delle visite in carcere solo a Ferragosto, magari in luoghi di villeggiatura, e la maggioranza di governo converte in legge un decreto vuoto e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si è cimentato nell’ennesimo “vade retrum” nei penitenziari, la scia funebre continua inarrestabile”. Il rischio è che, passato il momento delle visite e delle denunce, resti la drammaticità del quotidiano fatta di sovraffollamento e condizioni di vita al limite della dignità umana. Anzi, complice anche qualche uscita poco felice di esponenti della maggioranza, c’è il rischio concreto che l’insofferenza della popolazione detenuta venga rappresentata in modo negativo, nonostante la inarrestabile macabra conta dei suicidi in cella. Il terzo suicidio nel carcere di Parma - Come il giovane tunisino che si è impiccato nel carcere di Parma nel pomeriggio di Ferragosto, proprio mentre era in corso la visita dei Radicali e del Garante nazionale. Il detenuto era arrivato a Parma, da Ascoli Piceno, da soli tre giorni e si trovava nella sezione di isolamento Iride. Ne ha dato notizia il Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri: “È il terzo suicidio a Parma dall’inizio dell’anno. Il carcere di via Burla è il penitenziario con il più alto tasso di suicidi”. Stava scontando una pena definitiva di 3 anni e 8 mesi. Era stato arrestato nell’agosto del 2021 per rapina, ricettazione violazione della normativa sugli stupefacenti, trasferito più volte da istituti della Marche, Emilia- Romagna, Umbria per motivi di ordine e sicurezza. Con quello di Parma salgono a 67 i suicidi nelle carceri italiane dal primo gennaio 2024, ai quali bisogna aggiungere i 7 agenti della Polizia penitenziaria. La protesta dei detenuti nell’istituto di Torino - A Torino, invece, ieri una rissa tra detenuti si è trasformata in una protesta con disordini in diversi reparti nel carcere. Sei agenti della polizia penitenziaria sono rimasti feriti, due di questi hanno avuto anche un’intossicazione. La rivolta è iniziata nel primo pomeriggio, sono stati incendiati materassi e distrutte parti dell’arredo. Infine i detenuti, che non volevano rientrare in cella, hanno buttato olio sul pavimento per impedire l’intervento dei poliziotti. I disordini sono durati diverse ore. “Nella nottata anche grazie all’intervento di 120 poliziotti penitenziari la situazione è tornata sotto controllo”, sottolinea il segretario generale di Spp, Aldo Di Giacomo. Il Garante nazionale: in quest’anno sono aumentati gli “eventi critici” - Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Felice Maurizio D’Ettore, in un focus, basato su dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, rileva che dall’ 1 gennaio ad oggi, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso “è notevolmente aumentato nelle carceri italiane il numero degli “eventi critici”: aggressioni, atti di contenimento, decessi per cause naturali, suicidi, tentati suicidi, manifestazioni di protesta collettiva e individuale, percosse riferite all’atto dell’arresto, violazioni alle normi penali, rivolte”. In particolare, quest’anno, rispetto allo stesso periodo del 2023, sono state registrate 3.607 aggressioni (+ 8,1%), 990 manifestazioni di protesta collettiva (+ 51,1%), 8.532 manifestazioni di protesta (quaranta in meno), 185 casi di percosse riferite all’atto dell’arresto (+ 23,3%), 4 rivolte (a fronte delle due dell’anno passato), 63 suicidi (+ 43,1%), 1.335 tentati suicidi (+ 9,4%), 1.297 aggressioni al personale della polizia penitenziaria (+ 22,4%) e 59 aggressioni al personale amministrativo (+ 43,9%). Secondo l’analisi comparativa riportata dal Garante, “è ipotizzabile che all’aumentare del sovraffollamento (ad oggi al 130,87%, ndr) si possa associare un incremento di quegli eventi critici che, più di altri, sono espressione del disagio detentivo, quali atti di aggressione, autolesionismo, suicidi e tentativi di suicidio”. A tutto questo si aggiunge la confusione creata dalla circolare del 12 agosto del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che invitava a diffondere ai detenuti il vademecum esplicativo su dl “Carcere sicuro”, con successivo contr’ordine a non diffonderlo, perché a uso dei Provveditorati regionali e dei direttori degli istituti. Un uno due che, da una parte ha alimentato speranze, mentre dall’altra ha aumentato confusione e polemiche. Non contribuendo certo a rasserenare gli animi dei detenuti che, da sempre, quando si intravedono spiragli legislativi che possano alleviare la loro condizione, poi disattesi, vanno in fibrillazione, protestando, o in stati depressivi che, purtroppo, sfociano in eventi suicidari. Ciambriello: “Chiediamo un concorso per magistrati di sorveglianza” - Il portavoce della Conferenza dei garanti territoriali dei detenuti, Samuele Ciambriello, a Lapresse ha ribadito che “Servono provvedimenti oggi. Tra l’altro, aggiunge, in Italia ci sono quasi 8 mila detenuti che devono scontare meno di un anno di carcere e al ministro, nell’incontro del 7 agosto scorso, abbiamo chiesto cosa voglia fare per queste persone. Ci ha dato appuntamento ai primi di settembre, perché, ha detto che sono allo studio del ministero provvedimenti ulteriori rispetto al decreto carceri. Per dare un appuntamento a un mese di distanza, io credo stia provando a mettere in campo qualcosa in più sul rischio suicidario rispetto al decreto appena convertito in legge. Chiediamo anche al Csm un nuovo concorso per i magistrati di sorveglianza, come riconoscimento del deficit che esiste. È chiaro che le misure alternative, la liberazione anticipata, sono aspetti importanti, ma se non hai i magistrati nulla cambia”, ha concluso Ciambriello. Pittalis: “L’obiettivo di Forza Italia di proporre le soluzioni migliori” - Nella maggioranza di governo le posizioni diverse e quelle di Forza Italia sull’emergenza carcere è stata espressa da Pietro Pittalis, vicepresidente della commissione Giustizia a Montecitorio e segretario regionale degli azzurri in Sardegna ai microfoni dei Gr radio Rai: “Che il problema delle carceri sia drammatico non è una novità per noi di Forza Italia ed è la ragione per la quale abbiamo lanciato in queste settimane l’iniziativa “Estate in carcere”. L’obiettivo è monitorare le condizioni degli istituti penitenziari e proporre le soluzioni migliori per alleviare il problema del sovraffollamento e dei suicidi”. L’Organismo Congressuale Forense, in una nota, critica la scelta del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove che nelle sue due visite a Taranto e a Brindisi ha evitato il confronto con i detenuti. “Tali dichiarazioni - scrive l’Ocf - contraddicono apertamente i principi costituzionali di umanità e dignità che devono guidare il trattamento dei detenuti, come sancito dall’art. 27 della Costituzione e come costantemente sostenuto dall’Avvocatura”, che “ribadisce il proprio impegno nella difesa dello Stato di diritto e della dignità di ogni persona, principi non negoziabili in una democrazia matura, ribadendo la propria volontà di continuare a vigilare e ad agire affinché questi valori siano rispettati a tutti i livelli istituzionali”. Una norma svuota celle sul tavolo di Nordio. Si spacca il Governo di Antonio Fraschilla e Liana Milella La Repubblica, 17 agosto 2024 Dopo l’incontro col Garante dei detenuti spunta l’idea di domiciliari per chi ha un anno da scontare. L’alt di FdI e Lega: “No a colpi di spugna”. E il ministro frena. Ma FI: “È un dramma, bisogna agire”. Sulla testa del Guardasigilli Carlo Nordio incombe il suicidio numero 66. Le carceri sono una pentola a pressione pronta a esplodere e la maggioranza rischia di spaccarsi su questo tema molto delicato: con il ministro e Forza Italia che aprono a soluzioni che non piacciono però a Fratelli d’Italia. Le evidenze delle tensioni nel centrodestra ci sono tutte, come è altrettanto chiaro che il decreto sulle carceri, approvato appena una settimana fa, non porta alcun beneficio. Tant’è che lo stesso Nordio è alla disperata ricerca di altre soluzioni. Perché, come ribadito anche ieri dal forzista Pietro Pittalis, vicepresidente della commissione Giustizia a Montecitorio: “Che il problema delle carceri sia drammatico non è una novità per noi di Forza Italia ed è la ragione per la quale abbiamo lanciato in queste settimane l’iniziativa “Estate in carcere”. L’obiettivo è proporre le soluzioni migliori per alleviare il problema del sovraffollamento e dei suicidi”. Il ministro Nordio lavora a un pacchetto di proposte e una trapela dai suoi uffici, anche se lui ne nega la paternità: far scontare ai domiciliari, e non in prigione, chi ha un residuo pena di un anno. Una legge, la 199, che esiste già dal 2010, sfruttata ampiamente durante il Covid. Ma invisa all’ala dura del centrodestra, meloniani e salviniani. Mentre andrebbe bene a Forza Italia, che l’aveva già proposta al Senato come emendamento al decreto. Ma ecco che rispunta a sorpresa, da fonti rilanciate dall’Ansa. Di mezzo ci sarebbero 8 mila detenuti che potrebbero uscire. Ma non appena trapela la proposta, scattano i distinguo netti di Fratelli d’Italia con il sottosegretario Andrea Delmastro: “Non è nelle corde del governo una misura perché è un un colpo di spugna, il sovraffollamento si combatte con l’edilizia carceraria”. E poco dopo arrivano quelli della Lega con la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno che dice: “Non ho visto alcun testo scritto”. Il messaggio arriva anche al ministro. E nelle stanze di Nordio si pigliano le distanze. Il ministro non avrebbe “mai detto nulla del genere”, mentre avrebbe parlato solo di un’esecuzione differenziata per i tossicodipendenti e i detenuti con problemi psichiatrici, nonché ha proposto più volte di rispedire i detenuti stranieri nei loro paesi d’origine. Eppure la notizia ha un suo fondamento e risale all’incontro, proprio al ministero della Giustizia, tra il Guardasigilli, il suo vice ministro Francesco Paolo Sisto, il Garante dei detenuti Felice Maurizio D’Ettore. Era il 7 agosto. Davanti agli esponenti del governo c’è il portavoce dei Garanti dei detenuti Samuele Ciambriello. Nordio in quell’incontro dice che sta studiando “un nuovo piano” che riguarda chi deve scontare un anno di pena. Cita l’ostacolo della mancanza di una dimora fissa, che di fatto blocca l’applicazione della legge. Parla dei magistrati di sorveglianza che devono istruire i singoli casi e sono sempre in ritardo. Tant’è che vuole parlare con Mattarella in quanto capo del Csm e chiedergli un maggior numero di toghe che facciano questo lavoro. Sisto annuisce a ogni passaggio. Ciambriello indica proprio questa strada - un anno come residuo di pena - come l’unica che possa sgombrare le carceri. Nordio, a questo punto, dà appuntamento al portavoce dei Garanti tra un mese e lo rassicura sul fatto che valuterà questa proposta. Dunque è qui la sua parola che adesso diventa una notizia. Proprio quella che scatena l’ira di Delmastro, che replica con parole dure che gli sono abituali e che fanno trapelare tutto il malumore interno ai meloniani sulle aperture di Nordio e Forza Italia a una riduzione dei detenuti, nell’ambito di una più ampia svolta del partito di Tajani sui diritti: “Il tana libera tutti non rieduca, non riabilita, non garantisce sicurezza, è il già tristemente visto e stancamente vissuto del passato e che ci ha regalato l’attuale situazione”. Lo attacca quindi la responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani, che definisce le sue parole “vergognose”, chiedendogli di nuovo di fare “un passo indietro”. La dem chiede la liberazione anticipata speciale proposta da Roberto Giachetti, “le pene sostitutive e le misure alternative”. Ma la porta della maggioranza è chiusa, sbarrata da FdI e Lega. Piano Nordio sulle carceri, maggioranza divisa. Il ministro: “Entro tre mesi vedremo i risultati” di Grazia Longo La Stampa, 17 agosto 2024 Forza Italia spinge per le misure alternative, mentre Fratelli d’Italia frena. L’ipotesi: l’ultimo anno ai domiciliari. Il disegno legge sicurezza continua ad inasprire i rapporti dentro la maggioranza. Se Forza Italia spinge per le misure alternative al carcere, Fratelli d’Italia frena. Il provvedimento, dopo il passaggio in commissione, da settembre arriverà in Aula alla Camera. Ma la battaglia è già in atto e mentre gli azzurri, insieme al Partito Radicale, proseguono con la campagna estiva per visitare gli istituti penitenziari, sul caso interviene direttamente il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Una delle ipotesi alla sua attenzione è proprio quella delle misure alternative al carcere, tra cui i domiciliari o l’affidamento in prova, per i condannati per reati non ostativi, i quali devono scontare pene residue entro un anno. La proposta, emersa già lo scorso 7 agosto in occasione dell’incontro del Guardasigilli con il Garante dei detenuti e gli stessi garanti regionali, punterebbe al contrasto del fenomeno del sovraffollamento carcerario, con un abbassamento di migliaia posti nelle carceri italiane. “Stiamo lavorando per diminuire la popolazione carceraria: far scontare la pena ai detenuti tossicodipendenti presso le comunità”, spiega Nordio, secondo il quale “entro i prossimi due o tre mesi cominceremo a vedere dei risultati”. Una prospettiva ben vista dal partito di Antonio Tajani. Pietro Pittalis, vicepresidente della commissione Giustizia a Montecitorio e segretario regionale di Forza Italia in Sardegna, ai microfoni del Gr Radio Rai, dichiara: “Che il problema delle carceri sia drammatico non è una novità per noi di Forza Italia ed è la ragione per la quale abbiamo lanciato in queste settimane l’iniziativa “Estate in carcere”. L’obiettivo è monitorare le condizioni degli istituti penitenziari e proporre le soluzioni migliori per alleviare il problema del sovraffollamento e dei suicidi”. Considerazioni che sono benzina sul fuoco per il sottosegretario alla Giustizia di FdI Andrea Delmastro delle Vedove. In una nota precisa: “Non è nelle corde del cuore del governo una misura che, essendo un colpo di spugna, vanifica e frustra non solo e non tanto le esigenze di sicurezza, quanto e soprattutto la funzione rieducativa della pena. Il tana libera tutti non rieduca, non riabilita, non garantisce sicurezza: è il già tristemente visto e stancamente vissuto del passato e che ci ha regalato l’attuale situazione”. E ancora: “Il governo è impegnato in un imponente piano di edilizia penitenziaria con lo stanziamento di somme mai viste e nel trattamento del detenuto, avendo completamente saturato le piante organiche degli educatori. Trattamento e rieducazione si fanno con gli educatori, non con i colpi di spugna. Il sovraffollamento si combatte con il piano di edilizia carceraria, non con la resa. Le misure alternative alla detenzione già oggi esistono e possono essere richieste alla magistratura che le garantisce ai meritevoli, non alla politica con un provvedimento generalista che altro non sarebbe che l’ennesimo svuota carceri”. Intanto, sullo sfondo dell’attrito all’interno della maggioranza, continuano a crescere i suicidi in carcere. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Felice Maurizio D’Ettore, sottolinea che siamo arrivati a quota 63. “Un dato elevato rispetto allo stesso periodo del 2023, in cui si registrarono 44 suicidi (+43,1%) e del 2022 in cui ce ne furono 52 (+17,1%)”. Ma secondo i sindacati della polizia penitenziaria i numeri sono più alti. Aldo di Giacomo, segretario generale di Spp, stigmatizza: “Il giorno di Ferragosto, nel carcere di Parma, con il suicidio di un giovane detenuto siamo saliti a 67 vittime. Una strage di stato senza il minimo impegno da parte del governo per arginarla. Non ci resta che appellarci al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, da sempre sensibile all’emergenza carceri”. E dall’opposizione piovono critiche sull’inadeguatezza dell’esecutivo. Il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, bolla il decreto carcere come “fuffa”. Mentre Debora Serracchiani, responsabile Giustizia del Pd chiede “un passo indietro di Delmastro. L’esigenza di intervenire sul sovraffollamento delle carceri è sotto gli occhi di tutti, lo stesso ministro Nordio sa che il Dl Carceri è insufficiente. Occorrono misure come la liberazione anticipata speciale, l’applicazione delle pene sostitutive e misure alternative. Faremo inoltre un’interrogazione: pare che Delmastro durante le sue ultime visite in carcere si sia rifiutato di vedere i detenuti, abbia incontrato solo gli agenti penitenziari e abbia addirittura fumato nonostante i divieti”. Carceri incandescenti, ma niente indulto di Luca Fazzo Il Giornale, 17 agosto 2024 Rivolte e feriti anche ieri. Delmastro stoppa le ipotesi di colpo di spugna: “No al liberi tutti”. Nessun cedimento a chi vorrebbe un indulto mascherato: questa, nella sostanza, la linea del governo davanti all’emergenza carceri. Emergenza sempre più grave, visto il caos scoppiato nel penitenziario di Torino, dove una rissa tra detenuti si è trasformata in una rivolta con disordini in diversi reparti e sei agenti della polizia penitenziaria che sono rimasti feriti; mentre a Ivrea un detenuto straniero ha aggredito gli agenti e anche a Biella due poliziotti sono rimasti feriti. E a Parma si è tolto la vita un altro detenuto (sono 67 nel 2024). Ma alle richieste della sinistra di un provvedimento urgente per fronteggiare il sovraffollamento dei penitenziari, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove risponde brusco: “Di indulti più o meno mascherati se ne sono già visti tanti, e come è andata a finire è sotto gli occhi di tutti. Nel giro di poco tempo la situazione delle carceri era tornata esattamente al punto di prima”. A eccitare gli animi era stata la voce secondo cui lo stesso governo si preparava a varare un provvedimento urgente: liberazione immediata di tutti i detenuti con meno di due anni da scontare. In questo modo, secondo i calcoli, sarebbero usciti 16mila ospiti delle patrie galere. “Il problema - spiega Delmastro - è che già la legge attuale consente al magistrato di fare uscire dal carcere chi è vicino alla fine della pena: quando mancano quattro anni si accede all’affidamento in prova, quando mancano due anni ai domiciliari, eccetera. Ma questo avviene sotto il controllo del magistrato, che valuta caso per caso se ci sono i requisiti, se non c’è la pericolosità, eccetera. Immaginare di fare uscire tutti, senza controllo, con un decreto legge, sarebbe un indulto. E noi indulti non ne facciamo. Non siamo per il “tana liberi tutti”. Siamo per la certezza della pena. Che non vuol dire buttare via la chiave della cella, basti pensare che ci sono 130mila detenuti che stanno scontando la loro pena fuori dal carcere”. I 16mila in più che uscirebbero se arrivasse il decreto di cui si parla sono in larga parte detenuti che hanno già presentato domanda e se la sono vista respingere, spesso perché non avevano una casa o una comunità disposte ad accoglierli. “Per questo - dice il sottosegretario - nella legge che abbiamo fatto approvare ci sono misure di sostegno concreto per l’allargamento dei posti di accoglienza esterna. Queste sono misure corrette, efficaci e permanenti, non quelle che vorrebbero loro”. Le polemiche in questi giorni si sono fatte roventi, in diverse carceri d’Italia si sono recate in visita delegazioni di avvocati e di politici, e ogni volta le visite si sono concluse con il racconto di situazioni drammatiche di sovraffollamento e la richiesta di interventi urgenti. Una visita di esponenti radicali al carcere bolognese della Dozza, occupato al 160 per cento della capienza, ieri è finita con l’annuncio di una denuncia contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio per la “illegalità” nella gestione delle strutture penitenziarie. Ma la linea del governo (almeno nella sua componente più rigorosa, di cui Delmastro è figura di punta) non cambia: “Non c’è all’ipotesi alcuna misura svuota carceri. Il libera tutti non rieduca, non riabilita, non garantisce sicurezza”, dice il sottosegretario. E Delmastro risponde senza eufemismi all’ex presidente delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza, che lo accusava di avere visitato un carcere incontrando gli agenti ma non i detenuti: “Nella mia delega non c’è il detenuto ma la polizia penitenziaria. Non si capisce perché in passato si sfilava per incontrare solo i detenuti e non c’era mai nessuno che si stracciasse le vesti per le mancate visite agli agenti”. Rispunta lo svuota-carceri: più domiciliari a fine pena. FdI: “No a colpi di spugna” di Francesco Malfetano Il Mattino, 17 agosto 2024 Sul tavolo del ministero il piano per semplificare il ricorso alle misure alternative. Frenata di Delmastro: “Il tana libera tutti non rieduca e non garantisce sicurezza”. È un’estate caldissima quella delle carceri italiane. Mentre a Torino la situazione tornava lentamente alla normalità dopo che nella notte tra giovedì e venerdì una rivolta ha ferito sei agenti della polizia penitenziaria, un’indiscrezione ha riacceso le contrapposizioni all’interno della maggioranza. Tra le ipotesi su cui starebbe lavorando il ministero della Giustizia per arginare il drammatico sovraffollamento degli istituti penitenziari spunta infatti anche l’idea di facilitare il ricorso a misure alternative al carcere per quei detenuti che devono scontare pene residue entro un anno. Tradotto: potrebbero ricorrere ai domiciliari o all’affidamento in prova, coloro che sono all’ultimo miglio prima dell’uscita (segmento in cui, peraltro, è significativo l’impatto dei suicidi secondo i dati di Associazione Antigone) a patto che non si tratti di condannati per reati ostativi. A differenza di oggi cioè, sarebbe possibile avvalersi della misura senza ricorrere al tribunale di sorveglianza. Un’ipotesi di lavoro che, per quanto appaia in controtendenza anche con le sensibilità meno giustizialiste della maggioranza, sarebbe emersa lo scorso 7 agosto in occasione dell’incontro del ministro con il Garante dei detenuti e con i garanti regionali. Non a caso è il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove a smentirla categoricamente. “Non è nelle corde del cuore del governo una misura che, essendo un colpo di spugna, vanifica e frustra non solo e non tanto le esigenze di sicurezza, quanto e soprattutto la funzione rieducativa della pena - è la dura nota del deputato di Fratelli d’Italia considerato vicino alla premier Giorgia Meloni - Il tana libera tutti non rieduca, non riabilita, non garantisce sicurezza: è il già tristemente visto e stancamente vissuto del passato e che ci ha regalato l’attuale situazione”. Una bocciatura su tutta la linea insomma, preferendo perseguire la strada appena imboccata con il Dl carceri, e con un piano per l’edilizia carceraria. L’emergenza è impossibile da ignorare. Sono 63 infatti i suicidi di detenuti avvenuti in carcere dall’inizio dell’anno. Ovvero, secondo i dati diffusi dal Garante dei detenuti, 19 in più rispetto al 2023. L’età media di chi ha compiuto il drammatico gesto, si legge nella nota pubblicata ieri, è di circa 40 anni. Sessantuno gli uomini e 2 le donne, in maggioranza italiani (52%) e il più delle volte giudicati condannati in via definitiva (41,3%) o in attesa di primo giudizio (38,1%). Inevitabile anche la polemica politica. Mentre Forza Italia ha lanciato l’iniziativa “L’estate in carcere” per monitorare le condizioni dei penitenziari con visite ad hoc da parte di deputati e senatori azzurri, l’opposizione torna a puntare il dito contro il governo dopo l’ultimo suicidio di ieri nell’istituto penitenziario di Parma. “La maggioranza purtroppo ha scelto di non rispondere all’emergenza procrastinando ancora l’esame della proposta di legge Giachetti sulla liberazione anticipata”ha attaccato la senatrice di Italia Viva Silvia Fregolent riferendosi alla proposta con cui si mira a modificare il sistema di detrazione di pena per la liberazione anticipata innalzando la detrazione da 45 a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata. “Trovo incredibile che la destra continui a indicare priorità che hanno solo e sempre un obiettivo di garantire impunità, di difendere chi è già forte e di sottrarre alla giustizia chi ha potere” l’affondo invece di Nicola Fratoianni di Alleanza Verdi Sinistra. Delmastro vs Nordio: “Nessuna nuova norma contro il sovraffollamento” di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 agosto 2024 Il sottosegretario di Fd’I smentisce anche che il ministero sia a lavoro contro l’emergenza suicidi. Un altro suicidio (un 36enne tunisino morto in cella di isolamento a Parma, il 66esimo dall’inizio dell’anno), proteste e disordini in Piemonte, agenti feriti a Torino e Ivrea, visite di politici con foto opportunity annessa. È passato così il Ferragosto nelle carceri italiane la cui onda lunga si è concretizzata ieri in un nuovo confronto muscolare a distanza tra Forza Italia e Fratelli d’Italia. O meglio: tra quel che resta del garantismo di Carlo Nordio e l’ala forcaiola del governo Meloni. Nei giorni di Ferragosto l’eccesso di sofferenza aggiunta alla legittima pena dei detenuti e alla fatica giornaliera degli agenti è stata forse leggermente alleviata in qualche istituto interessato dal viavai di politici che anche quest’anno hanno aderito alla storica iniziativa estiva radicale, a cominciare dal ministro Nordio in visita alla casa di reclusione femminile della Giudecca, nella sua Venezia, e dal vicepremier Taj ani che in veste di segretario di FI si è recato a Bologna. Diverso il caso del sottosegretario Delmastro che a Taranto è andato, per sua esplicita ammissione, solo per incontrare i sindacati degli agenti. Perché, ha spiegato ieri, nella sua delega c’è scritto “polizia penitenziaria”, non certo “detenuti”. Nell’uno e nell’altro caso però la solidarietà si può fare anche accendendosi una sigaretta, irrinunciabile compagna di chi vive dentro le mura (ma la foto che lo ritrae intendo a fumare, fi dove formalmente è vietato, è diventato un caso nel perbenismo social). Ben più di spessore è invece la critica sollevata dal presidente degli avvocati penalisti Gian Domenico Caiazza che attacca Delmastro per essersi rifiutato di visitare le celle: “Non mi inchino alla Mecca dei detenuti”, avrebbe detto con sdegno il sottosegretario di Fd’I. “Sono parole di una gravità definitiva”, afferma Caiazza su X, aggiungendo che fatica a capire come mai nessuno “invochi le immediate dimissioni di una persona così inadeguata al ruolo, né chieda conto al ministro Nordio cosa pensi di una simile, scandalosa dichiarazione del suo viceministro”. Delmastro persegue però un suo progetto personale: accreditarsi come il più strenuo difensore della polizia penitenziaria. E a questo scopo non fa altro che imitare le schermaglie da rissa che qualcuno, tra le sigle più destrorse, vorrebbe innescare ogni giorno. Da qui l’irruenta reazione di ieri alla notizia che Nordio starebbe lavorando ad un pacchetto di proposte per contrastare il sovraffollamento. Viene fatto trapelare infatti di norme approntate - peraltro già annunciate e ribadite, nonché concordate con i Garanti territoriali dei detenuti il 7 agosto scorso - per semplificare le procedute di liberazione anticipata e per agevolare il ricorso ai domiciliari per i detenuti che abbiano un residuo di pena inferiore ai 18 mesi o all’affidamento in prova per quelli che, con reati non ostativi, abbiano da scontare ancora non più di un anno di carcere. Nulla di particolarmente rivoluzionario, stante che tali misure alternative sono già una realtà, concesse però attualmente solo dal tribunale di sorveglianza. Delmastro lo sottolinea, ne fa un punto di forza a favore del suo ragionamento. E batte il pugno: poche ore dopo che la notizia finisce sulle agenzie, emette una nota formale per dire che “il sovraffollamento si combatte con il piano di edilizia carceraria, non con la resa”. Le misure annunciate sono per il sottosegretario “un colpo di spugna”, un “tana libera tutti”, “l’ennesimo svuota carceri” che “non rieduca, non riabilita, non garantisce sicurezza”. A farlo sono invece, secondo Delmastro, l’“imponente piano di edilizia penitenziaria” e la “saturazione delle piante organiche degli educatori” in cui è “impegnato il governo”. All’inizio di settembre è previsto un nuovo incontro tra i Garanti territoriali dei detenuti che si aspettano da Nordio qualcosa di concreto. Che per ora non c’è. Delmastro shock: “Non mi inchino alla Mecca dei detenuti” di Chiara Spagnolo La Repubblica, 17 agosto 2024 Il dirigente meloniano: “Gli svuota-carceri in passato sono stati fallimentari. Trattare i detenuti non significa liberarli”. Va a visitare le carceri, ma senza incontrare i detenuti, Andrea Delmastro. E lo rivendica. Lo ha fatto il 14 agosto a Taranto e Brindisi, dove ha spiegato: “Non mi inchino alla Mecca dei detenuti”. È un altro segnale della frattura tra Fratelli d’Italia e Forza Italia, che invece gira le carceri in tandem con i Radicali e chiede di trovare soluzioni per il sovraffollamento nelle celle. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove afferma: “Nella mia delega non c’è il detenuto, ma la polizia penitenziaria”. Dall’altro fronte della maggioranza il capogruppo di FI in commissione Giustizia della Camera, Tommaso Calderone, prospetta invece la necessità di occuparsi dei problemi dei detenuti “compreso quello delle cure sanitarie”. Prospettive inconciliabili, evidentemente. Ma torniamo alla visita di Delmastro al carcere di Taranto. Il dirigente di FdI incontra solo gli agenti penitenziari, mosso dall’intenzione di “non inchinarsi alla Mecca dei detenuti”. Quelle parole suscitano lo sdegno dell’Unione camere penali e dell’Organismo congressuale forense, con tanto di richiesta di intervento al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ma Delmastro non si smuove e, mentre gli azzurri raccolgono prove della situazione esplosiva per chiedere, a ferie finite, misure alternative al carcere, il meloniano dalla Puglia afferma: “Umanizzare le pene significa dare posti idonei ai detenuti”. E ancora: “Gli svuotacarceri in passato sono stati fallimentari. Trattare i detenuti non significa liberarli”. Vuole creare altri posti: “Ne mancano 10mila, il governo ha sbloccato 255 milioni per l’edilizia penitenziaria”. E poi “ripristinare la gerarchia della legalità, rappresentata dalle divise”, cioè assumere agenti, “7mila” ha detto a Taranto, dove il sovraffollamento è del 180% (con 900 persone per 500 posti) e la carenza di organico al 30%. Con gli agenti Delmastro non si sottrae mai ai selfie: peccato che nel carcere di Brindisi abbia dimenticato di spegnere la sigaretta prima di farsi fotografare, proprio sotto il cartello “Vietato fumare”. Pubblica la foto sul suo profilo Instagram, poi si accorge che iniziano le polemiche. E la rimuove. Perché le parole di Delmastro hanno bisogno di un’immediata e severa smentita di Nordio di Francesco Petrelli* Il Foglio, 17 agosto 2024 Con le sue dichiarazioni, il Sottosegretario alla Giustizia ha immesso nell’azione del governo una visione di programmatica ostilità nei confronti dei detenuti, contraria e incompatibile con ogni ipotizzata “umanizzazione”. Ma Delmastro esercita una delega conferita dal ministro, l’unico a cui spetta decidere l’indirizzo politico-amministrativo. Nello stesso giorno di Ferragosto, nel quale si sarebbe consumato nel carcere di Parma l’ennesimo suicidio (il terzo in quell’istituto ed il 67esimo nel Paese), il Sottosegretario alla Giustizia Delmastro, in visita alle carceri pugliesi spiegava in maniera piuttosto chiara quale fosse il suo rapporto ideologico con l’istituzione carceraria. Pensando di provocare con parole sprezzanti coloro che nel Paese hanno cura delle condizioni del popolo dei carcerati, non si rendeva conto del fatto, altrettanto grave, che con le sue affermazioni offendeva innanzitutto quello stesso personale di Polizia penitenziaria, il cui ruolo e la cui funzione avrebbe dovuto istituzionalmente salvaguardare. Sono infatti gli agenti e gli ufficiali di Polizia penitenziaria che a quella “Mecca dei detenuti” si recano quotidianamente con spirito di servizio. La “Mecca dei detenuti” - come la chiama Delmastro - quei servitori dello Stato la frequentano tutti i giorni e conoscono e condividono da “detenenti” le condizioni disperate e disperanti dei “detenuti”, conoscono gli effetti del sovraffollamento, il caldo, il degrado, le carenze igieniche e sanitarie, i pidocchi, gli scarafaggi, le mancate risposte di giustizia, le promesse mancate della politica. È anche grazie a loro che i suicidi non sono stati fino ad oggi quanti sono i tentativi registrati in quest’ultimo anno. Già questo sarebbe un motivo di “biasimo” da parte del Ministro nei confronti del suo Sottosegretario, l’avere ignorato il senso complessivo del lavoro della Polizia penitenziaria, l’averne irresponsabilmente strumentalizzato la funzione, ponendola al di fuori e contro la popolazione carceraria. Riducendone il ruolo ad una finalità antagonista di “carcerieri”, securitaria e repressiva ed ignorandone totalmente la concreta funzione trattamentale, di intermediazione e di gestione di un destino comune che dovrebbe essere caro alle istituzioni. Ora, se anche si volesse dimenticare questo non trascurabile profilo, occorrerebbe approfondire l’aspetto più esplicitamente politico di quelle dichiarazioni. Occorre cioè ricordare come il Sottosegretario di Stato Delmastro ha delega alla intera “amministrazione penitenziaria” e non solo alla Polizia penitenziaria. Gli spetta pertanto di gestire la realtà complessiva dell’universo carcerario. Scegliere una via provocatoria nella gestione di una materia così delicata, farlo in un giorno carico di valore simbolico, quale è - per chi si occupi di cose di carcere - il giorno di ferragosto, investendo in tal modo l’intero indirizzo politico del Governo, in un momento di profonda crisi di quell’intero settore, appare del tutto irresponsabile. Il Sottosegretario di Stato è appunto un servitore dello Stato, non un uomo di partito che possa spendere simili esternazioni al di fuori dei limiti connaturati alla sua funzione. Occorre ricordare, in proposito, come spettano comunque al Ministro, autore di quella Delega, le “funzioni di “indirizzo politico-amministrativo”, anche con riferimento alle attività delegate. Assumere una simile iniziativa significa a ben vedere immettere nell’azione del Governo una visione di programmatica ostilità nei confronti della popolazione dei detenuti, contraria e incompatibile con ogni ipotizzata “umanizzazione”. Si tratta di compiere una scelta politica di rottura assai grave. Quando l’onorevole Delmastro accorse a smentire Nordio sul possibile ridimensionamento dell’uso delle intercettazioni affermò che un conto sarebbero state le parole pronunciate da Nordio come “giurista”, mentre fatalmente c’era una “attenzione diversa” avendole invece dette da Ministro in conferenza stampa. Ecco le parole dette dal Sottosegretario hanno oggi proprio quella “attenzione diversa”. Sono parole che tradiscono la funzione ed hanno bisogno, questa volta in senso contrario, di una immediata e severa smentita da parte del Ministro. E per smentire un Sottosegretario c’è un’unica via. *Presidente Unione Camere Penali Italiane L’osceno Delmastro delle galere di Claudio Cerasa Il Foglio, 17 agosto 2024 Dopo le frasi becere del sottosegretario, per Meloni forse è ora di rimediare. Nella scorsa legislatura Andrea Delmastro Delle Vedove era un deputato di Fratelli d’Italia che il cognome riuscì a non far passare inosservato ai cronisti, e per il resto riuscì a distinguersi soltanto per qualche rissa verbale da avvocatuccio di provincia sui temi della giustizia, a lui non particolarmente chiari, tanto da far risaltare persino l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede come un luminare e un garantista. Uno degli errori ingiustificabili di Giorgia Meloni, che purtroppo resteranno agli atti di questo governo (assieme in verità ad altre nomine risultate non all’altezza) è quello di avere trasformato Delmastro Delle Vedove in un sottosegretario, e ancora peggio al ministero della Giustizia. Luogo che gli è concettualmente estraneo. Lo scorso anno già era incappato in un pasticcio istituzionale che aveva rivelato - per chi avesse dubbi - la sua incompetenza, la rivelazione di segreto d’ufficio sul caso Cospito. Si era salvato. Ma il giorno di Ferragosto il sottosegretario, che ha la delega alla “amministrazione penitenziaria”, ha passato il segno. Dal punto di vista politico, istituzionale e anche etico. In visita, per obbligo di ruolo, nelle carceri pugliesi ha dichiarato di essersi recato in visita solo agli agenti penitenziari (e dal punto di vista formale non è così) e di non essersi inchinato “alla Mecca dei detenuti”. Come ha bene scritto in un intervento al Foglio Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle Camere penali, Delmastro ha non solo malamente chiarito quale sia “il suo rapporto ideologico con l’istituzione carceraria”, ma ha provocato “con parole sprezzanti coloro che nel paese hanno cura delle condizioni del popolo dei carcerati”, e non si è nemmeno reso conto che con le sue affermazioni ha offeso “innanzitutto lo stesso personale di Polizia penitenziaria”. Insultare i cittadini in carcere e il personale che ne ha la responsabilità è atteggiamento becero e ignorante, prima di tutto il resto. Forse è giunto il momento per Giorgia Meloni di riconsiderare una nomina che può solo danneggiare lei e il paese. L’idea della galera di Delmastro è figlia dell’idea fascista della giustizia di Carmelo Palma linkiesta.it, 17 agosto 2024 Non è poi così strano che uno come il sottosegretario di Fratelli d’Italia, che ha un’idea pre-costituzionale della pena, sia arrivato a Via Arenula con questo governo. Che idea delittuosa della pena avesse Andrea Delmastro Delle Vedove era chiaro da tempo, da quando almeno, nel giugno 2020, poche settimane dopo il pestaggio di massa dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e l’avvio delle indagini da parte dell’autorità giudiziaria, aveva presentato un’interpellanza urgente per sollecitare il conferimento dell’encomio solenne all’intero corpo di polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale campana “per spiccate qualità professionali e non comune determinazione operativa”. In un Paese in cui le nostalgie ideologiche autoritarie della destra fascista e della sinistra comunista si sono democratizzate eleggendo secondini e inquisitori a campioni dell’igiene del mondo e della politica, come non stupisce che la rivoluzione manipulista sia diventata rapidamente il nuovo sole dell’avvenire del mondo sedicente progressista, non fa specie che sia stato uno dei colonnelli più refrattari alla conversione post-fascista della destra missina a diventare prima responsabile Giustizia di Fratelli d’Italia e a sbarcare poi a Via Arenula, per piantonare Nordio con la delega agognata alla galera e al business della polizia penitenziaria. In questi due anni, a dire il vero, tra il ministro e il sottosegretario non c’è stato alcuno scontro, né alcuna vera dialettica, solo una programmata divisione del lavoro, con il primo a strologare sulla quadratura garantista del cerchio giustizialista e il secondo a rassicurare i camerati vecchi e nuovi che la politica e la legislazione penale del Governo sarebbe rimasta quella del santo manganello, che non è, come è noto, solo un’ideale di violenza, ma soprattutto l’ideale di una giustizia liberata dalle catene del diritto, cioè di una violenza che pretende di affermare non solo il proprio dominio, ma la propria legittimità, non solo la propria forza, ma la propria ragione. Appunto la violenza degli agenti di Santa Maria Capua Vetere, che non abbattevano come vitelli i detenuti per vendicarsi delle loro rivolte, ma per ristabilire la giustizia, che le leggi magari elevano, ma alienano e solo la “determinazione operativa” del manganello risarcisce nella sua interezza. L’idea fascista della giustizia è coerente con quella organicistica dell’ordine politico e dunque, in questo quadro, la funzione della pena non è quella di riabilitare il reo alla partecipazione al consesso civile - che per i fascisti coincide con la vita stessa dello Stato - ma di presidiarne la temporanea o definitiva estromissione. La pena, insomma, non serve le persone, - né le vittime, né i colpevoli - ma direttamente lo Stato e quindi un interesse che trascende qualunque diritto individuale. C’è quindi poco da meravigliarsi per le parole pronunciate da Delmastro in visita al carcere di Taranto, per irridere il pellegrinaggio dei parlamentari alla “Mecca dei detenuti” e per rivendicare la volontà di incontrare i soli agenti di polizia penitenziaria, che dal suo punto di vista sono i soli, lì dentro, ad appartenere allo Stato e a presidiarlo e dunque i soli a potere rivendicare diritti che non siano arbitrarie pretese. Delmastro ha un’idea pre-costituzionale della pena perché non ha nessuna intenzione di emanciparsi da un’idea fascista della giustizia, a cui il latinoroum liberale di Nordio offre un alibi sempre meno convincente di rispettabilità e emendabilità. Delmastro non ha alcuna cura e preoccupazione per l’epidemia di suicidi e di morti per altre cause, che le carceri italiane stanno registrando, battendo ogni record passato, semplicemente perché non le ritiene un suo problema e una sua responsabilità. Mentre Nordio si arrabatta a promettere positivi cambiamenti nel giro di pochi mesi grazie al decreto carceri e a proporre nuove misure deflattive del sovraffollamento (tossicodipendenti in comunità, rimpatrio dei detenuti stranieri), che però né sono nuove, né hanno mai funzionato, Delmastro, pur continuando a vomitare sconcezze da antico seguace della subcultura nazi-rock, almeno dice la verità. A via Arenula comanda lui, non cambierà niente nelle carceri (peraltro neppure fuori), e di fronte ai primi attesi e forse pure auspicati disordini, è pronto il via libera ai “Gruppi di intervento speciale” di recente istituzione, per riportare l’ordine dello Stato nella mecca dell’antistato. Dietro la confusione di Nordio sulle carceri un ministero in subbuglio di Ermes Antonucci Il Foglio, 17 agosto 2024 Dopo il capo di gabinetto, Alberto Rizzo, e la direttrice dell’ispettorato, Maria Rosaria Covelli, lascia il ministero anche Raffaella Calandra, capo ufficio stampa del ministro. All’addio avrebbe contribuito l’ormai solito, costante attivismo di Giusi Bartolozzi, nuova capa di gabinetto. Dietro la confusione del Guardasigilli Nordio sulle carceri, palesatasi con il suo auspicio di incontrare il presidente Mattarella per parlare di soluzioni al sovraffollamento, proprio mentre in Parlamento si votava il suo decreto carceri, si cela anche una fase di turbamento che sta interessando il ministero della Giustizia. La squadra ministeriale, infatti, continua a perdere pezzi. Dopo il capo di gabinetto, Alberto Rizzo, dimessosi a febbraio, e la direttrice dell’ispettorato, Maria Rosaria Covelli, andata via a maggio, stavolta è il turno di Raffaella Calandra, che ha deciso di lasciare il suo incarico di capo ufficio stampa del ministro, per tornare al Sole 24 Ore. Fonti di Via Arenula riferiscono che all’addio avrebbe contribuito l’ormai solito, costante attivismo di Giusi Bartolozzi, nuova capa di gabinetto. Calandra era stata scelta nell’agosto 2021 dalla predecessora di Nordio, Marta Cartabia, e poi confermata dall’attuale ministro. Anche lei alla fine è stata vittima delle mire di Bartolozzi, la “zarina di Via Arenula”. Da tempo Bartolozzi ha accentrato nelle sue mani tutte le decisioni più importanti che competono al ministero, spingendosi perfino a improvvisarsi come addetta stampa, abbozzando i comunicati da veicolare agli organi di informazione. Posta sempre di più ai margini del ministero, tanto da essere a volte persino tenuta all’oscuro dell’attività di Nordio, Calandra ha deciso di lasciare il disturbo. Sarà sostituita da un nuovo responsabile della comunicazione. Resta invece al suo posto Daniele Piccinin, il portavoce senza voce: nel febbraio 2023 è stato nominato portavoce del ministero della Giustizia, ma da allora non ha mai rilasciato dichiarazioni alla stampa o informato i giornalisti sull’attività di Nordio (il suo ambito di competenza, specificano da Via Arenula, è il ministero, non il ministro). Mistero, e imbarazzo. Lo scorso febbraio si era invece dimesso l’allora capo di gabinetto di Nordio, il fidato Alberto Rizzo, chiamato al ministero da Nordio nell’ottobre del 2022 alla luce degli ottimi risultati ottenuti da presidente del tribunale di Vicenza. Dopo un anno però Rizzo già voleva scappare via, proprio a causa delle iniziative della sua vice Bartolozzi, dalla quale veniva bypassato in maniera sistematica nell’adozione delle decisioni più importanti, con buona pace della gerarchia interna. Dopo neanche un anno, così, Rizzo aveva fatto domanda al Csm per rientrare in magistratura con un incarico direttivo a Firenze, Modena o Brescia. Alla fine la situazione con Bartolozzi è diventata così invivibile da spingere Rizzo a dimettersi lo scorso gennaio, senza ottenere alcun incarico direttivo, ma semplicemente rientrando in ruolo proprio a Vicenza, come semplice giudice. Tutto pur di fuggire dalle tensioni del ministero della Giustizia. Poco dopo, lo scorso maggio, è stata la volta di Maria Rosaria Covelli, capa dell’ispettorato generale, ruolo nevralgico del ministero guidato da Nordio, nominata dal Csm come presidente della corte d’appello di Napoli. Ha tentato invece di andare via, senza successo, Luigi Birritteri, capo del dipartimento per gli Affari di giustizia, anche lui, raccontano, stanco di essere sistematicamente scavalcato da Bartolozzi. Dopo un anno dalla nomina si è candidato all’incarico di segretario generale del Csm, risultando però sconfitto nella corsa. Oltre alle carceri, Nordio dovrebbe dare un’occhiata anche al suo ministero. Il disordine sulle carceri parte dalla testa: la fedelissima di Delmastro oscura l’uomo di Nordio di Federica Olivo huffingtonpost.it, 17 agosto 2024 Le ultime circolari e la gestione del Gio affidate a Lina Di Domenico, vicina al sottosegretario alla Giustizia, mentre il numero uno del Dap, scelto dal ministro, resta low profile. In stand-by le norme per il nuovo 41 bis. Disordini a Torino, sovraffollamento, suicidi, timori per possibili rivolte, detenuti stretti nella morsa del caldo e agenti penitenziari costretti a straordinari ai limiti del disumano. In questa estate in cui (ancora una volta) si parla in termini emergenziali del carcere, in cui si confezionano decreti che - lo dicono gli esperti - risolveranno ben poco, si nota il profilo molto basso di chi le carceri dovrebbe gestirle. Il nome in questione è quello di Giovanni Russo, capo del Dap nominato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Una figura in ombra la sua, che si contrappone a un profilo, che invece, emerge sempre di più, quello della vice capa del Dap, Lina Di Domenico. Magistrato anche lei come Russo, ha trascorso gli ultimi anni fuori ruolo, prima al Dap, con un’altra mansione, e poi alla commissione parlamentare antimafia. Portano la firma di Lina Di Domenico le ultime due circolari del Dap che hanno fatto discutere: il vademecum sul decreto carceri e il rispettivo dietrofront, quando si sono accorti che il documento - che doveva essere divulgato anche ai detenuti - doveva rimanere solo nelle mani degli addetti ai lavori perché era fuorviante e non comprensibile a tutta la popolazione carceraria. Di Domenico ha avuto anche un ruolo di primo piano in tutte le fasi dell’stituzione del Gio, il nucleo di poliziotti penitenziari chiamati a sedare le rivolte “sul modello francese”, che sarà operativo nei prossimi mesi. Sottraendo personale agli agenti penitenziari già in grande sofferenza. Questo nucleo speciale è stato voluto fortemente dal sottosegretario Andrea Delmastro. Lo stesso contestato, da ultimo ieri, perché nel carcere di Taranto si è rifiutato di visitare “la Mecca dei detenuti”. Dimenticando, forse, che la sua delega alle carceri gli imporrebbe di lanciare ogni tanto uno sguardo anche verso chi in carcere ci vive perché ha commesso un reato. Di Domenico, racconta chi bazzica le stanze del Dap, “fa parte del cerchio magico di Delmastro”. Non si può dire lo stesso di Giovanni Russo, voluto invece dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio. La sua nomina era stata contestata da chi si occupa quotidianamente di carceri, perché Russo, pubblico ministero con una lunga esperienza nell’antimafia, aveva preso il posto di Carlo Renoldi, magistrato di sorveglianza, che per lavoro conosceva molto bene i penitenziari. In questi quasi due anni di lavoro, però, Russo ha provato a fare il suo. Aveva annunciato, ad esempio, una riforma del 41 bis, che - pur non facendo passi indietro sul fronte della sicurezza - avrebbe cancellato una serie di restrizioni inutili per i detenuti al carcere duro. Quali? Il divieto di avere più di tre libri in cella, di fare sport, di mangiare alcuni tipi di alimenti. La circolare era stata annunciata come imminente e invece, come è stato confermato ad HuffPost da fonti di primissimo livello nel settore, tutto si è bloccato. Resta l’intenzione, ma c’è il rischio che sia solo di Russo e non del resto dell’ufficio. Umanizzare il 41 bis, infatti, sarebbe coerente con varie sentenze della Corte costituzionale, ma molto impopolare per un governo che ha fatto del law and order la sua cifra. Intanto di carcere si continua a discutere: mentre a Torino si registrano forti proteste nel penitenziario, con sei agenti feriti, dal ministero trapela che a settembre un intervento potrebbe riguardare la detenzione domiciliare. L’idea sarebbe quella di renderla più facile per i detenuti a fine pena. Sarebbe uno strumento utile per far uscire dal carcere migliaia di detenuti. Perché sia efficace, però, bisognerebbe tenere in considerazione il fatto che tanti di questi non possono usufruire dei domiciliari perché non hanno una casa. E l’istituzione di comunità che possano accoglierli, seppure annunciata da Nordio in pompa magna, è ancora solo all’inizio. Quella crepa nella maggioranza di Massimo Giannini La Repubblica, 17 agosto 2024 Dal decreto-carceri alle norme sulla cittadinanza, dai diritti civili all’Autonomia, dalla collocazione in Europa alle elezioni Usa, Forza Italia è su posizioni sempre più distinte e distanti da quelle di Meloni e di Salvini. Lo sappiamo bene, purtroppo. Ci sono due guerre spaventose, ci sono le armi Nato in mani ucraine che fanno fuoco in territorio russo, ci sono gli estremisti israeliani che attaccano i civili palestinesi in Cisgiordania. E noi siamo qui, in quest’acido agosto italiano, a occuparci di Massimo Boldi. Non ce ne voglia “Cipollino”: ma più passa il tempo - e ormai siamo quasi alla boa dei primi due anni - e meno riusciamo a capire in che cosa Giorgia Meloni abbia “cambiato in meglio il nostro Paese”. L’eroe di tanti cinepanettoni non meritava il baccanale d’odio apparecchiato dai soliti antropofagi del web: tutt’al più, per l’ennesima volta, l’esecrazione eterna per tutti i frizzi lazzi rutti peti e cachinni che ci ha lasciato sotto l’albero da un paio di decenni. Resta il fatto che tutto il suo entusiasmo per questa Italia meloniana che migliora è veramente mal riposto. E la presidente del Consiglio, dopo aver solidarizzato con l’amico attore per le offese gratuite ricevute dagli hater, farebbe bene a porsi qualche domanda su questi fiumi di rabbia che denuncia, ma che lei stessa, insieme ai suoi Fratelli, è la prima ad alimentare. Al di là dei rituali festini per l’occupazione che cresce di qualche zerovirgola o per la quinta rata di un Pnrr che non riusciamo a spendere, colpiscono le tante fratture sociali e culturali che questa destra al potere sta creando nel Paese. Se c’è un clima d’odio diffuso, se c’è una polarizzazione sempre più esasperata, questo non dipende affatto dall’opposizione che non riconosce legittimità politica al governo e alla sua maggioranza. Al contrario, sono il governo e la maggioranza che si comportano da opposizione di se stessi. Parlando solo ai rispettivi blocchi elettorali, tutelando solo le nicchie corporative di riferimento, escludendo e criminalizzando tutto ciò che si muove al di fuori del Make Italia Great Again, versione tricolore del Maga trumpiano, che si nutre della stessa retorica nazional-populista, della stessa “Identità” fittizia, ma soprattutto della stessa rabbia contro il diverso, l’altro da sé. Qualcuno si era illuso che la Sorella d’Italia avrebbe approfittato della partita delle nomine a Bruxelles per concludere la sua decisiva metamorfosi. Che l’Underdog del Fronte della Gioventù - esaurita la fase reazionaria e minoritaria del “polo escluso” - sarebbe entrata finalmente nell’età adulta e avrebbe compiuto fatalmente il destino della nuova “destra di governo”: europea ed europeista, costituzionale e solidale, al fianco delle grandi famiglie politiche dell’Unione. Non è andata così. Se possibile, la contro-svolta meloniana ha reso la sua “destra di lotta” ancora più estrema, più truce, più sguaiata. La premier - isolata dai Patrioti in Europa e scavalcata da Salvini in Italia - ha smesso di oscillare. Tra Von der Leyen e Vannacci, preferisce ricoprirsi sul secondo che non allearsi alla prima. Cos’altro è diventata, questa rovente estate meloniana, salviniana e vannacciana, se non una continua esalazione di fumi tossici generati da un’ideologia oscurantista e cattivista, cieca e sorda di fronte alla realtà? Le crociate da atei devoti contro il Dioniso delle Olimpiadi francesi. Le squallide proteste anti-gender sul cromosoma di Imane Khelif. L’esaltazione della pugile-patriota Angela Carini, promossa testimonial a sua insaputa del Ponte sullo Stretto. La ripugnante discussione sui “tratti somatici” di Paola Egonu, lodata come “esempio di integrazione” in un penoso tweet di Bruno Vespa e “violata” per l’ennesima volta da qualche autoctono imbecille in un bel murale della street artist Laika. Neanche lo sport si salva dai primatisti bianchi de’ noantri, sempre pronti a farci vedere “come combatte un italiano”. Egonu è veneta, Sylla è siciliana. Ma i Fratelli di Giorgia non lo sanno e non lo vogliono sapere. Per loro non conta il Paese reale, dove giovani di seconda generazione - nati qui da famiglie di migranti - sono e si sentono più italiani dei nostri figli. Ai razzisti da bar seduti sui banchi del nostro Parlamento non interessano quel milione e 200 mila ragazzi seduti sui banchi delle nostre scuole che devono aspettare i 18 anni per non sentirsi più “stranieri”. Se ne fregano dello ius soli, dello ius scholae, dello ius culturae. Oggi come negli Anni Venti e Trenta dell’Europa Nera, il loro credo è ancora Blut und Boden: sangue e suolo. Tutto il resto è meticciato. Dunque, fuori dalla “Nazione” e dalla cittadinanza, fuori dalla sacra triade Dio-Patria-Famiglia e dai diritti fondamentali. Questo criterio di esclusione, disumano e anti-storico, non vale più solo per la “razza”. Lo Stato Etico all’amatriciana lo subiscono tutti i soggetti deboli o “deviati” dalla fase. La prova tangibile del “cattivismo” risfoderato dalla destra meloniana dopo la rottura con l’Europa è Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, già rinviato a giudizio per aver spifferato al “camerata di merende” Donzelli le relazioni del Dap coperte da segreto sui colloqui in carcere tra i parlamentari Pd e l’anarchico Cospito. A Ferragosto questo fiero Fratello d’Italia si è recato in carcere a Taranto, e ci ha tenuto a far sapere al mondo che lo ha fatto solo per incontrare la polizia penitenziaria: “Io non mi inchino alla Mecca dei detenuti”, ha detto (per inciso, fumandosi una sigaretta sotto il cartello “vietato fumare”). Non sappiamo quale miseria morale possa spingere un sapiens di media intelligenza a fornire una spiegazione così agghiacciante e ripugnante, di fronte a un inferno carcerario che ha già bruciato le vite di 65 disperati in cella. Sappiamo però che uno così non merita di fare né il sottosegretario né il parlamentare, perché la Costituzione vuole che chi ricopre cariche nelle istituzioni lo faccia “con disciplina e onore”, e a lui mancano sia la prima sia il secondo. Sappiamo purtroppo che questo modo osceno di pensare la società e la vita riflette esattamente quello di chi oggi comanda il Paese, e che non a caso solo una settimana fa ha risposto all’emergenza stendendo un ridicolo pannicello caldo sulle piaghe delle patrie galere e di chi ci muore dentro. Ma sappiamo anche un’altra cosa: dal decreto-carceri alle norme sull’integrazione, dai diritti civili all’Autonomia Differenziata, dalla collocazione in Europa alle elezioni in America, si è aperta una faglia, che vede Forza Italia su posizioni sempre più distinte e distanti da quelle di Meloni e di Salvini. È probabile che questa parziale autonomizzazione politica di Antonio Tajani sia scattata grazie alla vecchia cinghia di trasmissione tra la famiglia Berlusconi e il partito-azienda, che i figli hanno rimesso in moto due mesi fa, “nel nome del padre” e del suo “amore per la libertà”. Ma se l’ispirazione è sincera, allora c’è da chiedersi come possano convivere l’idea di centro-destra custodita dagli eredi del Cavaliere e la dottrina della destra-destra propalata dai nipotini di Almirante. C’è da domandarsi come possano sentirsi a casa loro, i sedicenti “moderati”, nella coalizione gestita come una caserma dalla “donna sola al comando”. Il 14 ottobre 2022, dopo un sacrosanto “vaffa” all’indirizzo del traditore Ignazio La Russa, l’Unto del Signore agitò in aula al Senato un famoso pezzo di carta, dove di suo pugno aveva scritto: “Giorgia non è disponibile ai cambiamenti, è una con cui non si può andare d’accordo: supponente, prepotente, arrogante, offensiva”. Aveva aggiunto anche “ridicola”, poi l’aveva cancellato. Se quel foglietto esiste ancora, è il momento che Marina e Pier Silvio lo ritirino fuori dai cassetti di Villa San Martino. Più galera per tutti. Ddl sicurezza: proteste ambientaliste, cannabis, case occupate di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 17 agosto 2024 Il provvedimento che a settembre approderà in aula introduce una serie di nuovi reati e aggravanti. Norme securitarie in contrasto con il “garantismo” del ddl Nordio. Due anni di carcere agli ambientalisti che occupano le strade; aggravanti se l’oggetto della protesta è il Ponte di Messina. Fino a sette anni di reclusione per chi occupa alloggi altrui. La castrazione chimica per gli stupratori invece no, è stata giudicata eccessiva. Il ddl sicurezza, che a settembre approderà in aula introduce una serie di nuovi reati che rischiano di aprire le porte delle carceri (già sovraffollate di loro) a molte persone. Il provvedimento - di forte impronta securitaria - ha già ottenuto il via libera dalle commissioni giustizia e affari costituzionali e potrebbe diventare realtà poche settimane dopo che la medesima maggioranza, approvando il decreto Nordio, ha introdotto una serie di norme di stampo opposto, fortemente garantiste. La norma anti Gandhi - Tra le nuove fattispecie di reato spicca quella che colpisce i gruppi di persone che occupano strade o linee ferroviarie in segno di protesta: su di loro rischia di piovere il carcere da sei mesi a due anni. La norma arriva dritta dagli episodi che hanno punteggiato la cronaca degli ultimi anni, quando sit in ambientalisti hanno interrotto la circolazione stradale o ferroviaria scatenando l’irta di automobilisti o pendolari. Che tali proteste abbiamo avuto carattere passivo e non violento è dettaglio che il legislatore non prende in considerazione tanto che la norma è stata ironicamente battezzata “anti Gandhi”. Le punizioni “sartoriali” - Altra norma “sartoriale”, tagliata su misura per reprimere proteste particolarmente invise, colpisce chi protesta per impedire “la realizzazione di un’opera pubblica o di una infrastruttura strategica”. In questo caso il disegno di legge non introduce un reato specifico ma una sola aggravante. Difficile non pensare alle proteste (all’orizzonte) contro il ponte di Messina o a quelle (già realtà conclamata) contro la Tav Torino-Lione. ma nel perimetro della nuova sanzione potrebbero ricadere centrali elettriche, discariche, autostrade, infrastrutture di ogni tipo. Contro le case occupate - Norma che potremmo rinominare “anti Salis” è quella che inasprisce le pene per chi occupa immobili di proprietà altrui. Il gesto già oggi punito dalla legge ma che con il ddl sicurezza rischia di essere pagato con una pena tra i due e i sette anni di carcere. Sono previste anche procedure accelerate per consentire al legittimo proprietario di rientrare in possesso in tempi rapidi dell’immobile. Contro le proteste in carcere - Il disagio nelle carceri è drammaticamente testimoniato dai 64 detenuti che dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita. Ma l’orientamento del ddl sicurezza è di attuare un giro di vite nella disciplina che vige dietro le sbarre. Viene infatti prevista un’aggravante al delitto di istigazione alla disobbedienza alle leggi, quando il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario o quando la condotta si realizza a mezzo di scritti o comunicazioni dirette a persone detenute. La sanzione viene estesa anche ai cpr che accolgono gli immigrati. Anche la semplice “resistenza passiva” agli ordini della polizia penitenziaria rientrerebbe in questo ambito. Cannabis light illegale - Se il provvedimento verrà approvato diventerà illegale anche vendere la cosiddetta “cannabis light”, vale a dire i prodotti derivati dalla canapa che contengono una percentuale di thc (principio attivo) al di sotto di quello in grado di produrre effetti psicotropi. La norma costringerebbe alla chiusura centinaia di negozi che vendono cannabis light e altrettante aziende che la producono. Contro le borseggiatrici - Altro capitolo “securitario” del ddl sicurezza è quello che cancella il divieto di portare in carcere le donne in gravidanza o con figli minori di un anno. Anche in questo caso si tratta di una norma tagliata su un obiettivo ben preciso: colpire le borseggiatrici che spesso si fanno scudo del fatto di essere incinte o di essere accompagnate da figli piccolissimi per evitare il carcere. I reati e i divieti accantonati - L’infornata di nuovi divieti e reati avrebbe potuto essere ancor più robusta ma una serie di richieste - che arrivavano principalmente dalla Lega - sono state scartate in partenza perché ritenute in contrasto con la Costituzione o estranee all’oggetto della legge. Non sarà reato, perciò, la semplice esposizione del simbolo della marijuana, nelle moschee non sarà introdotto l’obbligo dei sermoni in italiano e non verrà introdotta la possibilità della castrazione chimica per i condannati per stupro. Legge Severino, abuso d’ufficio e prescrizione: le riforme più odiate dai magistrati di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 17 agosto 2024 Senza la legge del 2012 e il reato temuto dai sindaci, meno potere alle toghe (costrette pure a lavorare di più). “Si potrebbe ipotizzare un intervento per renderla più coerente con il dettato costituzionale, ma non certo l’abrogazione dell’intera legge”, ha precisato Delmastro. La mano tesa da parte di Fratelli d’Italia agli alleati sulla Severino è un segnale molto importante in un periodo come questo, caratterizzato invece da grandi fibrillazioni all’interno della compagine governativa. La riforma della disciplina introdotta dalla ex guardasigilli è da sempre uno dei cavalli di battaglia di Forza Italia. Gli azzurri, infatti, caduto il governo Berlusconi, votarono questa legge nel 2012 sotto la spinta dello spread, delle indagini sui rimborsi elettorali nelle regioni, che poi si riveleranno un mezzo flop, e della violentissima campagna mediatica ben rappresentata dai libri del duo Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, che di fatto contribuirono a cambiare il corso della politica del Paese, spalancando le porte al M5S di Beppe Grillo. Come ricorda allora la deputata di FI Annarita Patriarca, componente dell’ufficio di presidenza di Montecitorio e componente della commissione Giustizia, abolire la legge Severino significherebbe superare “l’ubriacatura giustizialista e populista che tanti danni ha arrecato al nostro Paese”. E la legge Severino “è un abominio che fa inorridire il giurista e brucia biblioteche”, sottolinea Tommaso Calderone, che nella stessa commissione è il capogruppo degli azzurri, “un cittadino è innocente fino alla sentenza definitiva, quindi perché non può esserlo un politico? Numerosi amministratori sono stati ingiustamente sospesi, dopo la sentenza di primo grado, per poi essere assolti nei successivi gradi del giudizio. Nelle more vi è stato un vulnus alla democrazia: intere comunità sono rimaste magari senza il sindaco democraticamente eletto”, aggiunge Calderone. La legge Severino in questi anni è stata sempre difesa dalla magistratura associata, o almeno dalla parte più movimentista dell’Anm. La stessa che ultimamente è salita sulle barricate per difendere anche l’abuso d’ufficio, reato “prezzemolo” buono per tutte le indagini. Appellandosi spesso, ma impropriamente, alle Convenzioni internazionali, l’abolizione di questa fattispecie penale, secondo l’Anm, sarà un vulnus nel contrasto alla corruzione, dimenticandosi però di ricordare che tutti i reati contro la Pa hanno ormai da tempo pene elevatissime che li rendono sostanzialmente imprescrittibili. Ed è anche a proposito della riforma della prescrizione, che aspetta solo il sì definitivo del Senato dopo il voto della Camera, che l’Anm è già pronta allo scontro. Il testo, primo firmatario il deputato forzista Pietro Pittalis, azzera la riforma Cartabia, che aveva introdotto l’improcedibilità, istituto “di compromesso” che avrebbe lasciato migliaia di persone con un carico pendente a vita sulle spalle. La critica che viene mossa dalle toghe è che questa riforma costringerà ora le Corti d’appello a riconteggiare i tempi di prescrizione per tutti i processi pendenti in secondo grado. Nulla di insuperabile, d’altra parte, considerando le migliaia di assunti nell’ufficio per il processo, e per i quali si prospetta una stabilizzazione, e le centinaia di magistrati che a breve entreranno in servizio e -per la prima volta nella storia, come ricorda con soddisfazione il guardasigilli Carlo Nordio - porteranno a pieno organico gli uffici giudiziari del Paese. Dall’attuale dirigenza dell’Anm, ormai in scadenza e il cui rinnovo è previsto per il prossimo mese di gennaio, ad oggi, sul punto, è arrivato come detto sempre un no, accompagnato da una strenua difesa dello status quo. Nessuno che abbia fornito una spiegazione su come mai uffici giudiziari contigui, con organici sostanzialmente simili e con un bacino di riferimento pressoché identico, abbiano spesso tempi di definizione dei procedimenti molto diversi fra loro. La domanda, per la cronaca, se la pose, senza appunto avere risposta, già dieci anni fa l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd). Se gli uffici giudiziari sono ben organizzati, è ormai assodato, i reati non si prescrivono e i processi si celebrano nei tempi previsti. Non va mai dimenticato, infine, che la stragrande maggioranza delle prescrizioni maturano nella fase delle indagini preliminari, in cui il pm è il dominus assoluto e la difesa non “tocca palla”. Forse una riflessione su questi aspetti sarebbe opportuna. Ma soprattutto, è il caso di riflettere sul fatto che le tre riforme “sulla brace” dell’attualità politica - abuso d’ufficio, prescrizione e legge Severino - sono accomunate dall’effetto di ridurre il potere della magistratura requirente e, nel caso delle ultime due, di imporle appunto uno sforzo professionale più intenso, sebbene non insostenibile. Il discorso vale non solo nel caso della riforma sui termini di estinzione dei reati - che pure, prima del via libera a Montecitorio, aveva suscitato l’allarmata lettera a Nordio dei presidenti di tutte e 26 le Corti d’appello italiane - ma anche di quella che sopprime l’articolo 323 del codice penale: senza l’abuso d’ufficio, trasformato negli ultimi anni in una sorta di “reato a strascico”, diventa impossibile aprire indagini a carico di un politico e poi aspettare mesi, se non addirittura anni, per vedere se emergono elementi e addebiti più significativi. Le Procure saranno costrette a impegnarsi nella ricerca di elementi più solidi, per poter aprire e proseguire un’inchiesta. Più lavoro, ma anche meno potere di distruggere carriere politiche. Dimenticate un dettaglio: la prescrizione è svanita sotto il peso del populismo di Oliviero Mazza Il Dubbio, 17 agosto 2024 Anziché accapigliarsi tra improcedibilità e sospensione sostanziale, sarebbe meglio rivedere i termini pluridecennali di molte fattispecie, totalmente slegati dalla vita delle persone. Per impostare seriamente un discorso politico su questo istituto, bisognerebbe avere il coraggio di azzerare tutte le stratificazioni normative che ci restituiscono un sistema irrazionale di reati di fatto imprescrittibili. La prescrizione si è estinta per consunzione. Da questo dato di realtà processuale bisogna necessariamente prendere le mosse per evitare le trappole del dibattito lunare oggi in corso, in cui ci si arrovella per stabilire se sia meglio l’improcedibilità cartabiense o il ritorno alla disciplina sostanziale ante Bonafede, accompagnata però da una sospensione triennale nel corso delle impugnazioni, sul modello Orlando. Le cause della prematura scomparsa di un eminente istituto di garanzia sono abbastanza semplici da individuare. Negli ultimi vent’anni si sono susseguite almeno quattro sciagurate riforme che hanno prodotto due effetti di fondo, sia pure per strade e con modi diversi: aumentare a dismisura i termini di durata e distinguerli in funzione della tipologia del reato. Il risultato attuale è una disciplina diacronica dipendente dal momento della commissione del reato e con tempi del tutto scollegati dalla vita delle persone. Alcuni esempi? Il sequestro di persona a scopo di estorsione si prescrive in 60 anni, l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti in 40 anni, l’associazione per favorire l’immigrazione clandestina in 30 anni, morte o lesioni come conseguenza di inquinamento ambientale in 50 anni, omicidio stradale in 45 anni, violenza sessuale in 30 anni, violenza sessuale di gruppo in 35 anni, maltrattamenti in famiglia, se dal fatto deriva la morte, in 60 anni, corruzione in atti giudiziari in 30 anni, atti sessuali con minorenne in 60 anni, rapina ed estorsione in 25 anni, bancarotta fraudolenta aggravata in 18 anni e 9 mesi, furto in abitazione in 12 anni e 6 mesi, per non parlare dei reati di mafia e di quelli imprescrittibili. Di fronte al disastro cronologico, discutere se sia meglio l’improcedibilità triennale o la sospensione sostanziale, peraltro sempre triennale, appare ipocrita e mistificatorio, ricorda molto da vicino il senso del tempo mostrato dal Cappellaio matto nei suoi famosi tè. Per impostare seriamente un discorso politico sulla prescrizione bisognerebbe avere il coraggio di azzerare tutte le stratificazioni normative che ci restituiscono un sistema irrazionale di reati di fatto imprescrittibili, ponendo al centro il carattere assiologico di un istituto che deve garantire il giusto equilibrio nei rapporti fra pretesa punitiva e diritti fondamentali. Oltre un certo limite di tempo, proseguire nell’accertamento significa non solo infliggere una irrimediabile pena processuale a un presunto innocente, ma anche rendere illusorio il giusto processo. Nel sistema dei diritti costituzionali, la ragionevole durata è il predicato del giusto processo, ne diviene un requisito strutturale che segna il punto di equilibrio democratico nei rapporti fra autorità e cittadino: decorso un certo lasso di tempo o lo Stato è in grado di accertare compiutamente la responsabilità, vincendo la presunzione d’innocenza nel contesto di un giusto processo, oppure l’accusato deve essere per sempre liberato dal giogo della pretesa punitiva che fino a quel momento ne ha condizionato l’esistenza. Il diritto soggettivo al giusto processo di durata ragionevole è una prospettiva ben lontana da quella di chi ritiene la durata ragionevole una mera previsione programmatica ovvero un controlimite da opporre ai diritti e alle garanzie dell’imputato, peraltro in nome di una presunta efficienza solo repressiva. Spiace dirlo, ma anche nell’attuale discussione parlamentare il grande assente rimane la cultura delle garanzie, sovrastata dal calcolo politico di un leggero maquillage che lascia intatta la percezione sociale di un processo di durata tale da non consentire a nessuno di sottrarsi alla potestà punitiva. Prima di affrontare le tecnicalità su estinzione dell’azione o del reato, sarebbe bene partire dall’idea che la durata del processo non può superare il limite della tollerabilità civile rappresentato plasticamente dalla giurisprudenza europea compendiata nei rapporti del CEPEJ: per rispettare la previsione dell’art. 6 § 1 Cedu, il processo penale, in tutti i suoi gradi di giudizio, non dovrebbe eccedere la durata di 8 anni e mezzo, termine ben inferiore all’attuale media della prescrizione che, considerate le sospensioni della Orlando o l’improcedibilità della Cartabia, si attesta a 10 anni e mezzo. Eppure, 8 anni e mezzo di vita confiscata dalla pendenza del processo sono più di un decimo della esistenza media di un individuo, un limite oltre il quale il giogo processuale rischia di divenire una vera e propria pena inflitta indistintamente a tutti gli imputati, colpevoli o innocenti. Scongiurare la pena processuale e garantire un processo cronologicamente giusto, oltre al finalismo rieducativo della eventuale sanzione penale, sono obiettivi politici che devono costituire la pietra angolare su cui edificare una seria riforma che non si perda in oziosi dettagli e guardi il problema nel suo insieme. Altrimenti saremo sempre destinati a chiederci, come Alice e il Bianconiglio, per quanto tempo è per sempre. Raffaele Cantone: “La legge Severino non si tocca, è stata Meloni a dare la garanzia” di Liana Milella La Repubblica, 17 agosto 2024 Per il Procuratore di Perugia il decreto legge sulle carceri di Nordio “avrà un effetto assolutamente insignificante”. Non è tuttavia contrario a una misura per far scontare ai domiciliari chi ha un residuo di pena di un anno. Il decreto sulle carceri? “Avrà un effetto insignificante”. Fuori dalle patrie galere chi deve scontare un anno? “Con le dovute cautele non sarei contrario”. Via la Severino per gli amministratori condannati? “La premier Meloni, in un incontro alla Dna, ha detto che era contraria a cambiare la legge”. Parola del procuratore di Perugia Raffaele Cantone. Nel 2012 lei ha lavorato alla legge Severino. La sottoscrive tuttora? “Non mi voglio prendere meriti che non sono miei. Facevo parte di una commissione presieduta da Roberto Garofoli in cui c’erano giuristi di grande valore come Bernardo Mattarella e Francesco Merloni. Ero pienamente favorevole alle nuove regole e lo sono tuttora”. Da allora i tentativi di ridimensionarla sono stati molti. Ora è la volta di Forza Italia. Anche lei, in passato, l’ha ipotizzato. Ora che fa? “Ho pensato, ma anni fa, a modifiche per evitare la sospensione di chi fosse stato condannato in primo grado solo per l’abuso d’ufficio. Tema ormai non più attuale. Ho seri dubbi che vi sia una maggioranza in questo senso. Quando, a novembre 2023, alla Procura nazionale antimafia noi procuratori distrettuali, con Gianni Melillo, abbiamo incontrato la premier Meloni, abbiamo illustrato le questioni di maggiore interesse. Io ho parlato di anticorruzione e ho posto proprio il problema dei rischi di modifiche alla Severino”. E la presidente che le ha detto? “Fu categorica. Lì ricordò che ne aveva discusso con me quando ero presidente all’Anac e la sua posizione da allora non era cambiata. Era contraria a modificare quel decreto tanto che si era espressa in questo senso quando la norma era stata sottoposta a referendum”. Alla Consulta ben due sentenze della giudice Daria De Pretis sui casi De Magistris e De Luca ne hanno confermato l’impianto... “Il decreto è espressione di un principio costituzionale fondamentale. L’articolo 54 dice che chi svolge funzioni pubbliche deve adempierle “con disciplina e onore”. Non credo che un condannato anche in primo grado per reati gravi sia in questa situazione. E ciò non contrasta con la presunzione d’innocenza, perché non ha nulla a che vedere con il diritto di ogni imputato di difendersi, ma con quello di ogni cittadino di vedersi rappresentato da soggetti che svolgano le funzioni, appunto, con dignità e onore”. Lei parla di condanna, seppure in primo grado, per reati gravi... “La legge Severino riguarda solo reati gravi e non qualsiasi reato”. Compresi tutti i reati di corruzione? “Sicuramente sì. La corruzione è un reato grave e infamante per chi svolge funzioni pubbliche e sfido chiunque a dire che un condannato per corruzione, anche solo in primo grado, possa rappresentare le istituzioni con disciplina e onore”. Beh, adesso c’è un vento berlusconiano che chiede gli “scudi” per proteggere chi fa politica. Ben oltre il lodo Alfano, bocciato dalla Consulta, che scudava solo le più alte cariche... “Per ora sono semplici affermazioni di alcuni esponenti politici ed è difficile commentare senza comprendere in che modo l’eventuale norma dovrebbe essere confezionata. Certamente dovrà tener conto di quanto la Corte ha detto per le più alte cariche politiche”. La parola d’ordine del centrodestra, ma anche di Enrico Costa super attivo sul tema, è garantismo. Per il Guardasigilli Nordio è garantista la scure sull’abuso d’ufficio, la stretta sulle intercettazioni, la campagna contro la custodia cautelare... “Non voglio polemizzare, ma solo mettere in evidenza come dietro la parola garantismo spesso si celino anche riforme assolutamente illiberali, come cancellare l’abuso d’ufficio che ha fatto venir meno un presidio fondamentale di tutela per il cittadino contro la prevaricazione dei pubblici poteri. Quanto alle modifiche sulla custodia cautelare le scelte di politica criminale appartengono a governo e Parlamento che valuteranno quali possono essere gli effetti delle modifiche in questione su temi altrettanto sensibili come la sicurezza dei cittadini”. Abuso d’ufficio. Sta già archiviando qualche inchiesta? “Manca ancora qualche giorno all’entrata in vigore della legge, ma l’ho già trasmessa a tutti i colleghi chiedendo loro di valutare con la massima urgenza la possibilità di chiedere l’archiviazione per tutte le ipotesi iscritte, qualora non dovessero integrare altri reati”. Traffico d’influenze “ridotto”. Salta la condanna a un anno per Palamara? “È un tema in diritto molto interessante che affronteremo quando verrà posto e sul quale stiamo già riflettendo”. Lei ha già detto che non ci sono, come ha dichiarato Nordio, intercettazioni “nascoste” di Palamara. Ce lo conferma? “Confermo di non credere che il ministro abbia potuto affermare una cosa del genere. Perché se avesse avuto notizie di questo tipo avrebbe certamente presentato una denuncia o attivato i suoi poteri. Ho letto invece una sua intervista in cui faceva riferimento a intercettazioni riservate che sarebbero state fatte filtrare. Il ministro forse non è stato correttamente informato. Le intercettazioni sono state trascritte in un’udienza davanti al giudice nel contraddittorio con la difesa di Palamara che ha avuto la possibilità di ascoltarle tutte e di chiedere, com’era suo diritto, la trascrizione di quelle utili. Non ci sono altre intercettazioni oltre queste”. I suicidi in carcere. Siamo a 66. Vede un’omessa vigilanza del ministro e del capo delle Dap che potrebbe configurare un reato? “Non spetta a me dirlo. Non mi piace speculare su queste vicende anche perché le ragioni dei suicidi sono spesso varie ed è difficile dare un giudizio complessivo, fermo restando che per certo la situazione carceraria è oggettivamente difficile soprattutto in alcune case circondariali”. È mai possibile che nessuno, a partire dagli agenti, si accorga di soggetti deboli che potrebbero farla finita? “Il procuratore generale di Perugia Sergio Sottani ha reso pubblico nei giorni scorsi un dossier molto interessante proprio sui soggetti con problemi psichiatrici in cella mettendo in evidenza numeri preoccupanti e anticipando che al più presto, qui a Perugia, con gli interessati ci faremo carico del problema. Tra l’altro la nostra è una delle Regioni che non ha ancora istituito le Rems in luogo degli ospedali psichiatrici”. È possibile far uscire dalle carceri e mettere ai domiciliari chi ha un residuo pena di un anno... “Ho qualche perplessità, perché è evidente che gran parte di questi soggetti avrebbero già dovuto poter beneficiare di questa misura in vigore da tempo. E quindi se non è accaduto potrebbero esserci ragioni ostative. Con le dovute cautele non sarei contrario, ma bisognerebbe vedere bene come la norma viene congegnata”. Idea comunque tardiva, perché non metterla nel decreto carceri? “Non deve chiederlo a me. Ma quel decreto ha un effetto deflattivo sulle strutture carcerarie assolutamente insignificante”. Parma. Suicidio in carcere, i familiari: “Vogliamo sapere cosa è successo a Atef” parmatoday.it, 17 agosto 2024 Tra un mese e tre settimane sarebbe uscito dal carcere - grazie alla liberazione anticipata - ma la vita di Atef è finita in una cella in isolamento del penitenziario di via Burla di Parma, la cosiddetta sezione “Iride”. Erano circa le 19 di giovedì 15 agosto quando il suo corpo è stato trovato dagli agenti di Polizia penitenziaria. Si sarebbe impiccato utilizzando le sue mutande. Il 36enne di origine tunisina, che era stato trasferito dalla casa circondariale di Ascoli Piceno alle 20 del 14 agosto, non ha trascorso nemmeno 24 ore nel penitenziario di Parma. “Vogliamo sapere com’è morto Atef - racconta la cognata -tramite il nostro avvocato, chiederemo l’effettuazione dell’autopsia sul corpo, oltre agli esami tossicologici. Vogliamo vederci chiaro e cercare di capire cosa possa essere successo. Atef era un ragazzo con un progetto di vita al termine della sua pena detentiva. Aveva una fidanzata, aveva anche trovato un lavoro a Terni e avrebbe cercato di rifarsi una vita fuori dal carcere”. La cognata del 36enne non si dà pace. Non riesce a spiegarsi cosa possa essere accaduto all’uomo. Pochi giorni prima aveva parlato con lui al telefono. La procura della Repubblica di Parma, intanto ha aperto un fascicolo di indagine. Un atto dovuto. Prima di finire in carcere - dove stava scontando una pena una pena definitiva di 3 anni e 8 mesi dopo l’arresto nell’agosto del 2021 per rapina, ricettazione - viveva a Perugia. Considerato dall’amministrazione penitenziaria un detenuto problematico Atef aveva girato diverse carceri: Terni, Firenze, Bologna, Spoleto, Ascoli Piceno e infine Parma. “Dopo aver scontato due pene detentive di 3 e 5 anni nel carcere di Terni, Atef ha girato diverse carceri. Era nella casa circondariale di Ascoli Piceno. È lì che l’ho sentito per l’ultima volta al telefono mercoledì della scorsa settimana. Poi anche mercoledì 14 ho provato a sentirlo, ma la telefonata era disturbata”. Nella serata dello stesso giorno è stato portato a Parma. I trasferimenti da carcere a carcere non vengono annunciati prima, nemmeno ai parenti. “Al telefono era tranquillo come sempre, diceva che stavano continuando a spostarlo da un posto all’altro, ma mi ha parlato di quello che avrebbe fatto una volta fuori dal carcere”. La cognata avrebbe ricevuto una telefonata dal carcere di Parma dopo le 20 del 15 agosto: “Mi hanno chiamato dopo le 20, dicendo che era successo verso le 19. Non mi hanno dato spiegazioni, dicendo che non era di loro competenza farlo. Vogliamo capire cos’è successo. Atef era alto oltre un metro e novantacinque. È strano: non riusciamo a capire come possa essere riuscito a impiccarsi. Se aveva problemi di depressione o altro, avrebbe dovuto essere sorvegliato”. Parma. Suicidio in carcere, il Garante: “Abbattere lo stigma dei detenuti” di Christian Donelli parmatoday.it, 17 agosto 2024 Intervista a Roberto Cavalieri dopo il suicidio del 36enne tunisino nel carcere di Parma: “Il sovraffollamento porta all’asfissia il sistema di gestione” Roberto Cavalieri, Garante regionale delle persone sottoposte a misure limitative o restrittive della libertà personale. Nella serata del 15 agosto Atef si è impiccato in una cella di isolamento del carcere di Parma, utilizzando le sue mutande. L’ennesima morte, la terza in via Burla dall’inizio dell’anno, la 67esima a livello nazionale. “Di strada ne è stata fatta - sottolinea il garante sulla gestione del carcere di via Burla - e se si vuole ora è il momento giusto perché la città faccia il resto del lavoro abbattendo lo stigma sui detenuti e diventando attore di un sistema di rinnovamento delle politiche a favore dei detenuti che, molto spesso, non sono altro che poveri”. A Parma il 15 agosto c’è stato il terzo suicidio dall’inizio dell’anno. Quali sono secondo lei le cause di questo alto tasso di eventi critici nel carcere di via Burla? “Il sovraffollamento porta all’asfissia il sistema di gestione del carcere. Il personale penitenziario si trova a dovere gestire in Emilia Romagna 800 detenuti in più rispetto ai posti regolamentari. Di conseguenza la qualità degli interventi sui detenuti cade verticalmente succede così che qualcuno preferisce farla finita. Parma è ancora un’isola felice per quello che riguarda il sovraffollamento ma è ancora un istituto metà di trasferimento di soggetti critici e difficili da gestire pertanto nominalmente non c’è un sovraffollamento ma sono presenti decine di elementi che hanno un peso specifico molto alto in termini di richieste di gestione e il sistema non ce la fa” Quali sono le criticità maggiori del carcere di Parma e le richieste principali dei detenuti? “Le richieste dei detenuti sono sempre le stesse: riconoscimento dei loro diritti. Risposta alle istanze, lavoro, casa, elementi necessari per ricostruirsi una vita. A Parma sono presenti circuiti di alta sicurezza, 120 ergastolani, 41 bis, una media sicurezza sempre più popolata. E’ un insieme di istituti denominato come unico carcere ma non è così”. Com’è la situazione negli altri istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna? “Ciascun istituto ha pregi e difetti, luci ed ombre. Rispetto a qualche decennio fa il livello di preparazione del personale dell’Amministrazione penitenziaria è molto elevato. Ma siamo ancora molto distanti da una vera e propria integrazione del carcere nel tessuto sociale della città in cui è ubicato. Il problema delle carceri si misura con la distanza che esiste con le politiche locali di contrasto alla povertà, lavoro, welfare, sanità e cultura. La nostra regione è molto avanza ma sul fronte “carcere” siamo ancora distanti dall’avere un sistema, non dico perfetto, ma funzionale”. Nel corso degli ultimi anni a Parma ci sono stati dei miglioramenti nelle condizioni di detenzione? “Ci sono stati miglioramenti indubbi da parte del sistema di management del nostro carcere. Un direttore di ruolo, la presenza di un vice direttore (tra l’altro molto capace) che non era presente da molti anni, e a settembre arriverà un comandante di ruolo, il dr. Pellegrino ora comandante a Modena, uomo di indubbie capacità professionali e di governo di un carcere. Questo quadro di ruoli “fissi” non lo avevamo più a Parma dal 2010 ovvero da quando terminarono il loro servizio in Via Burla la “coppia” Di Gregorio-Zaccariello che furono chiamati ad altri ruoli superiori per le loro capacità. Lo staff dei funzionari giuridico pedagogici è ora completo e sono lontani i tempi in cui c’era un solo educatore. Si pena ancora con il numero di personale della Polizia Penitenziaria sul quale andrebbe anche fatto un atto di riconoscenza per il lavoro che svolgono e che spesso è oggetto di critiche destrutturanti. Infine ora il carcere di Parma è un istituto a incarico superiore. Di strada ne è stata fatta e se si vuole ora è il momento giusto perché la città faccia il resto del lavoro abbattendo lo stigma sui detenuti e diventando attore di un sistema di rinnovamento delle politiche a favore dei detenuti che, molto spesso, non sono altro che poveri” Torino. Ferragosto di rivolta nelle celle, tra caldo asfissiante e degrado strutturale di Marta Borghese e Luca Monaco La Repubblica, 17 agosto 2024 Un anno fa i suicidi di due donne recluse. Oggi ci sono 1.500 detenuti a fronte di 1.100 posti. Un poliziotto ammette “Il carico di stress non ci permette più di essere lucidi”. I materassi in fiamme, il pavimento bagnato con l’olio da cucina per ritardare l’ingresso degli agenti, la rabbia sfogata contro le lampade al neon al centro delle sezioni, le telecamere di sorveglianza in pezzi. Intanto al terzo piano del padiglione B scoppia una rissa tra una decina di detenuti. Allo stesso piano, padiglione C, un uomo sbraita, chiede di essere trasferito in un altro istituto del Piemonte. Il Ferragosto del Lorusso e Cutugno di Torino, una manciata di palazzine in cemento armato rosa all’estrema periferia nord della città, va avanti così fino alle due del mattino. Quando la protesta rientra sono stati già richiamati in servizio gli agenti in licenza anche dalle altre città del Piemonte. Otto poliziotti finiscono al pronto soccorso: due sono intossicati dal fumo, altri sei sono stati aggrediti e feriti dai detenuti. Uno di loro ha la mano fasciata. Se la caveranno tutti con un massimo di due settimane di riposo. “Dall’inizio dell’anno si contano già 40 aggressioni e 50 agenti feriti - attacca il segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp) Leo Beneduci - il carcere di Torino è in assoluta autogestione: i detenuti si sono appropriati del territorio e della legalità”. La rivolta di Ferragosto al Lorusso e Cutugno, 1500 detenuti a fronte di soli 1100 posti, racconta il malessere crescente che si respira negli istituti penitenziari del Piemonte, feudo elettorale del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. A un anno dalla morte Susan John, la quarantaduenne di origini nigeriane che si era lasciata morire di fame e di sete per rivedere il figlio, e della scomparsa di Azzurra Campari, suicida a 28 anni, poche ore più tardi, lo scenario sembra solo peggiore. “Caserme per alleggerire le celle sovraffollate”, aveva annunciato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, in visita al penitenziario il 12 agosto 2023. Nulla è stato fatto. Dopo la doppia tragedia niente è cambiato in meglio. In compenso “lavoriamo con un carico di stress accumulato che non ci consente più di essere lucidi quando serve - racconta uno degli agenti feriti a Ferragosto, 25 anni di servizio all’attivo - se prima i detenuti protestavano per delle istanze collettive, per ottenere maggiori benefici di legge, da alcuni mesi, ogni singola richiesta disattesa, diventa il pretesto per scatenare una protesta collettiva”. I motivi? “È sufficiente una pillola negata dal medico, anche se non fa parte della terapia prescritta, o una doccia negata”. Ad allargare il fronte delle proteste da un istituto all’altro ci pensano i social. “Gli smartphone - ammette l’agente - sono endemici nelle carceri come le cimici nei letti delle locande del 1800”. Se è vero che sui social, TikTok su tutti, si moltiplicano i video delle proteste registrati dietro le sbarre, è vero anche “che il malessere generale nel quale vivono i detenuti li fa sentire più uniti - spiega la Garante dei detenuti di Torino Monica Gallo - perché il problema specifico che vive un utente oggi, nell’arco di una settimana diventerà il problema dell’altro, del compagno di cella. In questo quadro disastroso, il decreto Nordio non cambierà le cose”. Dall’inizio dell’anno al Lorusso e Cutugno due detenuti si sono tolti la vita. La procura non ha ancora chiuso l’inchiesta per l’istigazione al suicidio di Alvaro Nunez Sanchez, un ecuadoriano di 31 anni: il 24 marzo scorso si impiccato in cella. Alvaro era schizofrenico, aspettava il trasferimento in una struttura sanitaria (Rems) da sette mesi. Non è mai arrivato. Il carcere di Torino “andrebbe raso al suolo e rifatto completamente - taglia corto la consigliera regionale del Pd Nadia Conticelli - non hanno più effetto nemmeno gli interventi di derattizzazione”. Il ragionamento è stato offerto ai giornalisti al termine della visita della delegazione del Pd all’interno del carcere che si è svolta il il 14 agosto. Poco ore dopo è deflagrata l’ultima rivolta. È partita dal padiglione B. Si è estesa al padiglione c, il corridoio che i detenuti chiamano comunemente corso Francia, un rimando agli 11 chilometri di viale che portano al cuore di Torino. Al terzo piano i detenuti, ubriachi con della grappa artigianale, si sono barricati nelle sezioni rifiutandosi di entrare in cella: hanno sfasciato tutto. Contemporaneamente al piano inferiore incendiavano i materassi. Al primo piano hanno rovesciato l’olio sul pavimento per sbarrare la strada degli agenti. Non a caso la protesta è nata al terzo piano del padiglione C, “il più deteriorato, con le guaine da rifare - aggiunge Gallo - dai muri affiorano gli scheletri del cemento armato: la fatiscenza e il degrado sono tali da ridurre le speranze riabilitative”. La rivolta è andata avanti fino alle due del mattino, quando non si erano ancora spenti gli echi della guerriglia di 15 giorni prima nell’istituto minorile Ferrante Aporti. Ieri sera un altro agente è stato aggredito a Ivrea: “Un ospite voleva vistare un amico in un’altra sezione - racconta Vicente Santilli del Sappe - non ce la facciamo più”. Torino. Dopo l’aggressione dei detenuti a sei agenti il sindacato chiede l’intervento dell’esercito di Gianni Giacomino La Stampa, 17 agosto 2024 Risse tra detenuti, materassi incendiati e anche un tentativo di evasione. È stato un Ferragosto d’inferno nelle carceri di Torino e Ivrea. Con risse tra detenuti, agenti feriti, incendi appiccati nelle celle e pure un tentativo di evasione. Un’emergenza che è rientrata solo intorno alle 2 del mattino quando - dopo che al Lorusso e Cutugno sono intervenuti a dar manforte ai colleghi agenti della polizia penitenziaria liberi dal servizio o da altri istituti del Piemonte - i detenuti sono stati fatti rientrare nelle celle. Otto agenti sono finti in ospedale per farsi medicare le escoriazioni rimediate per sedare le risse o perché rimasti intossicati dal fumo dei materassi dati alle fiamme. “Ora chiederemo al prefetto di disporre l’impiego immediato di altre forze quali l’Esercito perché siamo arrivati al limite, la sicurezza all’interno del carcere non è più garantita” - avverte Leo Beneduci, il segretario generale dell’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria. A Ivrea, come fa sapere Vicente Santilli, il segretario per il Piemonte dell’altro sindacato il Sappe, un detenuto di origine tunisine è andato in escandescenza dopo che un agente gli ha vietato di spostarsi in un’altra sezione detentiva per parlare con un suo connazionale. L’umo ha alzato una scrivania e l’ha scagliata contro gli operatori e uno è rimasto ferito ad un piede. Ma i disordini più gravi sono avvenuto alle Vallette dove nel pomeriggio quando una decina di detenuti al terzo piano del padiglione B hanno iniziato a prendersi a pugni. Uno di questi ha poi incendiato un materasso. Quasi contemporaneamente nel padiglione C, i reclusi, quasi tutti alticci, si sono barricati nelle sezioni detentive iniziando a distruggere tutto. Hanno danneggiato il sistema di videosorveglianza, sfasciato arredi e anche rotto tutti i neon di illuminazione. Per impedire l’ingresso degli agenti i detenuti hanno gettato tutto l’olio utilizzato per cucina sul pavimento del padiglione, mentre altri hanno appiccato il fuoco a diversi materassi. Il tutto questo parapiglia, tra urla e insulti, sono stati aggrediti e feriti un agente, due assistenti, due vicesovrintendenti e l’ispettore di sorveglianza generale. Due agenti sono rimasti intossicati dal fumo. Tutti sono poi finiti al pronto soccorso del Cto dove sono stati medicati e dimessi con prognosi che vanno dai 7 a 15 giorni. Nella confusione generale un detenuto ha scavalcato il muro del cortile passeggio e si è accovacciato sotto la garitta del penitenziario nel probabile tentativo di evadere. Ma, per fortuna, è stato scoperto e bloccato. “Il carcere di Torino attualmente è in assoluta anarchia e autogestione, comandano e spadroneggiano i delinquenti - taglia corto Beneduci - rinnoviamo l’invito al ministro della giustizia Carlo Nordio di disporre una immediata ispezione assumendo seri, urgenti e concreti provvedimenti nei confronti dei responsabili di questo disastro. È inaccettabile e vergognoso che nell’istituto penitenziario più problematico d’Italia le funzioni di comando siano state affidate ad un ispettore che, seppur bravo, non ha l’esperienza giusta”. “Alla fine rischiamo di diventare banali perché, ogni due o tre settimane, quando esplodono dei disordini al Lorusso e Cutugno rischiamo di ripetere sempre le stesse cose” - dice Monica Gallo, la garante dei detenuti. Prende fiato e spiega: “Che la situazione sia invivibile e oggi siano reclusi circa 1480 detenuti su una capienza massima che, almeno secondo me, non può superare i 950 è un dato di fatto”. “Il vero guaio - riflette - è che dopo la visita del ministro Nordio lo scorso anno, dopo il tavolo di lavoro che è stato istituito e due incontri a Torino e Roma con tutti i vertici delle istituzioni, non è cambiato nulla. Ovvio che magari si siano attivati dei progetti, stanziati dei fondi e poi ancora. Ma l’emergenza è adesso e noi non possiamo permetterci di far finta di nulla”. Torino. “Contro il sovraffollamento è necessario puntare sulle pene alternative” di Matteo Roselli Corriere di Torino, 17 agosto 2024 Rossomando (Pd): servono subito misure di alleggerimento. “Per il Padiglione C del carcere di Torino sono stati stanziati 18 milioni di euro per la ristrutturazione. Il che vuol dire che le condizioni sono disastrose. Allora perché utilizzarlo in questa fase?”. La vicepresidente del Senato ed esponente dem Anna Rossomando, dopo l’episodio di Ferragosto e la visita al carcere Lorusso e Cutugno fatta qualche giorno fa, si interroga sulla possibile chiusura dello spazio più difficile della struttura torinese. Dopo il sopralluogo si immaginava questo episodio? “Che la situazione fosse molto critica, così come nella maggior parte delle carceri italiane, si sapeva già prima di entrare al Lorusso e Cutugno. È una situazione denunciata con grande chiarezza dagli addetti ai lavori e anche noi abbiamo fatto lo stesso durante la discussione sul decreto carceri e sorprendentemente abbiamo trovato un muro di indisponibilità”. Cosa avete visto all’interno del carcere? “Abbiamo avuto la conferma delle difficilissime condizioni. Le alte temperature diventano insopportabili in uno stato di detenzione come questo.tra celle sovraffollate e le condizioni fatiscenti di detenzione, con gli scarafaggi che entrano dalle finestre. In più c’è un’alta carenza di agenti di polizia penitenziaria. Ne mancano 200 solo a Torino, ma nel Decreto carceri 2025-2026 si parla di 500 assunzioni in tutta Italia. Ma di cosa stiamo parlando? Allo stato attuale non ci sono le condizioni per affrontare adeguatamente la situazione del personale . Ma mancano anche assistenti sociali , psicologi e funzionari”. Quali soluzioni imminenti chiedete? “Gli emendamenti delle opposizioni offrivano un ventaglio di proposte sulle alternative al carcere. Ne cito una per tutte: replicare quello che era stato sperimentato durante il Covid con successo, ovvero che il residuo pena di 18 mesi poteva essere scontato in detenzione domiciliare. Abbiamo chiesto più volte la proroga di questa misura, ma questa maggioranza, che ha in mano la situazione da 2 anni, non ha mai voluto prenderla in considerazione neanche con gli emendamenti”. E sul lungo periodo questo carcere è ancora attuale? “Così com’è non è utilizzabile. Ci vuole il coraggio e l’onesta di non utilizzare quelle parti del carcere che non sono dignitose. Servono, in generale, diversi interventi radicali di medio e lungo periodo, ma nell’immediato ci vogliono comunque misure di alleggerimento. La liberazione anticipata già ora non è un automatismo e viene applicata esempio, nella riforma Cartabia, quando una pena non supera i 4 anni si può avere la detenzione domiciliare. Ad ora questo avviene quando non si sorpassano i 2 anni, così noi abbiamo chiesto un allineamento, ma fino ad ora non è stato fatto nulla”. Quale potrebbe essere un’azione per affrontare al meglio il futuro? “Nonostante lo sbandierato securitarismo della maggioranza, ci sono degli sbagli anche su questo, perché gli istituti in queste condizioni producono di fatto insicurezza. L’obiettivo non deve essere quello di creare buoni detenuti, ma formare buoni cittadini. Sembra che il governo guardi solo al carcere come proposta, come se al di fuori ci fosse l’impunità. Quello su cui non bisogna transigere è che la Costituzione non può fermarsi al di fuori dei cancelli del carcere”. Palermo. Viaggio nei gironi di Ucciardone, Pagliarelli e Malaspina: la vita impossibile in cella di Giusi Spica La Repubblica, 17 agosto 2024 Nel giorno più caldo della stagione, la temperatura dentro le celle sfiora i 38 gradi centigradi. L’aria è irrespirabile, si fa fatica persino ad asciugarsi il sudore. I 130 ventilatori nuovi di zecca, donati alla vigilia di Ferragosto dai deputati regionali Valentina Chinnici e Ismaele La Vardera per i detenuti dell’Ucciardone, sono ancora impacchettati. “Non li possono distribuire per ragioni di sicurezza. Bisogna prima rimuovere i piedi”, allarga le braccia Donatella Corleo, consigliere generale dei Radicali che alla testa di una delegazione del partito ha visitato il carcere il 14 agosto. È stata la prima tappa di un tour negli istituti di pena siciliani che andrà avanti per tutto il mese. Una discesa nei gironi infernali in cui sono rinchiusi migliaia di condannati, stipati come sardine in celle in cui i tre metri quadrati di spazio vitale imposti dalla normativa sono un miraggio. Succede anche ai minori rinchiusi al Malaspina a Palermo. “Al momento - racconta Corleo che ieri ha visitato l’istituto minorile - ci sono 29 ragazzi tra 15 e 22 anni. In teoria la struttura può ospitarne una quarantina ma tre celle sono ancora inagibili per l’incendio che è scoppiato a dicembre durante una rivolta”. La tensione resta altissima, tanto che la settimana scorsa due ragazzi chiusi nella stessa cella sono stati separati dopo una lite. Gli episodi di bullismo sono all’ordine del giorno: “Un giovane detenuto di 19 anni è stato isolato per sottrarlo ai soprusi degli altri”, spiegano i delegati radicali. I ragazzi hanno finalmente a disposizione una piscina da 25 metri, rimessa in funzione dopo anni di stop e mancata manutenzione. Ma possono andarci solo due volte alla settimana, suddivisi in due turni. “Gli educatori, gli allenatori e gli operatori del carcere fanno tantissimi sacrifici per seguirli, ma sono troppo pochi”, continua Corleo. Nelle celle il caldo è asfissiante. I giovani condannati hanno qualche ventilatore da tavolo e attendono l’arrivo dei condizionatori, acquistati ma non ancora installati. E probabilmente lo saranno solo alla fine della stagione estiva. La situazione più esplosiva resta nelle carceri per gli adulti. Al Pagliarelli la delegazione dei radicali è arrivata il giorno di Ferragosto. Hanno visitato subito l’ala “Libeccio destro”. Quella più “bollente”, non solo per le alte temperature. “A metà luglio - spiegano i rappresentanti del partito fondato da Marco Pannella e Emma Bonino - è arrivato un provvedimento del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria, ndr) che imponeva di istituire subito una sezione per i condannati in via definitiva con pene superiori ai cinque anni, da inserire in percorsi lavorativi. Sono stati trasferiti al Pagliarelli anche da altre carceri. La situazione è ingovernabile. I carcerati vogliono lavorare ma non possono perché sono troppi”. Nelle celle convivono fino a tre persone. “La sentenza Torreggiani sui limiti minimi di terreno calpestabile per ogni detenuto non viene rispettata”, dice Corleo che da vent’anni conduce ispezioni periodiche nelle carceri siciliane. All’Ucciardone i radicali hanno visitato il girone dei “dannati”, i detenuti violenti e psichiatrici. “C’è gente malata che in carcere non ci dovrebbe nemmeno stare e i medici scarseggiano”, sbottano i radicali. Anche chi sta bene, qui dentro, rischia di impazzire. “Non solo i detenuti, ma pure chi ci lavora”, insiste Corleo, ricordando quante guardie penitenziarie si sono suicidate o hanno tentato di farlo. Una bomba a orologeria che rischia di esplodere in ogni momento, non solo al di qua dello Stretto, come accaduto in queste ore nel carcere di Torino dove una rivolta ha portato al ferimento di 6 agenti, o a Pavia dove un detenuto si è tolto la vita il giorno di Ferragosto. Tanto che i radicali hanno annunciato l’intenzione di denunciare il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Alla vigilia di ferragosto, davanti all’Ucciardone c’erano anche i militanti del comitato “Esistono i diritti” assieme al garante comunale dei detenuti Pino Apprendi. “Durante il sit-in - racconta Apprendi - è arrivata un’ambulanza per trasportare in ospedale un detenuto che era in sciopero della fame da parecchi giorni”. Le forme di resistenza passiva per chiedere condizioni di vita più dignitose sono sempre più frequenti tra i detenuti. “L’Ucciardone e il Pagliarelli - dice Corleo - sono il simbolo delle strutture penitenziarie che soffrono di gravi carenze strutturali e di personale”. I radicali non si arrendono. Lunedì faranno tappa a Catania, prima al carcere per adulti Bicocca, poi all’istituto minorile. Il giorno dopo sarà la volta del penitenziario di Augusta, mentre il 27 agosto ci si sposta a quello di Favignana visaitato nei giorni scorsi anche dal presidente dei senatori di FI Maurizio Gasparri. Si attende ancora l’autorizzazione per entrare il 23 agosto al carcere di Trapani, “una delle strutture più critiche”, sottolineano i radicali. Un carcere recentemente alla ribalta per l’appello lanciato dalla famiglia di un detenuto che sta rischiando di perdere una gamba per un’infezione non adeguatamente curata dopo un intervento chirurgico. Costretto a condividere la cella con altri, nonostante le condizioni di salute. Il caso è anche stato segnalato dal garante regionale dei detenuti. Ma - si sa - gli invisibili non fanno rumore. Soprattutto a ferragosto. Padova. Consiglieri in visita al Due Palazzi: “Liste d’attesa anche per i farmaci” di Michela Nicolussi Moro Corriere del Veneto, 17 agosto 2024 Una delegazione tra le celle: “Sovraffollamento e caldo e personale sottorganico”. Sovraffollamento, celle con quattro e perfino sei detenuti, caldo soffocante per mancanza di aria condizionata e ventilatori, lunghe liste d’attesa prima di poter ricevere un farmaco, personale in sottorganico e stressato. È la situazione della casa circondariale riscontrata ieri dalla delegazione composta dall’associazione “Nessuno Tocchi Caino” con i Radicali di Padova, Venezia e Verona, i Giovani Democratici di Padova, i consiglieri regionali Erika Baldin (M5S), Renzo Masolo (Verdi) e Arturo Lorenzoni (Gruppo Misto) e il Movimento Forense di Padova e Rovigo. “Insieme alla libertà non si può togliere la dignità ai detenuti, la pena dev’essere rieducativa - sottolinea Lorenzoni - ma è impossibile perseguire quest’obiettivo senza risorse, spazi, personale. Ci sono 211 reclusi a fronte di 188 posti, che in realtà sono meno del previsto per l’inagibilità di alcune celle. I poliziotti sono 130 invece di 143 e il carcere può disporre di un solo medico h24, che però deve dividersi tra due padiglioni. Mancano pure gli infermieri”. “Poiché l’assistenza sanitaria e l’istruzione sono materie di competenza regionale, presenteremo un’interrogazione alla giunta Zaia affinché potenzi e destini maggiore risorse a entrambe - completa Masolo, alla sua prima visita in un istituto di pena -. Le urgenze vengono coperte, ovviamente, ma se poi un detenuto soffre di mal di denti, per esempio, è costretto ad aspettare giorni prima di ricevere il farmaco adatto. E quelli di fascia C se li deve pagare. Mancano anche psicologi, psichiatri ed educatori”. Ad accompagnare la delegazione in visita il direttore del circondariale, Anastasio Morante. “Non ha nascosto le difficoltà di dover operare senza finanziamenti adeguati - rivela Samuele Vianello, Segretario dei Radicali Venezia - per esempio non ci sono spazi per attività aggregative e ricreative e nemmeno i semplici ventilatori. Ne hanno ricevuti in dono 50, ma a fronte di 211 detenuti. Sul fronte dell’istruzione è difficile portare a compimento il ciclo delle scuole medie e non esistono corsi professionali, mentre in tema di misure alternative al carcere siamo in alto mare. Mancano i braccialetti elettronici e anche le opportunità di lavoro, necessarie a concedere la semilibertà, cioè l’uscita dalla casa circondariale, a chi ne ha i requisiti”. Tutti disagi emersi dal confronto con l’intera popolazione penitenziaria, personale incluso. Come sollecitare la politica? “Il primo passo è di esortare il ministero della Giustizia e la Regione a creare un legame tra questa realtà e la società, attraverso il coinvolgimento di associazioni, cooperative e imprenditori in grado di agevolare il reinserimento dei reclusi - dichiarano Erika Baldin e Marco Vincenzi (Radicali Verona) -. È vero che nella casa circondariale ci sono le persone in attesa di giudizio, quindi la permanenza media è di 11 mesi ed è difficile avviare operazioni strutturate, ma almeno le basi per la rieducazione vanno messe. Per esempio il sovraffollamento non è più un’emergenza ma un problema consolidato, per non parlare del dramma dei suicidi: 65 in Italia finora”. “È un ambiente alienante - concludono i portavoce di “Nessuno tocchi Caino - abbiamo visto sei persone dividersi la stessa cella con 40 gradi di temperatura. Occupano letti a castello, dispongono di un solo bagno e si lavano i vestiti da soli. Non è possibile, non è umano”. L’iniziativa di ieri rientra nella “Grande Satyagraha 2024”, la mobilitazione promossa da “Nessuno Tocchi Caino”, con relative visite nelle carceri di tutta Italia, per avviare un dialogo con il governo e approvare provvedimenti in soccorso alla crisi penitenziaria. A settembre la delegazione toccherà l’istituto di pena maschile di Venezia. Modena. Il Garante: “Allarme giovani in cella, sono 48. Servono nuovi progetti ad hoc” di Giorgia De Cupertinis Il Resto del Carlino, 17 agosto 2024 Al Sant’Anna gli under 25 rappresentano l’8,9% sul totale mentre alla casa di reclusione di Castelfranco il 3,6%. Cavalieri: “Nei casi possibili, è necessario individuare contesti domiciliari e misure diverse dalla reclusione”. Sembra apparire sempre più nebuloso il futuro al di là delle sbarre. Perché se il Garante dei detenuti aveva già manutenuto alta la guardia sul sovraffollamento delle carceri - tanto nella nostra città quanto nel territorio regionale - questo fenomeno non è il solo su cui, necessariamente, mantenere “i riflettori accesi”. Dopo un Ferragosto trascorso insieme ai detenuti del Sant’Anna e della casa di reclusione a Castelfranco (“ho parlato con loro dalle nove del mattino fino alle 17, un colloquio dopo l’altro”) a riaffiorare, ancora una volta, come “matrice” principale dei problemi è la difficoltà di mettere “a fuoco” le prospettive di futuro dei detenuti. “Dalla reperibilità di un lavoro grazie al quale poter godere di alcuni benefici fino alla possibilità di trovare un domicilio per il fine pena - entra nel dettaglio il Garante regionale, Roberto Cavalieri -. Oggi infatti è ancor più dominante la preoccupazione riguardo il loro domani piuttosto che le condizioni di disagio che si riscontrano nel presente”. Una situazione che mette in difficoltà soprattutto le detenute donne, che a Modena, ormai da tempo, “non possono più lavorare all’esterno - spiega - Anche per questo è in corso un dialogo con l’amministrazione affinché a settembre si possa superare questo problema. Un detenuto non può pagare un’inefficienza del carcere”. Poi, a essere ‘risfogliato’ è anche il capitolo sovraffollamento. Un tema questo, ormai tristemente noto: se i posti regolamentari nel carcere di Sant’Anna sono 372, i detenuti presenti risultano invece essere 538. Così come risulta altissima anche la percentuale dei giovani adulti presenti (cioè dai 18 ai 24 anni). A Modena rappresentano l’8,9% sul totale (48) mentre nella casa di reclusione di Castelfranco il 3,6% (4). “Spesso - spiega il Garante regionale - si tratta di persone che non hanno un domicilio dove attendere le decisioni del giudice appena commesso il reato oppure, nonostante le condanne brevi, non hanno progetti di inserimento tali da evitare il passaggio in carcere. Per questo - conclude Cavalieri - mi sono rivolto agli assessori al Welfare e alle Procure affinché valutino possibili collaborazioni come la messa a disposizione di domicili e progetti, che, dove possibile, scongiurino la carcerazione”. “Il fenomeno della carcerazione dei giovani adulti porta alla gestione, con i limitati mezzi a disposizione delle direzioni degli istituti detentivi, di questa minoranza, sempre più significativa, in contesti di adulti e con una cronica carenza di opportunità formative, scolastiche e lavorative rischiando così, per sopravvivenza, di identificarsi nelle logiche della vita detentiva peggiorando, molto spesso, il loro destino - conclude -. Sarebbe infatti importante valutare possibili collaborazioni finalizzate a individuare nei casi della custodia cautelare e dell’esecuzione di pene con durata inferiore ai quattro anni e per reati non ostativi forme di accoglienza che possano mettere a disposizione idonei contesti domiciliari e progetti di inserimento, e che possano assicurare alle Procure le necessarie cautele, da dedicare ai giovani adulti quale possibilità che eviti la loro conduzione in carcere”. Firenze. Renzi in visita a Sollicciano, scambio di accuse sul sovraffollamento di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 17 agosto 2024 Sovraffollamento del carcere di Sollicciano: botta e risposta tra Renzi e Fratelli d’Italia sulla sua situazione. “Sollicciano andrebbe buttato giù e rifatto” ha detto l’ex sindaco di Firenze, secondo cui nelle nostre carceri “viviamo una situazione di sovraffollamento inaccettabile del 130 per cento” e per questo “siamo qui per dire che è giusto che chi ha sbagliato paghi, ma è contemporaneamente giusto che lo Stato non sia fuori legge e invece noi abbiamo uno Stato che è tecnicamente fuori legge nelle condizioni della detenzione”. Poi ha attaccato il ministro alla giustizia Carlo Nordio: “Il Parlamento ha appena approvato un decreto voluto dal Governo sul sovraffollamento delle carceri, il giorno dopo averlo approvato Nordio ha detto di avere idee per ridurre il sovraffollamento, dicendo che ne avrebbe parlato con Mattarella, una dichiarazione del genere dimostra come quella del Governo sia fuffa spaziale, il governo Meloni è un Governo di fuffa”. Secondo Renzi, “servono nuove carceri in grado di accogliere quelli che devono stare in carcere e agevolare il lavoro della polizia penitenziaria”. Il deputato Giachetti, quanto al decreto Nordio, ha aggiunto che “il ministro ha fatto un decreto inutile”, poi rivolgendosi ai giornalisti, ha aggiunto: “Se poteste entrare qua dentro potreste rendere conto del livello in cui vivono queste persone, nemmeno i maiali nelle porcilaie”. E infine: “Io continuo ad affermare che la strategia del Governo sia quella di non intervenire nelle carceri, una strategia finalizzata ad attuare una azione repressiva dopo che è esplosa la situazione”. A contestare le parole di Renzi la consigliera regionale di Fratelli d’Italia Sandra Bianchini e la capogruppo in Consiglio comunale a Firenze Angela Sirello: “Quando lui è stato presidente del Consiglio la situazione a Sollicciano era peggiore rispetto ad adesso”. Una tesi supportata dai numeri: “Nel 2014, su una capienza di 520 posti disponibili, a Sollicciano ci sono 755 detenuti, con un tasso di affollamento del 160%. Nel 2015 711 (136%), nel 2016 718 (138 %) nel 2017 700 (134%), nel 2018 711 (136%). Ultimo dato rilevato lo scorso 31 dicembre, parla di 545 detenuti per un tasso di affollamento del 104%. Numeri ben diversi, ma Renzi non lo dice”. Per le esponenti FdI “una inerzia, la sua, che non è certo uguale all’impegno del Governo Meloni che sta cercando di decongestionare le carceri, con interventi sui tossicodipendenti e sul rimpatrio dei detenuti stranieri, anche se molto c’è ancora da fare”. Verona. Celle senza luce e allagate, cibo cotto nei bagni. Il “carnaio” di Montorio di Angiola Petronio Corriere di Verona, 17 agosto 2024 La visita degli avvocati a Ferragosto: “In un Paese civile nel 2024 non si può essere ridotti così”. “Una cosa del genere è indecente per un Paese civile nel 2024”. È rabbrividente il resoconto della visita a Montorio fatta dagli avvocati della Camera Penale di Verona il giorno di Ferragosto. La situazione è critica in particolare nel “corpo 2” della seconda sezione - dove non c’è luce e le celle hanno l’acqua per terra e in terza sezione - quella degli aggressori sessuali e dei codici rossi dove le celle sono sovraffollate. “Questo carcere - dicono gli avvocati - non potrà mai rieducare”. Il vulnus. Quello che non era stato fatto vedere, ma dove giovedì sono entrati gli avvocati della Camera Penale veronese. Il corpo 2 della seconda sezione. “Una latrina”, la definisce Simone Giuseppe Bergamini. È stata una mattinata acherontea quella che lui - referente del carcere per la Camera Penale di Verona e componente dell’osservatorio nazionale carcere delle Camere Penali Italiane - e i colleghi Federico Lugoboni, Giorgio Paraschiv, Alessandro Favazza, Carlotta Frassoni e Greta Sona, accompagnati da Marco Vincenzi - coordinatore di Verona Radicale - hanno passato a Ferragosto nelle celle di Montorio. “La visita - hanno scritto in un comunicato - ci conferma ancora una volta quanto continuiamo con forza ad affermare in ogni sede: questo carcere non potrà mai rieducare. Le condizioni detentive sono oltre il limite della dignità umana: celle piccolissime dove sono stipati fino a 3 o 4 detenuti, rinchiusi per ore ad aspettare un medico che spesso non c’è o un educatore che ha troppe poche ore per poter aiutare tutti. Costretti in molti casi a convivere con persone che hanno problematiche sanitarie e psichiatriche che in carcere non devono stare. Manca il lavoro, manca la speranza di un futuro degno oltre le mura. Quel poco che funziona è affidato alla buona volontà del personale della polizia penitenziaria che fa molto di più di quelle che sarebbero le loro mansioni e che è costretta anch’essa a subire orari o condizioni di lavoro disumane”. Ma poi c’è il racconto. Sono andati in quasi tutte le sezioni, gli avvocati. L’isolamento giudiziario, l’articolazione di salute mentale. E quella seconda sezione, che è divisa in due corpi. “Nel primo corpo ci sono detenuti tendenzialmente giovani, in attesa di giudizio. È ordinaria. E poi c’è la “corpo 2”, dice Bergamini. Lì ci sono i detenuti che creano problemi. “Saranno stati una quarantina - continua il referente del carcere per la Camera Penale -. Non c’è la luce, perché i neon sono stati spaccati. Non si vede niente. È tutto allagato. La lavatrice è rotta. Una situazione indecente anche per chi lavora lì, per gli agenti. Poi siamo stati in quinta sezione. Sono due per cella, quasi tutti con condanne definitive. Lì il discorso è il lavoro. Continuavano a ripetere che “siamo qui che non facciamo niente dalla mattina alla sera”. Sono andati anche nella terza sezione, gli avvocati. È quella dei “protetti”. Aggressori sessuali e codici rossi. “Sono stipati all’inverosimile. Tre per cella, in momenti anche in quattro. Siamo entrati in una cella e si fa fatica a passare. Tra l’altro non hanno le docce perché sono in rifacimento. Senti il megafono che dice “docce” e partono in dieci. Li portano in un’altra sezione”. Quelli che dovrebbero restare separati da tutti gli altri. “C’è troppa gente - continua Bergamini. C’è un carnaio, una promiscuità, degli odori che non vanno bene. In un Paese civile nel 2024 non si può essere ancora ridotti in queste condizioni. Non ci sono le prese elettriche per i ventilatori e si arrangiano con le pile, la doccia credo la facciano una volta ogni due giorni, cucinano in bagno con i fornelletti da campeggio. Non stiamo parlando di terroristi. Un quarto dei detenuti di Montorio ha meno di due anni da scontare. Sono circa cento persone per cui basterebbe una pena alternativa”. Ragiona Bergamini che “se fossero meno si riuscirebbe magari anche a stabilire una priorità sulle richieste o sulle scelte che invece in tutta questa confusione si perdono”. Concludono, i penalisti veronesi, con un “augurio”. Che “alla prossima visita sia presente la magistratura perché solo sentendo quanto è forte il grido di sofferenza ci si potrà rendere conto delle ragioni per le quali il carcere è extrema ratio”. Udine. Sindaco dona 35 frigoriferi al carcere: “È un modo per sdebitarmi per il sostegno ricevuto in cella 44 anni fa” di Luana de Francisco La Repubblica, 17 agosto 2024 Mario Pinosa, primo cittadino di Lusevera, scontò 8 giorni per un ritardo nel rinnovo del porto d’armi. L’idea di fare qualcosa a favore dei detenuti e, in particolare, di quelli presenti nel carcere di Udine, era una costante da anni. Per l’esattezza, dal giorno in cui lui stesso si era lasciato alle spalle l’esperienza della detenzione. Era il febbraio del 1980 e durante gli otto giorni trascorsi là dentro, a causa di una banale irregolarità nel porto d’armi, aveva incontrato una solidarietà umana che non solo non si sarebbe mai aspettato, ma che lo aveva aiutato anche e soprattutto a superare lo choc di ritrovarsi a sua volta recluso. Una nuova vita - Poi, riconquistata la libertà, la vita di Mauro Pinosa, imprenditore di Villanova delle Grotte e, dallo scorso giugno, sindaco di Lusevera, Comune di 600 abitanti della provincia di Udine, aveva ripreso a scorrere nella sua ordinaria quotidianità. L’impegno di sdebitarsi, però, era rimasto latente al pari di un obbligo morale. L’occasione per farlo è arrivata in questi giorni, con l’iniziativa “Un frigo per ogni cella”, promossa dal garante dei detenuti di Udine, insieme alle associazioni La Società della Ragione e Icaro Volontariato Giustizia, per alleviare il problema delle temperature insopportabili che aggravano le condizioni di vita delle persone recluse nella casa circondariale del capoluogo friulano. Un frigo per ogni cella - Pinosa ha aderito alla raccolta fondi e si è fatto così carico dell’intera somma necessaria all’acquisto di 35 frigoriferi: 5.250 euro, che, grazie anche al contributo di chi, nel frattempo, non ha esitato a propria volta a partecipare con una propria quota di donazione, saranno investiti ora nell’operazione anti canicola. Chiudendo così il cerchio su una storia cominciata 44 anni fa. “Non appena liberato mi ripromisi di fare qualcosa per quel carcere - racconta Pinosa -. Rimasi in via Spalato soltanto 8 giorni, ma mi bastarono per capire cosa vuol dire essere privati della libertà. Scoprii un mondo diverso, che non avrei mai immaginato di conoscere. Ero terribilmente avvilito, ma i compagni con cui dividevo la cella non smisero mai di confortami”. Dalla contravvenzione al carcere - Era stata la sua amata pistola da tiro a segno, quella con cui continua a sparare ancora oggi, a farlo finire nei guai. “Era ed è la mia grande passione - spiega -. L’avevo appena comprata e, non vedevo l’ora di andare al poligono a provarla. A due mesi di distanza da quando avevo portato tutti i documenti per il rinnovo del porto d’armi in Questura, a Udine, telefonai all’ufficio armi per sapere a che punto fosse la pratica e mi fu risposto che era tutto a posto e che mancava solo il visto del responsabile per consegnarmi la documentazione. Questione di ore, insomma”. Da qui, il passo falso. “Il sabato mattina richiamai, ma non rispose nessuno. Essendo stato rassicurato sulla regolarità delle carte, decisi comunque di andare al poligono di Udine - ricorda -. Lì, consegnai l’arma per il consueto controllo di polizia e fornii anche copia dei documenti portati in Questura. Ottenuto il via libera, mi dedicai ai tiri. Alla fine della gara, però, lo stesso poliziotto mi disse che doveva portarmi in Questura, perché, non avrei dovuto muovermi da casa con la pistola senza avere ricevuto il porto d’armi. Questo, mi disse, mi sarebbe costato una contravvenzione. Ma andò peggio. In Questura - continua -si presentò un anziano poliziotto che, mortificato, mi spiegò che in quel frangente - era il periodo della Brigate Rosse: qualche giorno più tardi avrebbero ucciso Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura - le disposizioni sui controlli di armi e porto d’armi erano rigidissime e che, di conseguenza, era costretto a portarmi in carcere. Mi crollò il mondo addosso”. L’assoluzione e le scuse - Seguirono il processo per direttissima e una condanna a 4 mesi con la condizionale e la non menzione, oltre al sequestro dell’arma, ma con liberazione immediata. “In appello, a Trieste, fui assolto con formula piena, con le scuse del Tribunale - afferma Pinosa -. Ricordo ancora le parole del pubblico ministero, che chiese l’assoluzione ‘perché questo giovane - disse - abbia fiducia nella giustizia italiana’”. Un’esperienza indelebile, la sua, come la riconoscenza verso la struttura che lo ospitò. “Il tempo, poi, è passato. Qualche mese fa chiesi l’autorizzazione per poter visitare il carcere, ma la burocrazia è complessa e alla fine lasciai perdere. Quando però ho saputo della colletta per i frigoriferi - ha concluso -, ho pensato che fosse l’occasione ideale per onorare l’impegno che mi ero preso all’epoca”. Prato. L’imprenditore che assume detenuti: “Così tornano a vivere” di Maristella Carbonin La Nazione, 17 agosto 2024 L’ad della Piacenti: “L’integrazione è possibile. Se ciascuna azienda facesse un passo in questa direzione, si potrebbe fare qualcosa di veramente grande e socialmente utile”. Sarà perché è abituato a dare una seconda vita alle cose. A rimettere insieme i pezzi. A salvare tutto quello che si può salvare, in fondo, creando ponti tra ieri e oggi che assomigliano un po’ a miracoli. Ma non occorre credere nei miracoli per dare una seconda chance alle persone, a quelle che fino a ieri avevano come unico orizzonte il carcere. Occorre credere nelle persone. Gianmarco Piacenti, Ceo della pratese Piacenti spa, una delle più importanti società di restauro a livello nazionale e internazionale, ha deciso di provarci. Il seme è stato gettato da Ance (istituzione del settore edile afferente a Confindustria), insieme all’associazione Seconda chance. Piacenti, avete fatto una prima assunzione in blocco di 6 detenuti (anche pratesi) a dicembre, e adesso avete in mente di assumerne altri... “Esatto, abbiamo già preso accordo con il carcere di Rebibbia per altri tre contratti di lavoro nel settore del Restauro artistico da poter impiegare nei cantieri per 32 interventi appena vinti nell’ambito delle opere del Giubileo. Presto il numero dei detenuti assunti salirà a 12”. Come è la convivenza con gli altri lavoratori? “All’inizio vince la diffidenza. Ma in breve tempo i nuovi arrivati sono riusciti a meritarsi l’integrazione. Oggi, nei gruppi di lavoro, sono tutti molto uniti”. Cosa la spinge a fare questa scelta? “L’etica non ‘letica’ (non litiga) con il profitto, questo è il mio motto”. Il suo settore è particolare: restauro monumentale artistico e archeologico. Ha trovato persone giuste per le mansioni da lei ricercate? “In ogni cantiere c’è spazio per figure che possono dare il loro supporto. Per esempio, a Rebibbia ho trovato persone con variegate esperienze che posso impiegare nei miei cantieri: un detenuto è iscritto alla facoltà di Scienze dei beni culturali, un altro ha altissime capacità di disegno perché è un tatuatore artistico, un altro ancora sa lavorare i metalli”. Che cosa l’ha colpita di più riguardo le assunzioni che ha fatto. Racconti qualche caso... “Ogni persona è portatrice di una storia. Due in particolare mi hanno colpito: uno degli assunti a Prato, avendo la possibilità di uno stipendio grazie a questo lavoro, è venuto a dirmi che voleva farsi una famiglia. Io non ho dato molto peso a quelle parole, pensavo che fosse impossibile. E invece ci è riuscito e io ne sono felicissimo: pochi mesi fa si è sposato. A molti di loro, poi, il lavoro ha dato la possibilità di recuperare la dignità che avevano perso: il lavoro è un mezzo che serve per rientrare a testa alta nella società civile”. È anche un mezzo anche per evitare di ricadere nelle vecchie ‘abitudini’? “La recidiva, cioè la possibilità di tornare a delinquere, è molta alta fra coloro che escono dal carcere senza fare niente. Chi trova un’occupazione invece rientra in quella percentuale di recidiva quasi pari a zero”. Ci sono grosse difficoltà nella gestione dei detenuti assunti? “Le difficoltà ci sono perché il sistema è complesso, ma non bisogna scoraggiarsi: ci sono passaggi precisi da compiere. Il tribunale di sorveglianza e la magistratura debbono essere sicuri di concedere la possibilità di uscita dal carcere per un lavoro. Ci vogliono garanzie per le aziende che li accolgono e anche per i detenuti, la maggior parte dei quali deve rientrare in carcere a fine turno di lavoro”. Questa è un’estate rovente per le carceri. Abbiamo assistito a rivolte e a una lunghissima scia di suicidi (a Prato 4 in meno di un anno) per le pessime condizioni in cui i detenuti sono costretti a vivere... “È così. Allora penso che anche una sola goccia nel mare possa essere utile. Queste 12 persone su una popolazione carceraria di 70mila unità sono una goccia nel mare. A Prato ci sono 27mila aziende: se ciascuna facesse un passo in questa direzione, si potrebbe fare qualcosa di veramente grande e socialmente utile”. Vigevano (Pv). Apre un call center in carcere, i detenuti assistono i clienti per ditte luce e gas di Anna Ghezzi La Provincia Pavese, 17 agosto 2024 Gli operatori scelti tra chi ha ancora almeno cinque anni da scontare. Sono in 11, obiettivo arrivare a quota 30. Da giugno dentro il carcere di Vigevano c’è un call center, una vera e propria impresa sociale come nel carcere modello di Bollate. E un gruppo di detenuti formati come operatori sono stati assunti da due cooperative sociali - Bee4 e Divieto di sosta - che lavorano per tre imprese del settore energia: gli operatori fanno assistenza al cliente, gestione reclami, indagini di mercato, validazioni contrattuali, attivazioni e disattivazioni, volture e cambi piano tariffario, ma anche attività di back office come rendicontazioni fatture, archiviazione di documenti, inserimento dati, gestione database e flussi e molto altro. Cento metri quadri di postazioni - In undici, quindi, ogni mattina alle 8.30 timbrano al call center che si trova in un’ala del carcere ristrutturata per accogliere le postazioni. C’è anche un’aula per la formazione: in tutto circa 100 metri quadri con un cortile e distributori automatici. A breve in due cominceranno anche a fare i turni di notte. Il carcere di Vigevano è una casa di reclusione: “Ci sono circa 400 detenuti e 80 donne, una sezione di alta sicurezza. Pene definitive e importanti”, spiega la direttrice Rosalia Marino, arrivata da Novara a giugno 2023. “In questo primo anno - dice - ho dato priorità al lavoro proprio perché parliamo di detenuti definitivi: è necessario creare opportunità stabili nel tempo, formazione per creare competenze specializzate”. Il progetto si chiama “In carcere non si finisce… si ricomincia” ed è (anche) un modo di dare speranza ai detenuti e alla società: speranza che la pena serva anche a restituire persone cambiate rispetto a quando sono entrate. “Il detenuto non è solo il suo reato - dice la direttrice -. Formando competenze specializzate si favorisce il reinserimento e si restituisce dignità”. Ci è voluto un anno, tra autorizzazioni e lavori. Marino ha preso contatti con le cooperative di Bollate bee.4 e Divieto di sosta, sono stati selezionati 15 detenuti e inviati da Vigevano a Bollate per due mesi, per un corso di formazione di operatore di call center, per fare esperienza. Al servizio di ditte esterne - “Il call center lavora per Sielte, Eolo e Dolomite energia - spiega Marino -. Rientrati da Bollate i detenuti e sistemata la struttura, 11 di loro sono stati selezionati e assunti. Ora è in corso la selezione di altri nove: devono frequentare e superare il corso di formazione, che dura 30 giorni. L’obiettivo è arrivare ad avere 30 operatori in totale entro fine anno”. Gli impiegati hanno in media 30 anni, con qualche eccezione più in là con l’età. Requisiti? Parlare e scrivere bene l’italiano, avere un fine pena non inferiore ai 5 anni, niente rapporti disciplinari, volontà di cambiare, competenze informatiche sono un plus. Inquadrati con il contratto delle cooperative sociali, vengono pagati a seconda di orario e mansione: con la paga versata sui loro conti personali possono saldare mensilmente la quota di mantenimento in carcere, pagare spese processuali, multe e risarcimenti, provvedere al sostentamento proprio e della famiglia. “C’è richiesta - spiega Marino -, quindi abbiamo fatto un interpello alle altre carceri d’Italia per selezionare e accogliere detenuti da inserire nel progetto”. Meno “eventi critici” - Il 20 settembre ci sarà l’inaugurazione con il sottosegretario Andrea Ostellari, ma il carcere, in questi due mesi, è già cambiato. Ogni giorno arrivano gli operatori da Bollate, imprese entrano ed escono. “Il personale sta rispondendo molto bene - spiega Marino - e tra i detenuti si sono ridotti gli eventi critici. Cuneo. Scontata la pena è rientrato in carcere per dirigere il panificio dei detenuti di Giulia Poetto La Stampa, 17 agosto 2024 La storia di Massimiliano che oggi a Cuneo è responsabile del laboratorio gestito dalla cooperativa sociale “Panatè Glievitati” specializzato in prodotti da forno. Fuori dalla casa circondariale di Cuneo non ci sta quel mare che Massimiliano Cirillo ha appena rivisto per la prima volta dopo otto anni, ma la vita che chi sta dentro il carcere vuole riprendersi. Scontata la sua pena lui, 42 anni, cresciuto in provincia di Napoli, il dentro poteva decidere di tenerlo almeno lontano dagli occhi e invece no, dentro ha voluto continuare a lavorarci con un ruolo che sulla carta è quello di responsabile del laboratorio di panificazione gestito dalla cooperativa sociale “Panaté Glievitati”, sul campo molto di più. La sua è una storia di sbagli per cui ha pagato e di opportunità colte. Quelle degli studi per il diploma alberghiero prima - cucina e sala, con il massimo dei voti, o quasi - e dell’impiego mani in pasta nel laboratorio di Panaté Glievitati. Ricorda le difficoltà dell’inizio, la tentazione di mollare, spesso allettante - quando ti abitui all’acre far nulla del carcere, i ritmi dei lievitati sono uno shock -, ma anche la determinazione a non sprecare il privilegio di una finestra sul fuori e sul dopo ancora troppo rara, eppure doverosa e vantaggiosa per tutto il sistema. Così, quando Massimiliano è tornato a essere un uomo libero ha fatto la scelta più difficile, quella di legarsi ancora al suo passato. “La mia filosofia è “patti chiari, amicizia lunga”“, amico, fratello: le sue giornate sono un perenne esercizio di equilibrismo tra le varie vesti che indossa, dentro e fuori dal carcere. Sì, perché il suo lavoro non finisce tra le mura della casa circondariale e non va dal lunedì al venerdì, ma è un costante spendersi per sostenere chi sta passando quello che lui ha già vissuto. “Cerco di aiutare i miei colleghi in ogni modo - lecito - possibile”. Dall’esaudire i desiderata di un croissant, un pacchetto di caramelle o una bottiglia di Coca-Cola all’andare a trovare i loro parenti, fino al battersi perché il numero delle uscite legate all’attività lavorativa aumenti. E se questi piccoli, grandi gesti non dovuti contano, quello che ispira di più è il suo esempio. “Se ce l’ho fatta io a ricominciare, ce la possono fare tutti”. Per farlo ha stravolto la sua esistenza, ripartendo da zero. Lo scorso dicembre ha affittato un appartamento a Madonna dell’Olmo - “i primi mesi sono stati durissimi, arrivavo a fine mese con due euro sul conto”. Adesso riesce a mettere qualcosa da parte e da giugno ha con sé parte della famiglia - la compagna e i due figli di lei -, che l’hanno raggiunto da Borgosesia (Vercelli). Il figlio più grande a settembre frequenterà l’Enaip a Cuneo per seguire le sue orme di panettiere. “Ne sono felice: è un mestiere tosto, ma anche la dimostrazione plastica che per mangiare non c’è bisogno di rubare”. Racconta con orgoglio come le pale alla romana del “suo” laboratorio arrivino dove lui non è mai stato - in Romania, a Londra, a Zurigo. “Siamo partiti in tre, adesso siamo in trenta, ma questa è un’isola felice. C’è ancora tanta strada per far comprendere come i detenuti siano una risorsa e come il tempo in carcere debba essere di miglioramento attraverso la formazione e il lavoro, non di regressione”. Lui la sua parte la fa con la sua scelta lavorativa e di vita, e c’è da scommettere che anche negli ultimi tre-giorni-tre vista mare il suo telefono è stato bollente come sempre, e lui a spegnerlo non ci ha nemmeno pensato. Cittadinanza, la legge in ritardo già 20 anni fa. Oggi sia una battaglia bipartisan di Igiaba Scego La Stampa, 17 agosto 2024 “Per i cambiamenti del futuro bisogna creare una comunità italiana Impariamo la lezione dal volley femminile: l’unione fa la forza. Saremo in grado”. Sono un po’ stanca. Così con questa frase avevo cominciato un articolo scritto quasi dieci anni fa sul tema cittadinanza. E la stanchezza non è solo mia. È di tutte le persone coinvolte, razzializzate, con o senza cittadinanza, che ogni volta hanno dovuto attraversare un dibattito inconcludente che ci ha fatto sentire ancora più esclusi. Siamo nati in Italia, siamo cresciuti in Italia e c’è una generazione, la mia, che qui sta anche invecchiando. Dieci anni fa avevo quaranta anni. Oggi ne ho cinquanta, sono in menopausa, ho i capelli sale e pepe, ma in Italia sul tema cittadinanza per i figli e le figlie della migrazione sembra non essere cambiato nulla. La legge, ma anche il dibattito sulla legge, è su un binario morto. Destra e sinistra giocano al gatto e al topo su questo tema. E allora vediamo nei talk show chi urla alla sostituzione etnica e chi dall’altra parte invece parla di legge di civiltà, ma nel tempo ha fatto molto poco per una legge che doveva già esistere. La politica italiana tutta è stata molto colpevole davanti a questa legge che non c’è. Ed è cresciuta la sensazione tra i figli di migranti di essere stati strumentalizzati, per un motivo o per un altro. E poi ciclicamente abbandonati. Quando la rete G2, rete pioniera nella lotta per la cittadinanza, poi seguita da altre sigle, nel lontano 2005 aveva cominciato a mettere sul piatto il tema, circolava molto ottimismo invece. E anche creatività. La rete da una parte si era inventata un Cd di musica rap e un fotoromanzo. Nello stesso tempo però perseguiva un dialogo con le istituzioni. Ed è così che molti militanti sono entrati nei palazzi, da Montecitorio al Quirinale, portando l’istanza di ragazzi e ragazze di Milano. Roma, Trieste, Venezia, Bergamo, Palermo, Brescia, Napoli e di quella legge che avrebbe permesso a tutti di essere veramente parte del proprio paese. Nel cortometraggio Forte e Chiaro della regista Rosa Jijon, un gruppo di ragazzi di allora, tra cui Paula Baudet Vivanco, Lucia Ghebreghiorges, Mohamed Tailmoun, si lamentavano in tempi non sospetti del Bla Bla Bla della politica sulla cittadinanza e chiedevano fatti concreti. Un video dove tra dialetto romanesco, rap, statistiche diceva all’Italia “sei già in ritardo”. Ed era il 2005. Quasi 20 anni dopo purtroppo nulla è cambiato. La legge non c’è. Il dibattito è addirittura peggiorato. Colorando il Bla, Bla, Bla di nuance razziste. E il tema purtroppo è stato usato esclusivamente per zuffe parlamentari fine a se stesse. Ma i figli e le figlie della migrazione non hanno smesso di lottare nonostante le cocenti delusioni vissute. Le manifestazioni dei diretti interessati sono continuate nel silenzio assordante anche mediatico. Iniziative quali la lettura integrale dei Promessi Sposi di Manzoni, con il sottotesto questo “matrimonio s’ha da fare” tra l’Italia e noi. O come quando si è letto il Pinocchio di Collodi, con la partecipazione di molte classi delle scuole elementari della Capitale davanti a Montecitorio. Ci sono state negli anni raccolte firme, altri cortometraggi, canzoni (da ricordare il ritornello del rap di Amir Issa S,o,s bilancio negativo se me chiamano straniero nel posto dove vivo), iniziative di piazza, tante energie. L’ascolto da parte della politica però è stato pari a zero. Tutti tacevano da destra come a sinistra. Con poche eccezioni tra cui Luigi Manconi, Marco Furfaro, Gianni Cuperlo, Renata Polverini, Emma Bonino e pochi altre e altri. Li cito perché sono state tra le poche presenze costanti nelle piazze della cittadinanza, presenze bipartisan, quando quasi tutto l’arco parlamentare è stato in silenzio. Ora che il dibattito sta riprendendo quota, domina un leggero cinismo nelle persone che negli anni hanno lavorato per far si che questa legge sulla cittadinanza, (chiamata in vari modi ius soli, ius scholae, ius culturae, a seconda di dove si è voluto porre l’accento, se sulla nascita o il percorso) venisse alla luce. Si è parlato molto del murales dedicato a Paola Egonu, la pallavolista azzurra che insieme alle sue compagne di squadra ha vinto la medaglia d’oro olimpica, poi sbiancato. Certo un atto esecrabile, raccapricciante, ma che non deve esaurire tutto il dibattito sulla cittadinanza. Questa riguarda bianchi e neri. Persone originarie dell’Est Europa come dell’Africa, passando per Asia e Americhe. La nostra società italiana è ormai plurale. Lo era quando ero bambina io. E lo è molto di più oggi. Basta entrare in una qualsiasi scuola per notarlo. Se 20 anni fa questa legge era già in ritardo, ora che parola possiamo usare per questo vuoto? Ogni tanto penso che la cittadinanza serve ora più all’Italia. Il paese infatti non può continuare a negare l’evidenza di essere cambiata. I cambiamenti vanno accompagnati. Non accompagnarli significa negare la propria natura. E significa non guardare al proprio futuro, restare indietro. Infatti per le battaglie del futuro: demografiche, tecnologiche, culturali, in un mondo che cambia alla velocità della luce, ci serviranno tutte le nostre forze. Tutti i nostri cuori. Serve creare una comunità. E serve farlo adesso più che mai. Capire questo è essenziale per L’Italia. Qui non si tratta di una battaglia di destra o di sinistra o di centro. Si tratta di imitare la nazionale di Volley femminile. Che ha applicato in modo perfetto il motto l’unione fa la forza. Serve una nuova unificazione dopo quella del 1861. Sapremo farla? Ius Scholae, Forza Italia apre al centrosinistra di Eleonora Camilli La Stampa, 17 agosto 2024 Prove di dialogo tra Forza Italia e il centrosinistra sulla cittadinanza. Si gioca tutta intorno allo ius scholae la possibilità di riformare la legge sull’acquisizione della cittadinanza italiana. E di trovare un terreno di dialogo tra le forze di opposizione e una parte della maggioranza. Forza Italia già a settembre riunirà i capigruppo delle commissioni per ragionare su un testo che metta d’accordo un po’ tutti, anche i più recalcitranti nel partito. L’ambiziosa proposta di legge dovrebbe essere in grado di far convergere più posizioni e di schivare il veto di Meloni, che pure in passato si era detta favorevole allo ius scholae ma solo alla fine dell’intero ciclo della scuola dell’obbligo. L’idea forzista è legare la possibilità di diventare cittadino a chi nasce sul suolo italiano da genitori stranieri (o vi arrivi entro la minore età) alla frequenza della scuola. Si ragiona su almeno due cicli di studi o, in generale, dieci anni di percorso scolastico. Si abbasserebbe così dai 18 anni, previsti oggi dalla legge 91 del 1992, a 16/14 anni l’età in cui è possibile fare richiesta di cittadinanza. Sarebbero poi ricompresi nello schema anche i bambini che arrivano da piccoli e che oggi hanno maggiori difficoltà a essere riconosciuti italiani, perché non nati nel nostro paese. Ma il progetto di FI, se da un lato si scontra con il blocco netto della Lega, rischia di essere considerato un compromesso al ribasso anche dal Partito democratico. Dal Nazareno fanno sapere, infatti, che a oggi non c’è ancora nessun confronto con il partito di Tajani. E che si guarda con attenzione alle aperture dei forzisti ma non senza sospetto. Il rischio infatti è che Forza Italia non regga alla pressione degli alleati e che, dopo aver sollevato il dibattito, faccia marcia indietro su un tema caro ai dem e al loro elettorato. In ballo ci sono le storie degli oltre 800mila alunni stranieri, presenti sui banchi delle nostre scuole e, nella stragrande maggioranza dei casi (oltre il 60%) nati in Italia ma sono considerati stranieri. Inoltre, nel Pd in tanti ricordano bene il percorso a ostacoli della riforma in passato. Scottano ancora le defezioni sul disegno di legge sullo ius soli, approvato alla Camera ma affossato in Senato nella scorsa legislatura. Uno schema che oggi a sinistra nessuno può rischiare di replicare. Non solo, ma come spiega bene Pierfrancesco Majorino, nonostante lo ius scholae sia contemplato in diversi disegni di legge depositati dagli esponenti dem, l’idea del partito resta “lo ius soli, cioè chi nasce in Italia è italiano”. “È decisamente la proposta migliore e più inclusiva - spiega il responsabile immigrazione del Pd-. Se Forza Italia ha cambiato idea rispetto al passato, quando cioè ha boicottato sistematicamente la riforma della cittadinanza, riteniamo che il Parlamento sia il luogo migliore per discuterne. Ma non possiamo fare giochetti sulla pelle delle seconde generazioni, dei ragazzi, delle loro famiglie”. Dunque, uno spiraglio di confronto c’è, ma “che sia serio”. “La riforma si può fare in modi diversi, ma è un tema su cui non scherziamo” ribadisce Majorino, chiedendo “la chiarezza nelle proposte e nelle intenzioni”. Tra l’altro tra i testi già depositati, quello a firma della senatrice Simona Malpezzi parla proprio di ius scholae e prevede la concessione della cittadinanza al minore straniero nato in Italia o arrivato entro 12 anni, che risieda legalmente nel nostro Paese e che abbia frequentato in maniera regolare la scuola per cinque anni. Contenuti che si ritrovano anche in altre proposte, come quella della capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera, Luana Zanella, e in quella della cinquestelle Vittoria Baldino. E che quindi potrebbero unire le opposizioni. Diverso invece il testo che fa sintesi delle proposte dell’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, del deputato Matteo Orfini e del senatore Francesco Verducci. E che contempla anche il cosiddetto “ius soli temperato”, cioè la cittadinanza alla nascita ai figli degli stranieri che siano regolarmente presenti in Italia e rispondano ad alcuni criteri (soggiorno legale senza interruzioni da non meno di cinque anni o possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo). Quest’ultima proposta, più ampia, potrebbe dunque essere accantonata solo nella certezza granitica di arrivare a una riforma, che semplifichi le procedure per i tanti ragazzi nati o cresciuti nel nostro paese, come italiani di fatto ma non di diritto. Ius scholae, lo spread tra realtà e politica di Diego Motta Avvenire, 17 agosto 2024 La minoranza silenziosa dei ragazzi stranieri nati in Italia sta assistendo probabilmente con un sano distacco al dibattito ferragostano sullo “Ius scholae”. La riforma della cittadinanza per i figli dei migranti che abbiano concluso un percorso scolastico di cinque anni nel nostro Paese è infatti vecchia quasi di un decennio e va ad aggiungersi ad altri progetti come lo “Ius soli” e lo “Ius culturae”, ampiamente presi in esame da diverse legislature a questa parte e puntualmente finiti imprigionati nelle sabbie mobili del nostro Parlamento. Eppure il tema è di fondamentale importanza, visto che stiamo parlando di un milione di persone tra giovanissimi, adolescenti e bambini che vivono nel limbo giuridico creato da una legge, quella del 1992, pensata per un altro mondo. Un mondo che non c’è più, naturalmente. Perché allora questa distanza da parte delle seconde e ormai terze generazioni di immigrati presenti nel nostro Paese? E come riavviare il filo del discorso, rilanciato ampiamente nei mesi scorsi sulle colonne di Avvenire, tentando di ricucire una tela più volte strappata? Il primo passo da compiere è riconoscere, appunto, che questo “spread” tra mondo reale e politica esiste davvero e si è purtroppo allargato: correva l’anno 2011, quando per i 150 anni dell’Unità d’Italia, si lanciarono le prime campagne di sensibilizzazione sul tema, con centinaia di migliaia di firme raccolte a favore dei “nuovi italiani”. L’associazionismo anche allora intercettava un vento favorevole proveniente soprattutto dal mondo dello sport. Così è anche oggi: dagli Europei di calcio del 2012 con Mario Balotelli alle Olimpiadi di Parigi 2024 con Paola Egonu ed Ekaterina Andropova, simboli dell’Italvolley vincente e multietnica, gli umori dell’opinione pubblica vengono spesso condizionati da vittorie e sconfitte degli atleti. Cosa ci siamo persi, nel frattempo? Tante occasioni per stare al passo con i cambiamenti in atto nel nostro Paese. Mentre crescevano le aspettative dei giovani stranieri, paradossalmente, aumentava un sentimento di discriminazione, quando non di razzismo, assecondato dalla politica. Con la differenza che oggi la paura di accogliere migranti e inserirli poi in un Paese che si senta finalmente adulto, non ha più senso. Vale la pena di ricordare a leader di partito bravi nel compulsare l’andamento dei sondaggi e del proprio personale gradimento, che secondo l’ultimo rapporto del Censis la percentuale di italiani favorevoli al riconoscimento della cittadinanza ai figli dei migranti è stabilmente sopra il 70%. Non solo: nelle nostre scuole, ormai, uno studente su dieci ha origine straniera e, in quel 10%, due su tre sono nati in Italia. Ecco la necessità di fare un secondo passaggio, anche per evitare di svegliarsi ogni quattro anni, quasi si fosse Alice nel paese delle meraviglie: i dati bisogna saperli leggere. Affermare, come fanno esponenti di governo della Lega, che non c’è bisogno di cambiare nulla perché l’Italia è già il Paese che ha concesso il maggior numero di cittadinanze a stranieri in Europa significa piegare i fatti secondo il proprio interesse elettorale, senza conoscerli, in modo strumentale e capzioso. Come ha spiegato questo giornale alcuni mesi fa, infatti, il nostro record 2022 sui riconoscimenti di “italianità” in particolare a persone provenienti da Albania, Marocco e Romania altro non è che il traguardo finale raggiunto, con iter legali lunghi addirittura 15-16 anni, da chi ha provato per primo tra la metà degli anni Novanta e il primo decennio del Duemila, a venire nel nostro Paese. È paradossalmente la conferma che la legge 91 è datata e non funziona. Ci vuole troppo tempo, infatti, per vedersi riconosciuto un diritto e la nostra burocrazia, anziché agevolare, complica e ingigantisce i problemi. Un boomerang, insomma, per chi si ostina a difendere leggi vecchie. Proprio questo ci conduce dritti al terzo punto, cioè a come aggiornare la normativa, tema messo sul tavolo da Forza Italia, che ha coraggiosamente aperto una breccia nell’attuale maggioranza. Sono diverse le proposte presentate in Parlamento, anche se, a meno di sorprese, difficilmente ci saranno novità rilevanti da qui alla fine della legislatura. Non pare essere il momento di una riforma di sistema. Più interessante sarà vedere, invece, come si potranno recepire dal basso le richieste di ascolto delle nuove generazioni di stranieri: in questo senso, il coinvolgimento dei Comuni attraverso gli uffici anagrafe nei percorsi di verifica dei requisiti di cittadinanza potrebbe essere il segnale di una piccola svolta. Uno Stato amico e non più straniero per il milione di giovani nel limbo che sognano di diventare italiani, potrebbe essere infatti l’esito migliore (per il momento) del dibattito di queste ore.