Non si può far finta di niente di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 14 agosto 2024 Una tragedia. E bisogna uscire dalla logica del “buttar via la chiave”. Perdente. Certe ricette, trite e ritrite, sono state sventolate troppe volte per esser prese sul serio. Avanti così, col ritmo attuale, i detenuti suicidi nelle carceri italiane saranno a fine 2024 novantacinque. Quasi quanti si ammazzarono nei nostri penitenziari, 100 tondi (punta massima: 16 nel ‘62) in tutti gli anni Sessanta. Basterebbe questo, se ancora qualcuno non avesse capito, a riassumere la tragedia che si sta compiendo anche in questi giorni nell’Italia che sta dietro le sbarre. Certo, c’erano allora la metà dei carcerati di oggi. L’impennata di suicidi rispetto a pochi decenni fa, però, è inaccettabile. E la risposta delle istituzioni per ora, riconoscono anche esponenti della maggioranza di governo, non è all’altezza. “Abbiamo il dispiacere di annunciare che il numero dei suicidi fu fino a 12 in due anni sopra una popolazione fluttuante di 12.542 detenuti”, dice un rapporto francese di metà ‘800 ripreso ne “In carcere: del suicidio ed altre fughe” di Laura Baccaro e Francesco Morelli che spiega come è cambiato, non sempre in meglio, il rapporto tra lo Stato e la punizione dei rei. Un suicidio, allora, ogni 6.271 reclusi: un decimo rispetto ai nostri numeri attuali. Ed erano ancora meno (uno nel 1842, due nel 1843 su 37.397 internati) a “La Force”, il famigerato inferno parigino luogo delle mattanze ai tempi del Terrore robespierriano. Non sono curiosità pescate nel passato remoto: devono farci riflettere su oggi. Dice la denuncia in Procura contro Carlo Nordio e i due sottosegretari alla Giustizia appena presentata da Rita Bernardini, Roberto Giachetti e Nessuno tocchi Caino, che a fine luglio “erano presenti nelle nostre carceri 61.134 detenuti in 47.004 posti regolarmente disponibili: cioè, 14.130 detenuti in più (e 18 mila agenti della polizia penitenziaria in meno rispetto alla pianta organica) e un tasso medio di sovraffollamento del 130,06%”. Tasso che schizza in 56 istituti oltre il 150%, in tre oltre il 190% (Foggia, Potenza, Como) e in due (Canton Mombello a Brescia e San Vittore a Milano) oltre il 209% e il 224%. Il che significa troppo spesso “uno spazio vitale individuale di tre metri quadrati” (quello di un letto a castello più qualche decina di centimetri...) “ulteriormente ridotto dalla presenza di mobilio”. Spazi che ricordano la spaventosa “Little Ease” nella torre di Londra. Indegni di un Paese che si riconosce nell’art. 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E che vede aggiungersi ai troppi suicidi dei detenuti quelli di troppi agenti di custodia, loro stessi prigionieri e vittime del disastro. Dice tutto la lettera inviata a Sergio Mattarella dai detenuti di Brescia: “Devo andare in bagno ma è occupato, altri 15 sono in fila”. “Un anziano ha una scarica di dissenteria, piange, ha 74 anni e sporca materasso e lenzuola. Piange perché si sente umiliato”. “Cimici e scarafaggi fanno anche loro la coda”. Parole alle quali il capo dello Stato ha risposto: “Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è, e deve essere, l’Italia. Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, non va trasformato in palestra criminale”. Una Cayenna terrificante per chi è colpevole, una trappola mortale per chi è innocente o è stato comunque buttato lì, in quella che il forzista Giorgio Mulè ha descritto giorni fa come una “discarica giustizialista”, in attesa di essere processato. Prima ancora di subire una condanna. Denuncia l’ultimo rapporto del Garante nazionale dei diritti dei detenuti di giovedì scorso: dei suicidi nel 2024 “risulta che 33 persone (il 53,22%) si sono suicidate nei primi 6 mesi di detenzione; di queste 7 entro i primi 15 giorni, 4 delle quali addirittura entro i primi 6 dall’ingresso”. Lo schianto, la vergogna, la fragilità, la totale mancanza di una prospettiva di vita. Come nel caso di Giuseppe Pietralito che giorni fa s’è impiccato a Rebibbia pur sapendo che gli avevano anticipato la scarcerazione. Che se ne faceva, della libertà? “Non ho un lavoro. Non ho nulla. Nessuno crederà in me”. “Anche san Pietro e san Paolo erano stati carcerati”, ha spiegato Papa Francesco ad Andrea Tornielli, “Ho un rapporto speciale con coloro che vivono in prigione, privati della loro libertà. Sono stato sempre molto attaccato a loro, proprio per questa coscienza del mio essere peccatore. Ogni volta che varco la porta di un carcere per una celebrazione o per una visita, mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io? Io dovrei essere qui, meriterei di essere qui. Le loro cadute avrebbero potuto essere le mie, non mi sento migliore di chi ho di fronte. Così mi ritrovo a ripetere e pregare: perché lui e non io?” C’è chi farà spallucce: cose da preti, il Vangelo è una bella cosa, lo Stato un’altra. Proprio uno studio sul carcere di Bollate degli studiosi Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese, però, mostra che sarebbe proprio nell’interesse dello Stato accantonare la gattabuia chiusa e feroce (celle piccole, spazi asfissianti, niente lavoro, solo noia e vuoto) che non produce “maggior sicurezza sociale” per scegliere il carcere aperto dove “per ogni anno passato la recidiva si riduce di circa 9 punti percentuali”. Un affare per tutti. Per chi è “dentro” (e per quanto abbia sbagliato non merita di affogare nel pantano condannato dalla Corte Europea perché non si tratta di “episodi isolati” ma del “malfunzionamento cronico del sistema penitenziario italiano”) e per chi è fuori. Perfino al di là del valore etico della scelta. Occorre uscire, però, dalla logica del “buttar via la chiave”. Perdente. Certe ricette, trite e ritrite, sono state sventolate troppe volte per esser prese sul serio. Sul sovraffollamento nelle carceri Nordio dà prova che il suo decreto è inutile di Claudio Cerasa Il Foglio, 14 agosto 2024 Pochi giorni dopo l’approvazione del provvedimento che avrebbe dovuto migliorare le condizioni dei detenuti il ministro dice che è pronto a presentare dei progetti al capo dello stato: “Possiamo arrivare a 15-20 mila detenuti in meno”. In un’intervista al Corriere della Sera, il ministro della Giustizia Carlo Nordio dice che con Giorgia Meloni non c’è “mai stata sintonia migliore” e che la richiesta di incontro a Mattarella “è stata concertata proprio a Palazzo Chigi”. Una rassicurazione sulla tenuta della maggioranza, dopo gli scricchiolii delle scorse settimane. Il ministro difende a spada tratta il decreto carceri recentemente giunto all’approvazione alla Camera. Nessuna scatola di sabbia, dunque. Eppure nonostante l’istituzione di un albo di comunità per favorire misure alternative alla pena detentiva e lo snellimento burocratico delle procedure per la liberazione anticipata, alla richiesta di spiegare cosa farà nel concreto per combattere il sovraffollamento il Guardasigilli dà prova che il decreto legge appena approvato non basta: “Abbiamo dei progetti che vogliamo illustrare al capo dello stato - spiega il ministro - Sarebbe irriguardoso anticiparli qui. Ma se mettiamo assieme la possibilità per i tossicodipendenti di andare in altre strutture, con quella di far tornare nel proprio paese i detenuti stranieri, sulla quale stiamo lavorando notte e giorno, assieme alla Farnesina, possiamo arrivare a 15-20 mila detenuti in meno. Ecco risolto il sovraffollamento”. Una indiretta ammissione di quanto il ddl Nordio sia attualmente incapace di intervenire in modo immediato e urgente sul tema, tanto da rendere necessari ulteriori misure di non banale realizzazione e sicuramente non immediate. Tra gli altri temi incrociati brevemente dal ministro c’è anche la carcerazione preventiva. “Sulla custodia cautelare - afferma - la necessità di una riforma sul tema è sentita da tutta la maggioranza. Tutta la materia va rivista. Ovviamente per i rapinatori, stupratori, corrotti e autori di altri gravi reati la carcerazione preventiva rimarrà. Quello che conta è definire meglio i presupposti per la sua applicazione. A cominciare dal requisito della reiterazione del reato. Il pericolo non può essere desunto dal rimanere in carica dell’amministratore pubblico accusato di corruzione”. Intanto il 27,6 per cento dei detenuti in attesa di giudizio giace dietro le sbarre, in attesa di ciò che per la metà delle volte si traduce in una assoluzione o una condanna con sospensione condizionale. “Primo passo su carceri, ma si deve fare di più”. Intervista a Cristina Rossello (Forza Italia) di Giuseppe Ariola L’Identità, 14 agosto 2024 Dopo una lunga discussione “nella notte del 7 agosto siamo rimasti in Aula in 243 e con ampia maggioranza abbiamo proceduto a un primo necessario intervento a favore del sistema carcerario”. La deputata forzista Cristina Rossello ci parla dell’approvazione del decreto Carceri che ha suscitato qualche polemica ed è stato bollato come “un’occasione mancata”. “Tenendo conto del necessario contemperamento delle esigenze finanziarie per supportare le riforme - ha aggiunto la parlamentare azzurra - si è fatto comunque un passo avanti. Ma, come abbiamo subito precisato, non basta. La strada è ancora lunga e non è questo certamente un percorso esaustivo, come ben chiarito dal segretario nazionale Antonio Tajani, che ha organizzato ad esempio un mese di incontri e presenze di FI nei singoli penitenziari. A Milano abbiamo iniziato. Con Giacinto Siciliano, direttore del carcere di San Vittore, abbiamo già parlato non solo dell’obsolescenza della struttura e del sovraffollamento, ma del cambiamento in atto nella popolazione carceraria: tema su cui si deve riflettere in tutte le grandi città, soprattutto del nord”. Sul tema c’è un confronto serrato... “La tematica di fondo emersa anche in questa occasione è che ci sono diverse filosofie nei vari partiti e Forza Italia ha una sua sensibilità, unica, conducendo da sempre battaglie garantiste e di recupero della persona. Non ha mai una visione giustizialista o punitiva o repressiva e di emarginazione dell’individuo. Del resto, è questa la linea evolutiva più autentica del pensiero democratico e liberale. E noi combattiamo contro l’approccio giustizialista e le scelte di politiche repressive da chiunque provengano. Anche in questo caso abbiamo avuto una linea molto coerente: in qualche parte ci siamo riusciti in qualche altra no”. Quali passi avanti sono stati fatti? “Sono state apportate impellenti misure in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del ministero della Giustizia. Ecco le principali: implementata dotazione organica del personale penitenziario dirigenziale e non, anche in ambito minorile; dal 1 gennaio 2025 è prevista una ‘indennità di specificità organizzativa penitenziaria’; convenzioni con il Ssn operante presso gli istituti penitenziari; procedure concorsuali per l’accesso alla dirigenza medica del Ssn ai fini del reclutamento nelle carceri; nuove disposizioni in materia di personale amministrativo e in materia di ordinamento penitenziario per una razionalizzazione di alcuni benefici, di alcune regole di trattamento applicabili ai detenuti e per agevolare l’accesso a questi benefici; definizione del reato di indebita destinazione di beni ad opera del pubblico agente secondo le normative Ue; una serie di norme per l’efficientamento del procedimento penale, in materia di procedimento esecutivo e di modifiche al codice civile; differita di un ulteriore anno l’entrata in vigore del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie al fine di permettere l’adozione degli interventi necessari per la sua effettiva operatività”. Il sovraffollamento va risolto con l’edilizia penitenziaria o limitando la detenzione carceraria come sostiene Fi? “Sono due facce della stessa medaglia. La questione si muove attraverso due coordinate: tempo e spazio che non si elidono, ma si compenetrano. Sotto il profilo temporale, all’orizzonte c’è la modifica della custodia cautelare che mira, sia a livello normativo che organizzativo, ad evitare una carcerazione ingiustificata, e soprattutto ad affermare la detenzione differenziata dei tossicodipendenti nelle comunità di recupero, tema non di poco conto per il sistema carcerario. È questa una dinamica dei flussi. Ma non basta. Noi abbiamo tenuto una riflessione equilibrata sul tema delle carceri, senza cedere alle opposte demagogie e intendiamo proseguire con una serie di ulteriori proposte in merito. Alla grave situazione di sovraffollamento, inoltre, si è risposto in prospettiva con l’istituzione del commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, con tempi d’azione precisi e rapidi. Una figura che potrà essere particolarmente interessante per i cosiddetti ‘carceri di smistamento’. I due approcci quindi, non solo non sono alternativi, ma anzi devono andare di pari passo”. Il caso di Toti ha contribuito a un’accelerazione del dibattito su questi temi? “Ha inciso più per una questione dei principi che ha toccato - e che tocca - che per la questione di merito in sé. Ci sono esercizi di potere di raro equilibrio, nei tempi e nei modi, che non devono mai essere sottovalutati. L’esercizio di un potere nelle democrazie evolute va saputo esercitare da chi lo detiene, a prescindere dal merito. In questo caso non è stato condotto con la cultura e la sensibilità giuridica che erano necessarie. Se ne vedranno gli sviluppi. Ma sarà tardi purtroppo e questo caso resterà un’amara dimostrazione di squilibrio”. Il carcere è un problema, ma ci si ostina a considerarlo una soluzione di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 14 agosto 2024 Nel sintagma programmatico originale del governo si diceva: “garantisti nel processo e giustizialisti nell’esecuzione”. Un tentativo di mettere insieme due realtà che non sono in alcun modo conciliabili, né sotto il profilo giuridico né logico, perché l’assunto garantista trova il proprio fondamento nel riconoscimento della dignità dell’uomo che è un valore che non può che prescindere dall’accertamento delle sue eventuali responsabilità penali. Garantismo e giustizialismo non possono essere “due rami dello stesso albero”. Si deve necessariamente scegliere da che parte stare. D’altronde questa tensione irrisolta è piuttosto evidente all’interno della maggioranza di governo. Anche se per ovvi motivi essa tende ad una apparente ricomposizione. Ma la questione oltre che politica è culturale e certe posizioni sono inevitabilmente destinate a cadere. Stando all’assunto giustizialista “in purezza” si sarebbe dovuto innanzitutto riformare l’art. 27 Cost. riconducendolo al solo paradigma retributivo, ed abrogare poi anche l’istituto della revisione, evidentemente contrario al “marcire in galera” del reo. Ora, invece, nessuno nega pubblicamente la finalità rieducativa della pena e certe velleità “ideologiche” sono state accantonate. La verità è che le garanzie, una volta date come coessenziali al sistema, permangono ostinatamente anche oltre i confini del giudicato ove sono presenti ampi spazi di tutela in favore del condannato. Nessuna forza politica che voglia proporsi come responsabile forza di governo può rinnegare questa verità. L’avere accertato le responsabilità penali di un imputato non annulla certo la dignità della sua persona e non cancella i suoi diritti. Al di là dagli slogan giustizialisti, all’interno di alcuni settori della maggioranza di governo queste verità autoevidenti hanno trovato inevitabilmente spazio, ma le parole d’ordine della “certezza della pena”, declinata in chiave securitaria, e le posture inflessibili della “resa dello Stato” hanno fino ad ora impedito ogni minimo provvedimento deflattivo. Anche la liberazione anticipata speciale che, nelle drammatiche condizioni date, non ha nulla di premiale - prospettandosi solo come un minimo risarcimento per l’afflittività di una pena resa doppia dai modi in cui viene espiata - ha subito un radicale rifiuto. Ma si tratta di una dimostrazione di debolezza. Insistere su questa strada non ha probabilmente alcuna convenienza per chi la percorre. Vi è una ostinazione tutta propagandistica in base alla quale la pena deve equivalere al carcere, senza avvedersi che un’ottica simile ci fa arretrare di almeno cento anni indietro in quanto oggi nessuno immagina più delle pene detentive che non siano elastiche e come tali suscettibili di modulazioni differenti, dalla probation alla liberazione anticipata riconosciuta in base alla buona condotta. Quell’ennesimo suicidio dell’agente di custodia consumato sulle mura di cinta del carcere palermitano dell’Ucciardone, le rivolte disperate, che stanno esplodendo senza scopo e senza senso nelle carceri italiane, sono tutti eventi che danno un senso ancor più drammatico, se possibile, ai sessantatré suicidi di detenuti. Eventi che hanno tutti probabilmente motivazioni assai diverse che andrebbero studiate e analizzate, ma che certamente illuminano la realtà del carcere come fosse un luogo surreale, un pozzo oscuro e profondo di incomprensioni, di luoghi comuni e di coazioni a ripetere. La verità è che il carcere è un problema, mentre ci si ostina a considerarlo come una soluzione. Occorrerebbe istituire un nuovo Ministero. Un ministero per la Riforma del carcere che funzionasse come permanente luogo di studio di quel problema. Si continua invece a pensare al carcere come una risorsa in sé sulla quale investire. Un bene da incrementare. Si modificano le misure alternative già esistenti, si provvede a catalogare strutture per tossicodipendenti non esistenti. Non si rimuovono i motivi delle rivolte, ma si organizzano nuovi reparti speciali per sedare le rivolte, a riprova della opportunità di introdurre il reato di rivolta. Infine l’idea resta quella di costruire nuove carceri. Carceri come quelle già esistenti. Carceri nuove come quelle di più recente costruzione, nelle quali comunque ci si suicida. Carceri come quelle vecchie ma che saranno chiamate comunque nuove. Carceri intese ancora una volta come contenitori. Commissari per costruire carceri come contenitori di uomini. Non si sa bene perché costruirle, né come saranno costruite, mentre dovrebbe cambiare il perché costruirne e conseguentemente dovrebbe cambiare il come. Spesso gli slogan e le parole d’ordine sono efficaci veicoli di consenso, ma divengono ostacoli sulla via della ragionevolezza. Si trasformano in gabbie che impediscono di agire adeguandosi alla necessità, alle condizioni mutate, all’imprevedibile svilupparsi degli eventi. Poiché si tratta di slogan se ne dovrebbe riconoscere la capacità evolutiva. Ma la strada da percorrere mi pare ancora lunga e per certi versi misteriosa, perché non sappiamo quali nuove proposte possano ancora prendere corpo. Gli slogan sono pericolosi perché sono gabbie, ma sono al tempo stesso anche strutture fragili destinate ad imprevedibili “dissolvenze incrociate”: “certezza della pena” può anche significare “certezza che le pene abbiano raggiunto il loro scopo rieducativo” comunque esse siano immaginate. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Drogati in comunità e stranieri rimpatriati. Così 15-20mila carcerati in meno in cella di Pier Francesco Borgia Il Giornale, 14 agosto 2024 Il piano cui sta lavorando il governo contro il sovraffollamento. La riforma della custodia cautelare. Delmastro: “Uso smodato”. Un primo passo per superare l’emergenza carceri. Il ministro Carlo Nordio ha una carta nella manica: liberare i penitenziari di 15/20mila persone. È tutto scritto nel decreto carceri, come ribadisce nel corso di un’intervista il Guardasigilli. “A cominciare dalla possibilità di esecuzione della pena in ambienti diversi dal carcere - spiega Nordio -, come le comunità per tossicodipendenti. Poi sta ai magistrati decidere se mandarveli o meno”. “Se mettiamo assieme la possibilità per i tossicodipendenti di andare in altre strutture - aggiunge il ministro -, con quella di far tornare nel proprio Paese i detenuti stranieri, sulla quale stiamo lavorando notte e giorno, assieme alla Farnesina, possiamo arrivare a 15-20 mila detenuti in meno. Ecco risolto il sovraffollamento”, dice il Guardasigilli. Sulla custodia cautelare “la necessità di una riforma sul tema è sentita da tutta la maggioranza”, sottolinea. “No, ovviamente, per i rapinatori, stupratori corrotti e autori di altri gravi reati la carcerazione preventiva rimarrà. Quello che conta è definire meglio i presupposti per la sua applicazione. A cominciare dal requisito della reiterazione del reato. Il pericolo non può essere desunto dal rimanere in carica dell’amministratore pubblico accusato di corruzione”. Un punto nodale de problema carceri resta la questione della custodia cautelare. Che proprio della riforma della giustizia rappresenta una colonna portante. Lo stesso ministro riconosce che un nuovo modo di intendere questo istituto può modificare concretamente la densità della popolazione carceraria. D’altronde della custodia cautelare in carcere, secondo il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, “ne è stato fatto un uso smodato in questi anni: su 60mila detenuti, ne abbiamo 15mila in custodia cautelare, cioè persone presunte non colpevoli. C’è bisogno di bilanciare due interessi: quello del principio di non colpevolezza e quello di arrestare il crimine prima che possa nuovamente delinquere. Bilanceremo questi due criteri senza privare la magistratura di uno strumento importante di contrasto alla criminalità”. Il fronte giustizia, insomma, domina il dibattito di questi giorni. Ma a tornare prepotentemente in auge in queste ore è anche il nodo della legge Severino, che Forza Italia vorrebbe modificare cancellando la norma relativa alla sospensione dei sindaci condannati in primo grado, ritenuta dagli azzurri “l’anticipazione di una condanna” e quindi la “negazione” del principio di presunzione di innocenza. Serve, secondo l’azzurro Alessandro Cattaneo, “aumentare l’elemento di garanzia per i cittadini”. Una cauta apertura arriva dallo stesso Delmastro, nonostante il suo partito (FdI) abbia mostrato una sensibilità (come dimostra l’astensione in Aula alla Camera a luglio su un ordine del giorno presentato dal Pd e votato da Lega e Forza Italia): “Che ci sia un tema di bilanciamento fra amministratori locali e deputati, è evidente. Ed è vero che un intervento a gamba tesa della legge, senza neanche la seconda sentenza di merito, costituisce un problema”. Per il sottosegretario “si può lavorare per rendere più coerente la legge Severino con il dettato costituzionale e con il principio di non colpevolezza”. No a un’abolizione tout court della legge, dunque. Programmi di sostegno post-carcere per spezzare il ciclo di emarginazione e criminalità di Enrico Varrecchione linkiesta.it, 14 agosto 2024 Un sistema penitenziario efficace non si limita a punire i detenuti, ma deve anche offrire loro strumenti concreti per il reinserimento nella società una volta scontata la pena. Senza questo tipo di sostegno, le persone rischiano di trovarsi in condizioni peggiori rispetto a quando sono entrate in prigione. Il grande giorno, bramato da tutti, prima o poi arriva. Dopo l’analisi dei fenomeni delinquenziali e del periodo da affrontare in carcere, il percorso dedicato al sistema penitenziario norvegese arriva all’ultimo step, quello della libertà e di cosa comporta per chi la ottiene. “Ti devi preparare mentalmente, se non hai un tetto sopra la testa non puoi pensare di andare in un dormitorio e startene lì tranquillo”, racconta una delle voci di Røverradio. “Qui dentro ti abitui a uno spazio limitato, una volta fuori devi affrontare un mondo infinito, con un sacco di possibilità, a volte rimani sconvolto dalle innovazioni tecnologiche. Quando sei dentro, anche se puo’ essere sconveniente, ti abitui ad una sorta di routine, sai cosa ci si aspetta da te e non devi pensare a cosa dovrai fare le settimane successive”. Quando il nostro ipotetico detenuto viene rilasciato dal carcere, alla sua uscita potrebbe incontrare Johan Lothe. Johan ha i capelli bianchi, ogni tanto lo si vede in giro con il suo cane, ma soprattutto è l’anima dietro Wayback, un’organizzazione no-profit costituita da ex detenuti e dedicata al percorso di reinserimento nella società. Attorno all’ora di pranzo, la sede di Wayback, in centro ad Oslo, inizia ad animarsi: chi frequenta il centro, oltre alle numerose attività normalmente offerte, può condividere la tavola assieme agli altri. Qui c’è anche “Maria”, la detenuta incontrata nelle due puntate precedenti. “Wayback è nata nel 2002, osservando come spesso molti, specie con condanne legate agli stupefacenti, entravano ed uscivano dal carcere” racconta Johan, che ne è il coordinatore. “Per molti, quello è il momento più difficile, dato che i casi di morte per overdose avvengono spesso nelle prime quarantotto ore dal rilascio. Allora alcuni hanno chiesto aiuto al direttore del carcere di Oslo che si è attivato coinvolgendo anche le associazioni vicine alla chiesa. Nello statuto è indicato che la maggioranza del direttivo deve avere essere stata detenuta, così come la totalità degli impiegati”. Alessio Scandurra, che ha seguito il percorso individuando le peculiarità italiane, dipinge un quadro molto più tetro per quanto riguarda la penisola: “A fine pena per i detenuti in italia non c’è proprio nulla. Le persone vengono accompagnate all’uscita, con tutte le loro cose dentro un sacco di plastica nera, e se non li hanno già, senza nemmeno i soldi necessari per tornare a casa”. Cosa comporta questo, per il futuro immediato degli ex detenuti? “Il paradosso è che molti escono dal carcere in condizioni ancora più critiche di quando ci sono entrati. Durante la detenzione infatti spesso si sfaldano i legami familiari e i rapporti sociali che avrebbero potuto rappresentare un sostegno al momento del fine pena, mentre i problemi di tossicodipendenza o le patologie fisiche o psichiche pregresse spesso non vengono curate, ma semmai aggravate dalle difficili condizioni di detenzione”. Seduto al tavolo negli uffici dell’associazione, Johan snocciola i dati che caratterizzano chi esce dal carcere, indicando quali sono spesso le principali sfide quotidiane che i suoi assistiti devono affrontare: tre su quattro hanno problemi di dipendenza da alcol o droghe, l’ottanta per cento ha debiti troppo alti da essere ripagati, solo il quaranta per cento ha un posto dove andare a dormire la sera, il ventotto per cento di loro non ha un documento di identificazione. “Quando una persona sta per uscire, normalmente ci incontriamo quando è ancora in carcere e analizziamo la situazione. Chiediamo se ci sono problemi di soldi, lavoro, casa, reti sociali, salute o dipendenze. La maggior parte delle persone risponde sì a tutto, e in quel caso non si va da nessuna parte senza dare le giuste priorità”, racconta Johan indicando il loro metodo di lavoro. Per “Maria” il ruolo giocato dall’associazionismo è fondamentale per uscire dal circolo vizioso della criminalità. “Ci sono tante organizzazioni di questo tipo, ad esempio anche la Croce Rossa, oppure Alarm che si occupa di persone con dipendenze, o Breakout. Per molti detenuti, queste associazioni sono importantissime, ma è stata solo per una coincidenza che io abbia sentito parlare di Wayback, questo non va bene”. In che modo influisce positivamente? “Diciamo che il tuo nucleo sociale precedente al carcere era di persone coinvolte in attività illegali e tu vuoi smettere: in che modo puoi farlo? Questa è la funzione che hanno queste associazioni. Non è garantito che tutti ci riescano, ma è una piattaforma costruttiva per creare una rete di conoscenze migliore, avere sostegno e soprattutto sentirsi parte di qualcosa”. Proprio la necessità di costituire gruppi socialmente sostenibili e lontani dalla criminalità, è il principale scopo dell’organizzazione. “A un certo punto ci si è accorti che l’organizzazione era a rischio, avendo tante persone, inclusi dipendenti, con precedenti penali, poteva portare alla recidiva. Quindi abbiamo deciso che per poter lavorare con noi bisogna che siano trascorsi almeno due anni dall’ultima detenzione” dice Johan, che poi specifica in che modo si concretizza lo stigma che affronta chi si rivolge a lui e alla sua associazione. “Una volta usciti dal carcere non è che uno abbia troppe possibilità di stringere amicizie come a scuola o al lavoro. Spesso si ha bisogno di un orientamento alla realtà, anche perché per molti la criminalità prima e il carcere poi erano luoghi dove si aveva uno status, un ruolo, mentre fuori si ha la sensazione di essere gli ultimi. Ma chi dice questo? Ce lo diciamo noi stessi, anche perché nessuno va in giro con scritto in fronte che è un ex detenuto”. Johan stesso ha dovuto affrontare diverse condanne per spaccio di stupefacenti ed è uscito dalla spirale della criminalità dopo essersi disintossicato. Per arrivare allo step successivo, bisogna prendere il treno per raggiungere Drammen, a circa un’ora di treno dalla capitale. Qui è attivo il centro regionale di inclusione nel mondo del lavoro, con un focus per ex detenuti, nell’ambito dei programmi offerti dal Nav, l’equivalente norvegese dell’Inps. Anita Fossli Capellen è consulente nell’ambito del programma, si occupa di coordinare le attività tra Nav e Agenzia Correzionale (Kriminalomsorg) e chiarisce in che modo funziona il loro approccio: “Quando seguiamo chi è stato in carcere, non ci occupiamo di cosa abbiano fatto per finirci, ma ci concentriamo sul presente e sul futuro e capire di cosa hanno bisogno. Li aiutiamo a comprendere i servizi a cui hanno diritto, eventuali sostegni economici, o se hanno bisogno di aiuto a cercare lavoro, oppure di prendersi cura della loro salute, o se non hanno un posto immediato in cui vivere”. La situazione dei detenuti varia molto a seconda dei casi, ma la costante è quella di persone senza un adeguato livello di istruzione e senza molta esperienza lavorativa. Il compito dei funzionari del Nav è quello di analizzare questi aspetti ancora prima del rilascio. “Nei casi più complessi”, spiega Fossli Capellen, “bisogna gestire persone che non hanno un’abitazione o una famiglia, quindi spesso li assistiamo per trovare una sistemazione di emergenza, ma di solito sono situazioni note mesi prima del rilascio. Sono le stesse misure che mettiamo a disposizione al resto della popolazione che non è stata in carcere”. A questo punto, viene da chiedere provocatoriamente se questo non possa essere un incentivo a commettere crimini per poi essere in qualche modo assistiti dallo stato in caso di condanna. “Il nostro welfare è costruito in questa maniera e credo che tutti i nostri assistiti debbano avere parità di trattamento, non possiamo fare distinzioni. Quello che a noi interessa è limitare la recidiva e accompagnare la persona che è uscita dal carcere, al fine di reintrodurla nella società, e per farlo è importante collaborare con diversi attori”. La stessa domanda è stata posta alla criminologa Lundgren Sørli: “Quando qualcuno sceglie di trasportare droga o vendere armi, è la gratificazione immediata ad essere decisiva in questa situazione, ovvero il momento in cui si ricevono soldi, e non c’è una punizione tanto grande da essere considerata un rischio futuro, semplicemente non viene messo in conto. Ad esempio, sappiamo che nei paesi dove viene praticata la pena di morte per certi reati, questi avvengono comunque, per cui anche se la sanzione è particolarmente dura, non fa differenza”. Nel secondo articolo di questa serie, Paul Larsson aveva identificato un trend storico in calo delle attività criminali: in effetti, c’è una diminuzione del 25% dall’inizio di questo secolo, ma le denunce sono tornate a salire nel periodo postpandemico. A preoccupare maggiormente sono i ventiduemila casi chiusi in anticipo per mancanza di risorse, un record storico: vent’anni fa, con molta criminalità in più, erano solo 4.000. Se è vero che la criminalità sta tornando ad aumentare e le risorse per le forze dell’ordine sono inferiori rispetto al passato, come si può limitare questa spirale? “Questa è una domanda più politica, e si può ragionare più come cittadini anziché professionisti”, risponde Lundgren Sørli. “Sappiamo che chi è marginalizzato ha maggiori difficoltà rispetto a chi si sente parte di qualcosa di più grande, di avere le stesse possibilità. Se si impedisce la nascita di ghetti e se c’è la volontà politica per limitarli, allora la soluzione è avere luoghi dotati di buone scuole o asili e dove coesistano più background, persone che svolgano professioni diverse”. Questo approccio, secondo Johan Lothe, si può applicare anche al carcere: “Siamo parte di un movimento europeo chiamato Rescale, che promuove la presenza di carceri piccole, con circa trenta o quaranta detenuti, integrato nella comunità locale e dove ci si possa sentire importanti come persone e offrire qualcosa al vicinato, come ad esempio riparare una bici o preparare un caffè. Tutto questo immaginando un carcere che sia in grado di essere attraente per il quartiere e non il contrario”. L’ultimo dilemma etico riguarda i crimini più atroci, quelli per i quali, anche una volta espiata la pena in carcere, permane la sanzione sociale per essersi macchiati di qualcosa che non può essere derubricato a una decisione errata o anche a un gesto istintivo. In Norvegia vi sono almeno tre condannati per atti terroristici noti in tutto il mondo: i neonazisti Anders Behring Breivik e Philip Manshaus e l’islamista Zaniah Matapour. I primi due sono stati condannati a ventun anni di carcere, il terzo a trenta poiché, nel frattempo, il massimo della pena era stato aumentato, ma la loro detenzione potrà essere periodicamente prolungata qualora venissero giudicati ancora pericolosi. “Io non credo al concetto “occhio per occhio”“, dichiara “Maria”. “Per quanto riguarda il terrorista di Utøya, sono consapevole che probabilmente non uscirà mai perché non ha mai mostrato ravvedimento, ma in linea di principio la riabilitazione dovrebbe valere per tutti. È il motivo per cui non viviamo nel far-west, un sistema che è stato dimostrato non funzionare. Proprio per questo è importante seguire questi principi anche nei casi più estremi, altrimenti sarà in discussione lo stesso stato di diritto”. “I reati gravi sono già sanzionati fino a trent’anni e, potenzialmente, a vita qualora i detenuti siano ancora socialmente pericolosi” conclude Lundgren Sørli. “Il focus deve essere orientato alla riduzione della marginalizzazione, che conduce alla radicalizzazione, tenendo a mente che nella nostra società la stragrande maggioranza delle persone non è in grado di uccidere, si tratta di un processo per il quale ci si può al massimo addestrare in situazioni militari o di guerra, ma che non coinvolge la maggior parte degli individui”. Alla fine di questo percorso, rimane da chiedersi cosa fa veramente la differenza nel sistema norvegese, e cioè cosa garantisce un livello relativamente basso di recidiva a fronte di istituti piuttosto benevoli, specie se comparati con il resto del pianeta. Non si tratta di un sistema perfetto, caratterizzato anche dalle difficoltà nel combinare la necessità di riabilitare i detenuti e l’obbligo di fornire un’adeguata protezione alle vittime, specie in ambito di relazioni familiari o di prossimità, come indicato da questo rapporto stilato dalla Fondazione Stine Sofie esattamente due anni fa. Ciò che emerge, è che senza un adeguato welfare sarebbe complesso mantenere istituti correzionali funzionali e non sovrappopolati. E che per avere istituti correzionali in grado di avere efficacia sul processo di riabilitazione, diventa necessario garantire ai detenuti una permanenza in carcere in grado di offrire sbocchi futuri, e infine, che una volta usciti, esistano strumenti per mantenere gli ex detenuti lontani dal crimine e dai fenomeni ad esso legati. La salute in carcere è un diritto di Marco Perduca Il Manifesto, 14 agosto 2024 Nessuno dei provvedimenti sulle carceri adottati a seguito della sentenza “Torreggiani” del 2013 ha sanato i “trattamenti disumani e degradanti” denunciati dalla Corte europea dei diritti umani. La decisione della Cedu era relativa al 2009, quando in Italia erano ristrette quasi 70mila persone a fronte di una capienza regolamentare nazionale di circa 55mila letti. Quella situazione illegale era principalmente dovuta al combinato disposto della legge ex-Cirielli sulla recidiva del 2005 e della Fini-Giovanardi sulle droghe del 2006. Né i decreti “svuota-carceri”, né la cancellazione di buona parte delle nuove proibizioni sugli stupefacenti avvenuta nel 2014 grazie alla Corte costituzionale hanno fatto sì che le carceri italiane rientrassero nella legalità. Anzi, negli anni, oltre ad aggravanti tipo l’omicidio stradale, si sono create nuove fattispecie di reato, norme anti-rave, deturpazione di patrimonio artistico ecc., e indurite pene anche per condotte senza vittima in onore a un’agenda politica basata sulla costruzione e proiezione di pericolosità percepite. I dati del Ministero della Giustizia dicono che al 31 luglio 2024 c’erano 61.133 persone ristrette in strutture che ne possono contenere sì e no 45mila, con un’occupazione del 131%. A fronte di tutto ciò, l’ultimo decreto carceri ha creato l’ennesimo commissario all’edilizia carceraria, previsto l’assunzione di un paio di vertici apicali del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, di mille agenti per i prossimi due anni e, forse, la scarcerazione anticipata per un centinaio di persone anziane. Non solo troppo poco e troppo tardi, ma anche non in linea con l’articolo 27 della Costituzione che prevede che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La mancanza di misure per garantire strutturalmente il diritto alla salute nelle carceri ha portato l’Associazione Luca Coscioni a diffidare 102 Asl affinché adempiano al proprio compito di provvedere a sopralluoghi presso le strutture penitenziarie di loro competenza al fine di “apprezzare obiettivamente le circostanze relative alle effettive condizioni di igiene e delle esigenze di profilassi, impegnandosi altresì ad informare, come è nelle proprie facoltà istituzionali, i competenti ministeri della Salute e della Giustizia, nonché a fornire tutti i servizi socio-sanitari ai detenuti e di attivarsi immediatamente qualora tali servizi non rispettino gli standard imposti dal legislatore e oggetto di plurime contestazioni da parte degli organi giurisdizionali” nazionali e internazionali. È onere della Azienda sanitaria competente accertare, anche con visite ispettive agli istituti di pena, che le condizioni di igiene siano rispettate e, in caso contrario, intervenire per interrompere eventuali gravi mancanze. Se si mettono i sigilli ad un esercizio commerciale non a norma, perché non a un carcere? Nell’anno in cui i suicidi in carcere hanno già raggiunto la tragica cifra di 67, a cui vanno aggiunti i sette agenti penitenziari che si sono tolti la vita, e in cui non passa giorno che non si leggano le denunce pubbliche dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà o notizie di stampa e resoconti di visite ispettive che fanno emergere una situazione di patente violazione strutturale del diritto alla salute delle persone ristrette in Italia, le istituzioni competenti non se ne interessano. Dolersene non basta. Nel caso in cui le diffide dovessero cadere nel vuoto, le autorità competenti regionali e cittadine verranno interessate con altri strumenti perché la salute in carcere è un diritto e non adoperarsi neanche per verificare se e come sia fatto rispettare potrebbe configurarsi come una “omissione di atti di ufficio”. La maggior parte di detenuti che si suicida è in attesa di giudizio di Valter Vecellio Italia Oggi, 14 agosto 2024 L’Anm, di solito così loquace, ora resta muta. Uno stillicidio: a cadenza quasi quotidiana nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita. Dall’inizio dell’anno 65 quelli “ufficiali”. Più sette di agenti della polizia penitenziaria. Numeri. Nessuno che “racconti” chi erano queste persone. Le storie di sofferenza e disperazione - C’è di tutto: c’è chi si è tolto la vita subito dopo l’ingresso in prigione, chi poco prima di lasciarla. Chi era vittima delle dipendenze e chi di sofferenze psichiatriche. Si sono quasi tutti impiccati: col laccio dei pantaloni, chi con le lenzuola, con una corda. C’è chi si soffoca con un sacchetto di plastica, qualche altro riempiendosi i polmoni di gas o altre sostanze. A volte non sono morti subito, gli agenti della penitenziaria hanno provato invano a rianimarli. Età media 37 anni, più stranieri che italiani. Reati che vanno dall’omicidio al piccolo spaccio, tanti con dipendenza dalla droga. Non di tutti sono noti nomi e cognomi. Poche righe per Matteo, 23 anni. Soffriva di disturbo bipolare. Era rientrato nel carcere perché, svolgendo la pena alternativa lavorando in una pizzeria, aveva sforato sull’orario di rientro a casa. Aveva detto alla madre: “Se mi riportano in isolamento, mi ammazzo”. Poche righe per Stefano, 26 anni: soffriva di depressione. Alam, 40 anni, del Bangladesh, si impicca con un pezzo di lenzuolo pochi giorni dopo il suo ingresso. Fabrizio, 59 anni, si impicca nel padiglione di alta sicurezza del carcere di Agrigento. Andrea, 33 anni, detenuto a Poggioreale, soffriva di disturbi psichiatrici… È un elenco interminabile di sofferenza e disperazione. Quello che colpisce, dovrebbe colpire, è che la maggior parte delle persone che si tolgono la vita sono cittadini in attesa di giudizio, quindi innocenti. L’uso abnorme della carcerazione preventiva - Per questa situazione che si trascina da decenni, c’è chi punta l’indice contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il suo governo. Indubbiamente hanno le loro responsabilità. Non dimentichiamo però che, accanto a indifferenze e carenze croniche e strutturali, c’è anche il perdurante uso abnorme della carcerazione preventiva: troppo spesso ci si dimentica che dovrebbe essere una misura straordinaria, da applicare solo in presenza di determinate condizioni: il rischio di reiterazione del reato o il pericolo di fuga, l’inquinamento delle prove. Ormai quella della carcerazione preventiva è diventata una prassi ordinaria. Quanti, di quei 65 detenuti che si sono suicidati, e quanti delle centinaia di tentati suicidi sventati dall’intervento della polizia penitenziaria, quanti erano in carcere in attesa di giudizio, per quali reati; e potevano beneficiare di un’alternativa alla carcerazione? Se sì, perché non ne hanno beneficiato? A queste domande dovrebbe cercare di dare risposta il Consiglio Superiore della Magistratura e la sempre loquace Associazione Nazionale dei Magistrati, che in questa occasione osserva, al contrario, un eloquente silenzio. Carceri, i bambini resteranno in cella con la mamma detenuta di Carlo Ciavoni La Repubblica, 14 agosto 2024 La maggioranza rende facoltativo il rinvio della pena per donne incinte o madri con figli di 1 anno. L’appello dell’UNICEF Italia alle forze politiche e la protesta di organismi solidali e associazioni della società civile. Il 7 agosto scorso alla Camera dei Deputati si è discusso sul tema delle madri detenute con i bambini in carcere. Ma l’Aula non è riuscita ad esprimere una posizione comune a favore dei diritti di bambine e bambini vittime innocenti. Con l’approvazione del Decreto “Carceri” - il dispositivo è stato approvato con 153 voti favorevoli e 89 contrari - la maggioranza ha modificato in senso decisamente restrittivo e punitivo le norme del codice penale che prevedevano l’obbligo di rinvio della pena per le donne in gravidanza o con figli di età inferiore ad 1 anno, rendendo facoltativa la tutela finora vigente, che ora viene affidata alla discrezionalità del giudice. Ad oggi, tra Istituti a Custodia Attenuata per Detenute Madri (ICAM) e sezioni nido di carceri ordinarie, 19 donne vivono in carcere con i loro 22 bambini. Il nodo dell’articolo 12. In sostanza è successo che le Commissioni congiunte Affari Costituzionali e Giustizia di Montecitorio hanno bocciato tutti gli emendamenti al DDL proposti dall’opposizione, soprattutto quelli relativi all’articolo 12 sulle madri detenute, che resta invariato. C’è stata una discussione accesissima in Aula anche per l’assenza, durante la votazione, della premier Giorgia Meloni e del ministro della Giustizia Nordio. I cambiamenti per le madri detenute. Il nuovo decreto carceri è stato aspramente criticato da realtà solidali e associazioni che si occupano di diritto carcerario. La questione centrale più controversa è - appunto - quella che riguarda le madri detenute, persone fragili con storie personali assai complicate e spesso dolorose, che hanno quindi bisogno di particolari condizioni detentive, quando non è possibile uno sconto di pena alternativo. Ma l’articolo 12 del DL rende quindi ufficialmente facoltativo l’attuale obbligo di rinvio della pena per le donne in gravidanza e le madri con figli al di sotto di un anno. E poi si offende se gli dicono che è razzista. È stato, peraltro, giudicato letteralmente “vergognoso” un messaggio su uno delle piattaforme social sulle quali si esprime il vice presidente del Consiglio, Matteo Salvini - che si offende se gli dicono che è un razzista - sostenuto anche dalla parlamentare della Lega, Simonetta Matone. Tutti e due hanno pubblicato considerazioni generalizzanti e venate di razzismo - appunto - lanciando invettive indirette contro la popolazione Rom e le borseggiatrici di Milano. Ci vogliono le Case-Famiglia protette. Nei giorni scorsi l’UNICEF Italia aveva sottolineato la necessità di trovare un accordo tra maggioranza e opposizione per individuare una soluzione adeguata a rendere concreta la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, senza alcuna discriminazione di sorta, sostenendo la necessità di finanziare le Case famiglia protette -ICAM: Istituto a Custodia Attenuata per Detenute Madri - ed evitare che i bambini siano costretti a vivere in carcere con le madri. Ma il nostro appello è rimasto inascoltato. Civiltà giuridica e diritti fondamentali. Il diritto vigente dovrebbe essere capace di cogliere e accogliere le istanze sia della cultura giuridica che dei diritti umani fondamentali. “I diritti dei bambini e delle bambine - si legge in un documento dell’UNICEF - dovrebbero essere al di sopra di ogni generalizzazione o strumentalizzazione e ognuno dovrebbe riconoscerne e sostenerne l’inviolabilità”. Carceri, quei bambini innocenti assoluti di Luigi Manconi La Repubblica, 14 agosto 2024 I piccoli che consumano la primissima infanzia in cella sono vittime della più oltraggiosa iniquità. E rappresentano il precipitato di tutte le contraddizioni e degradazioni del sistema giudiziario. C’è una branda di ferro pesante, che sostiene una rete metallica, e sopra, un materasso di gomma piuma alto due dita. Quella struttura ferrigna presenta quattro singolari deformazioni: gli angoli retti della branda sono stati attutiti e attenuati, proteggendone le punte con indumenti di lana: allo scopo di impedire che quegli angoli acuminati feriscano i corpi vulnerabili dei bambini che giocano lì accanto. Perché, in effetti, qui intorno si muovono alcuni minori. Sono gli “innocenti assoluti”, dai zero ai tre anni, reclusi nella sezione nido del carcere di Rebibbia, a Roma, insieme alle proprie madri. Ho assistito a quella scena anni fa, ma nel frattempo, seppure qualcosa è cambiato (e quei letti crudeli sono stati sostituiti), la situazione resta la stessa: oggi, all’interno del sistema penitenziario italiano, vivono 24 bambini. In carcere pressoché tutti si dichiarano incolpevoli, e una parte significativa lo è davvero, ma una simile dichiarazione dipende spesso da un’idea tutta soggettiva, e opinabile, di cosa sia il male e di cosa sia il bene. Nel caso, invece, di chi consuma la sua primissima infanzia in un universo concentrazionario il giudizio non può che essere assoluto: si tratta delle vittime della più oltraggiosa iniquità. Che rappresentano, sotto il profilo dell’amministrazione della giustizia, il precipitato di tutte le mille contraddizioni e degradazioni del sistema giudiziario. E, infatti, un’organizzazione statuale e chi la dirige sul piano politico-amministrativo, che si sono rivelati incapaci di assicurare un destino diverso e meno infausto a 24 creature, come possono riformare in profondità quell’apparato che chiamiamo Giustizia? Per questa ragione si insiste su quello che a qualcuno può apparire un dettaglio, pure se il più efferato e ingiurioso dei dettagli: quei 24 “innocenti assoluti”. Perché proprio in questo si palesa la tragica impotenza del sistema della giustizia a riformarsi. E si rivelano tutte le incongruenze e i punti di frattura che annunciano un irreparabile collasso. Finché si reitera, riproducendola all’infinito, la presenza di alcune decine di piccoli criminali in aspettativa (perché questo spesso è il loro destino), come si può credere nelle promesse di cambiamento delle regole della custodia cautelare, di accelerazione dei processi, di un maggiore equilibrio tra accusa e difesa e di tutela dei diritti delle persone private della libertà? Si dirà: ma cosa hanno fatto di diverso i precedenti governi, compresi quelli di centrosinistra? La risposta è desolatamente nota: poco o nulla. Ma oggi siamo di fronte a una rottura ulteriore e a un salto nel peggio. Finora, tranne in casi eccezionali, la soglia di età per l’ingresso in carcere dei bambini era quella dei 12 mesi. Oggi, a causa delle norme del disegno di legge Sicurezza, all’esame delle Camere, il ricorso alla cella è previsto dallo stato di gravidanza della madre a tutto il primo anno di età del figlio, e oltre. Ovvero il differimento automatico della pena diventerà discrezionale. Ancora una volta, può apparire un particolare poco rilevante. Ma non lo è affatto. Per due ragioni. La prima: crescerà inevitabilmente il numero degli “innocenti assoluti” costretti alla esperienza carceraria sin dai primi giorni di vita. Seconda ragione: si tratta di un provvedimento di natura schiettamente ideologica, che ha effetti potenti sulla formazione di senso comune e di pregiudizi; e che ha conosciuto una preparazione minuziosa fino all’ossessività nella produzione mediatica di stereotipi intorno a uno stigma odioso: la donna rom, autrice di molti furti e di altrettanti parti. Non si tratta di una mera invenzione, ma l’essenza del giustizialismo consiste esattamente in questo: nel fare di un reato un regime penale, nell’organizzare intorno a una fattispecie un sistema di norme, nel varare una legge-fotografia (ritagliata, cioè, sull’identità di un singolo o di un gruppo). È l’espressione perfetta di quello che, proprio sessant’anni fa, a proposito della politica americana, Richard Hofstadter definiva lo “stile paranoide” (il saggio è stato tradotto da Adelphi). Si trasforma, cioè, un fatto oggettivamente pericoloso ma circoscritto, come il borseggio, in un diffuso allarme sociale, vi si costruisce sopra panico morale e “galvanizzazione delle masse” e, oplà, si apparecchia una legge ad hoc con aggravanti speciose (per i delitti commessi “su ferrovie e mezzi di trasporto”) e iperbolico inasprimento delle pene. Intanto 24 bambini (ma è possibile che il numero cresca rapidamente) continuano a restare prigionieri, con tutti gli effetti clinici che la letteratura scientifica ha già evidenziato. La deprivazione sensoriale determinerà inevitabilmente l’alterazione dei sensi della vista, dell’udito e dell’olfatto, e possibili disagi cognitivi. E ciò in nome della “sicurezza dei cittadini”. Fatico a immaginare una impostura più infame di questa. L’infanzia negata ai (troppi) bambini in carcere, un “fine pena mai” che ruba il loro prezioso futuro di Francesco Rosati Il Riformista, 14 agosto 2024 Sono tanti i piccoli costretti a vivere in cella con le madri: non hanno stimoli e si sentono inferiori A loro sono negate anche le ore d’aria dell’asilo, mentre i coetanei partono per la gita di Ferragosto. Storie di un’infanzia negata, di chi scorge uno spiraglio di luce solo attraverso le sbarre. È l’infanzia negata dei bambini che vivono in carcere con le loro madri recluse. Nessun luogo di stupore; tutto è scandito dalla dittatura di orari prestabiliti. Poche vie di fuga, attimi eterni consumati nell’attesa infinita di qualche volontaria che regali loro un momento di gioco. Sono 25 i bambini che vivono in carcere con le madri. L’ultimo è arrivato da una settimana nel carcere di Rebibbia: ha solo tre mesi, è di origini croate, e la madre, di etnia rom, è stata arrestata per reati contro il patrimonio. Con lui ci sono altri due bambini, un italiano e un polacco, entrambi di due anni e mezzo. Per comprendere il deficit affettivo, sensoriale e relazionale a cui sono sottoposti questi bambini, non serve aver studiato Freud o Lacan; basta visitare le carceri e osservare la luce innaturale che filtra nelle loro giornate. Assenza di stimoli, ripetitività dei gesti, senso di inferiorità. Poche parole, sempre le stesse, quelle che sentono all’interno del carcere. Rumori che rimangono per sempre. Un “fine pena mai” per bambini innocenti a cui viene rubato il futuro, che escono dal carcere con cicatrici di ansia e una sensazione di sollievo difficile da conquistare. In questo torrido agosto, mentre i loro coetanei gioiscono per la chiusura delle scuole, si annoiano in qualche località estiva, guardano le stelle di San Lorenzo oppure organizzano la rituale gita di Ferragosto, a loro sono negate anche le ore d’aria dell’asilo, le poche concesse per “evadere”. Con l’approvazione del decreto carcere è stato cancellato l’obbligo del differimento della pena per le donne in gravidanza o con figli di età inferiore a un anno. Il numero di bambini in carcere quindi tornerà a crescere. Prima dell’approvazione, l’UNICEF Italia aveva esortato il Parlamento a trovare un accordo bipartisan per individuare una soluzione adeguata a rendere concreta la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, sostenendo la necessità di finanziare le case-famiglia protette ed evitare che i bambini siano costretti a vivere in carcere con le madri. Un appello rimasto, purtroppo, inascoltato. Decreto carceri, il simbolo della mancanza di coscienza di questo governo di Daria Bignardi Vanity Fair, 14 agosto 2024 Agosto è il mese più difficile per le persone sole: per i detenuti, significa stare chiusi in una stanza senza ventilatori o aria condizionata, insieme ad altri. Le nuove norme tutelano poco, in un anno dove i suicidi sono già aumentati rispetto all’estate del 2022, l’anno peggiore. Il decreto approvato il 7 agosto è stato criticato dall’opposizione perché non contiene tutele effettive e non interviene sul sovraffollamento. Immaginate che in queste settimane di caldo soffocante dobbiate forzatamente restare chiusi in camera, una stanza molto piccola che condividete con altre persone. La stanza ha un finestrino, in alto, chiuso. Anche la porta della stanza è chiusa ed è d’acciaio, blindata. E c’è una seconda porta con le sbarre. Non avete ventilatori, né aria condizionata, né frigorifero. Potete uscire dalla stanza solo un paio d’ore al giorno per camminare in una vasca di cemento ricoperta da rete metallica. Il caldo vi tortura anche di notte, insieme alle zanzare. I parenti - se ne avete - in questo periodo non vengono a trovarvi: vostra madre è anziana e non può viaggiare con questo caldo, i figli almeno a Ferragosto vogliono andare al mare. La persona che amate - se ne avete una - da quando siete nella stanza non la sentite quasi più. L’avete delusa. O non ha la forza di starvi vicino perché ha già tanti altri problemi. Se la vedete ancora siete preoccupati per lei, che è rimasta sola. Quelli del mondo di fuori che ogni tanto entravano per fare qualche attività con voi sono in vacanza. Mentre scrivo i suicidi in carcere sono 65, ma quando leggerete è probabile che saranno di più. Nel 2022, l’anno in cui ci fu il record dei suicidi (85), in questo periodo erano 40. Le persone detenute si ammazzano per disperazione e mai come in agosto, il mese più terribile per le persone sole. Il presidente Mattarella il 24 luglio, dopo aver ricevuto la lettera di un detenuto del carcere di Brescia, ha detto: “Sono condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza”. Quando la senatrice Ilaria Cucchi ha scandito i nomi delle persone suicide di quest’anno l’aula era quasi vuota. Il decreto carceri, approvato il 7 agosto (mille agenti in più, due telefonate in più al mese e poco altro per i detenuti, niente di incisivo o minimamente risolutivo), è indicativo dell’insensibilità e mancanza di coscienza di questo governo. L’appello alla Rai affinché dedichi al carcere l’attenzione che non gli dà la politica di Federica Valcauda linkiesta.it, 14 agosto 2024 Negli ultimi trenta anni non ci sono mai stati tanti suicidi e tante morti non volontarie nelle patrie galere. Non solo detenuti, ma anche sette agenti penitenziari. Europa Radicale ha inviato una lettera aperta alla televisione di Stato per realizzare uno speciale televisivo sulle condizioni nelle nostre prigioni. Europa Radicale ha inviato nei giorni scorsi una lettera aperta ai vertici della Rai per chiedere uno “Speciale carceri” da programmare in prima serata. C’è una ragione non solo umanitaria ma pienamente politica per cui il servizio pubblico dovrebbe occuparsi di questo tema. Non per un sentimento di mera solidarietà con chi è costretto a subire condizioni di detenzione “angosciose e indecorose” (come le ha definite Sergio Mattarella). Ma per rendere effettivo il principio del conoscere per deliberare, cioè per offrire alla generalità dei cittadini italiani un’informazione onesta sugli effetti della politica penale e penitenziaria perseguita negli ultimi anni dalle più svariate maggioranze e per sottoporre i decisori pubblici a un giudizio popolare più informato e consapevole sulla condotta di Governo e Parlamento. L’apparente insensibilità sul collasso del sistema carcerario, che buona parte dell’elettorato condivide con questo Governo, è figlia di decenni di propaganda falsa sulle emergenze criminali (mentre il tasso di delittuosità in Italia continuava a scendere). Da qui parte la crescente domanda di galera da parte di un settore dell’opinione pubblica; non è escluso che una fotografia realistica delle conseguenze a cui tutto questo ha portato possa risvegliare qualcuno dall’incantesimo del buttare la chiave. Per chi vive nelle carceri da detenuto ma anche per chi vi lavora come agente di polizia penitenziaria o con ruoli amministrativi, sanitari, educativi e assistenziali, il mese di agosto è il peggiore dell’anno. Oltre al caldo infernale, che è una pena accessoria inflitta non dal codice ma dall’incuria, chi sta dentro vive una sorta d’isolamento aggiuntivo a quello che già normalmente separa con una distanza siderale la società dei liberi e quella dei reclusi. Prima della chiusura estiva del Parlamento abbiamo assistito a un profluvio di parole, spesso piene di ipocrisia, sulla situazione carceraria, in particolare nella discussione del cosiddetto decreto carceri, sulla cui efficacia parte della maggioranza e lo stesso Ministro Nordio devono nutrire molti dubbi, se il giorno dopo la sua approvazione hanno proposto di completarlo con nuove e ulteriori misure sulla custodia cautelare. Oggi, un detenuto su sei è in attesa del primo giudizio, e uno su quattro non è stato condannato in via definitiva. La galera così com’è non serve a nulla, neppure alla sicurezza degli italiani, la cui tutela è affidata più alla funzione riabilitativa che a quella retributiva della pena, visto che la gran parte dei detenuti, in ogni caso, uscirà dal carcere da vivo e non da morto e bisognerebbe fare in modo che ne esca diverso e migliore da come vi era entrato. Il nostro sistema produce l’esatto opposto. Il sovraffollamento è un problema in sé e una concausa di tutti gli altri problemi che rendono il carcere italiano incostituzionale. Ma la strada della costruzione di nuove carceri è tanto demagogica, quanto impraticabile. Come ha evidenziato l’Associazione Antigone, costruire il “posto letto” di un detenuto in un nuovo carcere costa circa un milione di euro. Per tornare a una capienza perfettamente regolamentare sulla base dei detenuti attuali servirebbero cinquantadue nuove carceri da duecentocinquanta detenuti, per una spesa di 1,3 miliardi di euro. Con tempi di realizzazione che si contano in lustri, se non in decenni. Meritano i cittadini italiani di conoscere questi numeri, no? E meritano di conoscere i numeri, oggi sconosciuti anche a molti addetti ai lavori, sul numero (estremamente basso) di detenuti coinvolti in programmi di studio e di lavoro in carcere? Meritano di conoscere la differenza abissale tra il tasso di recidiva di detenuti in semilibertà e quelli lasciati marcire in galera o i tempi medi di attesa (di mesi, quando non di anni) rispetto alle istanze presentate alla magistratura di sorveglianza? Meritano di sapere che metà dei detenuti nelle carceri minorili sono minori non accompagnati? I cittadini hanno il diritto di sapere tutto questo, il servizio pubblico di informazione ha il dovere di dirglielo. Finora l’appello di Europa Radicale (a cui si può aderire scrivendo a europaradicale@gmail.com) non ha avuto risposte ufficiali dalla Rai, ma intanto sono oltre centocinquanta le personalità della politica e del mondo legato al carcere che l’hanno sottoscritto. Per citarne solo alcuni: i parlamentari Mariastella Gelmini, Debora Serracchiani, Piero Fassino, Andrea Martella, Roberto Giachetti, Enrico Borghi, Mauro Berruto, Giulia Pastorella; Luigi Manconi (ex senatore e Presidente di A Buon Diritto); Valentina Alberta (Presidente Camera Penale di Milano); i garanti dei detenuti comunali Sonia Caronni (Biella), Francesco Maisto (Milano), Monica Gallo (Torino), Nathalie Pisano (Novara), Giorgio Galavotti (Rimini); Giuseppe Caforio (Garante della Regione Umbria); gli ex parlamentari radicali Lorenzo Strik Lievers e Marco Taradash. Dall’inizio dell’anno all’8 agosto si sono suicidate in carcere sessantasei persone e altri novantotto detenuti sono deceduti per altre cause di morte (malattia, overdose, omicidio e cause non determinate). A questi vanno aggiunti sette agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Negli ultimi sette mesi i morti sono stati complessivamente più che in tutto il 2023. I loro nomi li abbiamo esposti durante lunghi presidi di fronte alle carceri di Torino e Brescia. Negli ultimi trenta anni non ci sono mai stati nelle patrie galere tanti suicidi e tante morti non volontarie. Perché si inverta questa tendenza e si adottino provvedimenti utili a questo fine è però necessario che questa catastrofe umanitaria, sociale, sia conosciuta o conoscibile da tutti. La RAI, il nostro servizio pubblico radiotelevisivo, se ne faccia carico. Il Dap prova a spiegare ai detenuti alcuni aspetti positivi del decreto di Anna Di Filippo Il Dubbio, 14 agosto 2024 L’obiettivo del vademecum destinato ai direttori: informare sulle “novità” che possono “migliorare la detenzione”. Verrà distribuito in queste ore nelle carceri il “vademecum relativo alla riforma ex decreto legge 92/ 2024” elaborato dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e indirizzato ai provveditori regionali e ai direttori degli istituti. L’obiettivo? Trasmettere ai detenuti, affiggendole nelle sale comuni, le “novità” “più significative” che “migliorano la condizione detentiva”. Il documento elenca sette punti: il ristretto potrà fare sei telefonate al mese invece che quattro; con l’ordine di esecuzione della pena emesso dalla Procura della Repubblica, il detenuto conoscerà subito la riduzione della pena che gli spetta, in caso di buona condotta, in virtù della liberazione anticipata; la pena verrà ridotta di 45 giorni ogni 6 mesi automaticamente, senza necessità di fare istanza al magistrato di sorveglianza; ogni volta che il ristretto farà un’istanza per le misure alternative alla detenzione, automaticamente il magistrato di sorveglianza applicherà la riduzione per la liberazione anticipata; verrà favorito anche per i ristretti senza domicilio idoneo o in condizioni socio- economiche insufficienti l’accesso alla detenzione domiciliare e l’affidamento in prova ai servizi sociali; verrà favorito, anche per i condannati privi di occupazione, l’accesso all’affidamento in prova, ai servizi sociali; per i condannati di età pari o superiore a 70 anni è previsto che la pena residua tra i 2 e i 4 anni di reclusione potrà essere scontata nelle forme della detenzione domiciliare, esclusi i condannati ostativi. Il testo, da quanto trapela, nei prossimi giorni sarà anche tradotto in altre lingue - inglese, francese, arabo - per i reclusi stranieri. Da un lato non sono mancate critiche. Così ha stigmatizzato il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Lazio, Stefano Anastasìa: “Il decreto Nordio secondo il Dap: una cortina di fumo con qualche vera e propria disinformazione, tipo l’avverbio “automaticamente” nella concessione della liberazione anticipata ripetuto per ben due volte, a coprire valutazioni della “partecipazione all’opera rieducativa” che restano discrezionali e che sarà più difficile fare ad anni di distanza, come il decreto prevede”. A puntare il dito contro il documento, definito “fuorviante” e “scritto male”, c’è pure l’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria: “Si afferma erroneamente che ogni volta che un detenuto presenta un’istanza ha diritto ai giorni di liberazione anticipata. Questa è una dichiarazione non solo falsa, ma anche pericolosamente fuorviante”, sostiene il segretario Leo Beneduci, il quale parla di “macroscopico errore che un dipartimento del ministero della Giustizia non può permettersi”. Nonostante queste critiche - fisiologiche rispetto a una norma da cui si attendeva di più in un momento in cui nelle carceri i detenuti stanno patendo letteralmente l’inferno dato dalle alte temperature, non possono fare attività trattamentale perché tutti in ferie, sentono il rischio dei suicidi dei loro compagni, sono stipati in cella come animali - bisogna sicuramente dare atto al Dap di mettere in campo una iniziativa che serve a stemperare eventuali tensioni tra i detenuti. Come sappiamo la responsabile dell’unità di crisi del Dap ha invitato qualche giorno fa tutti i direttori degli istituti di pena ad individuare “adeguata collocazione in zone prossime ai settori detentivi” delle attrezzature individuali di protezione degli agenti. Inoltre un provveditore, come reso noto dalla presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini, ha sollecitato a tenere alta l’attenzione “circa possibili stati di tensione fra la popolazione ristretta, connessi alle decisioni politiche assunte in sede di conversione del decreto numero 92/ 2024”. In tale scenario al Dap, diretto da Giovanni Russo, hanno fatto l’unica cosa possibile: spiegare ai detenuti tutto il massimo che possono ottenere dall’approvazione della norma, in vista di ulteriori provvedimenti che verranno messi in campo come annunciato dallo stesso ministro Nordio sia ieri in un’intervista al Corriere della Sera sia in un comunicato stampa della scorsa settimana. Si punta a definire “soluzioni a breve e medio termine per il sovraffollamento carcerario”, che dovrebbero essere illustrate al Capo dello Stato Sergio Mattarella a settembre. Si vuole rivedere la norma sulla custodia cautelare, come ribadito ieri anche dal sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro delle Vedove in visita al carcere di Taranto: della “custodia cautelare in carcere ne è stato fatto un uso smodato in questi anni, è un dato di fatto. Basti pensare ha sostenuto Delmastro - che su 60mila detenuti, ne abbiamo 15mila in custodia cautelare, cioè persone presunte innocenti o comunque non colpevoli. C’è bisogno di bilanciare due interessi: quello del principio di non colpevolezza e quello di arrestare il crimine prima che possa nuovamente delinquere. Bilanceremo questi due criteri - ha annunciato l’esponente di Fratelli d’Italia - senza privare la magistratura di uno strumento importante di contrasto alla criminalità, in particolar modo quella organizzata, che sono le misure cautelari”. Inoltre si vogliono spedire nelle comunità i reclusi tossicodipendenti, e infine ci si pone l’obiettivo di far espiare la pena agli stranieri nei propri Paesi di origine. Secondo il guardasigilli ci sarebbe un calo della popolazione detenuta pari a circa 20 mila ristretti, cifra in grado di dare finalmente respiro alle carceri. Ma in attesa che tutto questo si trasformi in realtà, è necessario provare a indirizzare l’attenzione dei reclusi verso il bicchiere mezzo pieno. Balle e disinformazione sulla nuova legge per i detenuti di Angela Stella L’Unità, 14 agosto 2024 Nelle sale comuni delle prigioni saranno affisse spiegazioni del dl carceri appena approvato che contengono informazioni ingannevoli e scorrette. “Pubblicità ingannevole”, “disonestà allarmante”, “venditori di cocomeri e meloni”, “diffusione della propaganda di regime”, “cortina di fumo”: sono solo alcuni dei commenti circolati nelle chat e sui social da parte degli operatori che gravitano nel mondo carcerario, in merito al “vademecum relativo alla riforma ex dl 92/2024” inviato dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ai Provveditori regionali e ai Direttori degli istituti. L’obiettivo ha del paradossale: trasmettere ai detenuti, affiggendole nelle sale comuni, le “novità che migliorano la condizione detentiva”. E poi segue elenco: sei telefonate al mese invece che quattro, conoscenza immediata della riduzione della pena in fase di ordine di esecuzione, riduzione automatica di 45 giorni di pena ogni sei mesi senza fare istanza al magistrato, più detenzione domiciliare e più affidamento in prova. Il testo, nei prossimi giorni, sarà anche tradotto in altre lingue - inglese, francese, arabo - per i reclusi stranieri. Così ha stigmatizzato il garante dei Diritti delle persone private della libertà personale del Lazio, Stefano Anastasia: “Il decreto Nordio secondo il Dap: una cortina di fumo con qualche vera e propria disinformazione, tipo quell’avverbio “automaticamente” nella concessione della liberazione anticipata ripetuto per ben due volte, a coprire valutazioni della “partecipazione all’opera rieducativa” che restano discrezionali e che sarà più difficile fare ad anni di distanza, come il decreto prevede. A puntare il dito contro il documento definito “fuorviante” e “scritto male” c’è pure l’Organizzazione sindacale autonoma Polizia penitenziaria. “Si afferma erroneamente che ogni volta che un detenuto presenta un’istanza ha diritto ai giorni di liberazione anticipata. Questa è una dichiarazione non solo falsa, ma anche pericolosamente fuorviante”, dice il segretario Leo Beneduci, il quale sottolinea “un macroscopico errore che un dipartimento del ministero della Giustizia non può permettersi”. E conclude: “il vademecum non è solo un documento mal scritto, ma è il simbolo di un sistema che ha perso la bussola, è il riflesso di un’amministrazione che naviga a vista, incapace di comprendere le proprie leggi, figuriamoci di applicarle con giustizia ed equità”. Fonti interne al Dap ci spiegano come la logica sottesa all’iniziativa sia chiara: spiegare ai detenuti le norme introdotte dal dl carceri da poco approvato. Tuttavia, si è consapevoli che la riuscita sarà opinabile. E il motivo è semplice: i detenuti, che di certo non sono soggetti che si lasciano ingannare facilmente, sanno benissimo che il decreto è una scatola vuota. In un momento in cui nelle carceri stanno patendo letteralmente l’inferno, dato dalle alte temperature, non possono fare attività trattamentali perché tutti in ferie, sentono il rischio dei suicidi dei loro compagni, sono stipati in cella come animali, e leggere quel vademecum significa prendere consapevolezza che non ci sarà alcuna speranza per loro di poter uscire prima o di veder migliorata la loro quotidianità. Loro si aspettavano l’approvazione della pdl Giachetti, non potendo ambire con questo governo e con questa maggioranza al diritto di amnistia e indulto, ma certamente non di un decreto rinominato “carceri sicure”. Il vademecum, poi, fa il paio con quello che sarebbe avvenuto qualche giorno dopo la riunione al Dap con le articolazioni territoriali dell’amministrazione (direttori, provveditori, comandanti) che sarebbero stati invitati a dare una rappresentazione edulcorata del decreto. Il Dap, che in questo modo sembra trasformarsi in un imbonitore di merce scadente, è però consapevole che questo potrebbe non bastare per stemperare le tensioni già presenti. Lo dimostra il fatto che, come vi abbiamo raccontato solo qualche giorno fa, la responsabile dell’unità di crisi del Dap, ha invitato tutti i direttori ad individuare “adeguata collocazione in zone prossime ai settori detentivi” delle attrezzature individuali di protezione degli agenti, ed inoltre un provveditore ha sollecitato a tenere alta l’attenzione “circa possibili stati di tensione fra la popolazione ristretta, connessi alle decisioni politiche assunte in sede di conversione del decreto numero 92/2024”. “Allarme Nordio”. Il ministero teme tensioni nelle carceri per le decisioni del ministro di Alfonso Raimo huffingtonpost.it, 14 agosto 2024 Mentre il ministro di giustizia Carlo Nordio descrive, in un’intervista al Corriere della Sera, un piano per liberare le carceri sovraffollate d’Italia di 15-20 mila detenuti, una circolare dell’amministrazione penitenziaria avverte il personale degli istituti di pena sui rischi di “possibili tensioni” nelle carceri conseguenti alle “decisioni politiche assunte in sede di conversione del decreto legge 92/2024”. Si tratta del decreto carceri, convertito dal Parlamento mercoledì scorso. Il decreto contiene le misure volute dal governo proprio per contrastare il problema del sovraffollamento delle prigioni italiane. Ma l’amministrazione penitenziaria avverte: dopo la sua approvazione, negli istituti di pena possono scatenarsi tensioni. Basterebbe questa contraddizione a dare la cifra di quanto poco sia realizzabile il proposito del governo di decongestionare gli istituti penitenziari, dove oggi risiedono 14mila detenuti in più della capienza massima. “Fantasie, quel piano non è realistico”, dice numeri alla mano Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino. Il ministro di Giustizia chiede un incontro al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per dettagliare le principali misure ‘svuota carceri’. Una parte è già realizzata con il decreto convertito prima della pausa estiva, un’altra deve essere realizzata. Ecco le sue parole: “Abbiamo dei progetti che vogliamo illustrare al capo dello Stato. Se mettiamo assieme la possibilità per i tossicodipendenti di andare in altre strutture, con quella di far tornare nel proprio Paese i detenuti stranieri, sulla quale stiamo lavorando notte e giorno, assieme alla Farnesina, possiamo arrivare a 15-20 mila detenuti in meno. Ecco risolto il sovraffollamento”. Nordio ha illustrato il suo progetto alla premier Giorgia Meloni, con la quale nega divergenze di vedute. E rientrerebbe in questo quadro, anche una futura modifica della normativa sulla custodia cautelare, modificando il presupposto della reiterazione del reato. “Ovviamente per i rapinatori, stupratori corrotti e autori di altri gravi reati la carcerazione preventiva rimarrà. Quello che conta è definire meglio i presupposti per la sua applicazione. Il pericolo di reiterazione del reato non può essere desunto dal rimanere in carica dell’amministratore pubblico accusato di corruzione”. Ma i pilastri dell’intervento governativo sono due. Il primo che prevede il trasferimento di detenuti tossicodipendenti in altre strutture è contenuta nel decreto 92 già convertito. Viene istituito un albo delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale, che sarà gestito dal ministero della Giustizia. L’altra misura - tutta da costruire - prevede di ampliare la possibilità di trasferimento di detenuti stranieri in altri Paesi. Ma le aspettative del ministro - che come detto parla di 15-20 mila detenuti in meno - sono in gran parte destinate ad essere disattese. Lo prova una circolare diffusa dalla stessa amministrazione penitenziaria in queste ore, e destinata ai dirigenti. Nel documento di cui Huffpost ha preso visione, sulla base della nota diffusa dal Provveditorato della Lombardia, si legge: “Attese le informazioni giunte di recente a questo provveditorato circa possibili stati di tensione fra la popolazione ristretta connessi alle decisioni politiche assunte in sede di conversione del decreto legge numero 92/2024, si invitano le SSLL a sollecitare tutto il personale rispetto alla necessità di operare con massimo scrupolo e zelo al fine di mantenere alto il livello di attenzione nello svolgimento delle attività di vigilanza ed osservazione degli Istituti penitenziari”. Mentre Nordio ipotizza un piano svuota carceri, gli istituti penitenziari, che fanno capo al suo stesso dicastero, mettono le mani avanti e si preparano a fronteggiare stati di tensione creati dalle aspettative innescate tra i detenuti innescati dallo stesso decreto ‘svuota-carceri’. Ad aggravare il quadro, c’è anche un “vademecum”, sempre a firma dell’amministrazione penitenziaria, con cui il capo del Dap invita provveditori e dirigenti a dare “massima diffusione” delle misure più significative del decreto 92, anche con “distribuzione diretta ai detenuti e affissione negli spazi comuni”. Una solerzia che trova forse origine nella riunione che c’è stata a inizio agosto a via Arenula - e riferita dall’ex garante dei detenuti Mauro Palma sul Manifesto, senza essere smentito - in cui il capo del Dap sollecitava le articolazioni territoriali dell’amministrazione (direttori, provveditori, comandanti) “ad andare all’interno delle sezioni per parlare, spiegare, enfatizzando le minime novità” del decreto Nordio “proponendo anche liste di associazioni e giornali ostili o amici...”. Il vademecum diffuso negli istituti oggettivamente può alimentare aspettative destinate ad essere frustrate. Con le ovvie conseguenze sulla tenuta di persone detenute, in condizioni spesso al limite. Lascia pensare infatti che non sia necessario l’accertamento del magistrato di sorveglianza ai fini della concessione della libertà anticipata, con la pena ridotta di 45 giorni ogni semestre. Si legge: “Con l’ordine di esecuzione della pena emesso dalla Procura della Repubblica il ristretto conoscerà subito la riduzione della pena per la liberazione anticipata ed il fine pena complessivo, tenendo conto di tutte le riduzioni semestrali. La pena verrà ridotta di 45 giorni ogni sei mesi senza necessità di fare alcune istanza al magistrato di sorveglianza, se il ristretto parteciperà alle attività di rieducazione”. In realtà il decreto 92 contempla un periodo di sei mesi per gli adeguamenti connessi alla nuova disciplina. Prevede inoltre che, pur senza istanza, il magistrato di sorveglianza accerti in ogni caso la sussistenza dei presupposti per la concessione della liberazione anticipata. Resta fermo che per le richieste di misure alternative alla detenzione e ad altri benefici, serve l’istanza. “Insomma, la lettura del documento affisso a una bacheca può ingenerare aspettative ottimistiche in una popolazione carceraria già provata dal sovraffollamento e dalla penuria di servizi. E il fatto stesso che il ministero veicoli un vademecum enfatico sul decreto Nordio e poi dica al personale, preparatevi perché il decreto potrebbe innescare tensioni tra i detenuti, è sintomatico dell’efficacia di questo provvedimento”, dice all’Huffpost Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino. L’associazione continua ad agosto il viaggio-verità nelle carceri italiane, il Grande Satyagraha 2024, organizzato insieme a Camere penali, Movimento Forense e associazioni radicali. Bernardini con l’avvocato Maria Brucale Marco Sorbara del direttivo NTC e Paola Severino Melograni, sarà a ferragosto al carcere di Regina Coeli. L’associazione ad agosto visiterà 15 istituti di pena, e il 30 agosto Bernardini, Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti saranno insieme al laboratorio Spes contra spem nel carcere di Opera durante il quale sarà ricordata Mariateresa di Lascia, fondatrice con D’Elia e Marco Pannella, di Nessuno tocchi Caino a trent’anni dalla sua scomparsa. Per l’associazione è a dir poco ottimistico, al limite del fantasioso, anche il proposito del ministro Nordio di far uscire 15-20 mila detenuti in forza delle misure sulla detenzione in altre strutture per i tossicodipendenti e sul trasferimento dei detenuti stranieri. “Per quanto riguarda i tossicodipendenti, Nordio parla di strutture che non esistono. Già oggi è previsto che i detenuti possono andare a scontare la pena per condanne o residui di pena inferiori ai sei anni nelle comunità. Il problema è come sono pagate queste comunità. E poi: che tipo di comunità sono, nel senso che il rischio è che diventino delle carceri chiamate con altro nome. In attesa di conoscere l’albo non si sa neppure di cosa si parla. Devono essere luoghi di riscatto e di cura, non di contenimento. Ad oggi noi sappiamo che ce ne sono pochissime di quelle che possono seguire i detenuti con doppia diagnosi, cioè sia di dipendenza problematica che con diagnosi psichiatrica o psicologica”. Peraltro il problema dei finanziamenti nel decreto Nordio è affidato a un decreto attuativo che arriverà in futuro. “Più che poliziotti - aggiunge Bernardini - le comunità dovrebbero avere personale medico di ogni tipo, psichiatri ed educatori, formatori. Ma questo tipo di personale non c’è ad oggi neppure nelle carceri. Insomma, sono misure molto vaghe e comunque, semmai venissero adottate in modo efficace, dovrebbero puntare al reinserimento di queste persone. Un’opera che richiede molto tempo, mentre il problema delle carceri illegali noi ce l’abbiamo oggi, anzi ce l’abbiamo da anni”. Per Nessuno tocchi Caino il governo doveva partire dalle disponibilità di organico presenti. E fare in modo che queste bastassero. Con 14mila detenuti in più a regime, e istituti di pena che arrivano ad ospitare il doppio delle persone per cui sono stati progettati, il rischio è che prevalga la logica emergenziale. “Perché non è solo un problema di spazio. Ma anche cosa fai in carcere. La percentuale di detenuti che rientra nelle sezioni avanzate dove il detenuto sta fuori la cella è una minoranza. Tutti gli altri li chiudono nelle celle, consentendo solo le ore d’aria, e così si spiegano i suicidi”. Ancora meno realistica sembra la previsione di liberare detenuti trasferendo gli stranieri nei Paesi d’origine. “Sono anni che annunciano una misura di questo tipo senza risultati. Bisogna vedere situazione su situazione, perché parliamo di posizioni individuali. Servono gli accordi coi Paesi d’origine e devono essere d’accordo anche i detenuti. So di persone che vorrebbero tornare, ma non ce li mandano... Insomma- dice Bernardini - servono misure concrete. Non propositi”. Neppure la modifica della custodia cautelare servirebbe a ridurre significativamente la popolazione carceraria. “Si sparano cifre a caso. I dati aggiornati al 31 luglio scorso dicono che i detenuti cosiddetti definitivi sono 45.598 pari al 74,6% del totale. I non definitivi sono 15.185 pari al 24,4%, di questi i detenuti in attesa di primo giudizio sono 8.934, mentre gli appellanti, ricorrenti, misti senza sentenza definitiva sono 6.251. Gli stranieri, che rappresentano 31,3% del totale dei detenuti, sono il 35,7% dei detenuti non definitivi. Nel 2014 (dieci anni fa), i detenuti non definitivi erano il 35,2%: sono pertanto scesi di quasi 10 punti percentuali. Nel 2011, i detenuti non definitivi erano il 42%. Quindi c’è stato un calo sensibile. A questo va aggiunta anche una considerazione sul diritto di difesa. Le persone più emarginate, seguite spesso da avvocati d’ufficio, sembrano nella maggior parte dei casi escluse”. Per svuotare le carceri serve un intervento immediato. Per questo Nessuno tocchi Caino con Roberto Giachetti chiedeva una misura deflattiva, come la libertà anticipata speciale, che innalzasse a 75 giorni per semestre lo sconto di pena passato, e portasse da 45 a 60 giorni per semestre quello ordinamentale. “L’ultima ministra che ha applicato una misura di questo tipo è stata Annamaria Cancellieri nel 2013 - spiega Bernardini - Ha liberato 6mila detenuti”. Politici nelle prigioni a “chiedere perdono”. Tranne Delmastro... di Franco Insardà I Dubbio, 14 agosto 2024 Il sottosegretario: io a ferragosto vado dai poliziotti. Nessuno tocchi Caino visiterà istituti in tutta Italia. Chissà cosa penserebbe Marco Pannella a vedere tutta questa mobilitazione per le visite in carcere nei giorni di Ferragosto. Lui che non ha mai perso un appuntamento con i detenuti, sia d’estate che in altri periodi particolari dell’anno, per incontrarli e fargli sentire la sua vicinanza. Quel seme pannelliano continua ancora a produrre effetti e, anno dopo anno, si allarga la schiera di esponenti politici che aderiscono all’iniziativa di Nessuno Tocchi Caino oppure autonomamente varcano i cancelli degli istituti penitenziari per rendersi conto da vicino delle condizioni precarie nelle quali sono costretti a vivere i reclusi nelle patrie galere. Sono 16 sono le visite negli istituti di pena che Nessuno tocchi Caino ha organizzato, insieme a Camere penali, Movimento Forense e associazioni radicali, nel mese di agosto per proseguire nel Grande Satyagraha 2024. “Non sono visite di ferragosto si legge in una nota di Nessuno Tocchi Caiano -, ma un dato di continuità che ha visto l’associazione visitare 120 istituti nel 2023 e oltre 60 quest’anno”. I dirigenti di Nessuno tocchi Caino, Rita Bernardini, presidente, Sergio d’Elia, segretario ed Elisabetta Zamparutti saranno presenti in alcune delle visite. Rita Bernardini, con l’avvocato Maria Brucale, Marco Sorbara del direttivo NtC e Paola Severini Melograni, sarà il 15 agosto in visita dalle 10 a Regina Coeli a Roma. Bernardini sarà poi il 19 agosto a Campobasso con il Presidente della Camera penale Mariano Prencipe e l’avvocato Giuseppe Rossodivita del Consiglio direttivo. Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti hanno visitato lunedì il carcere di Tolmezzo e ieri di Udine, insieme al Presidente della Camera penale Raffaele Conte e a Stefano Santarossa di + Europa. Il 16 agosto saranno al carcere di Padova, insieme a Umberto Baccolo del direttivo, Samuele Vianello di Radicali Venezia e Laura Massaro del Movimento forense. Matteo Angioli e l’avvocata Elena Baldi del direttivo di NtC guideranno la delegazione a Pistoia il 15 agosto. Nello stesso giorno Matteo Renzi e Roberto Giachetti visiteranno alle 10 il carcere di Sollicciano, a Firenze. Ieri le esponenti del Partito democratico Anna Rossomando, vicepresidente del Senato, Chiara Gribaudo, vicepresidente della commissione Lavoro alla Camera, e Nadia Conticelli, consigliera regionale del Piemonte, aderendo all’iniziativa di Nessuno Tocchi Caino hanno visitato un altro carcere molto problematico: il Lorusso e Cotugno di Torino. In una nota al termine della visita le esponenti dem hanno dichiarato: “Al Lorusso Cutugno di Torino su una capienza teorica di 1.100 posti oggi sono 1.500 le persone detenute, compresi i semi liberi che lavorano all’esterno ma dormono in carcere, con 200 agenti di polizia penitenziaria in meno rispetto all’organico previsto, a cui si aggiunge il periodo di ferie e il turn- over”. Sul tema carceri è intervenuto anche Walter Verini, segretario commissione Giustizia del Pd: “L’intervista del ministro Nordio al Corriere della Sera conferma quanto questo governo non voglia e non sappia affrontare il tema dell’emergenza carceri. L’occasione era il decreto carceri, un guscio vuoto che governo e Nordio si sono però pervicacemente rifiutati di migliorare dicendo No a tutti gli emendamenti delle opposizioni”. Ieri il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro delle Vedove, al termine della visita al carcere di Taranto ci ha tenuto a precisare di aver voluto incontrare “uomini e donne della Polizia penitenziaria, non sono abituato a entrare negli istituti per recarmi alla mecca che è il detenuto. Io incontro prima di tutto i servitori dello Stato che, vestendo una divisa, difendono e tutelano legalità e sicurezza”. Sul sovraffollamento Del Mastro ha detto: “Della custodia cautelare in carcere ne è stato fatto un uso smodato in questi anni, è un dato di fatto. Su 60mila detenuti, ne abbiamo 15mila in custodia cautelare”. Anche Forza Italia continua il suo viaggio nelle carceri italiane. Ieri il presidente dei Senatori di Forza Italia era a Favignana, mentre il capogruppo di Forza Italia nella commissione Giustizia del Senato, Pierantonio Zanettin, ha visitato il carcere di Ancona. Gasparri ha ribadito che per Forza Italia “non si deve dar luogo a nessun provvedimento di amnistia o di indulto. Bisogna valutare la condizione dei detenuti anziani o gravemente malati e riflettere sui residui di pena. In particolare poi per quanto riguarda i detenuti tossicodipendenti”. Oggi la Camera Penale di Milano, con la presidente Valentina Alberta, la segretaria generale Paola Ponte e i consiglieri Federico Riboldi e Margherita Pisapiae con il presidente del Coa milanese, Antonino La Lumia, visiteranno uno dei carceri più probleamti, quello di San Vittore, insieme al senatore Tino Magni di Alleanza Verdi Sinistra. Il 15 agosto Matteo Renzi e Roberto Giachetti saranno in visita alle 10 al carcere di Sollicciano, a Firenze. Osteria di Ferragosto di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2024 Come a ogni Ferragosto dalla notte dei tempi, c’è l’emergenza carceri. Ma tranquilli: Nordio ha “un piano”. Ne ha sempre uno, a ogni Ferragosto. E sempre diverso da quello dell’anno precedente, che è inutile domandargli quale fosse: complici l’alcol e la calura, non se lo ricorda più. Il piano 2023 erano le famose “caserme dismesse da adattare” a penitenziari. Carletto Mezzolitro ne aveva anche annunciato un “monitoraggio in autunno” (senza specificare l’anno), di cui purtroppo si persero subito le tracce: o si scordò di incaricare i monitoristi, o i monitoristi incaricati si scordarono di monitorare. Altro Ferragosto, altro piano. Magari costruire nuove carceri e ampliare quelle esistenti, progetto a cui l’ultimo ministro della Giustizia degno di questo nome, Bonafede, aveva destinato una quota del Pnrr? Non sia mai: “si può perché nessuno le vuole alle proprie spalle” (manco fossero cetrioli), come se lo Stato non avesse la potestà di costruire infrastrutture con la forza (lo fa soprattutto per quelle inutili, tipo il Tav Torino-Lione e il Ponte). Quindi il nuovo piano? Nordio si fa intervistare dal Corriere per dire che vuole prima “illustrarlo al capo dello Stato” (ove mai lo ricevesse) e “sarebbe irriguardoso anticiparlo qui”. Infatti lo anticipa irriguardosamente lì: i tossici sconteranno la pena “in ambienti diversi dal carcere”, indovinate dove? “In comunità” (non in Parlamento, ecco). E gli stranieri, non ci credereste, “nel proprio Paese”: lui e Tajani ci stanno “lavorando notte e giorno”. Così usciranno la bellezza di “15-20 mila detenuti” deportati fra San Patrignano, l’Africa e l’Asia, ed “ecco risolto il sovraffollamento”. Il fatto che le paroline magiche “caserme”, “tossici” e “stranieri” le abbiano pronunciate tutti i Guardasigilli dal Pleistocene a oggi mentre le carceri si riempivano vieppiù, non gli dice nulla. Del resto, il suo “piano” arriva due giorni dopo la firma del Colle al suo decreto Carceri, che evidentemente era solo il nuovo gioco dell’estate dopo lo yo-yo, l’hula hoop e il frisbee. FdI gli ha appena stoppato l’abolizione della Severino e della custodia cautelare per chi delinque senza sparare (colletti bianchi, narcotrafficanti e altri galantuomini). Ma il ministro sotto spirito assicura che “non c’è mai stata sintonia migliore”: Giorgia lo nominò, “anche se presiedevo il comitato dei referendum” contro la Severino e la custodia cautelare, e “FdI era contrario”. Purtroppo dimentica di precisare come finirono, i referendum: col record della più bassa affluenza di tutti i tempi (20,9%). Però Carletto ha fatto bene a rammentare quella trionfale esperienza: ora la Meloni potrebbe domandarsi cosa le sia saltato in mente, regalargli un fiasco come buonuscita e nominare un ministro vero. Quella competizione tra FI e meloniani che può far vincere il garantismo di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 14 agosto 2024 Il partito di Tajani in pressing su custodia cautelare e legge Severino, ma la destra ora accetta la sfida. Ancora un paio di legislature fa, se un cronista si fosse trovato ad intervistare un parlamentare del partito erede del Movimento Sociale nelle sue varie declinazioni (An, la Destra, FdI), sarebbe potuto incappare in “scivolate” giustizialiste o apertamente manettare, come ad esempio una certa simpatia per il Codice Rocco (quello arci- inquisitorio di procedura penale voluto dal regime fascista), archiviato con colpevole ritardo dall’Italia repubblicana alla fine degli anni 80 e non ancora completato da una coerente riforma dell’ordinamento giudiziario. Un’ambiguità, quella palesata dagli esponenti della destra italiana rispetto alla preferenza tra vecchio e nuovo sistema, che non è mai stata pienamente sciolta, nemmeno a valle della svolta di Fiuggi, imposta da Gianfranco Fini per entrare a far parte dei governi presieduti da Silvio Berlusconi, animati da una chiarissima spinta garantista. È noto infatti che, ogni volta che il Cavaliere e i suoi Guardasigilli tentassero di andare a boccino sulle questioni più importanti, all’appello dei voti della maggioranza mancava sempre la pattuglia di via della Scrofa. È possibile che la scomparsa di Berlusconi abbia rimosso uno degli imbarazzi più ricorrenti negli alleati di Fi (quando era il partito di maggioranza relativa), e cioè la paura dello stigma dell’opinione pubblica, di essere tacciati di subalternità al leader del centrodestra e ai suoi interessi personali. In questo senso le cose sono decisamente cambiate, nel panorama politico, con Fi che ha elaborato il lutto della morte del suo inventore e gode di ottima saluta, e la destra post- missina che è diventata primo partito. Ma proprio in virtù di quest’ultimo evento, le cose stanno cambiando soprattutto all’interno di FdI, che seppure con qualche incertezza e passo indietro (vedi quello che è successo a Strasburgo in occasione del voto per Ursula von der Leyen) sta assumendo su tutti le questioni più importanti una postura da grande partito conservatore europeo. Sulla giustizia sta accadendo qualcosa di ancor più significativo, si diceva, perché la premier Giorgia Meloni e i suoi principali collaboratori, così attenti a non scoprirsi sul fianco destro per evitare di cedere consenso alla Lega di Matteo Salvini, hanno constatato che su questo fronte l’impostazione garantista non danneggia elettoralmente i partiti che se ne fanno portatori, perché la sensibilità dell’opinione pubblica è progredita di pari passo alla conoscenza. Inoltre, come ha già fatto il ministro Nordio nella sua ultima intervista, alla Lega che oggi si sta ponendo - soprattutto sulla questione del sovraffollamento carcerario e sulla penalizzazione dei reati minori - come il partito giustizialista di maggioranza, è possibile ricordare le recenti prese di posizione, con tanto di raccolta di firme per i referendum, ad esempio sulla custodia cautelare. Altro elemento importante è che, dopo alcune incomprensioni (si parlò verso Natale scorso di una rimozione dopo le Europee), tra la presidente del Consiglio e il Guardasigilli il rapporto appare più solido e se all’inizio della legislatura la casella di via Arenula era stata il terreno dell’ultimo grande braccio di ferro tra la destra e Berlusconi, oggi la presenza di un non iscritto a Fi al ministero rappresenta verosimilmente un punto di forza per la realizzazione di riforme che vanno fatte nell’interesse di tutti. E così, con un ministro non di parte, per Meloni forse è meno problematico lasciare la golden share della politica giudiziaria del governo di fatto in mano agli azzurri, perché è innegabile che in cima all’agenda, in questo momento, ci sono i punti fissati da Fi, così come è innegabile che dentro FdI, a parte qualche distinguo, si annuisce in maniera convinta. Della separazione delle carriere si è già detto a sufficienza, con la premier che si è esposta personalmente in più di un’occasione per difenderne la bontà, anche se il ddl dovrà affrontare una difficile navigazione nei fondali bassi e melmosi delle commissioni parlamentari. Ma se si parla di custodia cautelare, per esempio, dal simpatizzare con Rocco ai principi espressi da Sergio Rastrelli, il passo è stato lungo. Intervistato dal nostro giornale, il senatore meloniano e membro della commissione giustizia non ha avuto problemi nel sottoscrivere la tesi secondo cui la carcerazione preventiva è stata usata dai Pm per costringere il governatore ligure Giovanni Toti a dimettersi, e ha ribadito la necessità, sottolineata da Nordio, di una riforma dell’utilizzo di questo istituto, che tiene in prigione attualmente il 25 % dei detenuti. Ieri il sottosegretario alla Giustizia di FdI, Andrea Delmastro, gli ha fatto eco parlando di “uso smodato” della custodia cautelare. Non mancano differenze di vedute, come quelle sugli incensurati accusati di reati nella Pa, per i quali la destra è restia a concedere un privilegio rispetto agli accusati di altri reati, ma l’impressione è che si potrà arrivare a un compromesso tra i due principali partiti di maggioranza. Lo stesso vale per la legge Severino, che ancora prevede la sospensione dall’incarico per i sindaci condannati in primo grado e che Forza Italia ha detto a chiare lettere di voler modificare. Un passo che la stessa Costituzione e il principio di non colpevolezza suggeriscono, di fronte al quale i meloniani nicchiano, ma che un grande partito conservatore di una grande democrazia liberale non esiterebbe a compiere. Custodia cautelare, forse la riforma diventerà realtà di Tiziana Maiolo Il Riformista, 14 agosto 2024 Il sovraffollamento dei penitenziari va affrontato, senza però dimenticare la principale anomalia italiana: il carcere prima del processo, togliere la libertà a chi è innocente secondo la Costituzione. Forse è la volta buona. Quel che non è riuscito a Silvio Berlusconi, una riforma della giustizia che portasse l’Italia a essere uno Stato laico e di diritto, potrebbe riuscire a un Parlamento con maggioranza di centrodestra e a un partito (Forza Italia) che, nel nome del proprio fondatore e l’orecchio sensibile all’ascolto di quel che dicono Marina e Piersilvio, sta ritrovando una vera fisionomia riformistica. Non sono più i tempi del “decreto Biondi” sulla custodia cautelare, e neanche quelli dell’avvocato Ghedini o del ministro Alfano e quelle leggi sacrosante ma poi bocciate dalla Corte Costituzionale, come quella ispirata da Pecorella sulle impugnazioni dei pm contro le assoluzioni. Forse è la volta buona. Quel che non è riuscito a Silvio Berlusconi, una riforma della giustizia che portasse l’Italia a essere uno Stato laico e di diritto, potrebbe riuscire a un Parlamento con maggioranza di centrodestra e a un partito (Forza Italia) che, nel nome del proprio fondatore e l’orecchio sensibile all’ascolto di quel che dicono Marina e Piersilvio, sta ritrovando orgoglio e una vera fisionomia riformistica. Non sono più i tempi del “decreto Biondi” sulla custodia cautelare, e neanche quelli dell’avvocato Ghedini o del ministro Alfano e quelle leggi sacrosante ma poi bocciate dalla Corte Costituzionale, come quella ispirata da Gaetano Pecorella sulle impugnazioni dei pm contro le assoluzioni. E forse il sindacato dei magistrati non è più così forte, visto che l’abolizione dell’abuso d’ufficio è ormai legge. Inoltre la magistratura genovese, che ha dato pessima prova di sé nella vicenda dell’ex governatore della Liguria Giovanni Toti, non ha la popolarità del pool di Borrelli e Di Pietro. E se è vero - come si legge - che esiste già un sondaggio in Liguria che vedrebbe prevalere ancora il centrodestra a dispetto delle indagini giudiziarie e della triste manifestazione della sinistra contro un detenuto, allora vuol dire proprio che il momento è opportuno. Se però esiste una vera volontà riformatrice, non solo in Forza Italia. Certo, il decreto carceri appena diventato legge con la firma del presidente della Repubblica ha lasciato l’amaro in bocca a chi sperava in soluzioni immediate almeno per tamponare la strage di suicidi tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria dei primi otto mesi dell’anno. È sicuramente importante quello che continua a ripetere il sottosegretario Andrea Delmastro sugli investimenti in edilizia penitenziaria e il potenziamento degli organici sia degli addetti alla sicurezza che di educatori e psicologi. Ma non esiste un problema carcere che sia separato dalla questione giustizia. E questa significa prima di tutto mettere il naso, gli occhi e soprattutto le mani nell’anomalia italiana: quella del carcere prima del processo. Possiamo chiamarla custodia cautelare, ma sempre privazione della libertà è. Cioè prigionia, del corpo e della mente, di persone innocenti secondo la Costituzione. Il ministro Carlo Nordio lo sa bene. Neppure lui pare in grado di affrontare in modo incisivo lo straordinario affollamento delle nostre carceri. E se ce lo permette, non dica che lo si risolve consentendo ai giudici di trasferire i tossicodipendenti in strutture destinate, soprattutto perché questa possibilità esiste già, oppure che il governo conta di spedire nei paesi d’origine i detenuti stranieri. Come, quando, con quali accordi tra Stati, non si sa. Gli diamo maggior credito quando giura di intendere intervenire sulla custodia cautelare. Perché il marcio sta lì, e le manette sono una forma di ricatto costante sui cittadini, almeno fin dai tempi in cui Antonio Di Pietro agitava i polsi per aria a minacciarle a imprenditori impauriti, sgranocchiando Mon Cheri. Nonostante qualche riforma sia stata fatta - almeno a partire dal 1996 e dopo il forzoso abbandono dello sfortunato “decreto Biondi” - c’è sempre quel punto critico dell’articolo 274 del codice di procedura penale, ed è quello della reiterazione del reato, una norma che puzza di incostituzionalità. Nordio non può dimenticare di esser stato presidente di quel Comitato che propose due anni fa sei referendum sulla giustizia, uno dei quali riguardava proprio quel punto. E non può dimenticarlo la Lega di Salvini, che quella consultazione popolare aveva promosso insieme al partito radicale. Giorgia Meloni era stata contraria, e con lei il suo partito. Ma ci fu un tempo in cui la destra italiana si chiamava Alleanza Nazionale, e in quel partito voluto da Gianfranco Fini che sciolse il Msi c’era un gruppo di avvocati che era entrato in Parlamento con un forte spirito riformatore. Anche oggi qualche spiraglio si vede in Fratelli d’Italia, nell’intervista rilasciata al Dubbio dal senatore Sergio Rastrelli. Il quale cita il grande Francesco Ferrara e il suo scritto “Immoralità del carcere preventivo” che definiva la custodia cautelare come “una necessaria ingiustizia”. Tornano alla memoria ex parlamentari di An come Fragalà e Simeoni, che purtroppo non ci sono più: il primo un vero riformatore ammazzato dalla mafia; l’altro - insieme a Luigi Saraceni, un ex magistrato della sinistra garantista che ora non esiste - era stato autore di un’importante legge del 1998 sulle misure alternative al carcere. Ci sono voluti trent’anni perché si risentisse anche nella destra storica qualche voce critica sulla questione identitaria della sicurezza. Nel frattempo è arrivata la Legge Severino. Anche sulla abrogazione di questa norma, prevista dal referendum del 2022, Giorgia Meloni aveva manifestato il proprio dissenso. Ma la discussione dei mesi scorsi che è sfociata nell’abolizione del reato di abuso d’ufficio, ha portato alla luce uno schieramento inedito di amministratori locali di tutti i partiti, vittime di incriminazioni che ne avevano distrutto tanti, prima del proscioglimento. La ciliegina sulla torta, che tiene insieme tutti quanti questi problemi, dalla custodia cautelare motivata con il pericolo di reiterazione del reato all’abuso d’ufficio fino alla legge Severino, è stata la vicenda di Giovanni Toti. A partire dalla quale Giorgia Meloni ha l’occasione di mostrarsi migliore e più riformatrice della sinistra di Elly Schlein e del circo Barnum messo in piazza per infierire su un prigioniero. Legge Severino, la Lega con Forza Italia: “Un intervento per cambiarla” di Paola Di Caro e Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 14 agosto 2024 L’ipotesi dell’incandidabilità solo dopo la condanna in appello. Pd contro Nordio sulle carceri; Giulia Bongiorno: “Serve un intervento”. Un Ferragosto dedicato a un’iniziativa che ha anche un titolo, “Estate in carcere”, e un lavorio sotterraneo perché la riforma della Giustizia non si fermi al decreto varato dal governo ma, come annunciato dal ministro Nordio nella sua intervista al Corriere, si vada oltre. Dal Pd il giudizio è negativo: “L’intervista conferma quanto questo governo non voglia e non sappia affrontare il tema dell’emergenza carceri. Suicidi, sovraffollamento, condizioni difficilissime per la stessa polizia penitenziaria. L’occasione era il decreto Carceri, un guscio vuoto che governo e Nordio si sono però rifiutati di migliorare”. È attivissima Forza Italia - martedì Maurizio Gasparri era a Favignana in “missione ispettiva” (ma ci saranno visite in varie carceri anche di esponenti di Avs, di Renzi e Giachetti, dei Radicali) - e non si limita al tema delle condizioni di detenzione. Come annuncia anche il responsabile dei dipartimenti azzurri Alessandro Cattaneo “alcuni aspetti della legge Severino sono da superare”. Se ne parlerà a settembre e per ora non sembrano esserci testi scritti. FdI è molto rigida mentre la Lega è possibilista, come conferma Giulia Bongiorno: “Serve un intervento”. Quello che davvero vorrebbero gli azzurri sarebbe cancellare tout court la custodia cautelare per gli accusati di corruzione. Impossibile si arrivi a tanto, ma punti di possibile mediazione esistono, come conferma il sottosegretario di FdI Andrea Delmastro quando apre: “Che ci sia un tema di bilanciamento fra amministratori locali e deputati, è evidente. Ed è vero che un intervento a gamba tesa della legge, senza neanche la seconda sentenza di merito, costituisce un problema”. E dunque, un primo punto di incontro potrebbe prevedere una sorta di “motivazione rafforzata” del giudice per chi, accusato di corruzione, debba sottostare alla custodia cautelare. Insomma, devono esserci motivi gravi. Sulla Severino, il possibile compromesso potrebbe essere quello di escludere l’incandidabilità per chi non sia condannato almeno in appello. Non più solo in primo grado, quindi. Sarebbe un passo gradito a FI. Infine, sul sovraffollamento delle carceri, Nordio ha spiegato che con rimpatri di stranieri si potrebbero avere migliaia di detenuti in meno. È estremamente difficile perché oltre ad accordi con i singoli Paesi serve anche il sì del detenuto, che raramente arriva. E allora si sta valutando l’ipotesi di abolire la richiesta di assenso. “Il ddl Nordio forse mi aiuterà, io intanto scrivo il terzo libro” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 14 agosto 2024 “Nei miei racconti ho sempre cercato di far comprendere all’opinione pubblica i meccanismi interni di funzionamento della magistratura e le sue storture. Ed è quanto ho intenzione di fare anche con questo mio nuovo libro”, afferma Luca Palamara. L’ex presidente dell’Anm, dopo “Il Sistema” e “Lobby e Logge”, scritti con Alessandro Sallusti, ha annunciato l’altro giorno di essere pronto per il terzo volume. Dottor Palamara, ha già scelto il titolo? Non ancora. Però voglio dire, visto che qualcuno me lo ha già rinfacciato, che non ho intenzione di togliermi sassolini dalle scarpe. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, nell’intervista al Corriere della Sera di ieri, ha detto che “il sistema Palamara non è stato mai rivelato in tutta la sua complessità ed estensione anche perché sia il Csm che la magistratura non hanno ascoltato le decine di testimoni, magistrati in pensione o ancora in servizio che Palamara aveva indicato”... Guardi, io sono sempre a disposizione per essere sentito dal Csm. Nei mesi scorsi un consigliere (il togato indipendente Andrea Mirenda, ndr) aveva fatto richiesta affinché fossi sentito su queste vicende. La richiesta del consigliere è stata però bocciata perché sarai stato inattendibile. Una inattendibilità preventiva, dal momento che, normalmente, un teste prima si sente e poi si valuta se quanto ha dichiarato è attendibile o meno. Anche il procuratore di Napoli Nicola Gratteri ha ribadito che è improprio parlare di caso Palamara perché non è cambiato nulla e ha pagato solo lui. Dopo quello che è successo avrebbero dovuto dimettersi tutti i componenti del Csm”. Come invece è andata lo sapete. Sono passati cinque anni da quando le contestazioni della Procura di Perugia nei suoi confronti divennero di pubblico dominio. In questa vicenda un ruolo importante lo hanno giocato i mezzi d’informazione, pubblicando sul suo conto, per settimane, intercettazioni e atti coperti da segreto. Cosa pensa? Il 29 maggio del 2019 ai magistrati italiani gli organi di informazione di riferimento hanno raccontato di apocalittici episodi di corruzione al Csm e di nomine che venivano vendute per decine di migliaia di euro. Ovvio che all’interno della magistratura ci sia stato in quel momento chi ha voluto cavalcare l’onda terrorizzando chi non si allineava a quella linea di pensiero. Oggi quegli stessi organi di informazione che in tutti questi anni non hanno mai dato notizia delle mie ripetute assoluzioni nei processi, si ricordano di me pensando alla mia felicità perché sarei fra i beneficiari del ddl Nordio, che ha modificato la disciplina del traffico di influenze illecite, eliminando dal panorama normativo un reato dai caratteri evanescenti, così come da sempre riconosciuto da tanti giuristi e magistrati. Dica la verità, è contento di questa riforma? La mia felicità non proviene dal ddl Nordio, materia sulla quale si cimenteranno i miei legali, sia nell’ambito dell’esecuzione penale che sul piano disciplinare innanzi al Csm (competente per la revisione della sentenza con cui è stata disposta la rimozione di Palamara dalla magistratura, ndr), ma dal fatto che gli stessi giudici che si sono occupati del mio caso hanno già escluso qualsiasi corruzione al Csm sul versante delle nomine, nonché qualsiasi strategia di discredito a danno dei magistrati della Procura di Roma. Personalmente questo mi ha reso felice perché quello è stato e sarà sempre il mio ufficio, nel quale ho lasciato tante persone a cui sono visceralmente legato avendo con loro condiviso momenti fondamentali della mia vita professionale. Nella sua vicenda c’è anche una sorta di “contrappasso”: Piercamillo Davigo, che è stato suo giudice disciplinare, a sua volta è finito per essere condannato in sede penale... Io penso che, all’inizio di questa storia, in quel momento, una parte dell’informazione all’interno della magistratura che conta sia stata molto abile ad alzare un polverone, che in qualche modo ha finito per narcotizzare diversi magistrati. Davigo, che notoriamente ha legato la sua carriera alle indagini e non alla politica associativa, ha inteso cavalcare l’onda perché immagino che molti, all’interno di quel Csm, gli abbiano contestato le sue posizioni a favore del dottor Marcello Viola, che all’epoca concorreva per la Procura di Roma. E cosa è successo? Improvvisamente ha dovuto fare retromarcia prendendosela con il collega Sebastiano Ardita, reo, a suo dire, di avergli fatto votare Viola. Ma a sua volta Davigo è rimasto impigliato nella vicenda dei verbali della fantomatica loggia Ungheria. E non dimentichiamo che, a proposito della conoscenza del contenuto di quei verbali, nella stessa situazione di Davigo si trovava un componente laico, di cui in questa sede non voglio fare il nome, sulle cui modalità di elezione in quel Csm c’è ancora molto da raccontare. E come sempre anche su questo mi rendo disponibile ad essere audito nelle sedi competenti. Torniamo all’abolizione dell’abuso di ufficio. Teme che, come dicono i vertici dell’Anm, possa portare a rendere impuniti i comportamenti degli amministratori pubblici? Premesso che bisogna garantire il rispetto della legge da parte di tutti i cittadini, e quindi anche da parte degli amministratori pubblici, allo stesso tempo bisogna però consentire alle amministrazioni di poter operare, perché altrimenti si crea quella paura della firma che blocca l’adozione di qualsiasi provvedimento. Ha seguito la vicenda di Giovanni Toti? Sì. La politica a mio avviso non dovrebbe sottovalutare quanto accaduto, ritenendolo un fatto isolato. Con l’attuale sistema dei finanziamenti alla politica a rischiare possono essere in molti, e ciò a prescindere dalle annunciate modifiche sulle misure cautelari. Ha ancora interesse a entrare in politica? Io penso che i temi da me trattati inevitabilmente finiscano per avere un risvolto politico. Indubbiamente sono tematiche difficili da maneggiare ma, al netto dei risultati poco lusinghieri delle recenti mie esperienze elettorali, colgo sempre un grande interesse da parte dei cittadini, curiosi di comprendere come funzionino i meccanismi interni al sistema di potere delle correnti nella magistratura. D’altronde esistono tanti modi di fare politica, non necessariamente nei palazzi. Si può fare politica anche in una serata in piazza con persone interessate ad ascoltare. È cambiato qualcosa nel Csm? Ciò che balza all’occhio è l’aumento dei ricorsi innanzi al giudice amministrativo... Io penso che la magistratura abbia bisogno di una nuova classe dirigente staccata dalla correntocrazia che, purtroppo, ancora la pervade nei suoi meccanismi decisionali. Nonostante lo sforzo degli attuali componenti, è il sistema ad essere incentrato sulla correntocrazia, che inevitabilmente finisce per valorizzare l’appartenenza rispetto al merito, col conseguente ricorso al giudice amministrativo. Alle nuove generazioni il compito di affrontare l’ardua impresa del rinnovamento. Mi permetta, prima di concludere, di fare un in bocca al lupo ai giovani che il mese prossimo dovranno sostenere le prove scritte per il concorso. Anche sulla gogna per Turetta padre ha vinto l’ipocrisia (e il dio business) di Andrea Granata* Il Dubbio, 14 agosto 2024 I richiami alla dignità rivolti dal Garante della Privacy sarebbero stati ignorati, senza i riferimenti al caso di femminicidio: l’industria di “sputtanopoli” è troppo fiorente. Solo qualche giorno prima che scoppiasse il caso delle intercettazioni della conversazione tra Filippo Turetta e i suoi genitori, il Garante della Privacy aveva tenuto la relazione annuale dell’Autorità da lui presieduta. Nel suo discorso il presidente dell’Authority, il Dottor Pasquale Stanzione, aveva sostanzialmente sparato a palle incatenate sul trattamento dei dati giudiziari. La relazione del Garante, senza il clamore suscitato dalla diffusione delle intercettazioni tra padre e figlio, avrebbe con ogni probabilità fatto la fine delle lacrime nella pioggia evocate nel finale di Blade runner. Sia chiaro, non ci illudiamo, la vicenda Turetta sarà tutto meno che un punto di non ritorno per l’informazione italiana, basta osservare i cosiddetti garantisti che, come da copione, hanno prudentemente pagato dazio alla piazza premettendo di non condividere il tenore del colloquio tra padre e figlio, per poi, solo alla fine, porsi il problema di principio sull’opportunità della divulgazione di quel colloquio. Sì, con la moderazione che solo la categoria dei moderati sa esprimere, si è voluto evitare di dare l’impressione che, pur di difendere un principio, si sia disposti a censurare e quindi non divulgare ulteriormente contenuti che non avrebbero dovuto essere resi noti. Certo, se l’affaire Turetta almeno servisse per tornare su quanto il Garante della Privacy aveva evidenziato solo qualche settimana prima nella propria Relazione, non tutto il male verrebbe per nuocere. E pensare che i temi trattati dal Garante nel documento presentato a inizio luglio sono di quelli che hanno un grande impatto nella vita di tutti i giorni degli italiani, al punto che, se si parla di divulgazione dei dati giudiziari, si tocca un vero e proprio campo minato, di cui è opportuno discettare con estrema cautela o preferibilmente non parlare, se non si vuol passare per “garantisti” o peggio amici di corrotti o mafiosi. Il tema che davvero andrebbe evidenziato è che, affrontando certi temi, si rischia di assestare un colpo alla fiorente industria dello sputtanamento mediatico, un vero e proprio comparto economico il cui indotto, oggi, per quanto difficilmente quantificabile, è tra quelli che danno maggiore soddisfazione ai propri addetti. A evocare lo ius sputtanandi, la cui fonte è l’avvio di un’inchiesta giudiziaria, si rischia di porsi in contrasto con interessi consolidati, rispetto ai quali le temutissime lobbies di tassisti e balneari rischiano di fare la figura di un’inoffensiva squadra di boy scout. Il Dottor Stazione, seppur conscio che le sue parole non avrebbero avuto alcuna apprezzabile conseguenza, ha detto cose indicibili a proposito dell’uso delle intercettazioni telefoniche, “la cui divulgazione può ledere, e non poco, la dignità della persona”, soprattutto se si tratta di conversazioni “prive di reale interesse pubblico”, per poi lanciarsi in un affondo: “La sfida della democrazia è, infatti, proprio nel coniugare la pietra angolare del diritto di (e all’) informazione con la dignità personale (di cui la protezione dei dati è peculiare espressione): tanto più in un ordinamento, come il nostro, dalla vocazione intrinsecamente personalista”. Diciamo subito che condividiamo a pieno le parole del Garante della privacy, mentre troviamo inaccettabile che argomenti come quelli trattati dal vertice dell’authority possano essere affrontati solo in una dimensione quasi “esoterica”. Sì, perché di questo la politica non può e non deve occuparsi, e quando se ne occupa lo fa dando alle inchieste giudiziarie il mistico ruolo di riti purificatori, rispetto a cui ogni tentativo di ragionare sull’uso di notizie non penalmente rilevanti altro non è che un sacrilego tentativo di imbavagliare gli oracoli di turno. Poco importa se, oltre al Garante di un’autorità indipendente, anche organismi di altra natura come la Corte internazionale dei Diritti dell’uomo abbiano detto cose precise sull’uso sconsiderato, per non dire altro, delle intercettazioni nei confronti di persone non coinvolte nelle indagini. Hai voglia ad usare espressioni dotte come concezione antropocentrica, commentando il discorso del Garante della Privacy: qui c’è un fatturato da mantenere, delle prebende da assicurare, che non possono essere imbavagliati tra una pausa per gli acquisti e l’altra. *Avvocato Veneto. Da Padova a Verona, l’inferno in carcere: “Come canili” di Roberta Polese e Angiola Petronio Corriere del Veneto, 14 agosto 2024 Penaliste in visita al Due Palazzi: “Strutture vecchie”. Bisinella e Tosi a Montorio “Rischio rivolte”. Verona e Padova, due carceri diverse, ma con la stessa emergenza: sovraffollamento e il caldo infernale. Ieri due delegazioni di politici e avvocate li hanno visitati. “Quando sono entrata ho avuto l’impressione di trovarmi in un canile: caldo soffocante, corridoi stretti e lunghi e moltissimi detenuti che non possono fare alcuna attività, alcuni sono in sei in una sola cella”. Paola Rubini, avvocata presidente della Camera penale di Padova, insieme alle colleghe Annamaria Alborghetti, Paola Menaldo e Carlotta Nardin hanno passato tutta la mattinata di ieri al Due Palazzi di Padova, prima in casa circondariale, dove ci sono i detenuti in attesa di giudizio, e poi in casa di reclusione, dove ci sono quelli con pena definitiva. Nella prima struttura ci sono 210 persone (la capienza è di 188), nella seconda ce ne sono 535 (capienza 440). “Le strutture sono vecchie, l’aria condizionata non c’è e nella casa di reclusione c’è solo negli spazi comuni, troppi detenuti passano il tempo senza poter fare niente, inoltre - spiega - il presidio sanitario non è all’altezza della quantità di persone che ci sono, e delle loro patologie psichiatriche che vengono trascurate” afferma Rubini. “Nel decreto carceri di Nordio non c’è nulla che possa migliorare la situazione aggiunge Alborghetti - è un contenitore vuoto: qui i detenuti in attesa di giudizio, che sono persone non hanno ancora una pena definitiva e quindi innocenti fino a prova contraria, stanno peggio di quelli che hanno la pena definitiva”. A Montorio il sovraffollamento è del 182%. Ieri hanno visitato il carcere l’eurodeputato e coordinatore regionale di Forza Italia Flavio Tosi, l’onorevole Paola Boscaini e la capogruppo comunale della lista civica Fare! Patrizia Bisinella, che nella casa circondariale sono andati per l’iniziativa forzista “Estate in carcere”. Hanno visitato la prima sezione Tosi, Boscaini e Bisinella. Ha ripetuto due volte “terribile”, l’onorevole Boscaini, riferendosi al caldo che ammanta le celle di Montorio. “È impossibile resistere e non riescono a mettere i ventilatori perché mancano le prese della corrente”, ha spiegato al termine della visita. “C’è una grandissima difficoltà strutturale - le sue parole. Soprattutto c’è difficoltà a far arrivare i soldi per le manutenzioni ordinarie e straordinarie, nonostante le richieste siano state fatte”. E quel caldo asfissiante non è amplificato solo dalla mancanza di prese per i ventilatori, ma anche da un altro problema. “Ho visto tanti pavimenti di cemento, anche nelle celle. In alcune non ci sono le piastrelle. È vero - ragiona la deputata forzista - che i detenuti sono persone che devono scontare una pena, però il carcere dovrebbe avere l’obiettivo di recuperarle. Se tu dai un luogo con queste temperature, in celle piccole dove ci sono dentro tre persone, è logico che poi aumenti la violenza, l’incapacità di sopportazione e si rivoltino”. Montorio ha portato a 600 detenuti, ma ne dovrebbe ospitare 335. Verona. A Montorio celle roventi. “Così c’è il rischio di rivolte” di Angiola Petronio Corriere di Verona, 14 agosto 2024 Tosi, Boscaini e Bisinella (FI): “Manca il lavoro per i detenuti, il Comune si dia da fare”. “Un caldo a cui è impossibile resistere e non riescono a mettere i ventilatori perché mancano le prese della corrente”. Il luogo è il carcere di Montorio e a raccontare le condizioni in cui stanno vivendo i detenuti sono l’eurodeputato e coordinatore regionale di Forza Italia Flavio Tosi, la deputata Paola Boscaini e la capogruppo comunale di Fare! Patrizia Bisinella. “In alcune celle per terra c’è il cemento”, denunciano e chiedono che s’implementi l’occupazione per i detenuti. Una caienna. Con un sovraffollamento del 182%, dato della camera penale. E che diventa un girone infernale con il caldo. È l’agosto del solleone anche dentro il carcere di Montorio. E ieri lo hanno constatato di persona l’eurodeputato e coordinatore regionale di Forza Italia Flavio Tosi, l’onorevole Paola Boscaini e la capogruppo comunale della lista civica Fare! Patrizia Bisinella, che nella casa circondariale sono andati per l’iniziativa forzista “Estate in carcere”. Hanno visitato la prima sezione Tosi, Boscaini e Bisinella. Ha ripetuto due volte “terribile”, l’onorevole Boscaini, riferendosi al caldo che ammanta le celle di Montorio. “È impossibile resistere e non riescono a mettere i ventilatori perché mancano le prese della corrente”, ha spiegato al termine della visita. “C’è una grandissima difficoltà strutturale - le sue parole -. Soprattutto c’è difficoltà a far arrivare i soldi per le manutenzioni ordinarie e straordinarie, nonostante le richieste siano state fatte”. E quel caldo asfissiante non è amplificato solo dalla mancanza di prese per i ventilatori, ma anche da un altro problema. “Ho visto tanti pavimenti di cemento, anche nelle celle. In alcune non ci sono le piastrelle. È vero - ragiona la deputata forzista - che i detenuti sono persone che devono scontare una pena, però il carcere dovrebbe avere l’obiettivo di recuperarle. Se tu dai un luogo con queste temperature, in celle piccole dove ci sono dentro tre persone, è logico che poi aumenti la violenza, l’incapacità di sopportazione e si rivoltino”. Montorio, le cui “emergenze” sono ormai diventate croniche, come quel sovraffollamento che ha portato a 600 detenuti una struttura che ne dovrebbe ospitare 335, o l’età media dei detenuti che si sta vertiginosamente abbassando. O, ancora, la presenza sempre più massiccia di tossicodipendenti o persone con problemi psichiatrici. “L’altra cosa importante, che stiamo affrontando in Parlamento, è che, ad esempio. la metà dei detenuti a Montorio non ha ancora chiuso l’iter processuale e quindi non ha una condanna definitiva. Allora ci si chiede se queste persone debbano veramente stare tutte in carcere”. Ragionamento, quello di Boscaini, che fa il paio con quanto dichiarato ieri dal ministro della Giustizia Carlo Nordio in un’intervista al Corriere della Sera. “Sulla custodia cautelare tutta la materia va rivista”, le parole del Guardasigilli. Con Tosi e Boscaini che hanno ribadito come “con il decreto carceri aumenterà lo stipendio dei dipendenti, migliorerà la situazione dei medici che operano nei penitenziari e saranno semplificate le procedure per costruirne di nuove o fare interventi strutturali straordinari. Ma ciò che ci rende particolarmente orgogliosi è aver previsto per gli ultra-settantenni, per i malati terminali, per i condannati gravemente ammalati misure cautelari alternative. E questo è stato voluto soprattutto da Forza Italia”. Non hanno parlato con i detenuti Tosi, Boscaini e Bisinella. Ad accompagnarli tra le celle della prima sezione c’era Claudio Mazzeo, direttore del carcere Due Palazzi di Padova che sostituiva la direttrice della casa circondariale veronese, Francesca Gioieni, in ferie. E il paragone tra i due penitenziari ha dato il “la” a Flavio Tosi e Patrizia Bisinella per apire un altro fronte su Montorio. “A Padova la maggioranza dei detenuti, o in esterno o all’interno, lavora. Qui lo fanno solo alcune decine su seicento. In questo caso è il Comune che deve fare da cinghia di trasmissione con il territorio. È il Comune che deve chiamare le categorie per creare le opportunità di lavoro”. Tosi e Bisinella che meno di un mese fa in quel carcere hanno fatto arrivare 11 tonnellate di piastrelle per rifare le docce. “In una sezione i lavori sono partiti”, l’annuncio. Al termine della visita l’inevitabile domanda sui detenuti definiti “vip” della casa circondariale di Montorio e la risposta tranciante di Tosi: “Francamente ci preoccupiamo molto di più degli altri detenuti. Chico Forti? I privilegiati si tengano i privilegi, noi pensiamo alle persone comuni”. Torino. Nell’inferno del carcere Lorusso e Cutugno: “Caldo e scarafaggi, va ricostruito da zero” di Pier Francesco Caracciolo e Ludovica Lopetti La Stampa, 14 agosto 2024 La denuncia di avvocati, Comune, Pd e della delegazione di “Nessuno tocchi Caino”: spazi sovraffollati, mortificati anche gli agenti. Un carcere con 1.500 detenuti a fronte di una capienza massima di 1.100 persone, 200 agenti di polizia penitenziaria in meno, carenze igienico-sanitarie e impossibilità di procedere a normali interventi di manutenzione. È la fotografia scattata dalla delegazione di esponenti politici e dell’avvocatura al termine della visita di martedì 13 agosto al Lorusso e Cutugno promossa da Movimento Forense, Nessuno tocchi Caino, Camera penale del Piemonte e con il sostegno del Consiglio dell’Ordine forense di Torino. È l’immagine di un carcere che per Nadia Conticelli, consigliere regionale del Pd, “andrebbe raso al suolo e rifatto da capo”. “La situazione - ha osservato Maria Grazia Grippo, presidente del consiglio comunale - è tale da mortificare la buona volontà e l’intraprendenza dell’amministrazione e del personale che ogni giorno si confronta con questi problemi”. “Abbiamo percepito con chiarezza - ha aggiunto Grippo - il grande impegno profuso dalla direttrice anche sotto il profilo umano. Gli spazi sono inadeguati e sovraffollati. Tempo fa furono stanziate risorse per opere di ristrutturazione, ma serve anche la manutenzione ordinaria”. La delegazione, in cui era presente anche Chiara Gribaudo, vicepresidente del Partito democratico, ha potuto visitare soltanto una parte del padiglione B (considerato uno dei più tranquilli) e la sezione femminile, oltre ai locali dell’accoglienza e dell’immatricolazione. Nel padiglione C, invece, si sono registrati momenti di tensione durante la consegna e la distribuzione della spesa fra i reclusi: per questo motivo i componenti della delegazione non hanno potuto essere accompagnati. La dem Anna Rossomando, vice presidente del Senato, ha evidenziato il problema, che si trascina ormai da tempo, relativo all’organico della polizia penitenziaria: “Per una struttura come questa 200 unità in meno sono tante. È la testimonianza che le cinquecento che sono state promesse per il 2025/26 con altre cinquecento per il 2026/27 sono soltanto acqua fresca”. Durante la sua visita di qualche giorno fa il garante regionale delle persone private della libertà, Bruno Mellano, aveva posto l’accento sulla necessità di garantire le misure alternative. “Tra i detenuti c’è grande aspettativa per la liberazione anticipata - ha aggiunto Anna Rossomando. Ma attualmente ne escono pochi rispetto a coloro che ne avrebbero diritto e su questo fronte sono necessari provvedimenti urgenti”. La nota diffusa dal Partito democratico evidenzia poi come “i percorsi di reinserimento restano un miraggio”. Il dito è puntato non solo “alle carenze di organico” ma anche “alla mancanza di volontà politica di investire su percorsi reali di recupero, mentre aumenta anche il numero dei bambini detenuti con le madri, a oggi sei a Torino”. Le condizioni del carcere Lorusso e Cutugno sono state poi riassunte dall’avvocato Maurizio Basile in una circostanza riferita da un detenuto: “Mi ha raccontato che d’estate lasciano la finestra della loro cella aperta per via del caldo, ma sono stati costretti ad applicarvi un grosso pezzo di cartone incollato con del dentifricio: il motivo è che bisogna evitare che dal muro sbuchino gli scarafaggi”. Milano. Presunti maltrattamenti nel carcere di Opera, nuove denunce dei detenuti di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 14 agosto 2024 E a San Vittore la visita delle Camere Penali. Acquisite dalla procura altre segnalazioni, dopo le prime due depositate dal Garante. La procura ha acquisito nuove segnalazioni sul carcere di Opera, nell’ambito dell’inchiesta per maltrattamenti condotta dalle pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena, le stesse magistrate che indagano sulle presunte torture al minorile Beccaria. Dopo le prime due denunce depositate dal Garante per i detenuti Francesco Maisto a fine di luglio, che hanno dato il via all’inchiesta, sono meno di una decina adesso le segnalazioni al vaglio degli inquirenti. La prima lettera anonima depositata il mese scorso dal garante riportava le parole di un detenuto che denunciava all’interno dell’istituto penitenziario una “violazione totale dei diritti umani. Ci trattano come animali, non vedo cambiamenti. Ieri sera hanno picchiato uno in venti con manganelli e asta di ferro. Non avrei mai pensato né immaginato una cosa del genere. Vorrei fare dei reclami tramite Antigone. Da otto giorni non vedo un medico e sto molto male. Se va avanti così faccio lo sciopero della fame”. “È un cimitero ma di persone vive”, ha detto di recente la delegazione dei Radicali che ha visitato il carcere di Opera. “Su metà dell’istituto picchia il sole da mezzogiorno alla sera, i detenuti provano a mettere teli e lenzuoli sulle finestre ma non funziona. Di giorno si muore, e la sera fa effetto termosifone. Ci sono tre docce per 50 persone”. E poi c’è il drammatico problema dell’assistenza sanitaria in un luogo sovraffollato: 1.385 detenuti a fronte di una capienza di 918. La Camera penale di Milano ha annunciato che domani, 14 agosto, è prevista una visita al carcere di San Vittore alla quale parteciperanno una delegazione di avvocati, il presidente della Camera penale milanese, alcuni consiglieri dell’Ordine degli avvocati, coinvolgendo anche parlamentari e consiglieri regionali e invitando la magistratura di sorveglianza. L’auspicio è quello di “poter condividere questo momento di preoccupazione e di testimonianza. Intendiamo continuare a dare voce a chi voce, purtroppo, non ha. È quanto mai necessario ricordare, soprattutto a quanti hanno diretta responsabilità sulla vita delle persone private della libertà personale, come le condizioni detentive inumane e degradanti, certificate dall’accoglimento di numerosissimi reclami, divengano ancora più insopportabili durante il periodo estivo”. Bolzano. Carcere a pezzi, ma a breve parte il risanamento di Chiara Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 14 agosto 2024 Ieri il sopralluogo di Foppa e Valcanover “Infiltrazioni, la situazione è impressionante Inagibile l’area per le persone in semilibertà”. “La gru è stata montata: il 26 agosto partiranno i lavori per il rifacimento del tetto e della facciata e, cosa ancora più importante, delle docce”. A dare, finalmente, una buona notizia per quel che riguarda la casa circondariale di Bolzano è Brigitte Foppa, consigliera provinciale dei Verdi, che ieri ha visitato la struttura di via Dante insieme all’avvocato e storico radicale trentino, Fabio Valcanover. “La gru è stata montata: il 26 agosto partiranno i lavori per il rifacimento del tetto e della facciata e, cosa ancora più importante per chi sta all’interno, delle docce. Saranno comuni, non nelle singole celle, cosa che sarebbe molto importante perché, si sa, la doccia comune è sempre anche un luogo di violenza”. A dare, finalmente, una buona notizia per quel che riguarda la casa circondariale di Bolzano è Brigitte Foppa, consigliera provinciale dei Verdi, che ieri ha visitato la struttura di via Dante insieme all’avvocato e storico radicale trentino, Fabio Valcanover. Il quale ricorda come, in realtà, il tema delle docce sia legato a quello generale dei servizi igienici: “Solo in due celle sono nettamente separati dal luogo dove si dorme. Nelle altre, il luogo dove si lavano i piatti è a 20 centimetri dal gabinetto. Il Ministero voleva un carcere di grande portata, ma la Provincia ha detto no. Si è così esaurito il percorso per istituirne uno nuovo, e si interverrà sul vecchio. Cosa doverosa e urgente”. Il primo stanziamento - Il che spiegherebbe, in parte, il ritardo con cui si è deciso di intervenire. Ora però uno stanziamento c’è: 98 mila euro per i primi lavori che inizieranno a fine mese (anche se non è stata comunicata la data entro la quale saranno finiti). Secondo Foppa, non si sarebbe potuto aspettare oltre. “Lo stato della struttura è impressionante. Non solo per quel che riguarda la sua fatiscenza, ma soprattutto per le infiltrazioni d’acqua che renderebbero inabitabile per chiunque altro tutta un’ala dell’edificio. Alcune celle sono state dismesse, perché all’interno non si riesce neanche respirare a causa della muffa”. E con il caldo, le cose non migliorano. “La struttura è vecchia, e con muri spessi - continua la consigliera dei Verdi -, per questo non c’è l’afa che c’è in altri edifici. C’è qualche ventilatore, ma non un sistema di climatizzazione. E l’ammassamento è tremendo”. La semilibertà - I detenuti sono 101, a fronte di una capienza di 88 posti. Il 60% assume farmaci in modo continuativo, il 35% psicofarmaci, e il 60-70% dei reati contestati è legato a droghe o dipendenze. “Trattandosi di una casa circondariale - spiega Valcanover -, dovrebbero esservi detenute persone con condanne non definitive o comunque con pene non superiori ai 5 anni. Certo, non è una norma tassativa, ma logica, e ci sono sempre contraddizioni nel sistema. Solo che in questo caso, quasi tutti i detenuti, 81 su 101, hanno pene definitive”. Inoltre, continua Foppa, “cinque sono in regime di semilibertà. Il che significa che durante il giorno escono a per lavorare, e fanno rientro la sera. Per loro, esisterebbe una stanza apposita, per altro un luogo abbastanza decente, ma al momento, è inaccessibile a causa di una scala pericolante”. Il che significa che sono costretti a dormire insieme agli altri. Il garante - Una delle questioni di cui i detenuti si sono informati, ieri mattina, con Foppa e Valcanover, è quella del garante comunale. Figura che manca da oltre un anno: a giugno dello scorso anno, il sindaco Renzo Caramaschi aveva revocato l’incarico all’allora garante, Elena Dondio, a seguito della sua candidatura alle provinciali con i Verdi. Per il sindaco, era “venuto meno il rapporto di fiducia”. Sul punto, Foppa chiede di accelerare: “Qualcuno deve difendere il diritto dei detenuti a una decente sopravvivenza”. Le camere di sicurezza - Oltre al sovraffollamento, il carcere di via Dante soffre di carenza di organico. “Sono previsti 75 agenti di polizia penitenziaria - chiarisce Valcanover -, ma ne sono presenti solo 55, con turni da otto ore anziché sei. Gli amministrativi sono 8 su 23. Uno dei problemi principali è quello degli arresti notturni: le persone in attesa di convalida, per definizione, in carcere non ci dovrebbero entrare (in attesa del pronunciamento del giudice sulla misura cautelare, ndr)”. Anche perché per gli agenti significa dover avviare tutto l’iter burocratico per registrare il nuovo arrivato e aprire le celle; per i detenuti essere svegliati nel cuore della notte; per il nuovo arrivato trascorrere una notte in carcere per poi, spesso, essere liberato il giorno dopo. “Finalmente - afferma l’avvocato - carabinieri e Questura si sono attrezzati con le camere di sicurezza”. Nota positiva, osservano Foppa e Valcanover, è il “clima di umanità all’interno della struttura. A Trento, il carcere è migliore, ma il clima tremendo. E l’uso di psicofarmaci molto più massiccio. Servirebbe un provveditore regionale”. Psichiatria. Fermare una tragica nostalgia di manicomio, e reagire di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 14 agosto 2024 Il governo vuole rottamare la legge Basaglia. Le proposte di legge di Fdi e Lega in materia di salute mentale rimandano ai vecchi manicomi, con una visione securitaria della psichiatria. Nel centenario della nascita di Franco Basaglia in commissione Affari sociali del Senato sono all’esame due provvedimenti targati Lega e Fratelli d’Italia e che sollevano critiche dalle associazioni del settore, oltre che dalle forze di opposizione in Parlamento perché “stravolgerebbero peggiorandola la legge 180”, quella che ha determinato la chiusura dei manicomi. Carla Ferrari Aggradi, psichiatra e presidente del Forum salute mentale, ci spiega i motivi delle contrarietà alle due proposte che anche la sua associazione ha rilevato, illustrando anche parte del contenuto dei due progetti di legge. “Ci sono due concetti di fondo che si ripetono in modo diverso - afferma -: nel disegno di legge di Fratelli d’Italia traspare l’idea che il servizio psichiatrico debba essere finalizzato alla difesa di operatori, familiari e pazienti dalla violenza e dall’aggressività, e che quindi debba essere pensato con criteri securitari e difensivi. Non vengono invece date le risposte che la vita di un paziente e il suo vissuto di dolore richiedono. Se si è troppo occupati nella difesa, non si può dare aiuto”. “Nell’altro provvedimento, quello targato Lega - prosegue - l’idea di fondo è quella di un’impostazione non di collaborazione col privato, ma di grande presenza del privato stesso di tutti i tipi e generi nel servizio sanitario, compreso quello psichiatrico. Noi siamo per un servizio sanitario psichiatrico pubblico universalistico per tutti, anche se poi sicuramente ci può essere la collaborazione col privato sociale, una collaborazione però all’interno delle linee che il sistema sanitario nazionale prevede, con la prevalenza del pubblico sul privato. Invece nel pensiero alla base della legge della Lega prevale il passaggio al privato”. Tso, posti letto e comunità - Ferrari Aggradi poi, nel concreto, porta alcuni esempi delle norme in questione. Per quanto riguarda il provvedimento di Fratelli d’Italia intanto si aumentano i giorni di trattamento sanitario obbligatorio che può essere fatto all’interno di un reparto di psichiatria e anche nelle carceri, con l’istituzione negli istituti di pena di sezioni sanitarie specialistiche. Addirittura, c’è un articolo sulle misure di sicurezza che manda in capo gli interventi al ministero dell’Interno e al ministero della Giustizia, d’intesa con il ministero della Sanità. Queste sono cose che ci riportano la legge del 1904, che si reggeva praticamente sugli ospedali psichiatrici e sul ricovero coatto. Quello della Lega propone il dirottamento delle risorse dal pubblico al privato. “Io vivo in Lombardia - ci dice la presidente del Forum - dove il terzo settore non è che collabora con pubblico, ma praticamente fornisce tutti i servizi. Questo significa che tutto il flusso economico che dovrebbe andare verso i servizi territoriali (questo sarebbe il concetto fondamentale che non compare in nessuno dei due disegni di legge) va a finire verso il terzo settore, che ovviamente fornisce posti letto e comunità. Nelle norme depositate non c’è nessuna critica a questo sistema. Anche nel testo di FdI, continua, “c’è una prevalenza del ruolo svolto dalle comunità, dai luoghi di residenzialità, rispetto ai servizi territoriali. C’è una continua sottolineatura del bisogno di posti letto: qualcuno mi deve spiegare perché il paziente con disagio psicologico, psichico, psichiatrico ha bisogno di un posto letto. Non c’è tutto questo bisogno di posti; ci può essere bisogno di qualche spazio dove magari alcuni pazienti possano passare i giorni più difficili della loro vita, questo sicuramente non lo nega nessuno, ma da qui a spostare tutte le risorse economiche ai posti letto c’è una bella differenza”. Odor di manicomio - Alle parole di Carla Ferrari Aggradi la mente va ai manicomi nei quali ai letti i pazienti psichiatrici venivano barbaramente legati come unica misura di contenimento. “Non c’è nessun riferimento all’abbandono della contenzione in entrambi i provvedimenti - ci spiega allora la psichiatra - e noi diciamo che non va bene, nemmeno quella controllata. Nei disegni di legge che invece noi appoggiamo il cambiamento consiste proprio nell’abolizione del contenimento”. E ancora: “Non si fa nemmeno cenno ai reparti chiusi, mentre i reparti devono essere aperti. L’idea di riconoscimento dei diritti dei pazienti non c’è nelle due proposte di legge, mentre questo dovrebbe essere il fulcro centrale di un buon servizio psichiatrico, il riconoscimento dei diritti di cittadinanza delle persone che soffrono anche di disturbo psichiatrico grave. Oltre il danno la beffa - Come già ricordato, i due provvedimenti vengono presentati proprio nel centenario della nascita di Basaglia, colui che diede il nome alla legge che abolì i manicomi in Italia. La nostra interlocutrice vede, oltre a una provocazione, anche l’ipocrisia: “In quello della Lega si dice che la 180 va bene, che non si vuole attaccarla, ma praticamente la si smonta”. Alcun elementi fanno poi pensare alla scarsa conoscenza della materia da parte del legislatore. “Colpisce il fatto - fa notare Ferrari Aggradi - che in entrambi i testi di legge si fa confusione tra quello che è salute mentale, tutto quello che si deve fare per il mantenimento della salute mentale, e la risposta sanitaria a un disturbo conclamato. Si usano quasi indifferentemente le due dizioni, mentre la salute mentale è il benessere della persona, mentre la psichiatria interviene quando la persona sta male, non c’è identità fra i due concetti”. Un altro passo verso l’autonomia differenziata - “Per motivi politici chiari - prosegue - non fanno riferimento al disastro che ha portato la regionalizzazione della sanità, quindi anche dei servizi psichiatrici, e ha generato a 21 risposte diverse. Con l’autonomia differenziata sarà ancora peggio, questo è fuori discussione. Il servizio psichiatrico, come tutta la sanità, deve essere nazionale. Servono certamente degli accorgimenti a seconda delle differenze e dei bisogni territoriali, ma l’offerta di servizi deve essere uguale, non si può andare sotto certi livelli essenziali”. La presidente del forum fa presente poi che “almeno il 5% della spesa sanitaria dovrebbe andare alla psichiatria, mentre ora, ad esempio in Lombardia, si prevede che passerà dall’attuale che adesso 2,7% al 2,4% e comunque la spesa sanitaria è diminuita in generale. Le coperture previste dai provvedimenti non sono sufficienti, anche perché bisogna aumentare il personale, lo dicono tutti”. E, sempre citando la sua Regione: “Non si dice mai che per anni non sono stati fatti i bandi di concorso, non sono stati assunti operatori. Non si dice che si è preferito medicalizzare, privilegiare diagnosi e farmaco e se non basta allora si passa al ricovero volontario e se ancora non basta al trattamento sanitario obbligatorio. Per anni si è perseguita questa politica di impoverimento territoriale”. Il lavoro degli operatori: formazione e assunzioni - Ferrari Aggradi punta l’attenzione sulla qualità del lavoro di chi opera nel settore delle cure mentali. “Per anni i bandi di concorso in Lombardia andavano deserti - afferma - mentre a Trieste avevano le file di gente che andava a fare i concorsi, questo perché dove si lavora bene la gente vuole andare a lavorare, mentre è ovvio che altrimenti tutti scappano dai servizi di psichiatria. A volte, altrettanto ovviamente, chi entra nel servizio cerca di avere un contratto a tempo indeterminato e poi si trasferisce dove si lavora meglio. Bisogna iniziare ad assumere chi già lavora, tecnici, psicologi, psicoterapeuti”. Quindi il tema della formazione degli operatori che la psichiatra ritiene fondamentale: “Se sono formati in termini securitari non facciamo un buon servizio. Deve invece prevalere l’idea che la salute è un diritto e anche la malattia è un diritto, che c’è un diritto alla migliore cura possibile, al riconoscimento della storia dell’individuo e della sua vita, un diritto a essere curati dove si vive. Cominciamo a formare gli operatori su questi princìpi e a dire che le persone vanno ascoltate nelle loro esigenze, nel loro dolore, nelle loro sofferenze, perché altrimenti è inutile parlare di lotta allo stigma”. Quando, infine, si chiede alla psichiatra se si sta tornando a un processo di disumanizzazione delle persone con problemi mentali, come accade per i migranti e i detenuti, con la visione securitaria che accomuna tutti i provvedimenti in materia, lei conclude: “I Centri di permanenza per i rimpatri sono una sintesi di tutto ciò: della non accoglienza delle diversità e dell’umano, delle diseguaglianze sociali, del volere emarginare. Una visione securitaria della vita che è una visione disumanizzante”. Per aderire alla petizione contro questa deriva si può firmare questo appello: http://www.conferenzasalutementale.it/2024/08/01/appello-fermare-una-tragica-nostalgia-di-manicomio-e-reagire/ Migranti. L’Unhcr nei Centri in Albania: “Avremo un ruolo di monitoraggio” di Marika Ikonomu Il Domani, 14 agosto 2024 Il personale dell’agenzia Onu lavorerà sia sulle navi sia nelle strutture previste dal protocollo per la gestione dei migranti. “Molto dipenderà da come verrà attuato l’accordo: non sarà trasferita nessuna persona in condizioni di vulnerabilità”. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) avrà un ruolo di monitoraggio nei centri per migranti voluti dal governo di Giorgia Meloni in Albania. A chiederlo formalmente all’agenzia dell’Onu è stato il ministero dell’Interno dopo una serie di interlocuzioni. La decisione di esternalizzare le procedure di richiesta di asilo e di rimpatrio in un paese terzo è stata fortemente criticata dalle organizzazioni della società civile, che hanno messo in luce le potenziali illegittimità - sul piano dei diritti umani e del rispetto del diritto internazionale - che potrebbero verificarsi all’interno delle strutture di Shëngjin e Gjader. La prima destinata all’identificazione, la seconda avrà la funzione di hotspot e di centro di permanenza per il rimpatrio. Ancora non è chiara la data di apertura dei centri, più volte posticipata a causa di ritardi, costi e incognite. Qui dovrebbero essere portate le persone salvate dalle autorità italiane nelle acque internazionali che, in base alle rassicurazioni del governo, non dovrebbero rientrare nelle categorie dei soggetti cosiddetti vulnerabili. Alcuni elementi, come raccontato da Domani, sembrano però suggerire la possibile presenza di minori. L’Unhcr lavorerà “sia sulle navi che nei due centri in Albania, per rafforzare l’accesso e la qualità delle procedure di asilo” e monitorare l’individuazione veloce delle persone con esigenze specifiche, spiega a Domani Chiara Cardoletti, rappresentante per l’Italia, la Santa Sede e San Marino dell’agenzia per i rifugiati. L’agenzia dell’Onu non è stata coinvolta nella costruzione dell’accordo ma è stata contattata successivamente. Perché avete deciso di assumere un ruolo nell’esecuzione del protocollo Italia-Albania? A seguito di uno scambio di lettere con il ministero dell’Interno, l’Unhcr ha deciso di impegnarsi nel ruolo di monitoraggio in sede di attuazione del protocollo, svolgendo anche attività di protezione e counselling, per tutelare al massimo livello possibile i diritti dei richiedenti asilo. La decisione è stata presa alla luce del nostro mandato e della specifica responsabilità di supervisione sull’applicazione della Convenzione di Ginevra sui Rifugiati che l’agenzia ha sulla base dell’articolo 35 della stessa. Vede, ogni tipo di accordo che preveda trasferimenti verso paesi terzi sicuri porta sempre con sé dei rischi. Per questa ragione, e nonostante non siamo stati parte della negoziazione e dello sviluppo del protocollo, abbiamo raggiunto un accordo con il governo italiano per svolgere il ruolo di monitoraggio e di protezione per garantire che alle persone che rientrano sotto il nostro mandato sia assicurata l’opportunità di chiedere asilo, e siano assicurate le necessarie misure di protezione. Abbiamo una responsabilità precisa e specifica nei confronti dei rifugiati e dei richiedenti asilo. La priorità dell’Unhcr rimane la loro protezione. Come si svilupperà la vostra attività? Opererete all’interno dei due centri? Team dedicati lavoreranno, sia sulle navi che nei due centri in Albania, per rafforzare l’accesso e la qualità delle procedure di asilo e monitorare i meccanismi per la pronta individuazione di persone con esigenze specifiche e vulnerabilità. Grazie al lavoro di monitoraggio, inoltre, identificheremo e segnaleremo alle autorità eventuali problematicità rispetto alle garanzie di protezione dei diritti delle persone per migliorare l’attuazione dell’accordo stesso. Il nostro coinvolgimento mira anche ad assicurare, presso le istituzioni a livello nazionale ed europeo, che questo protocollo, come altre iniziative, non si traduca in pratiche di esternalizzazione delle responsabilità verso paesi terzi, che, come sappiamo, sono contrarie al diritto internazionale. Siete stati sollecitati dal governo a svolgere questo ruolo di monitoraggio? Sì, abbiamo ricevuto recentemente una richiesta formale, che è arrivata a seguito di una serie di incontri in cui ci siamo confrontati con il governo su determinati aspetti di inquadramento legale e attuazione del protocollo che non erano emersi nel dibattito pubblico e parlamentare. In virtù del nostro mandato, e per far fronte ai rischi che accordi di questo tipo generano, l’Unhcr dialoga con i governi, come in questo caso, per assicurare il rispetto del diritto e degli standard internazionali, attraverso un possibile ruolo di monitoraggio e lo svolgimento di attività di protezione. Mi preme sottolineare nuovamente che vogliamo poter tutelare al massimo livello possibile i diritti dei richiedenti asilo. La protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo rimane e sarà sempre la nostra priorità, in ogni situazione. Questo è il nostro lavoro, che portiamo avanti dalla fine della Seconda guerra mondiale. Fino a che punto sarete coinvolti in questo meccanismo? E che livello di indipendenza avrete? Non saremo soggetti attuatori del protocollo. Svolgeremo le attività di monitoraggio con finanziamenti provenienti da fonti che sono diverse dalle parti coinvolte. E questo ci permetterà di conservare la nostra piena indipendenza nel segnalare eventuali incoerenze rispetto al diritto internazionale e alle garanzie delle persone, contribuendo al contempo a migliorare lo spazio di protezione complessivo. Molte organizzazioni in Italia e in Albania hanno criticato l’accordo su diversi profili. Nel Regno Unito il nuovo premier Starmer ha deciso di interrompere l’accordo di esternalizzazione con il Ruanda. Qual è la posizione dell’Unhcr? L’Unhcr è fortemente contrario a pratiche di esternalizzazione della responsabilità riguardante il rispetto dei diritti dei richiedenti asilo e di chi scappa da guerre, violenze e persecuzioni. L’accordo tra Regno Unito e Ruanda, che, apprendiamo con favore, sembra essere stato accantonato, è un caso di pura esternalizzazione: i richiedenti asilo, che hanno diritto a rimanere nel paese dove hanno fatto domanda di protezione, sarebbero stati inviati in un paese terzo, il Ruanda appunto, che avrebbe poi esaminato le domande individuali di asilo. I rifugiati riconosciuti non sarebbero potuti tornare nel Regno Unito. Tutto ciò è contrario al diritto internazionale e l’Unhcr non può accettarlo. L’accordo Italia-Albania, pur portando con sé dei rischi, è diverso. L’Italia manterrà la giurisdizione sui due centri in Albania e, di conseguenza, la responsabilità sull’esame delle domande di protezione internazionale, le misure successive alle decisioni e in generale il trattamento delle persone. Naturalmente abbiamo le nostre preoccupazioni e molto dipenderà da come verrà attuato l’accordo. Proprio per questo abbiamo deciso di accettare questo ruolo, che ci permetterà di monitorare il rispetto dei diritti e proteggere i richiedenti asilo. Quali sono, dal vostro punto di vista, le criticità principali in merito al protocollo? Il nostro principale obiettivo è che nell’attuazione del protocollo i diritti e le tutele dei richiedenti asilo vengano pienamente rispettati e siano in linea con le normative europee e le convenzioni internazionale sui diritti umani. L’Unhcr ha ricevuto da parte del governo molti chiarimenti in merito all’inquadramento legale del protocollo e alla sua attuazione, che confermano la volontà di rispettare il diritto e gli standard internazionali. Tuttavia, saranno le modalità concrete di attuazione a rendere effettivo tale impegno. Naturalmente sarà decisiva la fase di identificazione e screening, in particolare a bordo delle navi. Così come dovremo prestare particolare attenzione alle misure di trattenimento e più in generale alle procedure da remoto. La premier Meloni ha ripetuto più volte che l’accordo non riguarda i minori e altri soggetti vulnerabili, che non potranno essere portati in Albania. In base a documenti consultati da Domani risultava però una stanza per i minori. Che informazioni avete ricevuto? Questa è una garanzia che ci è stata data. In teoria nessuna persona in condizioni di vulnerabilità potrà essere portata in Albania. Dall’implementazione di questo protocollo hanno escluso una serie di profili. Non sarà l’Unhcr a stabilire le vulnerabilità, ma ci assicureremo che ci sarà un occhio di protezione su questo profilo. Antisemitismo e islamofobia sono vasi comunicanti di Davide Assael Il Domani, 14 agosto 2024 La caccia all’uomo vista nelle strade britanniche non dista molto da quanto abbiamo visto in Daghestan all’inizio del conflitto di Gaza. Forse è ora di dare un riconoscimento giuridico all’odio anti-islamico. Se n’è parlato. Ma, a mio modo di vedere, non col giusto risalto data la gravità dell’episodio, che ha visto la Gran Bretagna attraversata da una caccia all’uomo, che, anche nei modi, ha molte assonanze con la caccia all’ebreo scatenata in Daghestan agli esordi del conflitto a Gaza. Tanto per ricordare che la nostra “civilissima” Europa non è poi così dissimile da aree del mondo che noi, ancora in preda a un eurocentrismo post-illuminista, consideriamo sottosviluppate. Anche in questo caso, si è trattato di una fake news diventata virale grazie a un sapiente uso dei social network, questa volta orchestrati dall’attivista dell’estrema destra inglese Stephen Christopher Yaxley-Lennon, alias Tommy Robinson, influencer “nero” forte del suo quasi milione di follower. I fatti sono noti: diverse città del paese sono state avvolte in un clima da guerriglia urbana, con negozi incendiati, vetrate distrutte, poliziotti feriti a seguito delle invenzioni propinate su un tragico omicidio a Southport. Va chiarito un punto: non si tratta di generica xenofobia, ma di islamofobia. Questo male che affonda le radici nell’antica lotta fra l’Europa cristiana e il Medio Oriente musulmano, che per secoli si sono contesi intere aree del pianeta, con epicentro la città santa di Gerusalemme. Scontro egemonico fra civiltà imperiali, che, dalle nostre parti, ha alimentato l’immaginario dell’islam come religione della spada e del musulmano come feroce saladino pronto ad assalire l’Europa spinto dalla sua sete di conquista. Un sentimento di paura, che, quasi per associazione di idee, si è nel tempo intersecato con un sentimento suprematista da apartheid sudafricana, per cui i neri sono considerati alla stregua di animali in preda a istinti primari. Che poi, ognuno definisce i colori a modo suo, come ci ha insegnato Wittgenstein. Immagini sedimentatesi in dati culturali e persino psicologici, deflagrate nuovamente nel mondo post 11 settembre e spinte dall’ondata migratoria successiva alla destabilizzazione creata nel Mediterraneo dalle rivolte arabe del 2011. La propaganda della destra - Momenti dove erano chiaramente riconoscibili gli antichi argomenti sotto le nuove spoglie di bislacche teorie della sostituzione, più che altro utili per fare la fortuna di scrittori e case editrici. Raramente si sono raggiunte simili indecenze, da noi propinate in lungo e in largo da esponenti della destra parlamentare, che svolgono nel nostro paese il ruolo incendiario di un Nigel Farage in Gran Bretagna. Ovviamente, all’abbisogna pronti a riciclarsi come camera di compensazione di una rabbia sociale che altrimenti sarebbe ben più distruttiva. È vero piuttosto il contrario: la loro costante e becera propaganda legittima la protesta violenta, che può permettersi di essere tale anche per l’appoggio popolare che spesso la circonda. Non sono razzista, ma… La violenza è da respingere, ma… In questo scenario, che sfrutta un immaginario collettivo sedimentato in secoli di storia, c’è chi ha avuto l’ardire di puntare il dito contro la presunta acquiescenza del governo Sunak nei confronti dell’azione di guerra israeliana a Gaza. Vicinanza strumentale - Come se la storia di questo primo quarto di nuovo millennio non fosse scandita da una miriade di episodi simili e come se l’islamofobia non fosse da anni un costante serbatoio di voti per l’estrema destra razzista e xenofoba. Quando si dice, buttarla in vacca, oltre che avallare, magari inconsapevolmente, la strategia politica di questa destra, che, se mai si è avvicinata a Israele e all’identità ebraica, lo ha fatto in termini biecamente strumentali, senza nemmeno tentare di recidere i legami con il proprio recentissimo passato nazi-fascistoide. Lo avevano, invece, ben capito gli organizzatori della marcia contro l’antisemitismo svoltasi a Londra il 22 novembre scorso, che hanno chiesto al su citato Yaxley-Lennon di non partecipare perché non gradito. Si ricordavano bene del suo infame articolo del 2022, Tommy’s Statement: The Jewish Question. Partendo con un attacco viscerale all’Anti Defamation League, Robinson finiva con lo strizzare l’occhio alle tradizionali teorie cospirazioniste sugli ebrei che controllano Hollywood e i media globali. Ciò che dimostrano gli eventi britannici è, piuttosto, il fatto che antisemitismo e islamofobia sono vasi comunicanti. Con una differenza: se dopo la Shoah è tabù dichiararsi antisemiti anche se si parla come loro, ci si veste come loro, ci si comporta come loro, ti puoi allegramente candidare alle elezioni con un programma islamofobo. Forse è venuto il tempo di dare riconoscimento giuridico anche a questa forma di odio dell’altro. Tre anni fa la fuga da Kabul: la difficile integrazione dei profughi afghani di Viviana Daloiso, Antonella Mariani e Pino Ciociola Avvenire, 14 agosto 2024 Salvati e poi stritolati dal sistema di accoglienza italiano, che non ne riconosce i titoli di studio. Chi ce l’ha fatta, chi si è accontentato, chi ha deciso di tornare nell’inferno dei taleban. La paura, lo smarrimento, i sogni sbiaditi nello spazio d’una notte e di un giorno. La fine del mondo di prima porta la data del 15 agosto 2021 per l’Afghanistan. Tre anni sono passati da quando Kabul è ritornata nelle mani dei taleban: passano davanti agli occhi le scene di disperazione all’aeroporto, i bambini buttati di là dalle reti nelle mani dei soldati e degli operatori umanitari per salvare loro la vita, gli uomini e le donne appesi ai carrelli dei voli stracarichi di persone in fuga dell’abisso di un regime che prometteva di stravolgere il seppur fragile castello di diritti e di libertà costruito grazie all’aiuto dei governi occidentali. Tutto in briciole. Il Paese tornava nel buio, le famiglie venivano separate, chi aveva collaborato con il governo, con l’Onu e le Ong perseguitato, le donne allontanate dalle scuole, dai luoghi di lavoro, infine cancellate dalla vita sociale in un inferno presto dimenticato da tutti. Più rumorosa la guerra nel cuore dell’Europa, più dirompente il 7 ottobre di Israele e lo scontro con Hamas, che in queste ore tiene col fiato sospeso il mondo intero per le sue conseguenze sullo scacchiere internazionale. Dell’Afghanistan, di chi ci vive nascondendosi, di chi è scappato o tenta la fuga affrontando viaggi impossibili e spesso il rischio di morire, come avvenuto sulle coste di Cutro, non parla più nessuno o quasi. L’Italia c’è stata. In quelle prime, concitate ore, con le evacuazioni, l’intervento dei diplomatici e delle forze militari, coi voli diretti a Roma. Poi nell’accoglienza degli oltre 5mila afghani arrivati nel nostro Paese nelle prime settimane, per lo più collaboratori di missioni internazionali, attivisti, giornalisti e membri delle minoranze etniche. Infine con l’accordo sull’apertura di corridoi umanitari, siglati tra ministero dell’Interno e degli Esteri con la Cei (attraverso Caritas Italiana), Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese, Arci, che in Italia avrebbero dovuto portare 1.200 profughi e che da quel 2021 a più riprese hanno consentito l’arrivo di quasi 2mila persone, le ultime appena qualche settimana fa. Nel nostro Paese ci sono oltre 10mila afghani oggi, più uomini che donne (sebbene siano queste ultime, si è detto, a pagare lo scotto più alto del ritorno del regime). Un bilancio in chiaro, a guardare lo sforzo degli attori coinvolti e il supporto offerto sia in termini abitativi che psicologici e legali, ma che presenta anche molte ombre legate alle contraddizioni del sistema d’accoglienza italiano, spesso incapace di costruire progetti di integrazione di più ampio respiro, adeguati alle necessità e alle risorse dei migranti con cui di volta in volta si interfaccia. E più che mai questo è accaduto con gli afghani, che si sono presentati subito come rifugiati “speciali”, di estrazione sociale elevata, con un’età compresa tra i 30 e i 55 anni, strappati da vite agiate e da impieghi qualificati nelle agenzie internazionali, nei tribunali o nelle università e negli ospedali. Va letto in questa unicità l’inizio di un’odissea che li ha visti, oltre che stravolti per quanto stava accadendo a casa e spaesati per l’adattamento alla vita in un nuovo Paese, spesso incapaci di adattarsi alle poche e decisamente poco allettanti possibilità di inserimento lavorativo offerte in Italia: le Ong, che pure hanno lavorato a tavoli comuni per costruire progetti di accompagnamento mirati, hanno ben presto dovuto affrontare il burn out dei profughi legato al diniego del riconoscimento dei titoli di studio, alla difficoltà dei percorsi scolastici per i figli arrivati tramite ricongiungimenti, all’impossibilità di accedere a contratti in campo sanitario o giuridico, persino al rifiuto degli affitti per le case. Col risultato che, a tre anni di distanza, scaduti i programmi di assistenza previsti e le borse di studio, molti degli afghani arrivati in Italia sono finiti anche col ripartire, chi alla volta del Canada, chi della Germania (Paesi in cui le loro competenze sono ben più valorizzate), chi di Pakistan e Iran, con la speranza di poter rientrare più facilmente nel vicino Afghanistan. Dove la situazione, però, resta disastrosa. Un fallimento? “Più un rimpianto - spiega Livia Maurizi, coordinatrice della Ong Nove Saving Humans, da anni impegnata in prima linea nel Paese con progetti di imprenditoria ed empowerment femminile e che ha collaborato con il nostro giornale nella campagna #avvenireperdonneafghane -. È chiaro che ogni storia va inquadrata nel suo specifico, ma resta senz’altro l’amarezza per l’incapacità di cogliere il potenziale di chi è arrivato in Italia da quel 2021: abbiamo giovani donne medico, o infermieri specializzati, tanto per fare un esempio, che servirebbero moltissimo al nostro Servizio sanitario e che non siamo in grado di valorizzare”. Badanti, addetti alle pulizie, nella migliore delle ipotesi mediatori o mediatrici culturali, questo il destino segnato per i rifugiati “in un Paese, il nostro, a cui serve uno scatto di lungimiranza - continua Maurizi - in termini di politiche di accoglienza. Che è quello su cui vogliamo tornare a insistere con il governo, insieme alla necessità di percorsi più facili e più brevi nel riconoscimento dei titoli di studio e delle competenze”. Aprire le porte non è bastato e non può bastare. Sadia, la laurea da ostetrica e un presente da pasticciera - A Sadia piacciono tutti i dolci italiani, ma se deve scegliere dice il tiramisù. Lei però le torte non le mangia, le prepara. Mai avrebbe pensato di fare la pasticciera: ha studiato da ostetrica, quello era il lavoro verso cui era avviata quando viveva in Afghanistan e il futuro era ancora un orizzonte rosa. Il 15 agosto 2021 Sadia Saddiqi ha visto di persona il primo taleban della sua vita, quando gli studenti coranici sono entrati a Kabul e hanno spazzato via tutto: sogni, progetti. Lui stava di fronte a casa sua, armato, e loro si sono sentiti in pericolo. La madre di Sadia, Suhaila, lavorava in un programma di microcredito per l’imprenditoria femminile per conto della ong italiana Pangea. Il padre e il fratello maggiore sono ingegneri e avevano un buon impiego. Sadia aveva 22 anni e svolgeva il tirocinio in un ospedale della capitale. Già da giorni i responsabili di Pangea aveva ordinato di distruggere i documenti, abbandonare la sede: i taleban avrebbero cercato tutti coloro che collaboravano con gli occidentali o con il governo da loro sostenuto. La famiglia di Sadia, 10 persone in tutto, si trasferì in una abitazione sicura accanto all’aeroporto, per tre volte cercò di imbarcarsi ma in quelle ore convulse dell’esodo nulla era sicuro. “Non avevo mai viaggiato fuori dall’Afghanistan. Non abbiamo preso nulla da casa perché non volevamo dare nell’occhio con le valigie. I taleban che stazionavano davanti a casa nostra chiesero dove stavamo andando. Ho avuto paura, sì. Io sono partita con uno zainetto: un paio di pantaloni, il velo, quattro vestiti. Non ho preso nient’altro”. Sadia è una degli oltre 5mila afghani trasferiti in Italia nei giorni successivo alla capitolazione di Kabul. Loro dapprima andarono in un centro di accoglienza vicino a Napoli, poi dopo 3 mesi furono trasferiti a Milano, dove sono stati inseriti in un progetto di sostegno del Cas (Centri di accogienza straordinari, gestiti dal ministero degli Interni tramite le prefetture). La trafila è stata la stessa per tutti: i corsi di italiano e quelli professionali, i documenti, il percorso verso un’autonomia... “Ho seguito un corso di pasticceria e dopo 6 mesi di tirocinio ho trovato un lavoro che mi piace, inizio al mattino presto a preparare le basi per le torte in una grande catena di ristorazione. Ma a Milano non ci potevamo stare, il progetto di sostegno è terminato e gli affitti sono troppo cari”. Pochi mesi fa Sadia e la sua famiglia si sono spostati in un paesino della provincia di Pavia, lì la vita è più facile anche se per arrivare al lavoro in treno deve partire all’alba. Due fratelli hanno già un impiego, la madre e il padre fanno più fatica per via dell’italiano, la sorella attende la conferma da una catena di supermercati. E il diploma di ostetrica? “Sto cercando di farmelo riconoscere, ma la strada è lunga, e difficile. Il mio diploma di laurea è rimasto a Kabul e devo trovare il modo di farlo recuperare all’università e farmelo arrivare qui”. In Italia, dice Sadia, “mi sono trovata bene, non mi sono mai sentita straniera. Se penso ai miei parenti rimasti a Kabul? Sempre. Ho paura per loro. Le mie cugine non possono più studiare e si sono sposate, giovani. Non era il loro sogno, volevano laurearsi, avere una professione. Tutto è cambiato tre anni fa”. Una primavera per Bahara: “Posso ritornare a scuola” - Brillante, determinata, afghana, diciannove anni. Quando ne aveva sedici, i taleban si prendono l’Afghanistan e di colpo niente più scuola, niente più uscite e qualsiasi libertà, solo burqa e un matrimonio combinato con uno sconosciuto molto più grande di lei. Il suo nome, Bahara, significa primavera. E lei racconta che “viveva in prigione”, che avrebbe voluto “solo studiare” e che aveva “tanta, tanta paura”, era “disperata” perché i taleban “avevano detto che mi avrebbero portata via da casa e data in sposa a uno di loro”. Lo aveva capito chiaro e tondo: fosse rimasta lì, “sarei morta o, peggio, venduta a un vecchio taleban” e fine della storia. Solo che Bahara non è una da destino segnato. Anche perché la sua famiglia è con lei e pronta a farla scappare e aiutarla, per farle scampare quelle due strade. Lei inventa qualsiasi cosa pur d’avere il passaporto e ci riesce, scappa in Pakistan, accompagnata dal fratello, che poi torna indietro. Tutto a posto? Macché, comincia invece la seconda parte della sua vita in ballo. Gira mesi fra case diverse e sicure, quelle per ragazze che devono nascondersi. Sa che la polizia pachistana di tanto in tanto si mette a fare retate per rimpatriare gli afghani, anche quelli con i documenti a posto. E, specie per una ragazzina sola, spesso finisce molto male. Nonostante sia entrata legalmente, con un visto regolare, un pomeriggio le si gela il sangue, un poliziotto la ferma, ma chissà perché la libera: “Stavolta ti lasciamo andare, ma sappiamo chi sei e la prossima ti deportiamo”, le dice. Dopo, Bahara quasi nemmeno esce più. Nel frattempo, cerca in ogni modo d’entrare in uno dei corridoi umanitari verso l’Italia, quelli che dopo il 15 agosto 2021 sono stati effettuati per dare una speranza a coloro che sono nelle situazioni più difficili. Per darle una mano si muovono associazioni italiane, organizzazioni internazionali, privati cittadini. Non è facile per niente, ma pian piano ce la fanno: Bahara viene presa a cuore per la sua forza, la sua voglia di cambiare quel suo destino e per l’esempio che, senza saperlo, sta dando. Senza mai perdere tempo: da profuga in Pakistan ha anche approfondito online l’inglese e imparato un po’ di italiano, sperando prima o poi di venire qui. Un sogno realizzato: qualche settimana fa proprio attraverso i corridoi umanitari è sbarcata a Roma. Senza aver mai viaggiato in vita sua. Sola. Senza parenti, né amici, senza conoscere nessuno e giusto con uno zainetto a tracolla. Lei sorride, frastornata, felice, eppure col gran dolore d’aver lasciato la sua famiglia in Afghanistan. L’hanno accompagnata subito in una cittadina del Sud e a settembre andrà a scuola, frequenterà la quinta superiore, con il sostegno dell’associazione Nove Caring Humans che cura il progetto di integrazione. Sa bene che sarà dura, durissima, però con quel che ha passato, lo ripete, due, tre volte: “Se un anno fa fossi rimasta a Kabul, sarei morta. Se un anno fa mi avessero detto che adesso sarei stata qui, non lo avrei mai creduto”.