Rendiamo umane le carceri di Nicola Boscoletto* La Repubblica, 13 agosto 2024 Bisogna scegliere tra un sistema repressivo o uno preventivo e di cura. È necessaria una gestione competente, dove la giustizia persegua il “bene della persona e della società”. Chiariamo subito che cosa vuol dire buttare acqua sul fuoco quando parliamo di sistema carcerario. Vuol dire per esempio concedere subito la possibilità a chi lo chiede di telefonare ai propri cari ogni giorno anche tramite video chiamata, come lo è stato per tutto il periodo del covid. È la cosa più semplice, soprattutto sicura, certamente anche di più rispetto alle lettere che, ricordiamoci, le persone detenute possono ricevere e spedire ogni giorno in quantità illimitata e, tenuto conto che chi è soggetto alla censura è un numero irrisorio, si capisce bene che incaponirsi sul numero di telefonate è un’offesa alla ragione. Pertanto, chi si ostina a negare questa scelta di umanità lo fa o per pura cattiveria o per difendere qualche interesse nascosto. Il secondo punto importante riguarda l’affettività (di cui il sesso è un aspetto), non va impedito a chi propone delle soluzioni in linea con la sentenza della Corte costituzionale di dare il proprio contributo per arrivare a realizzare gli spazi per i colloqui intimi. Terzo punto, va concesso il più possibile a chi è nei termini l’opportunità di andare in permesso, in art. 21, in semilibertà, in affidamento, in condizionale, ai domiciliari, in comunità. Sono tutte modalità di scontare la pena più umane, più produttive per le persone detenute e per l’intera società. Le persone detenute non vanno tenute sulla graticola per anni come se ogni volta si dovesse rifare il processo. Servono magistrati di sorveglianza che purtroppo sono pochi in numero e quindi spesso in difficoltà nell’assumersi le responsabilità che il ruolo gli affida (questo vale per tutto e tutti, direttori, comissarsi, provveditori, etc.). Quarto punto, serve intervenire in fretta sulla sanità che va sostenuta e qualificata, perché il carcere deve essere visto come un luogo di frontiera. Va potenziata, là dove manca, con personale preparato e che ama le persone e la loro dignità. Infine, non tralasciamo l’urgenza di approvare la proposta Giachetti, che non è certamente una resa dello Stato ma un piccolo segno di riparazione alla fatica di rendere umane e legali le carceri. Qui mi fermo, altri potrebbero aggiungere altre cose. Mentre spegniamo il fuoco che cosa serve fare? Serve più che mai capire dove siamo arrivati, quale sia il contesto in cui oggi ci troviamo ad operare, quale sia lo stato di salute del sistema giustizia/carcere e di che tipo di governance abbiamo bisogno. Solo dopo possiamo parlare della cura e del tipo di interventi da mettere in campo in maniera strutturale e non emergenziale. Da 34 anni mi occupo di lavoro in carcere. Ho visto e vissuto tante cose, ma non sono l’unico, sono in buona compagnia tanto in Italia che all’estero. In tutti questi anni sono passati in tanti e, ho visto il sistema nel suo complesso rimanere inalterato, o in alcuni casi peggiorato, nonostante l’impegno e la dedizione di alcune persone. Se sono ancora qui, se in tanti siamo ancora qui e non abbiamo ancora mollato è perché non possiamo rassegnarci: “non possiamo abbandonare la speranza”: è una frase di sostegno, che mi ha scritto un saggio magistrato, o come ripete instancabilmente papa Francesco “non lasciatevi rubare la speranza”. Lo dice principalmente ai giovani, e io aggiungo, anche a chi si sente giovane. Se noi oggi non partiamo dal guardare la realtà per quello che è veramente e non per quello che vorremmo, non portiamo nessun contributo utile, anzi, perdiamo e facciamo perdere tanto tempo a tutti, partecipando a creare un mondo via via sempre più disumano. Non c’è più tempo per tergiversare e questo appello lo rivolgo in particolare al Presidente Mattarella. Non serve studiare e fare tavoli per trovare soluzioni, che cosa serve fare lo si sa in maniera chiara e da tanto tempo, basta andare a leggere il dialogo tra l’allora Ministro Urbano Rattazzi e il buon San Giovanni Bosco. Era il 1854 (170 anni fa!!). Si sa già tutto da secoli, le cose sono sempre le stesse, cambiano i contesti ma le soluzioni proposte sono da sempre due: mettere in atto un sistema repressivo (rispondere al male con il male) o un sistema preventivo e di cura (rispondere al male con il bene). Cosa serve perciò? Ad una squadra di calcio come ad una azienda per essere competitivi e vincenti serve una buona e sana politica, una qualificata dirigenza, un bravo e competente allenatore, che sappiano tutti fare veramente squadra. Chiaramente è necessaria la presenza di buoni giocatori, preparatori atletici, massaggiatori, fitoterapeuti, etc. La conoscenza, la competenza, l’esperienza e l’umanità (cioè l’amore per quello che si fa) sono elementi imprescindibili per una buona riuscita. Oggi nella giustizia e nel mondo del carcere questi elementi non sono premianti, ma direi prima ancora che, come sistema, non si riesce a perseguire il compito affidato: “il duplice fine della pena: il bene della persona e della società”, frase che prendo in prestito dal grande sant’Agostino nei suoi approfondimenti sulla Giustizia, i Giudici e la Pena. Si capisce bene ad esempio che non si può parlare di attività, formazione e lavoro per le persone detenute dentro e fuori dal carcere senza tenere presenti tutti i fattori in gioco e senza un grande senso di realismo e responsabilità che ci permettano di partire con sincerità dal contesto. Proviamo perciò a parlarne con serenità, in maniera ordinata e soprattutto, ripeto, non in modo avulso da tutto quello che è oggi il contesto del carcere e della società in cui è innestato. Ma restiamo ancora un istante sul tema del lavoro in carcere di cui ora si stanno riempiendo la bocca in tanti. Il lavoro è come un seme buono, ben selezionato per dare vita ad un bell’albero che dia tanti, ma soprattutto buoni frutti. Il seme prima di essere seminato ha bisogno di tutta una serie di passaggi fondamentali senza dei quali non darà mai i frutti sperati, anzi rischierà di morire. Occorre avere un terreno buono. Se ci sono sterpaglie queste vanno tolte, va fatto un diserbo, il terreno va poi dissodato, arato, fresato, concimato, va tenuto conto dell’ambiente in cui viene inserito, dell’esposizione, etc. Insomma, il seme deve trovare un contesto adeguato alla sua crescita di cui fanno parte integrante tantissimi fattori. C’è poi una seconda fase, importantissima, che è quella della cura costante e continua, con irrigazioni, concimazioni, trattamenti, pulizie e potature fatte bene, e così via. Questo per dire che prima di parlare di lavoro vero (il seme) occorre capire se prima abbiamo assolto a tutto quello che serve perché il lavoro possa svolgere la sua funzione e possa dare buoni frutti. Dare per scontati tutti i passaggi e andare direttamente sul lavoro, sulle varie attività (questo riguarda tutto e tutti) porta inevitabilmente ad un risultato errato o meglio a nessun risultato. Il dato di fatto è che oggi il carcere ha fallito il suo compito e questo non vale solo per l’Italia. È questo modello di carcere che si è progressivamente allontanato dalla sua mission, dalla sua funzione, tradendo nei fatti, non nelle intenzioni e nei proclami, il dettato costituzionale. Uso una frase di Daria Bignardi sul suo ultimo libro “Ogni prigione è un isola”. Lo sintetizzava così: “Le mele marce non esistono, è il sistema che è strutturalmente guasto”. Ormai non è solo lei e tanti altri a dire questo, ma anche tantissimi bravi operatori penitenziari impegnati a combattere in solitudine in trincea, cito una frase di un direttore di carcere: “Noi siamo autoreferenziali, abbiamo questa organizzazione che, cascasse il mondo, non riteniamo di dover cambiare, di modificare in funzione di opportunità che vengono dall’esterno”. Quindi il primo punto di cui prendere atto, non in maniera ipocrita, ma con grande realismo, è che il sistema ha fallito, è “strutturalmente guasto”, cioè il terreno per restare all’esempio del seme è in stato di abbandono e pieno di sterpaglie. Continuare a seminare in un campo del genere è demenziale, l’agricoltore non lo farebbe mai. Permettetemi una nota sulla mancanza di personale nelle carceri. La prima cosa importante è che le figure necessarie devono essere adeguate in funzione della finalità e della necessità. Inutile mettere in un ospedale 1000 persone addette alle portinerie e alla sicurezza, 100 medici e 10 infermieri. Nelle carceri se lo scopo perseguito è esclusivamente quello della sicurezza (che vuol dire tradire la mission) metterai 100.000 agenti e ancora non ti basteranno. Se lo scopo è quello corretto metterai 100.000 educatori, assistenti sociali, psicologi, psichiatri, medici, infermieri, magistrati di sorveglianza e 10.000 agenti. In tutti i casi c’è un gravissimo errore che spesso viene commesso, questo quando se ne fa solo una questione di numeri, ovvero mettere in secondo piano (ad essere buoni) la motivazione, perché, se non si ama il proprio lavoro, se non si crede profondamente nel compito che viene affidato, il tutto risulta inutile e nocivo. Capite che essere a lavorare in 50.000 invece di 38.000 o 1000 invece di 236 non cambia molto, o siamo sinceri, cambia veramente poco. Il vero problema è avere persone che si assumano delle responsabilità, quello che conta è questo numero di persone, persone di cui sei sicuro che puoi fare affidamento. Dal contenitore a chi lo gestisce passiamo ora al contenuto: le persone detenute. Come è la popolazione detenuta oggi, ovvero la tipologia delle persone in carcere? Oggi le carceri sono diventate una discarica indifferenziata, quello che nei rifiuti va sotto il nome di “secco” che in genere va a finire nell'inceneritore. Pensate che perfino i rifiuti vengono divisi per cercare di agevolarne il più possibile il riciclo (economia circolare). Oggi, oltre al forte disagio sociale che le ha portate a commettere dei reati, moltissime delle persone detenute sono plurisvantaggiate, portatrici di handicap, dipendenti da droghe (17.000 circa), da alcool, farmacodipendenti, da gioco, psicologicamente fragili e con patologie psichiatriche. Circa 19.000 sono stranieri e vi lascio immaginare quante siano le problematiche. Molti di questi problemi non li hanno al momento dell’entrata in carcere, subentrano poi durante la detenzione come ulteriore effetto collaterale. Completiamo i numeri con oltre 15.000 persone detenute non definitive, 9.200 in alta sicurezza e 750 al 41 bis. La prima domanda da farsi è: ma quante persone detenute che si trovano in queste condizioni sono immediatamente inseribili al lavoro vero? Un conto è “intrattenerli” (il trattamento oggi è diventato intrattenimento), un conto è fare un percorso lavorativo vero, veramente professionalizzante. Non entro in merito alla miriade di inutili e a tratti protocolli firmati in questi anni un po’ da tutti per l’inserimento di decine e decine di miglia di persone detenute, che, visti i risultati, si commentano da soli. Serve una rivoluzione culturale, di mentalità. Come invertire la direzione? È giunto il tempo di una grande discontinuità. Non si può separare una certa concezione di pena (il carcere deve essere una soluzione estrema) con le soluzioni che poi si mettono in atto, sarebbe un cortocircuito. Non stiamo parlando di affrontare un momento di crisi, ma, di “un cambiamento epocale”. Non parliamo di un aspetto che non va, ma di un sistema. Soluzioni? Partire sempre da ciò che di positivo c’è in tutti e in tutti i settori, e anche se poco ma c’è. Partire dalle cose e dalle esperienze positive, con la piena consapevolezza che ci vorranno decenni per invertire la tendenza negativa, chiaramente se oggi si cambia rotta. La gestione delle carceri affidata unicamente al Ministero della Giustizia si è dimostrata fallimentare, come pure lo strumento del DAP. Ciò che da decenni non funziona si cambia, così accade in ogni cosa. Non è un mistero, si chiama un utilizzo corretto della ragione o più semplicemente di buon senso (dal latino recta ratio). In sintesi, va ripensata la GOVERNANCE, il modello di governance va calato nell’oggi alla luce di quello che è il contesto e le conseguenti risposte necessarie. Per avviare un percorso tanto importante quanto necessario occorre che sia presente una simpatia umana ed una stima tra le persone che operano a vario titolo per il carcere ed in carcere. Questo approccio ci permette di recuperare un po’ di passione e di amore per quello che si fa, per il proprio lavoro. Non si lavora per star male e per ammalarsi, per farsi la guerra, si lavora e si fatica per star bene ed essere felici. Questa è la svolta epocale che si può mettere in atto a partire dalle piccole cose che ciascuno di noi può fare e deve fare. Non mi stancherò mai di ricordare che oggi non è più il tempo delle procedure, dei protocolli, delle circolari, per carità facciamole più giuste possibili e coerenti con lo scopo, ma oggi è più che mai necessario in primis che a cambiare siano le persone che sono quelle che devono mettere in pratica tutto quanto è previsto, deve cambiare il cuore di ciascuno di noi, solo così poi si può lavorare assieme per modificare il sistema. E sgombriamo il campo da ogni equivoco, perché sia chiaro che non sto parlando di sentimento, di buonismo o di pietismo a buon prezzo. Sto parlando della cosa in assoluto più necessaria per costruire qualsiasi rapporto, qualsiasi iniziativa, qualsiasi attività che possa avere una qualche possibilità di successo: quando si abbandona lo scopo per cui si opera e non si curano adeguatamente le risorse umane in gioco niente può funzionare. Per fare questo serve ascoltarsi veramente, guardarsi, cercarsi reciprocamente, tutti. In una parola desiderare veramente di collaborare, partecipare veramente tutti allo stesso scopo, valorizzare chi ha più competenze, esperienza, fino ad arrivare a correggerci reciprocamente senza che questo generi dei muri o degli inutili conati di orgoglio. Vanno buttati giù gli steccati, le divisioni, il noi e il voi, l’io e il tu, per lasciare più spazio al vero fare assieme, alla vera condivisione. Da questo punto di vista il Terzo Settore potrebbe dare un grande contributo, come del resto lo sta già facendo. Amministrazione condivisa, coprogrammazione e coprogettazione sono la strada maestra da seguire. Come ripete instancabilmente papa Francesco che “non ci si salva da soli”, che “siamo tutti sulla stessa barca” e che dobbiamo sempre “costruire ponti e non muri, essere generatori di processi e non occupare spazi” e poltrone. Il tema non è la resa dello Stato, infatti se in carcere, ad esempio, ci fossero gli stessi controlli che avvengono in una normale azienda su 189 carceri almeno il 90% sarebbero da chiudere immediatamente (alla faccia dei virtuali posti regolamentari), come pure la cella che non si chiama più così ma “camera di pernottamento”, che dovrebbe essere il luogo dove le persone dovrebbero entrare solo per dormire, tanto che uno dovrebbe essere aiutato e non il contrario. Parlare di “nessuna resa dello Stato” in queste condizioni equivale a dire in una parola difendere e promuovere l’indifendibile, l’illegalità. Pensare di educare in questo modo, è pura follia. Provate a fare così con i vostri figli, chiudeteli pure in casa. Dovrebbe essere lo scopo a guidare e a mettere tutti sulla stessa lunghezza d’onda, non il ruolo che uno ha o singoli aspetti che molto spesso nascondono dei piccoli orti da difendere. Bisogna guardare a ciò che deve essere fatto e fatto bene, non a chi lo fa: i partiti di destra o di sinistra, se è dipendente pubblico o privato, se è magistrato o un semplice operatore e così via. La dignità non è proporzionale al ruolo, all’importanza, a chi lo fa o allo stipendio. Non c’è niente che non sia importante, a volte sono proprio le cose più semplici ed informali, “disinteressate” cioè gratuite a dare grandi risultati. In una parola basterebbe poco, basterebbe volersi un po’ più bene per fare il bene. Dovremmo, lo ripeto perché è importante come il terreno per una pianta, fare nostro quello che il buon giovane prete don Bosco insegnava e testimoniava ai suoi direttori, educatori e operatori, e cioè l’importanza di prenderci "amorevolmente cura” delle persone che ci vengono affidate, non trascurando il fatto che occorre prima di tutto che questo sia una pratica tra tutti quelli che a vario titolo sono impegnati al raggiungimento dello stesso scopo. Solo così, dopo, si riuscirà a prendersi “amorevolmente cura" di chi ha bisogno, di chi ci è affidato in un percorso di cura, di reinserimento, di responsabilizzazione. Per così tanto basterebbe così poco, bisogna volerlo, bisogna veramente desiderarlo. Si vince solo assieme, tutti. *Fondatore della Cooperativa Giotto di Padova Le carceri vanno alla deriva, la politica preferisce accontentarsi di un compromesso sul decreto di Massimo Brandimarte* Il Dubbio, 13 agosto 2024 Più detenzione domiciliare e il rilancio della semilibertà arginerebbero il sovraffollamento. Non puoi parlare di carcere se non ci sei mai stato dentro; se, cioè, non ne conosci, dall’interno, le condizioni di precarietà e di invivibilità. Carceri: oggi divenute strutture ricettive in prevalenza vetuste e ammorbate da un sovraffollamento disumano. La sicurezza non è mai venuta meno. La vivibilità sì. Le patrie galere ospiterebbero oltre diecimila detenuti in più del consentito. Per i non addetti ai lavori, va spiegato che per “consentito” non si intendono celle individuali con annessi servizi, ma spazi minimi vitali calcolati in misura di tre metri quadrati per ciascun detenuto e servizi comuni. Caldo infernale e freddo glaciale inclusi. Va da sé che in uno scenario simile, i più fragili son quelli destinati a soccombere. L’Ansa fa sapere che ad oggi i suicidi in carcere sono già 65, con un incremento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Con buona pace, per loro, di ogni promesso programma di riabilitazione, Il decreto legge sulle carceri n. 92, di recente convertito in legge dalla Camera dei deputati, nonostante gli impegni assunti, non sembra aver toccato i tasti più dolenti del problema. C’é il compromesso della politica. Ma, le carceri son già compromesse. L’incremento della dotazione organica del personale di polizia penitenziaria è un risultato. Infatti, poiché i tornelli del carcere sono comandati dai magistrati, anche agenti ed educatori finiscono per subire i disagi di una sovrappopolazione interna e dei disservizi che inesorabilmente questa produce. Si interviene sul versante dei colloqui. Più colloqui telefonici. E va bene. Ma, ad invarianza di sovraffollamento, l’effetto pratico sarà un sovraffollamento telefonico aggiunto. Statistiche recenti dicono che i reati diminuiscono, mentre i detenuti aumentano. Per sillogismo, si deve ammettere che qualcosa non va nella stessa legge penitenziaria, probabilmente perché superata dalla realtà oppure perché le misure alternative non vengono applicate in tempo reale. Il decreto interviene sui meccanismi della liberazione anticipata, forse persino appesantendone la procedura e, comunque, senza apportare riduzioni di pena in più, come da altri auspicato, intravedendo in essa l’estremo rimedio a un male estremo. Crediamo che le pur meritevoli riduzioni di pena non abbiano la possibilità di contenere il sovraffollamento, sebbene in un contesto drammatico come quello presente la tentazione, se non la necessità, di farvi ricorso è forte. Assai nobile l’intento di fondo, ma il risultato sarebbe visto come un sedativo momentaneo e come tale criticato ed osteggiato. Bene la previsione di attività socialmente utili, su base volontaria e senza remunerazione, all’interno della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale. I programmi dovranno essere attivati dalle amministrazioni pubbliche interessate e gestiti dall’ufficio per l’esecuzione penale esterna. La mancanza di un lavoro professionale non potrà più valere come motivazione per denegare l’affidamento al detenuto sperimentabile all’esterno, che voglia rendersi utile per la collettività. È un risultato di non poco momento, nell’ottica della giustizia riparativa. Ma, altro si poteva ancora fare. Con minimi accorgimenti, si poteva intervenire sulla detenzione domiciliare svuota- carceri, quale misura strategica voluta dal legislatore del 2010, a favore dei detenuti sotto i diciotto mesi. Bastava velocizzarne le procedure, nel passaggio di carte dal carcere al magistrato di sorveglianza, e sgomberare il campo da prassi operative ritardanti, come quella di subordinarne l’applicazione all’esito dell’osservazione, benché non richiesto. Non son pochi i detenuti con pene brevi. Un ritardo operativo di mesi incide negativamente sull’intero sistema. Esiste una misura alternativa al carcere poco conosciuta ed ancor meno applicata, chiamata semilibertà. Essa costituisce il primo, graduale passaggio dallo stato detentivo a quello libero. Per questa sua particolarità e potenziale funzione, la semilibertà dovrebbe costituire la regina delle misure alternative e produrre un effetto deflattivo più che apprezzabile, senza spezzare il cordone ombelicale che lega ancora il detenuto al carcere, ed invece è relegata al ruolo di Cenerentola, a causa dei requisiti imposti, sproporzionatamente rigorosi ed anacronistici. Tra l’altro, con la riforma Cartabia, la semilibertà è entrata a far parte, per unanime riconoscimento, delle pene brevi e può essere sostituita alla reclusione, sino a quattro anni, in sede di sentenza. Pertanto, non si comprende perché la consorella misura alternativa della semilibertà penitenziaria non debba essere parametrata secondo gli stessi limiti. Maggiore spinta applicativa della detenzione domiciliare svuota- carceri e rilancio della semilibertà arginerebbero il sovraffollamento e renderebbero più vivibile il pianeta carcere, il quale altro non è che l’altra faccia di un unico, stesso pianeta. Il nostro. *Già presidente del Tribunale di sorveglianza di Taranto Nordio: “Sulle carceri ho un piano, ne parlerò a Mattarella. Possibili 15 o 20 mila detenuti in meno” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 13 agosto 2024 Il ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Sulla custodia cautelare tutta la materia va rivista. Tensioni con Meloni? Mai stati così in sintonia. Vado avanti”. Ministro Nordio, si dice che lei sia diventato una brutta grana per Giorgia Meloni? “Lo leggo, ma è falso. Mai stata sintonia migliore. Come dimostrato nell’ultimo vertice a Palazzo Chigi. È un wishful thinking, pio desiderio di chi sa che, per la prima volta, faremo riforme radicali”. Ma la sua richiesta di incontro al presidente Mattarella non era condivisa... “Altra fantasia. È stata concertata proprio in quell’incontro a Palazzo Chigi”. Farlo coincidere con il voto sul dl carceri non è stato uno sgarbo al Parlamento? “Accusa bizzarra. Avevo presenziato a tutte le dichiarazioni di fiducia e anche votato. Per il giorno successivo la Presidente aveva, da tempo, fissato una riunione allargata proprio per dare un indirizzo operativo urgente per eliminare, o almeno ridurre, l’annoso problema del sovraffollamento. Ritenerlo uno sgarbo per noi è una buona notizia: l’opposizione non ha altri argomenti”. Vuol dire che anche i dissidi nella maggioranza sono fantasia? “Da sempre abbiamo sensibilità lievemente diverse. Tutti sanno che sono stato voluto ministro da Giorgia Meloni pur avendo presieduto il comitato promotore dei referendum: inclusa l’abrogazione della legge Severino, cui FdI era contraria. Ma stiamo trovando serenamente una sintesi”. Promettendo a Forza Italia cosa? “Non metterei un tema così complesso in termini quasi contrattualistici. E faccio presente che il referendum radicale sulla custodia cautelare è stato proposto anche dalla Lega. Comunque la necessità di una riforma sul tema è sentita da tutta la maggioranza”. Togliendo il rischio di reiterazione del reato per tutti gli incensurati, tranne quelli di mafia e terrorismo, come propone Costa di Azione? FdI non sembra d’accordo... “L’onorevole Costa fa parte dell’opposizione ed è suo diritto proporre ciò che gli pare. Certamente essere incensurati di per sé non può costituire una limitazione. Ma un po’ tutta la materia va rivista”. Preparate uno scudo per i colletti bianchi? “No. Ovviamente per i rapinatori, stupratori corrotti e autori di altri gravi reati la carcerazione preventiva rimarrà. Quello che conta è definire meglio i presupposti per la sua applicazione”. Ecco il punto. E come? “A cominciare dal requisito della reiterazione del reato. Il pericolo non può essere desunto dal rimanere in carica dell’amministratore pubblico accusato di corruzione”. Avete abolito il reato di abuso di ufficio e ora si teme la procedura di infrazione Ue... “Non è vero. Non siamo affatto fuori dalle regole. L’Ue dice “may”(si può) non “must” (si deve) avere quel reato. Lo abbiamo già chiarito. Tanto è vero che le raccomandazioni ricevute da Bruxelles non ne hanno fatto cenno e il presidente Mattarella l’ha firmata senza rilievi”. Palamara se ne avvarrà. Aveva ragione? Quel sistema da voi avversato, era lecito? “Il sistema Palamara non è mai stato rivelato in tutta la sua complessità ed estensione, anche perché sia il Csm che la magistratura non hanno ascoltato le decine di testimoni, magistrati in pensione o ancora in servizio, che Palamara aveva indicato. Su questi esistono intercettazioni che sono state tenute riservate, mentre altre sono state lasciate filtrare. Se ora il dottor Palamara intende attivarsi con nuove iniziative, la decisione spetta a lui”. Nelle carceri intanto è caos e allarme suicidi. Il decreto è nato vecchio? “No. Non è stato letto con attenzione. Alla Camera ho ascoltato affermazioni che confermavano questa carenza. In realtà contiene delle novità notevoli”. Quali? “A cominciare dalla possibilità di esecuzione della pena in ambienti diversi dal carcere, come le comunità per tossicodipendenti. Poi sta ai magistrati decidere se mandarveli o meno. Ricordo che i detenuti non sono messi in prigione dal governo, ma dai giudici”. Ma non avete aumentato i detenuti aumentando i reati, a partire dai rave party? “Altra mistificazione. Per quel nuovo reato non è mai stato incarcerato nessuno. Anzi. Non ne sono stati più organizzati, evitando incidenti che avrebbero provocato, quelli sì, altri arresti”. Roberto Giachetti, parlamentare di Italia viva, la denuncia per inerzia contro i suicidi in carcere... “Stravaganza estiva. Mi sorprende che forze che hanno sempre auspicato una divisione tra politica e giustizia intendano portare davanti alla magistratura un problema eminentemente politico”. Ma contro il sovraffollamento cosa farà? “Abbiamo dei progetti che vogliamo illustrare al capo dello Stato. Sarebbe irriguardoso anticiparli qui. Ma se mettiamo assieme la possibilità per i tossicodipendenti di andare in altre strutture, con quella di far tornare nel proprio Paese i detenuti stranieri, sulla quale stiamo lavorando notte e giorno, assieme alla Farnesina, possiamo arrivare a 15-20 mila detenuti in meno. Ecco risolto il sovraffollamento”. Ma davvero i medici dicono la verità sui rischi di suicidio in cella? di Antonio Gagliano Il Dubbio, 13 agosto 2024 Agli avvocati che si occupano di esecuzione penale e hanno un “termometro empirico” della situazione potrebbero sorgere alcuni dubbi sui criteri di scelta di medici e consulenti. Il truce, disumano bollettino di guerra delle nostre carceri ci informa che il sessantaquattresimo suicida (un cittadino albanese detenuto a Biella) era stato da poco sottoposto a una visita psichiatrica che avrebbe escluso ogni rischio di suicidio. Sia ben chiaro che ho ben presente il triste aneddoto di quel paziente che viene colto da fulminante infarto appena uscito dallo studio del suo cardiologo dal quale era stato controllato con scrupolo e trovato in ottimo stato. La scienza medica è tutt’altro che esatta e la psichiatria è forse quella che lo è meno. Ben mi guardo, quindi, dal soffermarmi sul caso concreto - i cui dettagli non conosco - per adombrare sospetti sulla condotta dello specialista che ha visitato quell’infelice. Qui però parliamo di un fenomeno (i suicidi in carcere) con numeri, e statistiche, allarmanti che suggeriscono alcune considerazioni. Gli avvocati che si occupano in vario modo di esecuzione penale vivono questi casi in modo diretto e drammatico: hanno quindi una sorta di “termometro empirico” della situazione che, seppur lontano dalla analisi precisa di una statistica, fornisce indicazioni senz’altro utili a focalizzare alcuni problemi che troppo spesso, anche in queste settimane, rimangono sotto traccia. La sensazione che qualcosa non funzioni anche nell’ambito delle consulenze medico-specialistiche sui detenuti è forte così come lo è quella (perché non dirlo!) di criticità nelle regole e nei procedimenti avanti i Tribunali di Sorveglianza. I numeri dei suicidi sono alti, troppo alti. Il tasso annuale tra i 60 milioni di italiani è mediamente, negli ultimi anni, di circa 6,5 eventi ogni 100.000 abitanti. Nel solo primo semestre di questo terribile 2024 nelle carceri si sono registrati circa 60 suicidi cioè, tenendo conto di una popolazione carceraria di circa 60.000 (vado a spanne…), due ogni mille in ragione annua. Il paragone è spaventoso: l’incidenza suicidaria tra i detenuti è all’incirca 31 volte più alta rispetto a quella generale della popolazione. Un’enormità. Si potrebbe dire: il detenuto vive una condizione di disagio particolare, di grave sconforto ed abbattimento che, almeno in parte, prescinde dalle condizioni carcerarie. Vero, ma sino ad un certo punto. A fronte di tale particolare fragilità soggettiva, va ricordato che il detenuto è (o dovrebbe essere) un soggetto più “sorvegliato” rispetto al comune cittadino attraverso una rete di operatori che dovrebbe intercettare per tempo il rischio suicidario. Un cittadino libero, ovviamente e per fortuna, non è seguito così da vicino. Un rischio 31 volte più alto non è quindi giustificabile per la generale condizione della privazione di libertà. Ecco allora le doverose domande frutto di quel “termometro empirico” di cui parlavo: è possibile che in nemmeno uno dei troppi suicidi di questo scorcio d’anno sia stato rilevato un rischio concreto e grave, che gli specialisti intervenuti mai abbiano segnalato l’allarme? Non voglio nemmeno pensare all’ipotesi che l’allarme sia stato lanciato e nessuno (Direzione della struttura, magistrato, Tribunale di Sorveglianza) vi abbia dato il dovuto seguito. Non si creda, poi, che il problema attiene solo alle indagini specialistiche di tipo psichiatrico\psicologico. Ancora quel “termometro empirico” ci dice che la febbre è alta anche su altro tipo di gravi patologie della popolazione carceraria: quanti i casi di persone detenute le cui condizioni di salute sono state - da parte ovviamente degli specialisti o dei medici legali incaricati - giudicate compatibili con la detenzione e che invece in brevissimo tempo sono evolute sino all’exitus nello sconforto di una cella? E quante volte, da parte di chi ha proclamato l’antico giuramento di Ippocrate, è stato asseverato che le cure e terapie necessarie potevano essere tranquillamente somministrate dentro le nostre disastrate carceri ed invece quei pazienti, come era facile prevedere, ne rimanevano privi? È lecito il sospetto che il criterio guida sia quello di assecondare le aspettative dell’autorità che dispone l’accertamento specialistico, che affida l’incarico. Credo sia venuto il momento di chiedersi, specie quando sono in campo i diritti più delicati (cioè, in tema di giustizia penale, quasi sempre…), quali siano gli effettivi criteri di selezione degli specialisti (leggasi periti o consulenti) incaricati dall’autorità giudiziaria e, in particolare, da quella della Sorveglianza. È chiaro che, quando viene negata l’esistenza di una grave patologia o di un rischio suicidario, si preserva il diritto dello Stato di eseguire la pena legalmente comminata. È un risultato senz’altro ben visto dalla magistratura di sorveglianza la cui stella polare, alla luce dello stato delle nostre carceri e dell’eccesso di formalismo e rigore nel disporre l’accesso alle misure alternative, rimane proprio l’esecuzione “retributiva” della pena e molto, ma molto meno, la rieducazione e il reinserimento del reo. Ecco, servirebbe proprio una statistica: quei consulenti o specialisti più funzionali al fine retributivo hanno, o meno, maggiori opportunità di ricevere mandati fiduciari? Non si pensi che il problema attiene soltanto agli specialisti incaricati in ambito di esecuzione penale. Qualcuno crede che un consulente di una Procura, che non abbia valorizzato dal punto di vista dell’indagine tecnica gli elementi d’accusa di un importante procedimento, abbia molte probabilità di ricevere altri incarichi? O, invece, viene scelto chi ha già in precedenza dato prova di percorrere imperterrito anche il più improbabile solco inquisitorio? Forse anche quel perito del Giudice che abbia ripetutamente condiviso la ricostruzione tecnica delle difese rimarrà ai margini perché l’assecondamento della pretesa punitiva o di quella esecutiva di sovente costituisce un elemento fiduciario decisivo. Il discorso non va riferito solo ai medici perché riguarda tutti i professionisti chiamati a fornire elementi di conoscenza tecnica utile per l’accertamento di fatti o l’assunzione di decisione e, se proprio vogliamo camminare sulle più infide sabbie mobili, anche quegli avvocati che, ad esempio, sono impegnati in via esclusiva nella difesa dei collaboratori di giustizia i cui mandati, nei fatti, hanno origine fiduciaria da parte della Procura procedente. Chi svolge una professione ordinistica regolamentata, l’iscritto in un albo professionale si trova, rispetto a queste tematiche, in una condizione molto particolare. Soprattutto il medico, ma anche l’avvocato, nell’esercizio proprio della loro professione sono legati da millenni a un giuramento che evoca un sistema di regole e di principi che non sempre coincidono con le norme, l’autorità e le finalità perseguite dallo Stato. La nascita delle più classiche e autorevoli tra le professioni liberali (volutamente uso questa espressione che ha una dimensione storica, etica e ideale ben diversa da quella, tutto sommato economicista, di “libere professioni”) addirittura precede, di molti secoli, la nascita del concetto di Stato in senso moderno e ovviamente anche la sua forma di produzione normativa, quella legge verso cui continuiamo a esser mossi da troppa enfasi positivistica. La loro “deontologia” rappresenta da tempi immemorabili un sistema di valori ben superiore a quello in cui da qualche tempo lo si vuole ridurre per cui, ad esempio, il medico dovrebbe incontrare significative limitazioni se chiamato alla cura di un “nemico” criminale al pari dell’avvocato che quel “nemico” debba difendere. So bene che si tratta di questioni che non possono essere adeguatamente affrontate in poche righe sulle colonne di un giornale, seppur autorevole, ma un’ultima domanda mi sia concessa. “In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati”: è questo uno dei più solenni impegni del giuramento di Ippocrate. Costituisce ancora la bussola di orientamento del medico incaricato di un’indagine da parte dell’autorità giudiziaria? O, passando al versante dell’avvocatura, è sempre il diritto di difesa (nella sua accezione più generale di antitesi dialettica alle funzioni repressiva e punitiva dell’autorità statale) che connota l’attività dell’avvocato sistematicamente impegnato nella “difesa” dei collaboratori di giustizia? Il tema ricorre immutato: il tormentato rapporto tra il medico e l’autorità, tra l’avvocato ed il potere costituito, tra l’esponente delle “professioni liberali” e lo Stato, tra il precipuo complesso di regole e principi deontologici e il sistema di regole e finalità dello Stato. Come orientarci? Dovremmo ricordare più spesso che a noi, alle professioni liberali, spetta raccogliere la sfida di Antigone a Creonte e non già la rassegnazione di Ismene rispetto all’editto, forse anche legittimo, del suo Re. *Avvocato, Consigliere Cnf L’Associazione Coscioni denuncia le ASL: dovete fare ispezioni in carcere di Marco Perduca* L’Unità, 13 agosto 2024 Approvati sia il ddl Nordio che il decreto carceri, ma il senso di umanità, la rieducazione e la soluzione al sovraffollamento non vi trovano spazio. Mentre alla Camera iniziavano le votazioni finali sul Decreto carceri, la presidente del Consiglio convoca va i responsabili di via Arenula per discutere le misure necessarie per affrontare il sovraffollamento nei 189 istituti di pena italiani. Pare un caso di dissonanza cognitiva ma è cronaca parlamentare. In effetti, nel decreto adottato con la fiducia nelle due Camere, di misure che vadano a sanare l’illegalità dell’esecuzione penale in Italia non ce ne sono. Si assumeranno 100 persone - 500 nel 2025, le altre nel 2026 - si nomineranno figure burocratiche apicali, tra cui un Commissario speciale (ci mancherebbe) per l’edilizia penitenziaria, come se negli anni non ne avessimo visti apparire e sparire senza alcun risultato, si toglierà qualche ostacolo per l’accesso ai domiciliari per gli ultrasettantenni - qualche centinaio di persone - ma non si affronta minimamente il problema più noto: una sovrappopolazione del 131%. Niente, neanche per le detenute in gravidanza o con prole minorenne. Molte sono le concause della presenza di 61.133 persone in strutture che ne possono contenere, a una conta non burocratica, circa 45mila. Dalla iper-penalizzazione, spesso di reati senza vittima (leggi quelli previsti dal Testo unico sulle droghe del 1990), all’irragionevole durata dei procedimenti (quasi il 25% dei detenuti non ha una sentenza definitiva), dalla chiusura di locali fatiscenti agli infiniti lavori di manutenzione e/o costruzione di nuove strutture. Una seconda analisi della qualità degli istituti fa poi emergere condizioni di restrizioni disumane e quindi degradanti. Situazioni che, oltre a configurarsi come “tortura”, come sentenziato nel 2013 dalla Corte europea dei diritti umani con la sentenza “Torreggiani”, non prevedono: servizi socio-sanitari adeguati, attività trattamentali, né quel che va comunque garantito a chi è privato della libertà personale ma si trova in un Paese che all’articolo 27 della propria Costituzione prevede, tra l’altro, che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La mancanza di misure strutturali per garantire la salute nelle carceri italiane ha portato l’Associazione Luca Coscioni a predisporre delle diffide per tutte le Asl d’Italia, sollecitandole ad adempiere ai propri compiti stabiliti dalla legge - primo fra tutti effettuare sopralluoghi nelle strutture penitenziarie per valutarne le condizioni igienico-sanitarie. Nei giorni in cui si legge di routinarie visite parlamentari in carcere, occorre ricordare ai direttori delle aziende sanitarie il loro compito di riferire ai ministeri di Salute e Giustizia sulle condizioni delle strutture ispezionate e di suggerire i provvedimenti necessari da adottare. La totale mancanza di attenzione per il diritto alla salute del recente Decreto carceri, oltre che le denunce sistematiche dei Garanti cittadini e regionali, le notizie di stampa e i resoconti delle visite ispettive, oltre che le decine di interrogazioni parlamentari che non trovano risposta, fanno emergere una situazione di palese violazione strutturale del diritto alla salute delle persone ristrette in Italia. Il ministro Nordio sembra intenzionato a intervenire sulla custodia cautelare in carcere passando dalla “dimissione di responsabilità”, come nel Decreto che porta il suo nome o quello sulle carceri, alla “remissione di responsabilità”: la magistratura di sorveglianza può mandare a casa circa 5mila persone in pochi giorni. E dire che il ministro Nordio è stato pm, dovrebbe quindi avere contezza della mole di carte che albergano sulle scrivanie dei suoi ex colleghi. Nel caso in cui le diffide dell’Associazione Luca Coscioni dovessero cadere nel vuoto, le autorità competenti regionali e cittadine verranno “interessate” con altri strumenti perché la salute in carcere è un diritto. *Associazione Luca Coscioni “Bellezza Radicale” lancia il digiuno per avere l’amnistia L’Unità, 13 agosto 2024 Al Satyagraha hanno già aderito Zamparutti, D’Elia, Hallissey, Blengino e Giachetti. Il sostegno alla proposta di legge per la liberazione anticipata. 2024: 64 suicidi fra i detenuti (di cui oltre il 32% in attesa di giudizio definitivo, oltre il 15% in attesa del primo giudizio, oltre il 34% sta scontando un residuo di pena da 0 a 3 anni e più del 11% deve scontare meno di un anno di detenzione), 7 suicidi tra le forze di polizia penitenziaria, sovraffollamento medio del 140% (con picchi di oltre il 180%, come a Regina Coeli), cronica mancanza di personale di sorveglianza, ma anche di supporto medico, educativo e psicologico. L’intera comunità penitenziaria è messa a rischio dalla patente violazione della legalità presso gli istituti detentivi. Il “d.l. Carceri” di recente approvazione, presentato temerariamente come soluzione per “umanizzare il carcere”, risulta essere meno di una goccia nel mare. Da militanti iscritti al Partito radicale e Nessuno tocchi Caino, componenti il gruppo di “Bellezza radicale”, non possiamo rimanere in silenzio, inerti, con le mani in mano, in attesa che qualcosa accada. La proposta di legge a prima firma Giachetti sarebbe una soluzione senza dubbio utile per l’hic et nunc emergenziale. E continueremo a sostenerla con forza, nonostante la discussione parlamentare di tale proposta sia stata nei giorni scorsi dapprima rinviata, poi “provvisoriamente bocciata”, poiché Forza Italia ha scelto di anteporre gli interessi di partito e di maggioranza di governo al rispetto dello stato di Diritto e ai Diritti umani. Sulla scia di quanto fatto nei decenni dal Partito radicale, da Marco Pannella, da Nessuno tocchi Caino, da Rita Bernardini e da molti altri compagni, noi militanti intendiamo promuovere un’iniziativa di lotta nonviolenta e di dialogo rivolta al ministro Nordio dando vita a un nuovo Satyagraha, con l’avvio di uno sciopero della fame a staffetta. Con tale iniziativa invochiamo a gran voce un provvedimento di “amnistia per la Repubblica” come unico strumento risolutivo della eclatante flagranza di reato in cui imperversa lo Stato italiano. In tal senso, riteniamo che un primo fondamentale e responsabile passo nella direzione del dialogo, possa essere, come ha sostenuto Roberto Giachetti, intervenire con un qualsiasi provvedimento che miri a decongestionare una situazione di estrema gravità presente nelle carceri italiane. Al Satyagraha di Bellezza radicale hanno già aderito Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti, (segretario e tesoriera di Nessuno tocchi Caino), Matteo Hallissey e Filippo Blengino (segretario e tesoriere di Radicali italiani), e l’On. Roberto Giachetti di Italia viva. Chiediamo a chiunque ritenga che quanto descritto sia una “questione di prepotente urgenza” di unirsi a questa iniziativa, che vuole muoversi al di là delle tessere di partito o di qualsivoglia associazione. In carcere per vedere. O per essere visti: Delmastro va a Taranto di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 agosto 2024 È sulle carceri che in questo rovente agosto si consuma il braccio di ferro tra i due partiti più distanti della maggioranza di governo, a rischio rottura proprio sul tema della giustizia. Ecco che, dopo il cordiale e discreto benservito del presidente Mattarella al ministro Nordio, il quale avrebbe voluto incontrarlo senza uno straccio di proposta vera in mano per far fronte all’emergenza sovraffollamento e suicidi, al solo scopo di ottenere una sponda per non affogare nel nulla dei provvedimenti varati prima delle ferie, va in scena ora la sfida delle visite agostane nelle carceri tra Fratelli d’Italia e Forza Italia. Perciò, al berlusconiano Tajani che prosegue l’iniziativa “Estate in carcere” “di comune sentire politico con il Partito Radicale”, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove contrappone un giro dei territori dove i sindacati autonomi di polizia penitenziaria più destrorsi sono particolarmente presenti, ma anche piuttosto inquieti. Uno di questi è Taranto, dove il sottosegretario si recherà questa mattina in “visita istituzionale” presso la Casa circondariale Carmelo Magli. Ancora una volta Delmastro otterrà nella sua veste istituzionale una buona visibilità politica gratuita, incontrando le rappresentanze sindacali degli agenti e la dirigenza degli istituti di Taranto e Brindisi alla presenza dei fratelli di partito Dario Iaia e Giovanni Maiorano, parlamentari tarantini, e del consigliere regionale di FdI, Renato Perrini. Con i quali poi subito dopo terrà una conferenza stampa. Ma ieri l’Fp Cgil di Taranto ha scritto una lettera al sottosegretario ospite, avvertendolo che troverà “qui un tradimento dello Stato” e chiedendo provvedimenti “immediati” contro il sovraffollamento e la carenza di personale. “A fronte di una capienza regolamentare di 500 persone, il carcere di Taranto ne ospita 960. Il più alto tasso di sovraffollamento d’Italia - spiega il segretario Minimo Sardelli, cofirmatario della missiva con Giovanni D’Arcangelo - Gli agenti al lavoro sono 170 su circa 400 previsti per un carcere di primo livello, e costretti a muoversi in una struttura enorme, compreso il nuovo padiglione “Jonio” che dista dal padiglione centrale di quasi 200 metri. Ci sono 5 educatori su 8 previsti. Quindi pochi anche se i reclusi fossero in numero regolamentare, figuriamoci così. Per non parlare del personale medico e socio sanitario messo a disposizione della Asl, ampiamente sottodimensionato per quasi mille detenuti tra i quali spicca un altissimo tasso di tossicodipendenti. Di notte ci sono solo 7 o 8 agenti a controllare tutto. E i poliziotti, il cui contratto nazionale prevede 6 ore al giorno, sistematicamente ne lavorano 8. A cui si aggiungono altri straordinari, con il risultato che gli agenti vivono la loro vita all’interno della struttura. E infatti abbiamo un altissimo tasso di assenze per malattia, perché di questa vita ci si ammala”. Grazie alla sorveglianza dinamica, spiega ancora Sardelli, l’alto numero di tentati suicidi non si è tradotto in morti. “Ma la mancanza di lavoro e di altre attività di reinserimento fa sì che i detenuti siano soggetti alle dinamiche tipicamente criminali o mafiose che finiscono col prendere piede. Le aggressioni sono continue”. In queste condizioni, gli agenti e i detenuti ai quali “è difficile anche assicurare il diritto alla salute fisica e psichica, come ha denunciato in Procura l’associazione Coscioni”, sono testimoni del “tradimento dello Stato perché - aggiunge il segretario generale della Cgil di Taranto, Giovanni D’Arcangelo - in questa condizione è impossibile esercitare la funzione tipica di un carcere, cioè quella di rieducare le persone e reinserirle nella società”. Particolari a cui il sottosegretario Delmastro darà importanza a modo suo. Carceri, dove si misura il grado di civiltà di un Paese di Fabrizio Rippa e Guido Trombetti Il Mattino, 13 agosto 2024 Una celebre espressione di Voltaire - mai abbastanza ripetuta - ci ricorda che il “grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Verissimo. Ovviamente un carcere non può essere una SPA. E quindi, come ci ha ricordato tempo fa con lucido realismo Tullio Padovani- maestro di diritto penale - “la condizione dei detenuti deve rappresentare ciò che di peggio una società può offrire in un contesto dato”. Ma anche al peggio c’è un limite. Se si sommano le due espressioni, possiamo farci un’idea abbastanza desolante di quale sia il grado di civiltà della nostra nazione, le cui carceri secondo i più recenti dati, sono le più sovraffollate dell’Unione. Nel solo periodo sinora trascorso del 2024 - siamo solo ad agosto - si sono verificati 64 suicidi, la maggior parte dei quali di detenuti in attesa di giudizio. Per non parlare della situazione mortificante nella quale si svolge la vita (se è ancora lecito definirla tale) carceraria nella maggior parte degli istituti penitenziari. Una situazione “indecorosa”, l’ha definita il presidente Mattarella. Ora, che le sanzioni detentive - come ogni forma di reazione alla commissione di reati - debbano comportare una pena, è intuitivo capirlo. Decisamente contro-intuitivo è comprendere e far comprendere la misura necessaria di tale afflizione. Abbiamo scritto pochi giorni fa su queste colonne “Il carcere ha una doppia funzione. Punitiva e correttiva”. E la prima deve essere funzionale e subordinata alla seconda. Si può sostenere che la detenzione ha un suo valore intrinseco come strumento per far scontare una colpa separato dalla finalità di recupero? Se qualcuno lo pensasse non avrebbe il coraggio di affermarlo. “Le pene, ammonisce la Costituzione, “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanita?” (e tanto piu? le detenzioni cautelari). Il ricorso al carcere e? purtroppo una necessita?, ma ogni sforzo deve essere fatto per limitarlo” scrive Bruti Liberati. In realtà la situazione italiana è prossima al collasso. Difficile aprire il cuore alla speranza. E non ci neghiamo che esistono correnti di pensiero che ritengono una chimera la funzione rieducativa della pena. Ma anche esse almeno pretendono che la stessa non sia “illegale”, non si trasformi in una “tortura”, una miope vendetta di Stato, come scriveva Bruti Liberati. Tutto ciò per effetto di una inerzia pluridecennale che rappresenta una vergogna per un Paese che a pieno titolo si vanta di essere la culla del diritto. In un bellissimo passaggio nel libro V13 Carrére afferma che” fare l’avvocato è proprio questo: fare tutto il possibile perché l’imputato sia processato sulla base del diritto e non delle passioni e poi quando tutti gli hanno voltato le spalle, essere l’ultimo a tendere ancora la mano”. In questa frase c’è il senso ultimo del nostro modo di intendere il rapporto tra reati compiuti e pena inflitta. Al centro deve restare sempre l’essere umano. E ancora Carrére ricorda che Dostoevskij descrive da par suo quando, condannato a morte e portato davanti al plotone di esecuzione, arrivò la lettera dello zar con la concessione della grazia. “Il particolare sublime è che per caso o per sadismo, l’emissario incaricato di leggere la lettera di grazia era un generale balbuziente….” Ciò vuole soltanto essere un modo per descrivere la temperie nella quale vive chi è sottoposto ad un regime di carcerazione. Il Parlamento ha appena dato il via libera al cosiddetto “Decreto carceri”, provvedimento emergenziale assunto dal Governo per organizzare una prima risposta all’Europa che ci ha più volte richiamato. Una risposta sicuramente imperfetta. Criticabile per alcuni aspetti di merito e di procedura. Eppure ci sono motivi che spingono a guardare complessivamente positiva tale determinazione, che certamente non sarà la soluzione di tutti i problemi inerenti le carceri italiane - ne è anzi ben lontana - ma almeno rompe un lungo periodo di inazione che sconfinava nell’indifferenza. Culturalmente, è un segnale incoraggiante. Si poteva far meglio? Certamente tutto è perfettibile. Ma almeno qualcosa si è mosso. Intanto saranno assunti 1000 agenti in due anni (i problemi organizzativi non consentivano tempi immediati di immissione in organico). Saranno assunti ulteriori medici. Sarà aumentato il numero delle telefonate che i detenuti potranno fare. Sei al mese. Non sono sufficienti? Ma almeno sono più di prima. Il decreto prevede anche maggiori possibilità per i detenuti tossicodipendenti di scontare la pena in una comunità. Sarà anche realizzato un elenco di strutture abilitate all’accoglienza e al recupero dei soggetti coinvolti. E prevede anche la semplificazione dei meccanismi per la concessione degli arresti domiciliari nel caso di detenuti ultrasettantenni o con problemi di salute. Ma, forse l’elemento di maggiore importanza, è stato quello di prevedere un commissario per l’edilizia penitenziaria. Scrive Emilio Dolcini: “I tassi di recidiva si abbassano se la pena viene scontata in un carcere ‘aperto e umano’ (prototipo, quello milanese di Bollate)”. L’obiettivo deve essere di avere tutte le carceri sul modello di Bollate. Dove ha scontato parte della pena Rosa Bazzi (strage di Erba) che di giorno lavora presso una comunità e la sera rientra in carcere a dormire. Probabilmente fosse stata a Poggioreale o a Regina Coeli non sarebbe mai arrivata a godere di tali benefici. Insomma, bisogna avere il coraggio di credere nella possibilità e nell’utilità sociale del recupero. Che passa anche attraverso la qualità della vita materiale. Il decreto carceri è legge. Grimaldi: “Ci sono spiragli di luce per una umanizzazione degli istituti” di Gigliola Alfaro agensir.it, 13 agosto 2024 L’ispettore generale dei cappellani offre una visione pastorale delle norme approvate. Tra gli aspetti positivi, l’aumento del numero della Polizia penitenziaria e anche e procedure più snelle per concedere di uscire dal carcere in anticipo. È diventato legge il decreto carceri, con il via libera definitivo ottenuto alla Camera; sono stati 153 i voti favorevoli, 89 i contrari e un astenuto. Tra le novità previste, l’assunzione di mille nuove unità per il Corpo della Polizia penitenziaria, ma anche procedure più snelle per concedere di uscire dal carcere in anticipo a chi ne ha diritto, più telefonate per i detenuti e l’istituzione di un albo di comunità adibite alla detenzione domiciliare. Don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, offre al Sir una visione pastorale del decreto carceri da poco convertito in legge. Don Raffaele, che idea si è fatto del provvedimento approvato? La mia è una lettura pastorale condivisa dai cappellani. Il “decreto” è frutto di un lavoro umano e come tale inevitabilmente presenta luci e ombre, non è perfetto in tutto ma c’è uno sforzo di voler umanizzare di più le carceri. Guardando al voto in Aula, c’è stata una spaccatura che indica come a livello politico ci siano giudizi contrastanti in merito. Quali sono gli aspetti che saluta come maggiormente positivi? Dal punto di vista pastorale ci sono aspetti che possono aiutare all’umanizzazione: tra questi, l’assunzione di personale di Polizia penitenziaria può essere un’attenzione per favorire l’umanizzazione delle carceri, perché la mancanza di operatori riduce le attività all’interno delle carceri. E in questi ultimi anni tra gli agenti che vanno in pensione e i nuovi assunti non si riesce a portare in equilibrio il numero del personale nelle strutture penitenziarie. Un altro aspetto positivo è la possibilità di liberazione anticipata. Anche questa può essere una buona opportunità per i detenuti, ma c’è bisogno della collaborazione e della responsabilità dell’individuo. Se il magistrato vede che il detenuto ha partecipato al trattamento e alla rieducazione può giudicare positivamente questo atteggiamento con un parere positivo su una liberazione anticipata. Il detenuto viene coinvolto a vivere un percorso critico del proprio passato e a rivedere la sua vita attraverso alcune attività che lo aiutano nel trattamento. Per noi cappellani, dal punto di vista pastorale, questo può essere un atteggiamento positivo perché tanti detenuti potrebbero uscire dal carcere con la liberazione anticipata. Ovviamente, ci sono poi tanti aspetti burocratici che rallentano la messa in pratica del decreto carceri. Ci sono altri aspetti che sono validi dal punto di vista dei cappellani? Un aspetto positivo sono i detenuti che possono accedere a strutture residenziali, in comunità pubbliche o private e questo è aspetto riguarda soprattutto i detenuti tossicodipendenti, ma anche a coloro che non hanno una residenza, perché molti detenuti potrebbero uscire dal carcere ma non avendo una residenza il magistrato non dà la possibilità alla persona di uscire dall’istituto penitenziario, quindi allungare l’elenco delle strutture residenziali, che potrebbero accogliere dei detenuti non solo in permesso ma soprattutto tossicodipendenti e coloro che sono senza fissa dimora, potrebbe giovare a questa classe di detenuti. Ancora. Le telefonate sono state aumentate, ma sappiamo bene che indipendentemente dal decreto ogni direttore avendo davanti il detenuto che sta vivendo un momento particolare può decidere di aumentare le telefonate in questi casi: una moglie in ospedale, un figlio che non sta bene, una mamma che è grave. Per evitare agitazione, violenze, il direttore deve essere molto attento a questi aspetti concedendo al detenuto, al di là della nuova legge, telefonate che gli permettono di essere più sereno in quel momento di difficoltà. Ci sono aspetti che pastoralmente non convincono i cappellani? Nel decreto convertito in legge il 41 bis viene escluso dai programmi di giustizia riparativa. Il governo guarda alla sicurezza e lo possiamo comprendere perché chi è detenuto con la misura del 41 bis sconta gravissimi reati, ma, per noi sacerdoti, mai dovremmo togliere a qualsiasi persona in carcere l’orizzonte della speranza, quindi anche al detenuto al 41 bis che vive segregato per motivi di sicurezza, anche se su questo noi non abbiamo nulla da dire perché lo Stato vuole garantire la sicurezza dei cittadini. C’è anche un altro aspetto problematico. Ci dica… Nel decreto convertito in legge si parla anche degli stranieri, che in tempi brevi - dopo gli accordi con i singoli Stati - dovrebbero scontare la loro pena nei loro Paesi di origine: potrebbe essere la cosa giusta che possano rientrare nei loro Paesi di origine, ma ci chiediamo come verrà scontata la pena da queste persone nei loro Paesi di origine dove tante volte anche la dignità della persona viene calpestata? In tante nazioni parlare di umanizzazione delle carceri è un’utopia in questo momento. Il problema è che tanti stranieri potrebbero tornare nei loro Paesi di origine per continuare l’esecuzione della loro pena, dove si correrebbe il rischio che il trattamento sia disumano. In carcere secondo lei com’è stata valutata la nuova legge? Molti la aspettavano da tempo, forse alcuni speravano in qualcosa in più, quindi sono stati delusi, ma comunque ci sono degli spiragli di luce che vogliamo cogliere anche a livello pastorale, di operatori che vivono la loro missione all’interno del carcere e che per primi siamo chiamati a umanizzare il carcere aiutando il detenuto a superare i suoi momenti critici nell’istituto penitenziario. “Liberazione anticipata automatica? Falso e fuorviante” Il Fatto Quotidiano, 13 agosto 2024 I sindacati penitenziari contro il vademecum del Dap sul Decreto Carceri. Polemica sul vademecum diffuso dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per informare gli istituti delle modifiche contenute nel decreto Carceri. A sollevarla è l’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria. Nel mirino del sindacato è una disposizione prevista dal Dap, contenuta in una circolare distribuita in queste ore. “Ogni volta che il ristretto farà una istanza per le misure alternative alla detenzione, automaticamente il magistrato di sorveglianza applicherà la riduzione per la liberazione anticipata”, si legge nel vademecum sul provvedimento, che su indicazione del Dap dovrà essere reso fruibile “con distribuzione diretta ai detenuti e internati”. Nel documento, indirizzato a provveditori e direttori degli istituti che dovranno poi diffonderlo nelle strutture, vengono spiegati in sette punti diverse “novità migliorative della condizione detentiva introdotte dal decreto”. Tra queste, l’aumento del numero di telefonate a disposizione per le persone ristrette, oltre ad altri provvedimenti e facilitazioni di tipo burocratico previsti dalle normative. Tra le altre cose si prevede che “la pena verrà ridotta di 45 giorni ogni sei mesi, automaticamente senza necessità di fare alcuna istanza al magistrato di sorveglianza, se il ristretto parteciperà alle attività di rieducazione”. Nel mirino è finito un concetto semplificativo dell’articolo cinque dello stesso decreto, quello sugli interventi in materia di liberazione anticipata. Al punto quattro del vademecum si legge: “Ogni volta che il ristretto farà una istanza per le misure alternative alla detenzione, automaticamente il magistrato di sorveglianza applicherà la riduzione per la liberazione anticipata”. Due righe pesantemente contestate dal sindacato Osapp, che con il suo segretario attacca: “Si afferma erroneamente che ogni volta che un detenuto presenta un’istanza ha diritto ai giorni di liberazione anticipata. Questa è una dichiarazione non solo falsa, ma anche pericolosamente fuorviante”, dice Leo Beneduci, il quale sottolinea “un macroscopico errore che un dipartimento del ministero della Giustizia non può permettersi”. Il sindacalista della Polizia penitenziaria spiega: “Al punto 4 del documento si afferma erroneamente che ogni volta che un detenuto presenta un’istanza ha diritto ai giorni di liberazione anticipata. Questa è una dichiarazione non solo falsa, ma anche pericolosamente fuorviante”. Secondo Beneduci il vademecum “non è stato tradotto in altre lingue, creando ulteriori barriere in un sistema carcerario che ospita detenuti di diverse nazionalità. Questa mancanza non è solo una svista, ma un’esclusione deliberata che complica ulteriormente la comprensione e l’applicazione delle norme”. Per il segretario dell’Osapp “questo vademecum non è solo un documento mal scritto, ma il simbolo di un sistema che ha perso la bussola, è il riflesso di un’amministrazione che naviga a vista, incapace di comprendere le proprie leggi, figuriamoci di applicarle con giustizia ed equità”. Cecilia D’Elia: “Nuovi reati, carceri disumane… non basta per dire svolta autoritaria?” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 13 agosto 2024 “Dopo due anni di governo di destra, l’equilibrio costituzionale dell’Italia è messo in crisi. La sinistra si sta unendo per creare una valida alternativa, cercando di ricostruire il legame tra le persone e la politica”. Cecilia D’Elia, senatrice, della direzione nazionale del Partito democratico: pace, lavoro, autonomia differenziata, giustizia sociale. Si prepara un autunno caldissimo. Quali le priorità per il Pd e il centrosinistra? La priorità è ricostruire una speranza di futuro e di giustizia nella vita delle persone, a cominciare dall’impegno per la pace, per l’ambiente, per una vita più dignitosa. Lo abbiamo fatto con la proposta di salario minimo, che oggi è una raccolta di firme per la legge d’iniziativa popolare, dopo il trucco usato dalla destra per non discuterne in Parlamento, lo facciamo nella difesa della sanità pubblica e nelle proposte per il suo rifinanziamento, lo stiamo facendo ogni giorno con la raccolta firme contro l’autonomia differenziata, il cui successo dimostra che italiane e italiani hanno capito i rischi che questo progetto comporta per le loro comunità e le loro vite. Lo “spacca Italia” rende tutti più deboli e aumenta le disuguaglianze. Autenticando le firme ai banchetti, ho visto la disponibilità e l’attenzione di tanti cittadini. La priorità è innanzitutto confermare questo modo di fare opposizione: essere riconoscibili e credibili sulle questioni, strada per strada. Ricostruire un nesso tra vita delle persone e politica... L’ultimo Consiglio dei ministri prima della pausa estiva ci ha regalato la controriforma del preruolo universitario: dopo il taglio al fondo ordinario per l’università una scelta che aumenta la precarietà e tradisce la riforma del 2022. Una scelta contro una generazione, in questo caso quella impegnata nella ricerca, che si somma ad altre di segno punitivo fatte da questo governo nei confronti dei più giovani, dal decreto rave al voto in condotta, passando dalle scelte di criminalizzazione del decreto Caivano. Del resto, un tratto autoritario di questa destra è quello di governare attraverso il diritto penale: ho perso il conto dei nuovi reati inventati in questi due anni. Elly Schlein insiste sulla “inclusione” come bussola per costruire un “campo largo” contro le destre. Ma non c’è il rischio che questo bisogno di unità finisca per edulcorare programmi, visioni, progettualità? Nel 2022 siamo stati sconfitti politicamente. Ammiro il modo testardo e determinato con cui la segretaria lavora a costruire una credibile alternativa al governo Meloni. Perché coglie la portata della sfida, consapevole della responsabilità che abbiamo. Dare una risposta positiva e democratica contrastando le disuguaglianze, mentre la destra, tra premierato e autonomia, mina la democrazia rappresentativa e la coesione del Paese. Il bisogno di unità è un dovere democratico, ma non può essere la somma politicista di chi si oppone. Se si parte dai temi non ci sono programmi già scritti da edulcorare, ma obiettivi da costruire insieme. Un’alleanza non può essere solo la somma delle sigle politiche, deve avere un respiro sociale e popolare e deve saper mobilitare e coinvolgere luoghi e realtà che ogni giorno promuovono diritti e cittadinanza nel nostro Paese. Questo modo di costruire una coalizione salva anche dai rischi di trasformismo. Una certa pubblicistica di sinistra imputa al Pd e alla sua segretaria di essere ancora troppo attenta ai temi dei diritti civili, di genere etc., e meno a quelli sociali. È così? Questo modo di contrapporre diritti sociali e diritti civili è a dir poco arcaico. Potremmo leggere già l’articolo 3 della nostra Costituzione, come una felice sintesi tra bisogni di riconoscimento (l’uguaglianza “senza distinzione di…”) e istanze di redistribuzione (“è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli...”). Come sostiene il femminismo intersezionale ogni persona è attraversata da bisogni che tengono insieme più dimensioni identitarie e sociali. La segretaria che balla sul carro del Pride è la stessa che ha costruito l’agenda del Pd a partire dalla battaglia sul salario minimo. Ci tengo poi a sottolineare che sminuire le cosiddette questioni di genere significa non cogliere la portata della rivoluzione femminista. Il venire al mondo della libertà delle donne è stato paragonato a una mutazione antropologica. La terribile sequenza di femminicidi ci parla di un’incapacità maschile a convivere con essa. La crisi del patriarcato produce una questione maschile che va politicamente interpretata. La destra lo fa, offre sicurezza al maschio bianco occidentale che si sente spodestato e declina in modo conservatore e stereotipato la differenza sessuale. Il continuo ritorno della messa in discussione dell’aborto legale e sicuro è il leit motiv di tutte le destre del mondo, spaventate dalla libertà delle donne. Ricordiamoci che Trump nel 2016 vinse grazie a un vantaggio di 30 punti tra gli uomini bianchi. Come si fa a non capire la centralità della questione maschile e la necessità di dargli risposte altre da quelle reazionarie? Il femminismo è per tutti, è la messa in discussione di un sistema di dominio che libera anche gli uomini, promuove una diversa convivenza e una nuova idea di stato sociale, fondato sulla cura e l’interdipendenza delle persone, su un nuovo equilibrio tra tempi di vita. Pensiamo ad esempio alla battaglia per i congedi paritari tra madri e padri. La segretaria è già su questa frontiera. Tutto questo, in uno scenario di guerra, dall’Ucraina al Medio Oriente. Il martirio di Gaza continua, e il mondo sta a guardare... È terribile, ci stiamo abituando al bollettino di guerra quotidiano. Continuo a pensare che la guerra sia la sconfitta della politica, e dell’umanità. In questi giorni le notizie continuano a parlarci di stragi di bambine e bambini. Una scuola bombardata a Gaza City, un crimine di guerra. Si ripetono le stragi di civili proprio mentre si intravede la possibilità di un negoziato. Il governo israeliano di estrema destra sta minando il terreno su cui costruire la pace e la sicurezza del proprio Paese. Un disastro che va fermato subito. L’Europa e la comunità internazionale devono prendere un’iniziativa per fermare Netanyahu. Bisogna ottenere un cessate il fuoco immediato e la liberazione degli ostaggi... È tempo che l’Italia riconosca lo stato di Palestina. Accanto al diritto di esistere di Israele, è necessario che i palestinesi abbiano un loro Stato, libero dall’occupazione, in cui esercitare democrazia e autodeterminazione. Ci vuole un sussulto di iniziativa dell’Europa, un protagonismo per imporre il cessate il fuoco. E lo stesso vale per il conflitto russo ucraino. Sostenere l’Ucraina che ha subito l’attacco di Putin è giusto, ma bisogna trattare, arrivare anche qui a un cessate il fuoco. E l’Europa deve essere protagonista dell’iniziativa diplomatica necessaria. Siamo a quasi due anni di governo delle destre. Che bilancio fare? Pessimo, purtroppo per l’Italia. Gli alibi sono finiti, il trucco di continuare a fare l’opposizione all’opposizione può ancora funzionare nella retorica di qualche intervento nelle aule parlamentari, ma non regge più nel Paese. Lo misuriamo con la raccolta firme per il referendum. Intanto il combinato disposto di autonomia differenziata, premierato e riforma della giustizia muta l’equilibrio costituzionale in senso autoritario. Frutto di un accordo tra componenti diverse, tenute insieme però non solo dal potere ma da un’idea di governo schiacciata sul comando. E se posso dire, anche sull’occupazione del potere. Non c’è spoil system che tenga, modalità, motivazioni, scelte stanno tutte a raccontare il senso di rivincita e la protervia di una maggioranza sempre pronta però a dichiararsi vittima, a indicare nemici. Penso al mondo della cultura, alla Rai, tra poco potrebbe essere il turno dello sport, già litigano tra di loro... Ho detto dell’uso ossessivo del diritto penale, dall’obbligo scolastico alla resistenza nonviolenta. Nel frattempo, sul Pnrr segniamo il passo, tradendo quegli obiettivi di occupazione giovanile e femminile, e di investimento nel sud che ci eravamo dati, per non parlare del piano nidi. E comunque il Pnrr rimane l’unico strumento di crescita che in questo momento ha l’Italia. Potrei, dunque, ricordare come il primo governo guidato da una donna, che vuole essere chiamata al maschile, ha colpito le pensioni delle donne, ha cancellato dalle conclusioni del G7 la garanzia dell’aborto legale e sicuro, ha infilato le associazioni sedicenti pro-vita nei consultori, è tornata indietro sull’abbassamento dell’Iva sui prodotti per l’infanzia e gli assorbenti. La presidente del Consiglio propone sé stessa, madre che lavora, come eccezione, una che ce l’ha fatta perché ha combattuto, ma questo non apre la strada alle altre, le mette a tacere come perdenti. È leader di una maggioranza sorda e arroccata, il dibattito parlamentare difficilmente riesce a produrre passi avanti. L’ultima immagine prima della pausa estiva che mi porto con me è la totale sordità sul tema carceri. Persino sui figli delle detenute madri, persino di fronte ai 65 suicidi di quest’anno. Ci hanno fatto discutere un decreto che neanche citava il sovraffollamento, siamo ormai al 130%, 14.500 detenuti in più dei posti regolamentari disponibili. Questo nonostante nelle audizioni, il mondo delle associazioni, dei lavoratori e la magistratura chiedevano interventi per diminuire la popolazione detenuta. In questo caso c’è qualcuno che ha meno diritti di altri. Come ha ricordato la nostra segretaria alla Camera, invitando a visitare le carceri, a parlare con i detenuti, “vi accorgerete che non c’è dentro un’umanità altra, è la stessa, è la nostra”. E tra questi, 26 bambine e bambini, innocenti assoluti, come dice Luigi Manconi, dietro le sbarre. Riforma della legge Severino, FI apre un nuovo fronte. Meloni ha già detto no di Giulia Merlo Il Domani, 13 agosto 2024 Dopo la custodia cautelare, gli azzurri puntano la legge del 2012. All’ultimo referendum sulla giustizia, FdI era contro questi due questi. Ora che ha ingranato la marcia, in tema di giustizia, Forza Italia non ha più intenzione di fermarsi. Dopo il dissenso causato dalla poca incisività del decreto Carceri e la sponda al Guardasigilli Carlo Nordio sulla riforma della custodia cautelare, il prossimo obiettivo degli azzurri è quello di modificare la legge Severino. A dirlo chiaramente è stato, primo fra tutti, il viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, secondo cui “sulla legge Severino bisogna intervenire, e rapidamente. Credo che questo sia uno dei compiti a cui prossimamente ci toccherà assolvere”, riferendosi in particolare al fatto che la legge, introdotta nel 2012 dal governo Monti, impone la decadenza degli amministratori locali condannati anche solo in primo grado per reati contro la pubblica amministrazione, a differenza degli eletti a livello nazionale per cui serve la sentenza definitiva. Gli ha fatto eco anche la sottosegretaria ai Rapporti col parlamento Matilde Siracusano, secondo cui “è necessario rivedere la legge Severino. È la negazione del principio della presunzione d’innocenza”. Frasi non casuali, che riportano al centro dell’agenda politica un altro tema legato alle storiche battaglie berlusconiane (Silvio Berlusconi è stato certamente il politico più importante colpito dalla Severino e nel 2013 è decaduto dal suo incarico parlamentare) e solleticano positivamente il ministro Nordio, favorevole alla riforma. Certo è, però, che, come per l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, anche le modifiche alla legge Severino portano potenziali rischi europei. La legge non è nata sotto il governo Monti - che si è limitato a rifinirla e approvarla, per questo prende il nome dalla guardasigilli dell’epoca - ma proprio sotto il governo Berlusconi IV, in seguito alle stime preoccupanti prodotte dall’Unione europea in materia di corruzione in Italia. Ecco, proprio ora che il paese finirà sotto il vaglio europeo per l’abrogazione dell’abuso d’ufficio in possibile contrasto con la convenzione di Merida sull’anticorruzione, mettere mano anche alla legge Severino potrebbe essere mossa tatticamente rischiosa. Eppure la modifica per la parte che riguarda gli amministratori locali in modo da equipararli ai politici nazionali troverebbe sponda anche nel centrosinistra: anche il Pd ha presentato un ordine del giorno e una proposta di legge in tal senso e parere positivo già c’è da parte di Azione e Italia viva. I referendum leghisti - A livello politico interno, la mossa di Forza Italia di chiedere sia una revisione della custodia cautelare sia della legge Severino rischia di aprire un’altra mini crisi dentro la maggioranza. Il ricordo è fresco, di appena due anni fa quando la Lega promosse, insieme al Partito radicale, ha proposto i referendum ribattezzati sulla “giustizia giusta”. Sei quesiti, due dei quali riguardavano l’abrogazione totale della legge Severino e la modifica della custodia cautelare proprio nella parte che riguardava la reiterazione del reato, ovvero ciò su cui stanno riflettendo anche Nordio e FI. Tradotto: oggi la Lega dovrebbe dirsi favorevole ad entrambe le modifiche, eppure i toni da via Bellerio sono più che cauti, perché un nuovo pasticcio di governo in tema di giustizia è dietro l’angolo. Proprio in occasione di quei referendum Giorgia Meloni era stata chiara: sostegno di Fratelli d’Italia a quattro quesiti tranne due. Proprio quelli su Severino e custodia cautelare. All’epoca la premier li aveva definiti “figli più della legittima cultura radicale che quella della destra nazionale. La proposta referendaria sulla carcerazione preventiva impedirebbe di arrestare spacciatori e delinquenti comuni che vivono dei proventi dei loro crimini. Noi vogliamo fermare la criminalità senza se e senza ma”. Mentre abrogare la legge che sancisce l’incandidabilità per i condannati definitivi sarebbe “un passo indietro nella lotta alla corruzione e rischierebbe di dare il potere ad alcuni magistrati di scegliere quali politici condannati far ricandidare e quali interdire dai pubblici uffici”. Certo, in quel caso l’abrogazione della legge era totale, mentre oggi si pensa a una revisione, tuttavia l’opinione negativa resta. Oggi, dunque, chiedere a Meloni e al suo partito di intervenire proprio su questi due punti rischia di suonare nella migliore delle ipotesi come un tentativo di farle cambiare idea ora che è al governo, nella peggiore come una provocazione. Il no di Delmastro - Non a caso, contro ogni ipotesi avanzata dal ministro Nordio, molto loquace in questi giorni, è intervenuto il solito Andrea Delmastro. Il sottosegretario alla giustizia e ortodosso meloniano, infatti, è tornato a svolgere il suo compito primigenio: assegnato al ministero per contenere la verve del guardasigilli, mettendo i dovuti paletti alla sua smania di riforme. Così in una intervista a Repubblica il sottosegretario ha frenato gli entusiasmi sulla custodia cautelare: ha ammesso che c’è “un uso smodato” e “il bilanciamento tra principi di non colpevolezza ed esigenze di sicurezza si può fare”, ma “non è nell’agenda del governo privare la magistratura di importanti strumenti per combattere il crimine”. Nessuno spazio per modifiche immediate, dunque, nonostante l’odg Costa abbia ricevuto parere favorevole dal governo e preveda di restringere i presupposti per la custodia cautelare in caso di reiterazione per incensurati in caso di reati non violenti (come quelli contro la Pa). Smontate la custodia cautelare per i corrotti è una misura “non all’ordine del giorno”. Eppure, se fino ad oggi il partito di maggior pungolo per la premier era stata la Lega, ora Forza Italia ha deciso di fare lo stesso sui temi più rappresentativi e anche potenzialmente più appetibili per quello spazio di centro definito dentro il partito come “garantista e moderato”. Secondo fonti interne, Marina e Piersilvio Berlusconi hanno chiesto un partito più autonomo rispetto a FdI e all’attacco di come fino a ora lo abbia condotto Antonio Tajani, e adesso la nuova strategia sta iniziando a prendere forma. Giustizia da rifare, 4mila innocenti in carcere: i dati parlano chiaro di Pietro Senaldi Libero, 13 agosto 2024 Innocenti in cella, governatori come Giovanni Toti neppure rinviati a giudizio ma costretti a dimettersi per potersi vedere revocare gli arresti domiciliari, criminali incalliti catturati e subito rilasciati. L’esigenza di riscrivere il sistema giustizia da capo a piedi - ivi compresa la battaglia di Forza Italia per eliminare la legge Severino, che contraddice la Costituzione imponendo ai politici la decadenza dopo la sentenza di primo grado - non è un capriccio né una bandiera di parte sta nell’osservazione della realtà. È una battaglia di civiltà che la posizione di strenua difesa da parte della sinistra dei magistrati e della loro impunità quando sbagliano ha trasformato in questione politica, quando invece sarebbe un semplice rimedio alla malagiustizia imperante. Veniamo ai fatti. Nel giorno in cui dall’ex ministro Enrico Costa viene ricordato che negli ultimi cinque anni sono stati incarcerati in custodia cautelare 4.368 innocenti e che solo nello 0,2% dei casi capita che i giudici che arrestano ingiustamente vengano sottoposti a provvedimenti disciplinari, un magistrato rimette in libertà Lady Scippo, nome d’arte che la croata Ana Zahirovic si è guadagnata sul campo. La borseggiatrice, che ha iniziato l’attività a sette anni, è stata riconosciuta colpevole di 148 reati, anche se realisticamente si può supporre che quelli commessi davvero potrebbero essere dieci volte tanto, ragionando per difetto. Dovrebbe scontare trent’anni di carcere ma è stata rimessa in libertà dopo appena tre giorni dalla cattura perché, malgrado abbia solo 31 anni, ha da tre mesi partorito il suo decimo figlio. Per carità, lo dice la legge, la quale stabilisce che la madre ha diritto a restare fuori dal carcere fino all’anno d’età del pargolo; però la legge è sbagliata e infatti questo governo l’ha cambiata, con il provvedimento che la scorsa settimana ha ottenuto il via libera del Quirinale. D’ora in poi il giudice non sarà più costretto a rilasciare le neo-mamme criminali, differendo l’esecuzione della condanna di gravidanza in gravidanza, come nel caso di Ana. La pena potrà essere scontata in case comunità, sorte di collegi che consentono alle delinquenti di allevare la prole non dietro le sbarre. La norma è sensata, per questo la sinistra si è opposta a lungo a essa, sostenendo che un bambino non si può ingabbiare per le colpe del genitore. Principio sacrosanto, ma come al solito l’ottimo è nemico del bene. A prescindere dall’ipocrisia del presupposto per cui un bimbo avrebbe bisogno della vicinanza della madre solo nel primo anno di vita, quando ancora gattona e conosce al massimo dieci parole, le gravidanze in sequenza delle borseggiatrici - la storia della Zahirovic insegna- non sono indice di istinto materno ma semplicemente un modo di evitare la galera, nella totale indifferenza di quel che ne sarà del nascituro e delle prospettive che gli si aprono. Lady Scippo è l’ingranaggio di un racket, che probabilmente la vede sfruttata dalla più tenera età, come lei sfrutta i suoi figli. Le borseggiatrici non dovrebbero essere condannate solo per furto: sono parte di un’associazione a delinquere, che bada ai figli quando loro vanno a rubare, che gestisce i loro quattrini mal presi e che decide al posto loro quando devono restare incinte. Per la donna e per i suoi bambini la casa-famiglia dove scontare la pena sarebbe una sorta di liberazione dalla schiavitù del campo rom, che peraltro non è il luogo ideale dove nascere e crescere. Ma al di là di queste considerazioni tecniche, esistono un senso del pudore, dell’equità e finanche della morale, parola pericolosa solo per chine storpia il significato, sul cui rispetto si regge l’immagine e la coscienza di ogni Paese e il tipo di società e di cittadini che ne sono figli. È intollerabile, dal punto di vista dell’educazione civica, che possano essere disinvoltamente arrestati degli innocenti e con altrettanta leggerezza liberati dei criminali incalliti. La fotografia che ne deriva ci scredita agli occhi del mondo. I tristi giochi della politica e l’anti-melonismo imperante che si nutre di malafede fanno sì che gli stessi spiriti democratici che usano ogni pretesto per criticare il governo e poi dicono all’Europa che in Italia non c’è libertà di stampa, salvo poi riprendere come notizia le proprie delazioni, siano poi i più strenui difensori di una magistratura che ci relega agli ultimi posti tra i Paesi occidentali quanto a standard minimi di giustizia. Chi ha candidato Ilaria Salis per sottrarla, oltre a condizioni carcerarie indegne - ma che non sono poi tanto peggiori rispetto a quelle delle nostre patrie galere - al processo che si è meritata, non solo non osa proferire parola contro chi tiene in carcere migliaia di innocenti ma, se la persona privata della libertà è un politico di centrodestra, si prodiga in strenue difese delle toghe, qualsiasi corbelleria sostengano e ingiustizia perpetrino. Meglio una Lady Scippo libera che un Giovanni Toti a capo di una Regione: così ragiona la sinistra e così agiscono le Procure. “Tanti in galera per errore e nessun magistrato paga. Sanzionato solo lo 0,2%” di Laura Cesaretti Il Giornale, 13 agosto 2024 “Il grande abuso di carcerazione preventiva ha varie cause, ma una delle principali è l’assoluta assenza di sanzioni garantita ai magistrati responsabili degli errori”. E i numeri forniti in materia da Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, sono in effetti impressionanti: “Negli ultimi cinque anni sono state risarcite dallo Stato ben 4.368 persone ingiustamente arrestate e poi assolte, per una somma complessiva di 193 milioni e 543mila euro. Un numero imponente di errori, quindi”. Onorevole Costa, a fronte di tanti errori, costati cari allo Stato e quindi al contribuente italiano, quanti magistrati hanno subito qualche sanzione disciplinare? “Pressoché nessuno: lo 0,2%. Dal 2017 al 2023 sono state avviate 87 azioni disciplinari con il seguente esito: 44 non doversi procedere, 27 assoluzioni, otto censure, un trasferimento, sette ancora in corso. I magistrati quindi non pagano praticamente mai sul piano disciplinare”. E questo a suo avviso contribuisce al sovraffollamento delle carceri? “Certo. Un quarto dei detenuti italiani è in carcerazione preventiva: 15mila su 60mila. Se il magistrato sa che tanto non dovrà mai rendere conto dei suoi errori, è spinto ad accogliere in modo quasi notarile le richieste dei pm: 8 censure (ossia poco più di un buffetto) e un trasferimento in un lustro parlano chiaro. E spiegano lo spirito con cui si privano le persone della libertà: perché un giudice dovrebbe mettersi contro i pm, se non rischia niente se sbaglia? L’ordinanza di custodia cautelare fa andare sui giornali Pm e Gip, aiuta a celebrare le sentenze anticipate sui media, focalizzando tutto sull’inchiesta e trascurando il processo, che spesso la smonterà. Ma intanto saranno passati anni”. C’è un modo per arginare questa deriva? “Io insisto da anni perché venga approvata una mia proposta minimale e semplicissima: ogni volta che lo Stato deve pagare per un’ingiusta detenzione, il relativo fascicolo (che oggi finisce solo al ministero dell’Economia che mette i soldi) deve andare automaticamente anche al titolare dell’azione disciplinare”. E il divieto di pubblicazione delle ordinanze cautelari, da lei sostenuto, può contribuire a sanare le distorsioni causate dal circuito mediatico-giudiziario? “Lo capiremo quando il governo approverà il relativo decreto legislativo: mi auguro che realizzino quel che è scritto nella delega, ma non mi fido del tutto”. Teme che, dopo il can can contro la “legge-bavaglio”, il testo venga annacquato? “Mi auguro di no. Ma la maggioranza sulla giustizia è timida perché divisa, e la parte non garantista si afferma spesso. Anche sul carcere, si confonde spesso la certezza della pena con la certezza della galera. Però se scegli Carlo Nordio come Guardasigilli devi avere il coraggio di fare le riforme, e non passare il tempo a frenarlo”. E dall’altra parte? “Nel cosiddetto campo largo del centrosinistra? Mi pare che lì l’unica cosa su cui sono tutti o quasi d’accordo è il forcaiolismo, ogni volta che c’è da eliminare un avversario per via giudiziaria”. Rastrelli: “Basta forzature dei pm: sugli arresti sì alla riforma” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 agosto 2024 Intervista al senatore di Fratelli d’Italia, segretario della commissione Giustizia: domiciliari usati per costringere Toti all’addio. Ultime riforme sulla giustizia: ne parliamo con Sergio Rastrelli, esponente di spicco di Fratelli d’Italia, senatore e segretario della commissione Giustizia di Palazzo Madama. Qual è la vostra posizione sulla riforma della custodia cautelare di cui si sta parlando in questi giorni? Una posizione convinta e obbligata, che si pone nello spirito della Costituzione: considerare la custodia cautelare una extrema ratio in fase procedimentale. Ricordo la splendida definizione che ne diede Carrara nel suo scritto ‘Immoralità del carcere preventivo’: “La custodia cautelare è una necessaria ingiustizia”. Questo è il principio cui ispirare ogni azione riformatrice, contemperandola sempre con le esigenze di protezione dello Stato e di sicurezza sociale che vanno assolutamente preservate: va quindi senz’altro operato un ripensamento complessivo della custodia cautelare, agendo però con prudenza ed equilibrio. Appare evidente che abbiamo tutti l’obbligo di operare una valutazione anche e soprattutto considerando i dati oggettivi. Quali? All’interno degli istituti penitenziari vi è una quota abnorme del 25% di detenuti in misura cautelare. È chiaro che non si tratta di un rapporto percentuale fisiologico. Da sempre sosteniamo che si debbano offrire tutte le garanzie in fase processuale, ed essere poi estremamente rigorosi quando invece la condanna diviene definitiva, garantendo la certezza della pena. Su questo punto di equilibrio il centrodestra si sta confrontando e sicuramente sarà uno dei temi che affronteremo alla ripresa delle attività parlamentari. Però FI, Lega, Azione, sulla scia del caso Toti, avevano presentato ordini del giorno, poi rimodulati dal governo, che puntavano a prevedere il ricorso alla custodia cautelare per pericolo di reiterazione nei confronti di incensurati solo per reati di grave allarme sociale, tra i quali non sarebbero rientrati quelli contro la Pa... È chiarissimo che all’interno della maggioranza di centrodestra coesistono sensibilità diverse sul punto. Noi consideriamo i delitti contro la Pa delitti gravi, e talvolta ad alto allarme sociale, perché incrinano la sicurezza dei cittadini nei confronti dello Stato e dei pubblici amministratori, e logorano quel rapporto di fiducia che deve sempre esistere tra rappresentati e rappresentanti: in questo vi è sicuramente una presa di posizione strettamente identitaria. C’è un ma…? Certo. Dobbiamo evitare di inquadrare tutto quanto riguardi la Pa sotto la luce deformante di sospetti, suggestioni o condizionamenti ambientali, reiterando un errore che ha caratterizzato tutti gli ultimi 30 anni. Non dobbiamo considerare la Pa come luogo della corruttela, al contrario, l’Italia ha bisogno di una Pa responsabile, efficiente e dinamica: anche sotto questo profilo è necessario individuare il corretto punto di equilibrio. Molti hanno detto che nel caso Toti la carcerazione preventiva è stato uno strumento per forzare la scelta dell’indagato... Questa non è una valutazione, bensì una mera presa d’atto. Sulla vicenda, senza entrare in questioni di merito, si è consumata una violazione dei precetti e degli equilibri costituzionali, ritenendo che un organo giudiziario possa sostituirsi al popolo sovrano e condizionare le scelte di una Pa. Il sol fatto di ricoprire una carica pubblica non può essere indice sintomatico di una capacità di delinquere. La vicenda Toti è una di quelle che impongono una riflessione anche sugli esiti scomposti che talvolta determinano alcune decisioni dell’autorità giudiziaria. Si può discutere anche dello scudo penale proposto da Salvini per gli amministratori locali? La Costituzione prima, e una legge costituzionale poi, hanno puntualmente individuato gli ambiti e le garanzie del mandato popolare limitandoli all’esercizio del mandato parlamentare. Estendere ipso facto questa forma di tutela ad altre figure diventa, o meglio rischia di divenire, una estensione ingiustificata, anche perché questo determinerebbe poi una sorta di allargamento a macchia d’olio. Ritengo invece più opportuno che si vada ad agire su alcuni fronti. A cosa si riferisce? Quello per esempio della legge Severino che, pur muovendosi in una logica corretta, ha determinato degli effetti impropri, consentendo di fatto che pubblici amministratori, forti di un mandato popolare, e non condannati in via definitiva, finiscano per essere condizionati da decisioni dell’autorità giudiziaria. Anche in questo caso bisogna rioperare il corretto bilanciamento tra le esigenze di salvaguardia della comunità con la intangibilità del mandato pubblico e la presunzione di non colpevolezza, che è quella che pervade tutta la nostra Costituzione. Ora che l’abuso d’ufficio è stato abrogato, c’è da temere una sorta di risposta sistemica negativa dei pm, e cioè una tendenza ad aprire indagini per ipotesi di reato più gravi? È un tema che noi ci siamo posti, quello della riespansione applicativa di altre fattispecie di reato. Se ci dovessero essere fenomeni di questo genere, che andranno monitorati, bisognerà operare i debiti correttivi anche sulle modalità di esercizio della azione penale. Quello che è pacifico è che abrogare quel reato è stata una scelta obbligata di civiltà giuridica, richiesta trasversalmente dagli amministratori di tutte le forze politiche, e rappresenta per noi un traguardo conseguito con assoluta volontà politica. A proposito dell’abuso d’ufficio: la consigliera laica del Csm Natoli al momento non si è ancora dimessa... Le dimissioni attengono, per definizione, a valutazioni di ordine personale. Vi sono procedure di natura anche disciplinare in corso che, nelle forme del contraddittorio, avranno inevitabilmente il loro esito: non dobbiamo quindi compiere l’errore di sostituirci a organismi di garanzia sulla base di valutazioni di ordine personale. Il Quirinale ha fatto intendere, nel confronto con il vicepresidente del Csm, che la consigliera dovrebbe dimettersi, e la stessa premier Meloni non ha smentito voci di una propria opinione favorevole a una scelta simile... Che vi sia in atto una moral suasion del Colle è tutto da verificare, né si è estrinsecata con atti formali o altro. Anche in questo caso ci sono delle procedure a garanzia dell’organismo collegiale, e del singolo membro laico appartenente al Csm, che devono essere rispettate: l’errore che non dobbiamo compiere è elaborare suggestioni che portino a valutazioni affrettate sulla base di informazioni parziali. In questo momento la dottoressa Natoli ha tutta la possibilità di porre argomenti a difesa sua e dell’integrità del suo ruolo, se poi personalmente ritenesse di accedere alla scelta delle dimissioni, sarebbe una valutazione di ordine individuale. Non mi sembra corretto che sulla base di un esposto, che è chiaramente un esposto di parte, si debba giungere alla conclusione più semplice e più immediata, che non sempre è la più corretta. Con il decreto Carceri, secondo alcuni calcoli, c’è il rischio che non si vada minimamente a incidere sul sovraffollamento... Vi è un errore di impostazione nel ritenere che il decreto Carceri fosse finalizzato a combattere il drammatico tema del sovraffollamento. È nato invece come un provvedimento strutturale che vuole in primo luogo ristabilire condizioni di piena sicurezza all’interno delle carceri, che è il prerequisito anche di ogni percorso trattamentale all’interno degli istituti penitenziari: di qui, un piano straordinario di assunzioni di personale di polizia penitenziaria, imponenti stanziamenti per l’edilizia penitenziaria, e la saturazione delle piante organiche delle figure complementari come psicologi, educatori e mediatori culturali. Il sovraffollamento delle carceri, che è oggetto della nostra attenzione, potrà essere progressivamente risolto attraverso tre linee di intervento, che sono quelle che hanno portato le nostre carceri, nel tempo, ad essere discariche sociali. Evitare ogni abuso della custodia cautelare, estendere il ricorso alle comunità esterne per i tossicodipendenti, far espiare la pena ai detenuti extracomunitari nei paesi di origine. Solo incidendo su questi tre ambiti, potremo risolvere il problema in via strutturale e definitiva. Ma i dati ci dicono che oggi che in alcuni istituti il sovraffollamento è al 150% e i suicidi aumento. Alcuni fondi stanziati 8 anni fa ancora non sono stati utilizzati... La soluzione non è, e non può essere, rimettere in libertà soggetti che siano stati condannati con pena definitiva. La nostra storia recente insegna che liberazione anticipata speciale, amnistie e indulti non sono in grado di risolvere il problema a lungo termine, e che al contrario erodono la certezza della pena, sviliscono l’autorità dello Stato e incrinano la sicurezza sociale. Il compito della politica è invece quello di affrontare i problemi individuando soluzioni strutturali, ed è esattamente quanto stiamo facendo. Organismi di mediazione: accolte le sollecitazioni del Cnf di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 13 agosto 2024 È stato rinviato al 31 gennaio 2025 il termine entro il quale gli organismi di mediazione e i mediatori saranno chiamati ad adeguarsi alle norme contenute nel decreto del ministro della Giustizia 24 ottobre 2023, n. 150. Il testo di legge riguarda il regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli Organismi di mediazione e dell’elenco degli enti di formazione, l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, l’istituzione dell’elenco degli Organismi Adr deputati a gestire le controversie nazionali e transfrontaliere, nonché il procedimento per l’iscrizione degli Organismi Adr. Il differimento del termine al 31 gennaio 2025 è stato ritenuto opportuno - è scritto nel decreto del ministro della Giustizia del 9 agosto - “stante l’approssimarsi della scadenza del 15 agosto 2024 e la complessità della procedura amministrativa di adeguamento ai requisiti previsti” dalle norme ed è stato concordato con il ministro delle Imprese e del made in Italy. Il rinvio all’anno prossimo è il frutto delle sollecitazioni del Consiglio nazionale forense. Un primo differimento del termine, portato al 15 agosto, per gli adeguamenti richiesti si è avuto neanche due mesi fa, dopo una interlocuzione tra via Arenula e l’avvocatura istituzionale. Il tempo a disposizione a quanto pare è stato considerato troppo poco per apportare le modifiche e gli adeguamenti previsti, senza tralasciare le preoccupazioni fatte presenti da tutti gli Organismi di mediazione per ottenere quantomeno un rinvio. Da qui l’accoglimento da parte del ministero della Giustizia della richiesta del Cnf con il chiarimento che si stanno valutando le misure più opportune per rendere meno complessa la disciplina prevista dalla legge e con la pubblicazione della nuova data indicata nel decreto 9 agosto 2024 (modifica dei termini previsti dagli articoli 42, comma 1, e 43, comma 1, del decreto del ministro della Giustizia del 24 ottobre 2023, n. 150). Il presidente del Consiglio nazionale forense, Francesco Greco, si è molto speso affinché i tempi per adeguarsi alla normativa in vigore non creassero disagi e ha apprezzato la disponibilità del ministro della Giustizia, volta al superamento di una serie di criticità più volte segnalate nei mesi scorsi. L’obiettivo è quello di rendere agevole e funzionale la disciplina riguardante le attività degli Organismi di mediazione. Enrico Angelini, coordinatore della commissione Mediazione e negoziazione assistita del Consiglio nazionale forense, è molto soddisfatto per la soluzione raggiunta e per il differimento del termine all’inizio del prossimo anno. “Le istanze dell’avvocatura - commenta Angelini - sono state recepite dal ministero della Giustizia, che ha verificato la fondatezza dei nostri rilievi. Ancora una volta abbiamo assistito ad una positiva interlocuzione tra le istituzioni. Occorre rendere merito al presidente del Cnf, Francesco Greco, che con la sua autorevolezza anche in questo caso ha ottenuto il dovuto ascolto nelle sedi competenti. Il provvedimento era atteso dalla stragrande maggioranza degli Organismi di mediazione, sia pubblici che privati, e consente ora un tempo adeguato per analizzare ulteriormente la disciplina attuale e proporre eventuali modifiche migliorative”. L’esigenza di mettere mano al termine inizialmente previsto del 15 agosto è stata rilevata pure dall’Organismo congressuale forense, che ha messo in guardia rispetto alle “rilevanti criticità operative e strutturali” che avrebbero incontrato gli Organismi di mediazione interni agli Ordini degli avvocati. L’Ocf, si legge in una nota, dopo le proficue interlocuzioni intrattenute con il ministero della Giustizia nello scorso mese di giugno, ha auspicato la proroga del termine “ad oggi previsto, al fine di mantenere la piena efficacia del sistema della mediazione, in linea con il conseguimento degli obiettivi previsti dal Pnrr”. Caro sindaco Lepore, c’è un limite al “prigionismo” di Frank Cimini L’Unità, 13 agosto 2024 L’Italia non è una repubblica islamica con la legge della Shari’a dove i parenti delle vittime decidono la sorte degli imputati e le modalità di esecuzione della pena. In questi giorni invece si ripete il copione di sempre con il caso di Simone Boccaccini scarcerato la settimana scorsa dopo oltre vent’anni di carcere per la responsabilità dell’omicidio di Marco Biagi. I giornali corrono a sollecitare il parere dei parenti della vittima, i politici “inzuppano il pane” come se la liberazione non fosse avvenuta rispettando tutte le regole, dalle leggi a quanto prevede il diritto penitenziario. Ha detto Lorenzo Biagi, il secondogenito del giuslavorista: “Come se avessero ucciso mio padre una seconda volta”. La reazione è più che comprensibile da parte di una persona alla quale è stato ammazzato il padre quando aveva 13 anni. Il problema però è dei media che pensano di risolvere il problema del carcere in questo modo. Olga D’Antona, vedova di Massimo, ha osservato: “Spero che in questi anni si sia almeno ravveduto per il male che ha fatto”. Il sindaco di Bologna Matteo Lepore ha sintetizzato: “Siamo sconvolti”. Ricapitoliamo la storia anche per ricordarlo al primo cittadino di Bologna. Simone Boccaccini in primo grado era stato condannato all’ergastolo. Al processo di appello la riduzione della pena a 20 anni di reclusione perché i giudici avevano tenuto conto del fatto che la partecipazione al delitto era stata limitata agli atti preparatori e non agli spari. Poi c’era la condanna a 5 anni per associazione sovversiva in relazione alle indagini sul delitto D’Antona. Con il meccanismo della continuazione, la pena complessiva veniva fissata a 21 anni di reclusione. Poi scattavano dieci mesi in meno di carcere per buona condotta. Per cui Boccaccini è stato scarcerato un po’ prima, ma a condanna scontata. Il sindaco Lepore evidentemente voleva aggiungere un surplus di pena per chissà quale motivo. Del resto questo è il Paese in cui non ci sono solo magistrati che fanno politica ma pure politici che si ergono a giudici o vorrebbero farlo. Simone Boccaccini è un cittadino che ha pagato il suo debito con la giustizia, che non si può certo dire sia stata debole con i militanti delle Brigate rosse vecchie e nuove. Dei responsabili degli omicidi Biagi e D’Antona stanno scontando l’ergastolo con la tortura del 41bis, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma e Nadia Desdemona Lioce. “Il 41bis non viene revocato” - scrivono i giudici - “perché i tre potrebbero mantenere rapporti con l’organizzazione di appartenenza”. Che da oltre vent’anni non esiste più. Ma il sindaco Lepore per questo sarà sicuramente contento. Catanzaro. Il dramma di Francesco: con un arto amputato sbattuto in cella senza cure mediche di Piero de Cindio L’Unità, 13 agosto 2024 L’area sanitaria del carcere di Catanzaro non risponde ai solleciti della magistratura di sorveglianza per l’individuazione di una struttura sanitaria adeguata alle patologie del detenuto. Da Catanzaro a Modena, sino a Parma e poi, di nuovo, a Catanzaro: sono questi i trasferimenti subiti da Francesco Mario, detenuto cosentino di quarantacinque anni, attualmente ristretto nella Casa circondariale di Catanzaro, dove è stato allocato, ormai un anno addietro, a seguito di dichiarazione da parte degli altri istituti penitenziari di indisponibilità ad assisterlo e prestargli cure mediche adeguate. È ammalato e le sue condizioni di salute peggiorano di giorno in giorno: ha subito l’amputazione dell’arto inferiore, ha una gravissima ipofunzione dell’arto superiore con anchilosi dell’articolazione del gomito, soffre di assonotmesica del nervo radiale, ha un importante psoriasi a livello dell’arto superiore e, ormai, è anche obeso. Per lui era stata avanzata richiesta di differimento di pena, rigettata però dal Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro, che tuttavia, riconosciuta l’inadeguatezza del carcere del capoluogo calabrese a curarlo, aveva incaricato il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di individuare un istituto di pena più all’avanguardia così da potergli garantire le cure mediche di cui necessita. I trasferimenti sono stati disposti ed eseguiti, il detenuto collocato in queste nuove strutture penitenziarie, dalle quali ben presto, però, è giunta una nota con cui si è messo nero su bianco l’impossibilità a curarlo per la grave patologia. Da qui il ritorno nel carcere di provenienza, Catanzaro e l’inizio di un patimento che contrasta palesemente con il principio costituzionale di umanità della pena. Allora, il Tribunale di sorveglianza ha disposto l’iscrizione d’ufficio della procedura ex art. 11 ord. pen., con contestuale richiesta all’area sanitaria del carcere di individuare idonee strutture per effettuare gli interventi di protesizzazione dell’arto inferiore e successiva terapia riabilitativa. Sono trascorse settimane e, ancora, la Direzione sanitaria dell’istituto di pena di Catanzaro non solo non ha provveduto ad adempiere alle richieste avanzate dal Tribunale di sorveglianza, ma avrebbe trasferito il detenuto dal centro SAI, dove effettuava alcuni cicli di fisioterapia, ad una sezione comune, con un’interruzione, quindi, della terapia riabilitativa e senza più l’assistente alla persona. La difesa aveva chiesto che il detenuto potesse essere trasferito in una struttura sanitaria esterna adeguata, soltanto per il tempo strettamente necessario per la preparazione anatomica del moncone dell’arto, nonché dei successivi cicli di terapia intensiva, fornendo anche un elenco di centri medici idonei, disponibili ad accoglierlo. Su questa storia, però, è calato il silenzio: la Direzione sanitaria carceraria non ha verificato l’idoneità delle strutture proposte e non ha risposto ai quesiti del Tribunale di Sorveglianza; tutto questo mentre il quadro clinico sembrerebbe peggiorare. Vani anche gli interventi del Garante regionale dei detenuti, a cui non sono mai state fornite informazioni precise e veritiere circa le condizioni di salute. Continuare a mantenerlo in carcere, privandolo, probabilmente in maniera irreversibile, della possibilità futura di condurre una vita normale, recuperando l’arto inferiore, equivale a praticare quei “trattamenti contrari al senso d’umanità” che la nostra Costituzione vieta; divieto, ormai, consacrato anche dalla Cedu e per cui, sempre più spesso, il nostro Paese viene condannato. È la dura vita dietro le sbarre. Napoli. Il Garante Don Palmese: “Più giudici di Sorveglianza, contro il carcere disumano” ansa.it, 13 agosto 2024 Aumentare il numero dei magistrati di sorveglianza e rendere il carcere più umano per alleviare le condizioni di vita di detenuti e agenti di custodia. Don Tonino Palmese, Garante per i diritti dei detenuti del Comune di Napoli, affronta il problema carceri nel periodo di Ferragosto, quando le condizioni di chi ci vive e lavora sono aggravate dal clima torrido. L’alto numero di suicidi e il sovraffollamento, ne fanno scaturire la richiesta di spazi adeguati e dignitosi, di condizioni più umane. Pochi giorni fa, nella casa circondariale di Poggioreale a seguito dell’approvazione in legge del decreto carceri, i detenuti hanno protestato esponendo lenzuola alle grate con su scritto ‘Libertà’ e ‘dignità’. “Il disagio, i suicidi sono fenomeni visibilmente macroscopici. Ancora una volta è passata la notizia nell’immaginario collettivo, almeno le persone questo mi fanno capire quando ci interroghiamo sul carcere, che la pena è una sola: quando si dice certezza della pena si dice certezza del carcere” ha detto don Tonino Palmese. “E per molti c’è anche il convincimento certezza del carcere quanto più duro sia possibile. Quando dico duro - sottolinea - non mi riferisco alla legge sui mafiosi ma alla disumanità del carcere. Ci si aspetta sempre che un decreto, rispetto a fenomeni così gravi e violenti e macroscopicamente pericolosi, sia poi una risposta anche dettagliata ai problemi. Invece, ho la sensazione che ancora una volta e mi spiace doverlo dire, la montagna partorisce il topolino soprattutto perché credo si parli di cose che è negli anni a venire: una risposta immediata non c’è”. E sul punto rilancia: “Una delle cose a cui bisognerebbe mettere mano immediatamente, e questo converrebbe alla bontà di un paese civile, è aumentare sempre più la presenza dei giudici di Sorveglianza perché l’istituto di Sorveglianza quando funziona, grazie anche alla quantità delle persone oltre che alla qualità, permette di poter trasformare la pena da carcere disumano alla possibilità di misure alternative. Alternativa che viene da una giurisprudenza che può organizzare il giudice di Sorveglianza”. Tra le prerogative, il magistrato di Sorveglianza, va detto, sovrintende all’esecuzione delle misure alternative alla detenzione carceraria. Don Tonino Palmese, nel corso delle visite alle case circondariali a Napoli, ha riscontrato in questo periodo ferragostano una ‘sofferenza reciproca’ tra detenuti e agenti di custodia: “Non è un problema di nostalgia della vacanza” ha spiegato “ma di come essere umanamente coinvolti in un tempo così climaticamente torrido e, soprattutto, in un momento dell’anno in cui le persone gradirebbero anche fare qualcosa di alternativo: mi riferisco alle visite dei familiari, a un maggior numero di possibilità di telefonate, a incontri più organizzati dal punto di vista del tempo libero”. “Anche questo - ha concluso - potrebbe significare fare Ferragosto in carcere”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). La Camera penale visita il carcere: “Caldo torrido e celle sovraffollate” di Anna Grippo casertanews.it, 13 agosto 2024 Legali critici anche sulla carenza di personale della polizia penitenziaria e sulle mancate risposte della magistratura di sorveglianza: “Politica si disinteressa delle condizioni dei detenuti”. La Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere ha fatto visita alla Casa Circondariale “F. Uccella” per verificare le condizioni dei detenuti, della struttura carceraria e dell’organico della polizia penitenziaria. L’iniziativa si inserisce nel programma dell’U.C.P.I. (Unione delle Camere Penali Italiane) che su tutto il territorio nazionale prevede nel mese di agosto l’accesso di avvocati penalisti, parlamentari e altre associazioni di settore nelle carceri italiane per sensibilizzare le comunità sulle gravi disfunzioni delle strutture e sulle serie problematiche che affliggono i detenuti, problematiche che hanno fatto registrare in Italia 65 suicidi dall’inizio dell’anno. Hanno partecipato all’iniziativa gli avvocati Alberto Martucci (Presidente della Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere), Vincenzo Cortellessa (Consigliere della Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere), Francesco Saverio Petrillo (Componente dell’Osservatorio Carcere U.C.P.I.), Antonio Verde (Componente dell’Osservatorio Carcere U.C.P.I.), Maria Esposito Gonella (Presidente dell’Associazione “Il Carcere Possibile” onlus), Elena Lepre (Consigliera fondatrice dell’Associazione “Il Carcere Possibile” onlus), Simone Crisci, Paolo Di Furia, Natalino Giannotti, Enrico Monaco e Concetta Raucci. L’accesso - durato oltre tre ore - ha evidenziato numerose criticità e recriminazioni da parte sia dei detenuti che del personale penitenziario: la mancanza di meccanismi di ventilazione o di refrigerazione in una struttura dalle pareti di cemento armato moltiplica la sofferenza per le altissime temperature estive (acuita anche dalle esalazioni provenienti dal vicino impianto Stir di trattamento di rifiuti solidi urbani); il sovraffollamento della popolazione detenuta (1000 detenuti per 850 posti previsti e 3 piani chiusi) comporta la compressione degli spazi e delle convivenze ancor di più insostenibile nei periodi estivi (fino a 5 detenuti in piccole celle con un solo bagno che eroga poca acqua anche a causa della incuria di rubinetti e tubature); il grave sottodimensionamento dell’organico di Polizia Penitenziaria non riesce a far fronte alla custodia e alle richieste dei numerosi detenuti; le carenze sanitarie determinano la impossibilità di eseguire visite e cure farmacologiche e specialistiche anche a fronte di gravi patologie e urgenze non rinviabili (ad esempio, per visite oculistiche, cure dentistiche e finanche prestazioni oncologiche si attendono diversi mesi se non anni). A tutto ciò si aggiunge: la mancanza di attività di svago o sportive (anche per la mancanza di strumenti integri o idonei), la mancanza di frigoriferi funzionanti (con relativa impossibilità di conservare i cibi), il malfunzionamento degli ascensori (ormai totalmente in disuso), l’estremo ritardo o la mancata risposta alle istanze avanzate alla Magistratura di Sorveglianza, la mancata trasmissione delle relazioni di sintesi, la mancanza o la estrema esiguità di concrete opportunità di lavoro all’interno del carcere, la mancata realizzazione di opere di ristrutturazione dei reparti alcuni dei quali ormai ammuffiti, vetusti e logori sia nelle strutture murarie che in quelle idrauliche ed elettriche. Nonostante questo, la Direzione del carcere, il comandante e il personale tutto cercano di essere vicini alle esigenze dei reclusi e di migliorare per quanto possibile la struttura. Ne sono testimonianza le sartorie presenti sia nel reparto maschile che femminile, le aree verdi per gli incontri con i bambini, il progetto per la realizzazione di un canile con clinica veterinaria all’interno dell’istituto. “La realtà è che la politica e le istituzioni centrali tendono a disinteressarsi delle condizioni carcerarie demandando ai singoli istituti e alle singole direzioni, la risoluzione di ogni criticità - si legge in una nota della Camera Penale - Con una sostanziale differenza: che senza adeguanti fondi e stanziamenti, le strutture penitenziarie continuano ad essere un mero contenitore di quelli che per molti vanno relegati nelle “discariche sociali”. Nei prossimi giorni la Camera Penale, assieme all’Osservatorio Carceri UCPI, realizzerà una relazione dettagliata sulle condizioni della Casa Circondariale, relazione che sarà posta all’attenzione di politica, istituzioni e magistratura, per le opportune iniziative. Tolmezzo (Ud). Nessuno tocchi Caino denuncia: “Problemi di sovraffollamento nel carcere” Messaggero Veneto, 13 agosto 2024 Lo rileva l’associazione, dopo una visita al carcere, a cui hanno partecipato il segretario Sergio D’Elia e la tesoriera Elisabetta Zamparutti. A oggi sono 147, di cui 17 in regime di 41 bis, i detenuti nel carcere di Tolmezzo, una struttura concepita per ospitarne 149. “Non c’è dunque in termini assoluti sovraffollamento, ma nell’alta sicurezza su 100 posti i detenuti sono 123, dunque c’è un sovraffollamento relativo”. Lo rileva Nessuno Tocchi Caino, dopo una visita al carcere, a cui hanno partecipato il segretario, Sergio D’Elia, e la tesoriera, Elisabetta Zamparutti. Della delegazione hanno fatto parte anche il presidente della Camera penale di Udine, Raffaele Conte, e gli avvocati Giacomo di Doi, Patrizia Giacone e Sara Iacolano. La polizia penitenziaria, spiega l’associazione, “complessivamente ha una forza operativa corrispondente alla pianta organica prevista ma con alcune figure professionali chiave come gli ispettori (-14,29%), i sovrintendenti (-78,57%) e i commissari (-66,67%) in sotto organico. L’area educativa consta di 5 educatori, come da pianta organica”. Secondo Nessuno tocchi Caino, “le principali criticità materiali riguardano la mancanza di acqua calda nelle celle, dove i bagni sono angusti e privi di doccia interna, mentre una sala della barberia ha invece solo acqua calda”. Un problema serio, così come lo definisce l’associazione, riguarda poi “gli internati al 41bis, cioè i detenuti che hanno espiato la pena ma restano sottoposti alla misura di sicurezza della casa lavoro. Le continue avversità meteorologiche che mettono fuori uso la serra impediscono di offrire quel lavoro continuativo che giustifica la misura di sicurezza. Problema a cui la direttrice Irene Iannucci fa fronte trovando comunque un lavoro, eccetto che per due internati che le autorità sanitarie hanno dichiarato inabili al lavoro. Per Nessuno tocchi Caino è inconcepibile applicare la misura di sicurezza della casa lavoro nei confronti di chi è inabile al lavoro”. L’associazione rileva infine “la mancanza ancora di un’area contabile e di un garante cittadino” ed esprime un “giudizio positivo” sull’operato di dirigente e comandante della struttura. Cremona. Emergenza carceri, la denuncia dei Radicali: “Situazione insostenibile” di Francesco Gottardi La Provincia di Cremona, 13 agosto 2024 Cà del Ferro sovraffollato del 160%. Ravelli: “Serve una soluzione politica, si torni a parlare di amnistia”. “Rispetto alla nostra ultima visita abbiamo trovato una situazione gravemente peggiorata. Il sovraffollamento ormai endemico è arrivato alla soglia dell’insostenibilità: a Cà del Ferro è del 160% con 557 detenuti a fronte di una capienza di 394 posti. Mancano poi figure centrali come quella degli educatori: a Cremona sono solo 3, uno ogni 185 detenuti”. A tracciare l’allarmante bilancio di una situazione carceraria sempre più gravosa è Sergio Ravelli del Partito radicale italiano che oggi, insieme ad una delegazione composta da Gino Ruggeri, Maria Teresa Molaschi, Fabio Favalli e Samuele Resmini, ha fatto visita alla casa circondariale della città. A completare il quadro Ravelli aggiunge altri dati: “Nella nostra casa circondariale la popolazione straniera è particolarmente elevata con 349 ristretti pari al 67% del totale, una percentuale doppia rispetto alla media nazionale. Una situazione che se non altro andrebbe gestita adeguatamente, invece Cà del Ferro ha un solo mediatore culturale, con 7 esperti che si alternano per affiancarlo”. Quella di Cremona, spiegano i Radicali, è una casa circondariale caratterizzata dalla presenza di un gran numero di detenuti provenienti da altre strutture detentive e ormai prossimi alla fine della pena, oltre che molti condannati a brevi periodi per reati minori. “In questo modo si genera un turnover molto intenso in particolare dai grandi carceri lombardi: solo nello scorso fine settimana sono arrivati altri 25 detenuti da Milano. Ma in mancanza di educatori che possano intervenire caso per caso, studiando le diverse situazioni personali e valutando il margine per accedere a misure alternative, i detenuti sono lasciati a se stessi. Se a questo si somma la situazione del personale gravemente sotto organico la situazione che si viene a creare è davvero allarmante”. Altro aspetto emerso dalla visita ispettiva dei Radicali come determinante per la situazione di forte disagio che si respira a Cà del Ferro è quello dei pazienti psichiatrici e tossicodipendenti: “Lo psichiatra è solo uno - spiega Molaschi - e i rapporti con il Sert di Cremona (che a differenza di quanto avviene ad esempio a Bollate non ha una struttura all’interno della casa circondariale) sono alquanto difficoltosi. Eppure le persone ristrette con patologie di tipo psichiatrico sono 300, molti dei quali tossicodipendenti. Un problema che viene totalmente sottovalutato, trattato nel migliore dei casi con una terapia metadonica e per il resto a parole. Il fatto è che manca una gestione reale del fenomeno: nelle Rems (le residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza preposte al trattamento di questi casi) non ci sono sistematicamente posti”. La visita dei Radicali, ormai ricorrente attorno a Ferragosto, il periodo forse di maggiore affanno per le carceri, nasce anche per diffondere tra la popolazione di detenuti l’iniziativa promossa dal Partito Radicale: “Si tratta - illustra Ravelli - di due istanze che abbiamo preparato e messo a disposizione dei detenuti che rappresentano strumenti operativi per trovare soluzioni alternative alla detenzione: una è un’istanza di grazia rivolta al presidente della Repubblica che, in un caso di conclamata emergenza come quello che vivono le carceri italiane, può farsi carico di un intervento diretto; l’altro è rivolto al magistrato di sorveglianza e si appella al rinvio facoltativo della pena per condizioni di detenzione inumane”. Due ‘strumenti operativi’ per cercare una via d’uscita da quello che, tra sovraffollamento asfissiante e assenza di percorsi adeguati, per molti appare sempre più come un inferno: “Ma la politica, che potrebbe intervenire in maniera strutturale, ha obliterato dall’orizzonte delle possibilità soluzioni come l’amnistia e l’indulto, misure concrete per un effettivo alleggerimento della popolazione carceraria. Simili misure, comuni fino a qualche decennio fa e auspicate anche dall’allora presidente della Repubblica Napolitano, sono oggi più che mai necessarie per far fronte al problema del sovraffollamento”. Roma. Estate nel carcere di Rebibbia, tra solitudine e attività azzerate di Roberta Pumpo agensir.it, 13 agosto 2024 Le ferie, con la conseguente sospensione delle attività e la riduzione del personale, di per sé insufficiente, aggravano notevolmente le già difficili condizioni di vita nelle carceri durante i mesi estivi, rendendo il Ferragosto un periodo particolarmente pesante. Le parole di mons. Fibbi e don Rulli. Le ferie, con la conseguente sospensione delle attività e la riduzione del personale, di per sé insufficiente, aggravano notevolmente le già difficili condizioni di vita all’interno delle carceri durante i mesi estivi, rendendo particolarmente pesante il periodo intorno a Ferragosto. Mons. Marco Fibbi, coordinatore dei cappellani del polo penitenziario di Rebibbia, ritiene fondamentale ricordare anzitutto che gli istituti penitenziari non devono essere associati esclusivamente a luoghi di detenzione per scontare una pena. Possono anche diventare ambienti in cui promuovere la crescita personale e culturale. “Tutte le iniziative in questo senso sono preziose per facilitare il reinserimento sociale dei detenuti - afferma -, ma non c’è dubbio che periodi come l’estate e le festività in generale possono accentuare il senso di isolamento all’interno delle mura carcerarie, rendendo le giornate molto tristi”. Ecco allora che per sfuggire alla solitudine e alleviare il gran caldo anche quest’anno una cinquantina di volontari della Comunità di Sant’Egidio saranno nelle case circondariali di Roma per la tradizionale “cocomerata solidale”. Circa tremila cocomeri saranno distribuiti tra mercoledì 14 e giovedì 15 agosto nel carcere di Rebibbia femminile, Rebibbia Nuovo Complesso e Regina Coeli. L’estate carceraria 2024 è inoltre caratterizzata dal nuovo decreto carceri diventato legge e promulgato la scorsa settimana dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Un provvedimento normativo con il quale “si gira intorno al problema senza affrontarlo”, riflette mons. Fibbi. La situazione è grave e i numeri sono impressionanti. Dall’inizio dell’anno sono oltre 60 i detenuti che si sono tolti la vita negli istituti penitenziari. A questi poi vanno aggiunti i sette agenti della polizia penitenziaria che si sono suicidati. “Tragedie simili - chiosa il coordinatore dei cappellani di Rebibbia - non devono più accadere. Un solo suicidio in carcere è già troppo e non è uno slogan, non è un modo di dire. Siamo davvero a livelli altissimi e inaccettabili, forse perché evidentemente la politica se ne occupa in maniera sbagliata”. Da anni si parla del sovraffollamento che mette in crisi tutto il modello organizzativo dell’amministrazione penitenziaria, ma, secondo mons. Fibbi, il nuovo decreto, “anziché affrontare le vere cause del problema, si limita a proporre soluzioni assolutamente evasive e spesso contraddittorie”. Per il cappellano le annunciate assunzioni di educatori e agenti sono tanto buone quanto necessarie ma “non bastano, perché la situazione migliorerà solo nel lungo periodo. Nel frattempo sono le misure immediate, come la liberazione anticipata, a fare la differenza”. Da anni, cappellani e volontari propongono di intensificare i contatti tra i detenuti e l’esterno, superando la semplice telefonata che non va a vantaggio di tutti. Specialmente per i detenuti stranieri e per coloro privi di un nucleo familiare, le attività carcerarie rappresentano l’unica via per mantenere un legame con il mondo esterno. “Certo è che per organizzare queste attività - considera mons. Fibbi - sono necessari fondi oltre al supporto di associazioni di volontariato. Ecco perché ritengo sia sbagliato che, per alleggerire il carico di lavoro del personale carcerario, si limiti l’accesso del volontariato nelle strutture penitenziarie. È fondamentale comprendere che bisogna puntare sulle attività riabilitative, dalla scuola al teatro, allo sport, che nel periodo estivo cessano. Ci impegniamo ogni giorno per il benessere dei detenuti e in estate, grazie ai volontari, raddoppiamo gli sforzi, ma, nonostante tutto, il malessere e la depressione persistono”. A causa del personale ridotto a Ferragosto è difficile anche celebrare la messa, spiega don Stefano Rulli, cappellano di Rebibbia Nuovo Complesso. Per molti detenuti la fede rappresenta una fonte di conforto e speranza ed è molto forte la devozione alla Vergine Maria. “Dal punto di vista liturgico e catechetico - spiega don Stefano - sono come i bambini. Si informano sui colori liturgici e sui tempi dell’anno liturgico. Molto sentita poi la devozione alla ‘Mamma’. Ogni anno doniamo centinaia, forse migliaia di rosari ai detenuti che lo richiedono. In tanti lo indossano. Quando entrano in cappella rendono subito omaggio alla statua o al quadro della Vergine e ci tengono che ogni liturgia termini con la preghiera dell’Ave Maria. Ci sono anche detenuti che non partecipano alla messa ma si affidano alla Mamma recitando il rosario in cella”. Quest’anno don Rulli ha promosso la recita del rosario nel mese di maggio con i detenuti in regime di alta sicurezza. “Al termine del mese mi hanno chiesto se fosse possibile vederci una volta a settimana per continuare la preghiera comunitaria”. Catanzaro. L’ex senatrice Silvia Vono partecipa all’iniziativa “Estate in carcere” di Francesco Iuliano La Nuova Calabria, 13 agosto 2024 Gli ultimi episodi accaduti nelle carceri italiane ed i fatti di sabato scorso nell’Istituto carcerario ‘Ugo Caridi’ di Catanzaro hanno, ancora di più, puntato il dito sulla questione del sovraffollamento delle carceri. Un dibattito al quale si sono aggiunte le polemiche, di una parte della politica, sull’approvazione al Senato del Decreto carceri. Un caso, quello del sovraffollamento delle carceri, che tocca livelli alti di sopportazione soprattutto a ridosso della stagione estiva. E con l’aumento della popolazione carceraria all’interno degli Istituti, crescono di conseguenza gli eventi critici con suicidi, tentativi di suicidio, atti di autolesionismo ed aggressioni al personale della Polizia Penitenziaria. Pe la Calabria, i numeri del problema carceri diffusi dal Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Luca Muglia sono dati che fanno riflettere. Una relazione che l’ex senatrice forzista Silvia Vono ha commentato dicendo che “In Calabria, le condizioni di detenzione, non sono diverse da quelle di altre parti d’Italia per cui lo stesso Presidente Mattarella le ha definite “indecorose per un Paese civile”. È urgente, dunque, intervenire con forza perché le criticità determinate dalla carenza di personale e gli alti livelli di sovraffollamento dei nostri Istituti penitenziari rischino di far esplodere una situazione già grave specie in una regione in cui si fa fatica ad affermare i diritti, e non solo per una questione culturale. Eppure, la difesa dei diritti fondamentali, baluardo della nostra Costituzione, in particolare delle persone detenute, è la base per qualificare un popolo ed affermarne la dignità. La relazione semestrale del Garante Regionale - ha aggiunto - ha evidenziato gli aspetti allarmanti della permanenza in carcere, dovuti proprio al crescente numero di persone detenute in applicazione di una misura cautelare ed a quello dei minori, in conseguenza all’applicazione del decreto Caivano, che non consentono un’adeguata rieducazione della persona ristretta. All’iniziativa del 6 aprile scorso sui temi della giustizia riparativa, come associazione abbiamo puntato l’attenzione sui minori rappresentando la situazione al viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, in collegamento da remoto che, nel condividere l’importanza di risolvere le controversie attraverso misure di reinserimento sociale è intervenuto anche sulla risorse stanziate dal Governo in tema di giustizia per nuove assunzioni di personale della Polizia penitenziaria e dei funzionari socio-giuridico pedagogici. Come appartenente a Forza Italia ed ex parlamentare, partecipo con entusiasmo ed ottimismo all’iniziativa “Estate in carcere”, lanciata dal ministro Tajani che prevede una serie di visite negli Istituti penitenziari di tutta Italia per verificare le condizioni dei detenuti e confrontarsi con dirigenti e operatori. Sono pronta - ha detto - ed ho già avviato alcune interlocuzioni per partecipare a visite programmate nei vari Istituti calabresi, in collaborazione con tutti gli operatori, per concordare possibili soluzioni alle diverse criticità e garantire il benessere di tutti, detenuti ed operatori della Polizia Penitenziaria per i quali in quali si sta lavorando per una rapida definizione del nuovo contratto di lavoro, considerando anche i funzionari ed i dirigenti che curano gli aspetti amministrativi, giuridico ma soprattutto umani ed educativi. Riguardo poi alla questione delle schermature in plexiglass installate sulle sbarre di alcune camere detentive in alcuni padiglioni degli Istituti Penitenziari di Vibo Valentia (in particolare nella cosiddetta sezione sex offender), Cosenza e Reggio Calabria, addirittura nella sezione femminile, di cui è cenno nella relazione semestrale del Garante, ho informato personalmente sia il viceministro Sisto che il capo dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Pannelli installati già da alcuni anni che, in modo evidente, impediscono il naturale ricambio dell’aria, alterano la percezione della luce ed aggravano i disagi psico-fisici alle persone detenute, limitando il diritto fondamentale di godere dell’aria e degli spazi essenziali per la vita quotidiana”. Genova. Aperto il negozio che vende le magliette realizzate dai detenuti genovatoday.it, 13 agosto 2024 Nel centro storico, un progetto che punta a dare un’occasione di riscatto attraverso il lavoro e la creatività. Ha aperto nel centro storico un negozio che mette in vendita magliette realizzate dai detenuti del carcere di Marassi. Si tratta di un Temporary Shop de La Bottega Solidale e si trova in piazza Fossatello 7r, rimarrà aperto fino a metà settembre. Fa parte del progetto O’Press che nasce dalla collaborazione (avviata nel 1998) tra La Bottega Solidale, l’Istituto Ruffini, l’associazione Teatro Necessario e la Fondazione De Andrè. Mira a portare il lavoro e la sostenibilità all’interno del penitenziario, coinvolgendo persone detenute nella produzione artigianale di t-shirt in cotone biologico/filiera fair trade attraverso la tecnica della serigrafia. Gli inchiostri utilizzati sono non inquinanti e atossici, rispettando così l’ambiente. Da oltre tre decenni, La Bottega Solidale si dedica alla promozione del commercio equosolidale e della sostenibilità, utilizzando questi valori come strumenti di riscatto sociale. Il progetto O’Press incarna perfettamente questa filosofia, offrendo alle persone detenute una possibilità di riscatto attraverso il lavoro e la creatività. Alessia Bordo, responsabile del progetto O’ Press, spiega: “Grazie al lavoro in serigrafia le persone coinvolte possono dare valore al proprio tempo e sentirsi partecipi di un percorso ad alto contenuto sociale e valoriale che, come dicono loro stessi nella toccante testimonianza che ci hanno consegnato, è ingranaggio importantissimo della macchina del loro riscatto”. La lettera dei detenuti che partecipano al progetto Di seguito la lettera inviata dai detenuti che fanno parte del progetto: Guido, Peppe, Carmelo, Lat, Mario e Domenico. “Per noi non è facile trovare le parole giuste per esprimere la soddisfazione e l’orgoglio che proviamo nell’aver raggiunto un obbiettivo del genere. Naturalmente vorremmo essere materialmente presenti, lì con voi, con te Alessia, che ci stai accompagnando egregiamente in questo percorso, dove tutti insieme siamo magnifici, ma questo “muro” ci fa gioire a metà. Possiamo paragonare l’apertura dello “Shop O’Press” come la ciliegina sulla torta, frutto di un percorso che parte da molto lontano, dove spesso sembra di non avvistare mai un orizzonte, che adesso però si è materializzato, sperando che sia l’inizio di un ulteriore serie positiva di risultati e che si possa espandere in modo da poter segnare profondamente il nostro motto “dentro c’è molto di più”. Noi ci abbiamo sempre creduto, nonostante periodi bui, come quello pandemico, siamo andati avanti con coraggio e costanza, nonostante le dure condizioni di vita a cui siamo sottoposti, abbiamo sempre dato un senso profondo al nostro lavoro, sì…proprio lavoro, l’ingranaggio importantissimo della macchina per il nostro riscatto. Esiste un mondo che voi lì fuori non conoscete, un mondo estraneo alla coscienza pubblica, un piccolo mondo dove le cose si muovono diversamente dalla società in cui si vive normalmente, dove spazio e tempo hanno dimensione e ciclo diversi dalla normalità, noi cerchiamo di attraversarlo nel miglior dei modi, Bottega Solidale e il progetto O’Press sono il camper su cui stiamo viaggiando per attraversare quel mondo, creando valore al nostro tempo e utilità al nostro spazio, ecco perché esprimiamo profonda gratitudine a tutti voi, sperando che un giorno la nostra presenza si possa materializzare. Vi abbracciamo tutti e naturalmente… buoni acquisti!”. Livorno. Detenuti attori, il teatro in carcere. Lo spettacolo è per tutti di Francesca Suggi Il Tirreno, 13 agosto 2024 “Giulietta + Romeo, per amore non si muore” di Ricci e Gallo. Prenotazioni entro il 27 agosto: ecco come partecipare. Detenuti-attori sul palco della casa circondariale delle Sughere. Lo spettacolo è per tutti. Sarà allestito all’interno del campo sportivo, con una tribuna dedicata al pubblico. “Giulietta + Romeo, per amore non si muore” va in scena per il pubblico fuori. Sul palco 8 attori. Un ponte tra chi sta all’esterno e chi sta dentro. Un’occasione per entrare. Per vivere il teatro e la cultura come linguaggio universale che unisce. A prescindere. L’occasione è il 12 settembre, alle 18 (per 150 persone), all’interno delle Sughere. Le prenotazioni sono aperte fino al 27 agosto: basta scrivere una mail a comunicazioni@arcilivorno.it con nome, cognome, luogo e data di nascita. Ci sono regole ferree da rispettare. “I nominativi saranno sottoposti al controllo dell’autorità giudiziaria e una mail di conferma da parte dell’ente organizzatore ti darà modo di accedere all’interno del carcere: è importante presentarsi davanti alla casa circondariale, almeno 45 minuti prima dell’inizio dello spettacolo con un documento d’identità. È vietato portare all’interno telefoni cellulari”, dicono gli organizzatori. In scena lo spettacolo della compagnia teatrale Tempo Libero: “Giulietta + Romeo, per amore non si muore”, regia di Francesca Ricci e Lara Gallo con gli attori-detenuti del laboratorio permanente di teatro in carcere. L’evento è organizzato da Arci Comitato di Livorno in collaborazione con Scenari di Quartiere e Fondazione Goldoni e il sostegno della Regione Toscana - progetto Teatro e Carcere. “Il progetto del teatro in carcere è attivo nella sezione di media sicurezza da oltre 20 anni, è curato da Arci Livorno e sostenuto dalla Regione - spiegano le registe - Prevede un laboratorio permanente a cadenza settimanale: lavoriamo su propedeutica, messa in scema, linguaggio, testi, spesso sono classici contaminati dalle storie dei partecipanti”. Ricci e Gallo raccontano la loro esperienza: “La sezione media sicurezza è caratterizzata da una composizione variegata e multiculturale, si mischiano storie da diverse parti del mondo, soprattutto Africa Mediorientale e molti ragazzi sono anche livornesi: è un carcere maschile. Abbiamo un ricambio continuo, diciamo che il nostro lavoro in parte inizia sempre da capo”. Sullo spettacolo del 12 settembre che farà parte di “Scenari di quartiere” con la collaborazione ella Fondazione Goldoni: “Sarà un riadattamento della tragedia di Shakespeare Romeo e Giulietta con la nostra attualità”. È giusto mettere in scena la violenza? Il dilemma degli scrittori di Aldo Grasso Corriere della Sera, 13 agosto 2024 Il male, tema centrale di tutte le narrazioni mitiche e religiose. Da sempre, l’uomo ha cercato di rappresentare il male, posto all’origine del cammino umano, per esorcizzarlo. Ero convinto di poter consigliare ai lettori un libro che tratta di un argomento di cui abbiamo qui discusso tante volte e di cui non ci stancheremo di discutere: la rappresentazione del male. Il libro di chiama “Lo spettacolo del male. Da Squid Game al true crime. Perché abbiamo bisogno di mostri” ed è scritto da Lucrezia Ercoli (Ponte alle Grazie), ideatrice e direttrice artistica del festival di filosofia del contemporaneo “Popsophia”. È un libro forse troppo popsophico per le mie capacità cognitive. “La brutalità e la violenza - sostiene l’autrice - non sono turbamenti transitori, ma caratteri dormienti sempre pronti a risvegliarsi”. Da sempre, l’uomo (maschile sovraesteso) ha cercato di rappresentare il male per esorcizzarlo. Per questo nel libro di parla di quegli scritti, di quelle news, di quei quadri, di quelle serie, di quelle cronache nere, di quei film, di quelle canzoni che mettono in scena la violenza. Sulla serie “The Sopranos” Ercoli scrive: “Le sedute di terapia di Tony Soprano ci consentono di conoscere meglio la sua doppia vita. Un padre preoccupato e un criminale senza scrupoli, un marito fedifrago e un uomo d’onore” (confesso che ho letto cose più decisive sulla serie in questione). Da tempo, molti scrittori si sono chiesti se sia giusto mettere in scena la violenza, la criminalità, il male. O dobbiamo far finta che non esistano? Dobbiamo produrre solo fiction agiografiche per consolarci con un’immagine positiva, gratificante? Dobbiamo chiedere alla tv, al cinema e ad altre forme espressive di esimersi dal raccontare la criminalità, nel timore che ciò dia origine a comportamenti emulativi? Una conoscenza che non tenga conto del male è una conoscenza in favore del male. Il libro di Lucrezia Ercoli è un’ubriacante raccolta di citazioni, come se l’autrice, ingenuamente, volesse farci sapere quanti libri ha letto, quanto è profonda la sua conoscenza, non affrontando mai il problema centrale: in tutte le narrazioni mitiche e religiose, il male è posto all’origine del cammino umano. Comincio a credere che la Popsophia abbia questo di sorprendente: ci consola della sua Popillusorietà. Un freno al gioco d’azzardo di Mauro Magatti Corriere della Sera, 13 agosto 2024 La ludopatia è arrivata a livelli preoccupanti: nel 2023 gli italiani, neonati inclusi, hanno giocato 2.488 euro a testa. E nel nostro Paese le persone con un problema di dipendenza sono 300 mila. Il governo deve intervenire. In tempi di Olimpiadi - la grande festa mondiale dello sport, con la sua enorme carica di positività - vale la pena richiamare l’attenzione anche su un’altra forma di gioco, purtroppo tossica e disgregativa. Parlo del gioco d’azzardo, che costituisce un fenomeno di dimensioni davvero impressionanti. Secondo gli ultimi dati, la spesa totale ha raggiunto nel 2023 la cifra di 147,7 miliardi (50% online), pari all’89% della spesa alimentare e più della spesa sanitaria (che nel 2023 è stata di 131,1 miliardi). E le previsioni parlano di 250 miliardi nel 2030 (di cui 2/3 online). In termini procapite, gli italiani, neonati inclusi, nel 2023 hanno giocato 2.488 euro a testa. Il fenomeno è diffuso e variegato. L’offerta è ampissima e in continua espansione: ci sono 55 diverse tipologie di lotterie istantanee, 47 tipologie di “gratta e vinci” online, oltre a 310.953 Slot e Vlt e 200 sale bingo sparse sul territorio nazionale. In Italia sono aperti oltre 15 milioni di conti gioco. E grazie al gioco on line cresce la quota di giovani coinvolti. In una ricerca svolta a Modena risulta che il 41% dei giovani ha avuto qualche esperienza con il gioco, dal gratta e vinci all’online. Nella fascia 14-18, il 4% ha un conto on line attivo e il 9% vorrebbe averlo. Le conseguenze sociali del gioco d’azzardo (isolamento sociale, difficoltà nel gestire il quotidiano, malessere, ansia) diventano drammatiche con le ludopatie. Secondo il Dipartimento delle Politiche Antidroga gli italiani con un problema di dipendenza da gioco non sono meno di 300.000 persone. In un Paese con debito pubblico stratosferico, con 5 milioni di poveri e disuguaglianze sociali e territoriali molto ampie, il gioco d’azzardo sembra aver preso il posto della lotta di classe. Abbandonato al suo destino, sfiduciato verso la politica e i sindacati, il “giocatore” - che ha un profilo socioculturale medio-basso - sogna di trovare nel gioco la soluzione ai propri problemi. E pazienza se i soldi che gioca peggiorano ancora di più la sua situazione concreta. Meglio coltivare la speranza di un colpo fortuna. Che magari non arriverà, ma almeno aiuta a tirare avanti. Gli operatori raccontano di casi in cui si arriva a giocare il sussidio per il figlio disabile. Si spende molto di più nel sud economicamente stagnante che nel nord produttivo. Con il primato di Isernia, dove la spesa supera i 4.000 euro medi procapite. Mentre Palermo, Napoli, Bari e Roma fanno registrare un valore medio doppio rispetto a Milano. Per cominciare a cambiare direzione è prima di tutto necessario riconoscere che si tratta di un problema sociale rilevante. Affermazione che gli operatori del settore contestano, in nome della libertà individuale e dei posti di lavoro creati. Ma, a parte i timori sugli investimenti illeciti che questi settore solleva, rimane la domanda sul tipo di Pil che vogliamo realizzare. Come affermò in un celebre discorso Robert Kennedy, “il Pil …misura qualsiasi cosa - anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana - eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. Se non fossero risucchiati nel buco nero del gioco, i 150 miliardi spesi nel gioco entrerebbero ugualmente nel circuito economico, in attività più positive per i cittadini e la collettività. Fino a oggi lo stato italiano è stato molto tiepido sul tema. Anche perché per anni ne ha tratto significativi vantaggi fiscali. Ma, ora, con l’espansione del gioco on line, è venuto il momento di agire. Un dato è illuminante: nonostante i volumi di giocato complessivo siano aumentati del 37% dal 2019 al 2023, le entrate erariali sono rimaste sostanzialmente stabili (+2,5%). Ad aumentare sono stati soli i costi che lo Stato deve sostenere per contrastare i danni sociali della ludopatia. Se mai c’è stato un (discutibile) interesse legato all’erario, oggi non è più vero. Bisogna agire, e si può cominciare con tre passi concreti e fattibili. Serve prima di tutto una legge quadro che precisi i termini di una relazione caratterizzata da una forte ambiguità. Come in altri campi, occorre almeno regolare la pubblicità superando espressioni come “gioco responsabile”, evidentemente fuorvianti. Non si può sottacere il fatto che esistono strategie di marketing miranti a aumentare la dipendenza. E poi va ricostituito l’osservatorio nazionale per il contrasto alla diffusione dell’azzardo e della dipendenza grave presso il Ministero della Sanità, in modo da avere una fotografia aggiornata e approfondita della situazione. “Quei ragazzini bulli in strada e sui social. La colpa è nostra, spegniamo i telefonini” di Monica Serra La Stampa, 13 agosto 2024 Lo psicologo: “La sfera intima non esiste più, oggi tutto è spettacolarizzazione”. “Dobbiamo smetterla di scaricare tutte le colpe sulla famiglia o su internet. La colpa è della società che noi adulti abbiamo costruito, dove tutto è spettacolarizzazione, dove la sfera intima non esiste più, e del modo in cui noi utilizziamo il web e i social. Dobbiamo essere noi i primi a spegnere i cellulari: genitori, insegnanti, politici”. Lo psicoterapeuta Matteo Lancini, presidente dell’associazione Minotauro e autore del libro “Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta”, davanti ai recenti casi di baby gang e violenza tra i più giovani - il ragazzino picchiato in Irpinia e costretto al baciamano, il dodicenne circondato dal branco e obbligato a inginocchiarsi a Vieste, per citare gli ultimi - tutti rigorosamente filmati coi cellulari, spiega che “abbiamo creato una società individualista ma di massa, con una pornografizzazione di tutto, nella quale il problema di internet è come lo utilizzano gli adulti: come gestiscono la famiglia attraverso i gruppi di Whatsapp, come lo usa la politica ogni giorno, governando il proprio processo di potere attraverso i social network”. Professore, il disagio giovanile è in aumento? “Esiste sicuramente l’espressione di un disagio giovanile con un aumento di gesti violenti verso se stessi (autolesionismo, tentativi di suicidio che fanno meno rumore) e verso l’altro. È il bullismo di strada: spesso non sono neanche baby gang, ma gruppi che si formano all’occorrenza”. Chi sono gli autori di queste forme di violenza? “L’età si è abbassata alla predolescenza e sempre più spesso questi ragazzi non appartengono a fasce socio-economiche marginali, ma a famiglie benestanti”. Perché lo fanno? “I giovani che sperimentano disagio o sofferenza, la sensazione di non essere visibili di non avere futuro trovano qualsiasi occasione, in base alle caratteristiche di personalità, per compiere delle azioni che possano essere rese pubbliche. Per sentirsi qualcuno, per esistere”. Ci spieghi meglio... “Abbiamo costruito una società in cui non c’è più un confine tra un’esperienza intima e privata e una pubblica, dove il sensazionalismo legato al fatto di rendere pubblico, attraverso gli smartphone, un avvenimento che ti consenta di avere popolarità e di far parlare di te è un atteggiamento che riguarda tutta la collettività”. Quindi è colpa dei social? “La colpa semmai è di come la cultura adulta li governa. E in questo senso il grande protagonista di tutti questi fatti di cronaca diventano i social, che sono il vero interlocutore. Presenti nello stupro di Palermo, nei casi più recenti: c’è sempre una telecamera accesa”. Siamo tutti responsabili? “Si, noi psicologi, la stampa, la politica… Abbiamo creato una società in cui qualsiasi avvenimento che ti consenta di avere un follower o un like in più va pubblicato. C’è un’emergenza valoriale profonda che riguarda l’incapacità degli adulti di usare i social e di imputare agli adolescenti la colpa di tutto questo”. Vuole dire che i ragazzi aggrediscono e filmano tutto per sentirsi qualcuno? “Nessuno di noi rinuncia al proprio successo, alla popolarità, tutto viene spettacolarizzato. Così, per ottenere la popolarità, quando sei in difficoltà e sei un adolescente non c’è modo migliore che trovare qualcuno da sottomettere, riprenderlo e diventi finalmente qualcuno, che recupera la sensazione di non essere visto, di non avere futuro”. Qual è la soluzione a tutto questo? “I primi a spegnere i cellulari e a tornare a parlare coi ragazzi, a rimetterli al centro, dobbiamo essere noi: politici, insegnanti, genitori. Se andiamo avanti così, avremo sempre di più ragazzi che compiranno azioni “straordinarie”, in base al loro disagio personale, riprendendosi. La dimensione dell’uomo, del rispetto dell’intimità del privato non esiste più. E questo non è stato creato dai ragazzi, ma dalla società adulta, dove o sei visibile o non conti nulla, o hai successo o è meglio che tu scompaia”. Come si fa a spegnere i cellulari nel 2024? “Allora dobbiamo dare l’esempio. Smetterla di filmare i ragazzi da quando sono bambini e di puntare tutto sull’immagine. Rendere obbligatorio l’uso di internet almeno nelle scuole secondarie di secondo grado per educare i ragazzi a usare questo strumento. Soprattutto, rimetterli al centro, nelle politiche del governo e nelle case. Parlare con loro, anche degli argomenti più difficili: la morte, la fragilità, la sofferenza”. Migranti, impennata di arrivi. E il Viminale apre un nuovo Centro di detenzione di Alessandra Ziniti La Repubblica, 13 agosto 2024 A Porto Empedocle per bypassare i giudici “nemici” di Catania. Quello aperto l’estate scorsa a Pozzallo è stato chiuso dopo poche settimane in seguito alle ripetute bocciature dei fermi da parte della giudice Apostolico e dei suoi colleghi. Ora la competenza passa a Palermo. Si parte il 16 agosto. Impennata di sbarchi di migranti nell’ultima settimana e il Viminale, nell’attesa che parta l’operazione Albania, riprova ad applicare in Italia le procedure accelerate di frontiera nei confronti dei migranti provenienti da Paesi sicuri nella speranza di accelerarne i rimpatri. Invertendo il trend consolidato del - 63 % rispetto allo scorso anno, sono circa 2500 le persone arrivate in pochi giorni, il 77 % delle quali a Lampedusa. Ma anche le Ong hanno, per ultime la Sos Humanity e il veliero Astral della Open Arms, hanno soccorso più di 500 persone nelle ultime ore. Per loro la destinazione è sempre quella dei porti più lontani. Per chi arriva a Lampedusa, invece, adesso la prospettiva imminente è di finire nel nuovo centro di trattenimento per richiedenti asilo di Porto Empedocle. Il caso Apostolico e la chiusura del centro di Pozzallo - Il primo e fino ad ora unico centro per il trattenimento dei richiedenti asilo era stato aperto l’estate scorsa a Pozzallo ma dopo il caso della giudice Iolanda Apostolico e dei suoi colleghi della sezione immigrazione che hanno ripetutamente disapplicato le nuove norme previsto dal decreto Curto, il ministero dell’Interno aveva desistito e il centro, di fatto, ha chiuso i battenti. Adesso Piantedosi ha deciso di riprovarci ma, invece di riaprire la struttura di Pozzallo, la scelta è ricaduta su parte della nuova struttura destinata ad hotspot inaugurata alla fine della scorsa estate a Porto Empedocle, in provincia di Agrigento. Lì - comunica adesso la direzione dell’amministrazione penitenziaria - verranno adesso rinchiusi i migranti provenienti da Paesi sicuri e la competenza sui provvedimenti di fermo che saranno emessi dal questore di Agrigento toccherà ai giudici di Palermo e non più a quelli di Catania. Richiamati al lavoro i giudici dell’immigrazione di Palermo - Giudici che - come dimostrano le due circolari firmate dal presidente del tribunale Piergiorgio Morosini e da quello della sezione immigrazione Francesco Micela visionate dal giornalista di Radio Radicale Sergio Scandura - sono già stati allertati e in parte richiamati dalle ferie per farsi trovare pronti per i primi provvedimenti probabilmente già prima della fine del mese. Vista la materia “molto delicata e impegnativa per la natura dei delitti in questione”, Micela invita i suoi giudici a trattare personalmente i provvedimenti senza delegarli ai giudici onorari, mentre il presidente del tribunale Morosini ha già richiamato dalle ferie un giudice per il trattamento dei primi fascicoli a partire dal 16 agosto. Mistero sulla gestione del centro - Data che appare estremamente ravvicinata e si considera che non è chiaro neanche esattamente dove saranno detenuti i migranti individuati per le procedure accelerate di frontiera. Il centro di Porto Empedocle infatti è attualmente un hotspot gestito dalla Croce Rossa che finora si è sempre mostrata indisponibile a gestire centri di trattenimento per migranti. Migranti. La vita da incubo dei braccianti-schiavi Di Beatrice Branca Corriere di Verona, 13 agosto 2024 Prima la promessa di ottenere un permesso di soggiorno in Italia e di essere regolarizzati con un contratto di lavoro nel settore agricolo. Poi l’amara sorpresa di essere sfruttati e ridotti in schiavitù nei campi del Basso Veronese. I braccianti, salvati la scorsa settimana dalle fiamme gialle, non solo dovevano lavorare 7 giorni su 7 e per 12 ore nei campi, ma nel restante tempo libero - se così si può definire - dovevano anche recarsi nell’abitazione di uno dei due caporali e svolgere ulteriori lavori domestici non retribuiti. Questo dettaglio emerge dall’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa sabato 10 agosto dalla giudice per le indagini preliminari Paola Vacca nei confronti dei due fratelli indiani J.S. di 47 anni e K.S. di 48 anni, assistiti dall’avvocato Emanuele Luppi, entrambi residenti a Cologna Veneta e ora in carcere a Montorio. I due sono indagati per la riduzione e il mantenimento in schiavitù di una trentina di braccianti tra i 20 e i 35 anni, immigrati in Italia dall’India per lavorare tra Cologna Veneta, Pressana e Minerbe. Ogni giorno i braccianti, caricati su alcuni furgoni, venivano portati nei campi agricoli e, durante il tragitto, avevano il “divieto di parlare - si legge nell’ordinanza - e di far rumore per non attirare l’attenzione dall’esterno”. Ai lavoratori era stato inoltre confiscato il passaporto per evitare la fuga una volta scoperta la truffa, oltre a essere privati della “libertà di autodeterminarsi - viene riportato nell’ordinanza - circa il luogo ove vivere, le condizioni di vita, la vita sociale, il diritto di muoversi”. I braccianti erano infatti costretti ad alloggiare in tre abitazioni: 16 di loro erano stati sistemati in una casa con tre camere da letto e un solo bagno, mentre gli altri 15 soggiornavano in abitazioni adiacenti allestite a dormitori. Chi voleva poi uscire per fare la spesa o per altre commissioni poteva farlo “solo se accompagnato da persona di fiducia - emerge nell’ordinanza -, in modo da inibire qualsiasi contatto con persone che potessero interessarsi ai loro casi e trarli a salvamento”. I lavoratori che cercavano poi di opporsi alla situazione di sfruttamento, alla privazione della propria libertà personale o cercavano di andarsene, venivano ulteriormente intimiditi con minacce “dirette sia a loro sia alle famiglie in patria, e angherie fisiche se solo facevano mostra di volersi ribellare”. Già a inizio luglio la guardia di finanza aveva confiscato quasi 458mila euro ai due fratelli che avevano dichiarato di non aver assunto alcun dipendente nelle loro aziende agricole. Uno di loro non aveva infatti nemmeno presentato la dichiarazione dei redditi, mentre l’altro aveva dichiarato solo poco più di 2.100 euro di entrate dai terreni. Le indagini delle fiamme gialle hanno invece portato alla luce una situazione di caporalato, dove i quasi 458mila euro confiscati erano infatti il frutto dello sfruttamento dei braccianti “ridotti al rango di utensili e trattati peggio di macchinari”, viene precisato nell’ordinanza. I due caporali risultano inoltre titolari di un’agenzia di reclutamento di lavoratori in India con cui probabilmente erano state intercettate le vittime: a loro chiedevano tra i 16mila e i 19mila euro per essere regolarizzate in Italia, oltre a prelevare ulteriore denaro dai compensi di 5 euro all’ora per il loro mantenimento. La misura di custodia cautelare in carcere è stata quindi introdotta sia nel timore che i due indagati possano scappare o inquinare le prove, sia per evitare che, con la loro agenzia di reclutamento, possano “reperire altre vittime da destinare alla schiavitù in Italia”. La necessità di un impegno collettivo per la pace di Francesco Vignarca La Stampa, 13 agosto 2024 Nel bel dibattito che La Stampa sta ospitando sulla ripresa del bellicismo come cifra della stagione politica del mondo (anche se le guerre devastavano tanti luoghi anche prima che tornassimo ad accorgercene noi) ritengo utile ed opportuno portare, dopo quello della filosofia e della politica, il contributo dello sguardo di chi prova ad essere quotidianamente operatore di Pace e disarmo. Che nasce da esperienze, competenze, cammini concreti ben lontani dalla caricatura sminuente di “idealisti naif e capaci solo di slogan” ripetuta con scorrettezza in maniera funzionale e certi interessi armati. Partiamo dalla base: che cos’è la Pace? Come la possiamo “definire”? Di certo non come la intendevano gli antichi romani (e purtroppo come la intendono diversi politici ed analisti oggi) un semplice intervallo tra guerre, in cui le porte del tempio di Giano venivano chiuse. Considero sempre un po’ straniante che, dopo secoli di progresso del pensiero, l’unico principio che alcuni vorrebbero immutabile è quello del presunto ottenimento della pace tramite la preparazione alla violenza e al conflitto armato (“si vis pacem, para bellum”) derivandolo dall’esperienza di chi ha sempre cercato solo brutale dominio. Con un concetto di pace più vicino al deserto di quella eterna, che ad uno sbocciare pieno della vita. La Pace che dobbiamo cercare è invece “positiva”, non solo in senso valoriale ma proprio definitorio perché si realizza con una compresenza piena di elementi (di “pilastri”) capaci di garantire a ciascuna persona una prospettiva di realizzazione. Ce lo ha insegnato Johan Galtung, il teorico principale della “Pace positiva”, parlando di un processo continuativo, trasformativo e creativo che punti a massimizzare equità ed empatia, riducendo nel contempo trauma e conflitto. Cosa comporta questo punto di partenza? Prima di tutto un profondo cambiamento concettuale che ribalta l’idea e la percezione degli spazi e dei “vuoti”. Non si parla più di intervalli di “non-guerra”, ma al contrario di un percorso faticoso di miglioramento delle condizioni umane che viene rallentato o fatto regredire da episodi bellici. Non sembri un dettagli meramente teorico: questo sguardo aiuta a focalizzare quello che è veramente importante e da perseguire, trasformando quel pensiero sotterraneo non detto, e falso, secondo cui la condizione umana naturale sarebbe quella della guerra. E anche la Storia andrebbe raccontata più come il divenire di vita e salvezza, che di decisioni di morte. Questo approccio possiede un altro grande pregio: se la Pace è un completamento armonico di pezzi diversi (come in un mosaico, ricordava sempre il venerabile don Tonino Bello) e ne sono antitesi non solo i conflitti armati ma anche le violenze strutturali più o meno latenti, allora non possiamo solo invocarla o aspettarla come Godot. Allora va costruita nel quotidiano lavorando su più piani collegando le “grandi questioni” internazionali (noi lo facciamo nelle campagne globali, da quella contro le armi nucleari a quella per la riduzione delle spese militari) al vissuto personale e comunitario che ci sollecita ogni giorno. Per la Pace lavorano non solo quelli che si occupano di armi, conflitti armati, trattati internazionali… ma anche quelli che si impegnano per inclusione, ambiente, cooperazione, sviluppo sostenibile, salute. Cioè tutti coloro che utilizzano la Pace come prospettiva sociale e politica da alimentare su due grandi direttrici: quella della giustizia e dell’uguaglianza (non solo in freddo senso “tecnico”, ma collettivo) e quella dei diritti umani (non solo quelli personali, ma anche sociali). In definitiva la Pace esiste solo se ciascuno fornisce un contributo positivo alla creazione di una società più giusta in cui la vita di tutti “valga” con pienezza: quella “isola che non c’è ancora” evocata da Marco Tarquinio nel suo intervento rifacendosi all’intuizione di Tommaso Moro. Che non era un giovane sognatore di belle speranze ma uno dei più importanti politici della sua era (non caso scelto dalla Chiesa Cattolica come patrono degli statisti…). Come possiamo realizzare questo grande affresco ideale? Con una scelta ben precisa: quella della “Nonviolenza politica”. Senza farsi ingannare dalla mistificazione del termine (nell’originale di Gandhi è il satyagraha, la “forza della verità”) perché non si tratta di vuote petizioni di principio ma di scelte concrete. Che non partono solo da un rifiuto dei metodi violenti (la Pace deve essere un mezzo, non solo un fine, altrimenti poi si giustificano barbarie e doppi standard) ma individuano come risolutiva la creazione di contesti positivi strutturali; altrimenti il conflitto non lo trasformi ma lo alimenti, e noi lo sappiamo bene grazie al lavoro quotidiano delle organizzazioni che operano in contesti di guerra e crisi umanitarie. Non è certo il mondo del pacifismo ad essere “salottiero”… Si può dire anzi che chi opera nel movimento per la Pace e il disarmo (forma strutturale della politica nonviolenza) sia il vero “realista”, non certo coloro che ripetono come un mantra che la pace si fa con le armi. Per caso questa formula ha funzionato, in particolare negli ultimi anni? Assolutamente no: dall’inizio del Millennio la spesa militare è raddoppiata (e con essa i vantaggi di quel complesso militare-industriale-finanziario vero nemico della pace e della vita, perché sfrutta la guerra per propri interessi) ma guerre e vittime sono aumentate in maniera drammatica. Il feticcio della deterrenza (anche e soprattutto di quella nucleare, teoria indimostrata che ogni giorno ci fa rischiare la stessa esistenza umana) non funziona: si vive bene e in “Pace positiva” solo se ci si sente protetti nei diritti e in un armonico contesto cooperativo con chi si ha intorno. Serve con urgenza un cambio di paradigma, perché la guerra non è la “sconfitta del pacifismo” ma di una politica che non riesce a farsi carico delle richieste di pace di tutta l’Umanità. *Coordinatore Campagne, Rete Italiana Pace Disarmo I migranti in Libia: ogni giorno l’incubo delle retate di polizia e dei campi-lager di Emilio Drudi nuovidesaparecidos.net, 13 agosto 2024 Il 16 luglio la polizia libica ha fatto irruzione in numerose case dei quartieri periferici di Zuwara, cento chilometri circa a ovest di Tripoli, arrestando oltre 200 migranti in attesa di trovare un imbarco verso Lampedusa. Meno di due settimane dopo, nella stessa zona, ne sono stati presi altri 54. Per tutti si sono aperte le porte dei centri di detenzione-lager, dove la vita dei prigionieri non conta nulla. L’unica possibilità di uscirne, assai spesso, è piegarsi al ricatto delle guardie stesse: dai mille ai duemila dollari per essere rilasciati e tornare a sperare di poter fuggire dall’inferno della Libia. Retate analoghe sono sempre più frequenti in tutto il paese: nei principali punti di imbarco usati dai trafficanti - Zawiya, Sabratha e appunto Ziuwara - e poi a Tripoli, Biserta ma anche molto più a est, in Cirenaica. Come a Tobruk, dove il 31 luglio più di cento donne, uomini e bambini sono stati sorpresi in una fattoria dei sobborghi dove vivevano nascosti da giorni. Per non dire degli arresti isolati o a piccoli gruppi. Basta un nulla per essere fermati. E sempre più di frequente non assicurano un minimo di tutela neanche i documenti rilasciati dall’Unhcr che attestano lo status di rifugiato e richiedente asilo protetto dal diritto internazionale. Anche Yorsalem, una giovane profuga eritrea, ha vissuto questa terribile esperienza. È arrivata in Libia tre anni fa, scappando dalla dittatura militare di Isaias Afewerki. Sperava di poter proseguire verso l’Europa, dove potrebbe contare sull’aiuto di parenti e amici, ma tutte le occasioni di imbarco sono sfumate ed è rimasta intrappolata a Tripoli, vivendo sempre nel terrore di essere sorpresa dalla polizia e tratta in arresto. E i suoi peggiori timori si sono concretizzati nel maggio scorso, quando è incappata casualmente in un rastrellamento ed è finita nel carcere di Abu Salim. Per poter uscire è stata costretta a pagare un riscatto di duemila dollari. Ora è di nuovo libera ma “per strada”, sempre con la paura di essere catturata di nuovo. E non ha più denaro: quei duemila dollari versati alle “guardie” erano la sua ultima risorsa. Da quando è fuggita dal regime di Asmara la sua famiglia ha speso per aiutarla almeno 20 mila dollari, una cifra enorme per una famiglia eritrea. La storia di Yorsalem fa il paio con quella di Solomun, un giovane eritreo bloccato in Libia da quasi tre anni. Ha tentato più volte, senza fortuna, di imbarcarsi. Ogni volta con difficoltà maggiori, sia per reperire il denaro necessario, sia per la sorveglianza sempre più stretta della polizia e della Guardia Costiera. Per non dire del calvario di una vita condotta alla macchia, nella quale diventa un rischio costante anche far fronte alle più elementari necessità quotidiane. E proprio per far fronte alle “necessità del vivere” una retata della polizia lo ha sorpreso per strada nei sobborghi di Tripoli. Dopo l’arresto, il 13 marzo scorso, è stato assegnato al centro di detenzione di Tarik al Sika, nella periferia sud della città, un inferno nel quale i prigionieri vengono ammassati in un grande capannone centrale dove, come si legge in un’inchiesta pubblicata dalla giornalista Sara Creta circa tre anni fa, il pavimento è ricoperto di materassi e le persone sono rinchiuse così strette da non riuscire nemmeno a sdraiarsi: “L’aria è irrespirabile, impossibile camminare senza calpestare i corpi. Centinaia sono condannati alle malattie e alla fame, per mesi”. Per uscire da questo incubo Salomun ha pagato mille dollari a uno dei guardiani. Mille dollari per tornare non alla libertà ma alla precarietà estrema di prima. Con sempre minori speranze e, in più, gli strascichi pesanti dell’esperienza patita: gli amici dicono che vive sotto choc e rifiuta quasi ogni contatto. Sono migliaia i giovani passati in gironi di questo genere dopo essere stati fermati prima ancora di imbarcarsi: nelle ore precedenti o al momento stesso dell’imbarco, nei rifugi precari procurati dai trafficanti in vista della traversata, lungo le piste del deserto o nelle vicinanze del confine meridionale e, sempre di più, nei quartieri periferici di Tripoli e delle altre grandi città dove i profughi/migranti tentano di sopravvivere. Dei 141.238 fermi effettuati in totale dalla polizia e dalla guardia costiera libiche a partire dal 2020, infatti, ben 40.963, il 29 per cento, quasi uno su tre, sono stati effettuati “a terra”, con un crescendo impressionante anno dopo anno: 2.116 nel 2020, pari al 14,5 per cento e poi, via via in aumento, 9.632 nel 2021 (pari al 22,7), 10.730 nel 2022 (il 30,6 per cento), 13.338 lo scorso anno (43,1 per cento) per arrivare ai 5.147 di quest’anno fino al 5 agosto (28,7 per cento). I migranti attribuiscono questa escalation soprattutto all’aumento dei fermi nelle aree urbane. “A Tripoli - hanno riferito alcuni profughi ad Abraham Tesfai, un esponente del Coordinamento Eritrea Democratica esule a Bologna - i quartieri più a rischio sono quelli di Debi, Dharie Ashera, Abu Salim, Shergiyas, Albatur, Gargarish, Aiyn Zara, Measker Hamza e Tarik al Sika. È dall’inizio di maggio che in queste zone si registrano continui rastrellamenti, posti di blocco, irruzioni nelle case dove la polizia sa che vivono tantissimi disperati, ciascuno dei quali, cercando di passare il più possibile inosservato, deve lottare ogni giorno anche per le esigenze e i problemi più semplici per sopravvivere, oltre che per mettere insieme il denaro per la traversata del Mediterraneo con i barconi dei trafficanti”. Berhe, un richiedente asilo eritreo, è un “veterano” di questi quartieri. Arrivato in Libia cinque anni fa, ha speso finora più di 25 mila dollari per cercare di raggiungere l’Europa ma gli è sempre andata male ed è tuttora intrappolato a Tripoli. “Ho passato in fuga buona parte della mia vita - racconta - Quando ho lasciato l’Eritrea sono finito in Israele. Era il 2011. Sono rimasto lì sino al 2018, quando il governo mi ha costretto ad andare in Uganda. Dicevano che ci avrebbero dato asilo e opportunità di cominciare un futuro di libertà. In realtà non ho trovato alcuna possibilità di costruirmi in Uganda, come avevano promesso, una vita dignitosa e sicura e allora ho deciso di puntare verso l’Europa, passando dalla Libia. A Tripoli sono arrivato nel 2019 e la mia prima preoccupazione è stata quella di registrarmi presso l’Unhcr come richiedente asilo. Speravo di essere inserito in uno dei canali umanitari verso l’Italia o un altro paese occidentale. Ma questa possibilità è tramontata con il passare del tempo. E non ho avuto fortuna neanche con uno dei barconi dei trafficanti. Ho vissuto sempre nascosto, cercando di non dare nell’occhio. Sempre con la speranza di potermene andare da questo paese. Poi, la notte del 30 giugno scorso, nell’alloggio dove abitavo con altri migranti, è arrivata la polizia. Così sono finito in prigione. Per fortuna ho potuto procurarmi del denaro: per uscire ho pagato duemila dollari. Ora devo ricominciare tutto da capo, ancora una volta. Abito in una casa dei sobborghi insieme a numerosi altri profughi come me. Alcuni hanno perso la testa per quello che hanno patito. Io stesso ormai non riesco più a dormire: ogni notte sto sul chi vive, sempre con la paura che ci sia un’altra retata della polizia…”. Sono le stesse autorità libiche, del resto, a sottolineare il grande numero di arresti a terra, oltre che dei blocchi in mare. Non si fa cenno, ovviamente, alla sorte terribile che attende i ragazzi catturati e deportati nei centri di detenzione, ma ogni giorno viene stilato un rapporto riassuntivo, quasi a documentare “in cifre” come venga svolto con grande efficacia il ruolo di “gendarme anti immigrazione” affidato dall’Italia e dall’Unione Europea prima a Tripoli e ora, pare, anche al generale Haftar, il “signore della guerra” che controlla il governo di Bengasi e Tobruk. E proprio queste “cifre” devono aver indotto l’Italia ad esprimere a più riprese lodi e gratitudine al governo di Tripoli e ad estendere poi questa “pratica”, sempre d’intesa con la Ue, alla Tunisia, con un accordo che sembra la fotocopia del memorandum Italia-Libia del 2017 e delle intese di collaborazione che ne sono seguite. Nessuno sembra ricordarsi più, invece, dell’accordo sottoscritto a fine novembre 2017 ad Abidjan, in Costa d’Avorio, nell’incontro tra l’Unione Europea, l’Unione Africana e la stessa Libia. Si decise, in quell’occasione, di organizzarsi per trasferire dalla Libia almeno 5 mila profughi/migranti al mese, sia attraverso rimpatri volontari e concordati sia attuando un vasto programma di relocation verso diversi Stati occidentali. I rimpatri procedono a rilento e spesso sono tutt’altro che volontari: molti migranti accettano di “tornare a casa” solo per sottrarsi all’inferno dei lager libici. Quanto alla relocation, il progetto si è presto bloccato perché quasi tutti i governi che avevano aderito si sono rapidamente tirati indietro, facendo naufragare, tra l’altro, la funzione del centro di accoglienza e transito aperto a Tripoli dall’Unhcr proprio per organizzare i trasferimenti dalla Libia. L’unico effetto positivo è stata l’accelerazione delle registrazioni Unhcr dei richiedenti asilo che, arrivate a diverse decine di migliaia, hanno quanto meno evidenziato le dimensioni del problema, oltre a fornire un documento di tutela. Quel documento che ora, secondo le denunce di numerosi rifugiati, assai spesso la polizia e le milizie libiche nemmeno riconoscono più. Nel silenzio assordante di Roma e Bruxelles. Iran. La premio Nobel Narges Mohammadi picchiata durante una protesta pacifica in carcere di Greta Privitera Corriere della Sera, 13 agosto 2024 Nessuna di loro ha potuto andare in ospedale. Mohammadi “ha avuto un dolore toracico acuto e un attacco respiratorio”. Il 6 agosto, quando vengono a sapere che Reza Rasaei è stato impiccato nel carcere di Dizel Abad, nella provincia di Kermanshah, le donne del braccio femminile della prigione di Evin a Teheran si danno appuntamento nel cortile e gridano slogan contro la Repubblica islamica, e fanno rumore. Rasaei, 34 anni, era curdo, faceva parte del movimento Donna, Vita, Libertà. A guidare la protesta pacifica c’è anche l’attivista e premio Nobel iraniana Narges Mohammadi che non ha mai smesso di opporsi alla dittatura, nemmeno da dietro le sbarre, continuando a essere una voce fondamentale della rivoluzione. Poco dopo l’inizio della protesta, le guardie fanno irruzione nel cortile. In un attacco senza precedenti, insultano e picchiano senza pietà. Alcune prigioniere svengono, altre riportano gravi ferite. Tra le donne prese a calci e pugni c’è anche Mohammadi, che, secondo l’associazione Free Narges Coalition “poi ha avuto un dolore toracico acuto e un attacco respiratorio”. A nessuna è concesso di andare in ospedale. Mohammadi soffre di problemi cardiaci e questa notizia allarma la famiglia che non riesce a mettersi in contatto con lei. Ma le informazioni riescono a uscire grazie anche alle compagne meno sorvegliate che raccontano cosa succede. Sempre la Free Narges Coalition: “Il 10 agosto Mohammadi ha fatto una richiesta scritta alle autorità carcerarie chiedendo di incontrare i suoi avvocati e chiedendo la presenza di un rappresentante dell’Organizzazione di medicina legale per documentare le contusioni e le ferite sulla parte destra del torace e sul braccio sinistro”. Mentre i giornali aspettano di vedere se l’Iran si vendicherà contro Israele per l’uccisone del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, nelle strade e nelle carceri del Paese nulla è cambiato. Il 7 agosto, 29 persone sono state impiccate. Ventisei di queste, in un’esecuzione collettiva nel carcere di Gesel Hasar a Karaj. “Oltre per l’ingiusta fine di Rasaei, le rivoluzionarie di Evin protestavano per chiedere l’annullamento delle condanne a morte della compagna di prigionia Pakhshan Azizi - una giornalista iraniana di origine curda - e di altre tre: la sindacalista Sharifeh Mohammadi e le attiviste Varisheh Moradi e Nassim Gholami Simiari”, spiegano dalla Free Narges Coalition. Stupisce sempre assistere al coraggio di queste donne che alla violenza del regime contrappongono segnali di pace e libertà, così potenti da risuonare fino a qui.