Sovraffollamento nelle carceri e custodia cautelare, i temi da cui ripartirà la politica a settembre di Davide Varì Il Dubbio, 12 agosto 2024 Le proposte della Lega, le posizioni del Governo e delle opposizioni, e il ruolo delle misure cautelari nel sistema penitenziario italiano. Il futuro politico-giudiziario di Meloni e soci passa anche da qui. Il dibattito sulla giustizia in Italia ha riacceso l’attenzione sulla custodia cautelare e sul sovraffollamento carcerario, questioni di cruciale importanza per il futuro del sistema penale. A luglio, mentre il Parlamento approvava il decreto “Carceri sicure”, il Governo italiano si riuniva per discutere soluzioni a breve e medio termine per affrontare l’emergenza nelle carceri. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha sottolineato la necessità di interventi rapidi, dichiarando: “Ho prospettato alla presidente Meloni soluzioni per il sovraffollamento carcerario. Su questo tema chiederò un incontro al Presidente della Repubblica”. Questo intervento evidenzia l’urgenza di riforme che possano alleggerire la pressione sul sistema penitenziario italiano. Proposte di riforma della custodia cautelare - Forza Italia, in linea con il ministro Nordio, propone di rivedere i criteri per la carcerazione preventiva, eliminando il pericolo di reiterazione del reato come motivo per il ricorso alla detenzione preventiva. Questa proposta trova il consenso anche nella Lega, sebbene con diverse sfumature all’interno del partito. Al contrario, Fratelli d’Italia assume un approccio più cauto, come espresso dal ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani: “Prima di procedere, se ne parlerà con il ministro e all’interno della maggioranza. Non ci sono testi scritti, ma valuteremo con prudenza”. Sul fronte delle opposizioni, emergono aperture interessanti. Azione e Italia Viva si mostrano disposti a collaborare. Matteo Renzi ha proposto una limitazione della custodia cautelare per reati di lieve entità, mentre Roberto Giachetti di Italia Viva ha avanzato una proposta di legge per ampliare la “liberazione anticipata” da 45 a 60 giorni ogni sei mesi, e in alcuni casi fino a 75 giorni. Questa proposta, discussa alla Camera a luglio, verrà ripresa dopo la pausa estiva. Il dibattito sullo “scudo penale” per i presidenti di Regione - Nel contesto della giustizia, la Lega ha lanciato la proposta di uno scudo penale per i presidenti di Regione, che differirebbe le indagini a loro carico fino al termine del mandato. Questo tema si intreccia con la vicenda del governatore della Liguria, Giovanni Toti, e vede Forza Italia possibilista, mentre Fratelli d’Italia ha già mostrato segni di resistenza. Le forze di opposizione, soprattutto del centrosinistra, si sono mostrate critiche, e anche Renzi ha espresso contrarietà a questa proposta. Le prospettive future: separazione delle carriere e riforma costituzionale - Oltre alla custodia cautelare, un’altra questione di rilievo riguarda la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante. Questa riforma, parte integrante del disegno di legge costituzionale, entrerà nel vivo del dibattito parlamentare a settembre, ma i tempi per la sua attuazione potrebbero essere lunghi. L’obiettivo del governo è procedere con cautela, garantendo che la riforma si sviluppi parallelamente all’introduzione del premierato. La giustizia resta un tema caldo dell’agenda politica italiana. Le diverse proposte di riforma, dalla custodia cautelare alla separazione delle carriere, riflettono la complessità e l’urgenza di trovare un equilibrio tra efficienza, garanzie costituzionali e tutela dei diritti dei cittadini. Il governo e il Parlamento dovranno lavorare in sinergia per affrontare le sfide che si profilano all’orizzonte, cercando soluzioni che possano coniugare la sicurezza con il rispetto dei diritti fondamentali. Meloni non vuole che Nordio salga al Colle. “Il testo sulle carceri prima passi in Cdm” di Mario Lombardo La Stampa, 12 agosto 2024 L’asse della premier con Mattarella che a sua volta chiede di non essere strumentalizzato dal ministro della Giustizia sulla custodia cautelare. Questa volta Giorgia Meloni non può certo accusare, come ha fatto altre volte, i giornalisti o i partiti di opposizione di tirare per la giacchetta il Capo dello Stato, visto che è stato un suo ministro a evocarne la partecipazione diretta a una scelta che atterrebbe al Parlamento o al governo. È stato scritto che, secondo fonti del Quirinale, Sergio Mattarella ha valutato come irrituale la richiesta di un “incontro urgente” avanzata pubblicamente, e senza preavviso, dal Guardasigilli Carlo Nordio. Il presidente della Repubblica è rimasto sorpreso sui tempi, sui modi, sul senso di questa richiesta. Lo stupore e la perplessità del Colle non sono tanto sui contenuti, perché in realtà la fretta di Nordio, e la sua volontà di voler dare una risposta alla piaga turpe del sovraffollamento carcerario, rispondono a un appello che Mattarella ha reiterato diverse volte, e ancora più di recente quando il numero dei suicidi tra i detenuti è diventata cronaca grondante vergogna. Per il presidente della Repubblica c’è però una forma da rispettare, che è sostanza costituzionale: le procedure legislative prevedono la presentazione di un testo di legge in Parlamento o licenziato dal Consiglio dei ministri. Solo su quello, poi, a determinate condizioni, ci potrà essere un confronto al Quirinale. Non prima. Perché farlo prima significherebbe esporsi a una strumentalizzazione politica. In qualche modo si finirebbe con il considerare la paternità del testo condivisa con il Capo dello Stato. Una stortura che seguirebbe a una sgrammaticatura. E a nulla valgono le ragioni a posteriori esposte dal ministro della Giustizia, che ha precisato di voler incontrare Mattarella in quanto è anche presidente del Consiglio superiore della magistratura. Quello che si è raccontato meno in queste ore è che anche Meloni vorrebbe vedere evaporare nella calura agostana la richiesta di Nordio. Tanto più che la premier non condivide il piano del ministro della Giustizia e ha già scatenato il suo fedelissimo sottosegretario Andrea Del - mastro con l’ordine di controproporre altre soluzioni per sanare lo stato delle carceri. Nordio vuole rivedere il regime della custodia cautelare, restringerne l’applicazione, e contemporaneamente aumentare il numero dei magistrati di sorveglianza (da qui l’idea di incontrare Mattarella). Fratelli d’Italia, il partito della premier, vorrebbe puntare invece - ma ancora molto genericamente - sull’edilizia carceraria. Più detenuti, più carceri: la formula della semplicità secondo la destra. E infatti ieri Delmastro si è affrettato a ribadire che su questo “abbiamo confermato tutti gli impegni”. Il timore di Meloni riguarda anche le possibili convergenze tra un pezzo della maggioranza - Forza Italia - e parte dell’opposizione su una linea che sia più robusta e più interventista contro il degrado delle carceri, da ottenere attraverso un ammorbidimento della carcerazione preventiva. I berlusconiani vogliono rivedere il concetto di reiterazione del reato (uno dei tre motivi che fanno scattare la custodia cautelare), e hanno chiaramente fatto capire che su questa battaglia si concentreranno gli sforzi dei prossimi mesi. Un motivo in più per frenare l’iperattivismo di Nordio, secondo la presidente del Consiglio, come già aveva fatto qualche mese fa, quando, per evitare uno scontro frontale con la magistratura, lo ha sostanzialmente commissariato, sfilandogli la regia sulla riforma della separazione delle carriere, e del Csm. Nordio vive da sempre un paradosso: per cultura giuridica e orientamento è più vicino alle posizioni garantiste di FI e dei centristi di Italia Viva e Azione. Ma è stato eletto, seppure da indipendente, nelle liste di FdI e ogni volta che azzarda una proposta si ritrova ridimensionato da Meloni. Al ministro viene poi imputata da parte dei fedelissimi della leader una mancanza di astuzia politica e un tempismo un po’ traballante sulla comunicazione: troppe battute sul suo amato spritz, dicono, e dichiarazioni poco prudenti, soprattutto poco allineate. Meloni ha fatto trapelare che manterrà un confine sulla custodia cautelare che non potrà essere oltrepassato. “Non sarà tollerato niente che assomigli a un indulto” è il messaggio affidato alla sua comunicazione. Nulla che favorisca chi è sospettato di reati di spaccio o di corruzione. Anche perché su quest’ultimo si accenderebbero immediatamente i riflettori dell’Unione europea, a maggior ragione dopo l’abolizione dell’abuso d’ufficio, decisione che ha già destato preoccupazione a Bruxelles. Meloni e Mattarella si trovano così a dover gestire, assieme, la grana Nordio. Sulla giustizia i partiti litigano, ma gli uffici del Quirinale e di Palazzo Chigi sono costantemente in contatto, spesso sotto lo sguardo cauto del sottosegretario alla presidenza del Consiglio e giurista Alfredo Mantovano. Andrà trovata una sintesi, tra gli annunci del ministro e i tanti testi già presentati in Parlamento. Una strada che Meloni si trova quasi obbligata a imboccare, per poter scongiurare una spaccatura nella maggioranza, prima che diventi insanabile. Palombarini: “È l’ora di amnistia e indulto. La riforma Nordio è inaccettabile” di Alfredo Roma Il Domani, 12 agosto 2024 L’ex membro del Csm: “Ho paura che quest’anno l’Italia stabilisca il record per i suicidi in carcere. Penso che serva un provvedimento urgente. Il progetto del governo mira a riportare indietro la magistratura: sarà una corporazione senza più una legittima diversità”. Il 10 luglio 2024 la Camera ha approvato in via definitiva il cosiddetto ddl Nordio, il disegno di legge proposto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio che prevede diverse modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Inoltre, a completamento della riforma della giustizia, nella seduta del 29 maggio scorso, il governo ha annunciato il varo di un disegno di legge costituzionale, contenente norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare, in cui, tra le novità più salienti, vi è l’introduzione della separazione delle carriere tra magistratura requirente e magistratura giudicante. A questo si è aggiunto ora un altro problema. Dopo l’approvazione nei giorni scorsi del decreto carceri, che rafforza la sicurezza degli istituti penitenziari, ma non interviene sulla sofferenza dei detenuti dovuta al sovraffollamento, il ministro Nordio ha avuto su questo tema un incontro con la presidente Meloni esprimendo l’intenzione di volerne parlare al capo dello stato. Su questa complessa situazione di norme abbiamo chiesto un parere a Giovanni Palombarini magistrato e saggista italiano. Da giudice istruttore si è occupato di processi sull’eversione politica degli anni settanta come il famoso processo 7 aprile. Negli anni ottanta è stato ai vertici di Magistratura Democratica e successivamente componente del Consiglio superiore della magistratura e procuratore generale aggiunto della Corte di Cassazione. Dottor Palombarini, partiamo dall’attualità di questo decreto carceri e dalle mosse del ministro Nordio. A suo parere quali misure si potrebbero adottare? Intanto ritengo giusto che il ministro Nordio ne parli col presidente Mattarella. Nello stesso tempo penso che questo governo non riuscirà ad adottare misure davvero efficaci. Ho paura che quest’anno l’Italia farà un record per i suicidi in carcere, arrivati fino a oggi a 73. Si fanno tanti discorsi, che non arrivano mai a qualche conclusione ragionevole. Che fare? Penso che si dovrebbe partire da un provvedimento urgente di amnistia e indulto. I governi della Prima repubblica non avevano dubbi: quando la situazione diventava intollerabile, anche per la difficoltà di predisporre istituti di detenzione idonei ad accogliere il numero crescente di prigionieri, facevano ricorso a un provvedimento di clemenza che almeno per qualche tempo riportava il rapporto detenuti/posti disponibili a una misura accettabile. In dottrina alcuni coraggiosi continuano a parlare di diritto penale minimo, ma non sono molto ascoltati. Cosa vuole, dopo tante belle parole il primo atto significativo dell’attuale governo è stato l’introduzione di un nuovo reato, di cui non si sentiva il bisogno, quello del rave-party, punito fino a sei anni di reclusione, con annessa possibilità di sequestrare veicoli e strumenti musicali e di ricorrere per le indagini a intercettazioni telefoniche. Già, le tanto criticate intercettazioni. Sono stati però aboliti il reato di abuso d’ufficio e il traffico di influenze, un reato, questo, introdotto nel 2012. Intanto, senza grandi problemi si potrebbe ridurre lo spazio della custodia cautelare, con riduzione del carcere e ampliamento degli arresti domiciliari. Ma su questo solo Forza Italia pare favorevole. La Lega e FdI no. Considerando la sua lunga esperienza come magistrato e come studioso del diritto, cosa ne pensa di alcune modifiche stabilite da tale decreto, ma soprattutto sulla futura possibile revisione della Costituzione che prevede la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante? È necessario guardare bene quali sono gli obiettivi di tale riforma. Se separazione delle carriere volesse dire che a fronte della situazione esistente si intende introdurre una regola per la quale i vincitori dell’unico concorso d’ingresso in magistratura, alla fine dell’iniziale tirocinio dovessero scegliere in via definitiva se operare nella giudicante o nella requirente per il resto della loro attività professionale, ci sarebbe da discutere: ma la soluzione sarebbe accettabile. La costituzione non verrebbe toccata, cosa che mi parrebbe importante. L’attuale unico Csm rimarrebbe fermo, quanto a composizione, modi di formazione e competenze; il suo ruolo di governo e di garanzia continuerebbe a riguardare giudici e pubblici ministeri. D’altro lato è quanto in sostanza già succede: se si vanno a vedere le statistiche si scopre che, ogni anno, non sono più di 15/20 i magistrati che si spostano da un settore professionale all’altro. Dunque, al di là dei titoli cosa vuol dire, per chi oggi governa, separazione delle carriere? È comunque l’intero progetto governativo di riforma della Costituzione che non mi pare accettabile. Attraverso un insieme coordinato di misure si mira a riportare indietro la magistratura, a farne una corporazione nella quale non sono legittime diverse interpretazioni dell’attività professionale. Ci si muove secondo criteri e obiettivi del tutto diversi dalla crescita della giurisdizione. In ossequio alla separazione delle carriere si vogliono due distinti concorsi, e poi due Csm, con composizione “togata” attenuata, uno per i giudici, uno per i pubblici ministeri, entrambi presieduti dal presidente della repubblica, con esclusione di ogni possibilità di passaggio da una funzione all’altra. Se poi nel CSM dei pubblici ministeri si arrivasse a stabilire una composizione maggioritaria della politica rispetto a quella dei magistrati, sarebbero certamente possibili le interferenze dell’esecutivo. C’è un altro punto che merita una particolare attenzione, quello del sorteggio per la provvista dei membri togati dei due Csm e dell’alta corte disciplinare. Si può facilmente comprendere che con questa mossa si mira a cancellare il percorso ideale e culturale compiuto dalla magistratura negli ultimi decenni. Un appartenente al corpo giudiziario, indifferente alle diverse interpretazioni dei ruoli professionali, scelto a caso (uno vale l’altro), dovrebbe rappresentare una corporazione indifferenziata di funzionari interessati soltanto alla propria carriera. Che poi la carriera dei pubblici ministeri separati, e le loro scelte, possano finire in un simile disegno per essere condizionate dall’esecutivo mi sembra una conseguenza evidente. A suo parere è accettabile la limitazione del potere d’appello del pubblico ministero nel caso di proscioglimento in primo grado per ridurre il lavoro delle corti e per non gravare economicamente sul soggetto assolto? Per parte mia, ho sempre criticato a suo tempo le leggi ad personam, approvate cioè per l’interesse personale di Silvio Berlusconi e dei suoi governanti, tranne una, quella che escludeva la possibilità del pubblico ministero di interporre appello contro le sentenze di assoluzione. Questo non per ridurre i carichi di lavoro delle corti, o per non aggravare le spese processuali dell’imputato, ma per una ragione di carattere sostanziale. Pensavo, e penso, che se un imputato viene portato davanti al giudice competente a decidere, per materia e per territorio, del suo reato, e la vicenda processuale, correttamente gestita, si chiuda con una sentenza di assoluzione, non possa esserci spazio, nel merito, per giudizi diversi o per ripensamenti. A questo punto l’imputato non è più solo presunto innocente ma è da considerare innocente. Si badi. C’è ancora un possibile intervento della Corte di cassazione, nei casi previsti dall’articolo 524 del codice di procedura: solo qui, cioè nel caso si siano violate nel processo le leggi, può essere rimessa in discussione l’innocenza dell’assolto. Un’ultima considerazione: ripensare il diritto penale è un’opera di grande respiro e di grande capacità riformista. Non vedo attualmente il soggetto politico capace di farsene interprete. La promessa estiva del Governo: riformare il carcere preventivo huffingtonpost.it, 12 agosto 2024 Però al momento, di testi scritti “non ce ne sono”. “Valuteremo bene, con prudenza, senza particolare urgenza”, dichiara il ministro Ciriani. Maggioranza e governo si ricompattano sulla riforma della custodia cautelare in carcere. Dopo qualche ‘strappo’ registrato sulla questione carceri e sull’efficacia del decreto messo in campo dall’Esecutivo, da Largo Arenula si fa sapere che il prossimo provvedimento della giustizia riguarderà la modifica della disciplina per il carcere preventivo. Lo aveva detto il Guardasigilli, Carlo Nordio, durante il vertice di maggioranza a Palazzo Chigi mentre il Parlamento votava il decreto sull’ emergenza carceraria. E lo conferma ora anche il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, che, in un’intervista a ‘Il Corriere della Sera’, parla di “un’ipotesi” allo studio, di “una sensibilità innescata dalla vicenda Toti”, pur assicurando però che, al momento, di testi scritti “non ce ne sono”. “Valuteremo bene, con prudenza, senza particolare urgenza”, dichiara. Anche se nel centrodestra si assicura che i vari uffici legislativi siano “già al lavoro”. Perché, oltre al fatto che una riforma ci sarà, l’altra cosa certa è che sarà un progetto di legge del governo e non di iniziativa parlamentare. In realtà, tra Camera e Senato, di provvedimenti sul tema ce ne sono circa 11. Uno appena presentato da Tommaso Calderone (FI) alla Camera; 2 da Davide Bellomo (Lega); uno da Pietro Pittalis (FI); uno di Roberto Scarpinato (M5S) al Senato; uno di Roberto Magi (+Eu); uno da Edmondo Cirielli (FDI) a inizio legislatura; ben 3 da Enrico Costa (Azione). In quasi tutti, si spiega che tra i motivi per cui si rende “necessario intervenire”, c’è il “sovraffollamento”, visto che “oltre il 20% dei detenuti è in regime di carcerazione preventiva” anche per colpa di “abusi” nell’applicazione della norma. “È da tempo che noi di FI diciamo che si deve intervenire - spiega Calderone - perché il concetto di ‘rischio di reiterazione del reato’, uno di quelli per il quale si dispone la custodia cautelare, è troppo vago. La norma va intesa in modo molto più stringente”. E non sarebbe stato il caso di Giovanni Toti ad accelerare la riforma, spiega perché “in Italia ci sono migliaia di Toti in questo momento”. Così, la sua pdl prevede che dopo 60 giorni dall’applicazione della misura cautelare, tranne che quando si sia in presenza di reati gravi come mafia e terrorismo, il giudice debba rivalutare il rischio di reiterazione. E se non si ritengono sopravvenute “ulteriori esigenze cautelari”, l’indagato debba tornare in libertà. Anche nella pdl Cirielli si cerca di ridurre al massimo la valutazione del giudice osservando, tra l’altro, che non basta il “generico e opinabile” “pericolo di fuga dell’imputato”. Il tentativo di fuga deve essere concreto perché scatti il carcere preventivo. Che invece si prevede nel caso di “flagranza” per delitti per i quali è prevista la reclusione fino a 4 anni. Norma diversa da quella di Costa anche nel suo odg al decreto carceri, ma che “può benissimo essere esaminata con la nostra”, spiega Calderone, anche lui firmatario di un odg analogo approvato allo stesso decreto. Costa infatti prevede che per un incensurato che non si sia macchiato di colpe gravissime, non si possa prevedere il ‘rischio di reiterazione del reato’. La posizione è molto simile anche a quella della Lega che, sulla necessità di rivedere l’articolo 274 del codice di procedura penale, cioè quello sulle misure cautelari - come ricordato anche dalla responsabile Giustizia del partito e presidente della Commissione Giustizia, Giulia Bongiorno - aveva presentato un referendum nel 2022 che aveva visto Nordio presidente del Comitato promotore. Dal ministero, comunque, si spiega, arriverà, non solo un progetto di legge per riformare la norma, ma anche “un piano per contrastare l’elevato numero di suicidi” tra i detenuti e gli agenti. A fornire un pò di dati sul fatto che i “magistrati che sbagliano” non “pagano quasi mai” è sempre Costa che riporta i dati del ministero secondo i quali “le sanzioni disciplinari” vengono comminate ai giudici per “abusi della custodia cautelare” nello “0,2% degli errori. Cioè quasi mai”. E sempre contro il sovraffollamento, il sottosegretario Andrea Delmastro assicura che “sono confermati tutti gli impegni” presi “per l’edilizia penitenziaria”. Custodia cautelare, il governo stringe sulla riforma Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2024 Maggioranza e governo si ricompattano sulla riforma della custodia cautelare in carcere. Dopo qualche “strappo” registrato sulla questione carceri e sull’efficacia del decreto messo in campo dall’Esecutivo, da Largo Arenula si fa sapere che il prossimo provvedimento della giustizia riguarderà la modifica della disciplina per il carcere preventivo. Lo aveva detto il Guardasigilli, Carlo Nordio, durante il vertice di maggioranza a Palazzo Chigi mentre il Parlamento votava il decreto sull’ emergenza carceraria. E lo conferma ora anche il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, che, in un’intervista a Il Corriere della Sera, parla di “un’ipotesi” allo studio, di “una sensibilità innescata dalla vicenda Toti”, pur assicurando però che, al momento, di testi scritti “non ce ne sono”. “Valuteremo bene, con prudenza, senza particolare urgenza”, dichiara. Anche se nel centrodestra si assicura che i vari uffici legislativi siano “già al lavoro”. I provvedimenti in Parlamento - Perché, oltre al fatto che una riforma ci sarà, l’altra cosa certa è che sarà un progetto di legge del governo e non di iniziativa parlamentare. In realtà, tra Camera e Senato, di provvedimenti sul tema ce ne sono circa una decina. Uno appena presentato da Tommaso Calderone (FI) alla Camera; 2 da Davide Bellomo (Lega); uno da Pietro Pittalis (FI); uno di Roberto Scarpinato (M5S) al Senato; uno di Roberto Magi (+Eu); uno da Edmondo Cirielli (FDI) a inizio legislatura; ben 3 da Enrico Costa (Azione). In quasi tutti, si spiega che tra i motivi per cui si rende “necessario intervenire”, c’è il “sovraffollamento”, visto che “oltre il 20% dei detenuti è in regime di carcerazione preventiva” anche per colpa di “abusi” nell’applicazione della norma. “È da tempo che noi di FI diciamo che si deve intervenire - spiega Calderone - perché il concetto di rischio di reiterazione del reato, uno di quelli per il quale si dispone la custodia cautelare, è troppo vago. La norma va intesa in modo molto più stringente”. E non sarebbe stato il caso di Giovanni Toti ad accelerare la riforma, spiega perché “in Italia ci sono migliaia di Toti in questo momento”. La posizione della Lega - La posizione è molto simile anche a quella della Lega che, sulla necessità di rivedere l’articolo 274 del codice di procedura penale, cioè quello sulle misure cautelari - come ricordato anche dalla responsabile Giustizia del partito e presidente della Commissione Giustizia, Giulia Bongiorno - aveva presentato un referendum nel 2022 che aveva visto Nordio presidente del Comitato promotore. Dal ministero, comunque, si spiega, arriverà, non solo un progetto di legge per riformare la norma, ma anche un piano per contrastare l’elevato numero di suicidi tra i detenuti e gli agenti. A fornire un po’ di dati sul fatto che i “magistrati che sbagliano” non “pagano quasi mai” è sempre Costa che riporta i dati del ministero secondo i quali “le sanzioni disciplinari” vengono comminate ai giudici per “abusi della custodia cautelare” nello “0,2% degli errori. Cioè quasi mai”. Carcere e bambini, il destino di Adra di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi La Repubblica, 12 agosto 2024 Il 9 maggio 2023 una pattuglia di frontiera statunitense ha fermato una famiglia di cinque persone migranti vicino a Brownsville, in Texas. Durante il trattenimento, la figlia di otto anni ha iniziato a mostrare sintomi di affaticamento cardiaco. Adra aveva dolori addominali e febbre alta ed è stata sottoposta a una visita di controllo all’interno della stazione di polizia di frontiera, ad Harlingen. Lì, messa in isolamento, peggiorerà velocemente, nonostante le continue richieste da parte della madre di portarla in ospedale. L’ambulanza arriverà quando era ormai troppo tardi, la bambina sarebbe morta poco dopo. Quest’episodio, documentato e raccontato da media anche al di qua dell’Oceano, ha innescato negli Stati Uniti una serie di riflessioni sul diritto alla salute dei minori trattenuti o detenuti nelle carceri statunitensi. Era, infatti, una morte evitabile quella di Adra, così come lo sono tante patologie che a contatto con il carcere degenerano quando già esistenti o nascono e deflagrano a contatto con l’ambiente penitenziario. L’assistenza sanitaria per gli adolescenti trattenuti negli istituti penitenziari è un tema largamente sottaciuto che - ha denunciato nel suo ultimo rapporto l’American Pediatric Society - desta preoccupazione se si prendono in considerazione i numeri, sempre crescenti, della detenzione minorile: ogni anno negli Stati Uniti sono circa 128.000 i giovani arrestati, numero che si somma ai minori stranieri non accompagnati fermati alla frontiera meridionale. Tra il 2022 e il 2023, infatti, si sono raggiunti numeri senza precedenti con 131.519 minori soli che tentavano di varcare il confine. Il documento redatto dai pediatri statunitensi è un prezioso strumento di analisi che, al di là della specificità americana, mira a denunciare come la foga carceraria finisca per ignorare la portata patogena di queste istituzioni totali, specialmente se minorili. “I giovani detenuti affrontano sfide gigantesche per veder assicurato il loro diritto alla salute: l’esiguità delle risorse, la frammentazione del sistema sanitario intramurario, la mancanza di coordinamento tra operatori sanitari esterni e interni al carcere e la totale inadeguatezza delle sezioni sanitarie all’interno delle strutture detentive - scrivono i pediatri - finiscono per acutizzare irrimediabilmente la cronicità delle malattie presenti tra i minori detenuti”. Tanto da far dire alla Corte Suprema degli Stati Uniti che “la deliberata indifferenza nei confronti delle gravi esigenze mediche dei detenuti viola la Costituzione” poiché contraddice l’art. 13 in cui viene decretata l’inviolabilità della persona. Diabete, ipertensione, disturbi dell’alimentazione, insonnia, fino ad arrivare a patologie psichiatriche gravi sono solo alcune delle condizioni presenti in larga scala fra i giovani detenuti nelle carceri minorili statunitensi. E il quadro peggiora se si analizza il dato di quei minori costretti a scontare la pena all’interno di istituti per adulti. In un recente studio di Semenza, Silver e Jackson Youth Incarceration in Adult Facilities and Mental Health in Early Adulthood, si fa riferimento al fatto che in molti stati americani è legale far scontare la pena a minori di 12 anni all’interno di strutture per adulti. “I minori detenuti in tali contesti hanno un rischio molto maggiore di morte precoce. Utilizzando dati rappresentativi a livello nazionale - scrivono Silver e i colleghi - è stato dimostrato che l’incarcerazione in un istituto correzionale per adulti prima dei 18 anni è associato a un aumento del 33% del rischio di mortalità dai 18 ai 37 anni”. In alcuni casi, inoltre, si denuncia come l’utilizzo della carcerazione preventiva all’interno di strutture penitenziarie per adulti sia avvenuta a seguito di accuse riguardanti reati non violenti, quindi in piena violazione della legge. “Utilizzando i dati rappresentativi a livello nazionale per 20 anni, abbiamo scoperto che i giovani di età inferiore ai 18 anni rinchiusi in prigioni per adulti subiscono danni significativi alla loro salute mentale nella prima età adulta. In futuro - concludono gli analisti - i politici di ogni Stato del Paese dovranno tenere conto del crescente numero di prove relative ai danni causati ai bambini/adolescenti da leggi antiquate che consentono loro di essere incarcerati insieme agli adulti”. Si dirà (lo dirà anche il ministro della giustizia Carlo Nordio?): ma si tratta di dati statunitensi. A ben pensare, la vera differenza è che, per quanto riguardo gli Usa le condizioni epidemiologiche vengono analizzate e approfondite, per quando riguarda l’Italia le ricerche sono parziali e approssimative. E, tuttavia, dopo che il sovraffollamento ha raggiunto livelli intollerabili anche negli Istituti penali per minori, cosa questo rappresenti per la salute attuale e lo sviluppo futuro di quei reclusi costituisce un dato cruciale e irrinunciabile. Per non parlare di quei bambini dai 0 ai 3 anni (oggi 24) detenuti con le proprie madri ed esposti a deprivazione sensoriale: alterazione nelle facoltà visive, uditive, olfattive. Emergenza carceri, serve un nuovo Umanesimo di Alberto Ceresoli L’Eco di Bergamo, 12 agosto 2024 Esiste un modo per affrontare il drammatico problema delle carceri italiane che non sia quello trito e ritrito della polemica politica messa in scena in questi giorni? Che non sia la solita contrapposizione ideologica fine a se stessa, incapace non solo di trovare soluzioni adeguate, ma persino di partire da una base di discussione oggettiva e intellettualmente onesta? La domanda è d’obbligo, perché la delicatezza e la complessità del tema impongono un approccio che metta al bando qualunquismi e improvvisazioni, come quelle a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane. Governo e opposizioni si sono scontrati per giorni su un documento che forse non meritava tanta attenzione, non foss’altro perché di fatto contiene solo norme di rimando, un mucchio di promesse insomma, di buone intenzioni, ma non interventi immediati, ciò che invece sarebbe necessario per fronteggiare la pesante situazione in cui versano gli istituti di pena. Del resto, se il decreto fosse vagamente esaustivo sul fronte, che senso avrebbe - a documento approvato - la richiesta del ministro Nordio di incontrare (a settembre…) il Capo dello Stato per discutere cosa fare per contenere il problema del sovraffollamento, causa principale del malessere che si respira in cella? E che senso avrebbero le interlocuzioni fatte con la premier e qualche altro ministro quando in Aula si stavano ancora votando i provvedimenti voluti dal Guardasigilli? È evidente che il tempo di scelte coraggiose e di risposte certe, chiesto alla politica mesi fa dal presidente della Cei cardinale Matteo Zuppi, anziché di quello fatto di opportunismi, di risposte precarie e sempre parziali, non è ancora arrivato. E chissà mai quando arriverà. Pur nell’ovvia necessità di discuterne all’interno delle istituzioni dello Stato, la condizione carceraria è un insieme così complesso, fragile, estremamente doloroso e lacerante che non può essere preso in esame con superficialità e ideologismi di partito, ma richiede una sorta di “macerazione” interiore del tema anche da parte di ciascuno di noi, che siamo al di qua delle sbarre solo per un fortuito caso della vita, solo perché altri ci hanno messo nelle condizioni di poter scegliere tra il bene e il male, mentre molti di coloro che sono “dentro”, nella loro vita non hanno mai avuto altra possibilità di scelta se non quella di seguire il male. “Fu antica miseria o un torto subito a fare del ragazzo un feroce bandito” canta De Gregori ne “Il bandito e il campione”, e spesso è davvero così. In carcere - non dimentichiamolo mai - non sono rinchiusi solo i detenuti, ma - con loro - ci sono le mogli e i mariti, i figli e i genitori, i parenti, gli amici, “ragazzi del borgo cresciuti troppo in fretta…”. Ma gli “ospiti” di un carcere non finiscono certo qui. Ci sono gli agenti penitenziari, che spesso portano l’angoscia del loro lavoro all’interno delle proprie famiglie, ci sono gli addetti ai servizi, c’è chi deve dirigere, coordinare, scegliere come gestire una vita-non vita come quella che si “vive” dentro quelle mura. E poi ci sono le tensioni morali di chi di quel mondo si deve occupare: legislatori, magistrati, avvocati, sacerdoti… Quasi venticinque anni fa ormai, alle porte del Giubileo del 2000 e proprio a Bergamo, l’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, s’interrogò con un’intima e sofferta riflessione sulla condizione carceraria, sulle contraddizioni e le sofferenze che la pena definitiva vorrebbe risolvere e però, di fatto, non risolve. “Quanto è umano ciò che stanno vivendo i carcerati? - si chiedeva dal palco del Centro congressi il 2 maggio del 2000 -. Quanto è efficace per una tutela adeguata della giustizia? Quanto serve alla riabilitazione e al recupero dei detenuti? Che cosa ci guadagna e ci perde una società da un sistema del genere? Risponde veramente al bisogno delle vittime e al bisogno della difesa dei cittadini?”. Ma dopo questi interrogativi “di carattere immediato”, il metropolita di Milano ne proponeva un altro, ancora più netto e profondo: “Quale visione globale di uomo e di società corrisponde al nostro sistema penale, e quale idea di giustizia esso rappresenta?”. Il nocciolo della questione sta tutto qui. Il crimine deturpa la personalità dell’individuo, ma non la nega né la distrugge, osserva Martini. Ed è proprio da qui che bisogna partire: giustizia e istituto di pena hanno ragione di esistere solo se affermano, sviluppano e recuperano la dignità di ogni persona, il tutto senza cadere in un inutile e dannoso “perdonismo”. Il carcere come emergenza, “per fermare chi calpesta i valori sacri della vita e delle persone e il senso della convivenza civile”, il carcere come luogo “di austera socializzazione”. Ogni società civile di questo mondo si serve del carcere per punire chi sbaglia, ma il carcere non può essere l’unica soluzione alla domanda di sicurezza di una comunità. Certamente è la più comoda, con il rischio - oggi purtroppo una realtà diffusa - che anziché essere un istituto di pena sia un istituto in cui si infliggono pene che si sommano alla condanna. Ma così non può essere, come la moltiplicazione delle carceri non può essere la soluzione per ridurre il sovraffollamento. Attualmente nelle carceri del nostro Paese ci sono 61.140 detenuti per 46.982 posti disponibili, con un livello di sovraffollamento nazionale che ha ormai superato il 130%. È umano tutto ciò? Sapendo che un surplus di presenze non consente di avere un rapporto normale nella comunità carceraria, non favorisce i percorsi di recupero e non consente ai servizi di funzionare al meglio? Degli oltre 28mila detenuti che stanno scontando pene definitive o pene residue fino a tre anni di reclusione, 23mila e rotti potrebbero accedere alle misure alternative, ma restano in cella perché mancano i fondi per pensare nuovi progetti e potenziare le comunità. E a restare in carcere, anziché uscire, sono spesso i più fragili, senza un lavoro o senza una casa. Così facendo, in molti istituti di pena (e non solo italiani) si uccide la speranza, ed è proprio in questo contesto che si inserisce la tragica piaga dei suicidi in cella, 62 dall’inizio dell’anno al 4 agosto scorso. Chi oltrepassa quei cancelli prende coscienza dell’annullamento della speranza o subito dopo l’arresto, quando si vede privato di ogni libertà nel tempo di un battito di ciglia, oppure sul finir della pena, quando realizza che una volta “uscito” la società non sarà in grado di accoglierlo e di ridargli una vita, la speranza, il futuro. Per il sistema carcerario italiano serve dunque un nuovo Umanesimo, l’Umanesimo della Misericordia, che ci aiuti ad immaginare che anche chi ha compiuto il delitto più grande sia comunque più “grande” del delitto commesso. È l’insegnamento di Papa Giovanni, che nell’enciclica “Pacem in Terris” distingueva tra errore ed errante. Nemmeno la giustizia basta a se stessa, perché anche la giustizia ha bisogno di compassione e di misericordia. Misericordia e compassione non sono un rimedio al male fatto, ma la condizione senza la quale nessuno vivrebbe un giorno di più. Un tempo il ministero che governa il sistema carcerario era definito “di grazia e giustizia”, oggi - invece - è “di giustizia” e basta. Ma senza grazia - che per chi crede è la Misericordia di Dio - cos’è la giustizia? Il rischio è che sia solo giustizialismo. Nordio, il ministro funambolo che è diventato simbolo del governo di Giulia Merlo Il Domani, 12 agosto 2024 Sempre eterodosso rispetto a Fratelli d’Italia, ha saputo cucire sponde con Forza Italia e centristi. Dato spesso per dimissionario, le sue riforme sono quelle che più hanno caratterizzato sin qui il governo. Del guardasigilli Carlo Nordio tutti concordano sulla carica umana. Altrettanti gli criticano un eccesso di quella che dentro il centrodestra chiamano “annuncite” di riforme, in molti casi nemmeno concordata. Ad ogni emergenza nel settore giustizia e ad ogni suo pasticcio comunicativo si alzano le sirene degli anonimi detrattori, che ormai più di una volta hanno spifferato la volontà della premier Giorgia Meloni - esausta e infastidita dall’incontrollabilità del ministro trevigiano - di sostituirlo alla prima occasione utile. Recentemente si è anche scritto di un suo mirabolante possibile passaggio a giudice costituzionale, che Meloni sarebbe disposta a fargli fare - cambiando le condizioni per accedere alla Consulta - pur di toglierselo di torno. La realtà, però, si è incaricata di smentire ogni ipotesi: Nordio, infatti, ha presentato con il placet della presidente del Consiglio la riforma costituzionale della separazione delle carriere e del Consiglio superiore della magistratura. Una sfida, questa, che prevede un ampio respiro temporale e non avrebbe potuto essere affidata nella stesura a un ministro pronto per essere defenestrato. Al netto dei retroscena e dell’attitudine del ministro a inanellare gaffes (l’ultima alla manifestazione di Fratelli d’Italia, dove è entrato dalla parte sbagliata e, confondendo una giornalista per una hostess, le ha chiesto uno spritz), la stella di Nordio brilla più che mai. Di più, per una peculiare eterogenesi dei fini il ministero di via Arenula è di fatto ormai quello che più caratterizza l’agire politico del governo Meloni. Sebbene l’unico disegno di legge portato a dama sia stato quello che abroga l’abuso d’ufficio e restringe la possibilità di pubblicare intercettazioni, in canna il ministro ha in serbo la riforma costituzionale della separazione delle carriere e di smembramento del Csm, una modifica “organica” sull’utilizzo delle intercettazioni, e nei giorni scorsi si è vagheggiato anche di una riscrittura dei requisiti per la custodia cautelare, già toccata dal ddl Nordio con l’introduzione di un collegio per decidere su quella in carcere, la cui entrata in vigore è stata posticipata di due anni per permettere nuove assunzioni. Altro cavallo di battaglia di Nordio è il carcere. Lui ne ha sempre parlato enfatizzando la sua visione garantista, proponendosi come libero pensatore rispetto alle posizioni molto più rigide del partito che lo ha eletto, Fratelli d’Italia. Poi però, alla prova del nove dell’ultimo decreto legge approvato prima della chiusura del parlamento, le sue arrembanti dichiarazioni si sono risolte in un guscio vuoto senza sostanza per incidere davvero sull’emergenza. Eppure, dopo un vertice di maggioranza dai toni molto tesi in cui soprattutto Forza Italia ha enfatizzato l’inadeguatezza del testo a causa dei no del partito di Meloni, Nordio ha scelto di rilanciare. Nuova dichiarazione, nuovo annuncio di riforma: questa volta quella della custodia cautelare. Con tanto di richiesta formale di incontro al Quirinale, accolta con legittimo stupore dal presidente Sergio Mattarella. Un incontro a un ministro non si nega di certo, ma è peculiare che proprio con il Colle - e non con gli alleati di governo - il guardasigilli voglia parlare di una riforma di cui manca anche una formulazione scritta. Eppure, a Nordio ogni stranezza viene apparentemente perdonata. Gli amici - Del resto, l’ex magistrato che ama parlare per citazioni - le sue preferite sono quelle di Winston Churchill - ed è molto più amato dagli avvocati che dai suoi precedenti colleghi, è stato capace di ritagliarsi uno spazio politico inatteso, tanto più visto il suo essere un neofita dell’arte di solcare i palazzi del potere. Entrato in Parlamento e poi al Governo come indipendente e voluto da Meloni per aumentare la carica istituzionale di Fratelli d’Italia, Nordio ha costruito invece una solidissima sponda con Forza Italia. Se inizialmente Silvio Berlusconi non ne diffidava (sperava di mandare a via Arenula l’amica ed ex presidente del Senato, Elisabetta Casellati), una serie di faccia a faccia lo hanno convinto a dargli il beneficio del dubbio. Progressivamente, in parlamento e anche al ministero, il guardasigilli ha lavorato per trovare sinergie fuori dai ranghi di Fratelli d’Italia: al ministero lo ha fatto - pur con alti e bassi - con il viceministro azzurro Francesco Paolo Sisto, in contrapposizione con i due sottosegretari Andrea Ostellari, leghista, e Andrea Delmastro, nel cerchio magico meloniano, che non hanno mai fatto mistero di non gradire troppo la parola “garantismo”. Non a caso, tra le file del governo si dice che il collega preferito da Nordio sia il ministro della Difesa, Guido Crosetto, anche lui corpo spesso estraneo all’ortodossia di Fratelli d’Italia. In aula, invece, un canale sempre aperto si è creato con Azione e Italia Viva, che non di rado hanno votato con la maggioranza in materia di giustizia (sia il ddl Nordio che con un parere di massima positivo alla separazione delle carriere). Anche nei suoi uffici ministeriali Nordio ha dimostrato di muoversi in autonomia rispetto a FdI, da ultimo con la promozione di Giusi Bartolozzi (già magistrata ed ex parlamentare azzurra per nulla amata al governo) a sua capa di Gabinetto. In questo caso, lo sgarbo sarebbe stato fatto addirittura al potentissimo sottosegretario alla presidenza del consiglio, Alfredo Mantovano, che in quel posto chiave dopo l’addio di Alberto Rizzo aveva caldeggiato una toga conservatrice e di esperienza. Niente da fare. I nemici - Se gli amici di Nordio sono trasversali, i suoi oppositori interni sono un blocco più o meno compatto. I meloniani di ferro lo hanno soprannominato “l’infiltrato” e non ne amano nè le tesi nè le modalità con cui le rende pubbliche. Pubblicamente e in aula il diktat di partito impedisce di attaccare un proprio ministro, ma in parlamento serpeggia la sensazione che ormai “Nordio sia il ministro delle riforme di Forza Italia e non certo delle nostre”, sintetizza un esponente di FdI. Eppure, pur non avendo fatto approvare quasi nulla delle molte riforme annunciate con ampio strascico polemico e qualche imbarazzo a destra, anche i suoi detrattori gli riconoscono una caratteristica: essere un perfetto cavallo di Troia per far saltare l’alleanza del campo largo, portando avanti riforme come quella delle intercettazioni e della separazione delle carriere. E pazienza se è quantomeno improbabile che queste siano la panacea per risolvere i guai della giustizia italiana. Governo, nodo custodia cautelare: maggioranza divisa sulla riforma di Gabriella Cerami La Repubblica, 12 agosto 2024 In agenda c’è la revisione del carcere preventivo. Forza Italia: si cambi il rischio di reiterazione del reato. Braccio di ferro sui trojan. Forza Italia accelera, Fratelli d’Italia è più cauta. L’obiettivo è comune, ma come raggiungerlo è ancora da dimostrare. Di certo, l’esecutivo ha fatto sapere che il prossimo provvedimento, in materia di giustizia, servirà a modificare la custodia cautelare in carcere, anche se un’idea condivisa ancora non c’è. Il ministro Carlo Nordio ne ha parlato durante il vertice di maggioranza a Palazzo Chigi quando il Parlamento stava votando il decreto sugli istituti penitenziari. I forzisti, insieme al Guardasigilli, sarebbero favorevoli anche ad eliminare il pericolo di reiterazione del reato dalle fattispecie per cui si può ricorrere alla carcerazione preventiva. Il capogruppo azzurro in commissione Giustizia alla Camera, Tommaso Calderone, ricorda infatti che “da tempo noi di FI diciamo che si deve intervenire perché il concetto di ‘rischio di reiterazione del reato’, uno di quelli per il quale si dispone la custodia cautelare, è troppo vago”. Così, la sua proposta di legge, una tra le undici depositate sul tema, prevede che dopo 60 giorni dall’applicazione della misura cautelare, tranne quando si sia in presenza di reati gravi come mafia e terrorismo, il giudice debba rivalutare il rischio di reiterazione. E se non ci sono “ulteriori esigenze cautelari”, l’indagato deve tornare in libertà. Questo testo è uno tra i tanti. Due sono stati depositati da Davide Bellomo della Lega, ben tre da Enrico Costa di Azione e gli altri da Pietro Pittalis di FI, da Edmondo Cirielli di FdI, da Roberto Scarpinato dei 5Stelle e da Riccardo Magi di +Europa. Il tema c’è ed è divisivo, per questo il governo proverà a fare una sintesi presentando un suo testo. Intanto è stato proprio il partito della premier Giorgia Meloni a far cancellare dall’ordine del giorno presentato da Costa la parte che riguarda la reiterazione del reato. Quindi la discussione è stata rimandata a settembre e Matteo Renzi è pronto a farne parte, a costo di allontanarsi dal Campo largo che vorrebbe costruire: “Parliamone”. Il leader di Italia viva ha respinto invece la proposta della Lega, pronta anche questa ad arrivare in Parlamento, di uno scudo penale per i presidenti di Regione. E Costa, sempre più in sintonia con Forza Italia sui temi della giustizia, ha annunciato che a settembre depositerà una proposta di legge per disciplinare l’uso del trojan, il sistema di captazione considerato da molti parlamentari “eccessivamente invasivo” rispetto a quello delle normali intercettazioni. Intercettazioni che restano comunque il pallino del ministro Nordio, su cui vuole tornare all’attacco. Ma anche su questo Meloni sembra essere più prudente. Delmastro: “Tutele agli incensurati ma non indebolire gli strumenti dei pm” di Liana Milella La Repubblica, 12 agosto 2024 Intervista al sottosegretario alla Giustizia: “Forza Italia vuole ampliare la liberazione anticipata? Noi vogliamo assicurare la certezza della pena e punire colletti bianchi”. Sottosegretario Andrea Delmastro è in crisi? “No, assolutamente, mi sento benissimo. Immagino si riferisca al caldo”. Certo, il caldo “politico” per stare al governo con Forza Italia… “Direi di no, perché abbiamo approvato l’importantissimo decreto carceri dove ci sono proposte storiche di FdI; approveremo il dl sicurezza con altrettante proposte nostre come i reati di rivolta nelle carceri, l’istigazione alla rivolta e le nuove regole su quelle che vengono chiamate borseggiatrici madri, a riprova della compattezza su un binomio inscindibile, sicurezza e giustizia”. Sui poveretti siete sempre d’accordo per la linea dura. Ma FI torna alle richieste berlusconiane per i colletti bianchi... “Quanto ai poveretti lo dica al figlio di Marco Biagi il cui brutale assassino è stato liberato per la liberazione anticipata che qualcuno vuole ancora più larga, mentre tre mesi all’anno sono più che sufficienti”. La misura chiesta da Giachetti, da cui lei è stato anche denunciato, prevede il via libera dei magistrati di sorveglianza… “Purtroppo statisticamente c’è stata una sorta di automatismo, tre mesi all’anno sono più che sufficienti”. Proprio FI voleva la soluzione Giachetti... “Con tutto il centrodestra stiamo ragionando su misure che umanizzino la pena, a partire da 255 milioni di euro già investiti per recuperare 7mila dei 10mila posti detentivi mancanti frutto dell’eredità della sinistra, e non sarà certo una denuncia a farmi cambiare idea…”. Delmastro, contano i fatti. Tajani con i Radicali passa l’agosto nelle galere e i figli di Berlusconi spingono per misure garantiste... “Sono contento che Tajani lo faccia. Io ci ho passato venti mesi visitando più di cento carceri su 191 e ho avvertito la fragilità della sicurezza e le difficoltà di uomini e donne in divisa, dei direttori e degli educatori che abbiamo assunto”. Nega che Forza Italia ha ingoiato a fatica il burocratico decreto carceri che Nordio non ha avuto la faccia di sostenere alla Camera? “Il potentissimo dl carceri è stato condiviso da tutti. E assicurare la certezza della pena non significa essere contro il garantismo in cui si riconosce anche FdI”. Fi va avanti sul presunto garantismo. Direte di sì all’ultima trovata di Calderone, meno custodia cautelare e limiti alle intercettazioni? “Oggi i detenuti in custodia cautelare sono 15mila su 60mila. Ciò ne dimostra un uso smodato. Il bilanciamento tra principi di non colpevolezza ed esigenze di sicurezza si può fare, ma non è nell’agenda del governo privare la magistratura di importanti strumenti per combattere il crimine”. Delmastro, ma legge le proposte di Nordio? Meno custodia cautelare, meno o niente intercettazioni, separazione delle carriere…cioè i pilastri del berlusconismo? “La sinistra deve cambiare i suoi occhiali. L’intervento del governo sulle intercettazioni si è limitato solo all’uso giornalistico delle stesse”. Bella roba... “Certo che sì, lei voleva continuare a fare titoloni con registrazioni di nessuna rilevanza penale a volte anche di persone non indagate. Abbiamo solo spezzato il cortocircuito mediatico tra procure e giornalismo”. Questo si chiama bavaglio all’informazione e lo voleva Berlusconi. Quindi i meloniani si stanno berlusconizzando... “Io invece so che lo vogliono gli italiani che hanno conferito un potere eccezionale alle procure cedendo parte della loro privacy per garantire le indagini e non i titoloni sui giornali”. Di che privacy parla? Quella di Toti? “Qui si rovescia il paradigma culturale. Una volta il centrodestra era accusato di fare leggi ad personam, oggi è la sinistra che interpreta ogni norma ad personam o ad nemicum”. È sicuro che gli elettori vi hanno votato per fare riforme berlusconiane? “Sono sicuro che non vogliono limitare le intercettazioni contro il crimine, ma sono disgustati da quelle di nessuna rilevanza che ledono l’onore delle persone e finiscono sui giornali”. Beh, lei sta sempre più assomigliando a Costa che annuncia per settembre l’attacco ai trojan... “Io non sono uno che fa annunci, quindi non somiglio, ma il governo non priverà la magistratura di uno strumento per accertare i crimini più gravi, semmai bisogna garantire la tracciabilità e la genuinità del risultato”. Quindi via i reati dei colletti bianchi? “No, per me quelli sono crimini gravi, anche perché rubano il futuro a generazioni non nate”. Non si sente a disagio a fare il sottosegretario di un ministro berlusconiano nell’animo viste le riforme che propone? “Sposo in pieno le sue riforme che enfatizzano il principio di non colpevolezza prima della fine del processo e irrobustiscono la certezza della pena dopo la sentenza, senza privare la magistratura di un solo strumento di indagine”. Non la imbarazza Nordio che contesta la misura cautelare su Toti e sfotte gli ex colleghi perché le loro richieste sarebbero incomprensibili? “E meno male che io volevo mettere il bavaglio alla stampa, mentre lei lo vuole mettere al libero pensiero di un ministro…”. Che quando faceva il pm a Venezia per il Mose ha fatto centinaia di intercettazioni… “E ha fatto bene. Come continueranno a fare i magistrati a patto che non finiscano sui giornali se non usate nel dibattimento. La destra di governo non priverà mai la magistratura di strumenti per accertare il crimine, semmai garantirà i diritti degli indagati e degli imputati”. Eccola qui la scusa buona per sottoscrivere le riforme ammazza processi di Forza Italia... “L’ultima riforma del genere di cui ho memoria è la rottamazione in Appello dei processi di cartabiana memoria, votata dal Pd e non certo da noi. Nonché le scarcerazioni di massa dei mafiosi di bonafediana memoria”. Ma che dice? L’improcedibilità in Appello escludeva i reati gravi e quanto a Bonafede quella fu una circolare del Dap in tempi di Covid che il ministro non aveva sottoscritto... “La norma di Cartabia riguardava anche i reati più gravi tant’è che Gratteri parlò di una ‘mannaia’. Quanto al Dap, organo che dipende da via Arenula, si limitò ad applicare un decreto dello stesso governo”. Ricordo bene i suoi interventi alla Camera e quelli di Meloni, durissimi con gli sconti di pena e sulle dimissioni dei politici inquisiti. Ora diventate accondiscendenti? “Assolutamente no, e sfido chiunque a trovare un solo provvedimento del governo che dica il contrario. Combatteremo sempre la corruzione come uno dei cancri peggiori della società”. Promessa è debito. Dovrà dirlo al suo collega Sisto che, da avvocato, non manca occasione per annunciare bavagli ai pm... “Il governo non metterà mai nessun bavaglio ai pm nella lotta contro il crimine. Ma questo non significa non esaltare i principi di non colpevolezza per indagati e imputati fino a sentenza definitiva”. Siamo sull’orlo dei 70 suicidi e voi smontate la custodia cautelare per gli amministratori corrotti? “Questa misura non è all’ordine del giorno. Ma rafforzare la non colpevolezza sugli incensurati è un principio di civiltà”. L’elenco di suicidi letto al Senato il primo agosto da Ilaria Cucchi di Avs parla chiaro. Là dentro non ci sono dei Toti, quindi intervenire sugli incensurati non serve... “In carcere ci sono tanti cittadini italiani, pubblici amministratori e non, in attesa di giudizio e presunti non colpevoli, sui quali è civile aprire una riflessione”. Viaggio nella Prima Repubblica, quando eravamo tutti garantisti di Pierluigi Battista Il Foglio, 12 agosto 2024 C’è stato un tempo in cui l’eresia garantista attecchiva non solo a sinistra, ma persino nella magistratura. Poi la “questione morale” e Mani pulite hanno spazzato via tutto. Fino al corteo a Genova contro l’avversario arrestato. Come minimo avremmo letto: “Un attacco di questa destra alla magistratura”, una squallida “delegittimazione dei giudici”, un attentato all’”indipendenza della magistratura”, un pericoloso difendersi “dai” processi e non “nel processo”. Ecco come pensiamo, con i parametri di oggi, che abbia reagito la sinistra italiana a questa prosa dal vago sapore eversivo in cui i magistrati nel 1972 venivano definiti, senza vergogna, senza pudore, quasi un omaggio alla politica corrotta e impunita, addirittura “mostri”: “Spesso ossuti e avvizziti, più spesso obesi e flaccidi, col viso marcato dalle nefandezze del loro mestiere, ogni anno ci appaiono vestiti da pagliacci, come non osano neppure gli alti prelati. Chi sono? Sono gli alti magistrati che inaugurano l’anno giudiziario, per dirci che bisogna mettere più gente in galera e tenercela, e quale gente e perché”. Un attacco smodato, greve e volgare. E infatti si continuava su questo tono che dire delegittimante è davvero poco: “Questi personaggi sono l’immagine stessa del privilegio e dell’arbitrio. Dispongono del più illecito dei poteri, quello sulla libertà altrui. Ma sono intoccabili, ancora in un tempo in cui non c’è gerarchia che in qualche modo non debba render conto di sé. Dispongono di armi micidiali, leggi inique e meccanismi incontrollabili. E le maneggiano come e contro chi vogliono”. Però no, decisamente no, non ci fu nessun allarme, nessuna protesta della sinistra giudiziaria, nessuna presa di posizione dell’Anm che adesso con i suoi comunicati tonitruanti fa sempre impaurire i tremebondi che osano timidamente sollevare qualche obiezione sul modo di fare della magistratura. E certo. Per forza. Con i parametri di oggi non si capirebbe perché. Quelle parole furono vergate infatti da uno dei più geniali polemisti della sinistra, una penna corrosiva e sarcastica come poche: insomma da Luigi Pintor sul manifesto che poi raccoglierà i suoi corsivi, insieme a quello sui “mostri”, in un libro illustrato da Tullio Pericoli. Condividendo, questo è il punto, una sensibilità molto diffusa a sinistra. Ma ben prima della “mutazione genetica” che dal ‘92 in poi la trascinerà nei gorghi del giustizialismo, fino alla recente sfilata genovese per maltrattare un uomo (ci mancavano solo le torce), un nemico politico tenuto inerme agli arresti domiciliari. Che salto, rispetto ai “mostri” pintoriani. Che ribaltone culturale, politico, persino esistenziale. Allora, tanto tempo fa, prima della mutazione genetica giustizialista, c’era Magistratura democratica, che ai suoi inizi e nei primi decenni di vita agiva in una versione persino un po’ vulnerabile agli influssi del garantismo: oggi quella sigla risulterebbe irriconoscibile, con uno stato maggiore della magistratura accarezzato e omaggiato dalla sinistra che si offende per ogni critica, fa la voce grossa contro ogni dissenso garantista. Certo, quelli di Md erano estremisti e oltranzisti antisistema. Erano scatenati contro uno dei princìpi dello stato di diritto e che loro consideravano piuttosto come la maschera della “giustizia di classe”: il “dogma dell’apoliticità” del giudice che invece doveva essere parziale e non imparziale, militante e persino emancipato dal rispetto formale dalla lettera della legge. Certo, lo hanno esplicitamente, letteralmente teorizzato: consideravano il principio civile del magistrato come “Bouche de la loi” nient’altro che un residuo “illuministico”, che sarebbe pure un’espressione onorevole ma che al tempo suonava come una brutta parola. Certo, alcuni di quel gruppo (Francesco Misiani, confessione di una “toga rossa” che è stata messa in scena con un libro scritto assieme a Carlo Bonini solo dopo che i suoi ex compagni lo avevano massacrato perché troppo “garantista” durante Mani pulite) vedevano la realizzazione di un principio antiborghese del diritto persino nei processi sommari delle Guardie rosse che imperversavano nella Cina maoista. Certo, scatenarono stuoli di “pretori d’assalto” per espugnare la fortezza del capitalismo sfruttatore e nemico del proletariato. Però. Però nelle teorizzazioni di un fine giurista come Luigi Ferrajoli c’era un’attenzione ai diritti individuali molto pronunciata, anche per gli standard dell’epoca. Quando scoppiò il “caso 7 aprile”, con la retata che avrebbe dovuto prosciugare lo stagno della simpatia complice nei confronti del terrorismo, molti di Magistratura democratica innescarono una polemica durissima con la corrente forcaiola del gruppo che di quel caso era invece diventata protagonista, se non addirittura motore primo. Fecero battaglia contro l’avvitamento poliziesco della “legge Reale”. Intervenivano frequentemente su Radio Radicale, che del minoritario garantismo italiano è sempre stato un santuario. Si familiarizzavano con il linguaggio delle garanzie che costruivano un argine contro lo strapotere dell’accusa. Desacralizzavano la maestà delle toghe e leggevano avidamente l’invettiva di Luigi Pintor contro i “mostri” intabarrati nei loro ermellini durante l’inaugurazione degli anni giudiziari. Addirittura denunciavano indignati - davvero un’altra era geologica - l’eccesso di magistrati passati alla politica istituzionale, con una polemica che non risparmiò nemmeno Oscar Luigi Scalfaro, allora considerato un retrogrado baciapile, non ancora santificato come il presidente della Repubblica che detestava Berlusconi. Insomma, il vestito era ancora multicolore, il retroterra multiforme, screziato, attraversato da tensioni, persino tentato dall’eresia del garantismo. Anche nel cinema, nella rappresentazione simbolica, si profilava un dualismo contraddittorio ma vitale. Un film di Nanni Loy, “Detenuto in attesa di giudizio” con un bravissimo Alberto Sordi interprete di un ruolo drammaticamente straziante, denunciava le mostruosità (ancora mostri, ancora Pintor) di una giustizia ridotta a macchina di tortura, le nefandezze della carcerazione preventiva, l’onnipotenza di uno stato che stritola senza pietà i suoi cittadini, il diritto alla difesa vanificato o addirittura scomparso, l’arroganza di magistrati che lasciano marcire in galera gli innocenti impotenti da non riuscire nemmeno a far sentire le loro ragioni, errori giudiziari reiterati, l’individuo alla mercé di un Leviatano arrogante e medievale, l’assenza disperante di qualsiasi “habeas corpus”. Questa è la parte garantista, anche con qualche venatura libertaria. Poi c’era un film diretto alla grande dal geniale Dino Risi, “In nome del popolo italiano”, con il magistrato Ugo Tognazzi che voleva punire, più che un banale reato, l’antropologia disgustosa di un individuo che appariva ai suoi occhi come l’incarnazione della cialtronaggine, Vittorio Gassman. L’integerrimo magistrato ha pure le prove in mano dell’innocenza dell’industriale eticamente spregevole, ma le nasconde perché la sua missione non è perseguire un reato, ma purificare la società dal morbo di un sistema in cui prevalgono i mascalzoni. Un film che raffigurava con grande acume l’odio morale per un’Italia che gioiva sguaiatamente con le bandiere in piazza per la vittoria della Nazionale di calcio ma che nello sguardo del magistrato appariva come la sentina di ogni vizio, terreno fertile per i cialtroni come il personaggio di Gassman. Un’azione purificatrice che poteva anche calpestare i princìpi del diritto se fossero stati di intralcio, anche a costo di tenere in galera un innocente. Ecco, caduto il Muro di Berlino, la sinistra di matrice comunista, abbandonato il primato dell’economia, si è votata al (presunto) primato dell’etica. Si è identificata in toto con Ugo Tognazzi, il magistrato che nasconde le prove e ha giurato guerra eterna ai nemici da colpire anche con le armi acuminate della giustizia, l’archetipo di un tipo di magistrato venerato dalla folla nella sua opera di demolizione del sistema, Prima o Seconda Repubblica che sia. Ogni complessità è andata perduta. Ogni ambivalenza, costitutiva per esempio nella storia di Magistratura democratica, si è smarrita. Il garantismo, da eresia, diventò peccato. Lanciarono le monetine al Raphael insieme a fascisti e leghisti inaugurando il moderno populismo giudiziario. La prima retata purificatrice da scagliare contro gli altri, i nemici: e da qui il “popolo del fax”, “grazie Di Pietro”, i magistrati angeli vendicatori. Poi, dato che c’è sempre un epuratore più epuratore, anche a sinistra cadde qualche testa. Difesa debole (o inesistente, come nei casi di Filippo Penati, di Ottaviano Del Turco, pure socialista dunque mela marcia per definizione, o del sindaco di Lodi Simone Uggetti, vittima di una vicenda giudiziaria allucinante). E invece grande sfoggio di retorica super-istituzionale per camuffare la soggezione e la subalternità: “Piena fiducia nella magistratura”, “lasciamo che la magistratura faccia il suo corso”, “attendiamo con fiducia l’esito delle indagini giudiziarie” e così via. La stessa Magistratura democratica ne venne travolta. La sua parte più tradizionalmente garantista, decapitata. Caddero, al seguito di complicate vicende di intercettazioni e di spionaggio con le cimici piazzate in un bar capitolino, le teste di Michele Coiro, uno dei fondatori di Md, capo della Procura di Roma, in passato membro del Consiglio superiore della Magistratura che nel ‘95 lo sottoporrà alle forche caudine, messo sotto accusa per eccessiva vicinanza amicale con il giudice Squillante, coinvolto nella vicenda Previti: morirà di ictus nel 1997. In quell’avvelenato contesto romano, dove la “narrazione”, si direbbe oggi, raccontava di un clima di contiguità, legami trasversali e commistioni amicali, si consumò l’amara sorte della “toga rossa” Francesco Misiani, anch’egli tra i fondatori di Md, messo sotto accusa e poi assolto “perché il fatto non sussiste”, ma oramai messo ai margini della stessa vita associativa della magistratura (passerà i suoi ultimi anni facendo l’avvocato). Ogni tentazione “garantista” venne cancellata e la vicenda della drammatica frattura dentro la corrente di sinistra Magistratura democratica ne fu l’emblema. Era cambiato tutto perché con il crollo del Muro di Berlino e la fine del Pci davvero tutto era cambiato. Solo che la cultura del Pci, abbandonato Marx e il primato dell’economico e della “struttura”, invece di andare verso Filippo Turati, verso il socialismo democratico e riformista, nella famiglia che poi solo dopo decenni è risultata la comune casa europea, passò direttamente verso Gobetti, un martire che però, mentre si addensavano le ombre del fascismo, tesseva “l’elogio della ghigliottina” e detestava i partiti dell’epoca prefascista, il popolare e il socialista, deplorandoli come “partiti del ventre” (testuale). Sull’onda del messaggio berlingueriano della “questione morale” in cui si accreditava l’idea di un partito geneticamente diverso e immune da ogni peccato etico (ecco il magistrato interpretato da Tognazzi del film di Risi “In nome del popolo italiano”), al posto dell’Italia operaia, dell’Italia del lavoro, l’Italia della tradizionale base sociale della sinistra si fantasticò di una sinistra incarnazione dell’”Italia civile”, dell’”altra Italia”, dell’Italia “perbene”, dell’Italia delle minoranze virtuose coinvolta in una lotta all’ultimo sangue contro l’Italia dei corrotti, degli evasori, dei cialtroni. Solo che questa missione di palingenesi purificatrice non poteva che essere affidata alla magistratura. E così è stato. Invece della politicizzazione della magistratura si dovrebbe parlare della “giuridicizzazione” della politica: la politica che balla al ritmo delle inchieste giudiziarie, che non ha più nulla da dire sull’abuso della custodia cautelare, sulla condanna mediatica a processo non ancora iniziato, sulla non separazione delle carriere tra magistratura e sistema mediatico, sulla pioggia di intercettazioni da pubblicare anche senza alcun rilievo penale (“ti amo”, “la sguattera guatemalteca”, fino alla clamorosa fake news della “culona inchiavabile”, un’intercettazione inesistente passata per vera), e ora gli arresti domiciliari da interrompere solo se l’indagato fa atto di sottomissione abbandonando il suo ruolo politico democraticamente sancito. Con qualche timido accenno mitigatorio, come i provvedimenti dell’allora ministro Andrea Orlando, immediatamente cancellati con atto di sottomissione e istinto suicida da burbanzose e forcaiole leggi “spazzacorrotti”, approvate sull’altare delle nuove alleanze con i 5 stelle. E ora il corteo di Genova contro il nemico agli arresti. Erano meglio le febbrili fantasie sulla “giustizia di classe” tanto care alla vecchia e ancora non epurata Magistratura democratica? Sconto di pena e buona condotta, torna in libertà l’ex Br Simone Boccaccini di Simone Innocenti Corriere della Sera, 12 agosto 2024 Simone Boccaccini, fiorentino, ora 64 anni, nel 2002 era un idraulico dipendente del Comune di Firenze e sindacalista delle Rdb: condannato per il delitto di Marco Biagi, ha usufruito di uno sconto di pena per buona condotta. Ha saldato il suo debito con la giustizia e ieri mattina è uscito dal carcere di Alessandria, dove stava scontando la pena per aver preso parte all’omicidio di Marco Biagi. Il giuslavorista ucciso dalle Br-Pcc la sera del 19 marzo 2002 a Bologna nei pressi della sua abitazione, in via Valdonica. Simone Boccaccini, fiorentino, ora 64 anni, all’epoca era un idraulico dipendente del Comune di Firenze e sindacalista delle Rdb (poi radiato) quando fu arrestato grazie al lavoro investigativo dei poliziotti del “Gruppo Marco Biagi”, all’epoca guidato dall’attuale numero due dell’Aise Vittorio Rizzi. Una volta arrestato, Boccaccini si definì “militante del Partito comunista combattente”. Salvo poi - all’indomani della prima sentenza del processo Biagi - scrivere una lettera ai giudici: “Non ho mai fatto parte di organizzazioni eversive, tantomeno delle Br, e la sera del 12 marzo feci solo una grande cortesia a Roberto Morandi (ex tecnico radiologo di Careggi, anche lui condannato per l’omicidio Biagi, ndr) andandolo a prendere sull’Appennino tosco-emiliano dopo una cena con un suo amico”. Boccaccini - o anche il “compagno Carlo”, come veniva identificato nei documenti interni delle Br - è uscito fuori grazie anche a una riduzione di pena di 10 mesi e alla buona condotta in carcere ravvisata dal Tribunale di Sorveglianza di Alessandria. Il delitto Biagi - Il suo nome è legato all’omicidio di Biagi, il giuslavorista che aveva chiesto più volte invano la scorta al Viminale. A sparare - secondo quanto dichiarato da Cinzia Banelli, la “pentita del gruppo” - fu Mario Galesi, morto in un conflitto a fuoco nel quale rimase ucciso l’agente di polizia Emanuele Petri. Era il 2 marzo 2003: quel giorno fu arrestata Nadia Desdemona Lioce e - col passare dei mesi - la Digos ricostruì chi fossero le Br-Pcc. In carcere finirono Diana Blefari Melazzi, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma, Cinzia Banelli e Simone Boccaccini. Accusato di aver partecipato ai pedinamenti di Biagi a Bologna nei mesi e nei giorni precedenti l’agguato, Boccaccini il primo giugno 2005 viene condannato all’ergastolo dalla Corte di Assise di Bologna. Pena ridotta il 6 dicembre 2006 a 21 anni in Appello, sentenza confermata in Cassazione l’8 dicembre 2007. Una condanna arriva a Boccaccini anche per Massimo D’Antona: assolto l’8 luglio 2005 dall’accusa di omicidio, viene condannato a 5 anni e 8 mesi per associazione sovversiva (confermata poi in Cassazione il 25 giugno 2007). Il 18 maggio 2019 lo sconto di pena: via 10 mesi in virtù della continuazione tra le due sentenze. Quella relativa a Biagi e l’altra a D’Antona. La pena complessiva - decidono i giudici - ammonta a 25 anni e 10 mesi. “La circostanza che Boccaccini faceva attivamente parte delle Br dopo l’omicidio D’Antona, cioè in un periodo in cui la banda armata aveva già effettuato quel salto di qualità della propria attività criminale che prevedeva anche l’omicidio politico induce ad affermare che già fin dalla commissione dei reati giudicati dalla Corte di Assise di Roma egli avesse previsto e delineato la commissione di ulteriori attività criminali connesse al programma eversivo, fra cui, quanto meno nelle linee essenziali, anche l’omicidio di un altro consulente del governo come il professor Biagi”, scrissero i giudici di Bologna. “I brigatisti che hanno ucciso mio padre devono scontare tutta la pena, altrimenti significa che non viene fatta giustizia un’altra volta, dopo il caso della mancata scorta a mio babbo”, disse, alla vigilia del primo sconto di pena a Boccaccini nel 2019, Lorenzo, il figlio di Biagi. Il “rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza”, secondo l’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola, che fu poi costretto a dimettersi. Così è tornato in libertà Simone Boccaccini, l’ex brigatista condannato per l’omicidio Biagi di Filippo Fiorini La Stampa, 12 agosto 2024 Il sindaco Lepore: “Notizia sconvolgente”. Il figlio di Biagi: “Assassino, provo rabbia”. Con 10 mesi d’anticipo, Simone Boccacini è libero. Buona condotta e sconto di pena. Questo è il motivo per cui il tribunale di Alessandria ha deciso che l’ex basista delle Nuove Brigate Rosse potesse vedere ieri, a 64 anni compiuti, la sua prima mattina fuori dal carcere. Ha scontato 20 anni e due mesi, per aver partecipato agli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi. In particolare il figlio di quest’ultimo, Lorenzo Biagi, ha espresso il proprio disappunto per i benefici concessi all’ex terrorista. Dello stesso tono, sono state le parole di Matteo Lepore, sindaco della città, Bologna, in cui fu commesso nel 2002 il secondo e ultimo omicidio attribuito alla rifondazione della sovversione rossa. D’Antona lo avevano ammazzato a Roma tre anni prima, ritenendolo colpevole, come Biagi, di aver introdotto il precariato in Italia. La dicitura corretta, secondo i volantini di rivendicazione è “Brigate Rosse per la Costruzione del Partito Comunista Combattente”, ma la stampa li ha chiamati più spesso “Nuove Br” o “Brigatisti di Terza Generazione”. Raccoglievano l’eredità ideale delle Brigate Rosse storiche, quando già queste erano state smantellate dalla Giustizia. Erano meno di venti tra militanti e fiancheggiatori. Quasi tutti si erano radicalizzati nei centri sociali di sinistra a metà degli Anni Novanta, compiendo un salto di qualità verso la lotta armata, messo in pratica all’inzio con qualche rapina di autofinanziamento. I loro capi carismatici erano Nadia Desmona Lioce (irriducibile, sta scontando l’eragastolo al 41 bis a L’Aquila), e Mario Galesi, che morì in una sparatoria su un treno fermo a Castiglion Fiorentino il 2 marzo 2003. Due agenti della Polfer gli chiesero i documenti. Era un normale controllo, ma lui e la Lioce reagirono con le pistole. Oltre a Galesi, morì anche il sovrintendente Emanuele Petri e, grazie al rinvenimento del computer della terrorista, che conteneva nomi e piani, per la banda armata fu l’inizio della fine. I loro obiettivi erano diversi rispetto a quelli delle vecchie Br. Nel breve arco di tempo in cui restarono in attività, colpirono due esperti del diritto del lavoro, professori universitari, consulenti ministeriali, cattolici e di sinistra. Ritenevano che con le loro teorie stessero legittimando i licenziamenti indiscriminati da parte dei datori di lavoro, introducendo i contratti a tempo determinato e, citandoli, “operando per la borghesia internazionale, contro la classe operaia”. In questo contesto, Boccacini ebbe un ruolo determinante soprattutto nell’omicidio Biagi. Il 12 marzo 2003, fu fermato dai carabinieri mentre, con un complice, rientrava in Toscana dopo aver fatto una prova generale dell’attentato che sarebbe poi stato compiuto da altri la settimana dopo. Idraulico, dipendente del Comune di Firenze, sindacalista di base, noto fino ad allora alle forze dell’ordine per un episodio di spaccio, fu condannato all’ergastolo in assise e a 21 anni in appello. In merito alla morte di D’Antona, fu assolto dall’accusa di omicidio e condannato per associazione sovversiva: 5 anni e 8 mesi. Della sua scarcerazione anticipata, Lorenzo Biagi ha detto: “Mi provoca tanta rabbia e indifferenza. È lo stesso che provo nei confronti di tutti gli altri assassini di mio padre”. Il sindaco Lepore ha espresso la sua “vicinanza e quella della città alla famiglia”, dicendosi “sconvolto” per la notizia e criticando gli sconti di pena a beneficio di ex terroristi. Il figlio di Marco Biagi: “Dopo la scorta negata a mio padre, un’altra ingiustizia” di Francesco Rosano Corriere della Sera, 12 agosto 2024 Lorenzo Biagi dopo che l’ex Br è tornato in libertà: “Provo rabbia, avrei preferito che scontasse la pena fino in fondo. Le leggi italiane sono queste. “Neanche di fronte a un caso grave, come un omicidio di stampo terroristico legato alla Brigate rosse, si è riusciti a far scontare una pena fino in fondo. Ne prendo atto, ma provo tanta rabbia e amarezza”. La notizia della liberazione di Simone Boccaccini, uscito dal carcere in anticipo grazie a uno sconto di pena e alla buona condotta, è un fulmine nel cielo dell’estate di Lorenzo Biagi, il figlio minore del giuslavorista Marco Biagi, ucciso nel marzo 2002 sotto la sua abitazione nel centro di Bologna da un commando delle nuove Br. “Questa ingiustizia si aggiunge alla prima e più grave subita da mio padre: negargli la scorta, ciò che ha fatto sì che venisse ucciso”. Simone Boccaccini, l’unico brigatista del commando che uccise sue padre a non dovere scontare un ergastolo, da venerdì 9 agosto è un uomo libero. Cosa significa questa notizia per lei e per la sua famiglia? “Mi fa tanta rabbia, perché è un po’ come se con questo sconto di pena mio padre venisse ucciso per la seconda volta. Dentro di me c’è solo rabbia e amarezza, è questa l’unica cosa che mi viene da dire”. È deluso dallo Stato italiano? “Non posso dire di essere deluso, esistono delle leggi e credo siano state seguite, Boccaccini era l’unico a non avere ricevuto l’ergastolo. O meglio, in prima istanza sì, ma successivamente la sua posizione era stata rivista. Avrei preferito che quantomeno scontasse quella pena fino in fondo, anche considerando il fatto che ancora prima che per l’omicidio di mio padre era stato condannato per quello di Massimo D’Antona (5 anni e 8 mesi per associazione sovversiva, ndr.)” Crede che vadano strette le maglie delle leggi sulla detenzione dei terroristi? “Non sono io a dover dire se si debbano o meno rivedere le leggi, ma già il fatto che non sia stato condannato come gli altri all’ergastolo mi sembra una cosa molto rivedibile. Che poi ora sia un uomo libero dopo un’ulteriore riduzione della pena, come ho già detto, è una cosa che mi fa rabbia ma ne prendo atto perché le leggi italiane sono queste”. Se lo incontrasse per strada cosa gli direbbe? “Assolutamente nulla, farei finta di niente e spero che non avvenga mai. Farei lo stesso se dovessero arrivare riduzioni di pena per gli altri brigatisti: è vero che sono stati condannati all’ergastolo, ma non si sa mai... Non ho mai voluto e non vorrò mai incontrare nessuno di loro, punto e basta. Hanno commesso crimini molto gravi o odiosi, la mia indifferenza nei loro confronti è totale”. Non vorrebbe nemmeno dirgli in faccia quello che pensa di loro? “A parte Cinzia Banelli, che adesso ha una nuova vita, nessuno si è mai pentito. Non vedo il motivo per cui io debba avere un qualche confronto con loro, ma anche se si fossero pentiti non lo vorrei avere a prescindere”. Il suo impegno per ricordare suo padre nelle scuole e con la pagina “Mio babbo Marco Biagi” va avanti? “Certo, continuerà per sempre e non smetterà mai di andare avanti. Sia attraverso la pagina Facebook che tra gli studenti, sono il modo migliore di tenere vivo il ricordo e spiegare ai ragazzi più giovani, che ancora non sono all’università o devono affacciarsi sul mondo del lavoro, chi era mio padre e cosa gli è successo, per tenere vivo il suo ricordo e lanciare esempi positivi di vita da seguire”. Milano. Con il lavoro la recidiva crolla al 2%. Viaggio nella casa di reclusione di Opera di Livia Zancaner Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2024 Suicidi, mancanza di personale, sovraffollamento, violenze, perdita di ogni visione sul futuro, sulla realtà, sulla vita. In Italia la situazione delle carceri è al collasso e luoghi che dovrebbero avere come obiettivo la rieducazione del condannato (articolo 27 della Costituzione) diventano luoghi senza futuro. Al momento sono oltre 60 i suicidi accertati da inizio anno tra i detenuti, l’indice di sovraffollamento nazionale è al 130%, con punte oltre il 230% e secondo il sindacato Uilpa della Polizia penitenziaria, i detenuti in più rispetto ai posti disponibili sono 14.500 e gli agenti mancanti circa 18 mila. Una ricerca del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, mostra che sei detenuti su dieci sono già stati in carcere almeno una volta. Ma sempre il Cnel stima che il dato della recidiva può calare fino al 2% per i detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale. E così, anche nelle sovraffollate carceri italiane, esistono strade per uscire dal tunnel. Nel nostro viaggio a Opera, nelle visite superando il cancello d’ingresso, impareremo che i detenuti possono diventare sarti, poeti, musicisti, giornalisti, panettieri, liutai. Possono laurearsi. Possono essere uomini che guardano al futuro. Il 41 bis - Il carcere di Opera si trova fuori Milano, in un posto lontano dal centro e dalle vie della città e si estende su una superficie di 250mila metri quadrati. Fuori c’è un grosso parcheggio sempre affollato, con un discreto via vai di persone. A entrare e uscire chi lavora nell’istituto, i famigliari dei detenuti, i volontari o semplici visitatori. Opera ospita 1400 detenuti, la maggior parte appartiene alla criminalità organizzata e la media di permanenza è 15 anni. Nell’istituto penitenziario vengono applicati tutti i regimi e i circuiti carcerari, compreso il 41 bis, il regime di isolamento destinato agli appartenenti alla criminalità organizzata. Nella prima zona che si incontra quando si entra, dopo aver lasciato all’ingresso cellulare pc e ogni altro tipo di dispositivo - ci sono il palazzo della direzione, gli uffici, la caserma e gli alloggi. Attraversando il muro di cinta, una porta carraia dà l’accesso alla zona detentiva. I barchini di Lampedusa - La prima immagine che si presenta davanti coglie di sorpresa: nel grosso cortile con il prato, gli alberi, i cespugli, adagiato sull’erba c’è un barchino di legno colorato, bianco rosso e azzurro. Dietro ce n’è un altro, anche se in realtà si vedono solo le travi in legno. Sono i barchini con cui i migranti arrivano a Lampedusa, sono stati portati qui a Opera, un centinaio in tutto. Le barche vengono smontate, il legno selezionato e nel laboratorio di liuteria e falegnameria trasformato in strumenti musicali. “In due anni e mezzo sono stati realizzati 15 strumenti: oltre ai violini, tre violoncelli, un contrabbasso, quattro viole”, ci spiega il maestro liutaio Enrico Allorto, che costruisce gli strumenti con i detenuti. Strumenti arrivati a febbraio anche sul palco del Teatro alla Scala di Milano nella serata intitolata “L’Orchestra del mare”, benedetti da Papa Francesco e suonati da Sting. Si chiama progetto Metamorfosi ed è nato su iniziativa della fondazione Casa dello Spirito e delle Arti di Arnoldo Mosca Mondadori e Marisa Baldoni: trasforma le barche in strumenti e i detenuti in falegnami. A Opera il reato resta fuori - “Come i migranti salgono sui barchini con l’idea e la speranza di aver un futuro migliore, così noi accogliamo le persone che ci vengono consegnate dalla giustizia, cercando di far vedere, in fondo al pozzo dove sono precipitati, non il buio ma la luna, l’occasione per cambiare vita”. Questo è il senso del progetto Metamorfosi secondo il direttore dell’istituto penitenziario, Silvio Di Gregorio. “A Opera il reato si ferma fuori dal muro di cinta, chi entra è la persona. Il reato è quello che viene consacrato nel procedimento penale ma poi inizia un’altra storia, nella quale l’uomo deve ricostruire se stesso”, aggiunge Di Gregorio. E qui, davanti ai barchini dei migranti, nell’area chiamata Piazza del silenzio, l’attenzione viene portata sull’uomo, non sul reato che ha compiuto. L’uomo che ti guarda e ti dice: “Quando lavoro mi sento libero. Qui sei fermo, se non prendi il buono che c’è, cosa fai? Voglio avere un futuro per accompagnare un giorno i miei nipoti a scuola”, le parole degli stessi detenuti. La galleria delle opportunità - Dallo spazio aperto, dove si trova anche l’area verde per gli incontri con le famiglie e i giochi per i bambini, si passa a un altro edificio. Entriamo in quella che viene definita la galleria delle opportunità, un lungo corridoio dove sono appesi i cartelloni delle varie proposte - più di 100 - tra attività e laboratori, affidati tutti a volontari e a cui può partecipare chi entra a Opera per scontare una pena: il carcere è, infatti, l’opportunità per chi entra di cambiare vita, grazie a una serie di percorsi e progetti. Una porta e un altro corridoio ci conducono in una stanza. Dentro ci sono circa 20 persone, sono sedute intorno a un tavolo, davanti ai pc. Stanno costruendo il giornale “Cronisti in Opera”: 32 pagine tutte a colori, uno sguardo sul mondo che da qui sembra così lontano. Il laboratorio Leggere Libera-Mente - Siamo nel laboratorio Leggere Libera - Mente, “un punto di incontro con il mondo esterno, un’opportunità di crescita”, ci racconta un detenuto. “Per me il momento più bello è quando il giornale ci viene consegnato materialmente perché è il frutto del nostro lavoro, è la cosa che mi dà più soddisfazione” spiega un altro. Nella realizzazione del giornale, a ognuno viene assegnato un tema, c’è chi segue la politica, chi la cronaca e così via. A gestire il laboratorio sono due volontari, due ex giornalisti del gruppo Sole 24 Ore: Stefano Natoli, direttore responsabile del giornale e Giuliana Licini, oltre a Paolo Romagnoli, che si occupa della parte informatica. Nel vociare del laboratorio si avvicina a noi un altro detenuto. Ci racconta che, oltre al giornalista, fa il sarto per il teatro e scrive poesie. “Qui abbiamo tanto tempo, se non lo sfruttiamo cosa facciamo? Io da tre anni vengo in questo laboratorio, siamo una famiglia, mi trovo benissimo. Qui stiamo bene”. Stare bene: una frase che sicuramente stride con il luogo in cui ci troviamo, fatto di celle, corridoi e porte chiuse a chiave. Ma stare bene per i detenuti significa occupare il tempo, avere degli interessi, avere una prospettiva. Non “stare su a fare niente”. Su è il luogo dove si trovano le celle. I corsi universitari - Tra i detenuti di lungo periodo ce n’è uno, il cui racconto mi ha colpito molto. È iscritto all’università, alla facoltà scienze dei beni culturali e si sta per laureare. Al momento a Opera sono 100 i detenuti iscritti all’università e tra poco nascerà un vero e proprio polo universitario, sede distaccata dell’Università statale di Milano. “Frequentare l’università significa realizzare un sogno che avevo da ragazzo”, spiega il detenuto, da molti anni in carcere e ancora tanti anni da scontare. “Sono originario del centro storico di Napoli, quartiere Forcella, l’Università Federico II è lì a un passo. Ma io non ho avuto tempo per studiare. Sono cresciuto senza un papà, da bambino non ho giocato, ho sempre lavorato e ho fatto questa fine, sono passato dalle carceri minorili e da tutti i regimi carcerari possibili. Ho 5 figli, tutti laureati, 10 nipoti e 2 pronipoti. Sono mancato ai miei figli e per questo non li faccio venire qui ai colloqui, voglio farli stare vicino alle loro famiglie, devono stare uniti. A casa ho una moglie che ha salvato tutto. Oltre all’università, frequento anche un corso da Oss, operatore socio sanitario. Sto facendo tutte queste specializzazioni in modo che un giorno, fuori da qui, potrò portare nipoti e pronipoti a scuola, visto che finora non l’ho mai fatto. Questo sarà il mio riscatto”. Il lavoro per aziende esterne - Attraverso un altro corridoio con finestre colorate e murales dipinti alle pareti, arriviamo alla zona lavorazioni. Per chi è in carcere il lavoro per conto di aziende esterne è fondamentale per avere un ponte col mondo del lavoro fuori, per proiettarsi verso il futuro, verso giorni e ore di libertà. A ricordarci dove ci troviamo, come sempre, le porte chiuse a chiave. Ad aprirci sono gli agenti della polizia penitenziaria. Alziamo lo sguardo, davanti a noi c’è un gruppo di detenuti, chiacchierano, bevono il caffè: è l’area mensa. Sopra la foto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nella prima stanza in cui entriamo ci sono uomini che assemblano aspiratori e cappe ventilatori. Poi ci sono altre stanze, tra cui l’aula di formazione per il corso da oss. Entriamo nel Laboratorio Sky, dove i detenuti lavorano otto ore al giorno, divisi in due turni e per accedervi c’è una selezione. “Questa per noi è una grande opportunità. Opera è un istituto di massima sicurezza, stiamo espiando una pena lunga, il lavoro serve non solo per occupare il tempo ma anche per avere un obiettivo per il futuro. Poiché quando un detenuto esce dal carcere, se non sa cosa fare e non ha un lavoro, rischia di cadere nella recidiva”, sottolinea la persona che incontriamo nel laboratorio. Il pastificio - Nella zona lavorazioni si trova anche il laboratorio di liuteria e falegnameria. Sulla porta d’ingresso la scritta Casa dello Spirito e dei mestieri. Dentro musica, colori, note musicali, attrezzi alle pareti. Diamo un’occhiata agli altri laboratori poi usciamo. Oltre alla scuola edile aperta a maggio, fuori c’è il pastificio. La porta si apre ed entriamo. Ci sono i vassoi di metallo impilati con sopra l’impasto. All’interno, al momento, c’è solo un detenuto. “Facciamo pizze, pane, focacce, torte per le scuole, per gli asili e per i detenuti che un giorno alla settimana possono ordinare cibo da portare ai familiari durante i colloqui. Lavoro nel pastificio da nove anni. Qui mi sento più libero, mi sento bene, sono contento che i prodotti che creo piacciano ai mei figli. Mi dicono: papà che buono, l’hai fatta tu? Li vedo una o due volte al mese, studiano, vengono il sabato o la domenica”. “Noi investiamo moltissimo nella formazione, che consente ai detenuti di imparare un mestiere spendibile, un domani, fuori da qui. L’obiettivo è sempre quello di reinserirli nel mondo reale”, spiega Silvana Resta, responsabile dell’area educativa. Il ranch delle libertà - È ora di salutare ma il direttore e gli agenti ci tengono a farci visitare ancora un’area del carcere. Camminiamo un po’. Arriviamo davanti a quella che una volta era un’area dismessa e che detenuti e agenti hanno sistemato durante il periodo Covid, quando il tempo da impiegare era molto. Apriamo un cancello, entriamo. Facciamo una scoperta inaspettata. Davanti a noi troviamo un vero e proprio ranch. Un maneggio, aperto al pubblico, dove si fanno corsi di ippoterapia per bambini disabili. Gli animali in parte arrivano da sequestri: ci sono 12 cavalli, un cinghiale, un pavone. Tutto è a carico dell’associazione Giacche Verdi Lombardia Onlus. Lo hanno chiamato Freedom ranch, il ranch della libertà. Un messaggio di speranza - A Opera sulla parete del muro di cinta verranno disegnati dei murales: a realizzarli saranno gli stessi detenuti, che dovranno ideare e poi rappresentare un progetto di vita futuro: servirà a riscoprire il loro posto nella società. Un messaggio di speranza affinché chi esce non torni più, proprio grazie al lavoro fatto tra queste mura. Un lavoro per lo più sconosciuto a chi sta fuori, a chi non ha idea di cosa accada qui dentro. “Posso dire che la gran parte di chi torna tra le mura di Opera è da ricercare tra quelli che non hanno sviluppato progetti all’esterno o comunque di raccordo con l’esterno. Quando le persone invece vengono accompagnate all’uscita già dall’interno, attraverso attività lavorative, corsi professionali e universitari, a tornare sono veramente pochi”, spiega il direttore. Certo le persone devono essere accompagnate. E non solo nel carcere di Opera. Bisogna partire dalle carceri minorili, dove i ragazzi devono essere guidati. Non abbandonati a loro stessi. Ma questa è un’altra storia. Taranto. La Cgil scrive al Sottosegretario Delmastro: “Qui un tradimento dello Stato” cronachetarantine.it, 12 agosto 2024 Nella Casa Circondariale “Carmelo Magli” di Taranto è atteso per il prossimo 13 agosto il sottosegretario al Ministero della Giustizia on. Andrea Delmastro Delle Vedove, e così la CGIL di Taranto, insieme alla locale Funzione Pubblica non perde occasione per rimarcare il clima di emergenza in cui la struttura ormai vive da tempo. I temi sono oggetto di una lettera aperta che il segretario generale della CGIL, Giovanni D’Arcangelo e quello della FP CGIL, Mimmo Sardelli, rivolgono proprio all’esponente parlamentare. “La sua visita ci fa piacere - dicono - ma soprattutto, riteniamo che questa sia una propizia occasione per farle toccare con mano lo stato di emergenza totale della struttura e del modello organizzativo in atto”. E sono gli spietati numeri a dare il senso dell’ordigno sociale, culturale e occupazionale pronto a deflagrare se non interverranno soluzioni concrete. A fronte di una capienza regolamentare di 500 persone, il carcere di Taranto ne ospita 960. Quasi il doppio. Emergenziale anche la condizione di lavoro e vita degli agenti penitenziari. Pochi (170 sui circa 400 previsti per un carcere di primo livello) e costretti a muoversi in una struttura enorme, compreso il nuovo padiglione “Jonio” che dista dal padiglione centrale di quasi 200 metri. Risulta evidente che il sovraffollamento dei detenuti e la condizione di lavoro degli agenti determina una condizione esplosiva che tradisce la vera mission delle strutture di detenzione. “E questo tradimento è tutto dello Stato - sottolinea il segretario generale della CGIL di Taranto, Giovanni D’Arcangelo - perché in quella condizione è impossibile esercitare la funzione tipica di un carcere, cioè quella di rieducare le persone, riportarle alla coscienza del loro errore e finalmente reinserirle in una società pronti al cambiamento radicale delle loro vite”. I detenuti e le detenute, per cui purtroppo come dimostra la denuncia di questi giorni dell’Associazione “Luca Coscioni”, è difficile anche assicurare il diritto alla salute fisica e psichica, vivono in celle con a disposizione meno di 3 mq, in totale contrasto con quanto sancito dall’art. 2 comma 2 del DM Ministero della Sanità del 5 luglio 1975. In questa condizione appare assai difficile pensare che venga rispettato anche l’art. 27 della Costituzione Italiana in merito agli obiettivi di recupero della pena detentiva. C’è la missione fallita, ma c’è anche il tema dei lavoratori abbandonati a loro stessi. “In quella polveriera, in cui i detenuti sono stipati l’uno sopra l’altro, sono sempre più frequenti le aggressioni al personale, vittime sacrificali di un sistema che non solo non rieduca ma punisce addirittura i lavoratori - dice Mimmo Sardelli, segretario della FP CGIL di Taranto - ed è come se in quel micro-cosmo tutti i diritti costituzionali fossero violati e rinnegati”. “Abbiamo affrontato questi problemi all’interno di due incontri istituzionali con la Prefettura e il provveditorato di Puglia e Basilicata Ministero della Giustizia. Incontri nei quali abbiamo chiesto con forza la dotazione di personale e lo sfollamento del carcere. Ma ad oggi i problemi rimangono tutti lì, irrisolti - scrivono ancora nella lettera D’Arcangelo e Sardelli - Pertanto, alla luce di quanto sopra espresso, nel metterle in evidenza le storture della Casa Circondariale del nostro territorio, Le chiediamo un intervento immediato, mediante le competenze ministeriali, almeno nella risoluzione dell’emergenza legata alla penuria di agenti penitenziari e al sovraffollamento delle detenute e dei detenuti.” “Se questo non accadrà - terminano nella nota stampa - sarà mera passerella e quella mina non sarà disinnescata”. Udine. Quando il carcere tocca i cuori di Lorenzo Durandetto* lavitacattolica.it, 12 agosto 2024 L’esperienza pastorale del carcere ha la “bellezza” di poter essere vissuta da diversi punti di vista, non solo dall’interno. Nell’incontro nazionale con tutti i cappellani e volontari degli istituti penitenziari italiani che si è svolto ad Assisi lo scorso aprile, il cardinale Matteo Maria Zuppi nel suo intervento sottolineava come sia importante fare “cultura” sul carcere, per sensibilizzare la società su questo tema così forte e delicato. Oggi vorrei raccontare alcuni piccoli episodi collaterali alla mia esperienza come Cappellano, ma che mi sono rimasti nel cuore e possono aiutare nella riflessione. Al termine di una celebrazione in una cappella campestre della zona di Tricesimo (dove aiuto con le Messe nel fine settimana) mi si avvicina il sig. Giuseppe, presenti altre persone in un momento conviviale, che mi dice: “Sa padre, questa settimana ho letto sul giornale dell’ennesimo suicidio in un carcere italiano. Fino ad adesso non avevo mai riflettuto su questo argomento e giravo pagina. Volevo dirle che avendo fatto la sua conoscenza, questa volta mi sono fermato a riflettere su questo problema così importante e la ringrazio per avermi indirettamente dato questa opportunità”. Ringrazio Giuseppe per la sensibilità e l’esempio di cultura nell’andare oltre i nostri pregiudizi. Come sappiamo anche dalla cronaca nelle carceri quando arriva l’estate si presenta il problema (se non il dramma in alcuni casi) del caldo soffocante. Così nel mese di luglio tramite la direzione della Casa circondariale mi viene chiesto un aiuto per comprare dei ventilatori per tentare di tamponare la situazione. Mi reco in un noto grande magazzino nei dintorni di Udine (ci tengo a sottolineare, uno dei pochi che alla domenica tiene chiuso) e incontro il responsabile del punto vendita per vedere se riesco a racimolare un po’ di sconto… Oltre alla cordialità e all’ascolto attento, arriva la sorpresa: “Padre i primi tre glieli regalo io, di tasca mia”. Grazie sig. Giuseppe (sì un altro Giuseppe!), grazie di cuore per questa spontaneità così priva di retorica, ma ricca di concretezza. Altrettanto gratuito, ma con uno spirito ancora più significativo è il gesto che hanno fatto due detenuti del carcere di Tolmezzo; al termine di una Messa che ho celebrato ho raccontato l’episodio della generosità avuta nel negozio di cui sopra: “Padre vorremmo contribuire anche noi ad aiutare il caldo del carcere di Udine”. Non posso dire i nomi, ma cari ragazzi siate certi che il vostro gesto raggiunge il cuore e porta davvero luce tra le sbarre. “Signore ti preghiamo per tutti coloro che padre Lorenzo incontra in carcere. Concedi loro speranza e la forza di cambiare; accogli il loro pentimento e riempi i loro cuori con la tua grazia”. È la Messa di sabato sera nel Duomo di Tricesimo e questa preghiera dei fedeli è stata scritta e letta dai ragazzi nella celebrazione che conclude le tre settimane dell’oratorio estivo. Il parroco, don Dino, pochi giorni prima mi aveva invitato a fare una testimonianza come Cappellano del carcere ai bambini, ragazzi e animatori presenti in una delle mattinate. Un incontro piccolo e semplice, ma sentito e concluso con la preghiera insieme. Partecipando alla celebrazione sono sincero nel dire che non mi aspettavo questa preghiera e mi sono commosso. Erano presenti moltissimi genitori e tanti parrocchiani e credo che un messaggio come questo non sia scontato, soprattutto perché non si deve avere timore nel parlare di queste cose anche ai più piccoli. Un cristiano non nasconde i problemi sotto il tappeto ma con delicatezza, pazienza e forza li affronta, anche nei contesti più impensabili. Grazie anche a questi ragazzi per aver ascoltato e compreso. Queste sono piccole luci che questa volta illuminano le “sbarre” dall’esterno: piccole, ma significative perché la fede passa attraverso la testimonianza così come Gesù ci ha insegnato a fare nel suo Vangelo. *Cappellano della Casa circondariale di Udine Atlantis 2, l’ultima creazione di Armando Punzo, oltre le barriere visibili e invisibili di Linda Chiaramonte Left, 12 agosto 2024 Leone d’oro alla carriera 2023, il regista ha realizzato una nuova tappa del suo ultra trentennale lavoro nel carcere di Volterra. È un procedere lento, un avvicinamento per gradi quello che fa il pubblico entrando nella casa di reclusione di Volterra per assistere allo spettacolo Atlantis - Capitolo 2 diretto da Armando Punzo, regista e drammaturgo della Compagnia della Fortezza, andato in scena nei giorni scorsi. Si attraversano porte di ferro, cancelli, spiazzi, in un percorso che prepara ad immergersi in una dimensione altra, quella del teatro, che in questo caso occupa e abita spazi solitamente invalicabili che negli otto giorni di repliche si aprono a sguardi e presenze esterne. Come se quello spazio lo spettatore se lo dovesse meritare, entrando con rispetto. La forza e l’intensità delle parole e dei gesti portati in scena dalla compagnia, formata prevalentemente da detenuti con cui Punzo lavora da oltre trent’anni, cambiati nel tempo (alcuni di loro una volta usciti hanno intrapreso la carriera di attori professionisti e succede che tornino come ospiti esterni), si nutre di occhi che cercano e dialogano con gli astanti in uno scambio silenzioso. Mani forti, visi espressivi e sguardi profondi stabiliscono un contatto che cattura subito e tiene tutti incollati. Corpi che si muovono in performance di danza, scenografie geometriche che scivolano sul cemento del cortile, polvere, vernice, i costumi bianchi e neri di Emanuela Dall’Aglio, eccentrici, poetici, originali, che si contrappongono alle tante sfumature delle battute, frasi che dette in quei luoghi assumono un valore e una potenza speciale. Un lavoro che vede alla direzione organizzativa Cinzia de Felice e alle musiche originali Andreino Salvadori, e che ruota intorno a testi filosofici, scientifici, matematici. Una riflessione sulle potenzialità dell’uomo e sulla felicità come ricerca continua. L’utopia di un altro mondo e un altro uomo sono obiettivi e aspirazioni, come auspica Armando Punzo, che hanno una forte carica rivoluzionaria. Fra i riferimenti del regista c’è Il Principio Speranza di Ernst Bloch. Le riflessioni rimbalzano dal palco alla platea, le domande interrogano tutti su temi universali che contrappongono la prigione reale a quella più grande in cui tutti noi siamo rinchiusi, ma da cui possiamo liberarci. L’essere umano visto e considerato in tutte le sue potenzialità è al centro della ricerca interiore come recita un passaggio. “Un piccolo laboratorio utopico. Un laboratorio utopico. La prima enciclopedia utopica… Paesaggi dell’anima, configurazioni di attese e di desideri interiori. Non nella storia, fuori dalla storia. Io sono ma non mi possiedo in tutte le molteplici possibilità. Io sono molteplici possibilità. Un’infinita gamma di possibilità, tutte da esplorare contemporaneamente”. Ci si sposta fra il cortile, le stanze adibite a scuola, i corridoi stretti, la chiesa, il campino, un percorso che è al tempo stesso reale e simbolico. Fonti di ispirazione - cercando nessi profondi fra personalità distanti- sono anche il filosofo e matematico greco Euclide, con la sua opera più nota, Elementi, il fisico e ingegnere elettrico Tesla, ma anche il pittore Gauguin. Le parole che pronuncia il regista e attore risuonano come un monito: “la nostra determinazione è di stare fuori dalla storia. Non tutto ciò che esiste è naturale che esista così… Mi chiamo fuori da tutto” e ancora “nulla è la storia, storia che non impara, storia da dimenticare. Dalle sue tenebre ci lancia lacci che vogliono legarci alle sue false promesse di un futuro che è tutto nel passato. Fin dove possiamo arrivare? Quanto è profondo il nostro respiro? Fin dove si allungano il braccio e lo sguardo per accogliere ciò che ancora non ci appartiene? Abbiamo bisogno di una destinazione sconosciuta in cui nulla ci assomigli. È questa… è questa la felicità di cui parlo”. Armando Punzo, insignito nel 2023 del Leone D’oro alla carriera dalla Biennale di Venezia per la ricerca sul senso del teatro e la sua idea concreta e visionaria al tempo stesso, usa la fantasia per andare oltre le sbarre reali e invisibili. Nel suo lavoro quotidiano, iniziato con i detenuti nel 1988 e allora unico progetto simile che nel 1994 è diventato il primo di Teatro Carcere, con la Compagnia della Fortezza in più di trentacinque anni ha realizzato circa quaranta spettacoli pluripremiati in Italia e all’estero facendo dell’istituto penale di Volterra un centro culturale riconosciuto a livello internazionale. E se il teatro ha il potere di allargare lo sguardo e creare un ponte fra la realtà e la finzione, fra un dentro e un fuori, non c’è luogo più adatto del carcere perché questo accada. Se noi possiamo uscire e lasciarci alle spalle quelle porte blindate ci portiamo dietro un pezzo di loro, di quelle parole e quegli occhi, di quei pensieri che germoglieranno e a cui non possiamo restare indifferenti. Nel tempo dello spettacolo si è creato un incontro, e se tutto questo potrebbe sembrare retorico a chi non ha avuto occasione di entrare nella Fortezza, non lo è per chi ha fatto quell’esperienza, forte, luminosa, stimolante. La guerra fa più paura dell’immigrazione. Cresce la voglia di confini sicuri di Ilvo Diamanti La Repubblica, 12 agosto 2024 Per il 58% necessari più controlli: le crisi internazionali generano insicurezza. Gli under 30 e gli studenti hanno un senso di apertura più elevato. I confini condizionano il “sentimento” degli italiani, come dimostra la recente indagine condotta dal LaPolis-Università di Urbino Carlo Bo. Perché de-limitano lo spazio dei Paesi. E, per questo, de-finiscono il mondo. Non solo sul piano politico. Anche “personale”. Il “finis”, alla base del concetto di “con-fine”, infatti, significa “limite”. Entro il quale possiamo muoverci. O meglio, ci si può muovere. I confini, infatti, servono a de-limitare i “movimenti”. Perché il controllo dei confini, in particolare, è un metodo di controllo. Necessario a garantire la libertà e la sicurezza personale, in base alla sovranità “nazionale”. Visto che le “nazioni” sono de-limitate, cioè, de-finite, dai confini. In questa fase, in particolare, i motivi di in-sicurezza inter-nazionale sono diversi e crescenti. Vicino e lontano dai nostri confini. A causa delle guerre che hanno sconvolto il mondo intorno a noi. E che noi percepiamo in tempo reale. I media, d’altronde, riproducono tutti i motivi di tensione. In diretta. Perché la paura fa (anche) spettacolo. E “lo spettacolo della paura” garantisce audience. Ma i confini sono limiti che è necessario superare. Per diverse ragioni. Politiche, economiche, di mercato. E personali. Il controllo e, insieme, l’apertura dei confini generano, dunque, sentimenti diversi, nella società. Fino ad alcuni anni fa, in particolare, il “controllo delle frontiere” era necessario per controllare e contrastare i movimenti migratori. Per frenare e, se possibile, fermare l’invasione degli stranieri. In arrivo, soprattutto, dall’Africa. Negli ultimi anni, però, questo sentimento è cambiato. In primo luogo, perché i flussi migratori si sono ridotti sensibilmente. Mentre la domanda di persone che praticano lavori e attività soprattutto manuali, nelle aziende, è cresciuta. E sono molto pochi i giovani italiani disposti a svolgerli. I nostri giovani, semmai, e-migrano, a loro volta, in misura crescente, verso altri Paesi. In Europa. E non solo. Anche per questo gli indici demografici, in Italia, sono, da tempo in declino. Così, mentre gli “altri”, che vengono da fuori calano, i “nostri” con-cittadini, più giovani e preparati, se ne vanno “fuori”. Naturalmente, come si è detto, da qualche anno, i confini sono guardati con maggiore attenzione, per ragioni diverse. Sempre legate alla in-sicurezza. Generata dai conflitti e dalle guerre che hanno sconvolto i Paesi dell’Est. Dopo l’invasione della Russia in Ucraina. E oggi non ci sono “muri” che de-limitano lo spazio in Europa. E non solo, visto quel che avviene in Medio Oriente. Intorno a Israele. Per questo motivo è interessante, ma anche inquietante osservare come, nel corso degli anni, la domanda di controllo dei confini, fra gli italiani, abbia mantenuto un’ampiezza elevata. E costante. Come emerge dal sondaggio. Questa indagine, infatti, riproduce un sentimento che procede con intensità pressoché immutata dal 2018. Lo sottolinea la quota di persone secondo le quali “i confini dell’Italia andrebbero maggiormente controllati”. Sostanzialmente stabile. Era il 56% nel 2018 e oggi è salita al 58%. È interessante, semmai, osservare come l’ampiezza di chi chiede maggiore controllo ai confini sia ri-salita dopo il 2022. Quando, come abbiamo suggerito, la paura degli altri è stata oscurata dal timore delle guerre. Intorno a noi. La preoccupazione di fronte al problema ha un colore politico preciso e riconoscibile, in quanto separa gli elettori di Centro Sinistra e di Centro Destra. In modo netto ed evidente. La maggiore domanda di apertura, infatti, si rileva tra chi esprime il proprio favore per il PD e per l’Alleanza Verdi Sinistra. (AVS). Un orientamento condiviso, in misura minore, dalla base del M5s. Mentre a Centro Destra cresce notevolmente la richiesta di controllo delle frontiere. Che supera l’80% tra gli elettori dei FdI e oltre il 70% nella base della Lega, di FI. E di Azione. Oltre alle ragioni politiche, comunque, contano anche altri fattori. L’età e la professione, in particolare. È significativo, infatti, come l’indagine LaPolis - Università di Urbino segnali un indice di apertura più elevato fra i giovani, con meno di 30 anni. E, insieme a loro, fra gli studenti. Due categorie che coincidono largamente. D’altronde, come abbiamo osservato su Repubblica, i più giovani de-finiscono una “generazione E”. Che guarda all’Europa. Ma, allo stesso tempo, una “generazione G”. Globale. Per queste generazioni i confini sono davvero “limiti”. Che “confinano” il loro futuro. E disegnano il loro presente. Migranti. Tavolo Asilo Immigrazione: i Cpr vanno chiusi subito di Gabriella Debora Giorgione vita.it, 12 agosto 2024 Una delegazione del Tavolo Asilo e Immigrazione insieme a un gruppo di parlamentari è entrata nel Centro per il rimpatrio di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza: “Grave degrado e gestione problematica del centro”. Non finisce qui: “L’idea adesso è quella di coordinare delle ispezioni all’interno di tutti i Cpr in Italia per arrivare ad una proposta congiunta parlamentare che ne chieda la chiusura”, così Alessia Araneo, consigliera e capogruppo regionale della Basilicata del Movimento Cinque Stelle che sabato 10 agosto faceva parte della delegazione del Tavolo Asilo e Immigrazione entrata nella struttura detentiva di Palazzo San Gervasio. Con lei, i parlamentari Rachele Scarpa (Pd), Franco Mari (AVS), Arnaldo Lomuti (M5S), i consiglieri regionali Viviana Verri (M5S), Piero Lacorazza (Pd) e Antonio Bochicchio (AVS-PSI), accompagnati da avvocati, mediatori, medici, infermieri e operatori principalmente di Arci e Cgil, hanno effettuato una visita ispettiva al Centro di permanenza per il rimpatrio-Cpr di Palazzo San Gervasio. La delegazione è intervenuta in rappresentanza delle organizzazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione-Tai, unitamente a esponenti e dirigenti del Partito democratico, del Movimento 5 stelle e di Alleanza Verdi-Sinistra. “Quel posto segna il superamento della frontiera di qualsiasi forma di umanità. Le persone lì detenute sono in uno stato di cattività indegno, ci hanno mostrato esigenze di ogni tipo: una visita dentistica, un supporto psicologico, persino il bisogno di un rotolo di carta igienica da condividere con gli altri detenuti. Condizioni di disumanità che immagino gravino anche sul personale, sugli operatori. Sul Cpr di Palazzo San Gervasio c’è già un’inchiesta in corso, la nostra richiesta, insieme a tutte le opposizioni, le associazioni e le sigle sindacali è quella di chiudere immediatamente questo e tutti gli altri Cpr in Italia”, ci ha detto ancora Araneo. L’ispezione, che nasce a seguito della morte del diciannovenne Belmaan Oussama, ha messo in luce una situazione di grave degrado e una gestione problematica del centro come la presenza di gravi vulnerabilità e di persone minorenni al momento dell’ingresso: “Decisioni che sembrano partire dalla discrezionalità del momento, senza una corretta analisi. Privazione di libertà che appare in questi casi oltremodo ingiustificata e con una privazione della dignità umana in questi non luoghi”, ha scritto la delegazione in una nota stampa nel tardo pomeriggio di sabato segnalando, tra le altre cose, che “È stato impedito all’onorevole Rachele Scarpa l’accesso e l’acquisizione di alcuni documenti con ciò stesso limitando le sue prerogative istituzionali”. “Noi chiediamo la chiusura di questo e degli altri Cpr in Italia perché una tale criminalizzazione della condizione umana è una barbarie. Gli irregolari in Italia sono circa 500mila, la risposta dei Cpr è per circa 1.600 posti, le persone realmente recluse sono solo centinaia. È una risposta inefficace, inefficiente, inutile. Abbiamo visto minorenni che non essendo transitati in strutture di prima e di seconda accoglienza, appena diventati maggiorenni sono stati trattenuti nel Cpr. Ci sono persone che lavoravano in Italia anche da 20 anni e che per avere perso il permesso di soggiorno o la residenza si trovano rinchiusi lì dentro, oppure persone che hanno scontato la propria pena restano lì in attesa di un rimpatrio che, nella maggior parte dei casi, non avviene mai. Un caldo infernale, delle gabbie, una condizione disumana. Un “non luogo” agghiacciante, epifenomeno di una xenofobia e di un razzismo fondativi delle ragioni politiche di chi su questo fonda il proprio consenso elettorale. Con noi lì c’era la famiglia di Oussama che non riusciva a farsi una ragione del perché sia accaduto tutto questo al loro ragazzo. Ecco perché il Tavolo Asilo e Immigrazione ha deciso le prossime iniziative: un monitoraggio costante e la richiesta di chiusura. La soluzione potrebbe essere la riforma della legge Bossi-Fini, possibilità di sanare “a sportello” la propria irregolarità”, ci dice Paolo Pesacane, presidente di Arci Basilicata. “Ai tanti Oussama chiediamo un “colpevole” perdono. Dopo questa visita, siamo forti della consapevolezza che il sistema Cpr violi i diritti e la dignità della persona. È necessario un cambio radicale nel pensarci ed essere accoglienti. Sgomento, delusione ed impotenza per le risposte che non giungono. Questo però non fermerà l’onda della denuncia che ci auguriamo sempre più ampia e consapevole. Tutti dovremmo sentirci più coinvolti e partecipi vincendo la logica di un’emergenza senza fine. Dietro ogni sguardo, volto, storia e nome riconosciamo un nostro fratello nel portare il peso di speranze negate e delle tante, troppe vite dimenticate nei luoghi dell’orrore. Da anni, soggetti diversi, si battono perché si rivedano le regole dell’accoglienza a fronte di una politica sorda e incapace di affrontare il tema delle migrazioni come risorsa e non problema da arginare”, ci dice Donatina Allamprese, referente Presidio Libera Vulture-Alto Bradano. “Quando ti vedono entrare provano in tutti i modi ad attirare la tua attenzione, hanno necessità, bisogno di parlare, di denunciare, di raccontare cosa accade, di raccontare la propria vita e di sottolineare soprattutto che quello è un sistema ingiusto, è un sistema che uccide, che ha ucciso molte volte. Quando esci da una visita ad un Cpr provi vergogna perché nei loro occhi leggi che il Paese che loro hanno sempre pensato fosse un Paese civile poi, in realtà, permette un trattamento simile all’interno di queste galere. Ricordiamoci che qui vengono rinchiuse persone che non stanno scontando un reato, ma che hanno un problema di tipo amministrativo. Sembra quasi che questi “non luoghi” debbano essere riempiti e giustificati a tutti i costi. Ho incontrato tantissimi ragazzi che hanno una famiglia, in Italia, giovani spaesati chiusi in quelle di cemento privati della dignità umana, con una scarsissima presa in carico da un punto di vista sanitario e anche legale. Chi dice che così noi stiamo combattendo la criminalità dice un enorme e grave bugia: la gestione della criminalità è un’altra cosa. Faccio un appello alle istituzioni, ai politici, ai sindaci e alle sindache dei nostri territori, alle nostre comunità: schieratevi contro! Faccio un appello ai tanti lavoratori e lavoratrici dell’accoglienza: uniamoci e portiamo avanti questa lotta, difendiamo il vero valore dell’accoglienza, quella rispettosa, giusta e di qualità. Il mondo del Terzo settore e del sociale è davvero pieno di persone di lavoratori e di lavoratrici dell’accoglienza con grandi competenze e con tantissima dedizione. Ecco, quello è il lavoro che dobbiamo difendere, penso ad esempio all’esperienza del Sistema accoglienza integrazione- Sai. Non è la prima volta che entro nel cpr di Palazzo San Gervasio ma vi assicuro che non ci si abitua mai. Non possiamo accettare di continuare su questa strada di questo tipo: i Cpr li dobbiamo chiudere oggi perché lì dentro si muore tutti i giorni”, ci spiega Sabrina Del Pozzo, segretaria confederale Cgil Molise-delegazione Abruzzo Molise. La tratta degli schiavi minorenni. Mappa della sofferenza invisibile di Alice Dominese Il Domani, 12 agosto 2024 Nel 2023 sono scomparsi 10.100 minori stranieri in Italia. Molti sono vittime di sfruttamento. L’ansia di pagare il debito con chi li ha portati in Europa è la spinta a fuggire dai centri. In media, in Italia ogni giorno scompaiono quasi 28 minori stranieri non accompagnati senza lasciare traccia. Lo dicono le stime del progetto di giornalismo transfrontaliero Lost in Europe, secondo cui circa 51.439 minori stranieri non accompagnati sono scomparsi, tra il 2021 e il 2023, dai centri di accoglienza di Unione europea, Gran Bretagna, Norvegia e Svizzera. Di questi, quasi la metà erano accolti sul territorio italiano, dove solo nel 2023 sono scomparsi 10.100 minorenni. Per molti di loro il rischio è quello di diventare vittime di tratta e sfruttamento. “Il numero dei bambini scomparsi è elevato e preoccupante e nasce dal fatto che tanti minori scappano dai centri di accoglienza per saldare il proprio debito, mandare i soldi a casa e raggiungere le comunità di connazionali in Europa. Ma questa situazione, di cui il ministero dell’Interno è a conoscenza, fa sì che molti minori stranieri nel nostro paese vivano in situazioni di non diritto e forte disagio, perché diventano vittime di sfruttamento sessuale e lavorativo”, dice Ernesto Caffo, presidente della fondazione Telefono Azzurro che promuove i diritti dei bambini e degli adolescenti. Scompaiono dopo essere stati regolarmente identificati e inseriti nel sistema di accoglienza, spesso nei primi giorni dopo il loro arrivo in struttura, rendendosi completamente irreperibili. Per la grande maggioranza di questi minori, provenienti soprattutto da nord Africa, Bangladesh, Pakistan, Afghanistan e Siria, le violenze sono una costante. In base a quanto documentato alle frontiere e in molti luoghi di accoglienza, Save the Children nel suo ultimo rapporto “Piccoli Schiavi Invisibili” afferma che la spirale dello sfruttamento accompagna i piccoli migranti fin dalla partenza nel proprio paese d’origine, per poi aggravarsi durante la prima fase di ingresso in Italia. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, entrambe agenzie delle Nazioni Unite, sottolineano il nesso tra flussi migratori, mancanza di canali migratori sicuri e tratta di persone. Di fatto la mancanza di canali di accesso regolari in Europa crea il presupposto affinché le persone migranti ricorrano ai trafficanti per attraversare le frontiere transnazionali, esponendosi al pericolo di essere intercettate anche dalle organizzazioni criminali internazionali legate alla tratta di esseri umani. In questi casi, la tratta di persone e il traffico di migranti si intersecano. Così la persona migrante, che si trova in una particolare situazione di vulnerabilità, risulta esposta a varie forme di sfruttamento nei paesi di transito e di arrivo. “I minori soli hanno paura di denunciare: sono sotto minaccia per la commissione che devono pagare al trafficante che li ha fatti arrivare in Europa, per questo è importante offrire loro protezione e sottrarli alla violenza” prosegue Caffo, secondo cui è necessario confrontarsi soprattutto con le comunità di connazionali, che diventano il punto di riferimento dei minori durante la loro fuga dai centri di accoglienza italiani ed europei. I giovani migranti che partono verso l’Europa, infatti, hanno spesso ricevuto istruzioni precise sulle persone da contattare al loro arrivo e su dove dirigersi per trovare appoggio lontano da casa, ma la loro scomparsa dai centri di accoglienza li espone comunque a gravi pericoli. Sfruttamento digitale - In altri casi, i minori si allontanano per sottrarsi alle cattive condizioni di vita nelle strutture di accoglienza, per la mancanza di supporto e a causa di situazioni di violenza. Anche il desiderio di ricongiungersi con la famiglia, la paura del rimpatrio, la mancanza di fiducia nel sistema, i lunghi procedimenti per la determinazione dello status di rifugiato e la tratta di esseri umani giocano un ruolo importante. L’alto debito contratto alla partenza con reti criminali estese anche in Europa e la necessità dei familiari di ricevere denaro (la cosiddetta “rimessa”) spingono il giovane migrante a cercare l’indipendenza economica nel minor tempo possibile. Prostituzione, lavoro agricolo, accattonaggio e spaccio sono però i principali ambiti di sfruttamento di cui finiscono per essere vittime i minori coinvolti nella tratta. Se l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza in Italia ha raccolto la maggior parte delle denunce tra Sicilia, Lombardia e Campania relative a minori maschi, in Europa le persone scomparse sono soprattutto giovani donne. Il monitoraggio dei numeri a livello europeo è reso difficile dalle lacune dei sistemi di accoglienza, ma secondo il database Counter Trafficking Data Collaborative, nella maggior parte dei casi le vittime di tratta sono persone adulte (84 per cento) di sesso femminile (66 per cento), mentre una parte significativa è composta da minorenni (16 per cento). Tra i più piccoli, fino agli 11 anni di età, le vittime sono quasi in uguale misura sia bambini che bambine. In tutte le altre fasce di età la prevalenza di sesso femminile è netta, con un picco del 77 per cento di ragazze che hanno fra i 15 e i 17 anni. Le giovani vittime di tratta, dicono i dati, sono inoltre maggiormente soggette ad abuso psicologico, fisico e sessuale rispetto agli adulti. Nel mondo, su 50 milioni di persone che subiscono varie forme di schiavitù moderna, oltre 12 milioni sono giovani costretti soprattutto ad affrontare lavoro minorile, sfruttamento sessuale e matrimoni forzati. Tra le nuove forme di sfruttamento c’è anche la prostituzione online. Attraverso la digitalizzazione della tratta di esseri umani, noto anche come cyber- trafficking, i trafficanti hanno adattato i loro metodi di azione sfruttando, per esempio, i social e le piattaforme di gioco online per pubblicizzare, reclutare e sfruttare le vittime. Oltre alla tratta sessuale e allo sfruttamento del lavoro, anche i matrimoni vengono sempre più combinati via Internet tramite l’acquisto di spose bambine da parte di un intermediario. La grande questione globale dei giovani africani di Mario Giro* Il Domani, 12 agosto 2024 In Nigeria, Kenya, Senegal i giovani si ribellano e attaccano le istituzioni. È in atto un cambiamento antropologico: i giovani africani si muovono in autonomia e decidono da soli. Si sentono traditi sia dalle loro élite che dall’Occidente. Chi potrà parlare con loro? Cosa sta accadendo ai giovani in Africa e, soprattutto, perché? In Nigeria in giovani contestano il governo eletto da poco più di un anno ma contestavano anche quello precedente. C’è un’insoddisfazione generale delle giovani generazioni nigeriane che ha come detonatori la violenza delle forze dell’ordine, la mancanza di lavoro o la percezione (molto forte ormai) della corruzione delle élites. Anche in Kenya, paese dalla reputazione democratica e considerato stabile, i giovani sono per strada da mesi, protestando contro il carovita e la mancanza di opportunità. Sfidano apertamente il presidente eletto William Ruto e assaltano senza remore i palazzi del potere. In Senegal le contestazioni giovanili sono state talmente forti da riuscire a sospingere alla presidenza i loro idoli, come il presidente Bassirou Diomaye Faye e il premier Ousmane Sanko. Abbiamo visto giovani africani sostenere anche i ripetuti golpe nel Sahel, in Guinea o in Gabon. Ma nemmeno le giunte militari che ne sono emerse possono dormire sonni tranquilli. Dovunque i giovani africani sono in fermento. Il presidente nigeriano Bole Tinubu ha dichiarato: “cari giovani: vi ho sentito forte e chiaro! Comprendo il vostro dolore e la frustrazione…”. È raro che un leader africano si esprima in questa maniera, a parte la solita retorica paternalistica dei giovani futuro della nazione… Le classi dirigenti africane hanno paura dei loro giovani e non da oggi. La differenza è che ora questi ultimi rappresentano la maggioranza assoluta e non sono più trattenuti dal rispetto per gli anziani e gli adulti. Lo chiamano “youthquake”, terremoto giovanile: la rivolta della generazione Z africana. Incitamento a “riuscire” Al di là delle immagini mutuate dall’Occidente, la gioventù africana è davvero completamente cambiata di questi due decenni. È avvenuta una mutazione antropologica profonda: al posto della vecchia cultura solidale, tra i giovani - in specie urbanizzati - si è imposta una cultura competitiva e materialistica che ora si ritorce contro i propri maestri. Anche in Africa è crollato il noi e c’è stato l’avvento dell’io. La spinta a ricercare il proprio interesse individuale ad ogni costo è ormai molto forte: di conseguenza non si è più disposti più a sopportare né ad aspettare. Soprattutto non si è più disposti a credere agli adulti. L’impulso ad emigrare va anche letto come una conseguenza di tale situazione, essendo sovente caduta ogni speranza nel futuro del proprio paese. C’è qui un paradosso: proprio mentre stanno perdendo la loro tradizionale autorità, gli adulti (pochi) pressano i giovani (tanti) perché facciano fortuna, perché riescano. L’incitamento al “riuscire” è molto forte. Sui giovani si scarica così il peso e la “fretta” di carpire qualche briciola dello sviluppo globale, che pare offrire nuove opportunità. Troviamo l’anticipazione di tale peso nella nota lettera di Yaguine Koità e Fodé Tounkara, i due adolescenti guineani morti nel 1999 dentro il carrello dell’aereo della Sabena cercando di giungere in Europa. Sentendosi “maledetti” nella propria terra, i giovani africani - in genere più istruiti dei loro genitori - mettono in atto ogni possibile espediente per farcela. Yaguine e Fodé sono dei precursori di una fase nuova. A leggere quelle commoventi righe si scorge ancora il rispetto: chiedono aiuto sommessamente, implorando e senza accusare. Ora non è più così: i giovani si sono stufati, biasimano e pretendono. La vita è violenta ed ogni cosa va conquistata in un ambiente ostile (sia a casa propria che altrui), in cui l’insicurezza rende tutto molto competitivo: ecco perché i giovani africani hanno imparato ad essere aggressivi e meno mansueti. Tale competitività può far calare il livello etico generale: tutto è messo in vendita, niente è gratuito. I giovani sentono il doppio abbandono, quello delle loro elite e quello degli europei: ciò li spinge a reagire con veemenza. Nelle grandi città africane come in Nigeria o in Kenya, la vita assume i contorni di una lotta per la sopravvivenza. Aggressività e pretesa - Il “si salvi chi può” e il “ci si salva da sé” rappresentano oggi una mentalità continuamente predicata. Alla cultura dell’impossibilità e dell’assistenza si va sostituendo un atteggiamento di aggressività e pretesa: nemmeno ai leader si crede più. È questo il risultato del fallimento sociale della globalizzazione: se ha aumentato la ricchezza ha tuttavia infragilito il tessuto sociale, impoverito le reti sanitaria ed educativa pubbliche, lasciando il posto alla cultura della privatizzazione. Tutto si deve pagare e nulla è più gratuito. La questione giovanile è la grande questione africana del presente e del futuro: la loro salvezza individuale si lega al rifiuto del passato (sia quello tradizionale che quelli coloniale e post-coloniale), al rigetto dei propri leader fallimentari e ora anche dello straniero. Mai come oggi i giovani africani si concepiscono soli, senza sogni, gettati confusamente nel mare della globalizzazione, pieno di opportunità (spesso fasulle) ma anche colmo di pericoli e ostacoli. Per questo rivendicando la loro unicità (autenticità) in maniera confusa: accusano i “vecchi” di averli traditi, non si fidano più di nessuno, talvolta si gettano nelle braccia dell’ultimo venuto illudendosi di aver trovato un amico. In definitiva decidono di fare da soli. I veri protagonisti della globalizzazione mondiale sono questi giovani africani (sono un miliardo, a cui aggiungere i giovani degli altri continenti) dei quali gli adulti hanno paura: ovunque temono il loro numero e la loro devianza. In Africa giovani indipendenti e intraprendenti, pronti all’avventura, sono anche più soli dei loro coetanei di altrove. Vengono temuti, allontanati o messi alla prova dalla società che conta, ancora prevalentemente gerontocratica. Sono giovani esclusi che chiedono di essere inclusi e protestano con forza. Le delusioni della decolonizzazione prima, la sofferenza dei piani di aggiustamento strutturale poi, l’impoverimento degli stati e infine il fallimento delle promesse della globalizzazione: tutto ciò ha provocato un disorientamento giovanile che si trasforma in rancore e violenza. Al primo posto restano i destini individuali: svaniti i sogni del riscatto del mondo nero e dell’unità africana, tra questi giovani è diminuito, o si è secolarizzato, l’amore per la propria terra. Sanno che nella globalità spietata devono cavarsela da soli. Fallimento democratico - Ecco il perché della loro rabbia: una collera contro lo stato e i “potenti” che, mentre mandano i propri figli nelle scuole all’estero, hanno trascurato le strutture scolastico-educative assieme a quelle sanitarie, ormai in stato di abbandono. La fine del sistema pubblico in Africa e la sua privatizzazione è all’origine di ciò che sta avvenendo e delle proteste a cui assistiamo. Si tratta anche del fallimento della democrazia che spesso si è trasformata in crisi etniche o è stata inquinata da enormi brogli. In Africa nessuno si fida più dei risultati elettorali e delle varie commissioni elettorali indipendenti. I partiti si sono rivelati delle macchine del consenso, pieni di interessi e sottomessi ad agende spesso oscure. La magistratura africana - salvo rare eccezioni - non ha svolto il suo ruolo rivelandosi poco indipendente e troppo legata al potere. Le organizzazioni della società civile sono state spesso contaminate da etnicismi o dalla corruzione, accusate (magari ingiustamente) di essere legate agli interessi dei finanziatori occidentali. L’aspetto più triste è che la chiesa cattolica, che pur aveva avuto un ruolo cruciale durante la democratizzazione degli anni 90 e 2000, oggi ha perso autorevolezza e non parla quasi più, intimidita dalla crescita esponenziale dei neo-evangelicali e pentecostali perlopiù connessi alla politica dei leader. Per ciò che riguarda l’islam africano il destino è ancora peggiore: malgrado sia maggioritario nel continente, è stato investito dal fenomeno rigorista e jihadista che lo ha spezzato concretamente e traumatizzato moralmente. In tale contesto ci si deve chiedere a chi possono rivolgersi i giovani africani persi dentro il caos del loro continente, travolti da tutti questi fenomeni. È questa è la grande domanda che riguarda tutti, anche perché dalla sua risposta dipende il futuro comune: chi parlerà a questo universo giovanile africano con parole convincenti, offrendo una prospettiva nuova e sincera? *Politologo Nei campi palestinesi di Beirut dove cresce Hamas: “Sinwar l’unico che ci difende dai massacri” di Gabriella Colarusso La Repubblica, 12 agosto 2024 Il gruppo armato palestinese ha sempre più seguito soprattutto tra i giovani. Restano le rivalità con Fatah, ma ora le due fazioni sono unite dal comune nemico. Hamad non l’ha mai vista la guerra, ma dice che a Gaza andrebbe di corsa, a combattere per “la nostra terra”. Ha 15 anni, una t-shirt lercia addosso e i sandali consumati, gli occhioni dolci che tradiscono la posa spavalda. È nato e cresciuto a Shatila, nello squallore e nella povertà del campo profughi a Sud di Beirut dove tre generazioni di palestinesi hanno perso il loro futuro. Alla tv scorrono le immagini dei corpi dilaniati “in un altro massacro di Netanyahu!”, urla. “Sinwar sta combattendo per la nostra libertà, è l’unico a farlo!”, e indica la grossa foto del nuovo capo di Hamas che pendola tra due file di palazzi, coperta da un groviglio di cavi elettrici. Sinwar è nella posa di estrarre la pistola dalla tasca. Sulla foto c’è scritto: “Nel nome di Dio, abbiamo iniziato a negoziare”. Da quando è cominciata la guerra a Gaza, qui e negli altri campi palestinesi del Libano Hamas è diventata più forte, ha conquistato consensi. “Te lo dico io che sono di Fatah: Hamas sta facendo il pieno. Perché i ragazzini guardano la televisione e cosa vedono? Stragi e che a combattere e a resistere sotto i tunnel a Gaza ci sono Sinwar e i suoi”, dice Abo Jaber, un veterano di Fatah, il partito dello storico leader della resistenza laica palestinese Arafat, oggi nelle mani dello screditato Abu Mazen. Abo Jaber è un pezzo di storia dei palestinesi in Libano: sopravvissuto al massacro di Sabra e Shatila, nel 1982, quando le falangi cristiane sterminarono migliaia di civili nei due campi palestinesi, e poi agli scontri del 1986 con gli sciiti di Amal appoggiati dai siriani. Ha quasi perso un occhio e ha una cicatrice ricucita male che gli divide in due la pancia. Suo figlio adolescente è morto con una granata trovata in casa. Nel campo vivono circa 30mila persone, almeno 10mila palestinesi, i primi arrivati qui nel 1947, poi ci sono libanesi, siriani, asiatici. Il 90% vive sotto la soglia di povertà. L’immondizia non viene raccolta, l’energia elettrica e internet passano da un sistema di cavi esterni improvvisato. Gli aiuti internazionali mantengono i servizi minimi: sanità, scuola. All’interno del campo gira di tutto, armi, droga a buon prezzo. Intorno, non ci sono mura, a differenza di altri slum palestinesi in Libano, ma se nasci a Shatila puoi non uscirne mai. Per lavorare, avere un negozietto, fare qualunque cosa, ci si affida alla protezione delle fazioni. Fatah e Hamas non si sono mai amate, ma la guerra può unire anche gli avversari. “Io preferivo Meshal ad Haniyeh e Sinwar, perché era più moderato e sapeva tutto di Fatah, ma ora le divisioni tra noi e Hamas vanno messe da parte perché in gioco c’è la sopravvivenza di tutti”. Nella stanza dove ci accoglie Abo Jaber non c’è quasi nulla, due divani di pelle logora e una scrivania di plastica. La tv accesa sulle immagini dei corpi straziati ad al Daraj. “Se cresci a Gaza non hai nessuna speranza, e nemmeno a Shatila”, ci dice Nadim, che fa l’interprete. Sotto la scala che porta all’ufficio dell’Olp sono cadute quasi tutte le travi. Mr Abadi è responsabile dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nel campo. Anche lui di Fatah. “In politica siamo contro Hamas ma mentre si consumano questi crimini odiosi contro i palestinesi non possiamo dividerci”, chiarisce subito davanti a una grande foto di Arafat. L’aura che Sinwar conserva anche tra i suoi avversari politici, ci spiega, viene dalla sua storia di prigioniero nelle carceri israeliane: “Anche in prigione collaborava con Barghouti (storico esponente e leader di Fatah ancora in carcere in Israele, ndr) e i detenuti di altri gruppi palestinesi, per far sì che i nostri diritti venissero riconosciuti”. E il 7 ottobre, i massacri contro gli israeliani nei kibbutz del Sud? Nessuno ha voglia di rispondere. A mezza bocca tutti ti dicono che tra Fatah e Hamas permangono rancori e diffidenze. Tutti sanno che con Sinwar i negoziati saranno più duri. Ma una cosa è certa, dice Abadi: “È magnetico per l’unità dei palestinesi. Senza questi leader arabi avremmo già un nostro stato”. Ce l’ha con l’Egitto, con la Giordania, con i sauditi, che hanno “abbandonato i palestinesi”. E l’Iran? “Stiamo con chi ci sostiene, ma non siamo sciocchi: ogni regime ha la propria agenda e la propria propaganda”. Tra qualche giorno, se la diplomazia riuscirà a scongiurare la guerra, israeliani e palestinesi si incontreranno di nuovo a Doha o al Cairo per riavviare i negoziati. O almeno, questo era il piano americano. Ma dopo il massacro di ieri? Hamad ha una bottega di artigianato ed è di Hamas. È convinto che le trattative andranno avanti. “Più di 100 morti. Per qualche combattente gli israeliani uccidono decine di civili e voi europei state zitti”, si accalora. “Ma ora dobbiamo negoziare per fermare i massacri, alle nostre condizioni: Israele via da Gaza”. Stati Uniti. Alcatraz: al di là dell’umanità di Patrizia Renzetti huffingtonpost.it, 12 agosto 2024 90 anni. Cifra tonda per il carcere di Alcatraz che nasceva esattamente l’11 agosto nel 1934. San Francisco è molto bella, ha quel mood di italianità che altre città americane non hanno. Ma non avremmo completato il viaggio da queste parti, se non avessimo visitato anche Alcatraz, il carcere più celebre al mondo, che da laggiù, in cima a The Rock, nella Baia di San Francisco, circondata dall’Oceano Pacifico, incute timore alla città… un pochino la ricorda l’Azkaban di Harry Potter. Da carcere di massima sicurezza a museo. Siamo nel bel mezzo della baia, tra acque gelide e raffiche di vento, talmente potenti, che è difficile addirittura attraversare l’ex cortile dove i detenuti più meritevoli, trascorrevano le ore all’aperto. È difficile accaparrarsi il biglietto per entrarvi. Lo si deve prendere con larghissimo anticipo. Altrimenti si devono fare file chilometriche al Pier 33. Ma non è certo che in giornata riusciate ad avere la possibilità di visitare il carcere. Una volta prenotato il tour, il giro lo si può fare in autonomia perché viene fornita una pratica audioguida disponibile anche in italiano. L’attraversata dura poco. L’attracco darà subito l’impressione di isolamento. Lontananza dal mondo. Il grigiore delle mura di Alcatraz ben si sposano con quello della roccia su cui poggia. Anche questo è un altro elemento che, riavvolgendo il nastro fino alla metà degli anni cinquanta del secolo scorso, quando il carcere chiuse, fa scendere un velo di tristezza. L’odore nauseante degli escrementi di uccelli, che vi costringerà a coprirvi il viso con un fazzoletto, vi accompagnerà fino a quando non sarete dentro al penitenziario. Affrettatevi. Mura, sbarre, sanitari, letti in metallo, lavagna con il menù del marzo 1963: tutt’intorno è freddezza. Solitudine. Sconforto. Le celle sono microscopiche. Nei letti si scorge un manichino intento a dormire. Impattante. La ricostruzione è perfetta per muoverci a compassione. D’altronde la sensibilità di oggi non era quella di ieri. Tanto è vero questo che la ricostruzione dell’audio guida, una delle migliori mai avute, ci porta a riabilitare l’aspetto umano dei detenuti e in particolare dall’ospite principale del carcere, quello che rese il penitenziario di Alcatraz famoso in tutto il mondo. Alphonse Gabriel Capone, detto Scarface, le cui origini sono di Angri, uno dei borghi più antichi di tutta la Campania. Cuffie alle orecchie. Grigiore tutt’intorno. Silenzio. Ci sono le voci dei detenuti a parlarvi. Sospirano. Racconto. C’è dolore. Ci sono risa. C’è un tintinnare di metalli. I detenuti sbattono chincaglierie contro le sbarre. Sono lì. Lontani da tutto. Lontani dell’umanità.