Il Governo si fa scudo del capo dello Stato, ma non sa risolvere l’emergenza carceri di Donatella Stasio La Stampa, 11 agosto 2024 L’idea del governo è una detenzione che produce solo abbrutimento, morti e criminalità. Non tirino per la giacca il capo dello Stato: il ministro accolga i richiami del Colle. Il governo ha varato un decreto legge inutile ad arginare l’emergenza carceri, lo ha chiamato “carcere sicuro”, lo ha blindato in Parlamento contro ogni proposta volta a ridurre l’escalation di suicidi, lo ha fatto approvare con voto di fiducia e a razzo, sebbene il termine per la conversione in legge scadesse il mese successivo e dunque ancora si sarebbe potuto fare qualcosa, ma da domani tutti al mare, e pazienza se in carcere si continua a morire. Mentre il Parlamento subiva l’ennesima umiliazione, obbedendo supinamente agli ordini del governo, il ministro della Giustizia Carlo Nordio andava a palazzo Chigi a un summit sull’emergenza carcere con la premier Meloni e ne usciva annunciando - udite udite - misure contro il sovraffollamento delle prigioni, dopo le vacanze. Come ammettere che finora abbiamo scherzato. Con buona pace della “necessità e urgenza” del decreto “carcere sicuro”, uno dei 70 propinati da questo governo in due anni. Ma la ciliegina sulla torta è stata la sostanziale “chiamata in correità” del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: dopo il vertice, Nordio ha annunciato urbi et orbi un incontro con il Capo dello Stato, a insaputa dello stesso Capo dello Stato (grave sgrammaticatura istituzionale), quasi che le cause e i rimedi della tragedia in atto nelle patrie galere dipendano anche dal Colle e non siano, invece, una responsabilità politica, organizzativa e morale del governo, peraltro rimasto sordo ai ripetuti appelli, richiami, suggerimenti ricevuti proprio dal Quirinale sul tema del carcere, a partire da gennaio (seconda grave sgrammaticatura istituzionale). Se non fosse una storia maledettamente seria, sarebbe una pièce dell’assurdo da fare invidia al migliore Ionesco. Sul piano umano, colpisce il cinismo con cui l’esecutivo guidato da Meloni affronta la situazione esplosiva delle carceri, in modo così irresponsabile che il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè, di Forza Italia, si chiede “che cosa ci stiamo a fare al governo se non riusciamo a risolvere il problema” mentre Roberto Giachetti, di Italia Viva, azzarda l’ipotesi che si tratti di “un disegno ben preciso per far esplodere la situazione e poi ricorrere al pugno di ferro”. Sul piano organizzativo, colpisce l’incompetenza di chi - il ministero della Giustizia - ha la responsabilità di un servizio che deve tendere alla risocializzazione dei detenuti nel rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità ma quella dignità la calpesta persino rifiutandosi di dare immediata attuazione alle decisioni “autoapplicative” della Corte costituzionale, come quella sull’affettività dei detenuti. Sul piano politico, colpisce l’insipienza di chi - ancora una volta il ministero della Giustizia - non avverte la responsabilità di garantire un’esecuzione penale conforme al dettato costituzionale nell’interesse della sicurezza collettiva. Ma soprattutto, sul piano istituzionale colpisce la disinvoltura con cui il governo strumentalizza il presidente della Repubblica per far credere all’opinione pubblica che le responsabilità di cui sopra - organizzativa, legislativa, politica e morale - siano condivise con il Quirinale o che dipenda dal Quirinale la messa in campo di strategie necessarie a uscire subito dall’emergenza carcere, per tentare poi di impostare un’esecuzione penale sensata e a misura di Costituzione. Un governo che punta al potere assoluto (sotto mentite spoglie del premierato forte), derubricando di fatto i contrappesi a mere comparse, a cominciare dal presidente della Repubblica, oggi si fa scudo proprio del presidente della Repubblica (e della sua popolarità) per giustificare le proprie inadempienze, lo stato incivile, disumano e illegale delle carceri italiane. Certo, le patrie galere erano incivili anche prima, ma nessun governo ha mai girato la faccia dall’altra parte di fronte al crescendo di morti in carcere, ai richiami del Quirinale e dell’Europa. Non lo hanno fatto le ministre della Giustizia Severino e Cancellieri nel 2013 né il ministro Orlando che ha addirittura convocato nel 2016 gli Stati generali sul carcere. Purtroppo, quei governi non hanno avuto la forza politica di andare oltre l’emergenza, perché erano governi tecnici o promiscui. Il governo Meloni questa forza ce l’avrebbe. Ma non capisce che il carcere è una porzione della Repubblica italiana, non una discarica sociale da abbandonare a sé. Quindi, in carcere si continua a morire. Sessantacinque i suicidi, uno ogni tre giorni, 162 le morti complessive da inizio 2024 (erano state 157 nel 2023). Muoiono i detenuti e muoiono i poliziotti. Muoiono perché ogni giorno muore la speranza. E questa è una precisa scelta politica del governo Meloni. Giorni fa, Nordio ha implicitamente riconosciuto che l’unica strada per alleviare le terribili condizioni carcerarie sarebbe un provvedimento di clemenza, come un indulto, ma ha ribadito che “sarebbe una resa dello Stato con conseguenze fra l’altro negative - ha detto - in termini di recidiva, confermate dalle statistiche”. Eppure, le statistiche successive all’indulto del 2006 dicono il contrario: secondo la ricerca dei professori Torrente, Sarzotti, Jocteau, commissionata dal ministero della Giustizia, degli oltre 27mila detenuti usciti, ne sono rientrati, a fine 2007, circa il 20%; secondo la ricerca degli economisti Drago, Galbiati e Vertova, pubblicata sul Journal of Political Economy, il tasso di recidiva è diminuito del 25% e l’indulto è stato “una misura efficace contro il crimine”. Passo falso, dunque, citare le statistiche. I numeri dimostrano che solo un carcere rispettoso del dettato costituzionale ha un ritorno positivo sulla sicurezza collettiva, perché abbatte la recidiva di 10 punti. Se poi è anche un carcere “aperto”, la recidiva scende dal 70 al 30%. Questa è la verità da dire ai cittadini. Purtroppo, il carcere che il governo Meloni ci consegna non produce né libertà individuale né sicurezza collettiva ma solo abbrutimento, morti, criminalità. Almeno, lasciatene fuori il presidente della Repubblica. I nomi (e le storie) dei 65 detenuti che si sono suicidati in carcere quest’anno di Manuela D’Alessandro agi.it, 11 agosto 2024 Chi si è tolto la vita subito dopo l’ingresso in prigione, chi poco prima di lasciarla. Chi era vittima delle dipendenze e chi di sofferenze psichiatriche. Una cupa Spoon River a cui si aggiungono sette agenti penitenziari. Si sono impiccati quasi tutti, chi col laccio dei pantaloni, chi con le lenzuola, chi con una corda. Qualcuno si è soffocato con un sacchetto di plastica, qualche altro riempiendosi i polmoni di gas o altre sostanze. A volte in cella non erano soli, c’erano dei compagni. A volte non sono morti subito, gli agenti della penitenziaria hanno provato a rianimarli. Età media 37 anni, più stranieri che italiani. Reati dall’omicidio al piccolo spaccio, tanti con dipendenza dalla droga, diversi con sofferenze psichiatriche. Ecco i 65 uomini e donne che si sono tolti la vita nelle carceri italiani dal primo gennaio 2024. Nel 2022 alla fine se ne erano contati 85, mai così tanti. Non di tutti sono noti nomi e cognomi, della maggior parte i sindacati penitenziari, che a loro volta registrano sette suicidi di agenti in questo anno, hanno diffuso, assieme ad associazioni, garanti e legali, minimi brandelli delle loro storie. 6 gennaio 2024: Matteo Concetti, 23 anni. Stava male da tempo, soffriva di disturbo bipolare. Era rientrato nel carcere di Ancona perché, svolgendo la pena alternativa lavorando in una pizzeria, aveva sforato sull’orario di rientro a casa. Il 5 gennaio aveva detto alla madre: “Se mi riportano in isolamento, mi ammazzo”. 8 gennaio 2024: Stefano Voltolina, 26 anni, detenuto a Padova, soffriva di depressione. Una volontaria ha affidato il suo ricordo a ‘Ristretti orizzonti’: “Era sveglio, buono, curioso. Abbiamo fallito”. 10 gennaio 2024: Alam Jahangir, 40 anni, originario del Bangladesh, si è impiccato con un pezzo di lenzuolo a Cuneo, pochi giorni dopo il suo ingresso. 12 gennaio 2024: Fabrizio Pullano, 59 anni, si è impiccato nel padiglione di alta sicurezza del carcere di Agrigento. 15 gennaio 2024: Andrea Napolitano, 33 anni. A Poggioreale per l’omicidio della moglie, soffriva di disturbi psichiatrici. 15 gennaio 2024: Mahomoud Ghoulam, 38 anni, marocchino senza fissa dimora, era entrato da poco a Poggioreale. 22 gennaio 2024: Luciano Gilardi, gli mancava un mese alla libertà ma è morto prima da detenuto a Poggioreale. 23 gennaio 2024: Antonio Giuffrida, 57 anni, era in carcere a Verona Montorio per truffa. 24 gennaio 2024: Jeton Bislimi, 34 anni, si è ucciso nel carcere di Castrogno a Teramo: musicista macedone, 34enne, aveva provato ad ammazzare sua moglie. Aveva già tentato il suicidio. 25 gennaio 2024: Ahmed Adel Elsayed, 34 anni, è stato trovato dagli agenti impiccato nel bagno della sua cella a Rossano Calabro. Gli mancava poco per il fine pena. 25 gennaio 2024: Ivano Lucera, 35 anni, si è impiccato nel carcere di Foggia. Soffriva di dipendenze. 28 gennaio 2024: Michele Scarlata, 66 anni, si è ucciso nel carcere di Imperia pochi giorni dopo esserci entrato con l’accusa di avere tentato di uccidere la compagna. 3 febbraio 2024: Alexander Sasha, ucraino di 38 anni, aveva già tentato di tagliarsi la gola prima di impiccarsi a Verona Montorio. 3 febbraio 2024: un detenuto disabile di 58 anni si è impiccato nel carcere di Carinola (Caserta). Il suo nome non è noto. 8 febbraio 2024: Hawaray Amiso, 28 anni, doveva scontare solo tre mesi a Genova. Invece avrebbe “manomesso la serratura del cancello della cella per ritardare l’intervento degli agenti di custodia” prima di impiccarsi. 10 febbraio 2024: Singh Parwinder, 36 anni, bracciante agricolo, si è ucciso nel bagno del carcere di Latina. 11 febbraio 2024: cittadino albanese, 46 anni, imprenditore. Si è ucciso a Terni. Gli erano state revocate da poco le misure alternative al carcere. 13 febbraio 2024: Rocco Tammone, 64 anni, era in semilibertà. Rientrato dal lavoro, si è ucciso nel cortile del carcere di Pisa. 14 febbraio 2024: Matteo Lacorte, 49 anni, si è impiccato nel carcere di Lecce nel reparto di massima sicurezza. La Procura indaga per istigazione al suicidio. 26 febbraio 2024: cittadino marocchino, 45 anni, si è impiccato a Prato. 12 marzo 2024: Jordan Tinti, trapper, 27 anni, in carcere a Pavia per rapina aggravata dall’odio razziale. Aveva tentato il suicidio pochi mesi prima 13 marzo 2024: Andrea Pojioca, senza fissa dimora, 31 anni, ucraino. In carcere a Poggioreale per tentata rapina. 13 marzo 2024: Patrck Guarnieri, è morto il giorno in cui compiva 20 anni per asfissia nel carcere di Teramo. Il pm indaga perché l’autopsia lascia dei dubbi che si sia trattato davvero di suicidio. 14 marzo 2024: Amin Taib, 28 anni, tossicodipendente, si è ucciso nella cella di isolamento a Parma. 21 marzo 2024: Alicia Siposova, 56 anni, slovacca, si è suicidata mentre era in corso una visita del cardinale Matteo Zuppi nel carcere di Bologna. 24 marzo 2024: Alvaro Fabrizio Nunez Sanchez, 31 anni, attendeva come molti l’ingresso in una Rems da alcuni mesi per gravi sofferenze psichiatriche. Invece si è ucciso nel carcere di Torino. 27 marzo 2024: cittadino italiano, 52 anni, di cui non state rese note le generalità, si è impiccato al cancello della cella con il laccio dei pantaloni nel carcere di Tempio Pausania. 1 aprile 2024: Massimiliano Pinna, 32 anni, si è impiccato al secondo giorno di carcere a Cagliari dove era stato portato per un furto. 7 aprile 2024: Karim Abderrahin, 37 anni, si è impiccato in cella a Vibo Valentia. 10 aprile 2024: Ahmed Fathy Ehaddad, 42 anni, egiziano, attendeva l’inizio del processo per un caso di violenza sessuale nel carcere di Pavia. 17 aprile 2024: Nazim Mordjane, 32 anni, palestinese, è morto inalando gas da un fornello da campeggio nel carcere di Como. Nel settembre dell’anno scorso era evaso ferendo un agente di polizia. 22 aprile 2024: Yu Yang, 36 anni, si è impiccato attaccandosi alla terza branda del letto a castello a Regina Coeli. 4 maggio 2024: Giuseppe Pilade, 33 anni, pativa disturbi psichiatrici e sarebbe dovuto stare in una Rems ma, come per la maggior parte di chi ci dovrebbe stare, non c’era posto per lui e si è tolto la vita nel carcere di Siracusa. 16 maggio 2024: Santo Perez, 25 anni, si è impiccato nella sezione media sicurezza del carcere di Parma. 23 maggio 2024: Maria Assunta Pulito, 64 anni, si è soffocata con due sacchetti di plastica annodati intorno alla testa e alla gola a Torino. Accusata di violenza sessuale assieme al marito, aveva sempre respinto le accuse. 2 giugno 2014: George Corceovei, 31 anni, ha approfittato che due detenuti uscissero dalla cella che condividevano con lui per impiccarsi a Venezia. 2 giugno 2024: Mustafà, 23 anni, si è impiccato nel carcere di Cagliari ma il suo corpo non ha ceduto subito. È morto due giorni dopo in ospedale. 4 giugno 2024: Mohamed Ishaq Jan, pakistano, 31 anni. Da una decina di mesi aspettava di essere processato per lesioni e rapina a Roma Regina Coeli. 11 giugno 2024: Domenico Amato, 56 anni, viene trovato impiccato alla mattina presto nel carcere di Ferrara. Con la sua morte, è stato osservato, lo Stato ha perso due volte perché era un collaboratore di giustizia e perché era nella custodia dello Stato. 13 giugno 2024: A.L.B., italiano di 38 anni, si è tolto la vita nel carcere di Ariano Irpino impiccandosi alle otto della sera. 14 giugno 2024: Alin Vasili, 46 anni, rumeno, si è impiccato nel penitenziario di Biella. 15 giugno 2024: Giuseppe Santolieri, 74 anni, condannato a 18 anni per l’omicidio della moglie, si è ucciso nel carcere di Teramo soffocandosi con una corda. Lo aveva annunciato ai compagni di prigionia: “Non posso più andare avanti”. 15 giugno 2022: un detenuto di 43 anni si è impiccato nel carcere di Sassari con un lenzuolo nel reparto ospedaliero. 21 giugno 2024: Alì, un ragazzo algerino di 20 anni, si è impiccato nel carcere di Novara. “con un cappio rudimentale”, riferisce il sindacato della penitenziaria. Era detenuto per reati di droga 26 giugno 2024: Francesco Fiandaca di 28 anni, che lavorava nella cucina ed era impegnato in diverse attività rieducative, si è impiccato nel carcere ‘Malaspina’ di Caltanissetta. 27 giugno 2024: Luca D’Auria, un ragazzo di 21 anni, già sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, si è ucciso inalando gas nel carcere di Frosinone. 27 giugno 2024: egiziano, 47 anni, era stato condannato per immigrazione clandestina. Si è impiccato con la cintura nel carcere genovese di Marassi. 1 luglio 2024: Giuseppe Spolzino, un ragazzo di 21 anni, si è impiccato nel carcere di Paola. Nel maggio del 2027, a 24 anni, avrebbe potuto ricominciare, uscendo. 2 luglio 2024: un uomo di cui non sono note le generalità si è ucciso nel carcere di Livorno a 35 anni. 4 luglio 2024: Yousef Hamga, 20 anni, egiziano, si è impiccato nella casa circondariale di Pavia. 4 luglio: nel carcere Sollicciano di Firenze si è tolto la vita il ventenne Fedi Ben Sassi. Poco prima di uccidersi, era saltata per mancanza di connessione una sua chiamata alla madre in Tunisia. 7 luglio 2024: Vincenzo Urbisaglia, accusato dell’omicidio della moglie, si è ucciso a 81 anni nel carcere di Potenza. Ai legali era stata negata pochi giorni prima la scarcerazione chiesta per il suo stato psicofisico. 9 luglio 2024: Fabrizio Mazzaggio, 57 anni, si è impiccato nel bagno della sua cella a Varese. Aveva problemi di tossicodipendenza. 12 luglio 2024: Fabiano Visentini, 51 anni, si è ucciso a Verona Montorio. 13 luglio 2024: un uomo di 45 si è suicida to a Monza chiudendosi la testa in un sacchetto di plastica nella cella dove stava da solo. 15 luglio 2024: Alessandro Patrizio Girardi, 37 anni, detenuto per spaccio, si è impiccato nella sua cella nella casa circondariale Santa Maria Maggiore a Venezia dove stava per reati legati alla droga. 21 luglio 2024: alla Dozza di Bologna si è tolto la vita Musta Lulzim, 48 anni, albanese. È stato trovato impiccato nella sua cella infuocata dall’estate. 25 luglio 2024: Giuseppe Pietralito, 30 anni, si è ammazzato in cella a Rebibbia dopo avere manomesso la porta per ritardare i soccorsi. Aveva saputo da poco che sarebbe uscito nel 2026, 4 anni prima del previsto perché gli era stata riconosciuta la continuazione dei reati. “Ma non ho un lavoro, nessuno crederà in me” aveva detto ai suoi legali. 27 luglio: ennesimo suicidio a Prato dove un giovane di 26 anni si è tolto la vita. 28 luglio 2024: Ismael Lebbiati, 27 anni, fine pena previsto nel 2032, si è impiccato nel carcere di Prato dove nelle ore precedenti c’era stata una rivolta. 30 luglio 2024: Kassab Mohammad si è suicidato a 25 anni nel reparto isolamento del carcere di Rieti dov’era stato portato dopo i disordini del giorno prima. 3 agosto 2024: un recluso marocchino, 31 anni, senza dimora, si è impiccato nel carcere di Cremona. 5 agosto: nel bagno del Tribunale di Salerno, dopo la convalida del suo arresto, si è ammazzato stringendosi un cappio al collo Luca Di Lascio, arrestato per codice rosso. 5 agosto 2024: a Biella, A.S., albanese, 55 anni, stava facendo lo sciopero della fame perché aveva chiesto di essere trasferito in un carcere più vicino ai suoi familiari. Poi, si è ucciso. 7 agosto: 35 anni, tunisino, si è tolto la vita impiccandosi con un laccio dei pantaloni nel carcere di Prato. Istituti per madri detenute. Tante straniere e analfabete: “Molte hanno subìto traumi” di Massimiliano Saggese Il Giorno, 11 agosto 2024 Al momento in Italia sono 21 le donne che stanno affrontando la pena in queste strutture. Polemica sul nuovo decreto carceri diventato legge che rende facoltativo il rinvio della pena. Oltre il cancello spuntano i giochi. Dentro, sulle pareti colorate, tanti disegni. Ma ci sono cancellate tutt’attorno, nella “terra di mezzo” che si cerca di rendere sempre più simile a una casa per addolcire quello che è un luogo di detenzione: è l’Icam, Istituto a custodia attenuata per madri detenute in via Macedonio Melloni, il primo in Italia (e in tutto sono quattro), parte del polo penitenziario di San Vittore. È in un edificio a sé, con camere ampie e spazi comuni. Adesso ospita otto donne che stanno scontando una pena, con accanto i loro bimbi (dai nascituri fino a piccoli che frequentano le elementari). Quante sono, le ospiti dell’Icam in Italia? Attualmente 21, con 24 figli detenuti nelle stesse strutture. Tante donne straniere, tra i 25 e i 45 anni, che spesso hanno un passato di maltrattamenti in famiglia. Alcune di loro sono analfabete e con bimbi molto piccoli, ma negli ultimi anni sono molto più determinate ad affrontare i percorsi di rieducazione. È emerso nei giorni scorsi, dalle voci di volontari di associazioni ed addetti ai lavori. Per esempio Andrea Tollis, direttore dell’associazione milanese “Ciao” (che accoglie e sostiene mamme e bambini in detenzione o in situazione di fragilità, attraverso la gestione di una casa famiglia protetta) ha evidenziato che “si tratta spesso di donne che, al di là dei reati commessi e per i quali scontano la pena, hanno alle spalle sindromi di stress post traumatico, proprio per le violenze e i maltrattamenti che molte di loro subiscono”. Negli Icam inizia un percorso di crescita personale che prosegue nelle case famiglia soprattutto nella relazione con il proprio figlio: vanno a prendere i loro bimbi a scuola, li portano a fare passeggiate oppure a giocare al parco e si cimentano in laboratori, condividono spazi abitativi con altre donne nelle stesse condizioni. Alcune di loro non sanno leggere né scrivere e si ritrovano come tra i banchi di scuola. Spiegare ai bimbi perché sono lì non è mai facile, e anche per questo c’è sempre bisogno del supporto di psicologi ed educatori. Nel decreto carceri, ora legge, tra le norme è previsto di rendere facoltativo l’obbligo di rinvio della pena per le donne in gravidanza e le madri con figli sotto l’anno. In Parlamento il clima si è infuocato durante l’approvazione nei giorni scorsi. Ospite su La7, la senatrice di Forza Italia e vice presidente del Senato Licia Ronzulli, sull’argomento ha commentato: “Queste donne sono indirizzate negli Icam, che non sono un carcere. Parliamo di una comunità protetta dove madre e figli possono stare insieme. I bambini non devono pagare per gli errori dei genitori. Un bambino di pochi mesi non deve stare in un carcere perché viene meno lo sviluppo cognitivo e anche fisico. Detto questo, qualcosa bisognerà fare per evitare che le organizzazioni utilizzino le madri per continuare a delinquere”. “Nelle carceri vite da incubo. Governo fermo” di Alessandro D’Amato La Nazione, 11 agosto 2024 Il senatore Verini (Pd): bocciati i nostri emendamenti. Detenzione preventiva? “Sia per tutti o per nessuno”. “Da quando faccio il parlamentare è la 90esima volta che visito un carcere. La prima domanda te la rivolgono con gli occhi: “È vero che non avete fatto niente?”. In 4.500 con meno di un anno o tra uno e due anni da scontare avevano una speranza. Ma il governo non ha fatto niente”. Il senatore del Pd Walter Verini negli ultimi giorni è stato nelle carceri di Perugia, Terni, Rieti, Regina Coeli e Rebibbia a Roma. Oggi racconta la disperazione: “Un detenuto teneva in mano un giornale con il titolo “Parlamento bloccato, nulla di fatto per le carceri”. Il tema della liberazione anticipata o dei domiciliari era qualcosa a cui stare appesi, che per chi vive in tre metri quadrati vuole dire tanto”. Ci racconti il nido di Rebibbia... “Ho conosciuto Giacomo, il bimbo che vive con la mamma lì e ha deficit motori e di linguaggio. C’erano tre bambini e tre mamme quel giorno. I bimbi avevano 9 mesi, 2 anni e 2 anni e 6 mesi. Era un’angoscia vedere i giocattoli e la stanza colorata del nido ma con le sbarre alle finestre. L’unica colpa di quei bambini è di essere figli di madri che hanno commesso dei reati: non possono stare dentro. Bisogna aumentare le case d’accoglienza per le detenute madri e gli Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri, ndr) devono essere potenziati. Purtroppo emendamenti e odg su questo sono stati bocciati”. Lupi, Noi Moderati, ha detto a Qn che il decreto è un segnale comunque positivo... “Stimo Lupi ma ho trovato le sue parole farisaiche. Dice che questi temi dovrebbero tornare ad appartenere a tutto il Parlamento, eppure la maggioranza ha bocciato i nostri 235 emendamenti al Senato. Abbiamo chiesto di ripristinare la liberazione anticipata per chi è verso fine pena e ha fatto percorsi di rieducazione. Anche a questo hanno detto no. Durante il Covid i detenuti che lavoravano potevano dormire fuori. La norma è stata prorogata da Draghi e nessun magistrato l’ha revocata. Ne beneficiavano 800 persone. Questo governo è l’ha cancellata”. Lo stop alla detenzione preventiva è una soluzione? “No, perché è soltanto verso certi tipi di reati. La carcerazione preventiva solo per alcuni reati rischia di essere classista. E di mandare in carcere i poveri lasciando liberi i ricchi. Perché ci dev’essere allarme sociale per uno stupratore ma non per un corruttore? O per un altro reato da colletti bianchi, che danneggia posti di lavoro e cittadini? La verità è che per il governo i ravers sono pericolosi, i corruttori meno. Tanto che ha abolito l’abuso d’ufficio e allentato i presidi contro la corruzione”. Crede che davvero questo possa essere motivo di frizione nella maggioranza? “No, non credo. Però voglio fare un appello ai Parlamentari: usate il mese di agosto per andare nelle carceri e parlate con i detenuti. Può essere un segnale importante. L’articolo 27 della Costituzione dice che la pena serve alla rieducazione. Investire in umanità, recupero e reinserimento è investire nella sicurezza della società”. Giustizia e carceri affollate, il pressing di Forza Italia di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 11 agosto 2024 Tante questioni sono ancora irrisolte; FI è insoddisfatta. Dopo lo stop all’abuso d’ufficio, Palamara valuta il ricorso per la sua condanna. La legge Nordio è appena entrata in vigore, così come quella sulle carceri, ma diverse questioni restano aperte. Se ne riparlerà dopo la pausa estiva, ma Forza Italia è lontana dal dirsi soddisfatta, soprattutto sul tema dell’affollamento degli istituti di pena. Mentre l’abolizione del reato di abuso d’ufficio ha già una prima conseguenza: l’ex membro del Csm ed ex presidente dell’Associazione magistrati (Anm) Luca Palamara, rimosso dall’ordine giudiziario, sta valutando “i riflessi che la nuova disciplina avrà sulla vicenda che mi ha riguardato, sia in ambito penale che disciplinare”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha detto che il nodo delle carceri sarà tra i primi che affronterà al rientro. Ha già chiesto un incontro al presidente Mattarella ma la direzione in cui guarda la ha annunciata ieri al Giornale: “La carcerazione preventiva è applicata in modo irragionevole, sia nella restrizione che nell’estensione”. Non è detto che i Fratelli d’Italia da questo orecchio ci sentano: proprio mentre la Camera approvava il decreto si è svolta a Palazzo Chigi una riunione di maggioranza descritta come tesa. Ma certamente è d’accordo Maurizio Lupi (Noi moderati), che trova il sovraffollamento “vergognoso. All’Italia serve una riforma organica che renda il nostro sistema giudiziario più efficace, più equo e più veloce”. Il capogruppo di FI alla Camera, Paolo Barelli, ammette: “Chiedevamo di più, è vero ma questo è un ottimo risultato che potrà essere migliorato”. I principi base sono “la certezza dell’esecuzione della condanna, la salvaguardia della dignità delle persone che sono in carcere” e certamente una “maggiore considerazione del personale che opera nelle strutture penitenziarie”. Mentre il viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto ritiene che la nuova legge sulle carceri sia “un primo importante intervento di sistema, al quale ne seguiranno altri”. Anche lui sottolinea come la custodia cautelare sia al centro delle riflessioni: “La misura cautelare deve essere un’eccezione necessaria”. Intanto, Palamara fa sapere che “l’abolizione del reato di abuso d’ufficio e la modifica della disciplina del traffico di influenze illecite eliminano dal panorama” alcuni reati “dai caratteri a tratti evanescenti”. E dunque sta valutando il da farsi. Ma la nuova normativa riguarda, tra gli altri, anche il procedimento a carico di Rosanna Natoli, consigliera laica del Csm in quota FdI, indagata per rivelazione di segreti d’ufficio e abuso d’ufficio. Assalto alla Severino: Forza Italia contro la legge che fa decadere i condannati in primo grado di Flavia Amabile La Stampa, 11 agosto 2024 FI: “Bisogna intervenire rapidamente”. I dubbi degli alleati di governo.La politica si ferma ma alla ripresa a settembre sarà la giustizia uno dei temi più caldi su cui all’interno della maggioranza non mancheranno scontri. Il nodo carceri è ancora da sciogliere, il ministro Carlo Nordio dovrebbe incontrare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per valutare possibili soluzioni che possano migliorare le condizioni di vita di detenuti e agenti penitenziari, ma sarà Forza Italia a dettare l’agenda puntando, dopo il decreto carceri, a una riforma delle misure cautelari e della legge Severino. Il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto avverte che il decreto carceri è “un primo importante intervento di sistema, al quale ne seguiranno altri” e proprio la legge Severino è uno di quei fronti avanzati su cui il partito intende battersi fino in fondo. La campagna d’autunno di Forza Italia - Sarà la campagna d’autunno degli azzurri, non esattamente in linea su questo con gli alleati di governo. “È nel nostro programma. Si tratta di una situazione di squilibrio inspiegabile. E un tema molto caro a Forza Italia ci sono proposte di legge giacenti, è un obiettivo per cui ci battiamo”, aggiunge Sisto. “La Legge Severino va contro la Costituzione. - attacca Giorgio Mulè, deputato di Forza Italia e vicepresidente della Camera - Un soggetto viene lapidato e espulso dalla società civile dopo una sentenza di primo grado. Quella legge è espressione di quella mordicchia giustizialista che non ci appartiene. Io credo nel garantismo giurisdizionale”. È la storica linea di FI. “Sono note le nostre preoccupazioni - spiega Paolo Barelli, capogruppo di Forza Italia alla Camera - e ovviamente vogliamo condividerle con la maggioranza. Il problema del carcere preventivo è legato alla legge Severino. Da sempre sosteniamo che ci sia la certezza che una persona sia colpevole. Per averla è necessario che la sentenza sia definitiva”. La legge Severino ma non solo - La legge Severino innanzitutto dunque, ma non solo, sostiene Pietro Pittalis, deputato di Forza Italia e vicepresidente della commissione Giustizia della Camera. “Abbiamo assistito a casi di sindaci, consiglieri regionali e presidenti di regione condannati in primo grado e poi assolti in appello perché il fatto non sussiste. Carriere stroncate, vite distrutte senza che nessuno ne paghi le conseguenze. È anche la ragione per la quale riteniamo che sia arrivato il momento per accelerare i tempi in Parlamento per la approvazione della legge sulla separazione delle carriere e la riforma del Csm”. Secondo Pittalis “è necessario fare una riflessione sulle misure cautelari che non sono uno scudo come lo ritiene Salvini ma una presunzione di innocenza estesa a tutti i cittadini. La reiterazione del reato va ancorata a elementi di concretezza e specificità non a ipotesi astratte come accade ora. E la carcerazione preventiva deve tornare a essere uno strumento da utilizzare nei casi di allarme sociale, terrorismo, violenza contro le donne. In altri casi si può sostituire con gli arresti domiciliari o la detenzione in strutture alternative. Per noi di Forza Italia il carcere non è la soluzione di tutti i mali. Sono questi i temi su cui si caratterizzerà la nostra attività”. Non è quello che pensano la Lega e Fratelli d’Italia che in quasi due anni di governo hanno adottato numerosi provvedimenti in cui proprio il carcere era la risposta. “Il nostro compito è di portare i nostri alleati a ragionare in termini di garantismo appropriato, fa parte del nostro Dna”, risponde Barelli. “Con la Lega e FdI ci si siede e si ragiona. Non possono esserci barriere e barricate. C’è un programma scritto insieme in cui questi temi sono esposti in maniera chiara”, afferma Mulè. La giustizia può far esplodere il campo largo di Schlein di Giulia Merlo Il Domani, 11 agosto 2024 Su separazione delle carriere e abuso d’ufficio la distanza ideologica tra centristi e Pd e M5S è incolmabile. Su carcere e riforma del Csm, invece, la possibilità di convergenza esiste e può essere un punto di partenza. Il percorso verso il campo largo che dovrebbe riunire tutto il centrosinistra è lastricato di ostacoli e il più pericoloso è indubbiamente la giustizia. Nel grande progetto di ricomporre i cocci tra Partito democratico, Italia Viva e Azione, cui aggiungere anche il Movimento 5 Stelle e l’Alleanza Verdi-Sinistra, infatti, dovrà fare i conti con le posizioni agli antipodi su praticamente tutte le questioni che riguardano il sistema giudiziario. A dimostrarlo fanno fede i voti d’aula e le dichiarazioni dei principali esponenti dei partiti. Non a caso, dentro il centrodestra sta da tempo maturando una certezza: l’unica riforma costituzionale che può sperare di passare senza rischio di referendum è quella sulla separazione delle carriere della magistratura. Separazione delle carriere - La ragione è puramente numerica: la separazione delle carriere delle toghe requirenti e giudicanti attraverso riforma costituzionale è sostenuta convintamente da Azione e Italia Viva, tanto che il loro sostegno porta la maggioranza a un numero che si avvicina a quei due terzi in ogni camera che scongiurerebbe iniziative referendarie. Proprio questo rischia di essere uno scoglio insuperabile per il campo largo, quando si materializzerà in aula. Il leader di Azione, Carlo Calenda, ha definito la separazione “un principio di civiltà giuridica”, portato avanti anche dall’attivissimo deputato Enrico Costa, che su questo ha anche depositato una proposta di legge. Anche Matteo Renzi si è detto favorevole e tra i ranghi di Italia Viva si è definita questa una delle battaglie storiche del garantismo, sulla scia delle battaglie dell’Unione camere penali per cui il giudice deve essere terzo ed equidistante da accusa e difesa. Nei giorni scorsi è stato Roberto Giachetti, esponente di Iv e da sempre impegnato sui temi della giustizia, a definire la separazione delle carriere “la riforma strutturale della giustizia”. Di avviso opposto, invece, sono gli altri partiti del campo largo. Quello che contiene posizioni più variegate è il Partito democratico, che tuttavia a domanda secca si è opposto alla riforma costituzionale. Sebbene nel 2019 - anno del congresso del partito - il candidato alla segreteria Maurizio Martina proponesse nel suo programma proprio la separazione delle carriere e fosse all’epoca sostenuto da autorevoli dirigenti (per citarne alcuni, Graziano Delrio, Vincenzo De Luca, Lorenzo Guerini, Matteo Orfini, Valeria Valente, Dario Parrini e Debora Serracchiani), l’attuale linea maggioritaria è di senso opposto e molti dei firmatari - prima tra tutte Serracchiani, attuale responsabile Giustizia - si sono detti contrari al disegno di legge costituzionale per come è stato impostato da Nordio. La segretaria del Pd, Elly Schlein è intervenuta al congresso dell’Anm a Palermo e dal palco ha rivendicato la “nostra ferma contrarietà a quanto annunciato dal governo sulla separazione delle carriere”. Una posizione tranciante e con giustificazioni anche di tattica politica, ma che impegna il Pd su posizioni di segno opposto a quelle dei partiti più centristi. “Noi riteniamo che la separazione delle carriere, oltre a non risolvere i problemi della giustizia, sia l’anticamera della sottomissione dei magistrati all’esecutivo e comprometta il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale”, sono state le parole della segretaria, che ha paventato un rischio condiviso anche dal Movimento 5 Stelle. Giuseppe Conte si è scagliato contro la separazione delle carriere definendola “uno dei pilastri del piano di rinascita di Licio Gelli e della P2”, così da “avere una magistratura in qualche modo assoggettata e condizionata dal potere politico. Vedo che il governo sta andando in quella direzione”. Anche Alleanza verdi e sinistra si è espressa contro: il partito di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni l’ha definita “un colpo durissimo all’autonomia e all’indipendenza della magistratura proprio mentre la questione morale torna prepotentemente al centro della scena”. Abuso d’ufficio - Una divisione sostanzialmente analoga a quella sulla separazione delle carriere si ritrova anche nell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, promulgato proprio questa settimana dal Colle. Anche in questo caso Azione e Italia Viva hanno votato con il centrodestra a favore del ddl Nordio. Era “il minimo sindacale”, ha detto in aula Giachetti in dichiarazione di voto e anche Carlo Calenda si è espresso con argomenti simili a quelli del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, dicendo che “la fumosità della fattispecie consente un uso strumentale da parte degli avversari politici”. Anche in questo caso, il Pd si è diviso al suo interno ma infine ha prevalso la linea della segretaria Schlein, che ha schierato il partito contro l’abrogazione nonostante questo abbia aperto una accesa dialettica con gli amministratori locali. I sindaci dem - da Matteo Ricci a Dario Nardella, oggi eurodeputati - e l’ala riformista del partito, infatti, avevano manifestato la necessità di abrogare un reato che consideravano vessatorio e in passato anche il Pd si era mosso con proposte di legge per intervenire sulla fattispecie. La segretaria però ha scelto la linea di antagonismo con il governo: ha sì specificato che il Pd sarebbe stato favorevole a “una riforma che chiarisca ed eviti effetti distorsivi”, ma “ma siamo contrari all’abrogazione tout court del reato perché andrebbe anche contro gli impegni internazionali”, come del resto evidenziato da autorevoli giuristi, che hanno messo in guardia il governo rispetto al rischio di procedure di infrazione Ue. Anche su questo il Movimento 5 Stelle si è dimostrato il partito con la posizione più radicale, con una contrarietà netta, con l’ex magistrato Federico Cafiero de Raho, oggi deputato, che ha detto che l’abrogazione avrà “effetti devastanti per la legalità, abbassa il livello di difesa del Paese dalla corruzione, dalle mafie, dall’illegalità e rende più difficili gli sviluppi investigativi utili a smascherare i sistemi di protezione degli interessi illegali”. Su una linea analoga anche Avs, con il capogruppo in commissione Giustizia Devis Dori che ha definito “aberrante” il ddl Nordio. Custodia cautelare - La proposta di Nordio di riformare la custodia cautelare non si è ancora concretizzata dunque è prematuro tracciare gli schieramenti, che anche nel campo del centrodestra non sono definiti. Tuttavia anche su questo punto Italia Viva e Azione (con l’ordine del giorno di Enrico Costa) hanno assunto una posizione più vicina alla linea del ministro e di Forza Italia, che puntano a ridurre la possibilità di disporre la custodia cautelare nel caso di rischio di reiterazione del reato. Se superasse le perplessità di Fratelli d’Italia e si tramutasse in ddl del governo, anche su questo il rischio di divisione nel possibile campo largo sarebbe certo. Punti in comune - Su alcune questioni, invece, una convergenza di massima appare possibile almeno tra Pd e centristi. Sul decreto Carceri, infatti, le opposizioni hanno fatto fronte comune per contestare un decreto legge che non ha offerto alcuna soluzione concreta per contrastare sovraffollamento e suicidi. In particolare, il centrosinistra e Italia Viva hanno trovato convergenza sulla proposta Giachetti - ora ferma in commissione - per aumentare retroattivamente da 45 a 60 i giorni di liberazione anticipata ogni sei mesi, come soluzione per ridurre il sovraffollamento. Lo stesso vale anche per la riforma del Csm con il sorteggio dei componenti, contenuta nella più complessiva riforma costituzionale della separazione delle carriere. Se la contrarietà di Pd e M5S era quasi scontata, perplessità sono emerse anche in Italia Viva e Azione, che si sono espresse con scetticismo sull’ipotesi di sorteggiare i membri. Anche su questioni collaterali ma comunque collegate alla giustizia, come la necessità di legiferare in materia di fine vita sulla scia della sentenza della Corte costituzionale o le questioni legate all’accoglienza dei migranti, il campo largo può lavorare per compattarsi contro la maggioranza. La questione, dunque, è soprattutto politica: i punti di contatto tra le opposizioni esistono, quasi quanto i punti di forte divergenza. Certamente la segretaria Schlein punterà a valorizzare i primi e, almeno secondo le ultime dichiarazioni, lo stesso punta a fare anche Matteo Renzi. Il punto, però, rimane soprattutto per quanto riguarda la separazione delle carriere, che ha un’importanza non solo concreta ma anche simbolica visto che si tratta di una riforma costituzionale. Se i centristi convergessero sulle posizioni del governo (accogliendo anche la riforma del Csm, contenuta nello stesso disegno di legge costituzionale), allora davvero la strada del campo largo sarebbe politicamente in salita. Anche se i loro voti non bastassero per raggiungere i due terzi della maggioranza qualificata per scongiurare il referendum. Del resto un’alleanza d’opposizione o si struttura per essere compatta sui provvedimenti più caratterizzanti per il governo che si punta a disarcionare, oppure non è. Enrico Costa, l’ultrà garantista: “Papà lo era anche con i terroristi” di Tommaso Labate Corriere della Sera, 11 agosto 2024 Il deputato di Azione, figlio del liberale Raffaele Costa, sottosegretario alla Giustizia dopo il caso Moro. Sull’ultima trovata garantista, il divieto di custodia cautelare per gli incensurati, s’è ritrovato contro anche un pezzo del suo partito, quelli di Azione della Liguria politicamente armati contro Giovanni Toti. “Ma comunque è una costante, per un garantista in politica al giorno d’oggi è sempre così. Ci sono i partiti garantisti, quelli che non lo sono affatto, quelli come la Lega di Salvini che lo sono a corrente alternata; ma anche nei primi, quando capita, l’occasione di attaccare l’avversario indagato o arrestato viene purtroppo considerata troppo ghiotta per non sfruttarla a proprio vantaggio”. Luciano Ligabue canterebbe che non è tempo per lui. Eppure l’immarcescibile garantismo di Enrico Costa lo accompagna nella politica attiva dal 2006 attraverso cinque legislature, qualche viaggio di andata e ritorno da Forza Italia, due incarichi da ministro in governi sempre guidati da un pd (Renzi e Gentiloni), un passaggio nel partito di Angelino Alfano, uno in Noi con l’Italia, qualche domiciliazione saltuaria al Gruppo misto, fino a quella sorta di residenza stabile che per lui è diventata Azione, almeno fino a quando qualche settimana fa non ha abbandonato la vicesegreteria. Gli avversari lo considerano una sorta di nemico incallito di ogni pubblico ministero (“Sbagliato, io penso che la maggioranza di quelli italiani siano ottimi giudici”), gli amici faticano qualche volta a seguirlo nelle vie elettoralmente meno spendibili delle sue proposte di legge (“Il garantismo purtroppo non è popolare”), tutti se lo immaginano come perennemente impegnato nella lettura di testi come Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (“Sto guardando in streaming Bosch, serie tv decisamente poco garantista”), nessuno che sia mai chiesto da dove arrivi questa sorta di inclinazione, diventata per Costa una sorta di marchio di fabbrica. La risposta, in parte, è nella modestissima 127 gialla assegnata alla scorta del padre, il liberale Raffaele, che subito dopo il Caso Moro era stato sottosegretario alla Giustizia. “È uno dei miei ricordi d’infanzia. Da sottosegretario con delega alle Carceri, mio papà aveva una posizione decisamente molto morbida coi terroristi reclusi. Proprio per questo, perché mostrava il volto non cattivo dello Stato, era diventato un obiettivo delle Brigate rosse”. A Mondovì, dove torna da Roma tutti i fine settimana, il futuro segretario del Partito liberale italiano, Raffaele Costa, consegna al figlio Enrico il comandamento numero uno per garantirsi non tanto la leadership, quanto la longevità politica: “Meglio sapere tutto di poco che poco di tutto”. Il poco a cui Costa junior capita di appassionarsi fino in fondo è la giustizia. Al battesimo in Parlamento, nella legislatura 2006-2008, i berlusconiani lo mandano in commissione Giustizia e lui si attacca giorno e notte a Gaetano Pecorella. “Nella legislatura successiva, quando va in commissione Affari costituzionali perché in odore di candidatura alla Consulta, Pecorella suggerisce a Berlusconi e Ghedini di far fare al sottoscritto il capogruppo in commissione Giustizia. E da lì...”. Da lì inizia una carriera che lo pone sotto riflettori che si accendono e spengono a intermittenza. E che quando sono accesi, sono accesissimi. Tipo nel 2008, quando Costa diventa il relatore del contestatissimo Lodo Alfano sulla sospensione dei processi a carico delle alte cariche dello Stato, compresi ovviamente quelli di Berlusconi. “Non è un’immunità perché differisce semplicemente un po’ più in là processi che verranno comunque celebrati”, argomenta lui. La Consulta boccerà l’intero impianto. Oggi combatte perché gli incensurati sotto inchiesta non vadano mai in carcere prima di una condanna. “Dal 1992 a oggi lo Stato italiano ha pagato 874 milioni di euro di risarcimenti solo per ingiusta detenzione. E nessuno dei pm che hanno sbagliato ha mai pagato per questo”, sottolinea Costa. Tra i sogni nel cassetto, dice, “far sì che il nostro sia un Paese che restituisce alla vita normale uno che era entrato ingiustamente in un carcere nelle stesse identiche condizioni in cui stava prima di incappare in un errore giudiziario”. Ma forse non ci crede neanche lui. Forse. Ciriani: “Sensibilità diverse ma la sintesi si trova. Non vedo urgenze sulla custodia cautelare” di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 11 agosto 2024 Il ministro per i Rapporti con il Parlamento: “Arriveremo a una quadra come sempre, separare le carriere è nel programma”. Uscito dalla maratona pre-pausa festiva, il ministro per i Rapporti col Parlamento, Luca Ciriani, garantisce che né giustizia né politica estera né nomine Rai o riforme turberanno il governo Meloni: “Noi su tutto troveremo la quadratura del cerchio come sempre. Dalla sinistra non prendiamo lezioni. E sono diplomatico”. Ministro Ciriani, la giustizia è ancora una volta terreno di scontro. Su quel tema tanti governi sono andati in crisi... “Non è il nostro caso. Anche sul decreto carceri abbiamo trovato una sintesi senza troppe difficoltà e nonostante le sensibilità diverse. La riforma della giustizia, inclusa la separazione delle carriere su cui c’è una proposta depositata, fa parte del programma. È una necessità del Paese”. L’abuso d’ufficio è stato appena cancellato: non esponete i cittadini ai soprusi di amministratori e funzionari disonesti? “I cittadini al contrario avranno benefici da quella abrogazione. Potranno contare su sindaci per bene che amministrano la cosa pubblica con più serenità, senza rischiare la gogna da innocenti, per qualsiasi denuncia”. E se l’Europa aprisse una procedura di infrazione? “Non credo: il corpus giuridico mantiene molte norme per perseguire attività contrarie all’interesse dell’amministrazione pubblica. L’abuso d’ufficio, per com’era scritto, creava solo problemi”. Un prossimo passo annunciato dal ministro Nordio riguarda la limitazione del ricorso alla custodia cautelare: su questo anche il suo partito, FdI, ha delle perplessità. “Prima di procedere se ne parlerà con il ministro e all’interno della maggioranza. C’è un’ipotesi, una sensibilità innescata dalla vicenda Toti, ma non ci sono testi scritti. Valuteremo bene, con prudenza, senza particolare urgenza”. Nordio da Meloni mentre la Camera discuteva il decreto carceri non è stato uno sgarbo verso il parlamento? “Cerco di fare sempre il sindacalista del parlamento presso il governo. Ma quella riunione non voleva essere uno sgarbo. Poi il ministro è venuto spesso in Aula per dare informative e sono certo non si sottrarrà mai al parlamento”. Gli ultimi giorni per le Camere sono stati un tour de force impressionante: dieci decreti da convertire in un mese non sono troppi? “Certo, il ricorso frequente ai decreti è una stortura, ma non di ora: se ne discute da decenni. C’erano dieci decreti su materie tutte importanti e non rinviabili. È vero, è stato un superlavoro senza precedenti che ci ha fatto piantare le tende in parlamento per due mesi, grazie alla disponibilità di gruppi parlamentari, presidenti di commissione. Io ho cercato di fare il mio: arrivare alla conversione ma sempre con attenzione alle istanze delle opposizioni. Il sentiero era stretto”. Sugli attacchi ucraini in Russia, il ministro alla Difesa Crosetto ha manifestato perplessità. È una crepa nella linea del governo di sostegno senza riserve a Zelensky? “Escludo che la linea del governo possa cambiare. La Russia è l’invasore, l’Ucraina l’aggredito che ha diritto e tenta disperatamente di difendersi. Quello che avviene, avviene perché la Russia due anni fa ha invaso l’Ucraina. Abbiamo mandato armi con sistemi difensivi che hanno salvato vite innocenti. Non va mai perso di vista”. Al rientro vi attendono altri banchi di prova per la tenuta del governo, come le nomine Rai e l’iter delle riforme su premierato e autonomia. L’opposizione fa muro. “Abbiamo cercato un dialogo sulla forma di governo rinunciando al presidenzialismo per il premierato, ma non c’è stato verso. Le opposizioni una controproposta non ce l’hanno. Ma gli elettori ci hanno votato per cambiare l’Italia. Sull’autonomia ci attaccano ma la legge Calderoli esiste perché è stata fatta la riforma Prodi nel 2001. È chiaro che la loro è una obiezione strumentale, ipocrita, contraddittoria”. Però anche in Forza Italia ci sono dei ripensamenti... “Capisco le perplessità, ma basta spiegare bene la norma per risolverle: l’autonomia differenziata non toglie nulla a nessuno e aggiunge qualcosa a chi lo vuole. Farà breccia anche tra gli italiani”. Le opposizioni in queste battaglie si stanno ricompattando nel campo largo... “Ci provano, ma è un’alleanza tra diversi. Li abbiamo già affrontati e sconfitti”. Dalle intercettazioni al Csm. A settembre riparte l’assalto di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2024 Dopo il via libera alla riforma, la maggioranza non si placa: già pronte in Parlamento altre leggi per l’impunità. Dopo la doppia firma del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, prima del decreto Carceri e poi della riforma Nordio, il capo dello Stato ha davanti altri progetti in itinere della maggioranza di centrodestra più calendiani e renziani che vogliono chiudere il cerchio della giustizia pro impuniti eccellenti: colletti bianchi, politici, pubblici ufficiali. Come si sa, già con le riforme approvate i detenuti mafiosi e i terroristi irriducibili possono aspirare ai benefici; nessuno potrà più essere condannato per abuso d’ufficio, le intercettazioni, grazie alle quali lo Stato fa cassa sono ormai “lobotomizzate”; con l’alibi della “presunzione di innocenza” si sono silenziati procuratori, pm, giornalisti e così via. A questa maggioranza ora cosa resta da fare? Cominciamo dal divieto di usare il trojan per i reati corruttivi, anche se - in un’epoca in cui i criminali di vario genere sono passati ai criptofonini - è l’unica speranza per beccare un po’ di corruttori e corrotti. A oggi è un ordine del giorno di Enrico Costa, Azione, ex Fi, approvato alla Camera a maggio da centrodestra, calendiani e renziani. Che la maggioranza voglia disfarsi del trojan per rendere impossibili le indagini anti-corruzione è evidente anche da un’altra mossa precedente a quella di Costa: Pierantonio Zanettin, Fi, capogruppo in commissione Giustizia in Senato fece inserire, last minute, a settembre 2023, nella relazione della presidente, la leghista Giulia Bongiorno, una richiesta al governo: “È opportuno un supplemento di riflessione su utilizzabilità e condizioni di utilizzo del trojan per reati di minore gravità”, cioè la corruzione. Anche per il ministro della Giustizia, Carlo Nordio il trojan è “un’arma incivile”. Insomma, è questione di tempo e questa maggioranza aggiungerà questo tassello cruciale per spuntare definitivamente le indagini sui potenti. Sempre in tema di intercettazioni, è in discussione in commissione Giustizia della Camera il ddl Zanettin-Bongiorno, approvato il 10 aprile scorso dal Senato, con tanto di modifica, in peggio, di FdI (emendamento Rastrelli). Riguarda la stretta sul sequestro degli smartphone e degli altri apparecchi elettronici. Per il loro sequestro dovrà intervenire un giudice. Entro cinque giorni, il pm deve avvisare tutte le persone coinvolte nel sequestro: gli indagati, i difensori, le persone offese in vista di una sorta di udienza per una copia forense del contenuto degli apparati elettronici sequestrati. Poi sarà obbligatoria una seconda autorizzazione del gip per l’utilizzo del materiale sequestrato. In ballo anche il giro di vite sui tempi di intercettazione: non più fino a 2 anni ma solo per 45 giorni: la norma della leghista Erika Stefani non vale per mafia e terrorismo, è stata approvata in commissione Giustizia del Senato. E veniamo alla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere e del Csm. È incardinato alla Camera il ddl approvato dal Consiglio dei ministri a fine maggio. Il testo sancisce la separazione delle carriere dei pm e dei giudici, prevedendo due Csm (uno “requirente” e uno “giudicante”), presieduti entrambi dal Capo dello Stato. I componenti saranno eletti con il sorteggio, che in teoria vale per tutti. Peccato, però, che quello per i laici è furbetto, dato che resta la “manina” dei partiti per la loro nomina. Sempre un terzo in ciascun Csm, vengono sì “estratti a sorte”, ma da un elenco di professori e avvocati con 15 anni di esperienza “che il Parlamento in seduta comune compila mediante elezione”. I togati saranno invece scelti con sorteggio secco, si vedrà con quale criterio. I capi di Corte saranno sempre membri di diritto, il presidente della Cassazione nel Csm dei giudici e il Pg in quello dei pm. Prevista anche la nomina di due vicepresidenti, scelti fra i laici, nomina politica, di fatto. Tutti i membri durano 4 anni e non si può essere sorteggiati per la consiliatura successiva. Infine c’è da attuare l’ordine del giorno di Costa, benedetto dal governo, approvato il 7 agosto alla Camera dalla solita maggioranza allargata: la custodia cautelare per gli incensurati, difronte al pericolo di reiterazione del reato, può essere possibile solo se vi è rischio per la “sicurezza pubblica” e “privata” o “grave allarme sociale”. Un altro bel regalo a politici e colletti bianchi. Guarda caso pensato dopo i domiciliari a maggio per l’ex governatore ligure, Giovanni Toti. Il tribunale dell’opinione pubblica grida allo scandalo, ma esiste ancora lo Stato di diritto di Guido Stampanoni Bassi* Il Domani, 11 agosto 2024 Nel caso della decisione di Cassazione sull’omicidio di Lorena Quaranta si è parlato di “sentenza sessista”. Ma che lo stato emotivo dell’imputato debba essere tenuto in considerazione ai fini della commisurazione della pena (ad esempio, al fine di riconoscere le attenuanti generiche) è un principio ormai scontato all’interno della giurisprudenza. Per giorni, con riferimento alla decisione della Cassazione sulla tragica vicenda dell’omicidio di Lorena Quaranta, abbiamo sentito parlare di “ergastolo annullato”, “sentenza sessista”, “attenuante del patriarcato” e “alibi per attenuare le colpe degli uomini che uccidono le donne”. È stato anche detto che sarebbe “preoccupante” e “fuorviante” il messaggio per cui lo stato emotivo dell’imputato possa essere dirimente nella valutazione della gravità dei fatti e, addirittura, l’attenzione si è spostata sul fatto che i giudici della Cassazione fossero in questo caso tutti uomini. In realtà, che lo stato emotivo dell’imputato debba essere tenuto in considerazione ai fini della commisurazione della pena (ad esempio, al fine di riconoscere le attenuanti generiche) è un principio ormai scontato all’interno della giurisprudenza e naturalmente - così come per ogni altra circostanza - sarà sempre il giudice di merito a valutare (e a motivare), caso per caso, in concreto, se vi siano o meno le condizioni richieste per concedere le attenuanti generiche. Nel recente caso dell’omicidio di Lorena Quaranta, la Cassazione non ha fatto venir meno alcun ergastolo - né, tantomeno, ha introdotto alcuna attenuante del “patriarcato” - ma ha semplicemente annullato con rinvio la sentenza di appello limitatamente al tema delle attenuanti generiche, facendo così diventare irrevocabile il profilo della responsabilità penale dell’imputato. La Corte di cassazione ha, cioè, ritenuto che alcuni passaggi della sentenza di appello - quelli relativi allo stato emotivo dell’imputato - fossero contraddittori, non avendo i giudici di secondo grado “compiutamente verificato se (e in quale misura) possa ascriversi all’imputato di non avere efficacemente tentato di contrastare lo stato di angoscia del quale era preda e se la fonte del disagio (l’emergenza pandemica) e la difficoltà di porvi rimedio costituiscano fattori incidenti sulla misura della responsabilità penale”. Il lessico utilizzato dalla Corte non dovrebbe lasciare spazio ad interpretazioni, anche perché i giudici hanno specificato che la condizione psicologica dell’imputato “dovrà essere delibata in sinergia con gli altri aspetti già considerati dai giudici di merito” e che il nuovo giudizio sarà, in ogni caso, “libero nell’esito”. Viene, dunque, da chiedersi perché, per l’ennesima volta, si sia gridato allo scandalo per una sentenza che di scandaloso non ha nulla. Il fatto che, a fronte di una decisione ritenuta dalla Cassazione parzialmente fondata su “un percorso argomentativo che si connota per aporie e contraddizioni”, si proceda ad un nuovo giudizio - peraltro relativo al solo trattamento sanzionatorio - non è affatto una vergogna ma, semmai, una garanzia che dobbiamo tenerci ben stretta, a maggior ragione se la sentenza “viziata” condannava l’imputato all’ergastolo. Il Tribunale dell’opinione pubblica giudica con standard di gran lunga inferiori rispetto a quelli ordinari: non ha dubbi, non conosce circostanze attenuanti e può legittimamente infischiarsene di quale fosse lo stato emotivo dell’imputato. Fortunatamente, però, viviamo in uno stato di diritto e se vi sono aspetti che influiscono sulla “misura della responsabilità penale” - così si esprime la Cassazione - non si può pretendere che gli stessi non vengano presi in considerazione sol perché siamo in presenza di crimini odiosi o vicende che destano stupore nell’opinione pubblica. Né tantomeno - e non è la prima volta che accade (si pensi alle critiche alla giudice del Tribunale di Roma etichettata come “nemica delle donne”) - si può tollerare che il bersaglio delle critiche diventi il collegio “di soli uomini” che ha osato prendere una decisione sgradita. Un’ultima riflessione. Stupisce che le medesime pagine da cui si proclama l’importanza di tutelare l’indipendenza della magistratura - secondo alcuni messa in crisi dalle discussioni in tema di separazione le carriere - non si facciano il minimo scrupolo ad attentare a quella stessa indipendenza attraverso campagne mediatiche che di informativo hanno ben poco. Quand’è che ci renderemo conto che una corretta narrazione di ciò che accade nelle aule di giustizia - soprattutto su vicende che suscitano l’attenzione del comune cittadino - è proprio uno dei modi migliori per tutelare l’indipendenza e la serenità di giudizio della magistratura? *Avvocato e direttore della rivista Giurisprudenza Penale Torino. L’Ipm Ferrante Aporti quasi inagibile dopo la rivolta: i nuovi arrestati portati in altre strutture di elisa sola La Stampa, 11 agosto 2024 Il ministero della Giustizia ha vietato l’ingresso automatico dei minorenni nel penitenziario di corso Unione Sovietica. L’ultimo ragazzo arrestato è stato portato in corso Unione sovietica ieri. In manette. Portato e respinto. Perché l’istituto penitenziario minorile Ferrante Aporti, dopo la rivolta della notte tra il primo e il 2 agosto, è off limits. “Parzialmente inagibile”, è l’espressione ufficiale che ne indica lo stato dell’arte. Una frase che significa che il carcere non è chiuso, perché dentro ci sono ancora, e ci restano finché sarà possibile, alcuni detenuti. Ma che la situazione è grave. L’istituto, la scorsa settimana, è stato devastato. I cinquantadue detenuti che sono insorti hanno appiccato roghi, spaccato i sanitari con le mazze, dato fuoco a libri e materassi. Rotto vetri, mobili e intere celle. I danni sono talmente ingenti che ora nessun nuovo detenuto potrà essere ospitato qui. La comunicazione del ministero della Giustizia è stata diramata a tutte le forze dell’ordine italiane nelle scorse ore. La direttiva prevede che a Torino, e in Piemonte, i nuovi arrestati non siano più portati al Ferrante Aporti. Come avveniva prima, in automatico, visto che è la struttura penitenziaria geograficamente più vicina. Adesso è tutto diverso. Le forze dell’ordine dovranno contattare il Centro per la giustizia minorile e chiedere quale sia l’istituto penitenziario minorile libero dove sia possibile portare il nuovo arrestato. Una mossa necessaria perché al momento il Ferrante Aporti non può accogliere nessuno. Sfumerebbe, per ora, l’ipotesi chiusura. Perché, almeno per ora, i giovani reclusi che si trovano lì potrebbero restarvi. Ma i nuovi destinatari di misure di custodia cautelare saranno dirottati altrove. Molto probabilmente al Sud. La circolare del ministero parla chiaro: “Non si garantisce che sia un istituto vicino”. L’ultimo arrestato, respinto due giorni fa, è stato trasferito al Beccaria di Milano. Anche nel penitenziario minorile lombardo è scoppiata una rivolta, a fine maggio, con 70 detenuti insorti. I danni sono stati ingenti. Il ragazzo piemontese è stato accolto qui soltanto perché ci sono state delle scarcerazioni negli ultimi giorni. Ma se così non fosse stato, i suoi familiari sarebbero dovuti andare a trovarlo a chilometri di distanza. Anche al carcere minorile di Catanzaro, dove è stato trasferito, il giorno dopo la rivolta di Torino della scorsa settimana, il sedicenne che aveva lanciato, il 21 gennaio 2023, la bici giù dai Murazzi colpendo Mauro Glorioso. Il giovane, condannato per il tenato omicidio, e difeso dall’avvocato Domenico Peila, è considerato uno dei promotori della rivolta torinese. È uno dei 15 detenuti indagati dalla procura dei minori guidata da Emma Avezzù. La procuratrice ipotizza il reato di devastazione e sta valutando le singole posizioni. Anche otto detenuti maggiorenni sono indagati per la rivolta che, nella stessa notte del Ferrante Aporti, è scoppiata al Lorusso e Cutugno. Si sospetta che la regia della doppia agitazione fosse unica. E che il tumulto delle Vallette fosse stato organizzato per disperdere le forze dell’ordine e consentire così ai detenuti minorenni di tentare la prima, grande evasione di massa della storia dal Ferrante Aporti. Un piano fallito. Ma che ha lasciato degli strascichi pesanti. Cose distrutte. Un’intera struttura non più del tutto agibile. Trasferimenti e detenzioni lontane dai familiari. Il primo detenuto respinto, due giorni fa, al Ferrante è un ragazzo di provincia. Fa parte di una delle cosiddette “baby gang”. È l’unico del gruppo, accusato di avere rapinato e picchiato un quasi coetaneo, a essere destinatario della misura di custodia cautelare del carcere. Era a piede libero. La sua vita è cambiata in poche ore. Prima le manette. Poi il carcere. E la trasferta forzata da Torino a Milano. È stato ancora fortunato. Chi verrà dopo di lui potrebbe finire a mille chilometri di distanza dalla famiglia. Monza. Laboratorio a perdere. Nella terra dei legnamè nessuno assume i detenuti-falegnami di Alessandro Salemi Il Giorno, 11 agosto 2024 La denuncia dei Radicali dopo il sopralluogo all’istituto di via Sanquirico. “A Monza nel carcere c’è una grande falegnameria quasi perfetta che potrebbe diventare il luogo di lavoro di un’azienda, che nella Brianza dei mobilifici avrebbe a disposizione macchinari e risorse: basterebbe che si sapesse e si trovasse il contatto”. Lanciano un appello molto chiaro i Radicali dopo la loro visita di mercoledì alla Casa circondariale di Monza. Una delegazione composta da Simona Giannetti, Emilio Colombo e Francesco Pasquariello, accompagnati dal consigliere comunale di Monza Paolo Piffer e dall’assessore alle Politiche sociali di Cologno Monzese Antonio Velluto con la consigliera comunale Maria Caroleo, ha ispezionato gli ambienti della casa circondariale di via Sanquirico. Uno dei temi su cui hanno battuto chiodo è proprio il lavoro, rilevando il paradosso di come nella patria dei legnamé, la Brianza, non si riesca a trovare un’azienda disposta a investire nell’attrezzata falegnameria del carcere monzese. Un punto in realtà sottolineato anche dalla direttrice dell’istituto penitenziario Cosima Buccoliero, che giovedì ha osservato come “la falegnameria del carcere con le sue macchine molto professionali ben si presterebbe a permettere un’attività lavorativa”, ma che “non si sta ancora riuscendo a trovare aziende del mobile e del legno disposte ad assumere detenuti per alcuni nodi non semplici da sciogliere”, come “la richiesta spesso di manodopera già formata, o la difficoltà di dare continuità al rapporto lavorativo del detenuto una volta che esce dal carcere”. Intanto la falegnameria carceraria ha già dato moltissimo in termini di formazione e nella realizzazione di prodotti di valore sociale. Nata per iniziativa di Cooperativa Sociale 2000 nel 2008, la falegnameria ha formato in questi 16 anni decine di detenuti, grazie agli insegnamenti di maestri falegnami. Attualmente a tenere dei corsi di falegnameria sono l’Iis Meroni di Lissone, con l’indirizzo di tecnico dell’industria del mobile e dell’arredamento - grazie a cui sono stati realizzati oggetti donati a Comuni brianzoli - e la Fondazione Casa dello spirito e delle arti di Arnoldo Mosca Mondadori, che impegna diversi detenuti nel realizzare rosari, con il legno recuperato dai barconi dei migranti. Lamezia Terme. Una “Seconda Chance” per i detenuti: “Coneria italiana” aderisce al progetto lametino.it, 11 agosto 2024 Un progetto di grande valenza educativo e sociale per favorire il reinserimento nel mondo del lavoro di detenuti a fine pena. Parliamo del progetto “Seconda Chance”, ideato dalla giornalista di La7, Flavia Filippi e che diffonde la legge Smuraglia (193/2000) la quale offre sgravi fiscali e contributivi a chi assume anche part time o a tempo determinato detenenti fuori dalle carceri. Una lodevole iniziativa che coinvolge anche Lamezia e vede protagonista Valentino Pileggi, ideatore di “Coneria Italiana”, gelateria anni 60 ad impatto zero. Pileggi, come altri imprenditori in Italia, è stato contattato dall’Associazione “Seconda Chance” a seguito del successo nazionale riscontrato grazie alla “Giornata Nazionale della Lira”. Lo scopo conclamato dell’evento è sempre stato quello di far rivivere i valori che si respiravano proprio negli anni ‘60: “ottimismo e fiducia”. Per questo motivo, “Seconda Chance”, ha chiesto proprio alla Gelateria vintage di voler “ridare fiducia a chi nella vita ha commesso degli errori” che lo hanno, nel tempo, portato a riflettere e ad avere una grande voglia di riscatto. “Come legale rappresentante di Coneria Italiana Srl - ha dichiarato Velentino Pileggi - sono onorato di poter offrire un’opportunità di lavoro a chi si è dimostrato seriamente convinto di volersi rimettere in gioco. Noi, abbiamo esaminato 5 detenuti (selezionati tra i più meritevoli) ed è stata scelta la persona più idonea a lavorare nella nostra squadra ma in realtà credo che tutti i candidati avrebbero potuto essere inseriti, con altri ruoli, in molte altre aziende”. Nei giorni scorsi, Pileggi ha fatto visita nel carcere di Siano a Catanzaro per un colloquio con alcuni detenuti. Uno di essi potrebbe essere accolto da “Coneria italiana” nell’esercizio commerciale di Lamezia Terme. Secondo quanto emerso, il candidato ha raccontato una storia molto toccante e ha dichiarato di voler cambiare vita per mostrare alla sua famiglia che si può ripartire da zero anche a 60 anni. Dal canto suo, tramite Pileggi, “Coneria Italiana” ha dato disponibilità immediata ad assumerlo. Ora la decisione definitiva spetterà al Tribunale di Catanzaro che dovrà decidere se autorizzare o meno il detenuto. Vi è da dire che a questa iniziativa hanno già aderito aziende del calibro di MC Donald’s Italia,La Fattoria della Piana, La Fabbrica di San Pietro in Vaticano, Istituto nazionale della Sanità, Bosch etc. per cui l’intero iter necessario ad attuare l’assunzione è già ampiamente collaudato. “Coneria Italiana” è la prima gelateria in Calabria ad aderire al progetto Seconda Chance. Cos’è Seconda Chance - Nata dall’attività della giornalista del TgLa7 Flavia Filippi, Seconda Chance è un’Associazione non profit del Terzo Settore costituita nel 2022. Oggi Seconda Chance è una solida struttura nazionale con referenti regionali e collaboratori in molte città. Centinaia le opportunità di lavoro procurate a detenuti, affidati ed ex detenuti. Il numero degli occupati è in costante aumento. L’Associazione porta anche formazione, sport, svago e altri tentativi di migliorare la condizione della popolazione carceraria. Seconda Chance ha un protocollo di collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che riconosce “la qualità dell’intervento capace di attivare, su diversi distretti del territorio, positivi accordi con il mondo dell’imprenditoria al fine di attuare percorsi di inserimento lavorativo extramurario a beneficio di persone detenute.” Teramo. I penalisti: “Servono interventi urgenti per il carcere di Castrogno” Il Centro, 11 agosto 2024 Una delegazione di avvocati in visita al carcere più sovraffollato della regione: “Invertire la rotta”. Al di là dei numeri, drammatici e ormai noti da tempo, c’è una certezza che emerge e che gli avvocati teramani mettono nero su bianco dopo la visita nel carcere di Castrogno in un’autenticità che va oltre le parole: “Realtà che fino in fondo non è nota agli operatori giudiziari, siano essi giudici o avvocati”. Nei giorni scorsi una delegazione della Camera penale e del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, nell’ambito della vertenza nazionale aperta dalle toghe proprio sull’emergenza del sovraffollamento e dei suicidi in carcere, è entrata a Castrogno in cui ci sono 400 detenuti a fronte di una capienza di 255, in cui gli agenti penitenziari sono 164 con organico previsto di 221, in cui dall’inizio dell’anno tre detenuti si sono tolti la vita. “Le difficoltà logistiche si accompagnano a un’altra grave criticità”, si legge nella nota della Camera penale Giuseppe Lettieri e del Consiglio dell’Ordine, “le carenze strutturali e di organico, carenze che riguardano innanzitutto gli agenti penitenziari, ma anche medici, psichiatri e operatori seriali. Una carenza insostenibile con un riverbero nel quotidiano di vita carceraria: la gestione dei rapporti con i detenuti è necessariamente lenta (le richieste possono essere esaminate solo a distanza di tempo). Non ricorrono percorsi lavorativi, educativi, di risocializzazione; basti pensare che l’unica biblioteca di cui il carcere dispone è chiusa proprio per l’insuperabile carenza degli agenti penitenziari. A questo ritmo di crescita della popolazione detenuta nel carcere teramano, senza una visione di insieme e un concreto intervento aziendale (un massiccio intervento di edilizia carceraria, un aumento di personale), la strada del fallimento umano e sociale è alle porte”. Celle piccole e senza acqua calda, docce comuni, frequenti blackout elettrici provocati dalle infiltrazioni d’acqua dal tetto e, scrivono gli avvocati, “per tacere sulla raccolta dei rifiuti e sulle modalità di pulizia degli ambienti”. Secondo i penalisti “bisogna invertire la rotta verso un cammino lungimirante e razionale: quello della seria depenalizzazione, quello della seria decarcerizzazione. Perché è così difficile incentivare il passaggio, nel modo più ampio possibile, dalla cella chiusa alla misura alternativa? È dimostrato che la recideva dei detenuti è tre volte e mezza superiore a quella di chi sconta la pena fuori dal carcere. Ogni giorno trascorso senza che siano attuati rimedi idonei a scongiurare la morte per malattia e per suicidi nei penitenziari non può che accrescere le responsabilità politiche e morali di quanti tale fenomeno hanno l’obbligo di affrontare con rimedi urgenti e inderogabili”. Mamone (Nu). Intervista a Delmastro: “La colonia penale agricola un toccasana per i detenuti” di Francesco Pirisi cronachenuoresi.it, 11 agosto 2024 Il potenziamento delle colone penali, quelle agricole, e il miglioramento dell’edilizia penitenziaria tra le questioni affrontate dal sottosegretario della Giustizia, Andrea Delmastro, in questi giorni in visita tra gli istituti di pena sardi. Tra i primi interventi garantiti il finanziamento (entro sei mesi) per riqualificare la caserma nella colonia penale di Mamone, tra i territori di Bitti e Onanì. La notizia da parte dell’esponente del governo Meloni durante la visita che ha fatto ieri, accompagnato dai deputati di Fratelli d’Italia, Salvatore Deidda, e Gianni Lampis. Mamone deve diventare una colonia agricola a tutti gli effetti. Ma l’obiettivo e il modello ancora non si vedono... “Si vede ancora poco, ma non è neppure vero che non si veda. Sicuramente quello delle colonie agricole è il modello che dobbiamo valorizzare. Perché il trattamento eseguito con il lavoro sappiamo che esclude o limita i casi di recidiva nel reato. I dati lo confermano: tra i detenuti che sono collocati al lavoro c’è solo il 2 per cento di “recidivanza”. Negli altri casi arriviamo al 70 per cento. Sono qui per studiare proprio queste realtà di colonie penale”. Rispetto a questi obiettivi e priorità, qual è la condizione a Mamone? “Parto con un impegno, che è quello di trovare entro sei mesi uno stanziamento per rimettere a posto la caserma. Questo perché il primo modo per aiutare il detenuto è quello di garantire il welfare, il benessere a uomini e donne della polizia penitenziaria”. Quali gli interventi per valorizzare le colonie penali, a partire proprio dalla Sardegna? “Dobbiamo stabilizzare il bisogno del detenuto, rispetto alla richiesta e alla possibilità che sconti la pena in una colonia di lavoro. Inserendo anche detenuti che hanno ancora un percorso lungo di carcerazione. Dobbiamo sapere qual è il loro numero e inserirli con rapidità. E allo stesso tempo essere in grado di allontanare coloro che invece scelgono la colonia penale unicamente con l’obietto di sfuggire al carcere. Questi sottraggono il posto a chi lo meriterebbe. Dobbiamo garantire la possibilità di vendere i prodotti delle colonie agricole. Sono convinto che quando strutture come questa di Mamone hanno la capacità di stare sul mercato, la scommessa è vinta. Certo per potenziare le colonie penali c’è bisogno di più personale penitenziario”. Sull’aumento degli organici aveva preso degli impegni lo scorso febbraio, durante una visita a Nuoro. Ci sono dei risultati? “Nei venti mesi dall’inizio del governo Meloni, abbiamo finanziato l’assunzione di 7mila agenti penitenziari. Se tutti coloro che mi hanno preceduto avessero finanziato le medesime assunzioni, oggi saremmo al sovra-popolamento degli agenti. E sono contento di avere trovato le risorse per altre 2mila extra-assunzioni. Questo significa che 2mila persone entrano oltre il “turn over” determinato dai pensionamenti. Le ultime mille sono all’interno del Dl carcere. Dov’ è previsto anche il commissario per l’edilizia penitenziaria, che garantirà che determinati interventi potranno essere fatti con meno vincoli burocratici”. La tempistica dei lavori qui a Mamone? “La cosa fondamentale è avere un quadro complessivo di quanto va fatto. Riguardo ai tempi occorrenti non sono in grado oggi di dare delle risposte. Questa comunque è la colonia penale più grossa d’Europa e la prendiamo come modello per tutte le altre strutture. Un modello che dobbiamo studiare in maniera approfondita. Le risorse sono l’ultimo dei problemi, una volta che si è individuato il modello vincente”. Sovraffollamento e suicidi. Quali soluzioni per arginare il fenomeno? “È un problema enorme. Stiamo puntando sull’edilizia penitenziaria. Nel passato al sovraffollamento seguiva un provvedimento di svuota carceri. Ma lo stretto fiumiciattolo del già visto e già vissuto non sembra abbia prodotto nulla di positivo. Per l’edilizia penitenziaria in 20 mesi abbiamo stanziato più di 255 milioni di euro. Secondo una prima prudenziale stima del ministero della Giustizia, insieme con il ministero delle Infrastrutture, con questi interventi si recupereranno circa 7mila dei 10mila posti che mancano”. 11 giorni, il racconto dei detenuti: “Diventi un numero e finisci come una sardina in scatola” di Gabriella Cantafio vanityfair.it, 11 agosto 2024 Il tasso di affollamento nelle carceri italiane è del 130,4%. Si va oltre il 200% nel bresciano Canton Mombello. Qui è stata girata la web serie documentaristica con la regia di Nicola Zambelli. Circa 4.000 detenuti in più in soli 12 mesi: il livello di sovraffollamento raggiunto nelle carceri italiane è ormai ai livelli di guardia. Lo attesta un dossier presentato dall’associazione Antigone, che da oltre 30 anni si occupa del sistema penitenziario e penale italiano. Il tasso di affollamento è del 130,4%. In 56 istituti penitenziari, oltre un quarto di quelli presenti in Italia, è superiore al 150%, con punte di oltre il 200% negli istituti di Milano San Vittore maschile e Brescia Nerio Fischione, meglio noto come Canton Mombello. Proprio in questa casa circondariale, che attualmente ospita 330 detenuti in uno spazio con limite massimo di capienza che non arriva a 190 posti, è stata girata la web serie documentaristica 11 giorni con la regia di Nicola Zambelli. “L’idea è nata da un’iniziativa non violenta di un gruppo di detenuti del Canton Mombello, che hanno scritto una lettera al Presidente Mattarella per mostrare le condizioni di vita nel penitenziario più affollato d’Italia. All’interno di un percorso educativo volto alla creazione di momenti di riflessione, abbiamo trovato una modalità innovativa per arrivare al mondo dei più giovani. Il laboratorio allestito tra le mura carcerarie ha permesso la raccolta di materiali testuali e audio interviste che hanno costituito la traccia orale del racconto racchiuso nella webserie” così Zambelli illustra l’origine del documentario composto da 33 episodi di un minuto l’uno, pubblicati nell’arco di 11 giorni sulla pagina Instagram (@11.giorni) e disponibili in un’unica opera anche su OpenDDB. Stanzoni da 16 letti invasi da scarafaggi e topi che salgono dalle vecchie tubature dei bagni. Celle con grate arrugginite, in cui si gela d’inverno e si soffoca d’estate. Carenza di agenti ed educatori, ma presenza costante della violenza. Sono soltanto alcune delle condizioni indegne in cui sono costretti a vivere i detenuti. “Quando varchi il grosso cancello di ferro, vieni sovrastato dalla paura, dalla sensazione di vuoto. Diventi un numero e finisci come una sardina in scatola, ammassato con altri 60 detenuti in una sezione, in un corridoio lungo circa 30 metri”: è una delle testimonianze dei detenuti protagonisti di 11 giorni. Non appaiono in volto, a riecheggiare negli spazi angusti è la loro voce, la loro sofferenza. “È una scelta voluta quella di non farli apparire incastrandoli nel loro ruolo di detenuto. Focalizzandoci sulle loro voci, abbiamo garantito che il racconto avvenisse con maggiore spontaneità, senza il peso della telecamera puntata in faccia” ci tiene a precisare il regista che, per raggiungere maggiormente i giovani, ha optato per un linguaggio innovativo. Ogni episodio, presentato in formato verticale 9:16 per la visione su cellulare, sfida il confine tra carcere e libertà, offrendo uno sguardo profondo e autentico sulla quotidianità di chi vive dietro le sbarre. “Attraverso uno smarphone speriamo di condurre più persone possibili in un posto così lontano nella nostra vita, ma anche così vicino geograficamente come il carcere di Brescia, che è a pochi passi dalla piazza degli aperitivi” dice. E spiega anche la scelta del titolo: “è un numero che simboleggia le sbarre. Moltiplicando il numero 11 per tre, che è il numero delle colonne del feed di Instagram, esce 33, con un evidente richiamo al numero dei canti dell’Inferno di Dante. Ci siamo ispirati al viaggio nell’inferno dantesco per articolare il racconto dei nostri capitoli: ogni capitolo, ovvero un canto, ha un proprio tema e, dall’ingresso tra le mura, il racconto si spinge nelle profondità del carcere per poi uscirne, speriamo, con un insegnamento. Ci auguriamo sia un viaggio catartico per chi guarda e ascolta”. Zambelli è riuscito a costruire un rapporto di fiducia con i detenuti, mettendo a loro disposizione la sua arte non solo come strumento di denuncia, ma anche e soprattutto come occasione di salvezza. “La sola denuncia, in un “mondo in fiamme”, serve a poco. Ora credo sia più impellente immaginare un mondo nuovo per provare a costruirlo insieme. In tal caso, l’arte può aiutare a mediare tra molteplici sguardi in maniera sinestetica, per costruire uno specchio nel quale guardarci, incontrare l’Altro ed evolvere” evidenzia il regista, fiero di aver portato 11 giorni anche alla Camera dei deputati, in consiglio comunale a Brescia e in varie scuole d’Italia, stimolando un dibattito e una presa di coscienza. Come affermato dal Presidente della Repubblica, dopo aver letto la lettera in cui i detenuti ammettono la consapevolezza di essere l’ultima categoria a suscitare l’interesse di qualcuno, “il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza. Non va trasformato, in questo modo, in palestra criminale”. Per tale motivo, mentre, purtroppo, il numero dei suicidi in carcere aumenta in modo preoccupante, il documentario aiuta ad alzare la voce e a chiedere interventi urgenti alle istituzioni. Frattanto, il giorno di Ferragosto, nel carcere di Canton Mombello a Brescia, e in contemporanea alla stessa ora in altre carceri italiane, si terrà una “battitura” di mezz’ora, ovvero una protesta pacifica durante la quale i detenuti, sbattendo pentole e suppellettili contro porte e sbarre, cercheranno di richiamare l’attenzione sulle condizioni disumane in cui vivono, sul problema del sovraffollamento e dei suicidi. “Bisogna alleggerire la pressione sulle carceri, trovare forme alternative di pena per non appesantire un sistema al collasso, specialmente per quanto riguarda i primi ingressi, gli autori di reati minori o persone con disagio psichico e dipendenze da sostanze stupefacenti” commenta Zambelli, deciso a proseguire il viaggio per offrire una lente d’ingrandimento originale su un universo spesso trascurato e aprire le porte a una riflessione profonda sulla giustizia e sulle connessioni umane. Il fine vita, la Chiesa e il diritto di scegliere di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 11 agosto 2024 Monsignor Vincenzo Paglia, autorevole presidente della Pontificia Accademia della Vita, in varie interviste rese per illustrare il Piccolo Lessico del Fine-Vita, ha indicato la posizione della Chiesa cattolica. Ne risulta il mantenimento della visione sociale, relazionale della persona, da non considerare individualmente e del valore in sé di ogni vita umana. Consegue l’inammissibilità di qualsiasi forma di suicidio assistito o di eutanasia. Da evitare è però l’accanimento terapeutico, che irragionevolmente si ostini ad ostacolare il naturale corso della vita e della morte. L’accompagnamento dell’ammalato con la terapia del dolore e le cure palliative, può essere efficace alternativa ad ogni ipotesi di eutanasia o aiuto al suicidio. Non vi è alcuna novità rispetto a quanto già in passato affermato. È invece importante quanto monsignor Paglia indica, come atteggiamento da assumere sul terreno della elaborazione legislativa: nel senso della disponibilità a collaborare, per raggiungere un punto di mediazione accettabile, con un accordo più ampio possibile che tenga conto del bene delle persone e delle diverse sensibilità presenti in una società pluralista e democratica. Nessun arroccamento, dunque, insensibile alle altrui istanze. Il contrasto all’accanimento terapeutico è fuori discussione, così come il ricorso alle cure palliative. Sia la legge n. 219 del 2017, sia il Codice di deontologia medica già prevedono che il medico debba astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione di trattamenti inutili o sproporzionati. Il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente. E la legge n. 38 del 2010 contiene disposizioni dirette a garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore. Non vi è quindi, su queste questioni, ragione di contrasto. Serio è però per lo Stato il problema della effettiva disponibilità di tali cure per tutti. Ma la possibilità di ricevere terapia antidolore, cure palliative, sedazione profonda fino a che morte non sopraggiunga, corrisponde a un diritto del malato, non a un obbligo di accettarle. In tal senso la legge n. 219, che discende dall’art. 32 della Costituzione, è ben chiara: nessun trattamento medico può essere praticato se non vi è consenso di chi lo riceve. È questo il punto nodale, che impedisce di obbligatoriamente sostituire l’offerta di quei trattamenti medici antidolore alla richiesta di aiuto a morire. Non si risolve così la questione delle modalità di fine-vita: decisiva resta la definizione della portata del diritto alla autodeterminazione. Nell’ambito dell’Unione europea diverse legislazioni nazionali e Corti costituzionali (Germania, Austria, Spagna) muovono dalla premessa che il come e quando lasciare la vita rientra nel diritto di libertà della persona. In tal senso si è più volte pronunciata anche la Corte europea dei diritti umani, che pur riconosce agli Stati un margine di apprezzamento nel disciplinare la materia. Non si può evitare di affrontare il tema della volontà di morire, che deve esser libera e consapevole. Tema gravissimo e difficile, che viene invece sottostimato quando la soluzione viene cercata definendo un’area esclusiva di oggettive condizioni mediche in cui la volontà di morire può essere accolta. Così ha fatto la Corte costituzionale, isolando l’Italia in Europa. Recentemente poi la Corte ha dovuto impegnarsi su un problema derivante dalla soluzione da essa stessa adottata. E, correggendo sé stessa, ha dovuto, ridefinire (per fortuna annacquandola) la condizione che la persona che chiede aiuto al suicidio sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale. Ma a rendere difficile il dialogo preannunciato da monsignor Paglia non sono i dettagli delle situazioni di fatto considerate dal legislatore (o dalla Corte costituzionale, che ne prende il posto nella sua perdurante assenza). Il contrasto profondo riguarda il posto che si è disposti a riconoscere al diritto alla autodeterminazione. Essa, una volta accettata, pone problemi di non poco conto, come sono quelli della “qualità” della volontà di morire, non necessariamente motivata dal solo dolore sofferto o temuto. Rispetto ad esso l’offerta (non l’imposizione) delle cure antidolore e palliative può essere una risposta in molti casi. Essa concorre ad assicurare una vera libertà di chi decide di porre fine alla propria vita: una libertà che è ristretta se non vengono offerte alternative. Significativo è il recente andamento della discussione svoltasi in Francia su ipotesi di allargamento dei casi ammessi di aiuto al suicidio e di eutanasia. Insieme al disegno di legge governativo è stato discusso quello che garantisce (e finanzia) le cure palliative. Il liberale riconoscimento dello spazio dovuto al diritto alla autodeterminazione rimane il vero terreno di contrasto. Se la vita ha sempre valore, in ogni condizione; se essa è sempre degna; se la sua “dignità” è oggettiva, come ha creduto di poter affermare (e imporre) la Corte costituzionale nella sua recente sentenza, lo spazio per la valutazione e la libertà individuale viene escluso, sostituita dall’autoritaria imposizione del punto di vista della autorità, religiosa o statale che sia. Non più diritto di vivere, ma dovere. In linea di principio questa tesi ha purtroppo già trovato apertura in sede istituzionale, con la posizione espressa dalla Corte costituzionale. Ma il pluralismo ideale nella materia vive liberamente, fino al conflitto, nella società. Ogni irragionevole chiusura non garantirà maggior tutela della vita. Alternativa a forme e metodi umani di morire non sarà la scelta di vivere, ma, per chi sia ancora capace di agire, la disperata opzione per forme crudeli, violente, umilianti di abbandono di una vita che più non si sopporta. Medio Oriente. Prigionieri palestinesi, il report delle torture di Francesca Mannocchi La Stampa, 11 agosto 2024 Umiliazioni e abusi. È quanto emerge dai rapporti dell’Onu e della ong israeliana B’Tselem. Una deriva guidata dal ministro per la Sicurezza Ben Gvir: “Li affamerò”. “Siamo stati portati a Megiddo. Quando siamo scesi dall’autobus, un soldato ci ha detto: “Benvenuti all’inferno”“. Con queste parole si apre il rapporto sulla condizione dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, diffuso dal gruppo israeliano in difesa dei diritti umani B’Telem la settimana scorsa. A parlare è Fouad Hassan, 45 anni, padre di cinque figli e residente a Qusrah, nel distretto di Nablus e trattenuto nella tristemente nota prigione di Megiddo. La sua è solo una delle decine di voci raccolte da B’Tselem, che conclude che il governo israeliano stia “commettendo torture che equivalgono a crimini di guerra e persino a crimini contro l’umanità” nelle carceri. Un rapporto di 118 pagine, intitolato Welcome to Hell (Benvenuti all’inferno) che si basa su 55 testimonianze di ex detenuti della Striscia di Gaza, della Cisgiordania occupata, di Gerusalemme Est, quasi tutti trattenuti in carcere senza processo. Tutti le testimonianze descrivono una campagna e una politica sistematica di abusi e torture: “Frequenti atti di violenza grave e arbitraria; aggressioni sessuali; umiliazione e degradazione, fame deliberata, privazione del sonno, divieto e misure punitive per il culto religioso, confisca di tutti i beni comuni e personali, e negazione di cure mediche”. Scrivono i ricercatori di B’Tselem che “gli intervistati hanno descritto gli abusi con dettagli orribili e somiglianze agghiaccianti”, sia in strutture civili che militari. Abusi che in meno di dieci mesi hanno provocato la morte di almeno 60 palestinesi sotto custodia israeliana. Secondo B’Tselem l’istituzionalizzazione, la natura sistematica degli abusi in tutte le strutture menzionate dai detenuti palestinesi non lascerebbe dubbi sul fatto che tali condotte equivalgano a una “politica organizzata e dichiarata delle autorità carcerarie israeliane”. La direttrice esecutiva di B’Tselem, Yuli Novak, dopo l’uscita del rapporto ha dichiarato che il governo Netanyahu abbia “sfruttato cinicamente il trauma collettivo del 7 ottobre per mettere in pratica l’agenda razzista e violenta del ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir”, che supervisiona le autorità carcerarie. Ha aggiunto: “Questo governo ci ha portato a un livello morale minimo storico, dimostrando ancora una volta il suo totale disprezzo per le vite umane, degli ostaggi israeliani a Gaza, degli israeliani e dei palestinesi che vivono la guerra in corso e dei palestinesi detenuti nei campi di tortura”. “Durante l’interrogatorio, mi chiedevano: “Dov’è Sinwar? “. Rispondevo che non lo sapevo. Il soldato disse: “Confessa, così puoi tornare a casa”. La soldatessa in piedi dietro di me mi mise un dispositivo elettrico sul collo e ricevetti una scossa elettrica che mi spinse a due metri di distanza”. ‘Dalla testimonianza di Rushdi Zaza, 30 anni, padre di due figli e residente nel quartiere di a-Zeitun a Gaza City, detenuto nella prigione di Negev (Ketzio) Il rapporto Onu - Anche l’Onu, negli stessi giorni, ha pubblicato un rapporto sulle carceri israeliane che conferma le conclusioni di B’tselem: “I detenuti hanno affermato di essere stati tenuti in strutture simili a gabbie, spogliati nudi per periodi prolungati, indossando solo pannolini. Le loro testimonianze parlavano di bende sugli occhi prolungate, privazione di cibo, sonno e acqua, e di essere stati sottoposti a scosse elettriche e ustioni con sigarette”, è quanto si legge in un recente rapporto che anche le Nazioni Unite hanno stilato e diffuso sulla condizione delle carceri israeliane. Secondo gli esperti dell’Onu i palestinesi prelevati da Gaza e dalla Cisgiordania occupata, detenuti nelle prigioni israeliane dopo il 7 ottobre hanno subito waterboarding, privazione del sonno, torture con i cavi elettrici, sono stati aggrediti dai cani, e afferma anche che Israele non abbia fornito informazioni né sulla loro sorte né sulla prigione cui sono stati effettivamente destinati. Né alle organizzazioni umanitarie, né alle agenzie Onu, né alla Croce Rossa cui pure è stato negato l’accesso alle strutture. Volker Turk, a capo dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha detto: “Le testimonianze raccolte dal mio ufficio e da altre entità indicano una serie di atti spaventosi in flagrante violazione del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario”. Motivo per cui i risultati del rapporto potrebbero essere utilizzati dai procuratori della Corte penale internazionale che stanno indagando sui crimini commessi nella feroce campagna militare in corso a Gaza. Il rapporto Onu è stato inviato a Israele, la polizia carceraria, consultata da Associated Press per un commento, non ha ritenuto rispondere. Il Ministero da cui dipende, quello della sicurezza nazionale, è presieduto dall’ultranazionalista Itamar Ben Gvir, che non ha mai nascosto di aver scientemente peggiorato le condizioni dei detenuti. Da tempo chiede pene più severe. Inclusa la pena di morte per i palestinesi detenuti con accuse di terrorismo. “Durante le visite, ci hanno spiegato i metodi di repressione e tortura usati contro di noi. Li hanno portati nelle celle e ci hanno costretti a tenere la testa bassa, così non abbiamo visto i visitatori. Una volta ci hanno detto che Ben Gvir era lì in persona. Quelle visite umilianti duravano almeno 40 minuti ciascuna e per tutto il tempo dovevamo inginocchiarci. A volte i visitatori prendevano parte attiva nell’umiliarci, imprecare e urlare contro di noi”. Dalla testimonianza di Musa Aasi, 58 anni, padre di cinque figli e residente a Ramallah, che è stato trattenuto nel centro di detenzione di Etzion e nelle prigioni di Nafha, Ofer e Negev (Ketziot), dal report di B’tselem La fame come deterrente - A giugno scorso il ministro Ben Gvir aveva dichiarato di aver ordinato una riduzione della quantità di cibo per i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Non era la prima volta, si trattava infatti di una riduzione ulteriore che si sommava a quelle già precedentemente approvate. Dopo il 7 ottobre Ben Gvir si era vantato di aver chiuso le mense per i prigionieri di sicurezza, e ordinato che non venisse distribuita carne ai prigionieri, riducendo già significativamente la quantità di cibo loro somministrata. Molti dei detenuti rilasciati nei mesi successivi avevano perso decine di chili, e varcato il cancello di uscita delle carceri con un aspetto irriconoscibile. Il consulente legale del Prison Service (organo anch’esso sotto il controllo del ministero della sicurezza nazionale, quindi di Ben Gvir), Eran Nahon, a maggio, alla convention dell’Israel Bar Association aveva annunciato che le razioni alimentari dei prigionieri sarebbero state ulteriormente, sistematicamente ridotte: “Riceveranno il minimo richiesto dalla legge, nemmeno un grammo in più. Questo è uno scopo di sicurezza, ma non escludo che potrebbe essere una politica”. E infatti lo era e lo è diventata sempre di più. Dopo aver raccolto decine di testimonianze (molte provenivano da persone che sono state arrestate ma non sono mai state processate), l’Associazione per i diritti civili in Israele (Acri) ha presentato una petizione alla Corte di Giustizia, contestando le restrizioni alimentari in tribunale e sostenendo che equivalgono ad affamare volontariamente i detenuti. Ben Gvir ha risposto così: “La mia politica richiede di ridurre le condizioni, tra cui cibo e calorie. Non è fame, è una misura deterrente”. L’assalto alla base militare - Il 29 luglio scorso un gruppo di manifestanti legati all’estrema destra sionista, accompagnati e incoraggiati da politici e membri del governo ultranazionalisti, hanno assaltato la base militare di Sde Teiman, che le organizzazioni per i diritti umani chiamano “la Guantanamo israeliana” e un’altra base sede del tribunale militare delle Forze armate israeliane. A Sde Teiman sono detenuti i prigionieri legati ad Hamas e i sospettati arrestati a Gaza e portati lì per essere interrogati, secondo il quotidiano Haaretz sono trenta i detenuti morti nella struttura dal 7 ottobre. Gli scontri erano cominciati con l’arresto, da parte delle forze armate di Tel Aviv, di nove riservisti della Forza 100, un’unità dell’esercito israeliano responsabile della supervisione dei detenuti palestinesi e della repressione delle rivolte nelle prigioni militari. Da ottobre, l’unità ha anche gestito la base militare di Sde Teiman, dove sono detenuti i palestinesi arrestati nella Striscia di Gaza. I nove riservisti e un comandante dell’unità sono accusati di aver picchiato, torturato e sodomizzato un presunto agente dell’unità di élite di Hamas, Nukhba, detenuto nella struttura. L’uomo in questione era stato portato d’urgenza all’ospedale con una perforazione intestinale, una grave ferita all’ano, danni ai polmoni e costole rotte. Il medico che lo ha visitato, il professor Yoel Donchin, intervistato da Haaretz sconvolto, ha detto: “Non riuscivo a credere che una guardia carceraria israeliana potesse fare una cosa del genere. Il mio dovere è verso i pazienti, se lo Stato e i membri della Knesset pensano che non ci siano limiti a quanto si possano abusare dei prigionieri, dovrebbero ucciderli loro stessi, come fecero i nazisti, o chiudere gli ospedali. Se mantengono un ospedale solo per difendersi alla Corte penale internazionale dell’Aia, non va bene”. Dopo l’arresto dei nove soldati, accusati delle torture e dello stupro, i manifestanti hanno fatto irruzione nella base nel tentativo di liberare i riservisti, e hanno accusato l’avvocato generale militare, che ha ordinato gli arresti, di essere un “criminale e un traditore di Israele”. Tra i manifestanti, membri della Forza 100 a volto coperto, kahanisti, giovani coloni dalla Cisgiordania occupata, e sostenitori delle frange più estremiste del governo. Ad accompagnarli non c’erano, tra gli altri, il parlamentare Tzvi Succot (del partito Sionismo Religioso) e il ministro del Patrimonio Amichai Eliyahu, che è stato registrato mentre urlava “Morte ai terroristi”. Un tempo questi gruppi erano minoranza politica, oggi sono al governo. Non solo, uno dei ministri di riferimento, Itamar Ben Gvir, è a capo del Ministero della Sicurezza Nazionale, cioè quello responsabile delle prigioni. La polizia israeliana, che è sotto l’autorità diretta del ministro della Sicurezza Nazionale Ben-Gvir, è rimasta relativamente passiva durante gli assalti alle basi, quasi solidale, e non ha arrestato né identificato nessuno dei manifestanti. Il giorno dopo l’assalto, il quotidiano israeliano Haaretz, aveva in prima pagina un editoriale allarmato, in cui si legge: “In questo mondo capovolto, il problema non sono i riservisti che avrebbero abusato di un detenuto, non i soldati che si sono barricati all’interno della struttura e hanno rifiutato l’ordine della Polizia militare di andarsene, non i parlamentari che avrebbero fatto irruzione nella base, non gli ufficiali di polizia che sono rimasti a guardare, non i ministri che si sono precipitati a esprimere sostegno ai riservisti ma piuttosto l’ufficio dell’avvocato generale militare”. I due ministri ultranazionalisti del governo Netanyahu Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich hanno sostenuto le tesi degli assaltatori. Per loro l’ordine di arresto “stava umiliando i soldati che affrontano i terroristi”, era legittimo appoggiare i rivoltosi, perché “l’avvocato generale militare deve togliere le mani dai nostri eroici combattenti”, così il ministro Smotrich il giorno dell’assalto. Attualmente nelle prigioni israeliane ci sono 10mila palestinesi. Molti non sanno perché sono lì. La maggioranza non ha accesso a un legale, non può avere contatti con il mondo esterno. Tra loro persone detenute per aver espresso compassione per la sofferenza dei palestinesi, o uomini portati via da Gaza - tra i 3500 e i 5 mila - e imprigionati perché ritenuti, semplicemente, in età da combattimento. Venezuela. Povertà e repressione, un Paese in rivolta di Emiliano Guanella La Stampa, 11 agosto 2024 Ci sono luoghi che ti segnano per la quantità di volte che li hai visitati ma anche per l’intensità delle esperienze che hai vissuto. Sono arrivato a Caracas ad una settimana dalle elezioni presidenziali più importanti della storia recente del Venezuela. È il mio quindicesimo viaggio in questo Paese, ma l’atmosfera è più pesante del solito, una strana mescolanza di incertezza e speranza, di timori e coraggio. L’autostrada che dal mare ti porta in città è più vuota del solito. La benzina, che prima veniva regalata, oggi costa mezzo dollaro al litro, un’enormità in un Paese dove il salario minimo è di 3,6 dollari. E poi c’è la diaspora, l’esodo massiccio di chi è scappato dalla crisi che fustiga da tempo questa nazione. Secondo l’Onu sono emigrate 7.7 milioni di persone, il 22% della popolazione. Uno su quattro è partito, molti in America Latina, anche se sono sempre quelli che cercano di entrare via Messico negli Stati Uniti. I venezuelani sono ovunque, fanno gli autisti di Uber a Santiago del Cile o Buenos Aires, i camerieri a Quito, Bogotà, San Paolo, fanno di tutto a Miami o Madrid. Un pezzo di patria che se n’è andato, con le arepas e i ricordi, la rabbia e la tristezza. Seguo il chavismo dal 2004, anno in cui l’opposizione cercò con un referendum di mettere fine al governo di Hugo Rafael Chavez Frias. Il comandante era acclamato dal suo popolo, forte dei piani assistenziali per i ceti popolari, finanziati dall’enorme rendita petrolifera. Le “missioni” bolivariane con i medici cubani, i supermercati a prezzi popolari, le organizzazioni di quartiere e molta coscienza di classe. Ricordo la mattina passata al popolare quartiere de La Vega, scortato dai “colectivos”, i gruppi di appoggio alla rivoluzione che col tempo sarebbero diventati il simbolo della repressione in borghese del regime. Chavez riuscì a neutralizzare tutti i tentativi, leciti e meno leciti, di rovesciarlo; scioperi, golpe, proteste. L’ultimo colpo di mano è stato il “presidente alternativo” Juan Guaidò, una storia da realismo magico sudamericano che non ha portato a nulla; oggi è anche lui emigrato, insegna Miami, fa politica solo via social media. Il potere, però, logora, soprattutto se perdi completamente il contatto con la gente. Hugo Chavez è morto nel 2013, ma nel suo sistema esisteva già corruzione e arbitrarietà, con una forte presenza militare e una censura crescente. La crisi economica ha fatto il resto, provocata dalla caduta del prezzo del petrolio, la sanzioni ed una serie colossale di errori, come l’esproprio di diverse industrie private. L’attuale presidente Nicolas Maduro avrebbe fatto volentieri a meno di andare alle urne, ma ha dovuto rispettare gli accordi presi per ottenere l’alleggerimento delle sanzioni di USA e UE. Nel 2018 l’opposizione decise di non presentarsi per timori a brogli elettorali, questa volta ha deciso di esserci, con la leader Maria Corina Machado e il candidato ufficiale Edmundo Gonzalez Urrutia. La loro campagna è stata una corsa ad ostacoli. Hanno girato il Venezuela in auto perché nessuna compagnia aerea li accettava a bordo per paura di ritorsioni da parte del governo. Sono stati vigilati costantemente tanto che Maria Corina ha mandato parte del suo staff, sei persone in tutto, in asilo presso l’ambasciata argentina di Caracas. I giorni che hanno preceduto il voto sono stati di massima tensione. Per strada solo la propaganda di Maduro, ma lo scontento rispetto al governo era dominante presso i ceti popolari. Non è una guerra ideologica, ma di pancia, cuore, ragione. Mentre Maduro invoca alla lotta contro l’imperialismo americano, nei barrios la gente fa i conti con i salari che non bastano, con l’acqua che c’è mezz’ora al giorno, la luce che va e viene. Su tutto, poi, la disintegrazione delle famiglie, madri sole, che non conoscono i loro nipotini nati all’estero. Mairin Reyes ha fatto di questo un’attività, creando l’impresa “Soluciono por ti” (Lo risolvo per te), che si occupa di svuotare ed organizzare gli appartamenti lasciati soli da chi è emigrato. La incontro in un appartamento a San Bernardino, i proprietari sono in Spagna dal 2019. Filma tutto, fa un inventario di foto, documenti, vestiti per poi ricevere istruzioni sul da farsi. “Sto molto attenta perché so quanto può essere doloroso tutto questo per chi è emigrato. Ogni oggetto conta, un piccolo vaso di porcellana può essere il ricordo del battesimo di un figlio, un certificato in un cassetto può servire per rinnovare un titolo di studio, una fotografia ingiallita è il ricordo della nonna appena deceduta”. Suo figlio vive da sei anni a Chicago, quando le chiedo come vede il futuro mi risponde come fanno molti altri. “Se il chavismo perde non sono sicura che mio figlio tornerà, ma sono certa che se Maduro verrà rieletto lui rimarrà negli Stati Uniti”. Visito una sezione del PSUV, il partito socialista. Mancano un paio d’ore al comizio di chiusura di campagna e tre militanti stanno controllando la lista dei vicini del quartiere iscritti al programma dei CLAPS, le borse di cibo date dal governo. Se non si presentano, si va a cercarli a casa; chi riceve riso e fagioli gratis è obbligato a manifestare per la rivoluzione. Airin ha 31 anni ed è cresciuta a pane e chavismo. “Maduro è all’altezza dell’eredità di Chavez, ha resistito all’embargo statunitense, alla pandemia, alla destra fascista. Vinceremo, il popolo è con noi”. Atmosfera diversa a Las Mercedes, per l’ultimo bagno di folla di Edmundo Gonzalez. In piazza molti giovani e giovanissimi e molti anziani, lo specchio della piramide demografica stravolta dall’emigrazione. In prima fila i famigliari dei 300 prigionieri politici ancora in carcere, con un grande striscione con i loro volti. Assieme a loro Sairam Rivas, che conosce bene la mano dura del regime: era dirigente del movimento degli studenti quando nel 2014 fu arrestata e tenuta per cinque mesi nell’Helicoide, il carcere politico, suo padre è morto mentre lei era detenuta. “Maduro regge solo grazie ai militari, ma non può continuare così. Se faranno dei brogli saremo pronti a lottare”. #HastaelFinal (fino alla fine) è stato l’hastag dell’opposizione, ma la doccia fredda la domenica del voto è stata molto dura per tutti. Non hanno creduto ai dati forniti dal Corte elettorale che ha proclamato rieletto Maduro. Il giorno dopo moltissimi sono scesi in piazza, i giovani hanno distrutto le statue di Chavez, a Caracas hanno cercato addirittura di marciare verso il Palazzo presidenziale di Miraflores. La risposta del regime non si è fatta attendere, con l’esercito, la polizia e i colectivos per strada. A Petare gli agenti hanno sparato verso le case da dove proveniva il suono dei cacerolazos, le proteste a suon di pentole e coperchi. Le proteste continuano, la ong “Foro Penal” parla di poliziotti che vanno a cercare a casa i ragazzi filmati per strada, migliaia gli arresti e diverse persone scomparse. Maduro ha rotto i ponti con diversi governi sudamericani, ha chiuso i collegamenti aerei ed espulso giornalisti e osservatori stranieri. La Machado chiama alla resistenza pacifica, ma la paura è tanta. Gli emigrati invitano i loro cari alla prudenza: “ Mandateci le denunce, le pubblichiamo noi sui social”. Il Venezuela è tornato a fare notizia, dividendo la comunità internazionale. Restare a Caracas è pericoloso per chi vuole informare, ma non si può smettere di raccontare quello che succede. C’è chi vede nella dura repressione l’ultimo colpo di coda di un regime agli sgoccioli e chi invece teme di diventare un nuovo Nicaragua o una nuova Cuba. Nessuna notte è eterna, ma il presente per il Venezuela è più cupo che mai.