Inferno carcere tra battiture, dialogo e il rischio rivolte di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 agosto 2024 Il Dap invita i direttori a stare in allerta. Bernardini: sanno di non aver fatto nulla e temono le conseguenze. Al carcere di Canton Mombello, giovedì scorso è stata sospesa la battitura con pentole e utensili da parte dei detenuti. Parliamo del secondo carcere più sovraffollato d’Italia, che da tempo è al centro di condizioni di vita inumane: sovraffollamento, caldo, presenza di cimici e scarafaggi nelle celle, una struttura ottocentesca dove vengono rinchiuse persone come sardine. La battitura era stata annunciata dall’urgente necessità di denunciare le condizioni disumane e degradanti, i detenuti hanno scelto la via del dialogo come suggerito dalla Garante locale per evitare che la questione possa degenerare. In serata c’è stato comunque il presidio di esponenti della politica locale e nazionale. Se però a Canton Mombello, per ora, si è evitata la battitura, la stessa cosa non è avvenuto in altre carceri come quelle campane. In particolare, tra le mura di Poggioreale si è svolta la particolare forma di protesta scelta per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e delle autorità. Proprio il carcere di Napoli, con i suoi 2600 detenuti sui 1200 posti disponibili, è considerato cartina al tornasole di un problema che travalica i confini della Campania. La battitura è durata da mezzogiorno a mezzogiorno e 30. È intervenuto il Garante regionale e portavoce della rete dei garanti territoriali, Samuele Ciambriello, denunciando che il decreto carceri approvato sia una scatola vuota, dove non c’è nulla di concreto. “Quando c’è un decreto di emergenza - sottolinea Ciambriello - uno si aspetta che subito ci sia un po’ di liberazione anticipata, arresti domiciliari, ma tutto questo non c’è”. Sovraffollamento, suicidi (siamo arrivati a 65 dall’inizio dell’anno), dignità durante lo stato di detenzione. Nulla di tutto questo. L’inizio di agosto ha portato con sé una drammatica escalation di suicidi nelle carceri italiane. In soli sette giorni, quattro detenuti hanno deciso di togliersi la vita, portando il bilancio dall’inizio dell’anno a 65 vittime. Questi numeri allarmanti evidenziano una crisi profonda nel sistema penitenziario nazionale, con cifre che non si registravano dal 1992. Mentre l’emergenza si intensifica, il decreto legge sulle carceri che non affronta adeguatamente le problematiche più urgenti. Come denuncia l’associazione Antigone, il provvedimento prevede lo stanziamento di oltre un milione di euro in 18 mesi per il funzionamento del commissario all’edilizia penitenziaria e l’assunzione di 1.000 agenti penitenziari entro il 2026, misure che appaiono insufficienti considerando che serviranno principalmente a coprire i pensionamenti. Antigone aveva proposto soluzioni alternative, come l’investimento del milione di euro per aumentare la disponibilità di telefoni nelle carceri e liberalizzare le chiamate, misure che potrebbero alleviare l’isolamento dei detenuti e potenzialmente ridurre il rischio di suicidi. Inoltre, l’associazione sottolinea la necessità di assumere non solo agenti, ma anche altre figure professionali cruciali per il benessere dei detenuti: educatori, psicologi, assistenti sociali, mediatori culturali, psichiatri, medici e infermieri. A questo si aggiunge la mancanza di misure deflattive. In questo contesto, emergono nuove dichiarazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che hanno scatenato un acceso dibattito. Secondo quanto riportato, il ministro avrebbe affermato che circa 5.000 detenuti potrebbero uscire immediatamente dal carcere se la magistratura di Sorveglianza decidesse tempestivamente su misure alternative o liberazione anticipata. Il Partito Radicale, per voce del segretario Maurizio Turco e della tesoriera Irene Testa, ha denunciato pubblicamente questa situazione, acquistando persino mezza pagina sul quotidiano La Repubblica. La loro critica si concentra sulle condizioni in cui versa la magistratura di Sorveglianza: 230 magistrati, con uffici sottorganico del 50%, devono vigilare su 190 istituti, 86.000 soggetti in esecuzione penale esterna, 100.000 liberi sospesi, e sono gravati da 200.000 pratiche di liberazione anticipata inevase. Di fronte a questa situazione, il Partito Radicale propone una soluzione drastica: se il ministro Nordio ritiene che effettivamente 5.000 detenuti potrebbero beneficiare immediatamente di misure alternative o liberazione anticipata, dovrebbe proporre al governo un indulto. Questa misura consentirebbe a questi detenuti di godere dei loro diritti, senza scaricare la responsabilità sui magistrati di sorveglianza, ai quali il ministero nega gli strumenti necessari. Nel frattempo, Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino ha reso nota una circolare del Dap indirizzata ai direttori degli istituti penitenziari. La circolare li mette in allerta riguardo a possibili stati di tensione tra i detenuti, conseguenti alle recenti decisioni politiche adottate in sede di conversione del decreto legge. Il Dap invita quindi i direttori a esortare tutto il personale a operare con il massimo scrupolo e zelo, al fine di mantenere alto il livello di attenzione nello svolgimento delle attività di vigilanza e osservazione all’interno delle carceri. Bernardini commenta aspramente la situazione: “Sono consapevoli di non aver fatto nulla di concreto e temono le conseguenze che loro stessi hanno alimentato”. Quella firma di Mattarella sul Dl Carceri è un monito: non si può più attendere di Paolo Delgado Il Dubbio, 10 agosto 2024 In due giorni il Capo dello Stato ha promulgato due leggi che riguardano la giustizia, ma il senso delle due firme è diametralmente opposto, e non si tratta di un caso ma di un effetto voluto e cercato. Ieri Mattarella ha firmato la legge che cancella l’abuso d’ufficio. Lo ha fatto senza accompagnare il via libera con messaggi di sorta, come molti speravano e altrettanti temevano. Però lo ha fatto letteralmente all’ultimo minuto utile, poche ore prima che scadesse il mese di tempo entro il quale le leggi devono essere promulgate dal Colle. Un ritardo tale da aver suscitato nei giorni scorsi il legittimo sospetto che il presidente intendesse rinviare alle Camere la molto contestata legge. “Nulla di tutto questo”, assicuravano dal Quirinale nei giorni scorsi. Il problema, spiegavano, è solo che dal 10 luglio, giorno dell’approvazione definitiva della legge, a ieri l’agenda del Presidente è stata così fitta di impegni che non c’è stato tempo per apporre quella firma. È probabile che neppure i responsabili della comunicazione del Quirinale volessero davvero far credere a questa versione diplomatica. A incaricarsi di chiarire la situazione, comunque, sono stati i fatti. Ventiquattro ore prima di varare la legge approvata il 10 luglio, Mattarella ha infatti trovato modo di promulgare, giovedì pomeriggio, a strettissimo giro, quella sulle carceri approvata dal Parlamento il giorno precedente. Ma ha voluto differenziare le due firme, e ha rinviato ancora, letteralmente sino all’ultimo momento utile, quella sull’abuso d’ufficio. Il messaggio, ancorché non esplicito e formale, non poteva essere più chiaro. Sergio Mattarella non ha mai pensato di rinviare la legge sull’abuso alle Camere. Una mossa del genere sarebbe stata in rotta di collisione con le due regole che ispirano sin dall’inizio il suo rapporto con questo governo, una formale e costituzionale, l’altra politica e diplomatica. Il Capo dello Stato ha chiarito più volte nei mesi scorsi, e in modo molto puntiglioso, che non spetta a lui giudicare se una legge è buona o pessima. Il suo compito è solo verificare che sia stata approvata a norma di Costituzione e che non sia macchiata da profili clamorosamente anticostituzionali. Ma il suo intervento, in quest’ultimo caso, può essere dettato solo da manifesta incostituzionalità. Ove invece sussistano dubbi, l’onere della sentenza spetta alla Corte costituzionale, non al Colle. Dunque non gli si deve chiedere di non firmare leggi approvate comunque nel rispetto delle regole, ma neppure si può contrabbandare la sua firma per un’approvazione sostanziale e personale dei contenuti di quella legge. La motivazione politica è meno confessabile. La stella polare del Presidente è sempre l’interesse del Paese, e Mattarella è convinto che un conflitto aperto tra Presidenza della Repubblica, governo e maggioranza non sia affatto nell’interesse del Paese. Il ritardo voluto, anzi ostentato, è un segnale, un messaggio e soprattutto un monito molto preciso. La decisione di firmare immediatamente il Dl Carceri veicola un messaggio di senso opposto: quello della massima urgenza. Del resto, nel discorso in occasione della cerimonia del Ventaglio, Mattarella ci aveva tenuto a inserire un passaggio particolarmente duro, quasi estraneo al suo stile abituale, proprio sulla tragedia delle carceri, che in tutta evidenza considera un problema di civiltà democratica e di rispetto sostanziale della Costituzione. Mattarella non è un ingenuo né un politico di poca esperienza. Sa perfettamente che la legge approvata tre giorni fa e subito promulgata non risolve affatto, e anzi non affronta neppure, il vero problema, quello del sovraffollamento e delle condizioni disperate dei detenuti. La firma a stretto giro non va dunque intesa come approvazione convinta del testo ma come ulteriore segnalazione della importanza della questione e sprone a fare di più. Nordio, se potesse muoversi a piacimento, vorrebbe fare molto di più. Pur senza arrivare alla depenalizzazione dei reati minori, intervento non immaginabile con una maggioranza di destra ispirata da una cultura e da una esigenza anche propagandistica securitaria, vorrebbe intervenire sulla carcerazione preventiva di chi è ancora in attesa di giudizio e sulla creazione o sul finanziamento di strutture in grado di ospitare quei detenuti che potrebbero ambire ai domiciliari se disponessero di situazioni abitative tali da permetterlo. Ne ha parlato francamente, proprio mentre la legge veniva votata in una situazione da rodeo in Parlamento, con Giorgia Meloni, e ha dovuto per l’ennesima volta prendere atto dell’impossibilità, in questo momento, di vincere le resistenze di Lega e FdI. Sono due partiti la cui ideologia è securitaria e repressiva, quanto di più distante sia da un vero garantismo che, soprattutto, dall’interesse per soluzioni diverse dalla galera. Sanno che buona parte del loro elettorato, da quel punto di vista, è anche più incarognita e intransigente di loro e non intendono scontentarla. Hanno anche un concreto problema economico: finanziare strutture di ospitalità per i detenuti costa. Nell’arco di alcuni anni, probabilmente, le strutture stesse riuscirebbero a rientrare nelle spese, ma si tratterebbe di un investimento a medio termine mentre le casse sono vuote subito. La sola possibilità di vincere quelle resistenze è proprio il Quirinale. Per questo Nordio ha annunciato l’intenzione di chiedere un incontro col Presidente, e quasi certamente lo vedrà davvero. Si tratterebbe di una carta molto pesante, perché la premier considera esigenza primaria ripristinare buoni rapporti con il Colle. Ma che possa bastare a vincere il blocco costituito dal fronte securitario interno alla maggioranza è tutt’altro che certo. Anzi, purtroppo, è poco probabile. Nordio ostaggio della Lega sulle carceri. Invoca Mattarella ma va in ferie di Ermes Antonucci Il Foglio, 10 agosto 2024 Sul decreto carceri i leghisti (Bongiorno in testa) hanno alzato barricate insormontabili contro ogni misura che potesse facilitare la riduzione del sovraffollamento. Il Guardasigilli chiede un incontro al Colle ma va in vacanza. Solo il troppo sole, forse, può spiegare il motivo che ha spinto il ministro Nordio a chiedere mercoledì scorso un incontro al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per parlare di soluzioni al problema del sovraffollamento carcerario. Non solo perché la richiesta è giunta in concomitanza con il via libera definitivo del Parlamento al decreto carceri, ma anche perché le Camere sono ora chiuse per la pausa estiva, e lo stesso Nordio sarà in vacanza a partire dalla prossima settimana. È per questo che, anche dal Quirinale (che ieri ha firmato il ddl che cancella l’abuso d’ufficio), fanno sapere che, se l’incontro ci sarà, questo si terrà non prima di settembre. Sulle carceri, insomma, Nordio, sembra piuttosto disorientato, anche a causa delle divisioni interne alla maggioranza. Ai tempi della formazione del governo, raccontano fonti qualificate della maggioranza, “la Lega ha fatto di tutto per ottenere la delega sulla gestione delle carceri”, poi attribuita al sottosegretario Andrea Ostellari. È lui, in coppia con Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia al Senato (e ritenuta la vera mente strategica leghista), ad alzare barricate insormontabili contro ogni proposta che miri a facilitare nell’immediato la riduzione del grave sovraffollamento carcerario. C’ha provato Forza Italia a far passare soluzioni più “umanocentriche”, ma senza successo, come abbiamo raccontato ieri. L’ultimo tentativo i forzisti l’hanno fatto sulla semilibertà, con una proposta che mirava a facilitare questa misura alternativa per i detenuti con pene residue non superiori a quattro anni (contro i sei mesi attuali). Niente da fare. Fratelli d’Italia e Lega si sono opposti, contrari a far passare l’idea di uno sconto di pena, ma “i più duri sono stati proprio Ostellari e Bongiorno”, riferiscono sempre fonti della maggioranza. A deleghe rilevanti, tuttavia, corrispondono anche responsabilità politiche importanti. Così, di fronte allo sfacelo delle carceri (sovraffollamento di 14 mila detenuti rispetto ai posti disponibili, 66 suicidi da inizio anno), tra alcuni parlamentari leghisti si sta diffondendo un certo timore sui risultati che l’inflessibile linea securitaria potrà portare. E se a fine anno il numero di suicidi fra i detenuti dovesse addirittura raggiungere quota 100? Persino in un paese come l’Italia dove la responsabilità politica è concetto che va poco di moda, qualcuno potrebbe essere chiamato a risponderne. A partire dal Guardasigilli Nordio, che, interrogato in Parlamento già a gennaio per l’insolito aumento di suicidi in carcere, parlò in maniera quasi arrendevole di “fenomeno ineliminabile”. Era gennaio, appunto, ma solo il 3 luglio - quando i detenuti suicidatisi per impiccamento, soffocamento o asfissia di gas erano intanto diventati 51 - il governo si è deciso a intervenire, approvando un decreto, convertito in legge due giorni fa, che pur prevedendo interventi anche positivi nel medio-lungo periodo, non contiene alcuna misura per ridurre nell’immediato il sovraffollamento. Così, si giunge, anzi si torna, al secondo soggetto responsabile: la Lega, rappresentata non in astratto, ma nelle persone del sottosegretario Ostellari e della senatrice Bongiorno. Senza dimenticare, infine, il sottosegretario FdI Andrea Delmastro, contrario anche lui a qualsiasi misura deflattiva. Al disastro delle carceri, insomma, corrisponde un disastro politico. E Nordio, invocando un incontro con Mattarella con tempistiche del tutto fuori luogo, non fa che confermarlo. Il sistema penitenziario italiano è una polveriera pronta a esplodere. Come se ne esce? di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2024 Nelle carceri c’è una grande tensione e da nord a sud le persone detenute protestano. Il sistema penitenziario italiano è una polveriera pronta a esplodere. Come ne usciamo? Proviamo a capire quel che sta accadendo. Certo la soluzione non può essere quella di alzare il livello dello scontro, parlare di rivolte e non di proteste, affermare che lo scopo sarebbe quello di un’evasione di massa, non ascoltare quello che i detenuti stanno chiedendo e non aprire un dialogo con loro. In carcere ci sono tante, troppe persone. E non perché i posti disponibili siano pochi, ma perché la gente che ci mettiamo dentro è troppa. Hai voglia a costruire nuove galere (impresa peraltro finanziariamente ardita e che si è storicamente dimostrata inarrivabile): se continuiamo a usare il carcere come unica soluzione ai problemi della società, continueremo a riempirle in un istante e non ci basteranno mai. Oggi le carceri sono grandemente sovraffollate. Le carceri per adulti e quelle per minori, cosa senza precedenti nella storia. In alcune vivono il doppio delle persone rispetto ai posti. Si sta appiccicati in cella, con un caldo che non si respira, con la terza branda che sfiora il soffitto, con un unico bagno, con i fornelletti per cucinare accanto al water, a volte con le blatte nei materassi, a volte senz’acqua corrente, a volte con le finestre schermate che non lasciano passare aria. Protestare, quando si vive in queste condizioni contrarie a ogni dignità, è più che legittimo. Anche le carceri minorili sono sovraffollate. Le nuove norme introdotte dal Governo con il Decreto Caivano hanno portato a un’impennata delle presenze. La giustizia minorile italiana, che tradizionalmente puntava su un approccio educativo e non segregativo verso il ragazzo autore di reato, è stravolta nelle sue fondamenta. Nei giorni scorsi i ragazzi detenuti hanno praticamente distrutto il carcere minorile di Torino. Aspettiamo che le inchieste facciano il loro corso per comprendere meglio l’accaduto. Ma non possiamo non guardare di che ragazzi stiamo parlando. Non per giustificarli, ma per comprendere la realtà. Innanzitutto l’istituto ospitava per i tre quarti ragazzi minorenni. Ragazzini con i quali adulti numerosi e addestrati dovrebbero saper trattare. Ma, soprattutto, la stragrande maggioranza era composta da ragazzi stranieri, quasi sempre minori non accompagnati. Stiamo parlando di ragazzi che, poco più che bambini, hanno lasciato padri, madri, fratelli, sorelle e hanno affrontato quel viaggio drammatico che ben conosciamo. Sono arrivati da soli sul territorio italiano, dove la nostra società ha pensato bene di smantellare ogni forma di accoglienza per loro. Costretti a vivere per strada, è quasi impossibile che non incontrino le dipendenze (prima tra tutte dagli psicofarmaci a basso costo che si vendono per strada a fini di sballo) e il carcere. Ragazzini con un vissuto tragico alle spalle, che avrebbero avuto bisogno di ogni sostegno, di ogni aiuto, di ogni comprensione e che noi sbattiamo in una cella appena compiuti i quattordici anni. E, visto che sono troppi, li facciamo pure dormire per terra. Continuando inoltre a riempirli di farmaci in modo da neutralizzarli, con conseguenti aggressività e crisi di astinenza quando finisce l’effetto. Nessun futuro per loro, nessuna speranza. Questa è oggi la realtà delle carceri minorili italiane. E nessuna speranza si intravede anche nelle carceri degli adulti. Al sovraffollamento e alle ignobili condizioni igieniche si sommano scelte scellerate sulla vita interna. Subito dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nell’ormai lontano gennaio 2013, una provvidenziale disposizione amministrativa decretò che le porte delle celle dovessero rimanere aperte per almeno otto ore al giorno, cosicché le persone potessero venire impegnate in significative attività diurne e tornare in stanza per il solo pernottamento. L’organizzazione di significative attività è stata purtroppo sempre carente, ma quantomeno si poteva girare per la sezione e avere a disposizione un po’ più di spazio vitale. Su questo, senza alcun motivo, si è deciso di tornare indietro. Oggi le celle sono chiuse per la stragrande maggioranza delle persone detenute, che possono recarsi ai passeggi (spesso piccoli cubicoli di cemento arroventato e senza nessun arredo) per le quattro ore d’aria previste dalla legge, mentre per le restanti venti sono costrette a vivere nello scenario che ho appena descritto. Protestare, quando si vive in queste condizioni inumane e degradanti e non si comprende il motivo di una scelta che ci fa tornare indietro senza senso, è legittimo. Alcuni sindacati autonomi di polizia penitenziaria si sono battuti per richiudere le porte delle celle, sostenendo che le disposizioni del 2013 portassero a un carcere fuori controllo e sovversivo. Ma la realtà sotto gli occhi di tutti è che per dieci anni non abbiamo avuto le proteste - teniamo fuori l’8 marzo 2020 e l’avvento del Covid, che è un’altra storia e dove comunque non si è mai dimostrata una regia esterna nelle proteste - che abbiamo oggi con le celle chiuse. Le vessazioni inutili non si fermano qui. Con l’esplosione della pandemia e la chiusura dei colloqui con le famiglie, si estese la possibilità di contatti telefonici fino a una telefonata al giorno. Questa prassi restò in vigore per un po’ anche quando le visite in presenza erano ormai riprese. A un certo punto, dal nulla, si è deciso di imporre il ritorno alle previsioni normative precedenti, ovvero una telefonata a settimana di soli dieci minuti. Ma perché? Una volta che la situazione emergenziale aveva fatto constatare che la gestione organizzativa delle telefonate quotidiane era tutto sommato fattibile, perché tornare indietro? Il regolamento penitenziario risale a 24 anni fa. Nel frattempo è cambiato il mondo, la tecnologia è esplosa. Perché lasciare indietro il carcere? Perché tornare a una sola, breve telefonata settimanale con i propri cari, se non per un’idea vendicativa della pena? Una telefonata, in un momento di sconforto, può salvare una vita. E purtroppo stiamo assistendo a una strage di suicidi che si va compiendo nelle patrie galere. E potrei continuare a raccontare scelte legislative e amministrative sciocche, rancorose, inutili, frutto di una concezione della pena che non ha nulla a che fare con quella costituzionalmente orientata. Gli ultimi anni di gestione penale e penitenziaria hanno portato il sistema sull’orlo del collasso, come mai era successo prima nella storia repubblicana. In questa situazione, il recente decreto legge sulle carceri ha preso misure del tutto insufficienti. Ora si può scegliere la strada da intraprendere: si può tornare sui propri passi, ammettendo la gestione fallimentare e prendendo misure adeguate. Oppure si può insistere nella disumanità, continuando a contare i morti, chiudendo gli occhi di fronte alle condizioni ignobili in cui vivono i detenuti e dicendo in giro che essi organizzano insurrezioni e sommosse senza motivo. E allora si vorrà anche dire che non resta altro che votare al più presto il reato di rivolta penitenziaria, che adesso è pendente in Parlamento e che punisce fino a otto anni di carcere anche chi passivamente e pacificamente fa resistenza a un ordine impartito. Seppelliremo l’intera popolazione carceraria sotto altri cumuli di pena. Poi qualcosa accadrà. Non riesco a immaginare cosa. Non riesco a immaginare come finirà questa storia, perché niente di così drammatico c’era mai stato prima. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Decreto legge “Carcere sicuro”: grande disillusione di Antonio Nastasio L’Opinione, 10 agosto 2024 Un decreto strillato, ma senza effetti reali e assenza di concretezza. Il recente Dl 92/2024 “Carcere Sicuro”, approvato il 7 agosto alla Camera della Repubblica, doveva rappresentare un primo passo verso la soluzione dei gravi problemi di sovraffollamento, disagi, suicidi di detenuti e di personale di custodia, incluso l’ultimo caso di un agente sul muro di sentinella all’Ucciardone. Tuttavia, è evidente che questo nuovo approccio, oltre che ignorare il reale, ha evitato di proporre soluzione forti capaci di risolvere a patto di avere il coraggio di operare, in quanto avrebbe portato a sfide istituzionali, come la mancanza di una vera attenzione proporre soluzioni innovative e con risparmio economico. Il pacchetto carceri ha ribadito l’importanza delle misure alternative alla detenzione, già in corso, come la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali e l’espiazione della pena nelle comunità terapeutiche. Tuttavia, queste misure non hanno mai raggiunto il loro pieno potenziale, principalmente a causa della mancanza di strutture adeguate fuori dal carcere per accogliere i beneficiari, che spesso non dispongono di supporti esterni. La stessa politica del “non carcere” non ha trovato quel necessario supporto di indipendenza e integrazione con il territorio, piuttosto che con una struttura statale. L’Amministrazione penitenziaria ha preferito affidarsi per le misure alternative all’organizzazione delle carceri per adulti e, successivamente, a quelle per minori, senza mai sviluppare un contesto autonomo che coinvolgesse il territorio e il volontariato qualificato. Nonostante i miei tentativi per anni, con accordi mai ratificati a livello centrale, la situazione è rimasta immutata. La proposta di appoggiare i detenuti tossicodipendenti presso le comunità l’avanzai già nel 1991. Prevedeva l’utilizzo delle case mandamentali dismesse per ospitare i tossicodipendenti arrestati, con una gestione interna affidata a una comunità e un controllo esterno da parte della polizia penitenziaria. Questo progetto non andò a buon fine a causa del responsabile della comunità. Nel 1999 ribadii la necessità di trovare strutture alternative gestite dal privato sociale in accordo con l’ente locale, utilizzando strutture pubbliche dismesse, come le caserme. Questa proposta, formalizzata nel 2008, non venne attuata, ma dal 2013 è stata ripresa dai vari ministri. Se queste strutture fossero state utilizzate, molte persone povere o prive di risorse esterne avrebbero potuto scontare la pena in un ambiente più idoneo al reinserimento sociale, con costi inferiori rispetto al carcere, liberando numerosi posti attualmente occupati da persone che non necessitano del carcere ma di supporto territoriale e di inserimento sociale. Oltre a liberare posti in carcere, il costo di gestione e di ristrutturazione di queste strutture sarebbe stato basso. Alte, invece, sono le spese di ristrutturazione necessarie per adibire tali strutture a carceri, in quanto richiedono misure di sicurezza elevate. La proposta di inviare i tossicodipendenti in comunità, se effettuata d’ufficio, presenta delle criticità. Dall’esperienza personale, molti preferiscono restare in carcere, dove l’ozio è più congeniale al loro stato di dipendenza. Se inviati d’ufficio nelle comunità, il rischio di fuga potrebbe essere elevato, con conseguenti recidive e ritorno in carcere, aggravando nuovamente il sistema penitenziario. I detenuti con malattie mentali, che continuano a ricevere trattamenti terapeutici all’interno del carcere è un’altra criticità. Ospedali dismessi potrebbero invece offrire soluzioni più appropriate, rispettando i principi della legge Basaglia, la quale mira a eliminare le barriere per la guarigione. Se trasformati in strutture adeguate, questi edifici potrebbero facilitare il processo di cura sia per i civili che per i detenuti, evitando che le mura diventino strumenti controproducenti come avviene in un normale ospedale. Mi sembra doveroso formulare una proposta provocatoria: se questa soluzione non era valida per gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), perché non dovrebbe essere applicabile ai settori del carcere dove sono detenuti i malati di mente, anche se questi spazi detentivi non sono ufficialmente riconosciuti come tali? Similmente è il trattamento dei detenuti malati terminali. Non poter avere un familiare vicino al momento della morte è una afflizione aggiuntiva inaccettabile e inumana, che contraddice la stessa natura della pena. Inoltre, gli ospedali dismessi potrebbero essere impiegati per ospitare detenuti con problemi di salute non solo mentale, che richiedono cure specialistiche non disponibili totalmente o con fatica all’interno delle carceri o ricorrendo al “ricovero” in ospedali civili con il piantonamento di poliziotti del Corpo della Polizia penitenziaria, con disagio per gli altri ammalati e umiliazione del malato detenuto e i suoi familiari, se autorizzati a fare visita. Il concetto di territorializzazione della pena - il grande assente - potrebbe permettere di scontare la condanna presso la propria famiglia o in un carcere all’estero, questo per i cittadini dell’Unione europea. Il caso di Chico Forti ha aperto una nuova prospettiva per l’esecuzione della pena, quella di avvicinare i detenuti alla propria casa, pur rimanendo sotto l’autorità di un’altra nazione. Applicare questa modalità anche all’interno del territorio nazionale, consentendo ai detenuti di essere vicini alla propria famiglia, rappresenterebbe un sollievo per i condannati, inclusi quelli condannati in primo grado. E ridurrebbe la pressione sulle strutture penitenziarie italiane. Questa proposta non rappresenta, a mio avviso, una violazione della legge, ma una modernizzazione del sistema giudiziario. Non contravverrebbe ai dettami costituzionali, poiché non sposterebbe la competenza dal giudice naturale, ma costituirebbe semplicemente una modalità moderna di eseguire una condanna dopo la sentenza di primo grado. I contatti, come avviene per certi reati, potrebbero essere mantenuti tramite videoconferenza. Che questo avvenga tra tribunali e carceri italiani e quelli di altri Paesi dell’Ue non dovrebbe essere considerato incompatibile. I gradi di appello potrebbero essere effettuati in videoconferenza, facilitando i contatti con il legale e riducendo ulteriormente la pressione sulle carceri, permettendo ai detenuti di ottenere in patria i servizi necessari che spesso sono negati per i motivi sopra indicati. Le sezioni detentive dovrebbero essere considerate non come un fardello, ma come il cuore pulsante del sistema penitenziario. Questi luoghi, spesso percepiti e vissuti come cupi e opprimenti, hanno il potenziale di diventare spazi di crescita e trasformazione. Quando le misure alternative non sono possibili per motivi oggettivi, è fondamentale che questi spazi siano gestiti con la massima competenza e con la dedizione che, con molta fatica, sono messe in campo da tutto il personale. Situazioni negative ci sono e mi guardo da assolverle. Per questo le sezioni detentive devono diventare la pietra fondante del sistema-carcere. O meglio, il cuore. Come il cuore di una persona batte per mantenerla viva, allo stesso modo le sezioni detentive possono rappresentare il battito vitale di un sistema giuridico più giusto e umano. Con un approccio più attento e consapevole, questi luoghi possono smettere di essere semplici spazi di contenimento per diventare il centro di un sistema di giustizia che non solo punisce, ma rieduca e reintegra. In questo modo, il sistema penitenziario non è solo un luogo di espiazione, ma un faro di possibilità per un futuro migliore. Il personale di custodia, impegnato nelle sezioni, spesso sottovalutato se non discriminato, necessita di un riconoscimento anche economico e di supporto, in particolare con l’operatività condivisa con superiori di alti gradi, che vivono nelle sezioni, per gestire al meglio le diverse categorie di detenuti senza l’uso di mezzi coercitivi elettrici che potrebbero dare per assodato che la legalità non è possibile nelle carceri, per cui si potrebbe instaurare una idea di guerra. Solo con una organizzazione gestita in sezione detentive da alti vertici è possibile garantire un sistema custodiale più giusto ed efficace, evitando comportamenti aggressivi che derivano più dall’incapacità di gestire situazioni difficili in un contesto violento, che da una voluta malvagità specie se provocata. Il risarcimento alle vittime da parte dei soggetti in misura alternativa rappresenta poi un tema critico. Attualmente, si osserva che le misure punitive non detentive tendono a trascurare completamente il risarcimento alle vittime dei crimini, privilegiando una visione umanistica e romantica di risarcire la società. Questo approccio non risponde alle esigenze di una giustizia più pragmatica e attenta al dolore di chi subisce danni, fisici e morali. Il risarcimento alle vittime dovrebbe quindi diventare una priorità, con rimborsi in denaro piuttosto che con incontri di mediazione, salvo eccezioni per i reati familiari. In conclusione, una riforma del sistema penitenziario che metta al centro il recupero dei detenuti, il sostegno al personale di custodia e il risarcimento delle vittime può trasformare le sezioni detentive in luoghi di speranza e di giustizia reale. Inoltre, la riconversione delle caserme e di altre strutture dismesse rappresenta una soluzione praticabile per migliorare il sistema sia carcere che delle misure alternative alla detenzione. Questo approccio garantirebbe una gestione più umana ed efficace dei detenuti, specialmente di quelli con malattie mentali, e permetterebbe un uso più efficiente delle risorse pubbliche, favorendo il reinserimento sociale a costi inferiori rispetto a quelli del carcere tradizionale. Come affermava Michel Foucault: “Non est carceratio simpliciter puniendi, sed et transformandi”. Per realizzare questo obiettivo, è imprescindibile che il sistema penitenziario adotti un approccio equilibrato e inclusivo, coinvolgendo anche gli Enti locali e il privato sociale specializzato, affrontando le sfide del sovraffollamento con soluzioni che vadano oltre l’espansione delle strutture carcerarie e che comprendano misure alternative, un supporto sociale e un risarcimento adeguato alle vittime. Carceri, un disastro continuo nato da leggi e riforme classiste di Roberto Scarpinato Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2024 La questione carceraria nel nostro paese è un’emergenza cronica che si ripropone nel tempo negli stessi termini. I provvedimenti tampone si susseguono, ma il carcere resta incivile e degradante. Come si spiega questa cronica irredimibilità? La risposta si trova nelle statistiche del Dap sulla composizione sociale della popolazione detenuta. La percentuale di colletti bianchi condannati con sentenza definitiva, è statisticamente così irrisoria che in alcuni anni non viene nemmeno quotata. Nel 2014 su 60.000 detenuti, i condannati per corruzione e reati economici erano 86. Significativa è la comparazione con altri paesi europei. Da una ricerca condotta dall’Università di Losanna risulta che nel 2013 i condannati in carcere per reati economici e fiscali in Italia costituivano soltanto lo 0.4%, a fronte di una media europea del 4.1%. Questi dati attestano il carattere classista del sistema penitenziario italiano e spiegano l’irredimibilità della questione in Italia. Il variegato mondo dei ceti superiori ha risolto da tempo il problema del carcere, riservandolo solo ai ceti inferiori con accorte e selettive ingegnerie normative. Nel 2006 nonostante la situazione carceraria fosse sul punto di esplodere a causa del sovraffollamento, l’indulto fu emanato dopo una estenuante e laboriosa contrattazione politica, solo a condizione che venisse esteso anche ai condannati per reati di corruzione, economici e persino per il reato di scambio elettorale politico mafioso, ossia a poche decine di imputati eccellenti che non erano in carcere, ma rischiavano solo di finirci. A Palermo, un detenuto scarcerato dichiarò: “Siamo grati ai grandi ladri di Stato perché solo grazie a loro anche ai piccoli ladri di strada come me è stata data la possibilità di evitare il carcere”. All’indulto del 2006 fece seguito una sistematica riscrittura in chiave classista del sistema penale. Niente carcere per i reati di corruzione, economici, fiscali, societari, risultato ottenuto con la depenalizzazione di alcuni reati, la diminuzione delle pene, la riforma della prescrizione, l’allargamento di benefici penitenziari ad hoc per salvare dal carcere i (pochi) condannati eccellenti. Esempio emblematico di questo modo di legiferare fu la modifica dell’art. 47 ter ordinamento penitenziario, introdotta con la legge ex Cirielli per evitare a Cesare Previti di espiare in carcere una condanna per corruzione a sei anni. Negli stessi anni venivano emanate una serie di norme che aumentavano le pene per i reati della criminalità comune, che imponevano automatici aumenti di pena per i casi di recidiva, che vietavano sia di determinare la pena valutando in concreto la gravità del reato e la personalità del reo, sia di effettuare un bilanciamento tra aggravanti e attenuanti. Fu grazie a tali politiche classiste che le carceri tornarono a riempirsi solo di esponenti di immigrati e di tossici, abbandonate al degrado e all’invivibilità di sempre. Fino al 2013, quando la sentenza Torreggiani espose l’Italia al rischio di una procedura di infrazione per evitare la quale si fece ricorso a una soluzione tampone per sfollare le carceri. Con il decreto legge n. 146/2013 si elevò a 75 giorni lo sconto annuo di pena per la liberazione anticipata, spacciando una misura last minute puramente deflattiva, come una scarcerazione dovuta all’accertato e positivo completamento di un processo di rieducazione e riabilitazione sociale. Ed eccoci all’attualità, che altro non è che una triste riedizione del passato, con l’aggravante di una maggioranza di governo che sin dall’inizio della legislatura si è attivamente e incessantemente impegnata a portare alle estreme conseguenze il classismo del sistema penale italiano, inserendo il turbo al doppio binario già sperimentato ai tempi dei governi Berlusconi. Da una parte si destruttura metodicamente la normativa anticorruzione del 2019 che aveva tentato di riequilibrare in senso interclassista la risposta penale, si aboliscono i reati dei colletti bianchi e si limitano i poteri d’indagine; dall’altra si introducono nuovi reati e si elevano le pene per la gente comune. In questo tripudio classista, si colloca anche il combinato disposto del decreto Carceri e del Pacchetto sicurezza. Nel decreto prevale una logica di gestione securitaria delle carceri senza soluzioni immediate per il sovraffollamento. Contemporaneamente il Pacchetto sicurezza lancia un messaggio intimidatorio ai detenuti che osano protestare in modo pacifico per le condizioni nelle quali sono costretti a vivere, con la previsione di due nuove fattispecie di reato, applicabili ai fatti commessi in carcere e nei centri di trattenimento migranti che qualificano come rivolta anche la resistenza passiva e il rifiuto di obbedire agli ordini impartiti come quello di fare rientro in cella, con pene sino a otto anni. Ordine e disciplina solo per gli ultimi e per i penultimi, libertà di arricchirsi a spese della comunità e di abusare del loro potere per i signori dei ceti superiori. A cosa è servito il Decreto Carceri? A introdurre un nuovo reato di Giulia Merlo Il Domani, 10 agosto 2024 L’aula della Camera ha approvato in via definitiva il decreto carceri con 153 si, 89 no e 1 astenuto. Il testo ha un contenuto che non incide in modo decisivo sul problema del sovraffollamento ma, paradossalmente, introduce un nuovo reato: il peculato per distrazione, che va a colmare almeno parzialmente le lacune dopo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Il decreto prevede l’assunzione di mille agenti entro il 2027, mentre l’articolo 5 prevede un teorico snellimento delle procedure per ottenere il beneficio della liberazione anticipata, ma senza cambiare l’ammontare degli attuali 45 giorni ogni sei mesi. Vengono poi aumentate le telefonate mensili per i reclusi e si istituisce un registro di strutture per l’accoglienza di detenuti che possono accedere alle misure alternative. I restanti articoli, invece, non riguardano le carceri: viene introdotto il nuovo reato di peculato per distrazione (necessario per tentare di scongiurare la procedura di infrazione Ue dopo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio) e la proroga dell’entrata in vigore del nuovo tribunale della famiglia introdotto dalla riforma Cartabia. Il vertice a palazzo Chigi - Curiosamente, proprio mentre a Montecitorio si approvava il decreto legge, a Palazzo Chigi la premier Giorgia Meloni ha incontrato il Guardasigilli Carlo Nordio, i sottosegretari Ostellari, Delmastro, Sisto e i presidenti delle Commissioni Giustizia di Senato e Camera Giulia Bongiorno e Ciro Maschio per fare il punto sui prossimi “passi da fare” per affrontare l’emergenza carceri che “resta una priorità”. Nordio ha fatto sapere di aver chiesto un incontro al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e di voler proporre “modifiche alle norme sulla custodia cautelare”, inoltre ha anticipato che chiederà al Csm di potenziare la copertura di organico per la magistratura di sorveglianza. Il vertice ma anche le posizioni assunte dal ministro, chiamando in causa il Colle e palazzo Bachelet proprio mentre la maggioranza approvava un decreto caratterizzato da necessità e urgenza, hanno suscitato polemica. Le opposizioni hanno parlato di umiliazione del parlamento, la cui centralità sembra messa in discussione dall’agire del governo. L’iniziativa di Nessuno tocchi Caino - Il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti e i dirigenti di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, Presidente, Sergio D’Elia, Segretario ed Elisabetta Zamparutti, Tesoriera, hanno presentato un esposto-denuncia in merito all’emergenza penitenziari, con il patrocinio dell’avvocato Maria Brucale, perché “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. L’esposto è rivolto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma perché, a fronte della gravità della situazione nelle carceri - descritta con dovizia di particolari nelle 11 pagine del testo - e a fronte dei probabili ulteriori pericoli che incombono sulla comunità penitenziaria, verifichi la sussistenza di eventuali responsabilità penali a carico del Ministro della Giustizia Carlo Nordio e dei Sottosegretari Andrea Del Mastro Delle Vedove e Andrea Ostellari i quali, avendo specifici obblighi di custodia dei ristretti, non vi adempiono cagionando loro un danno evidente alla salute, fisica o psichica, e alla loro stessa vita. Il documento fa riferimento in particolare agli accadimenti gravi quali i suicidi e altre morti in carcere per malattia e assenza di cure, ma anche alla grave mancanza di risorse interne agli istituti di pena derivante dall’ingestibile sovraffollamento che, al 29 luglio 2024, era quantificabile in 61.134 persone detenute in 47.004 posti regolarmente disponibili. Giachetti ha sottolineato che, a fronte dell’emergenza, il governo non ha voluto accogliere la sua proposta di legge, volta ad aumentare con effetto retroattivo i giorni di liberazione anticipata. Quando la sicurezza diventa solo demagogia di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 10 agosto 2024 È in Gazzetta ufficiale il decreto Carceri del ministro Nordio, il quale, per l’occasione, ha dismesso l’abito “liberale/garantista” (quello delle parole) per indossare l’abito “repressivo/securitario” (quello dei fatti concreti). Pochi gli interventi apprezzabili, per lo più di non immediata attuazione. Per il resto, una spessa cortina fumogena, con cospicui residui nocivi. L’emergenza carcere è segnata dal bollettino dei suicidi non meno che dal sovraffollamento. Dati incontrovertibili del ministero della Giustizia: al 31 luglio 61.133 presenze a fronte della capienza ufficiale di 51.207, quasi 10.000 in più. Il numero dei suicidi ci rimanda a drammi personali che è cinico ignorare. Il sovraffollamento, che ha raggiunto un livello intollerabile anche a fronte dei principi dettati della Corte europea dei diritti dell’uomo, determina una tensione di difficile gestione anche per la polizia penitenziaria. Le pene, ammonisce la Costituzione, “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” (art. 27). Quale messaggio viene lanciato a coloro per i quali la detenzione dovrebbe essere gestita in vista del reinserimento nella società, se le istituzioni per prime non adempiono al loro compito di garantire decenti condizioni di vita nel carcere? La crisi viene da lontano, ma sta alla politica cessare di invocare sempre più carcere: piuttosto e subito adottare misure atte ad attenuare almeno l’emergenza. Ovunque nel mondo sono previste misure di riduzione di pena per buona condotta. È depositata una proposta di legge che amplia le riduzioni di pena consentite, per ogni semestre di pena scontata, dal nostro istituto della “liberazione anticipata”. Non è automatismo, non basta la sola buona condotta (mancanza di sanzioni disciplinari), ma si richiede la “partecipazione all’opera di rieducazione”. Si è detto “liberazione anticipata speciale” uguale “una resa dello Stato”. Resa dello Stato è l’attuale situazione delle nostre carceri. È stato opposto un muro contro questa proposta che avrebbe consentito subito una attenuazione della tensione. La demagogia securitaria almeno si misuri con la razionalità. In nessun Paese e in nessun tempo più carcere ha portato più sicurezza. Gli Stati Uniti, che oltre alla barbarie della pena di morte, presentano un tasso di carcerazione dieci volte (non due o tre volte) superiore alla media europea, hanno anche un tasso elevatissimo di criminalità grave, a cominciare dagli omicidi. Ci poniamo la giusta preoccupazione, nella gestione della pena detentiva, di limitare le recidive. Pensiamo davvero che “abbuonare” due o tre mesi di carcere a chi è prossimo al fine pena aumenti le probabilità di recidiva? Meglio lasciarlo “marcire in carcere” qualche mese ulteriore in situazioni di intollerabile sovraffollamento? La cortina fumogena attuata per non affrontare la questione lascia pesanti residui nocivi. Gli interventi “cosmetici” sul conteggio anticipato delle riduzioni di pena non solo sono inutili, perché l’istituto della liberazione anticipata è ben noto a chi si trova in carcere, ma costituiscono un pesante aggravio sull’ufficio del pubblico ministero che emette l’ordine di carcerazione, con ulteriori aggravi a cascata sulla magistratura di sorveglianza. Chi scrive conosce bene queste procedure per aver svolto, a suo tempo, le funzioni di magistrato di sorveglianza e poi di pubblico ministero nell’ufficio dell’esecuzione penale. Nel corso delle audizioni in Parlamento diversi presidenti dei Tribunali di sorveglianza, con puntuali osservazioni tecniche, hanno evidenziato queste assurdità che producono ulteriori lentezze: nemmeno prese in considerazione. Il decreto Carceri è il manifesto della più ottusa ideologia che si dice securitaria, ma che sull’altare della demagogia produce norme irrazionali e controproducenti. Non si tratta di essere “buonisti” o lassisti. Condizioni carcerarie incivili aumentano le pulsioni antisociali e sono controproducenti anche da punto di vista della prevenzione della recidiva e dunque della “sicurezza” razionalmente intesa. “Il no alla liberazione anticipata speciale? In passato quello sconto evitò il disastro” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 agosto 2024 Intervista a Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze: “Si tratta di un provvedimento che non avrà effetti immediati sulla drammaticità che in questi momenti viene vissuta nelle carceri italiane in quanto non incide sul sovraffollamento, fattore principale dell’incremento dei suicidi e delle rivolte”. Secondo lei il meccanismo previsto nel decreto per cui nell’ordine di esecuzione il pm deve indicare la pena da espiare è una previsione utile? Non mi pare, posto che è un dato di comune esperienza che qualunque detenuto viene edotto immediatamente della portata del beneficio della liberazione anticipata sul suo fine pena. Anzi, avere due fine pena diversi, uno virtuale ed uno reale, aumenterà la confusione per uffici matricola del carcere e uffici di sorveglianza. Non sarà mai chiaro quale è il vero termine finale e nel dubbio i detenuti presenteranno continuamente istanze anche di misura alternativa al solo scopo di vedersi riconosciuta una pena “effettiva”: un paradossale effetto moltiplicatore di procedimenti per i nostri uffici. Le modifiche che riguardano la magistratura di sorveglianza snelliscono o meno il vostro lavoro? Sulla liberazione anticipata l’intervento parte da un presupposto sbagliato e cioè che sia l’attuale meccanismo di concessione a rallentare l’accesso alle misure alternative. Sono state eliminate così, nell’ottica di una supposta semplificazione, da un lato l’istanza del condannato e dall’altro il parere del pm, in realtà due incombenti del tutto ininfluenti. Anzi, gli uffici di sorveglianza dovranno provvedere in una stretta “finestra” temporale di 90 giorni, antecedente al maturare dei presupposti, con istruttorie particolarmente complesse poiché riguarderanno periodi lunghissimi. Non vedo alcuna semplificazione rispetto al regime attuale della “semestralizzazione” collegata all’istanza che, inoltre, assolveva a un’opportuna funzione incentivante per il detenuto il quale vedeva di volta in volta riconosciuta, ogni sei mesi, la propria buona condotta e dunque era spinto verso la propria rieducazione. Si è discusso molto dell’emendamento di Forza Italia sugli ultrasettantenni... Questa è veramente una norma di cui non si capisce il senso: esisteva già la detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni con esclusione di alcuni reati (quelli più gravi per i quali si va in carcere in ogni caso). Ora si introduce un obbligo immediato di detenzione domiciliare “provvisoria” solo per le pene tra i 2 e 4 anni, con le medesime esclusioni (quindi con nessun vantaggio) ma, caso singolare perché svantaggioso, anche per chi potrebbe rimanersene libero e attendere un più favorevole affidamento in prova. Inoltre non si comprende come mai lo stesso obbligo non valga per chi abbia una pena inferiore a 2 anni. Ha scritto Nordio in un comunicato: “proporrò al Csm di considerare la copertura di organico per la magistratura di sorveglianza, garantendo da parte del ministero agili e veloci procedure per il completamento della pianta organica degli amministrativi presso i tribunali di Sorveglianza”... Ben venga la copertura immediata dei posti vacanti con procedure straordinarie su un organico che è già di soli 236 giudici, anche se in complesse realtà come Roma, Napoli e Milano ne servirebbe il doppio degli attuali. Il vero problema effettivamente non sono i magistrati quanto il personale amministrativo il cui tasso di scopertura nei nostri uffici è impressionante se si aggiunge che siamo rimasti fuori dai fondi del Pnrr: di fatto lavoriamo solo sull’emergenza scontando per giunta un’informatizzazione da anno zero. La pdl Giachetti è stata rinviata in commissione. Praticamente non se ne farà più nulla. Ma il Guardasigilli annuncia di voler incontrare Mattarella per proporre nuove soluzioni per le carceri... Si tratta di decisioni totalmente rimesse alla politica e non mi esprimo su questo. Vorrei solo ricordare che nel 2014 con la liberazione anticipata “speciale” uscimmo dall’emergenza post- Torreggiani: chi già meritava per buona condotta la riduzione di pena è uscito un po’ prima del tempo, liberando posti letto. L’onorevole Giachetti in una intervista a questo giornale ha detto: ‘ governo e maggioranza hanno un disegno ben preciso, che è quello di far esplodere la situazione nelle carceri per poi mettere in atto e giustificare un’opera di repressione molto appariscente”... Non voglio nemmeno pensare che il disegno sia questo poiché ho fiducia nelle istituzioni e dunque non posso immaginare che si voglia giocare al massacro. Le rivolte generalizzate sarebbero un costo intollerabile per tutti. In carcere si continua a morire, il sovraffollamento aumenta, sempre più focolai di rivolta. Dal suo punto di vista dobbiamo preoccuparci per una situazione che andrà peggiorando? E cosa fare qui ed ora? Il momento è certamente grave e chi frequenta il carcere lo sa bene. Posso parlare solo per la magistratura di sorveglianza, cui si richiede una presenza assidua e un’attività di continuo sostegno anche agli operatori che lavorano in carcere, a partire dalla Polizia penitenziaria che sta vivendo un momento di particolare sofferenza con elevati stress lavorativi e turni di lavoro massacranti. Ostellari ha detto: “Sul tema del sovraffollamento, se andiamo oggi a guardare tutte le nostre carceri tenendo conto del parametro ‘ metri per detenuto’ tutti i nostri istituti sono regolamentari”... Prima di tutto non è solo una questione di metri ma di effettive condizioni di vita: nelle celle manca l’acqua, vi sono infestazioni di insetti e il caldo insopportabile dell’estate accentua il disagio. Dobbiamo considerare che mentre noi nelle nostre abitazioni andiamo in camera solo per dormirci, nelle carceri il detenuto ci trascorre pressoché tutta la giornata, soprattutto se il regime è quello “chiuso”. Infine la questione dei posti “regolamentari” andrebbe affrontata una volta per tutte: spesso risultano sulla carta posti liberi che in realtà non possono essere destinati ad alcune tipologie di detenuti oppure si tratta di sezioni inagibili. In molti istituti il dato reale della capienza è falsato. “Ho denunciato Nordio perché il dramma delle carceri è anche frutto delle omissioni del governo” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 10 agosto 2024 Intervista a Roberto Giachetti, che con Nessuno tocchi Caino ha presentato un esposto contro il ministero della Giustizia: “Essere garantisti non vuol dire essere irresponsabili. Prima di andarci le ho tentate tutte in Parlamento. Nordio da Mattarella? Il presidente ha già parlato, dovrebbero solo ascoltarlo”. Insieme a Nessuno tocchi Caino - associazione che si occupa dei diritti dei carcerati - Roberto Giachetti, parlamentare di Italia Viva, radicale, da sempre attento alle carceri e ai diritti dei detenuti, si è presentato ai Carabinieri per denunciare il ministro Nordio e i suoi sottosegretari per l’emergenza carceri. Qualcuno si è stupito nel vederla rivolgersi ai pm... L’ho visto, anche Enrico Costa (deputato di Azione n.d.r), di cui ho molta stima. La Lega, invece, che portava il cappio in Aula, vorrebbe insegnare il garantismo a me... Essere garantisti non vuol dire essere irresponsabili: se mi rendo conto che di una situazione che ha causato e potrebbe causare lesioni, mi rivolgo alla magistratura. Sarà poi quest’ultima a stabilire, ma non mi si dica “ah, hai messo tutto in mano ai pm”. Chi ha messo tutto in mano ai pm? Io avevo messo tutto in mano al Parlamento. Si riferisce al nulla di fatto sul ddl che porta il suo nome, che incentivava la liberazione anticipata? Non è che mi sono alzato una mattina e ho deciso di andare dai pm: ho esperito tutti i tentativi sul piano politico affinché si occupassero del dramma che si sa consumando. Da febbraio, da quando cioè è iniziato l’allarme per i suicidi in carcere, abbiamo iniziato a fare iniziative. Una di queste mi ha visto fare quasi due mesi di sciopero della fame, con Rita Bernardini. In quello stesso periodo abbiamo messo in campo la proposta in questione, che interveniva sull’emergenza del sovraffollamento. Quest’ultimo è dovuto anche ai numerosi reati che si sono inventati: altro che svuotacarceri, qui il problema è il riempicarceri. Dopo una serie di tira e molla, di slittamenti, è stato chiesto un altro rinvio con la scusa che era stato varato il decreto carceri. Ora è stato rinviato in commissione: non ci hanno neanche messo la faccia per bocciarlo, è una presa in giro. Il tema non è tanto che non abbiano mandato avanti la mia proposta, ma che non abbiamo messo in campo altre soluzioni: il dl carceri non interviene in nessun modo sul sovraffollamento, non lo cita neanche. Non solo non fanno niente, non consentono neanche che ci sia un libero dibattito in Aula su una proposta alternativa. Cosa ha scritto nell’esposto? È incentrato sull’articolo 40 del codice penale (ce lo legge, ndr). Sono convinto che la situazione che c’è in carcere sia anche frutto della loro omissione. Vorrei sapere se l’assunto “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo” vale solo per i comuni cittadini o anche per i governanti. Non possono non essere consapevoli della situazione che c’è nei penitenziari. Se il quadro è questo, sono convinto che loro abbiano un disegno: fare in modo che la situazione degeneri per fare un’operazione repressiva. Il sottosegretario alla Giustizia di FdI, Andrea Delmastro, sentendo queste sue accuse, ha detto che sono parole inaccettabili e che con queste denunce si soffia sul fuoco... Non so Delmastro quante volte sia stato in carcere, io ci vado da 35 anni, insieme ai Radicali, alle associazioni, ai garanti. Non posso far finta di non vedere che loro non vogliono intervenire. La situazione esplode non perché io dico “troviamo una soluzione”, ma perché loro vedono ciò che accade e deliberatamente non fanno nulla. C’è un grande dibattito nella maggioranza sulle possibili modifiche della custodia cautelare, lei è d’accordo? Assolutamente sì, ma vorrei fare presente qualsiasi modifica scatterà per il futuro. Il problema dei 61mila detenuti presenti in carcere, che diventeranno 65mila a fine anno. Il sistema per alleggerire la pressione nelle carceri deve essere trovato, ora. Al di là delle perversioni ideologiche di questo o quel politico. E intervenire sulla liberazione anticipata è un buon metodo. Vorrei ricordare che durante il Covid anche i più duri e puri sono stati costretti a intervenire facendo uscire delle persone dal carcere. E il ministro si chiamava Alfonso Bonafede, non esattamente un garantista. Ha visto che Nordio vuol andare da Mattarella a parlare di carcere? Sono curioso di cosa gli dirà, a me pare che tutto ha una funzione comunicativa, perché Mattarella delle condizioni delle carceri ha già parlato: lo ha fatto quando si è insediato, quando ha convocato il capo del Dap dopo i primi suicidi, quando ha letto la lettera dei detenuti di Brescia. E ha detto parole molto chiare. Dovrebbero solo ascoltarlo. Tossicodipendenti nelle comunità anziché in cella: la strada per sfollare le carceri è questa di Alberto Liguori* Il Dubbio, 10 agosto 2024 Fonti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria riferiscono dati allarmanti sul sovraffollamento: al 30 luglio 2024 le presenze sono salite a 61.133 a fronte di una capienza massima di 51.206. Le misure adottate dal governo nel recente Ddl di conversione del c. d. “decreto carceri” vanno nella direzione del rafforzamento delle garanzie costituzionali dei diritti del detenuto: si pensi alla liberazione anticipata che da beneficio a richiesta del detenuto viene gestito d’ufficio dagli uffici di procura. Come già anticipato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio devono però essere accompagnate da interventi strutturali in grado di coniugare libertà e sicurezza, assicurando la detenzione carceraria ai soggetti che presentano pericolosità sociale attuale e garantendo, invece, a particolari soggetti di ridotta pericolosità sociale, forme alternative di espiazione della pena. Per farlo serve prevedere circuiti alternativi al carcere per evitare il transito in carcere intervenendo sin dal primo momento processuale che vede protagonista il soggetto privato temporaneamente della libertà personale con l’arresto in flagranza di reato e sino alla condanna definitiva, selezionando gli imputati e i condannati che delinquono per ragioni legate al comprovato stato di tossicodipendenza, tenendo presente che il fattore di maggiore incidenza sul sovraffollamento è determinato dal transito penitenziario di qualcosa come 14 mila detenuti tossicodipendenti, pari a un quarto del totale. Sul punto, nel corso dell’anno 2021, in occasione dell’audizione tenuta alla Commissione giustizia della Camera, ebbi modo di illustrare la proposta volta al contenimento del transito in carcere di soggetti colti in flagranza di reato in stato di comprovata tossicodipendenza, poi recepita dal senatore Pierantonio Zanettin che ne fece oggetto di apposito emendamento (AC 2435). Evidentemente, ragioni contingenti ne hanno impedito l’approvazione. Sta di fatto che oggi nell’infuocato dibattito sul sovraffollamento delle carceri la suddetta proposta potrebbe essere attualizzata: a chi delinque per ragioni legate alla tossicodipendenza deve essere evitato il carcere e deve essere consentito l’accesso immediato alle sanzioni c. d. terapeutiche. Discorso diverso, invece, per il delinquente che strumentalmente adduce ragioni di tossicodipendenza. L’intervento, per funzionare, deve essere accompagnato dalla rinuncia dell’imputato all’impugnazione per rendere definitiva la condanna, unitamente alla rinuncia alla sospensione condizionale della pena, così aprendo la strada all’inizio dell’esecuzione penale, anziché attendere che ad occuparsene sia il magistrato di sorveglianza dopo molti anni dalla data del commesso reato. In tal modo, tra l’altro, verrebbe perfezionato l’attuale sistema processuale che già prevede l’assegnazione al giudice del merito la facoltà di applicare sanzioni sostitutive al carcere (546 bis c. p. p.). Passando, invece, alla schiera dei condannati in via definitiva, già oggi è previsto (art. 656 co. 10 c. p. p.) che il soggetto condannato in via definitiva in regime di arresti domiciliari in comunità a seguire un programma terapeutico continua ad espiare la pena senza dover transitare per il carcere. Insomma, portando a regime l’attuale sistema processuale potremmo incidere in maniera efficace sul sovraffollamento carcerario impedendone il transito a qualcosa come 14 mila prossimi soggetti destinati oggi non solo alla sicura carcerazione quanto al non riconoscimento dei diritti costituzionali di cui godono: il diritto ad una detenzione umana e dignitosa, il diritto alla vita e il diritto alle cure. *Procuratore di Civitavecchia “In carcere con mia mamma da bambino, pensavo che l’arresto fosse colpa mia” di Irene Famà La Stampa, 10 agosto 2024 Negli anni 70 era l’unico in quel penitenziario: “Non dimentico gli odori e le armi. Ai miei figli non l’ho mai detto. Tornare a casa è stato ancora più terribile, non ero pronto al mondo. Da allora soffro di depressione”. “Ero in carcere ed ero solo un bimbo. Eppure mi sentivo colpevole. Avevo detto una bugia, nascosto una bicicletta. E i miei genitori erano finiti in cella. Entrambi. Papà e mamma. E io con lei”. Detenuto bambino, ha trascorso dietro le sbarre dai due ai quattro anni e mezzo. Quell’infanzia rubata la ricorda in maniera nitida. Ancora oggi, sulla cinquantina, ha impressi i rumori, gli odori, le paure. E quelle armi che “tanto mi spaventavano”. Il nome preferisce non renderlo pubblico. E pure questo racconta tanto della sua storia. “Nemmeno i miei figli sanno ciò che ho passato. Non sanno nulla”. Perché? Prova un senso di vergogna? “Per tutelarmi. E tutelarli. Sono adolescenti, non credo capirebbero a pieno ciò che si prova a stare in cella da piccoli. Poi è anche una sorta di esorcizzazione”. Cerca di dimenticare? “Non solo. Non vorrei che quanto successo a me capitasse a loro. La verità è che non dovrebbe subirlo nessun bambino”. Si ricorda il giorno dell’arresto di sua madre? “Erano gli Anni 70. In casa nostra ci fu un blitz delle forze dell’ordine. Portarono via tutti, misero me e i miei fratelli in una sorta di casa d’accoglienza gestita dalle suore. Ero convinto che mamma e papà fossero stati uccisi”. E il giorno del suo di “arresto”? “Ho due immagini ancora molto chiare in mente. I mitra degli agenti che facevano avanti e indietro sul muro di cinta. E una scala”. Una scala? “Era lunghissima. Collegava il portoncino di ingresso alla sezione in cui mia madre era reclusa. C’erano le luci al neon, un colore verde scuro. E tanti rumori”. Aveva un lettino? “Sì, piccolo. Tutto per me. Ma proprio lì accanto c’erano le sbarre e io preferivo dormire con mia madre. Facevo tante domande su dov’eravamo e perché”. Otteneva risposte? “Mamma mi raccontava che papà, in realtà detenuto in carcere a Novara, stava male. Diceva che era in un posto per curarsi e che noi non potevamo rimanere soli. Sapevo che la realtà era un’altra. Me ne accorgevo. Quei rumori e quegli odori erano molto lontani dalla storia che lei mi propinava”. Gli odori ha detto di non poterli dimenticare. Prova a descriverceli? “Permettevano di distinguere il dentro dal fuori. Quando in carcere arrivava qualcuno dall’esterno, c’erano uno spostamento d’aria. E arrivava un odore buono, quasi di lavanda”. Chi finisce in carcere, è accusato di qualche cosa. Lei, invece, è finito dietro le sbarre senza colpe. “Io sono entrato in carcere convinto di aver fatto arrestare i miei genitori per una marachella che avevo combinato. Mi spiegarono che non era così. E allora iniziai a provare una forte ansia”. Per cosa? “Per l’attesa. Vana. Avevo paura che qualcuno, da un giorno all’altro, arrivasse e mi portasse lontano dalla mamma. Poi il tempo non scorreva mai, ero sempre solo”. Non c’erano altri bambini con lei? “All’epoca, nel penitenziario di Alessandria, ero l’unico. Intorno ai quattro anni, poi, sono stato trasferito”. Dove? “Adesso si chiama Icam, che poi è l’istituto di custodia attenuata per le detenute madri. Negli Anni 70 era un po’ diverso”. In cosa? “Era una struttura vicino al carcere. C’erano altri bambini, lì. Ma non c’era la mamma. E a me non piaceva. L’idea era quella di farci socializzare con altre persone, ma io non ero abituato. Il mio mondo era semplice”. Da chi era composto? “Da mio padre, mia madre, i miei fratelli. E i poliziotti. Dividevo tra buoni e cattivi”. Chi erano i buoni? “La mia famiglia, ovviamente. E gli agenti che vedevo intorno a me ogni giorno”. E i cattivi? “Quelli che avevano arrestato i miei genitori”. La scarcerazione quando è arrivata? “Avevo quasi cinque anni. E non ero pronto per il mondo reale. Sa qual è stato il momento peggiore”. Mi dica... “Quando i miei genitori sono stati dichiarati estranei alle accuse e siamo tornati a casa”. Non ha provato sollievo? “Al contrario. Pensavo che tutti mi guardassero, che mi considerassero “diverso”. Un bambino detenuto non è abituato al mondo reale e non ha gli strumenti per affrontarlo. Un esempio semplice: avevo sempre visto mia madre indossare la divisa del carcere. Ma una gonnellona, di quelle che andavano di moda all’epoca”. Nessun senso di libertà? “È stato terribile. Quando i miei amici descrivevano i loro ricordi, io mi rendevo conto che non ne avevo. Non avevo mai fatto il bagno con i miei fratelli, non avevo trascorso week-end al mare o in montagna. Le mie “mete turistiche” erano i muri grigi, altissimi, del carcere”. Con sua madre parlate ancora oggi di quel periodo? “No, preferiamo non parlarne più. Ce lo teniamo dentro. Mi creda, l’infanzia in cella è qualcosa che ti condiziona per il resto della vita”. La sua, come l’ha condizionata? “Da quando ho undici anni soffro di depressione. E quel senso d’ansia, di paura, resta ancora lì. I danni non si contano mentre il neonato è in cella, ma dopo. Quando finisce il suo periodo di “detenzione”. Su questo bisogna ragionare. E bisogna intervenire”. Sisto: “Carceri, piano articolato contro il sovraffollamento” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2024 Il punto del vice ministro della Giustizia: “Più alternative alla detenzione in cella e riduzione della carcerazione preventiva”. Dal passaggio dei magistrati ordinari ai Tribunali di sorveglianza a un piano ad hoc contro i suicidi in carcere. Questi alcuni dei temi che, come spiega il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto sono stati al centro del confronto tra i vertici di Governo mercoledì scorso a Palazzo Chigi. Il presidente Mattarella ha promulgato il Dl carceri a sole 24 ore dall’approvazione. Può essere il segnale dell’urgenza di intervenire. Anche se il Dl per essere operativo deve attendere i tempi dei regolamenti... Il drammatico problema delle carceri, sul quale nessuno è mai intervenuto prima come stiamo facendo noi, non si risolve con uno schiocco di dita e certamente non è stato creato da questo Esecutivo. Il Dl è un primo importante intervento di sistema, al quale ne seguiranno altri. Per quanto riguarda i regolamenti c’è l’obbligo di redigerli. Vedremo di farlo nel più breve tempo possibile. Si tratta di un tema cruciale che appartiene alla stessa civiltà del Paese. Partiamo dai numeri che dicono molto. Ci sono 61.480 detenuti a fronte di poco più di 47 mila posti utili. I suicidi da inizio anno hanno toccato la quota record di 65 per i detenuti, a cui si aggiungono sette guardie carcerarie. Come contate di affrontare una situazione così drammatica? I numeri sono impietosi. Ed è la ragione per cui a poche ore dall’approvazione del Dl c’è stata una lunga riunione a palazzo Chigi con i vertici di Governo, la stessa ragione per cui Antonio Tajani ha dato il via alla “Estate in carcere” di Forza Italia. Vi è la necessità di tenere la guardia alta. Ma un dato è certo: nessun automatismo sarà utile a fronteggiare il sovraffollamento. Uscire dal carcere perché non c’è posto vuol dire recidiva sicura. Una “strada” che si pone in contrasto anche con l’articolo 27 della Costituzione. Quali sono state dunque le vie individuate nel summit di Palazzo Chigi? Abbiamo pensato a interventi di varie tipologie: dall’aumento degli organici della magistratura di sorveglianza, alla possibilità di applicare le toghe ordinarie agli stessi tribunali di sorveglianza, possibilità oggi non consentita, da un maggior ricorso ai lavori di pubblica utilità, alla ulteriore semplificazione dei percorsi istruttori per raggiungere l’obiettivo delle alternative al carcere. Senza trascurare una riflessione sui suicidi ai quali il ministro Nordio ha riservato, oltre alle terapie in corso, un prossimo piano specifico. Il 39,7% dei detenuti che si sono suicidati era in attesa di giudizio quanto è importante agire sulla custodia cautelare? Il tema dell’eccessivo ricorso alla custodia cautelare preventiva è stato individuato come importante concausa del sovraffollamento. È dunque chiara l’esigenza di intervenire su quella che dovrebbe essere una misura eccezionale. Perché la richiesta di un incontro con il Capo dello Stato? È nella logica del gioco di squadra. Si è ritenuto doveroso dare conto al Presidente della Repubblica, che presiede anche il Csm, degli sforzi fatti e da farsi su un tema che, come noto, allo stesso presidente Mattarella sta molto a cuore. Il presidente della Repubblica ha firmato proprio ieri, a poche ore dalla scadenza del termine ultimo, il Ddl Nordio che abolisce l’abuso d’ufficio. Nel Dl carceri è stato introdotto il reato di peculato per distrazione. È un surrogato, per cercare di evitare una procedura di infrazione? Non è un surrogato. È una fattispecie precisa, determinata, che riguarda la destinazione di fondi contro le specifiche indicazioni di legge. Nulla a che vedere con la burocrazia difensiva, con la esecrabile, soprattutto per i cittadini, paura della firma. Il ddl Nordio è legge: dopo 30 giorni arriva la firma di Mattarella di Simona Musco Il Dubbio, 10 agosto 2024 Dall’abolizione dell’abuso d’ufficio all’interrogatorio preventivo: ecco tutte le misure. E intanto la maggioranza cerca una soluzione all’emergenza carceri. Sergio Mattarella, alla fine, ha firmato il ddl Nordio, rendendo ufficiale l’addio all’abuso d’ufficio. Il Capo dello Stato ci ha messo 30 giorni, non solo per i vari impegni istituzionali dell’ultimo mese - dalla visita di Stato in Brasile alle Olimpiadi in Francia -, ma anche e soprattutto per studiare attentamente ogni minima parte della riforma approvata il 10 luglio scorso alla Camera con 199 sì e 102 no. Una legge che ha allargato la crepa tra magistratura associata e governo e fatto salire sulle barricate le opposizioni, sicure che senza l’abuso d’ufficio la legislazione italiana rimarrà indietro nella lotta alla corruzione rispetto al resto d’Europa. La firma è stata preceduta da tensioni e strumentalizzazioni, alle quali il Colle, come sempre, si è sottratto evitando di alimentare ogni tipo di retroscena. A partire dalla volontà di indicare come un “ritardo” la scelta di prendersi tutto il tempo a disposizione per firmare. Le prime voci erano partite, come raccontato dal Dubbio nelle scorse settimane, a fine luglio: tra i corridoi del Consiglio superiore della magistratura, di cui Mattarella è Presidente, circolava infatti l’indiscrezione che ci sarebbe stato addirittura di un rinvio alle Camere della norma, opzione che il Quirinale, interpellato dal Dubbio, ha subito smentito. Così come ha smentito l’ipotesi di una lettera, con la quale comunicare alle Camere eventuali osservazioni ad esempio sulla possibile violazione della convenzione di Merida. È proprio a quella convenzione che si aggrappano i critici: abolire l’articolo 323 del codice penale, affermano, metterebbe l’Italia a rischio infrazione. Ma la Convenzione non pare sancire un vincolo assoluto, dal momento che l’articolo 19 richiede agli Stati aderenti soltanto di “considerare” l’adozione della fattispecie di “abuso di funzioni”, senza imporre alcun obbligo, come per la corruzione. Il problema si sarebbe posto, invece, rispetto alla direttiva Pif, che richiede la presenza del reato di appropriazione e distrazione di denaro e altri beni, a danno degli interessi finanziari dell’Ue, prima coperto dall’abuso d’ufficio. Da qui l’inserimento, nel dl Carceri, del peculato per distrazione, che dovrebbe tamponare il problema. Un decreto sul quale Mattarella ha apposto la sua firma nel giro di 24 ore, alimentando un altro retroscena: quello secondo cui il Capo dello Stato avrebbe tentato di garantire una staffetta tra il reato abolito e quello “recuperato”, per non lasciare alcun vuoto di tutela. Ma anche questa interpretazione è stata smentita seccamente dal Quirinale: tutto, confermano foti del Colle, si sarebbe svolto secondo prassi o messaggio subliminale. Le novità introdotte dal ddl Nordio impatteranno in maniera significativa sul sistema penale. Non solo per l’abolizione dell’abuso d’ufficio - che comporterà la revoca di circa 3.600 condanne già definitive, salvo possibilità di riconfigurare un altro reato -, ma anche in un’ottica - almeno nelle intenzioni del ministro - di alleggerimento sul sistema carceri. Soprattutto attraverso due punti del ddl: l’interrogatorio preventivo e il gip collegiale. Nel primo caso, è previsto un momento di interlocuzione diretta tra indagato e giudice prima della misura cautelare, introducendo il principio del contraddittorio preventivo nei casi in cui, per il tipo di reato o per la concretezza dei fatti, durante le indagini preliminari non sia necessario “l’effetto sorpresa” del provvedimento. Il giudice procede dunque all’interrogatorio prima di disporre la misura, previo deposito degli atti, con facoltà della difesa di averne copia. Ciò non sarà però possibile nei casi in cui sussista un pericolo di fuga o di inquinamento delle prove o quando, per tipologia di reati, non è possibile rinviare la misura cautelare (quando, ad esempio, vi sia il rischio di reiterazione di gravi delitti con uso di mezzi di violenza personale o in tutti i casi in cui si è in presenza di delitti gravi). La seconda novità, invece, introduce la decisione collegiale per l’adozione della custodia cautelare in carcere nel corso delle indagini preliminari. Ma dato l’impatto sull’organizzazione dei Tribunali, soprattutto per le incompatibilità dei tre giudici rispetto alle successive fasi del processo, l’entrata in vigore è prevista nel 2026, per consentire un aumento dell’organico con 250 nuovi magistrati, da destinare alle funzioni giudicanti. Le novità sono però anche altre: la riforma interviene infatti anche sul reato di traffico di influenze, limitando la sanzione penale a “condotte particolarmente gravi” ed eliminando l’ipotesi della “millanteria”, mentre la pena minima viene innalzata da un anno e sei mesi a quattro anni e sei mesi. Ma non solo: l’intervento prevede una stretta alla pubblicazione delle intercettazioni a tutela del terzo non indagato, con il divieto di pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle captazioni, salvo che non sia riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento. Con un emendamento durante l’iter in Senato, è stato incorporato nel testo un disegno di legge del senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin che vieta l’acquisizione di ogni forma di comunicazione, anche diversa dalla corrispondenza, intercorsa tra l’imputato e il proprio difensore, salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato. Infine, la riforma limita il potere di impugnazione del pubblico ministero, rispettando però le indicazioni della Corte costituzionale, che aveva già bocciato in passato la legge Pecorella. La limitazione alla possibilità per il pm di proporre appello non riguarda i reati più gravi (compresi quelli contro la persona che determinano particolare allarme sociale), non è né “generalizzata” né “unilaterale”, tenendo conto dei limiti del potere di appello anche dell’imputato introdotti dal Dlgs n. 150 del 2022. Limiti all’appello, di fatto, solo per i reati a citazione diretta a giudizio (ex art. 550 cpp). Insomma, commenta Bartolomeo Romano, consigliere giuridico del guardasigilli, “una riforma nel segno del garantismo che ora sarà pubblicata in Gazzetta Ufficiale”. Tutti questi elementi si inseriscono in un quadro ben preciso, che il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha anticipato mercoledì a Palazzo Chigi, dove la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha convocato i ministri e i responsabili giustizia dei partiti di governo per discutere dell’emergenza carceri, a dimostrazione del fatto che il dl in quel momento in fase di approvazione alla Camera non fosse risolutivo. L’intenzione del ministro, così come annunciato con una nota ufficiale, è - tra le altre - quella di limitare l’utilizzo delle misure cautelari, influendo in tal modo anche sul sovraffollamento. E di questo, a settembre, parlerà direttamente con Mattarella, al quale ha annunciato di voler fare visita probabilmente proprio per avere la sua benedizione. Ma un’idea vera, al momento, non ci sarebbe. C’è il parere favorevole - con riformulazione del governo - all’odg di Enrico Costa, che impegna l’Esecutivo a una rimodulazione delle norme sulla custodia cautelare, con particolare riferimento alla reiterazione del reato. C’è l’intenzione di proporre al Consiglio superiore della magistratura la copertura di organico per la magistratura di sorveglianza, garantendo procedure agili e veloci per il completamento della pianta organica degli amministrativi presso i Tribunali di sorveglianza. Ma nessuna proposta concreta contro il sovraffollamento, fanno sapere esponenti della maggioranza. “C’è molta confusione, molta nebulosità”, spiega una fonte interna ai partiti di governo. “Al momento ci sono poche idee e qualcuna pure confusa”. Così, nel clima di incertezza, Forza Italia si è fatta avanti, ricordando di aver già una proposta, quella a firma di Tommaso Calderone, raccontata nei giorni scorsi in esclusiva proprio sul Dubbio: nei casi di rischio di reiterazione, recita la proposta, “l’esigenza cautelare è riesaminata, anche d’ufficio, decorsi sessanta giorni dall’applicazione della misura. In assenza di nuove esigenze cautelari, desumibili da atti e fatti concreti e attuali, diversi e ulteriori rispetto a quelli sulla cui base è stata disposta la misura, il giudice ne dispone la revoca, ovvero la sostituzione con altra misura meno afflittiva”. Ad eccezione dei reati ostativi e a sfondo sessuale, quelli che destano maggiore allarme sociale. Gli azzurri hanno proposto di lavorare su quella proposta, l’unica effettivamente in campo. “Ma di idee vere contro il sovraffollamento - continua la fonte - al momento non ce ne sono”. Toccherà attendere settembre, quando il caldo, con ogni probabilità, avrà ormai trasformato le carceri in vere e proprie polveriere. Giustizia, offensiva di Forza Italia. Scontro con FdI sulle carceri di Francesco Olivo La Stampa, 10 agosto 2024 Il partito di Tajani apre nuovi fronti su penitenziari e legge Severino. Dietro alla campagna le pressioni della famiglia Berlusconi. L’estate in carcere e l’autunno in Parlamento. Gli esponenti di Forza Italia fanno visita ai penitenziari e sono pronti a dare battaglia. Gli azzurri hanno individuato il terreno dove portarla avanti: il disegno di legge sicurezza. Il provvedimento, dopo il passaggio in commissione, da settembre arriverà in Aula alla Camera. Sarà quello il momento in cui cercheranno di dare concretezza alle dichiarazioni di queste ore. I più ottimisti garantiscono che stavolta non finirà come lo scorso luglio, quando il governo costrinse Forza Italia a ritirare la maggior parte degli emendamenti garantisti al decreto carceri. Quello che è certo è che gli azzurri non hanno più remore nel dire che le misure contenute nel dl carceri, approvato mercoledì scorso dalla Camera, non sono sufficienti: “È chiaro che c’è ancora molto da fare”, dice il senatore Pierantonio Zanettin. L’obiettivo ora è intervenire sulla custodia cautelare, magari obbligando i magistrati a definire in maniera più specifica il concetto di “reiterazione del reato”, uno dei criteri che giustificano la carcerazione preventiva e che, secondo Forza Italia, viene utilizzata in maniera troppo disinvolta. Il ddl messo a punto dal ministro Carlo Nordio prevede, oltre a una stretta sulle intercettazioni, anche la decisione collegiale (tre giudici invece di uno) per la custodia cautelare in carcere, ma solo quando gli organici saranno al completo. La campagna lanciata da Antonio Tajani insieme al Partito radicale per visitare i centri penitenziari è in piena attività. Ma l’offensiva azzurra va al di là del tema delle carceri. Proprio uscendo dalla casa circondariale di Uta, il responsabile giustizia Pietro Pittalis apre il nuovo fronte: “Vogliamo intervenire per modificare la legge Severino - dice a TgCom - per evitare, in barba al principio di presunzione di innocenza, che gli amministratori pubblici condannati in primo grado debbano essere sospesi dalle funzioni”. Per i forzisti è una questione praticamente identitaria, visto che la “vittima” più illustre della Severino fu Silvio Berlusconi, costretto a lasciare il suo seggio al Senato nel 2013 dopo la condanna per frode fiscale. E l’ombra di Berlusconi si aggira ancora. Il partito guidato da Antonio Tajani ha trovato nuove motivazioni per le sue battaglie nelle dichiarazioni della figlia del fondatore. L’appello a favore dei diritti civili lanciato da Marina Berlusconi il mese scorso fa da scudo a richieste sempre più pressanti. Una dinamica che fa dire a un osservatore con una certa esperienza nella destra, come Francesco Storace, che “Forza Italia non regge più nella maggioranza. Il decreto carceri ha scardinato gli umori interni, la famiglia preme e il governo rischierà”. Una tesi che nel partito viene considerata un’esagerazione, “tanto più ora che a sinistra si sono riorganizzati non ci possiamo permettere di far saltare il tavolo”. Certo, le frasi che Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera di Forza Italia, ha consegnato al Foglio, hanno destato molta preoccupazione negli alleati: “Se non riusciamo a incidere su questo tema, cosa ci stiamo a fare al governo?”. Mulè, invita gli alleati a uscire dalla “discarica giustizialista” e indica la strada da percorrere: “Forza Italia dovrebbe da subito accelerare sulle misure alternative al carcere, rilanciare gli istituti di custodia attenuata (Icam e Icatt), puntare sui percorsi lavorativi per i detenuti e potenziare le comunità che dovrebbero accogliere i tossicodipendenti”. Una lista che in Fratelli d’Italia nessuno vuole raccogliere. L’altra battaglia che gli azzurri dichiarano di voler portare avanti è quella delle donne in carcere con i figli piccoli. Dopo la retromarcia del governo su un emendamento del Pd, al quale era stato dato inizialmente parere favorevole, i post berlusconiani sono pronti a chiedere il ripristino del differimento automatico della pena per le madri con figli fino a 12 mesi. Insomma, un pacchetto completo. Altro distinguo di Forza Italia arriva con l’ex sindaco di Verona Flavio Tosi che critica la stretta sulla cannabis-light, contenuta sempre nel disegno di legge sicurezza. La custodia cautelare spacca la maggioranza: i numeri contro Nordio di Giulia Merlo Il Domani, 10 agosto 2024 Il guardasigilli ha proposto una riforma che riduca gli arresti preventivi. Scettica Meloni, i dati dicono che non risolverebbe l’emergenza carceri. Dopo la riforma delle intercettazioni e quella del Csm, tra i propositi del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ne ne è aggiunto uno nuovo: la modifica della custodia cautelare. L’ennesimo annuncio del guardasigilli - che lo ha messo nero su bianco in un comunicato del ministero come tema di cui parlerà niente di meno che con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un inusuale incontro a settembre - è stato la miccia per le contraddizioni nel centrodestra, tenute faticosamente sopite nella stesura del decreto Carceri. Il decreto, infatti, ha messo in luce le profonde divergenze culturali interne alla maggioranza in materia di giustizia, con una spaccatura che ha riguardato anche la compagine ministeriale: da una parte il viceministro azzurro Francesco Paolo Sisto, che ha tentato fino all’ultimo di salvare gli emendamenti del compagno di partito Pierantonio Zanettin, che avrebbero inciso anche sulla liberazione anticipata dei detenuti, dall’altra i sottosegretari Andrea Ostellari e Andrea Delmastro. Persa quella battaglia e dopo l’approvazione di un decreto carceri per nulla incisivo in modo concreto sull’emergenza sovraffollamento e suicidi, il ministro Nordio ha proposto una nuova ricetta (di fatto evidenziando l’inutilità del decreto legge appena approvato): modificare i presupposti per la custodia cautelare in carcere, sulla scia dell’ordine del giorno del deputato di Azione, Enrico Costa, passato dopo una riformulazione con il parere favorevole del governo. La posizione del guardasigilli va nella direzione di incidere per rendere più stringente la motivazione in caso di “rischio di reiterazione del reato”, mentre l’odg Costa prevede di impedire l’applicazione della custodia cautelare sul presupposto del rischio di reiterazione del reato, nel caso in cui l’indagato sia incensurato e sotto indagine per reati non violenti (per esempio, quelli contro la pubblica amministrazione). Nessuna riforma è ancora stata messa per iscritto, ma la proposta Nordio ha subito incontrato il favore di Forza Italia, da sempre favorevole a stringere sulle misure cautelari. Anche la Lega ha mostrato apertura a questa posizione, sulla scia del sostegno di Matteo Salvini all’ex governatore ligure Giovanni Toti, che in custodia cautelare domiciliare ha trascorso 85 giorni prima della revoca. La maggiore contrarietà, invece, si incontra dentro Fratelli d’Italia. Il partito di Giorgia Meloni, infatti, viene da una cultura politica molto diversa e la stessa premier si sarebbe mostrata scettica sulla strada ipotizzata dal suo ministro. Meloni non ha intenzione di sentir parlare di “svuota carceri” e le uniche misure che avrebbe condiviso con Nordio avrebbero riguardato la creazione di nuove carceri - per cui il ministero intende nominare un commissario - e l’assunzione di nuovi magistrati di sorveglianza. Riformare la custodia cautelare, del resto, significherebbe infilarsi in un nuovo ginepraio giuridico e potenzialmente riaccendere lo scontro già in atto con la magistratura. Non a caso sul tema è immediatamente intervenuta l’Associazione nazionale magistrati. Il segretario Salvatore Casciaro ha definito il decreto legge sul carcere come “tardivo e inefficiente” e bollato l’intervento sulla custodia cautelare come “non il più indicato” se fatto “con un approccio che ne riduca l’applicazione per i reati contro la pubblica amministrazione, i quali non sono affatto meno gravi perché minano in profondità la stabilità e la sicurezza della società civile”. I numeri - Rimanendo nel merito della questione - l’emergenza carceraria con un sovraffollamento record e ormai 65 suicidi da inizio anno - la scelta di intervenire sulla custodia cautelare per risolvere il problema non è sostenuta dai dati. Secondo i numeri sul sito del ministero della Giustizia, al 31 luglio 2024 su 61.133 detenuti (la capienza massima è di 51.207 posti), circa il 25 per cento del totale è in custodia cautelare. Si tratta quindi di 15.285 persone, di cui più della metà (il 54 per cento) sono in attesa di primo giudizio e i rimanenti sono appellanti o ricorrenti in Cassazione. Un numero, quindi, che anche se ridotto (l’ipotesi di riforma riguarda un segmento con specifici requisiti) incontrerebbe forse un principio di maggiore garantismo giuridico ma non inciderebbe in modo sostanziale sul sovraffollamento. Va inoltre considerato che, nell’arco degli ultimi quindici anni, il numero delle custodie cautelari si è già ridotto in modo significativo. Basti pensare che nel 2010 - l’anno in cui l’Italia è stata condannata dall’Ue con la sentenza Torreggiani per il sovraffollamento (i detenuti erano quasi 68mila) - i detenuti in carcerazione preventiva erano addirittura il 42 per cento (28mila reclusi), contro il 25 per cento di oggi. Come ha fatto notare sulla rivista Sistema penale il giurista Gian Luigi Gatta, dunque “l’ordinamento ha già puntato fortemente sulla riduzione della custodia in carcere per arginare il sovraffollamento, senza però evidentemente riuscirci, purtroppo. Le cause, verosimilmente, sono da ricercarsi altrove. Questo suggeriscono i numeri”. L’altra strada aperta da Nordio, seppur più facilmente percorribile, è comunque lenta. Il ministro ha annunciato di voler chiedere al Csm di implementare i numeri dei giudici di sorveglianza, così da velocizzare lo smaltimento delle pratiche per i detenuti. A oggi i magistrati di sorveglianza sono 236, insufficienti per la mole di lavoro, tanto che nella categoria si parla di almeno 1000 toghe necessarie in più. Arrivare a questo numero, tuttavia, presuppone nuovi concorsi (già in atto) oppure il trasferimento volontario a questa funzione, e dunque un percorso non immediato. L’unica iniziativa concreta uscita dal ministero in queste ore ha riguardato il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: è stato pubblicato l’interpello per il reclutamento del Gio, il nuovo gruppo d’intervento operativo della polizia penitenziaria che dovrebbe sedare e contenere le rivolte in carcere, voluto dal sottosegretario Delmastro sul modello francese, che in passato ha ricevuto giudizi critici da parte dell’organismo europeo che si occupa di tutela dei diritti dei detenuti. L’inerzia sul carcere che mette in ombra le riforme garantiste di Errico Novi Il Dubbio, 10 agosto 2024 Ottima l’idea dei limiti alla custodia cautelare, che potranno anche attenuare il sovraffollamento, non prima di un anno. Cancellare l’abuso d’ufficio. Un azzardo, per molti. Un’esuberanza al limite dell’incostituzionalità, per alcuni. Di certo, un risultato rilevante nella politica giudiziaria del governo, e dunque nell’azione del guardasigilli Carlo Nordio. Non l’unico: già nella legge in cui è inserito l’addio all’articolo 323, e che Sergio Mattarella sta per promulgare, ci sono altri elementi di rilievo, come i nuovi limiti alle intercettazioni, incluse le tutele per i colloqui dell’avvocato con il proprio assistito, e diverse altre novità sulla fase preliminare, dall’informazione di garanzia non più sibillina al diritto, entro certi limiti, di discutere col giudice prima di vedersi sbattuti in galera. Fino al giudizio collegiale sulle richieste di carcerazione preventiva, che entrerà sì in vigore di qui a un paio d’anni, ma la cui istituzione è un passo importante verso obiettivi che il guardasigilli continua a considerare centrali. Si è insinuato per settimane che il Capo dello Stato avrebbe finito per negare la promulgazione dell’ampia riforma penale firmata da Nordio, e che ne avrebbe chiesto alle Camere un riesame, con tanto di lettera critica su abuso d’ufficio e traffico d’influenze. Non è così: il Dubbio lo ha accertato per l’ennesima volta, come potete leggere nell’articolo di Simona Musco che apre la prima pagina di oggi. Di certo c’è che, al Dubbio, il Quirinale ha ribadito la smentita, netta, del rinvio alle Camere e della fantomatica lettera di Mattarella. La Presidenza della Repubblica ha respinto nel modo più reciso possibile anche un’altra delle impegnative ipotesi circolate nelle ultime ore, vale a dire che il Capo dello Stato abbia messo in stand by la riforma Nordio per rendere contestuali l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e l’introduzione del peculato per distrazione, misura prevista nella legge di conversione del Dl Carceri firmata ieri da Mattarella. Il “nuovo” peculato è certamente ritenuto utile dal Quirinale, ma, arbitrariamente, si è ritenuto fosse indispensabile, dal punto di vista del Presidente, per tamponare la falla aperta con la soppressione dell’abuso d’ufficio. È da escludere l’idea di un congelamento di quest’ultima norma operato dal Colle per fare in modo che l’Italia non restasse neanche un giorno non solo priva dell’articolo 323 ma anche sguarnita del peculato per distrazione. Non è così: la presidenza della Repubblica lo ha ribadito. Ciò non toglie che il governo, e il ministro Nordio in particolare, abbiano fatto, sull’abuso d’ufficio, una scelta politicamente impegnativa. In tempi non sospetti, su queste pagine abbiamo riportato il giudizio non scontato e perplesso di giuristi del valore, e della convinzione garantista, di Vittorio Manes, che non escludevano il rischio di veder avanzare, nell’azione penale, ipotesi aggravate pur di perseguire condotte altrimenti non più punibili per abuso d’ufficio. Sul Dubbio abbiamo detto di comprendere come il governo abbia provato a forzare, sull’addio al 323 del codice penale, anche nell’ottica di rimuovere una parte degli ostacoli agli investimenti stranieri privati in Italia e alla realizzazione delle opere pubbliche. Una forzatura, dunque, funzionale a un’accelerazione di sistema negli ultimi due anni di attuazione del Pnrr. Si può aggiungere che certamente la politica criminale può essere fatta di forzature. È questo il caso, certo, ed è chiaro che il governo intende impegnarsi per cambiare le cose su un altro versante, in parte affrontato dal ddl Nordio ma ancora bisognoso di modifiche: l’eccessivo ricorso alla custodia cautelare. Anche per le indagini sulla politica, come si è manifestato nell’inchiesta su Giovanni Toti. Qui l’azzardo incrocerà resistenze non solo nella magistratura ma soprattutto nell’opinione pubblica, e nella retorica del “favore ai colletti bianchi” già pronta ad azionarsi. Una contraerea che puntualmente interviene, ogni volta in cui si toccano snodi cruciali dell’equilibrio tra garanzie e giustizia, soprattutto se c’è di mezzo la politica. Va bene: il Dubbio seguirà questi tentativi che il guardasigilli intende condurre, come annunciato due giorni fa, anche attraverso il prezioso consiglio del Capo dello Stato. Ma se davvero Nordio vuole riformare la carcerazione preventiva non solo per scongiurare il presentarsi di nuovi “casi Toti” ma anche per contrastare il sovraffollamento, allora sarebbe giusto attendersi anche qualcos’altro, sul carcere. Sull’immane tragedia quotidiana delle prigioni, indegna di un Paese civile, non si può intervenire, evidentemente, solo con la riforma della custodia cautelare, che evidentemente non sarà introdotta per decreto (non sarebbe costituzionalmente sensato, visto che un decreto Carceri è stato appena convertito definitivamente in legge, e visto anche che pensare di poter rispondere all’emergenza dei suicidi con una riforma penale “di sistema” sarebbe bizzarro). Sulla carcerazione preventiva ci si dovrà adattare ai tempi di una legge ordinaria. Lunghi, per quanto la maggioranza possa pensare di investire sul dossier. A un governo che sulla giustizia procede tra scelte forti - come lo stop all’abuso d’ufficio -, coraggiosamente garantiste - come sulle intercettazioni, comprese le modifiche inserite nel sottovalutato decreto 105 - e a volte decisamente elusive, come sul decreto Carceri, sarebbe lecito chiedere una determinazione più costante. Innanzitutto rispetto alla sofferenza disumana inflitta ai condannati in virtù di un sistema indegnamente carcerocentrico. Riformare, d’accordo. Ma senza lasciarsi dietro le spalle vuoti che prima o poi rischiano di inghiottire tutti come una voragine. Non tanto perché possa arrivare la condanna sollecitata da Roberto Giachetti e Nessuno tocchi Caino con il loro esposto, ma perché prima o poi le morti in galera potrebbero smettere di alimentare l’insaziabile crudeltà dei manettari e cominciare a squarciare quel velo dietro il quale sembra nascondersi da anni il senso di pietà degli italiani. Abolito l’abuso d’ufficio: restano 41bis, ergastolo e carcere preventivo di Angela Stella L’Unità, 10 agosto 2024 Rinnovata l’unità di crisi e autorizzato l’uso di attrezzatura di protezione individuale. A pochi giorni dall’approvazione della legge, nelle prigioni ci si prepara alla “guerra”. Il Presidente Mattarella ha firmato l’abolizione dell’abuso d’ufficio. E aveva firmato i nuovi provvedimenti sulle carceri. Il governo di centrodestra è soddisfatto. Ha realizzato una piccola riforma che aiuterà i sindaci a lavorare senza sentire sul collo il fiato delle toghe. Giusto, a occhio, anche se molti giuristi seri hanno dei dubbi. Non ha però abolito il 41 bis (che è una misura incostituzionale e viola tutte le convenzioni sui diritti umani), non ha abolito l’ergastolo ostativo (idem), ha aumentato le pene per le proteste in carcere, ha previsto il reato di violenza non violenta (che più che offendere la Costituzione offende il vocabolario), non ha ridotto le possibilità per i Pm (e Gip amici) di sbattere le persone innocenti in galera nella speranza che - sotto ricatto - si dichiarino colpevoli e magari chiamino qualche correo. Ha deciso - spinto dai deputati di Fdi - di cercare di aumentare il numero dei detenuti. Ha gioito (ma questa è solo una supposizione che viene dalla lettura dei giornali di destr) per la cattura di una ragazza rom che dovrà scontare 30 anni di carcere per alcuni borseggi. (Trenta: si trenta. Per stupro in genere se ne prendono 3 o 4). Dicono che sia un governo liberale e garantista. È un garantismo un po’ speciale, a base di sbarre, manette e razzismo. In carcere si stanno preparando a fronteggiare se non rivolte, almeno momenti di tensione, a causa alle norme approvate (dl carcere) o in via di definizione (ddl sicurezza), messe in campo da governo e maggioranza. Da un lato i reclusi non sono soddisfatti dei risultati contenuti nel primo provvedimento, che nulla prevede per ridurre il sovraffollamento, soprattutto ora che se ne avrebbe più bisogno visto l’aumento dei suicidi, le temperature altissime in carcere e l’assenza di attività trattamentali. Ma se provi a mettere in atto un’azione nonviolenta di protesta contro le situazioni disumane in cui ti trovi a vivere, ecco che scatta l’accusa del nuovo reato di resistenza passiva, previsto dal ddl sicurezza, e con essa l’intervento del gruppo speciale del G.I.O. Proprio ieri è stato pubblicato il bando a cui dare “urgente e massima diffusione”. Un altro segnale arriva da una circolare di un Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria resa nota dalla presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini: “Attese le informazioni giunte di recente a questo Provveditorato circa possibili stati di tensione fra la popolazione ristretta, connessi alle decisioni politiche assunte in sede di conversione del decreto numero 92/2024, si invitano le SS. LL. a sollecitare tutto il personale rispetto alla necessità di operare con massimo scrupolo e zelo, al fine di mantenere alto il livello di attenzione nello svolgimento delle attività di vigilanza ed osservazione degli Istituti penitenziari”. In pratica, commenta la radicale, “c’è consapevolezza da parte di quel provveditorato dell’inutilità del decreto carceri appena approvato”. Il 2 agosto, poi, sempre a tutti i provveditori è stata inviata dalla vice capo del Dap, responsabile dell’unità di crisi, una comunicazione di tre pagine in cui, tra l’altro, si chiede di incentivare la conoscenza nel corpo di polizia penitenziaria delle “Schede tecniche operative per la gestione degli eventi critici all’interno degli istituti penitenziari”. Nel documento si invitano soprattutto i direttori ad individuare “adeguata collocazione in zone prossime ai settori detentivi” delle attrezzature individuali di protezione degli agenti - “scudi, caschi, guanti anti-taglio, kit antisommossa” - il cui impiego non avrà bisogno di alcuna autorizzazione”. Rimarranno invece in armeria e avranno bisogno di autorizzazione per l’uso i manganelli, propriamente detti “sfollagente”. Gennarino de Fazio, Segretario generale Uilpa Polizia penitenziaria, ci spiega che “l’unità di crisi è stata costituita nel 2016 e rinnovata qualche giorno fa. Con essa sono state date disposizioni anche rispetto all’utilizzo dei kit di protezione individuale. Per fare tutti questo un qualche motivo ci dovrà pure essere”. Tuttavia, prosegue de Fazio “è singolare che nella riunione che si è tenuta anche con noi il 31 luglio nessuno abbia fatto cenno a questo. Anzi, qualcuno ha chiesto al capo del Dap se venisse ricostituita, lui ha espressamente detto “no”“. In merito ai contenuti della nota della vice capo Dap, de Fazio è critico: “ho parlato anche con qualche direttore di carcere e siamo d’accordo che le disposizioni sono inattuabili, gli agenti non sono formati. Inoltre un agente, per carenza di personale, viene contestualmente impiegato in più attività. Quando avrebbe il tempo di fare la simulazione? Uno fa il lavoro di cinque. È chiaro che se ci fosse una maggiore presenza di agenti e quindi un maggior controllo da un punto di vista probabilistico i suicidi diminuirebbero. Poi di notte un agente deve vegliare anche su trecento detenuti. A che gli servirebbe lo scudo? Questo dimostra tutto lo scollamento del Dap rispetto alla realtà carceraria”. Quindi quale sarebbe la ratio dietro alla nota? Forse ha ragione il deputato di Italia viva, Roberto Giachetti, quando ha sostenuto che “governo e maggioranza hanno un disegno ben preciso, che è quello di far esplodere la situazione nelle carceri per poi mettere in atto e giustificare un’opera di repressione molto appariscente”? “Questa volta non sono d’accordo con lui - conclude de Fazio - semplicemente al Dap vogliono mettersi a posto con le carte e fare propaganda. Ma in realtà ciò dimostra tutta la loro incompetenza del Dap. La polizia penitenziaria deve essere legittimamente dotata di questi strumenti, ma prima deve essere formata e ampliata negli organici. È chiaro che se ci sono delle tensioni, se ci sono disordini, se i detenuti si rifiutano di entrare in cella e magari dicono qualche parola di troppo e vedono gli agenti mettersi casco e scudo, gli animi non possono che surriscaldarsi piuttosto che stemperarsi”. Inconsapevolezza o disegno programmatico? Il Guardasigilli dalla parte del potere, Nordio è oltre Berlusconi di Liana Milella La Repubblica, 10 agosto 2024 L’ex procuratore aggiunto di Venezia passerà alla storia per aver utilizzato i suicidi in carcere per fare leggi a favore di amministratori pubblici e politici che violano le regole. Dovremo ricordarcelo, negli anni a venire, questo torrido agosto. Quello in cui un ministro della Giustizia ed ex procuratore aggiunto di Venezia ha violato le regole del vivere civile, sfruttando il suicidio dei carcerati per avvantaggiare i potenti. Con la compiacenza di Giorgia Meloni, la premier che vende la sua immagine di donna che viene dal popolo e che pensa al popolo. E forse non venivano dal popolo - italiano e straniero - i 65 esseri umani che in carcere hanno rinunciato a vivere? Nessuno, sano di mente e non cinico fino alle midolla, può sostenerlo. E allora consegniamo al ricordo questo 9 agosto, giorno in cui Sergio Mattarella è costretto a firmare l’unico disegno di legge prodotto da Carlo Nordio in 21 mesi di governo. In evidente contrasto con i dettami europei e le convenzioni internazionali, e a dircelo saranno la stessa Europa e la nostra Consulta. A meno che la solerte maggioranza non ne stravolga l’assetto scegliendo tutti giuristi di ultradestra. Una (ormai) legge pervasa soltanto dalla voglia di proteggere gli amministratori pubblici che prevaricano i cittadini. Nonché da quella di evitare che i colletti bianchi finiscano in cella e che i giornalisti pubblichino le intercettazioni. Ma se fosse solo questo potremmo attribuirlo a una scelta ideologica, tutelare le classi dirigenti a danno dei cittadini. Ma purtroppo v’è di più e di peggio in questa tornata legislativa, che accanto alla legge sull’abuso d’ufficio vede approvato anche il “presunto” decreto sulle carceri. Un decreto che già abusa della sua natura perché non contiene una sola norma che concretamente blocchi i suicidi. Non una sola agevolazione per i detenuti, con la beffa di quelle telefonate che passano da quattro a sei al mese. Proviamo a metterci accanto all’uomo o alla donna che sta pensando al suicidio. E che magari cerca il conforto di una voce amica che potrebbe convincerla a non farlo. E misuriamo la sua angoscia che dovrebbe attenuarsi con sei telefonate nell’arco di 30 giorni. Grottesco perfino osare pensarlo. Ma tant’è. Questo è Nordio. E con lui i suoi sottosegretari Sisto, Delmastro, Ostellari. E la sua maggioranza. Che ha tutt’altra preoccupazione. Quella di evitare che i tanti Toti finiscano in galera. È per loro che si ipotizza uno scudo. È per loro che si vuole ridurre al minimo la custodia cautelare. È per loro che si vogliono sopprimere le intercettazioni. È per loro che si vuole vietare ai giornalisti di pubblicarle. È per loro che si muove Matteo Salvini. E qui siamo ben oltre Silvio Berlusconi e il suo lodo Alfano per le sole alte cariche. Qui una maggioranza che si ammanta di presunto populismo sforna leggi a misura della casta, proteggendone gli abusi con norme compiacenti e che legano le mani ai magistrati e alle loro stesse polizie. È un giorno fosco per l’Italia quello in cui si lasciano in galera le donne con i figli piccoli. Quello in cui si chiude volutamente un occhio sugli amministratori corrotti. Quello in cui una legge e un decreto guardano esclusivamente al potere e non alla Costituzione. Riforma Nordio, gli avvocati: “Ma la detenzione preventiva resta un nodo irrisolto” di Bruno Mirante La Nazione, 10 agosto 2024 Francesco Petrelli (Unione Camere Penali): “La carcerazione prima del giudizio non agisce nell’immediato. Interventi che vanno anche nella direzione giusta ma tutti destinati ad agire in tempi medio lunghi e pertanto non sono in grado di migliorare la condizione dei detenuti con l’urgenza che un decreto legge avrebbe ovviamente dovuto implicare”. Avvocato Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle Camere penali, come ha accolto l’approvazione del Decreto carceri? “Si sarebbe dovuto trattare di un decreto che, date le crisi in atto, affrontasse le criticità del momento. Invece sono norme che non incidono in alcun modo sul sovraffollamento e non offrono ai detenuti alcun conforto nell’immediato come era necessario, dato il numero impressionante di suicidi che non accenna a diminuire”. Ci sono comunque aspetti che giudica positivi? “A parte alcuni interventi davvero inopportuni come la modifica dell’istituto della liberazione anticipata che avevamo già criticato in sede di audizione alla commissione Giustizia del Senato, e che sta creando non pochi problemi applicativi e comunicativi, si tratta di interventi che vanno anche nella direzione giusta. Ma sono tutti destinati ad agire in tempi medio lunghi e pertanto non sono in grado di migliorare la condizione dei detenuti con l’urgenza che un decreto legge avrebbe ovviamente dovuto implicare”. Il caso Toti ha riaperto il dibattito sulla carcerazione preventiva. Crede che possa contribuire a contrastare il sovraffollamento? “Anche la custodia cautelare è un problema irrisolto che si riproduce di governo in governo. Ci sono in media il 24-30% di detenuti in attesa di giudizio nelle carceri. Il che incide in modo diretto sul sovraffollamento con vistose ricadute sulle ingiuste detenzioni”. Mettere un tetto alla permanenza in carcere di chi è solo indagato, limitarla ai reati più gravi, può essere quindi re una soluzione? “Le norme sono state modificate più volte in senso restrittivo ma l’utilizzo in chiave di anticipazione della pena e spesso simbolica. Resta una distorsione più che evidente che sconta una cultura non garantista della magistratura e direi dell’intero Paese. Le modifiche apportate dal ddl Nordio appena promulgate vanno nella direzione giusta ma hanno bisogno di una complessiva verifica in termini di efficacia e di un ulteriore intervento che è già oggetto di una proposta Calderone il cui testo attendiamo di leggere”. Quali sono le altre misure da adottare a suo parere? “Abbiamo sostenuto con forza e convinzione attraverso una staffetta di maratone in tutto il Paese, tre giorni di astensione e una manifestazione nazionale la proposta di Giachetti e Bernardini sulla liberazione anticipata speciale. L’unica a poter decongestionare in tempi brevi il sovraffollamento. Ne godrebbero solo i detenuti meritevoli e l’incremento di pochi giorni non avrebbe nulla di premiale poiché si tratterebbe solo di un modesto risarcimento per le condizioni inumane e degradanti nelle quali i detenuti sono costretti a stare. La maggioranza per evitare spaccature ha preferito operare un ulteriore rinvio non assumendosi la responsabilità di un voto contrario. Riforma Nordio, l’Anm: “Le misure preventive sono l’eccezione. Limitarle non serve” di Bruno Mirante La Nazione Salvatore Casciaro (Associazione Nazionale Magistrati): “Meglio aumentare il sostegno psicologico”. Secondo il segretario generale dell’Associazione Nazionale Magistrati Salvatore Casciaro l’ipotesi di limitare la carcerazione preventiva non è una soluzione per il sovraffollamento: “La carcerazione preventiva è l’extrema ratio cui i magistrati ricorrono già ora in casi davvero eccezionali. Altre, piuttosto, sarebbero le strade da percorrere. Si è già avviato con la legge Cartabia un percorso per valorizzare e potenziare le pene sostitutive, ma spesso mancano strutture e organici per rendere effettivo un progetto di recupero esterno al circuito penitenziario”. Cosa invece si potrebbe fare? “Molte cose andrebbero fatte. Serve assicurare l’effettività del lavoro e dell’assistenza sanitaria, psicologica e psichiatrica, per fronteggiare le situazioni di disagio e sofferenza che richiederebbero attenzione, capacità di ascolto e, in taluni casi, cure immediate. Ci vuole disponibilità a risolvere i problemi della magistratura di sorveglianza: troppo pochi i magistrati che fronteggiano, con rilevanti scoperture di personale amministrativo, un’enorme mole di lavoro. Quindi garantire spazi adeguati per i detenuti con l’ampliamento e l’ammodernamento delle strutture carcerarie e delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Non si è fatto abbastanza”. Cosa pensa dello scudo penale per i governatori? “Penso che la misura non abbia alcuna attinenza con l’emergenza delle carceri. Da quanto leggo, è un’idea trasfusa in un ordine del giorno dai contorni ancora vaghi e indefiniti. Ovviamente il legislatore farà le sue scelte nell’ambito della sua discrezionalità ma dovrà pur sempre tener conto della compatibilità con i principi costituzionali, tra cui quello di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, e con gli obblighi internazionali, come la convenzione di Merida. Secondo la Camera Penale di Catania il messaggio del decreto carceri è “che muoiano tutti”... “Osservo che il decreto, contraddicendo i presupposti di necessità e urgenza, appronta misure tardive e insufficienti, mostrando una consapevolezza non piena dei problemi o quanto meno una carente determinazione nel risolverli”. Le critiche dell’Anm al decreto carceri hanno riguardato i tagli dei tempi per la formazione della polizia penitenziaria e l’introduzione del reato di peculato per distrazione, effettuata per “mettere una pezza” all’abolizione dell’abuso d’ufficio. Il ministro vi ha ascoltato? “L’Anm cerca di fornire costantemente un contributo tecnico per risolvere i problemi. Non sempre è ascoltata, e lo dico con rammarico perché occorre ‘fare squadra’ per comprendere la complessità di certi fenomeni e per individuare soluzioni efficaci. Negli ultimi tempi assistiamo invece a un impegno del governo su temi che nessun impatto avranno su efficienza e qualità della giurisdizione”. Non servono nuove leggi: per ridurre i detenuti in custodia cautelare basta applicare quella che c’è di Federica Olivo huffingtonpost.it, 10 agosto 2024 Il ministro Nordio, sostenuto solo da Forza Italia, spinge per rivedere le regole, ma che il carcere debba essere un’extrema ratio, oltre alle associazioni e ai pg della Cassazione, lo dicono già i codici: basterebbe applicarli. “L’opposizione ci aiuti a modificare le regole della custodia cautelare”, ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Lo ha fatto, peraltro, durante un vertice di governo che si svolgeva mentre il Parlamento stava approvando il decreto carceri: una sgrammaticatura che financo il presidente della Camera non ha potuto non far notare. “Cambiamo le regole della custodia cautelare”, ripete Forza Italia, risentendosi delle divisioni della Lega e della contrarietà di Fratelli d’Italia e proponendo, dice Pietro Pittalis, capogruppo in commissione giustizia “che presupposto su cui si basa l’ipotetica reiterazione del reato sia specificatamente motivato”. Già oggi, per inciso, una motivazione deve essere vergata. E per la reiterazione del reato esistono più paletti rispetto ad altri casi. Non sempre le motivazioni sono così puntuali come dovrebbero, certo, ma questo è un altro discorso. Il dibattito, nel giorno in cui il presidente della Repubblica ha firmato il ddl Nordio, si rinfocola, nonostante la pausa estiva. E subito arriva la protesta dell’Anm, che con il segretario generale, Salvatore Casciaro, sostiene. “Tra le riforme prospettate, non mi pare siano le più indicate quelle che mirano a riformare la custodia cautelare con un approccio che ne riduca l’applicazione per i reati contro la pubblica amministrazione, i quali non sono affatto meno gravi perché minano in profondità la stabilità e la sicurezza della società civile”. Il tema dell’eccesso di custodia cautelare non certo di è di poco conto: secondo le statistiche del ministero della Giustizia aggiornate a 31 luglio 2024, un detenuto su quattro - per 15.285 detenuti su 61.133 - è in carcere senza aver ricevuto una sentenza definitiva. Un numero indubbiamente enorme, che negli anni scorsi era ancora più alto: i dati pubblicati dall’ultimo report di Antigone dimostrano come nel 2008 i detenuti in attesa di giudizio o non condannati in via definitiva si aggiravano intorno al 50%. Nonostante il relativo miglioramento, abbassare ancora questi dati, oltre a essere una doverosa applicazione del principio di presunzione di innocenza, contribuirebbe ad abbattere il sovraffollamento carcerario. C’è un problema, però, per fare tutto ciò non c’è bisogno di una nuova legge. Basterebbe applicare alla lettera quella che già c’è. Basterebbe, cioè, mandare in carcere gli indagati solo se - leggiamo dal codice - c’è un “pericolo concreto e attuale” che inquini le prove, se “sussiste concreto e attuale pericolo che egli si dia alla fuga” o se, infine, “per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali”, c’è il pericolo che reiteri il reato. A patto, però, che si tratti di reati che prevedono una pena non inferiore “nel massimo” a quattro anni. Insomma, il codice mette già tanti paletti. A volte non sufficientemente applicati alla lettera dalla toga che decide. Non lo dice la politica, lo dice la magistratura stessa: “Il carcere è l’extrema ratio, è necessario ridurre il numero dei detenuti”, ha detto in una delle ultime inaugurazioni dell’anno giudiziario l’allora procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. Un monito accorato nei confronti dei suoi colleghi, il suo, che però non è stato accolto. Anche l’Unione europea aveva lanciato un monito al nostro Paese, nel 2022: “Troppi detenuti in attesa di giudizio. Custodia cautelare troppo lunga”, era il senso del ragionamento, anche in quel caso inascoltato. Lo stesso appello è stato fatto dai garanti dei detenuti e da varie associazioni. Basterebbe, però, che i magistrati applicassero la legge nel senso restrittivo con cui è nata. Di nuove leggi, che non arriverebbero comunque domani, in questo agosto funestato dai suicidi in carcere e dai tanti problemi del sistema penitenziario, proprio non ne servono. Abrogato l’abuso d’ufficio: cosa cambia per i sindaci, che prevede la nuova norma, il rischio di infrazione di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 10 agosto 2024 Il reato, contestatissimo dai primi cittadini, è stato cancellato e in parte sostituito dalla reintroduzione del peculato per distrazione: a risponderne saranno sempre i “pubblici ufficiali” e gli “incaricati di pubblico servizio”, inclusi sindaci, magistrati, medici e docenti. Quali condotte perseguiva la norma sull’abuso d’ufficio ora abrogata? Il reato di abuso d’ufficio, come formulato nell’articolo 323 del codice penale, sanzionava le condotte illecite - anche omissive - del pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio che “nello svolgimento delle funzioni o del servizio, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto”. Quindi contemplava e sanzionava quei comportamenti illeciti ulteriori e diversi rispetto a corruzione, concussione, peculato, già previsti in altri articoli del codice. Tutti rientrano nei reati contro la pubblica amministrazione. Per abuso d’ufficio si perseguivano solo i sindaci? No, con “pubblico ufficiale” e “incaricato di pubblico servizio” si intendono amministratori, come i sindaci, ma anche tutti i funzionari pubblici: dal docente al dirigente di una società “in house”, cioè che ha natura di impresa pubblica e che fornisce servizi pubblici, anche se ha forma giuridica privata, ai medici, ai magistrati. Sono stati i sindaci, però, a battersi per l’abrogazione con una lunga campagna trasversale, condotta anche da esponenti Pd. Come giustificavano i sindaci del Pd la loro posizione, diversa da quella del loro partito? Ritenevano l’insufficiente determinazione del reato la causa di molte indagini avviate contro gli amministratori, poi conclusesi con archiviazione o assoluzione, solo dopo che gli indagati avevano subito quella che consideravano “un irreparabile danno alla loro reputazione” a causa della “gogna mediatica”. Dall’istituzione, è stato calcolato dai sindaci e confermato dal ministero, il 92-93% delle indagini relative all’abuso di ufficio è finito in archiviazione, proscioglimento o assoluzione. Una sproporzione che avrebbe innescato come ulteriore conseguenza, la cosiddetta “paura della firma” di dirigenti e amministratori. Cosa sostiene chi invece difende l’opportunità del reato di abuso d’ufficio? Chi lo difende lo ritiene uno strumento fondamentale nella lotta alla corruzione. L’abuso d’ufficio, più facile da individuare, sarebbe un “reato spia”, una sorta di traccia che chi indaga può seguire per scoprire reati come la corruzione. Prima dell’abrogazione, l’abuso d’ufficio era stato già modificato? Sì, la norma ha subito due importanti modifiche. Nel 2012, per dare esecuzione agli impegni internazionali assunti dall’Italia con la Convenzione penale di Strasburgo sulla corruzione, è stato disposto l’innalzamento del limite della pena: non più da 6 mesi a 3 anni ma da 1 a 4 anni. Nel 2020, con il decreto semplificazioni, è stato ristretto l’ambito della condotta punita: il reato poteva essere contestato solo per violazione di regole espressamente previste dalla legge o da un atto avente forza di legge, e solo in assenza di margini di discrezionalità amministrativa. L’Europa potrebbe contestare all’Italia l’abrogazione di abuso d’ufficio? È ritenuto possibile da oppositori e giuristi. Il Consiglio Ue, infatti, ha adottato una posizione netta sull’abuso d’ufficio stabilendo che “sono considerati reati in tutta l’Unione europea la corruzione nel settore pubblico e privato, l’appropriazione indebita, l’ostruzione alla giustizia, l’arricchimento derivante da corruzione e il traffico di influenza”. Quindi l’Ue potrebbe aprire una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia che nel 2022 - quando il premier era ancora Draghi - ha peraltro recepito la direttiva europea che prevede l’obbligo di contestare l’abuso d’ufficio. La nuova norma approvata con il decreto carceri mette l’Italia al riparo da questa possibile contestazione? Potrebbe perché con il nuovo articolo 314 bis del codice penale, introdotto attraverso il decreto carceri appena approvato, si costruisce una sorta di reato intermedio tra peculato e abuso d’ufficio. Prevedendo il delitto di indebita destinazione di denaro o cose mobili, si reintroduce il peculato per distrazione che era stato abrogato nel 1990. Di questo reato risponderanno anche i sindaci? Sì, può essere contestato anche ai sindaci. La norma infatti sanziona quel “pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio” - cioè esattamente la definizione prevista nella norma sull’abuso d’ufficio, abrogata - che “destina denaro o cose mobili ad un uso diverso da quello previsto da disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge, dai quali non residuano margini di discrezionalità” e intenzionalmente procurando “a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto”. La reclusione prevista è la stessa del reato di abuso d’ufficio, ma prima della rimodulazione del 2012: da 6 mesi a 3 anni. “Sul ddl Nordio nessun dubbio di costituzionalità”. E ora si punta alla custodia cautelare di Simona Musco Il Dubbio, 10 agosto 2024 Intervista al viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto: “Bisogna pure intervenire sulla legge Severino, come ci chiedono amministratori di tutte le appartenenze”. Il governo non ha mai temuto che Mattarella avesse dubbi di costituzionalità sul ddl Nordio. Che è solo l’inizio del lavoro di questo Esecutivo nel campo della giustizia: il prossimo passo può essere un intervento sulla custodia cautelare, per alleggerire il problema del sovraffollamento carcerario. A dirlo è Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia, che aggiunge: “Bisogna pure intervenire sulla legge Severino, come ci chiedono amministratori di tutte le appartenenze”. Dopo 30 giorni il Presidente Mattarella ha firmato il ddl Nordio. Questa “attesa” è stata oggetto di interpretazioni e strumentalizzazioni: secondo alcuni il Capo dello Stato avrebbe nutrito dei dubbi di costituzionalità. Avete mai avuto segnali del genere dal Quirinale? Nessuna dietrologia: la firma è perfettamente tempestiva; può essere che si è atteso che fosse approvato il decreto legge carceri, che include una norma sul peculato, per evitare problemi di successioni di leggi. Il via libera conferma che il provvedimento è conforme a Costituzione e, soprattutto, non infrange alcuna direttiva europea. Eppure ancora c’è chi sostiene che l’abolizione dell’abuso d’ufficio contrasti con la convenzione di Merida... Ancora? A parte l’avallo presidenziale, non abbiamo mai avuto dubbi in proposito: avevamo esaminato attentamente la Convenzione per quanto riguarda l’abuso di ufficio e non è previsto alcun obbligo, ma solo un invito a considerare l’adozione della fattispecie. Non c’era dunque alcuna perplessità sulla conformità del ddl Nordio 1 alle direttive europee. Ciò anche tenuto conto dell’arsenale normativo di cui disponiamo, parola di Nordio, in tema di corruzione. Come ha interpretato le polemiche? Una tecnica mediatica un po’ vintage: il tentativo di creare un problema che non esiste. Ed è stato dimostrato coi fatti che davvero non esisteva. Ma le opposizioni, è giusto, fanno il loro mestiere. Il passaggio successivo, stando alle dichiarazioni di Nordio, è una riforma della custodia cautelare. C’è già un’idea di massima? Si è preso atto che si tratta di un terreno che, concausalmente, è responsabile del sovraffollamento carcerario. È necessaria una riflessione su alcuni parametri che possono essere quello della selezione dei reati o quello della migliore delimitazione delle esigenze cautelari e segnatamente della lettera c) del 274, il rischio di reiterazione, che soffre di eccesso di discrezionalità. Ancora nulla di deciso: si è preso atto della necessità di una riflessione per verificare se sono possibili soluzioni che, senza disequilibrare il regime delle misure custodiali, possano razionalizzare meglio il rapporto fra l’eccezionalità della misura e un processo che non deve essere per forza caratterizzato da misure cautelari. La misura cautelare deve essere, va ribadito, un’eccezione necessaria. Gli effetti di queste misure sono valutabili solo a lungo termine. In questo momento, però, c’è un’emergenza in atto. Come si agisce nell’immediato? Che il problema delle carceri sia drammatico, noi di Forza Italia lo percepiamo con particolare sensibilità. Abbiamo in corso “Estate in carcere”, iniziativa fortemente voluta da Antonio Tajani per monitorare le condizioni degli istituti di pena. Si sa che per noi è un problema di grande rilevanza e su cui ovviamente ci siamo spesi e continueremo a spenderci. Certo, mantenendo l’unitarietà della coalizione, ma provando a far valere i valori di Forza Italia. Crediamo nell’articolo 27: la pena deve essere afflittiva, ma deve essere contemporaneamente altrettanto rieducativa. Afflizione e rieducazione sono due canali stereofonici che devono necessariamente rimanere insieme. Detto questo, è chiaro che le terapie sono variegate e articolate, ce ne sono alcune più rapide, come quella di incentivare la maggiore fruibilità delle misure alternative alla detenzione. Nessuno spazio per gli automatismi, che sono addirittura controproducenti anche per la finalità rieducativa: dire che bisogna uscire dal carcere perché non c’è posto non è conforme alla Costituzione e provoca, inevitabilmente, la recidiva. Trovare le forme per ampliare il ricorso alle misure alternative può essere certamente una via da percorrere, anche di seguito alla verifica degli effetti di questo decreto legge. La riunione a Palazzo Chigi dimostra proprio la sensibilità del governo, la necessità di non perdere di vista il problema, di tenere alta la guardia. Fai un decreto, vedi come va, però nel frattempo ti poni il problema di cos’altro può essere fatto e te lo poni subito. Si è stabilito che Nordio abbia un incontro con il Presidente Mattarella per informarlo di tutto quello che si sta facendo e per insistere, in particolare, sul tema dei magistrati di sorveglianza, per rimpolpare i ruoli e rendere possibile che anche i giudici ordinari possano andare nei Tribunali di Sorveglianza. E come aiuta questo ad affrontare ora i 40 gradi in cella? La situazione è certamente drammatica, però con questo decreto legge, che prevede ad esempio interventi sulla sanità, sulla polizia penitenziaria, sulle misure alternative, sugli ultrasettantenni, sugli ammalati che sono agli arresti domiciliari, sul lavoro di pubblica utilità, qualche tentativo di soccorrere immediatamente il pianeta-carcere è stato fatto. Bisogna verificare gli effetti che avrà e ovviamente, se ci sarà la necessità, avere la prontezza di intervenire con altrettanta rapidità. Poi c’è la fondamentale nomina del commissario che dovrà preoccuparsi dei piccoli e grandi problemi dell’edilizia penitenziaria. Faremo di più, se necessario. Noi siamo pronti, e noi di Forza Italia prontissimi. Il caso Toti ha resuscitato il dibattito, mai sopito, sul rapporto tra magistratura e politica e spinto il ministro Salvini a invocare uno scudo penale. Cosa ne pensa? La questione dello scudo penale è antica. Io credo che bisognerebbe porsi il problema in chiave di costituzionalità, perché oggi noi abbiamo un articolo 68,dimezzato, soltanto per i parlamentari. Se qualcuno pensasse solo ai presidenti di Regione dovrebbe spiegare perché non pensare anche ai sindaci, agli assessori. Il tema corre il rischio di allargarsi a dismisura. Serve una riflessione approfondita, probabilmente rivolta più al processo che alla Costituzione. L’onorevole Pittalis ha ricordato, in questo contesto, una sua proposta: quella che modifica la Legge Severino... Sulla Severino bisogna intervenire, e rapidamente. È del tutto irragionevole, alla luce della presunzione di non colpevolezza, che una sentenza di primo grado, magari per fatti non gravi, paralizzi la vita istituzionale di un Comune o di una Regione. Credo che questo sia uno dei compiti a cui prossimamente ci toccherà assolvere. Siamo in condizioni, con un governo eletto dal popolo, di rivedere quelle norme e di restituire tranquillità ai nostri amministratori, evitando squilibri ingiustificati. Cito il professore Cassese: c’è la necessità di far sì che ci sia un equilibrio tra l’esigenza di giustizia e l’esigenza di garantire una continuità amministrativa? Si chiama, ancora una volta, presunzione di non colpevolezza. Basterebbe rispettare l’articolo 27 e tanti problemi non esisterebbero. Questo è un Paese a corrente alternata, in cui molte volte il processo mediatico, senza legittimazione alcuna, scalfisce pesantemente quella meravigliosa norma della Costituzione. Ciò che viene comunicato vale più di quello che è reale e vero. Serve buon senso istituzionale da parte della magistratura e da parte della politica. Non vedo la necessità di scontri. Episodi che lasciano sospettare che ci siano processi politicamente orientati non fanno bene al rapporto fra politica e istituzioni, non fanno bene ai cittadini, perché poi se politica e magistratura litigano, chi ne fa le spese sono sempre soltanto i cittadini. Si parla da un lato di una magistratura che vuole moralizzare la politica e di una politica che invece poi rinuncia al proprio ruolo ed evita di difendersi... Io credo che l’articolo 101 della Costituzione vada rispettato. Il Parlamento scrive le leggi e la magistratura le applica. Questo è fondamentale e se qualcuno pensa di poter scrivere la politica con i processi torniamo indietro di 30 anni. Credo che questo ormai debba essere un fenomeno da respingere decisamente al mittente. È necessaria una riappacificazione costituzionale, che a me sembra assolutamente decisiva. Basta seguire le regole della Costituzione, il 101, il 104, il 111: sono tre norme che con l’articolo 27 disegnano una roccaforte, un quadrilatero inespugnabile per i diritti di politica, magistratura e cittadini. Si è discusso molto delle frasi contenute nel manuale di Francesco Gazzoni, che esprime giudizi misogini e parla di toghe instabili. Cosa ne pensa? Su Gazzoni voglio dire tre cose. Una rondine non fa primavera e mi sembra che ci sia una strumentalizzazione eccessiva del parere di una singola persona. Anche noi abbiamo dovuto ascoltare tante affermazioni imbarazzanti: c’era chi diceva addirittura che gli innocenti sono dei colpevoli che l’hanno fatta franca, eppure nessuno ha dato più peso di quanto potessero averne alle parole di chi, all’epoca, era anche un magistrato importante. Si tratta di un’opinione personalissima, quanto esecrabile. Lo dico con molta franchezza, non ho trovato né nel Torrente né nel Trimarchi, manuali storici del diritto privato, nessuna espressione di questo genere. In un manuale di diritto privato non c’è nessun bisogno di illustrare con fumetti di cattivo gusto il ruolo della magistratura. Il luogo è sbagliato, i contenuti sbagliatissimi, perché questo crucifige della magistratura, condivido il pensiero di Margherita Cassano, non sta né in cielo né in terra, anzi contribuisce ad acuire inutilmente un conflitto che non ci dovrebbe nemmeno essere. Dobbiamo provare a dialogare con la parte della magistratura disponibile a discutere, quella che fa il proprio dovere. Credo che il professor Gazzoni, che non ho avuto il piacere di conoscere, abbia esternato dei suoi inaccettabili pregiudizi e con i pregiudizi non si va da nessuna parte. Quindi: condanna secca di quelle espressioni inappropriate, ingiuste e di cattivo gusto, del tutto infondate, sia per il merito sia per il luogo. Si può dissentire con la magistratura per mille ragioni, ma, come nelle migliori competizioni, ci si deve rispettare reciprocamente. Riforme? Inutili: con Toti i pm fanno prigioniera l’intera politica di Alessandro Barbano Il Dubbio, 10 agosto 2024 A Genova i magistrati hanno realizzato l’ultimo e definitivo strappo: hanno reso penalmente rilevante un (loro) giudizio morale, e si sono così sostituiti, una volta per tutte, ai cittadini. Ci sono, nella disavventura giudiziaria e politica di Giovanni Toti, tre indizi che raccontano uno snodo cruciale del trentennale conflitto tra magistratura e politica nel nostro Paese e che mutano in maniera definitiva il controllo di legalità esercitato dall’azione penale in un controllo di merito orientato alle prescrizioni e agli obiettivi di una ideologia morale. Si tratta di un passaggio sottaciuto, o quantomeno sottovalutato nel dibattito pubblico, ma che è destinato a produrre nel cosiddetto diritto vivente effetti difficilmente sormontabili, capaci di vanificare l’esito delle riforme pure in fieri della custodia cautelare e di accentuare la subalternità del potere politico a quello giudiziario. Il primo indizio riguarda l’idea che possa darsi corruzione attraverso atti leciti e finanziamenti regolarmente dichiarati dalla politica. Che, cioè, la coesistenza di un vantaggio prodotto da un atto amministrativo a un imprenditore, e il finanziamento dell’imprenditore al politico che l’atto ha emanato o intermediato, rappresenti da sola l’elemento oggettivo del reato. La cui natura di scambio tra prestazioni corrispettive viene dedotta dalla relazione umana tra imprenditore e politico, certificata dalle intercettazioni. Questa relazione è considerata insieme essenza del reato e prova. Che, in una costruzione narrativa del sospetto, piega alla colpevolezza perfino alcune precauzioni di tipo difensivo - come il nascondimento degli smartphone durante gli incontri - messe in atto da una classe dirigente che diffida, temendone non senza fondato motivo, dell’azione della magistratura. Questo schema interpretativo accusatorio non solo spezza qualunque tassatività dei reati e delle regole processuali, dilatandone i confini su un terreno tipicamente morale, ma instaura un processo alla politica da parte della magistratura, che si sostituisce a quello proprio della democrazia. La mediazione e la risoluzione dei conflitti di interesse diventa così la missione di una giustizia che fa discendere effetti penali da conclusioni morali. Nella prima ipotesi di reato contestata a Toti, e cioè la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, la tendenza a connotare i fatti della politica con tinte di immoralità trasforma i rapporti economici tra sfera privata e sfera pubblica in spie di mercimoni corruttivi. Nella seconda ipotesi di reato, e cioè la corruzione per l’esercizio della funzione, il fatto stesso evapora nella mera esistenza di una relazione tra l’imprenditore e il politico, facendone allo stesso tempo elemento oggettivo e soggettivo del reato. Il politico “prezzolato”, censurabile perché ritenuto dedito a scambi affaristici della propria funzione, diventa una nuova fattispecie. Di cui le intercettazioni forniscono un sintomo assunto come prova. L’impatto di un simile approccio sul piano delle relazioni civili di una società non è solo l’evanescenza della politica, ma anche il collasso dell’economia. Perché un’impresa dovrà finanziare la politica, se non nella speranza che l’azione di questa, ferma la legittimità degli atti amministrativi, finisca per favorire i suoi interessi? E quale impresa avrà più interesse a finanziare la politica, se dall’attività di questa non potrà ricavare nessun vantaggio senza commettere un reato? Ma la sterilizzazione dei rapporti tra politica e impresa conduce inevitabilmente alla paralisi economica. Il secondo indizio della disavventura giudiziaria del governatore racconta tutto lo sforzo creativo della magistratura per dare valore cogente a questo paradigma penale/morale, ben oltre il testo della legge. Quando il Riesame di Genova, aderendo in toto alla tesi del pm, motiva la mancata scarcerazione di Toti con la sua incapacità di ammettere il reato, assume l’autocensura morale della propria condotta come l’unica condizione per ritenere insussistente il rischio che il reato si ripeta. Senza ammissione e pentimento, Giovanni Toti conserva intatta la sua tendenza a delinquere. Vuol dire che la sostanza delle norme che disciplinano la custodia cautelare è già divenuta essenzialmente morale, quantomeno nell’interpretazione applicativa che la magistratura ne dà, facendo strame di qualunque presunzione di non colpevolezza. Come se non bastasse, la potenziale pericolosità dell’indagato è desunta da una presunzione oggettiva connessa al mantenimento della carica. È questo il terzo e ultimo indizio: la persistenza dello status di governatore è condizione ostativa per escludere il rischio di reiterazione del reato. Se Toti non si dimette, la corruzione potrebbe ripetersi. Vuol dire che nell’esercizio stesso della politica c’è una potenzialità criminogena di cui tenere conto nel processo. Ciò serve a legittimare il ruolo di tutela che la magistratura si è autoassegnata, e che senza alcun imbarazzo può essere impiegato come motivazione per giustificare i suoi provvedimenti cautelari. Che riassumono tutte le finalità attribuite un tempo alla pena: la retribuzione, come giusta misura per la colpa morale commessa, la deterrenza che l’esempio proietta nella politica, e la rieducazione che rimette nel circuito civile soggetti ormai consapevoli del disvalore delle proprie condotte. Il giudicato, è il caso di dirlo, è ormai una storia che proprio non riguarda più nessuno. Torino. Devastazione del Ferrante Aporti, sotto inchiesta quindici minorenni di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 10 agosto 2024 Sono quindici gli adolescenti iscritti sul registro degli indagati per aver preso parte alla rivolta nel carcere Ferrante Aporti nella notte tra l’1 e il 2 agosto. All’indomani della sommossa, la Procura dei minori - coordinata dalla procuratrice capo Emma Avezzù - aveva aperto un fascicolo ipotizzando il reato di devastazione. E ora le indagini restituiscono i nomi dei protagonisti di quella notte di rabbia in cui è stata distrutta la gran parte dei locali e degli arredi che si trovano al pianterreno dell’istituto di corso Unione Sovietica. La svolta è arrivata grazie alle testimonianze degli agenti della polizia penitenziaria - 9 in servizio quella sera, tra cui 2 donne - che per primi hanno dovuto fronteggiare i ragazzi, per poi essere costretti a battere in ritirata fino all’arrivo dei colleghi in tenuta antisommossa. Ai loro racconti dettagliati, dai quali traspare anche la paura e la preoccupazione di quelle ore, si sono aggiunte le immagini estrapolate dai filmati registrati dalle telecamere di sorveglianza prima che la sala regia - l’ufficio che collega l’intero sistema - venisse presa d’assalto e demolita. Non solo, ci sono i video girati dagli stessi detenuti con un tablet di cui erano riusciti a impossessarsi negli istanti di massima confusione e poi postati su Tiktok. Da qui i primi quindici minorenni identificati (tutti italiani) e considerati tra i più agguerriti protagonisti della protesta: tra loro c’è anche il sedicenne condannato a 9 anni e 6 mesi per aver lanciato una bici dalla balaustra dei Murazzi e ferito gravemente Mauro Glorioso (il ragazzino, assistito dall’avvocato Domenico Peila, è stato trasferito nel carcere di Catanzaro). Non tutti risponderanno del più grave reato di devastazione (la pena varia tra 8 e 15 anni): i magistrati contestano ad alcuni la resistenza a pubblico ufficiale e singoli episodi di violenza. Una distinzione che tiene conto del grado di partecipazione e del ruolo avuto nel corso della sommossa. All’inizio l’impressione era stata che tutti i detenuti - gli ospiti del penitenziario erano 52 - avessero preso parte alle violenze, ma le immagini ora rivelano che alcuni di loro sono rimasti in disparte e altri avrebbero cercato invano di opporsi. L’indagine non è ancora conclusa, altri detenuti potrebbero finire sul registro degli indagati nei prossimi giorni. L’inchiesta della Procura minorile corre parallela a quella della magistratura ordinaria. Il procuratore aggiunto Patrizia Caputo e il sostituto Davide Pretti ipotizzano a loro volta i reati di devastazione e incendio: il fascicolo - per ora contro ignoti - riguarda le azioni che avrebbero compiuto i giovani adulti del Ferrante Aporti, ragazzi che hanno un’età compresa tra i 18 e i 25 e che stanno scontando in corso Unione Sovietica le pene inflitte quando erano minorenni. In particolare, i magistrati stanno cercando di capire se ci sia un collegamento tra i disordini del minorile e quelli avvenuti nel carcere Lorusso e Cutugno: entrambe le proteste sono avvenute lo stesso giorno e alla stessa ora. Nel frattempo, i pm hanno indagato - a vario titolo per resistenza, minacce e lesioni - 8 detenuti del penitenziario degli adulti. Oristano. Emergenza medici a Massama: “Cure con telemedicina e Ascot” di Michela Cuccu La Nuova Sardegna, 10 agosto 2024 “Nel carcere di Massama il servizio sanitario è talmente precario che la direttrice ha inviato un sollecito alla Asl, informando tra gli altri, anche il ministero della Giustizia e lo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Altrettanto ho fatto io che ho scritto anche al sindaco sollecitando il suo intervento perché è impossibile andare avanti con un medico presente per poche ore, mai quotidianamente, tanto che spesso l’ambulatorio resta chiuso”. Denuncia una situazione “che sta comportando gravi violazioni di legge”, il garante dei detenuti, Paolo Mocci: “Ho chiesto l’intervento del sindaco Massimiliano Sanna quale autorità sanitaria locale, responsabile della condizione di salute della popolazione del suo territorio, comprendente anche la porzione di popolazione detenuta - spiega - mi sono rivolto anche al presidente del Consiglio comunale, Giuseppe Puddu, al quale ho chiesto di informare e coinvolgere l’assemblea consiliare”. Le autorità competenti Mocci le ha avvertite tutte: dal prefetto, al provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Sardegna, ma anche solo per citarne alcuni, l’assessore regionale alla Sanità e i garanti nazionali dei detenuti. “Faccio mie le preoccupazioni della direttrice del carcere, Elisa Milanesi che ha segnalato una precarietà insostenibile - dice - in queste condizioni a Massama si violano le leggi. Ad esempio: non si riesce a garantire la visita medica obbligatoria al momento dell’ingresso che permetta di accertare se il detenuto abbia subito violenze o maltrattamenti ma anche, nei casi sospetti, di effettuare i controlli per evitare il diffondersi di malattie contagiose tra la popolazione carceraria”. Mocci prosegue spiegando che senza la presenza costante del medico, non si può assicurare la visita necessaria prima del trasferimento del detenuto per certificare lo stato psico-fisico e le condizioni che rendono possibile sopportare o meno il viaggio. A Massama, come riferisce il garante, questa visita può essere effettuata soltanto a ridosso della partenza. E poi ci sono i controlli sanitari quotidiani e obbligatori per i detenuti tenuti in isolamento che a Massama non sono garantiti. Niente accertamenti tempestivi anche nel caso di scontro fisico tra detenuti ed è impossibile persino monitorare i parametri vitali di coloro che rifiutano di mangiare e bere. Attualmente il servizio di medicina è ridotto ad appena il 25 per cento di quanto sarebbe necessario. “Non è ammissibile. Teniamo conto che a Massama su 260 detenuti, 200 sono in regime di alta sicurezza. Spesso si tratta di detenuti anziani, con patologie croniche legate anche alla lunga detenzione. La presenza costante del medico in una struttura come questa è indispensabile”. Ma di medici per il penitenziario non se ne trovano. È quanto ribadisce il direttore generale della Asl, Angelo Maria Serusi, che rispondendo alla lettera della direttrice, afferma: “Purtroppo la disponibilità di personale medico non è sufficiente a garantire tutte le esigenze. Abbiamo percorso tutte le vie possibili per il reclutamento di personale medico e medico-specialistico, attuando per tempo selezioni, attraverso l’ausilio della medicina convenzionata di Ares. Le selezioni bandite da Ares si sono rivelate infruttuose ed allo stato attuale non si intravedono soluzioni atte a compensare le carenze”. Secondo Mocci a questo punto è indispensabile seguire strade alternative. “Innanzitutto che si offrano incentivi finanziari e professionali per attrarre medici verso il servizio penitenziario. Questo potrebbe includere stipendi competitivi, benefici aggiuntivi e possibilità di avanzamento di carriera”. Tra le possibili soluzioni c’è anche il ricorso alla telemedicina e agli Ascot: “Il progetto, inaugurato proprio nel bacino sanitario di Oristano, avrebbe l’efficacia innanzitutto di rendere economicamente più appetibile il lavoro in carcere per i medici. L’utenza che si rivolge alla medicina penitenziaria d’altronde non è composta solo dalle persone ristrette ma anche da tutti coloro che durante l’orario di lavoro possono aver necessità di assistenza medica”. L’ultima proposta del garante è di stabilire accordi con università e scuole di specializzazione medica “per creare programmi di tirocinio e specializzazione in medicina penitenziaria”. Ferrara. I Radicali: “Ai detenuti diciamo: no rivolte”. Allarme suicidi dentro le celle di Lucia Bianchini Il Resto del Carlino, 10 agosto 2024 Poco personale e sovraffollamento di detenuti, il 20% dei quali potrebbe usufruire di pene alternative al carcere. Questa la situazione riportata in occasione della visita estiva alla casa circondariale Costantino Satta di Ferrara da parte di una delegazione del Partito Radicale, composta dai consiglieri nazionali Maura Benvenuti e Vito Laruccia. Ad accompagnarli in visita alla struttura sono stati l’ispettore Roberto Panico e l’assistente capo coordinatore Francesco di Micco, che hanno mostrato anche l’infermeria e le aree dedicate ai cosiddetti articolo 21 - cioè i detenuti ammessi al lavoro esterno e quelli in regime di semilibertà - e l’area colloqui, “molto importante e ben gestita”, secondo Maura Benvenuti. Tema scottante sono i suicidi, a livello nazionale 64 per i detenuti e sette per coloro che Marco Pannella chiamava i detenenti, gli agenti cioè della polizia penitenziaria, che come sostiene Vito Laruccia “hanno difficoltà lavorative, spesso si trovano a dover affrontare situazioni che non sono di loro competenza”. Il carcere “è un mondo difficile, si fa fatica a non portare fuori il proprio lavoro - confermano gli agenti - c’è sovraffollamento di detenuti e carenza di personale, spesso si fanno più turni di servizio perché non ci sono nuovi arrivi. Molti arruolati, dopo appena pochi mesi in carcere, si congedano. Il carcere è lo specchio della società dal punto di vista delinquenziale, entrano detenuti in continuazione, il 20% di loro hanno una condanna breve da scontare, meno di un anno, e potrebbero usufruire di pene diverse dal carcere”. A fronte di una capienza massima di 240 detenuti, la struttura ne ospita invece 387. “A livello nazionale - sottolinea Laruccia - il ministro Nordio ha sostenuto che ci sono circa cinquemila detenuti che potrebbero uscire, ma non succede, servirebbe un provvedimento specifico, ed è questa la proposta che Irene Testa e Maurizio Turco hanno fatto al ministro. Parallelamente, a seguito di un consiglio nazionale, abbiamo suggerito ai detenuti di non dare vita a sommosse, ma di fare richieste di grazia al Presidente della Repubblica, strumento applicato ben poche volte, ma possibile”. Una realtà quindi non facile, che a detta degli agenti necessiterebbe di una vera e propria rivoluzione: strutture carcerarie nuove a sostituzione di quelle esistenti, ormai obsolete; a Ferrara è in programma un nuovo padiglione, ma servono fondi e nuovo personale. “Abbiamo detenuti che lavorano - proseguono gli agenti -, ma le risorse sono limitate: se potessero impegnare la giornata alcune situazioni che si verificano non avrebbero luogo, ma dobbiamo farli lavorare a rotazione; alcuni di loro non hanno nemmeno qualcuno che venga a colloquio. Grazie alle donazioni è stato almeno possibile mettere in campo ventilatori e impianti di condizionamento. Rispetto a vent’anni fa i detenuti sono molto più liberi di circolare nei reparti, non sono più costantemente chiusi in cella, possono socializzare tra loro, ma diventa complesso gestirli e sorvegliarli, perché spesso per 60 o 70 detenuti c’è un solo agente”. Udine. Troppo caldo nelle celle: una campagna per alleviare il problema di Fabio Dalmasso Famiglia Cristiana, 10 agosto 2024 Oltre al sovraffollamento, in estate si aggiunge il problema delle temperature insopportabili. L’associazione Icaro, l’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine e l’associazione La Società della Ragione hanno lanciato l’iniziativa di raccolta fondi “Un frigo per ogni cella”. Obiettivo: acquistare 35 frigoriferi per i detenuti. Fatto il decreto, ecco la polemica: mentre a Roma si discute sulla bontà o meno del cosiddetto “decreto carceri” convertito in legge mercoledì 7 agosto con il voto favorevole del Senato, sul territorio non c’è molto tempo per le parole. I problemi degli istituti penitenziari sono sotto gli occhi di tutti e richiedono risposte urgenti. Al sovraffollamento ormai cronico, infatti, d’estate si aggiungono le condizioni a dir poco critiche di alcuni case circondariali in cui il caldo afoso rischia di esacerbare situazioni già di per sé molto difficili. Situazioni che chi svolge attività di volontariato conosce bene, come sottolinea Roberta Casco, presidente dall’Associazione Icaro Volontariato Giustizia Odv (www.icaro.fvg.it) di Udine: “Durante un incontro dei rappresentanti della Società della Ragione con la direttrice sono emersi i tanti problemi legati alle condizioni di vita quotidiana dei detenuti, in particolare quelli legati alla condizione estiva particolarmente pesante per la riduzione delle attività e per la condizione climatica. Il caldo è insopportabile specialmente in celle in cui la capienza viene raddoppiata. Dove dovrebbe stare una persona sono in due, e si arriva a sei o otto persone ammassate con letti a castello e un solo servizio igienico. Non c’è aria condizionata e grazie al cappellano il mese scorso sono stai forniti i ventilatori, uno per cella”. Nell’istituto udinese di via Spalato sono attualmente presenti 175 detenuti, a fronte di una capacità di 86 posti (90/95 con l’utilizzo di alcune sezioni non utilizzate). “40 sono in attesa di primo giudizio, il 30% è condannato per detenzione o piccolo spaccio di sostanze stupefacenti e quasi la metà sono stranieri. È davvero lo specchio della detenzione sociale”, sottolinea la presidente di questa associazione che nei giorni scorsi ha lanciato una nuova e importante iniziativa per rendere più umana la vita di chi si trova in carcere. “Durante quell’incontro è emersa l’assenza di frigoriferi in cella, se non in alcune nelle quali i detenuti se lo sono acquistato. L’amministrazione penitenziaria fornisce i televisori, per sedare o per far passare il tempo, ma non un elettrodomestico per garantire di conservare gli alimenti o bevande fresche”. Che fare dunque? Gettare il cuore oltre l’ostacolo e lanciare la sfida “Un frigo per ogni cella”: l’associazione Icaro, assieme all’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine e l’Associazione La Società della Ragione, promuove infatti una raccolta fondi con obiettivo l’acquisto di 35 frigoriferi al costo di € 150 l’uno per un totale di € 5.250. “Abbiamo lanciato questo appello avendo fiducia nella risposta positiva di una rete che in questi anni si è consolidata”, sottolinea Casco, “siamo sorpresi della risposta immediata e numerosa. Possiamo già garantire la consegna di 20 frigoriferi. Ovviamente ci auguriamo di poter completare il bisogno”. Fondata nel 1994 grazie a Maurizio Battistutta insieme ad altri sei volontari, oggi l’Associazione Icaro può contare su circa 30 volontari che portano avanti una vasta serie di progetti tesi a favorire l’applicazione di ciò che prevede l’ordinamento penitenziario, soprattutto per quanto concerne il reinserimento nella società delle persone detenute nell’intento di ridurne il rischio di recidiva. Dai colloqui al servizio distribuzione libri, passando per i gruppi di lettura, i laboratori di scrittura creativa e molto altro, l’associazione è da 30 anni in prima linea per “non far sentire soli e abbandonati i detenuti che vivono una condizione senza speranza. Molte proteste stanno avvenendo in assenza di risposte da parte del Governo”, conclude la Presidente, “noi siamo impegnati nello sforzo di dialogo e di attenzione. Nelle celle è appeso un calendario che per il secondo anno abbiamo predisposto con una scelta di dodici articoli della Costituzione, poesie e disegni di detenuti premiati nelle edizioni del Premio letterario Maurizio Battistutta (premio di prosa, poesia e grafica, aperto a tutti i ristretti delle carceri italiane e nato nel 2018, Ndr). Crediamo nell’arte e nella bellezza”. Per contribuire all’iniziativa “Un frigo per ogni cella” si possono effettuare donazioni tramite Paypal https://www.paypal.com/donate/?campaign_id=D95FZELYA7PHS o c con un bonifico su c/c bancario intestato a “La Società della Ragione” presso Intesa San Paolo, IBAN IT40F0306909606100000106293 causale “Un frigo per ogni cella”. Cagliari. Quartucciu, la generosità illumina il carcere minorile: arrivano i giochi per i ragazzi di Francesca Melis L’Unione Sarda, 10 agosto 2024 Ondata di solidarietà dopo l’appello della Garante dei detenuti, Irene Testa: atteso anche un biliardino. Quando Irene Testa, garante dei detenuti, ha lanciato un appello sui social media, non avrebbe mai immaginato l’effetto esplosivo che avrebbe avuto. Durante una visita all’istituto minorile, i ragazzi hanno espresso un desiderio semplice ma sincero: giochi da tavolo per passare il tempo durante la calda estate, poiché proprio le alte temperature impediscono loro di giocare all’aperto. Decisa a fare qualcosa, Testa ha postato un appello su Facebook chiedendo al popolo dei social di donare giochi di società inutilizzati. In poco tempo, il post ha raccolto un’ondata di risposte sorprendenti. Da giornalisti e consiglieri regionali a semplici cittadini, la solidarietà è arrivata da ogni angolo del Paese, anche dalla Francia. Molti hanno risposto all’appello, inviando giochi, donazioni e persino offrendosi di visitare l’istituto per insegnare ai ragazzi come giocare. I risultati sono stati concreti e immediati: numerosi giochi da tavolo sono arrivati all’istituto, alcuni lasciati direttamente all’ingresso del carcere e altri ordinati online. Un biliardino è in arrivo, promettendo ulteriori ore di svago e socializzazione per i giovani ospiti dell’istituto. L’iniziativa ha avuto un impatto profondo. I ragazzi, che hanno iniziato la stagione estiva con una sensazione di noia, hanno ricevuto non solo giochi ma anche un messaggio potente di umanità e connessione. La garante sottolinea quanto questo gesto abbia portato una nuova prospettiva e motivazione ai ragazzi, offrendo loro un motivo per sorridere e sperare in un’estate più vivace. Una mobilitazione inaspettata che dimostra come anche nei luoghi spesso dimenticati, la comunità può unirsi e fare una differenza significativa. La risposta calorosa e generosa ha rinvigorito Testa e ha confermato che, con il sostegno collettivo, è possibile portare un po’ di luce e speranza nelle vite di chi ne ha più bisogno. “Quando la comunità si unisce”, afferma, “possiamo fare miracoli e cambiare le vite in meglio”. Al Beccaria il primo teatro dentro un carcere. “Così diamo ai ragazzi una seconda possibilità” di Eleonora Bufoli La Stampa, 10 agosto 2024 L’associazione Puntozero porta in scena i ragazzi dell’Ipm milanese e dà loro l’occasione di ripartire, anche con il lavoro. Ecco le loro storie. Il teatro come punto zero, da cui ripartire. Da quasi trent’anni l’associazione Puntozero lavora con i ragazzi del carcere minorile Beccaria. Periferia ovest di Milano, capolinea della metro rossa, si concentrano i problemi degli istituti detentivi: il sovraffollamento con 37 posti e 60 ragazzi, il gran numero di minori stranieri non accompagnati, la mancanza di personale formato sul lato psicologico. Il Beccaria è anche il luogo dove ci sono state rivolte, evasioni, indagini della procura di Milano nei confronti di 21 agenti accusati di violenza. Un nome che non richiama più l’autore lungimirante di “Dei delitti e delle pene” ma violenza e sofferenze. Eppure, qui c’è un teatro che offre un’altra possibilità e un’altra narrazione. Il Puntozero è il primo ad aver aperto all’interno di un carcere come luogo in cui lavorare e mettere in scena spettacoli per il pubblico. Dal 1995, dalla passione sociale di Giuseppe Scutellà, direttore artistico e regista - “sono il più vecchio della compagnia, vista l’età media di 22 anni” scherza - e della presidente Lisa Mazoni, il teatro apre il laboratorio ogni giorno dalle 9 alle 22 a ragazzi di 16-17 anni. Con i professionisti e gli studenti della Statale costruiscono la scenografia, imparano le battute, calcano il palcoscenico. Un’attività lavorativa a tutti gli effetti, che nell’ultimo anno, dal settembre 2023 a luglio 224 ha coinvolto 139 ragazzi. “Le attività in teatro stanno riprendendo con gli articoli 21 che il direttore propone alla magistratura - ha spiegato Lisa Mazoni durante l’ultima seduta della sottocommissione carceri - I ragazzi nei laboratori si comportano in maniera completamente diversa rispetto a come fanno in sezione”. Il teatro può anche creare ponti comunicativi con ragazzi che per la maggior parte non parlano italiano. Molti sono i minori stranieri non accompagnati. A fronte dei pochi mediatori linguistici dell’Ipm, il teatro ha messo a disposizione mediatori linguistici di arabo con competenze teatrali. “Un ragazzino pochi mesi fa si è ricopiato integralmente in arabo il testo di Romeo e Giulietta per capire cosa significano le scene teatrali - racconta Scutellà -. Il teatro è uno strumento molto utile anche in questa direzione”. Puntozero significa anche lavoro. 8 sono i ragazzi assunti. “Prima del lavoro bisogna creare nei ragazzi l’affezione al lavoro - spiega Scutellà - stiamo parlando di ragazzi che hanno una bassissima scolarizzazione. Il nostro compito è prelavorativo, aiutarli a trovare il senso su quello che vanno a fare”. Le storie dei ragazzi, dopo essersi incontrate tra le mure dell’ipm e dietro e davanti le scene del teatro, si differenziano. C’è chi impara a costruire scene, chi fa il manovale, chi si appassiona all’arte tanto da diventare un fotografo di fama internazionale “per Vogue” sottolinea con orgoglio Scutellà. “Ricordo un ragazzo albanese eccezionale che ha dato il colpo iniziale all’abbattimento del muro perimetrale tra carcere, teatro ed esterno, è stato assunto come manovale da una ditta che ha fatto i lavori nel teatro”. Puntozero è infine un incontro con il pubblico, con spettacoli come “Antigone”, “Alice nel paese delle meraviglie”, “Errare humanum est”. Ora è tempo di prove per i ragazzi e il palinsesto da settembre sarà arricchito con un classico shakespeariano, “Sogno di una notte di mezza estate”. “Le persone che vengono a vedere gli spettacoli si dimenticano di essere all’interno di un carcere - racconta Scutellà - Si chiedono chi sono i detenuti. Noi non lo diciamo mai, tanto che ora facciamo anche le magliette ‘siamo tutti detenuti’”. Il Beccaria può ripartire dal polo culturale Puntozero. “Era anche la citazione di un grande regista teatrale, Peter Brook, che scrisse ‘prima di entrare in scena come attore devi fare il tuo punto zero e da lì parti’. Mi piace pensare che nella loro testa possa scattare il piano B”, conclude Scutellà. Parole Liberate, premiati i testi dei detenuti di Antonia Fama collettiva.it, 10 agosto 2024 Il Cremona Music International Exhibitions and Festival ha assegnato uno speciale award all’album prodotto in carcere dal discografico Paolo Bedini. Prendi carta e penna, e poi le emozioni liberate su un foglio bianco e stropicciato. Mettici sopra una melodia, trasformala in armonia. Avrai così “Parole Liberate”, un album molto particolare, nato in carcere dalla collaborazione tra musicisti professionisti e detenuti. Pubblicato in due volumi, il primo nel 2022 e il secondo nel 2024, è stato prodotto dalla casa discografica Baracca & Burattini di Paolo Bedini, che ha ricevuto uno speciale award dal Cremona Musica International Exhibitions and Festival. Il premio verrà assegnato nel corso dell’edizione 2024, dal 27 al 29 settembre, della principale fiera al mondo per gli strumenti musicali d’alto artigianato, che si tiene ogni anno nella citta? natale di Stradivari e polo internazionale dello strumento musicale. Parole Liberate è un progetto nato grazie a un bando vinto dall’omonima associazione di promozione sociale, emanato dal ministero della Giustizia. L’obiettivo è proporre ai detenuti di scrivere un testo che diventa canzone, grazie al contributo di importanti artisti della scena musicale italiana. Tra loro Cesareo, chitarrista di Elio e le Storie Tese, per l’occasione in veste di produttore; lo statunitense Pat Mastelotto, percussionista dei King Crimson; la Bandabardò e il bassista Tony Levin. Tra gli artisti che hanno partecipato al primo volume ci sono i NuovoNormale, Petra Magoni, Ambrogio Sparagna, Yo Yo Mundi e Acquaragia Drom. “Un Award speciale che conferma l’attenzione della manifestazione verso la musica come elemento portante della cultura e della vita dell’uomo - spiega il Presidente di Cremona Fiere Roberto Biloni. La scelta di premiare Paolo Bedini sottolinea l’importanza di iniziative che coniugano arte e impegno sociale, aprendo nuove prospettive e offrendo speranza attraverso la creatività. La musica ha un potere straordinario e premiare questo progetto significa anche dare voce a chi spesso non ne ha”. I due album hanno riscosso grande successo di pubblico e critica, e sono un esempio concreto di come la musica possa abbattere barriere, e creare nuove possibilità di dialogo e comprensione, parlando di diritti. Alla pubblicazione sono seguite esibizioni on stage nelle carceri di tutta la penisola e anche all’esterno. I due dischi hanno ottenuto per due anni consecutivi dal ministero della Cultura il primo posto nella sezione Progetti Speciali. Il primo volume ha ricevuto inoltre il prestigioso Premio Lunezia e il secondo posto alle Targhe Tenco, la più importante rassegna italiana della canzone d’autore. “Le proteste di oggi ricordano quella del 1974. Non è cambiato nulla” di Teresa Cioffi Corriere di Torino, 10 agosto 2024 Alessandro Venticinque e il suo film sulla rivolta di Alessandria. Nel carcere Don Soria di Alessandria tra il 9 e il 10 maggio 1974 scoppia una rivolta. Ci sono le urla, ci sono gli ostaggi e poi c’è il sangue. In quella che oggi è la Casa Circondariale Cantiello e Gaeta, tre detenuti armati prendono in ostaggio una ventina di persone tra agenti, altri detenuti, un medico, insegnanti e un’assistente sociale. Il tentativo è l’evasione. Seguono le trattative ma la tensione cresce e le forze dell’ordine entrano nell’istituto. Si arriva a una sparatoria e perdono la vita sette persone, cinque ostaggi e due rivoltosi. Una storia riportata alla luce da Alessandro Venticinque, regista del docu-film a puntate “Memoria Dimenticata”, prodotto da Lav Comunicazione della Diocesi di Alessandria. Un racconto che punta i riflettori sulle zone d’ombra della vicenda, che si concluse con la condanna dell’unico rivoltoso sopravvissuto: Everardo Levrero. Ha incontrato Levrero? “Sì, vive all’estero. Ci ha dato la sua versione dei fatti spiegando in che modo è stata preparata la rivolta, quando le armi sono entrate in carcere, cosa è successo in quei giorni. La grande domanda ancora oggi è: chi ha ucciso gli ostaggi? C’è chi continua a sostenere sia stato fuoco amico e chi ritiene siano stati colpi provenienti dai detenuti”. Che effetto le fanno le notizie che arrivano dalle carceri? “È paradossale che cinquant’anni dopo ci siano ancora proteste che assomigliano a quelle del 1974. Ovviamente speriamo che non si verifichino più esiti drammatici come quelli di Alessandria. Ma le motivazioni che spingono le rivolte sono le stesse”. Non è cambiato nulla? “Nulla. Le carceri vengono dimenticate. Le strutture sono fatiscenti, manca sia il personale che le risorse. Poi c’è il problema del sovraffollamento, che ad Alessandria rappresentava una criticità già negli anni Settanta. I dati sui suicidi in carcere, invece, ci parlano di una crescita del fenomeno”. Differenze tra le rivolte di ieri e di oggi? “I temi che spingono la rivolta sono gli stessi, ma c’è da dire che la popolazione carceraria è cambiata. Le storie di chi è in carcere oggi sono diverse, basta pensare al mix di nazionalità e culture. E questo aumenta le difficoltà di gestione all’interno degli istituti”. I rivoltosi ora dialogano con l’esterno tramite Tiktok.. “Nel 1974 le voci della protesta venivano raccolte da gruppi e movimenti politici, soprattutto quelli extraparlamentari. Oggi, in modo illegale e di nascosto (ma non così tanto, evidentemente), si può comunicare tramite i social, anche da dentro. Questo, intanto, ci dice che in carcere a entrare molti oggetti, come i telefoni. I social permettono di far conoscere un pezzo di ciò che accade, ma non credo che questo possa portare benefici reali”. Decreto Carceri: cosa ne pensa? “L’impressione è che si voglia mettere un piccolo cerotto su una ferita profonda e sanguinante. Fino a che punto i provvedimenti del decreto serviranno ad alleggerire l’emergenza carcere? Il ministro della Giustizia parla di “umanizzazione carceraria”, la speranza è che si metta davvero al centro l’umanità del detenuto e di chi lavora in carcere. Altrimenti, sarebbe come allungare un’agonia”. Perché ha deciso di raccontare la storia del Don Soria? “Neanche io la conoscevo, nonostante sia nato e cresciuto ad Alessandria. È importante, invece, sapere cosa è avvenuto per fare pace con una tragedia che ha segnato profondamente la città. Inoltre penso sia un documento utile per avviare una riflessione sull’attualità: la situazione di ieri non è poi così diversa da quella di oggi”. Livia Turco: “Radicalità evangelica e radicalità politica, l’opposizione si unisca per gli ultimi” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 10 agosto 2024 “Fraternità è la parola chiave da trasportare dalla cultura cristiana alla politica, così che l’opposizione si unisca e ricostruisca le sue proposte concentrandosi sul sociale e sul riscatto degli ultimi”. Livia Turco, una vita a sinistra. Più volte parlamentare, già ministra per la Solidarietà sociale (1996-201) e ministra della Salute (2006-2008), oggi fa parte della Direzione nazionale del PD. Nel suo percorso politico una costante è stata l’attenzione verso il cattolicesimo democratico, nella sua molteplicità e ricchezza di espressioni sociali, culturali, politiche. Ciclicamente, i cattolici vengono chiamati in causa come “assenti” dal valzer della politica. C’è chi agogna un partito cattolico, chi correnti cattoliche nei partiti, anche il Pd, che facciano valere i propri convincimenti. Siamo alle solite o c’è qualcosa di nuovo? Una fase nuova coinvolge l’associazionismo ed il variegato mondo del cattolicesimo democratico che potrebbe essere sintetizzata così: come tradurre la radicalità evangelica in radicalità politica. Come alimentare e rendere capace non solo di azioni, ma di parole pubbliche e di pensiero condiviso nella sfera pubblica il magistero di Papa Francesco. Esso si basa su un nuovo annuncio del Vangelo attraverso la figura fraterna e misericordiosa del buon samaritano. Compito del cattolicesimo democratico, molto avvertito dal ricco e plurale associazionismo cattolico, è come fare diventare la fraternità il paradigma di un nuovo pensiero politico che ridefinisca il nostro modello di sviluppo a partire dall’amore per l’ambiente e dal riscatto degli ultimi; le relazioni tra popoli e Stati in cui diventa centrale la pace, intesa non solo come assenza di conflitti, ma rigenerazione del mondo il cui viviamo; la rinascita della democrazia. Temi cruciali ed urgenti in questo nostro tempo e che devono incidere nell’agenda politica. Una questione che le associazioni hanno discusso in un seminario svoltosi il 26 marzo di quest’anno presso la sede delle Acli e che anima un interessante libro curato da Claudio Sardo, “Sfidare il realismo. Politica dei cristiani e radicalità Evangelica” (Marietti Editore). Tema al centro delle recenti settimane sociali che hanno visto una volta partecipazione ed una ricchezza di temi scanditi all’interno di un perimetro ben definito: la fraternità come rigeneratrice della democrazia. Riflessione che ha trovato i suoi punti più alti negli interventi del presidente Mattarella e di Papa Francesco e che trova una riflessione compiuta nel libro di Padre Francesco Occhetta, presidente della fondazione Fratelli tutti, “Democrazia. La sfida della fraternità”. La fraternità comporta una rottura antropologica che riscopra il valore generativo della relazione con l’altro, con l’altra e ridefinisce il senso stesso della libertà e dell’uguaglianza. E qui entra in gioco la sinistra... La fraternità è un tema che va al cuore della sinistra, che ha nel suo patrimonio genetico la dimensione comunitaria della vita ed è stata, seppure con categorie diverse, costruttrice, per l’appunto, di fraternità. Che non può non rielaborare, in un tempo in cui abbiamo fatto e facciamo esperienza della interdipendenza e del legame che unisce le persone di ogni parte del mondo ed unisce tutte le parti del mondo, sempre più globale, multipolare ed interdipendente. Una corrente di pensiero abbina l’idea del cattolicesimo politico come perno di “moderazione”, di equilibrio tra estremi. Ma non è una lettura forzata, politicista? Il mondo solidale, quello che si batte per i diritti dei più deboli e indifesi, è denso di Ong, associazioni, di ispirazione cattolica. Come la mettiamo? Non voglio certo interpretare né semplificare la complessa storia del cattolicesimo politico, scandito da fasi diverse e sempre attraversato da pluralità di pensieri e di modalità nel rapporto con la politica. La capacità di mediazione e di dialogo è un tratto sempre rivendicato dal cattolicesimo democratico e sociale. Oggi la Chiesa è animata da un magistero papale molto radicale, a partire dal valore della fraternità, capace di incidere nelle agende politiche dei paesi di tutto il mondo. Un magistero che anima il protagonismo di un associazionismo ampio e plurale sui temi della pace, della lotta contro la povertà, della difesa dell’ambiente, del sostegno alle famiglie. Ma è molto attivo anche un associazionismo che attacca la libertà femminile sull’aborto, propone una concezione tradizionale della famiglia. Il motto “Dio, patria, famiglia” che anima la destra italiana è condiviso da parte delle gerarchie cattoliche, oltre che animare un robusto associazionismo. Un tema cruciale è quello della pace. Senza scomodare La Pira, e venendo ai giorni nostri, segnati da guerre infinite, dall’Ucraina al Medio Oriente, il pacifismo non è nel dna del cattolicesimo sociale e politico più avanzato? Da molto tempo Papa Francesco ammonisce il mondo intero sul fatto che stiamo vivendo una terza guerra mondiale a pezzi. Di fronte ai drammatici conflitti tra Ucraina e Russia e tra Gaza ed Israele, il Papa, le gerarchie ecclesiastiche e la Cei, hanno messo in atto azioni concrete per una diplomazia di pace: cessare i conflitti, aprire un negoziato e si sono costantemente appellate agli Stati, ai governi perché mettessero in atto azioni diplomatiche per avviare negoziati di pace. La pace non solo come assenza di conflitti ma come nuova cooperazione tra i popoli, multilateralismo, riduzione degli armamenti, superamento delle diseguaglianze nel mondo, autorevolezza delle istituzioni sovranazionali, a partire dall’Onu, sono le proposte che animano le tante associazioni ed il variegato mondo del cattolicesimo democratico. È importante che tali proposte diventino sempre più parte del dibattito pubblico e coinvolgano i partiti e le istituzioni, per incidere e trovare soluzioni più avanzate. Sul filo della memoria, legando il presente ad un passato di altissimo valore culturale, oltre che politico. Ricordo il carteggio su Rinascita tra il segretario del Pci Enrico Berlinguer e monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea. Quale valore ebbe allora quel confronto e cosa ci lascia oggi? Il carteggio Bettazzi-Berlinguer è sicuramente una delle pagine più significative del dialogo tra cattolici e comunisti. Nella sua Lettera del 1976, Monsignor Bettazzi riconosce al Pci di essere un partito che si è guadagnato la stima e la fiducia di molti cattolici e di aver avuto il coraggio di eleggere in Parlamento con una lista autonoma - la Sinistra indipendente - importanti ed autorevoli personalità del mondo cattolico. Berlinguer nella sua risposta accoglie i solleciti rivolti da monsignor Bettazzi, affinché siano riconosciute nella loro autonomia, anche nelle esperienze di governo, le istituzioni e le opere di ispirazione cattolica che operano in campi importanti come il sociale, la scuola, la salute. Ricorda che l’attenzione al sentimento religioso e la considerazione che da una coscienza religiosa può scaturire un inedito ed originale contributo per la trasformazione sociale e per la costruzione di un mondo più umano e giusto ha scandito tutta la storia del Pci. A partire dal pensiero di Gramsci, Togliatti, i lavori nella Assemblea costituente, anche negli anni difficili della guerra fredda, per fermare la corsa agli armamenti ed affermare la pace, l’attenzione alle novità del concilio Vaticano II. L’attenzione e la elaborazione del sentimento religioso è stata una delle radici della originalità e peculiarità del comunismo italiano. Un “campo largo”, altro tema che ritorna ciclicamente fuori, per essere davvero attrattivo non dovrebbe definirsi soprattutto per e non solo contro? L’ azione messa in atto con molta efficacia dalla segretaria del Pd Elly Schlein, dall’insieme del gruppo dirigente nella sua pluralità e che ha condotto agli importanti risultati elettorali recenti è stata contrassegnata da proposte concrete “per”: salario minimo, sanità pubblica, immigrazione, politica europea, politica per la pace, per il sostegno alle fasce più deboli, per la libertà femminile, per il sostegno alla maternità e paternità, per il diritto al lavoro, per la democrazia in un contesto di sviluppo umano e sostenibile, di difesa e rinascita della democrazia. Bisogna proseguire su questa strada affrontando anche il rinnovamento del partito. Proseguire nella politica unitaria. Che non è solo rapporto tra forze politiche, ma aggredire il nodo duro del forte astensionismo. Dunque, la sfiducia dei cittadini e cittadine verso la politica. Bisogna costruire un legame tra la politica e la vita delle persone. Costruire nella società dei contesti che siano generatori di vita, avendo fiducia nei nostri giovani, mettendo in moto, come si sta facendo con la Conferenza, la forza delle donne, costruendo una solidarietà tra le generazioni. Bersani e Gianni Cuperlo hanno proposto nei giorni scorsi i comitati per l’Alternativa. Ricordo la fecondità dei comitati dell’Ulivo che si chiamavano “L’ Italia che vogliamo”. Condivido questa proposta: abbiamo bisogno di promuovere la cittadinanza attiva, plurale, territoriale. Li chiamerei “comitati per la Rinascita della democrazia”, ricordando che, come recita l’articolo 3 della Costituzione, non c’è democrazia senza giustizia sociale. Democrazia, giustizia sociale, libertà, fraternità. Il fine vita e l’apertura del Vaticano. Le associazioni: facilita le scelte di Margherita De Bac Corriere della Sera, 10 agosto 2024 Le storie di Luciana e altri malati. Per chi li assiste “questo passo tranquillizza loro e le famiglie”. “Il piccolo lessico del fine vita legittima ciò che è già sancito dalla legge sul testamento biologico e può facilitare le scelte delle famiglie dei pazienti”. Giada Lonati, direttrice socio sanitaria dell’associazione Vidas (2 hospice a Milano e hinterland, nata nel 1982) è convinta che il vademecum della Pontificia Accademia per la Vita servirà anche a tranquillizzare malati e parenti sul significato terapeutico di alimentazione e idratazione artificiali, due trattamenti la cui sospensione “mette paura” perché viene equiparata, erroneamente, all’interruzione delle cure. Per Lonati quello del Vaticano è un tentativo di fare chiarezza anche terminologica e di superare alcuni equivoci: “Bisogna spiegare alla gente che interromperli non significa dare morte prematura. Sono atti sanitari che non hanno niente a che fare col suicidio assistito e l’eutanasia”. Nei centri di cure palliative la presenza dei tubicini che garantiscono all’organismo il rifornimento di acqua e nutrienti quando a queste funzioni non si può più provvedere direttamente, è una delle preoccupazioni centrali: “Noi tendiamo a non avviare la nutrizione artificiale. I pazienti ci chiedono molte volte basta, non fatemi soffrire. Temono che la loro sofferenza venga prolungata, paventano l’accanimento terapeutico ed è proprio quello che noi vogliamo combattere”. Il pensiero va a Luciana, una donna di 60 anni seguita a domicilio da Vidas, e a tutte le persone che hanno seguito il loro “lessico” privato senza conoscere quello della Pontificia Accademia: “Quando non potrò mangiare né bere preferirei che idratazione e alimentazione artificiali non mi venissero applicate”, è il desiderio espresso da molti. Giorgio Trizzino, ex direttore dell’hospice di Palermo e creatore della Fondazione Samot, ricorda che monsignor Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, già due anni fa aveva espresso queste posizioni “ed è importante che ci sia ritornato sopra perché ciò darà una ulteriore spinta alle cure palliative la cui rete va potenziata mentre ho l’impressione che l’attuale governo non ne abbia intenzione”. Secondo Trizzino, ex deputato di M5S e primo firmatario di un disegno di legge sul suicidio assistito nella precedente legislatura, i numeri di malati che potenzialmente potrebbero accedere alle cure palliative è molto più ampio dell’offerta di posti. “Anche sull’accanimento terapeutico bisognerebbe convincere medici e anestetisti che esiste un momento in cui fermarsi e che i pazienti non andrebbero sottoposti a forzature diagnostiche e terapeutiche”. Sapersi fermare significa evitare accertamenti inutili, chemioterapie pesantissime, somministrazione di farmaci indicati come quarta e quinta linea terapeutica: “Gli oncologi le prescrivono sapendo che saranno inefficaci o porteranno a un aggravamento delle condizioni”. Danila Valenti, direttore del dipartimento di integrazione delle cure palliative della Ausl di Bologna, definisce un grande passo avanti la “pronuncia” contenuta nel Piccolo lessico: “Conferma che la legge sul testamento biologico del 2017 è valida anche nella parte relativa alla possibilità di rifiutare i trattamenti di idratazione e alimentazione. Il concetto non era mai stato riaffermato in modo così esplicito nonostante non sia giunto inaspettato. I cattolici devono sentirsi rassicurati”. Quante domande di mettere fine ai trattamenti ricevete? “Molte, e spesso sono i familiari a intervenire: ma noi cerchiamo di rispettare le volontà dei malati”. Migranti. Ancora un morto: Cpr come buchi neri di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 10 agosto 2024 Dopo la tragica vicenda di Palazzo San Gervasio, il Tavolo Asilo torna a chiedere la chiusura dei centri. Gabrielli, Cgil: “Stop alle politiche securitarie”. Le organizzazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione esprimono il loro sgomento nell’apprendere la notizia della morte di Belmaan Oussama, un ragazzo algerino di 19 anni trattenuto nel Centro di permanenza per i rimpatri di Palazzo San Gervasio, in Basilicata, per il quale il procuratore della Repubblica di Potenza, Francesco Curcio, non esclude l’omicidio, doloso o colposo. Indetto un sit-in per sabato 10 agosto alle ore 11 davanti al Cpr. La morte di Oussama, che sarebbe avvenuta lo scorso 5 agosto, “ha innescato una rivolta delle persone trattenute nella struttura e sollevato numerosi interrogativi - scrive in un comunicato il Tavolo Asilo -. Cosa è successo dopo le dimissioni dall’ospedale? Perché è rientrato nel centro? Chi ha fatto il certificato di idoneità per il suo reingresso? E chi ha vigilato sulla sua incolumità? Risulta che al momento del decesso fosse in servizio un solo infermiere, nessun medico, per 104 persone trattenute”. Un sistema da abolire - “Non ci sono dati ufficiali e sistemi di rilevazione trasparenti ed efficienti per fare la conta dei morti - prosegue il comunicato -; una ricerca di ActionAid e dell’Università di Bari stima che siano 30 le persone che dal 1998 hanno perso la vita nei Cpr, fra cui, a febbraio di quest’anno, un altro diciannovenne, Ousmane Sylla, che si è suicidato a Ponte Galeria. Mentre notizie tragiche arrivano dalle carceri, anche nei Cpr le persone sono portate alla disperazione da un sistema di detenzione amministrativa che è un’aberrazione, uno spazio di negazione del diritto”. Nel comunicato si ricorda che in Italia ci sono otto Cpr, “otto aberrazioni giuridiche e sociali, otto buchi neri in cui alle persone sono negati diritti e dignità. Un sistema irriformabile che va abolito. In questi centri è entrata una delegazione del Tavolo toccando con mano le condizioni di vita e trovando circa 550 persone che, dall’anno scorso, possono essere trattenute per 18 mesi”. Servono politiche d’accoglienza - “Diciamo da tempo che i Cpr sono un luogo di detenzione e di segregazione, dove non soltanto spesso vengono meno le condizioni di umanità minime delle persone, ma che proprio strutturalmente e concettualmente sono nati dall’idea sbagliata di avere un luogo dove persone a cui viene incollato il presunto reato di non avere un titolo di soggiorno, per il quale vengono confinate”, ci dice Maria Grazia Gabrielli, segretaria nazionale della Cgil, che partecipa al Tavolo Asilo. “Questo strumento sbagliato delle politiche migratorie - prosegue - è all’interno di un quadro più complessivo che dimostra come l’approccio continui a essere su un’impronta che è tutta di ordine pubblico, sicurezza ed emergenza che sono i tre assi per assumere le scelte. È evidente che i Cpr andavano già chiusi molto tempo fa e invece stiamo tornando a un sistema di gestione della migrazione ancora una volta a svantaggio di una vera politica di accoglienza e integrazione. Basti pensare che aumentano le spese per la tutela dei confini con il protocollo Albania, dove in realtà portiamo i nostri operatori e le forze dell’ordine. Un buon sistema di accoglienza consentirebbe invece di costruire percorsi di reale cittadinanza nel nostro Paese”. La Cgil e le altre associazioni del Tavolo hanno scritto una lettera al sottosegretario agli Interni, Nicola Molteni, con la quale è stato chiesto “di comprendere e di considerare i dati sull’immigrazione e dare risposta alle mancanze, ma le risposte concrete continuano a non arrivare - rimarca Gabrielli -. Una potrebbe essere il riconoscimento del titolo di soggiorno per sfruttamento a chi lavora nelle campagne, in agricoltura e non solamente. Persone che non hanno nemmeno gli strumenti per poter denunciare la loro condizione di sfruttamento e di schiavitù”. Per la segretaria della Cgil “serve cambiare l’approccio e nel contempo trovare anche soluzioni pratiche alle condizioni delle persone che lavorano in maniera regolare o irregolare nel nostro Paese, invece la politica continua a lavorare e a investire sulla sicurezza, sui confini, sul l’uso dei Cpr”. “Rivendichiamo e chiediamo anche in virtù della condizione umana e materiale di quelle persone una soluzione non mediana per rimuovere quella condizione”, sottolinea la sindacalista. Bisogna riaprire realmente una discussione - prosegue - conoscendo l’importanza del quadro europeo, ma sapendo che ci sono scelte che intanto l’Italia può fare. Su questi punti continueremo il nostro lavoro, perché ci sono un fronte e un’attenzione ampia, c’è un’attività che abbiamo iniziato a fare e che continueremo perché per noi questi sono temi importanti e dirimenti”. Per tutti i motivi esposti nel comunicato e da Gabrielli il Tavolo Asilo ha quindi indetto il sit-in per sabato 10 agosto alle ore 11 davanti al Cpr di Palazzo San Gervasio allo scopo di chiedere che tutti i centri vengano chiusi, che venga resa giustizia ad Oussama e a tutte le persone che hanno perso la vita nei luoghi di trattenimento. Migranti. Il giallo del 23enne morto nel Cpr di Potenza. Il procuratore: non escludo l’omicidio di Carlo Vulpio Corriere della Sera, 10 agosto 2024 Nel Centro di permanenza per i rimpatri un ragazzo marocchino è morto e non si sa ancora bene perché: se per le botte dei poliziotti, degli operatori o di altri detenuti, se per non essere stato soccorso in seguito a un malore. Lo chiamano Psg, ma la squadra di calcio parigina non c’entra. Psg è l’acronimo di Palazzo San Gervasio, cinquemila abitanti, dove si trova un Cpr, Centro di permanenza per i rimpatri, in cui tutti parlano francese, oltre che arabo.Nel Cpr di Psg sono ospitate, internate, rinchiuse, detenute, dite come vi pare, 100 persone, quasi tutte marocchine. Dal 5 agosto, i reclusi sono diventati 99, perché uno di loro è morto e non si è ancora capito bene perché: se per le botte dei poliziotti, degli operatori o di altri detenuti, se per non essere stato soccorso in seguito a un malore - quando, all’improvviso, la sera del 4 agosto, è collassato ed è stato abbandonato a sé stesso - oppure per entrambe le cose. Quando il ragazzo marocchino di 23 anni è stato trovato morto, nel pomeriggio di lunedì 5, nel Cpr è scoppiata una rivolta. Prima le proteste e le urla, poi, in serata, un incendio. Con due “moduli” detentivi, sui 17 totali, carbonizzati. I pompieri ci hanno impiegato tre ore per domare le fiamme, i 50 poliziotti in tenuta antisommossa hanno arginato la ribellione, i 20 o 30 militari dell’Esercito hanno raddoppiato il cordone intorno alla cinta muraria del Cpr, detto anche “La Voliera” o “Guantanamo”, e i detenuti alla fine si sono arresi. Dall’altro ieri, poi, i 99 del Cpr sono diventati 85 perché ben prima della scadenza dei tre mesi di detenzione previsti dalla legge Minniti-Orlando, con provvedimento del questore di Potenza, sono stati liberati 14 prigionieri, che si sono dati alla macchia: secondo gli avvocati che li rappresentano, proprio quelli che i magistrati avrebbero potuto convocare come testimoni sulla morte del ragazzo. Il quale, in un primo tempo, era stato identificato come “Oussama Belmaan, algerino, di anni 19”, perché il giovane aveva dichiarato false generalità. L’unica cosa certa per il momento è il suo numero di matricola, 4607, che lo identificava tra gli altri cento reclusi del centro, o campo, o lager, o gulag, anche in questo caso dite come vi pare, il concetto e la traduzione di queste parole significano la stessa cosa. Ma il numero di matricola 4607 non è sufficiente a risalire ai genitori del ragazzo per consegnare loro il corpo, che per adesso resta insepolto e senza nome sul tavolo anatomico di un obitorio anche dopo l’autopsia di rito. Nemmeno a Priamo e ad Antigone toccò questa sorte. Il procuratore di Potenza, Francesco Curcio (che con l’aggiunto Maurizio Cardea due mesi fa ha chiuso un’altra inchiesta sullo stesso Cpr per la somministrazione forzata di psicofarmaci ai detenuti, con 27 persone indagate) ha detto che “non si può escludere l’omicidio”. E ieri ha acquisito la testimonianza registrata di Hamza Ezzine, un altro detenuto del Cpr, amico del giovane morto, che il Corriere, grazie all’associazione “Migranti Basilicata”, aveva rintracciato e sentito telefonicamente appena l’uso dei cellulari, per placare la rivolta, è stato dal questore nuovamente consentito ai detenuti. Il Corriere ha anche sentito altri testimoni, tra i quali alcuni operatori del Cpr (dipendenti della cooperativa “Officine Sociali”, che ha in appalto la struttura), ma non la direttrice del centro, Katia Candido, sempre irraggiungibile. I loro racconti su questa Terra di Nessuno, dove le vite “degli altri” sono sospese e non vale nemmeno l’ordinamento penitenziario che regola le carceri “normali”, sono incredibili. “A me questo posto fa schifo - dice un operatore che chiede l’anonimato -, ma devo lavorare. Ho famiglia. Qui, questa gente sta 24 ore su 24 dietro le sbarre. E alla fine commette atti di autolesionismo”. È stato proprio un atto di autolesionismo di Hamza, trent’anni, anch’egli marocchino, a segnare la sorte del ragazzo numero 4607. “Lui è salito sul tetto per me - racconta Hamza -. Protestava perché nessuno veniva a soccorrermi dopo che avevo ingerito dei bulloni e mi ero inferto un profondo taglio sul braccio. Grazie a lui mi hanno trasportato all’ospedale di Melfi, dove mi hanno ricucito con nove punti di sutura”. Hamza è un parrucchiere e circa dieci giorni fa, quando ha tagliato i capelli al suo amico 4607, aveva notato che nella parte alta della fronte “aveva un buco grande quanto una moneta”. Dice Hamza: “Gli ho chiesto cosa gli fosse successo, ci siamo guardati e ho capito. Quando però sono rientrato dall’ospedale di Melfi, ho saputo che 4607 era stato “prelevato”. L’ho rivisto la sera, quando due persone lo trasportavano a braccio, trascinandolo come un corpo morto per poi abbandonarlo sul pavimento della cella”. Era domenica sera, 4607 giaceva per terra. Nessuno lo ha soccorso. I compagni di cella allora hanno bagnato di acqua un materasso e lo hanno sistemato fuori, adagiandovi sopra il ragazzo. Che ha trascorso la notte così, senza mai ridestarsi. Il giorno dopo, alle 17, lo hanno trovato morto. Nella “Voliera” è atterrato un elicottero del 118 e l’hanno portato via. Subito dopo è scoppiata la rivolta e le fiamme hanno avvolto il Centro di “assistenza” di Psg. Migranti. Chi c’era e chi no alla sepoltura delle 21 vittime del naufragio in Calabria di Antonio Maria Mira Avvenire, 10 agosto 2024 Non c’era nessuno ad accompagnare nella sepoltura le 21 vittime senza nome del naufragio del 17 giugno al largo delle coste calabresi. Anzi c’erano i “soliti”, i soliti che salvano, soccorrono, accolgono, accompagnano, consolano. Lo fanno sempre, ci sono sempre, questa volta anche nel tristissimo e drammatico tentativo di riconoscere le salme. Appena 15 sulle 36 recuperate. Sono le donne e gli uomini delle Caritas e degli uffici Migrantes delle diocesi di Reggio Calabria-Bova e Locri-Gerace, del Coordinamento diocesano sbarchi di Reggio, della Croce Rossa, della Protezione civile, delle Forze dell’ordine, in particolare la Guardia costiera, della Prefettura. Volontari, Chiesa, Istituzioni. Loro c’erano come ci sono sempre. Questa volta a piangere e pregare con l’arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, don Fortunato Morrone, e il responsabile del centro culturale islamico di Reggio Calabria, Hassan El Mazi. Davanti a quelle bare, una più piccola e bianca, un’altra più grande per ospitare una mamma col suo piccolo ancora non nato, morto senza conoscere la nuova terra verso la quale la mamma lo stava portando, terra di speranza e libertà per chi fugge da terre di violenza e intolleranza. Su ogni bara un biglietto con un numero e un’unica parola. “Salma”. Scene già viste dopo i naufragi di Cutro e Lampedusa, ma qui è diverso. Questa volta è diverso. È diverso il luogo della sepoltura, il cimitero di Armo fortemente voluto dalla Chiesa reggina e finanziato dalla Caritas italiana, per accogliere i migranti morti nei naufragi e i poveri della città. Al centro un piccolo monumento che ricorda la famosa “porta di Lampedusa”, ma mentre nell’isola è una porta compiuta, perché le persone ce l’hanno fatta, qui la porta è spezzata, come le vite spezzate di chi non ce l’ha fatta. C’è poi un ulivo, albero che rappresenta tutti i Paesi mediterranei. E ancora le immagini dell’Africa e dell’Europa e la riproduzione della colonna che ricorda la prima predicazione a Reggio Calabria di San Paolo, anche lui migrante. E poi una grande tavola in pietra col passo della Genesi in cui Abramo seppellisce Sara accolto dagli Ittiti. Bellissimi simboli di accoglienza, di solidarietà, di umanità. Sullo sfondo le montagne calabresi e un limpido cielo azzurro. Davvero una bella giornata per accompagnare i ventuno che non ce l’hanno fatta a sbarcare su questa splendida terra. “Questa - ha sottolineato la prefetta di Reggio Calabria, Clara Vaccaro - è una vicenda nostra che viviamo in questa terra”. Ha ragione, questa è una vicenda solo calabrese. Lei è l’unica rappresentante nazionale. Nessun ministro o sottosegretario, nessun politico nazionale o regionale, di qualunque schieramento. Neanche una presenza di parole, nessun commento, nessun comunicato per queste 21 persone. Roma è lontana, distratta. “Forse è meglio così, si sono evitate passerelle”, ci dice una volontaria che da anni accoglie chi sbarca in Calabria. Ma è la conferma di quanto denunciato dal vescovo di Locri-Gerace, don Franco Oliva parlando di “un naufragio di serie B, che ha visto interessati pochi politici”. Lo ha ripetuto don Rigobert Elangui, direttore dell’Ufficio Migrantes della stessa diocesi. “Rispetto a Lampedusa e a Cutro, nel caso di Roccella c’è stato un silenzio istituzionale spaventoso”. Non quello dei “soliti”, presenti sempre e anche oggi. “Un atto di resistenza - lo definisce l’arcivescovo, don Fortunato Morrone - che, come umanità, compiamo per non dimenticare che i migranti sono persone e che la loro vita spezzata è una tragedia. Il nostro compito è quello di essere presenti lì dove c’è sofferenza”. Presenti, appunto, coi fatti dell’accoglienza, della condivisione, dell’inclusione. Ma anche nel dolore, nella pietà, nella consolazione. Oggi nel rito della sepoltura, nelle scorse settimane accanto ai familiari delle tante vittime e dei pochi sopravvissuti, tra speranza e dramma. Davvero una resistenza al dolore, all’intolleranza, alla violenza. Ma soprattutto una presenza, quella che in tanti hanno preferito evitare. Perché fa paura, è scomodo, confrontarsi con queste bare e con chi le accompagna.