I minori in carcere fomentano vendette di Elena Stancanelli La Stampa, 9 settembre 2023 Chiunque invochi il carcere per un minore sta commettendo un reato contro la comunità. La sta ingannando, sta facendo credere che si tratti di un provvedimento per diminuire il crimine: non è vero. Quello che sta facendo è aizzare le masse, incanalare il malcontento verso la vendetta. Che è esattamente il contrario del percorso che permette a un individuo di inserirsi di nuovo nella società, dopo aver passato un tempo in isolamento. A patto che sia questo il compito del carcere, a patto che il carcere abbia davvero un compito in una società civile, di certo questo non vale per un minore. La nostra comunità si basa sull’idea che un ragazzo o una ragazza sono sotto la nostra tutela di adulti fin quando non raggiunge la maggiore età. Nel frattempo il suo compito è prepararsi, studiare, dedicarsi per quanto è possibile ad attività che arricchiscano il suo carattere. Fare sport, suonare uno strumento. Ma i tempi son cambiati, si diventa adulti prima, dicono. E questi ragazzi che commettono crimini efferati vanno puniti come fossero adulti, perché di fatto lo sono. No, non lo sono. Anzi, sono forse più bambini di quanto non lo fossimo noi. A me sembra che, grazie al cielo, adesso si possa indulgere più a lungo in un’età che precede l’entrata nel mondo adulto, che si possa passare più tempo a perdere tempo. E questo, ripeto, sarebbe un bellissimo apprendistato alla vita, se quel tempo fosse immaginato come una palestra, un gymnasium. Ma non lo è. È troppo spesso una terra di nessuno, dove quello che resta delle famiglie arranca, e la scuola a sua volta fa quel che può. La nostra scuola è povera e spaventata, si fonda sul coraggio di alcuni insegnanti, sulla lungimiranza di singoli che si battono come leoni anche contro le famiglie. Dovrebbe essere un territorio nel quale padri, madri e insegnanti collaborano, e invece spesso sono nemici, gli uni non si fidano degli altri. In mezzo ci sono sempre loro, i bambini con la pistola in mano, capaci di abusare di una coetanea semi-incosciente. Chi colpisce e chi subisce il colpo, i vivi e i morti, gli stupratori e le ragazze stuprate, e tutti gli altri, i nostri figli, quelli perbene, che leggono i libri, sono bravi a scuola. Tra loro, e non ho bisogno di dirlo io perché è sufficiente parlare con gli amici, gli insegnanti, ce ne sono moltissimi che sono in sofferenza. Lo chiamiamo il disagio degli adolescenti, e lo guardiamo sgomenti. Ci chiediamo da dove arrivi, in una generazione che non ha sofferto la fame, ha avuto tutto quello che chiedeva. Perché questi ragazzi stanno così male, si tagliano, si suicidano, abusano di sostanze e di alcool, si chiudono dentro una stanza per non uscirne più? Ne parlavo con un giovane scrittore, si chiama Bernardo Zannoni e ha ventotto anni. Quando parla dei suo coetanei, e ancora di più di chi è più giovane (ha scritto da poco un romanzo pubblicato da Sellerio che si intitola “25”, inteso come la linea d’ombra tra la giovinezza e l’adultità) usa ossessivamente un termine: vuoto. Il vuoto è la paura, la sensazione di non avere più niente da cercare, non avere un orizzonte, non sentirsi nemmeno esistere fisicamente. Il vuoto produce un’angoscia che impedisce qualsiasi cosa, di amare, di far l’amore, di cercare un lavoro. Noi siamo una generazione immobile, mi ha detto Bernardo Zannoni, e io a questa loro immobilità non smetto di pensare. Sono due le questioni, e la prima è evidente. I ragazzi nati dopo il 2000 hanno vissuto in un mondo sdoppiato: il reale e il virtuale. Per la prima volta da quando l’essere umano abita la Terra, è diventato un compito dover distinguere se qualcosa è avvenuto davvero o si tratta di una sua riproduzione digitale. I ragazzi sono chiamati a una fatica gigantesca e a enormi questioni morali di cui non ci occupiamo, perché sono complicate e portano meno voti che non gridare inaspriamo le pene. Ma la seconda siamo noi, la maggior parte di noi. Abbiamo abdicato al compito di educare chi viene dopo di noi. Perché siamo dei narcisisti che vogliono solo essere amati, mentre l’educazione è una faccenda complicata, che prevede scontri, disamori, fatica. Perché siamo distratti e non riusciamo ad ascoltarli. I ragazzi e le ragazze, lo dicono tutte le persone che del loro disagio si stanno occupando, vogliono essere ascoltati. Perché se nessuno ti guarda, o ti ascolti, tu non esisti. Diventi un fantasma, uno zombie, una creatura senza regole. Loro, i figli di quelli che già qualche anno fa James Hillman aveva individuato come affetti dalla sindrome del puer aeternus, sono abbandonati a loro stessi, oppure sovrastimolati, ma raramente ascoltati. E questa non è una giustificazione per i crimini che alcuni di loro hanno commesso, crimini che esistono, e sono spaventosi. Ma qual è il nostro obiettivo? Eliminare quei ragazzi, toglierli dalla nostra vista chiudendoli in un carcere dove diventeranno peggiori, o creare per loro e per quelli come loro la possibilità di diventare adulti diversi? Se è questo che vogliamo, non servono pene più severe servono scuole, serve rispetto per gli insegnanti, serve riprendere a ragionare sul processo educativo. Sapendo di avere a che fare con una generazione che è lontana anni luce dalla precedente. Una generazione che è immersa in un mondo che ha subito un cambiamento epocale, il più importante, forse l’ultimo nella storia dell’umanità. Una generazione che quando si guarda e quando ci guarda vede davanti a sé solo il vuoto. Il carcere non è più giusto della piazza di Iuri Maria Prado L’Unità, 9 settembre 2023 A ben guardare la giustizia di piazza non è affatto alternativa al carcere, il quale semmai ne costituisce una forma regolata. È certamente un segno di degrado, un elemento di inciviltà, ma che nel carcere non trova una negatoria bensì una specie di liberatoria patentata. E quando non è soltanto ingiusto e inefficace (ma basterebbe), il carcere è anche illegale: e non c’è dunque più nemmeno la legge a farlo diverso dalla violenza di strada. Ci si può pensare, quando si invoca galera e galera e galera? Leggo la notizia del pestaggio romano da cui è per caso uscito vivo uno scippatore, un giovane che aveva rapinato una vecchietta ed è stato accerchiato e appunto quasi ammazzato da alcuni abitanti che avevano assistito al fatto. E la leggo a poche ore da un fatto cui invece ho assistito io, la sera stessa, nel vagone della metropolitana milanese in cui stavo con mia figlia e sua madre. Ero andato a prenderle (tornavano da Roma) perché non mi piaceva l’idea che girassero sole a quell’ora, ormai purtroppo pericolosa nei pressi della Stazione Centrale. Fatte un paio di fermate, sale un gruppo di ragazzini (tra i quindici e i diciassette anni, direi). Io non mi accorgo di quanto appaiano malintenzionati (smanettavo col cellulare), né che la preda fosse la madre di mia figlia, la quale invece se ne accorge e viene a sedersi accanto a me, che stavo dirimpetto. A quel punto il gruppo cambia obiettivo, prende di mira una signora anziana, attende la fermata del treno e l’apertura delle porte: uno afferra la collana della signora, gliela strappa dal collo e fugge con gli altri. L’anziana è scossa, il rapinatore le ha anche fatto male al viso. Nel residuo del viaggio e tornando a casa pensavo al ragazzo responsabile di quella brutta violenza. Pensavo al problema che quel ragazzo costituisce per la società in cui vive e vivrà, che è un problema non meno grave e più duraturo rispetto a quello rappresentato dal reato che ha commesso. Pensavo che ci sono tre modi per risolvere il problema. Il primo: lo si ammazza. Il secondo: lo si tiene in carcere per tutta la vita. Il terzo: lo si tiene in carcere il tanto che basta a farlo uscire peggio di prima, più pericoloso di prima, più perduto di prima. I primi due modi (ammazzarlo o dargli l’ergastolo) sono in effetti risolutivi, ma forse non esattamente appropriati. Il terzo (rieducarlo a suon di carcere), è quello cui si ricorre senza capire che se pure risolvesse il problema immediato (l’illecito che ha commesso: e non lo risolve) non risolverebbe l’altro, che per il legislatore dovrebbe essere il principale: e cioè il fatto che puoi girarla come vuoi, ma la società avrà comunque a che fare con questa persona. Politica, “governo”, è esattamente questo: ricercare e dare soluzioni ai problemi, e il problema non è solo l’atto illecito e violento del ragazzo, è anche la sua vita da qui in poi, che per la società diventa un problema se la società stessa (tolta l’idea di ammazzarlo o di tenerlo in carcere tutta la vita) non trova di meglio che tenerlo in carcere per un po’ nell’attesa che, entratovi balordo, ne esca criminale provetto. L’altro ieri, al Quarticciolo di Roma, la “società”, cioè la piazza del linciaggio, si era incaricata di risolvere il problema alla prima maniera, e in effetti se li levi di mezzo non avrai quello di cui parlavo, il problema di avere in società uno che ha commesso un reato: perché se non lo ammazzi, non c’è santi, in società ci torna. E, siccome è giovane, è destinato a starci parecchio. Dunque che cosa vogliamo fare? Provare a cavante del buono non si dice per lui (anche se forse ci si potrebbe pensare), ma almeno per la società che dovrà averci a che fare, lavorando affinché sia meno pericoloso e magari utile, incluso anziché reietto nella società che comunque lo avrà di mezzo, oppure fare come si fa, e cioè affidarne la sorte all’esperimento carcerario che non protegge né lui (e vabbè, facciamo finta che non importi) né la società cui farà ritorno? Il tentato linciaggio del giovane rapinatore a Roma non è molto diverso, quanto a efficacia rieducativa e civiltà del trattamento, rispetto alla media cura carceraria: con la differenza che questa ha pretese di legalità e in modo ipocrita è apprestata in nome del popolo italiano al riparo dalle telecamere. A ben guardare la giustizia di piazza non è affatto alternativa al carcere, il quale semmai ne costituisce una forma regolata. È certamente un segno di degrado, un elemento di inciviltà, ma che nel carcere non trova una negatoria bensì una specie di liberatoria patentata. E quando non è soltanto ingiusto e inefficace (ma basterebbe), il carcere è anche illegale: e non c’è dunque più nemmeno la legge a farlo diverso dalla violenza di strada. Ci si può pensare, quando si invoca galera e galera e galera? I dubbi dei giudici sul dl babygang: “Poche risorse e carceri già piene” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 9 settembre 2023 Il Garante dei detenuti Palma: “Così il sistema va in sofferenza. Manca personale, anche psicologi ed educatori”. Spadaro, del tribunale minorile di Trento: “Più che sanzioni bisogna investire sul recupero. O aumenterà la recidiva”. Il giudice Di Bella, Catania: “Con queste norme invece ne salveremo tanti”. Il decreto Caivano potrà davvero cambiare la giustizia minorile? Sarà un freno - reale - al dilagare della delinquenza giovanile, di ragazzini che nell’età del calcetto e dei primi amori diventano manovalanza della criminalità, baby corrieri dello spaccio, gang di che rapinano, sparano, a volte muoiono senza nemmeno aver iniziato a vivere? Il giorno dopo l’approvazione del discusso e avversato pacchetto di misure per inasprire le pene contro la devianza giovanile, giudici, magistrati e garanti dei detenuti si interrogano. Non soltanto sulla reale efficacia “rieducativa” di quelle norme, ma soprattutto sulla capacità delle attuali carceri e comunità minorili di reggere il probabile impatto di tanti nuovi “utenti”. Ipotetici baby carcerati fin dai 14 anni. Mauro Palma: “Carceri già al limite” - Perplessità che non nasconde Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti. “Oggi in Italia abbiamo 17 istituti di pena per minorenni che possono contenere fino a 400 ragazzi. Il numero attuale è di 404 minori. È evidente che se gli accessi dovessero crescere, restando queste le attuali strutture, tutto il sistema andrebbe in sofferenza”. Aggiunge Palma: “Senza contare che ad un maggior numero di giovani ristretti, servirebbe un notevole ampliamento di personale, non solo di sicurezza, ma di psicologi ed educatori. Ci sono i fondi o siamo di fronte ad un decreto fatto di slogan? Perché da sempre nella giustizia minorile l’approdo nell’istituto di pena dovrebbe essere residuale”. Insomma il fragile equilibrio tra detenzione e rieducazione potrebbe saltare se i numeri crescessero troppo. Non solo. È anche il sistema delle comunità, che assorbe il maggior numero di minori che si macchiano di reati medi e piccoli, ad essere “in grande crisi, lo Stato anzi dovrebbe riprenderne il controllo”. Sono 637 (dati 2021/Antigone) le comunità per minori sottoposti a provvedimenti penali, di queste solo tre gestite dal ministero della Giustizia. Ospitano circa mille ragazzi. Una goccia nel mare. Molte ombre dunque nel decreto Caivano, per il garante dei detenuti. Con una piccola luce: “È sicuramente apprezzabile l’allargamento della messa alla prova”. Di Bella: “In tanti salvati da pene severe” - Hanno invece posizioni opposte due importanti presidenti di tribunali per i minorenni. Roberto Di Bella, che dirige il tribunale di Catania e Giuseppe Spadaro, che dirige quello di Trento. Di Bella è famoso per il suo lavoro sui figli dei clan di mafia e n’drangheta, “Liberi di scegliere”, tanti giovani sottratti per legge alle famiglie criminali da cui provenivano, dunque sottratti ad un futuro di malavita. “Questo decreto è importante, non demonizzatelo. Partendo da un presupposto: prima la giustizia minorile intercetta il giovane che delinque, più alta è la possibilità di salvezza per quel ragazzo. Faccio un esempio: un quattordicenne fermato con 5 dosi di cocaina e una ricetrasmittente allo Zen di Palermo, non è un piccolo spacciatore, è già un soldato della criminalità. Per questo abbassare l’età dell’arresto in flagranza è una tutela non semplice repressione”. “La detenzione, la comunità possono cambiare la vita di giovane. Sono in contatto con tanti ragazzi ai quali ho inflitto anche pene dure che oggi studiano, lavorano, mi scrivono. L’importante è che la sanzione sia sempre nell’ottica della rieducazione”. Spadaro: “Mancano gli educatori, resta solo la repressione” - È assolutamente scettico, invece, sulla efficacia del decreto Caivano, il giudice Giusepe Spadaro, sue sono alcune tra le più avanzate sentenze in tema di affidi e adozioni a nuove famiglie, dai single alle coppie gay. Spiega: “Il primo dato è che le risorse attuali non bastano e non basteranno. Poco il personale, insufficiente la formazione, educatori sempre più rari. Con questo decreto c’è il rischio di marginalizzare ancora di più i ragazzi più disagiati. Mentre si risparmia sulla scuola. sulla sanità, mentre l’Istat conferma che la povertà si eredita, accrescere la repressione è come partire dai sintomi essendo tra coloro che quei sintomi li hanno creati”. “Questo decreto non funzionerà - dice Spadaro - perché più che su nuove sanzioni bisogna puntare sulla giustizia riparativa, sulla mediazione penale. In aula spesso dico ai ragazzi che hanno commesso gravi reati che devono vedere la sofferenza provocata alle vittime e alle loro famiglie”. Ed è sui buchi della rete del recupero che Spadaro, come il garante Palma, indirizza la critica, A cosa serve inasprire le pene, abbassare l’età dell’arresto, se poi nessuno si occupa di restituire a un ragazzino che sbaglia una seconda chance? “C’è una grande crisi delle comunità per minori. Quelle ministeriali sono state ridotte a favore del privato. Il risultato è che non si trovano più educatori. E senza riabilitazione il tasso di recidiva diventa sempre più alto”. Altro che “Mare fuori”. Nei penitenziari minorili rieducare è impossibile di Felice Manti Il Giornale, 9 settembre 2023 Dietro le sbarre degli Ipm ci sono 400 detenuti, metà è in attesa di condanna o maggiorenne. E questa promiscuità vanifica gli sforzi e infiamma gli animi. Violenza, droga, sesso facile “con il degrado come special guest”, come recita il tormentone di questa dannata estate. Sono vent’anni che il branco è diventato baby gang, che la criminalità minorile si è americanizzata, è più violenta, spietata, si bulla sui social, fa proseliti. E no, la storiella che l’emergenza nasca solo da famiglie disagiate e al Sud non regge, anche perché in tutte le città ci sono Bronx e zone franche, una terra di mezzo dove non esistono vie di mezzo, dove le forze dell’ordine si muovono silenziosamente o a favore di telecamere. Da Schio a Torino, Bari e Lucca, Ferrara, Taranto, Bologna, Brindisi e Rimini. E solo nell’ultima settimana. Si cresce in fretta, la disgregazione delle famiglie getta napalm sulle coscienze, ambienti borghesi e marginalità crescenti vanno a braccetto, esaltate da un’iconografia alla Gomorra che rimpiazza le sbiadite figurine genitoriali. Il divieto forzato alla socialità col lockdown ha fatto il resto, come l’impossibile integrazione degli italiani di nuovo conio, impermeabili a ogni tentativo educativo. La politica chiede l’imputabilità a 12, vuole multare le famiglie troppo distratte, invoca carcere per i reati “da adulti”, l’omicidio del musicista di Napoli o l’atroce violenza sessuale di Palermo, “ispirata” alle scene pornografiche che il branco ha ammesso di vedere. Chiudere un ragazzino dietro le sbarre è una sconfitta doppia, bisognerebbe potenziare i servizi educativi ma gli assistenti sociali sono in via di estinzione. Il percorso rieducativo è tutt’altro che immediato per l’atavica lentezza della giustizia penale. Non solo non si reinserisce in società il condannato, di fatto lo si regala alle criminalità più o meno organizzate che ne fanno carne di cannone. Come a Reggio Calabria, dove il fortino dei rom scoperto da Klaus Davi in pieno centro è al soldo della ‘ndrangheta. “Se un baby spacciatore viene arrestato, ad aiutare la sua famiglia ci pensa il clan, l’affiliato si sente in debito e non lo recuperi più”, dice l’ex cappellano di Nisida Gennaro Pagano, il penitenziario che ospita criminali under 25 che Mare fuori ha abbellito causa rassicurante prima serata. Al 15 dicembre scorso erano 400 (390 uomini e 10 donne) in Italia i detenuti tra i 14 e i 25 anni nei 17 Istituti penali minorili (Ipm), che sono più al Sud che altrove: più della metà dei reclusi è senza condanna definitiva o maggiorenne (e questo mina il percorso di riabilitazione), in un anno ne passano quasi 1.500 con reati contro il patrimonio (furti, rapine, estorsioni, ricettazione) la persona e l’incolumità pubblica. In 27 hanno tra 14 e 15 anni, 179 tra 16 e 17 anni, 135 tra 18 e 20 anni e 59 tra 21 e 24 anni; 199 sono italiani e 201 stranieri (tanti, se si pensa che gli immigrati sono meno del 10%). “Io, indagato a 17 anni: il carcere mi avrebbe rovinato la vita, oggi invece lavoro e credo nel futuro” di Dario del Porto La Repubblica, 9 settembre 2023 Storia di Alberto: da minore fu coinvolto con altri tre ragazzi in un’inchiesta per resistenza a pubblico ufficiale. “Con la messa alla prova ho avuto una seconda opportunità e l’ho sfruttata, in cella non ci sarei riuscito”. Agosto 2015, una spiaggia della Costiera Sorrentina. Un gruppo di quattro ragazzini della periferia settentrionale di Napoli si caccia in un grosso guaio: prima prende a sassate una comitiva di turisti, poi reagisce all’intervento di un agente di polizia penitenziaria che li invita a smettere. Finiscono tutti davanti al giudice con le accuse di lesioni e resistenza a pubblico ufficiale, uno anche per tentata rapina impropria del telefonino con il quale il poliziotto aveva ripreso la scena. Alberto è uno di loro. Ha 17 anni, studia all’istituto alberghiero e lavora come ambulante. Quella storia rischia di cambiare per sempre la sua vita. Le accuse sono gravi, può seriamente finire in carcere. Il suo avvocato, Eduardo Izzo, e il giudice minorile Piero Avallone, gli concedono una seconda opportunità: un anno di messa alla prova e poi l’estinzione del reato. “Se non mi avessero offerto questa possibilità, non so proprio che cosa sarebbe stato della mia vita - racconta Alberto che oggi ha 26 anni - il carcere minorile mi avrebbe potuto rovinare per sempre”. Parole che pesano e assumo significato ancor più profondo alla luce del dibattito politico acceso dagli ultimi episodi di cronaca. “Se fossi finito in cella - spiega Alberto - non sarei riuscito a riflettere realmente sull’errore che avevo commesso. Quando mi sono trovato in quella situazione ero giovane, non mi ero reso conto delle conseguenze di quell’episodio. Non voglio entrare nel merito della vicenda giudiziaria, non mi va di parlarne. Dico solo che, in carcere, avrei rischiato di diventare una persona peggiore. E una volta uscito, forse non avrei più riuscito a ritrovare la strada”. Con la messa alla prova, per circa un anno, Alberto ha ottenuto la possibilità di continuare a lavorare come ambulante: “Un assistente sociale mi ha seguito costantemente e ha potuto constatare che mi ero assunto tutte le responsabilità dell’accaduto”. Trascorso il periodo previsto dalla legge, il reato è stato dichiarato estinto. “La mia esperienza mi insegna che inasprire le pene nei confronti dei minorenni non è la soluzione migliore - dice Alberto - Oggi ho chiuso i conti con la giustizia e posso guardare avanti grazie all’opportunità che mi è stata concessa e che sono riuscito a sfruttare positivamente. Lavoro come ambulante, come tutti incontro delle difficoltà, ma credo nel futuro. Che cosa mi aspetto? Solo di stare bene e di incontrare belle persone”. Ogni giorno in Italia finiscono in carcere tre persone innocenti senza prove e ragioni di Luca Fazzo Il Giornale, 9 settembre 2023 Per detenzioni ingiuste danni da un miliardo di euro. Ecco due possibili rimedi tra le norme del pacchetto Nordio. Tic-tac, tic-tac. La si potrebbe scandire così, con la regolarità di un orologio, la frequenza con cui ogni giorno, inesorabilmente, un paio di innocenti finiscono in galera. È una delle emergenze della giustizia italiana, uno dei fronti su cui il ministro Carlo Nordio ha promesso di intervenire più in fretta possibile: è il dramma delle manette facili, degli “ordini di custodia cautelare in carcere”, come si chiamano tecnicamente i mandati di cattura, spiccati contro gente che non ha fatto niente di male. Ogni giorno, in attesa che il progetto di Nordio diventi realtà, uno o due innocenti finiscono in cella. Con la stessa regolarità, cresce il conto dei danni che lo Stato dovrà pagare a chi è stato chiuso in carcere ingiustamente: il conto totale, dal 1991 ad oggi, si avvia a superare il miliardo di euro. Miliardo. Il rimedio inserito dal ministro Nordio nel suo pacchetto di riforme si articola su due punti: l’obbligo per il giudice di interrogare l’indagato prima di mandarlo in prigione, e l’affidamento della decisione a un collegio di tre giudici anziché a un magistrato singolo. Che possano essere sufficienti a cambiare le cose è tutto da vedere, la certezza per ora è che dall’Associazione nazionale magistrati è partito il consueto fuoco di sbarramento. Così, in attesa che il progetto Nordio inizi il suo cammino parlamentare, tutto continua come prima: tic-tac. I dati sono impressionanti. A partire dal numero totale dei mandati di cattura, 24.654 nel 2022, e ancora in crescita. Una miriade di manette evidentemente mal distribuita, visto che non ha attutito l’emergenza criminale in ampie zone del paese. Che fine fanno, questi arrestati? Incrociando i dati sulle ordinanze di carcerazione e sulle sentenze emesse nello stesso anno, si scopre che più del sei per cento degli ammanettati vengono assolti (il 6,6, per l’esattezza). Potrebbero sembrare pochi. Ma sono centinaia di vite devastate da provvedimenti che hanno scambiato per “gravi indizi di colpevolezza” quelle che prove non erano. E non è tutto: al conto andrebbero aggiunti anche quelli che poi sono risultati colpevoli, ma che in carcere non avrebbero comunque dovuto finirci perché avevano diritto alla sospensione condizionale. Per legge, in questi casi non si potrebbe disporre il carcere preventivo: ma la legge non viene applicata, così nel 2022 ben 710 cittadini che erano finiti in cella vengono condannati con la condizionale. Intanto si sono fatti il carcere gratis. Di questa gestione allegra delle manette il conto economico viene poi rifilato sulla intera collettività. I dati sul risarcimento per ingiusta detenzione sono disarmanti. Nel solo 2022, lo Stato ha dovuto pagare alle vittime di questi errori giudiziari più di ventisette milioni di euro. Anche questo è un dato che si può scandire, in attesa della riforma Nordio, con il ritmo regolare dell’orologio: tic-tac, anche domani 75mila euro dovranno uscire dalle tasche degli italiani per colpa degli arresti facili. Si può obiettare che una quota di errori è fisiologica? No, perché se così fosse il dato sarebbe distribuito in modo più o meno omogeneo. Invece ci sono realtà d’Italia dove il carcere ingiusto raggiunge livelli demenziali. È il caso di Reggio Calabria e in parte di Palermo. In un contesto in cui nessun tribunale (neanche quelli grossi, tipo Milano e Roma) costringe lo Stato a pagare più di due milioni di euro di risarcimenti, a Palermo il conto per il 2022 è di tre milioni e mezzo; a Reggio Calabria, addirittura di dieci milioni. Ma come l’arrestano, la gente, a Reggio? La domanda è destinata a restare senza risposta, perché neanche di fronte a queste macroscopiche anomalie il sistema di controllo delle performance della nostra magistratura ha dato risultati confortanti. In teoria c’è un comma dell’ordinamento giudiziario che prevede la responsabilità disciplinare del magistrato che “per negligenza grave ed inescusabile” emette “un provvedimento restrittivo della libertà personale fuori dai casi consentiti dalla legge”. Ma, a quanto pare, le centinaia di carcerazioni immotivate non sono nè gravi nè inescusabili, visto che nessuno dei magistrati che le ha disposte è stato chiamato a risponderne. Ad attivare la procedura disciplinare possono essere il procuratore generale della Cassazione e il ministro della Giustizia. Ebbene: il primo lo ha fatto zero volte nel 2020, una nel 2021, nessuna nel 2022. Il ministro grillino Alfonso Bonafede ci provò ventuno volte nel 2020, arrivarono al Csm e lì si sono fermate. La successora Marta Cartabia aprì due procedimenti, e il Csm li archiviò entrambi. Cosa farà, Carlo Nordio, in attesa che la sua riforma prenda vita? Intanto, tic-tac, anche domani due innocenti verranno messi in cella. L’Italia non è un Paese per giovani di Alessio Scandurra* Il Manifesto, 9 settembre 2023 Lo hanno chiamato decreto Caivano. È il pacchetto di misure con cui il governo di Giorgia Meloni ha affrontato l’emergenza creata dagli ultimi fatti di cronaca nera che hanno visto come protagonisti dei minorenni. Fatti a cui i media, e la politica, hanno dato grande risalto. E ai quali questo governo risponde mostrando i muscoli, ma mostrando anche di capire poco, o di essere poco interessato, alla concretezza dei fenomeni con cui si misura. Anzitutto più pene e più carcere, la risposta con cui da molti anni in Italia si affrontano tutti i problemi. Una strategia notoriamente inutile, che non ha mai funzionato ma che viene continuamente riproposta, e che questa volta colpisce i giovani e il sistema della giustizia minorile che avevamo costruito intorno ai loro bisogni. Da tempo l’Italia non è un paese per giovani. Non vogliamo metterli al mondo, sono sempre meno ma non gli mettiamo a disposizione le strutture e gli spazi per crescere, mancano asili, scuole e insegnanti, e abbiamo tassi record di abbandono scolastico e numeri bassi di giovani che proseguono e concludono gli studi universitari. Li accusiamo poi di essere fannulloni e poco disposti a fare lavori in condizioni che in altri paesi europei sono fuori dalla legge. E infine negli ultimi anni li abbiamo resi i protagonisti di ogni storia di degrado urbano. L’esperienza di governo che si era aperta, non a caso, con il decreto per la criminalizzazione dei rave, e che, in coerenza con quanto sopra, vuole addirittura rendere la gestazione per altri un “reato universale”, lancia oggi un attacco frontale al sistema della giustizia minorile. Le misure sono molte e sono state già illustrate altrove, ma è lo spirito che le accomuna che colpisce: inasprire le pene non basta più. Si prevedono innalzamenti delle pene per alcuni reati, tra cui lo spaccio di lieve entità, che avrà certamente un impatto significativo sui numeri dei giovani in carcere, minorenni o giovani adulti. Ma si sa che queste pene più alte arriveranno alla fine di un processo che, nel nostro sistema, mette al centro l’interesse superiore del minore. Un sistema che è considerato un’eccellenza in Europa. E allora si interviene ancora prima che la pena arrivi. Si abbassa ad esempio l’età, 14 anni, in cui si può diventare destinatari di misure di polizia, come il Daspo urbano, e si porta a 12 quella in cui si può essere destinatari di un “avviso orale” del questore. Diventa più facile per i minorenni finire in custodia cautelare, in carcere o ai domiciliari, quando ancora presunti innocenti, e si allungano per loro i termini massimi della custodia cautelare stessa. Si prova dunque a costruire un sistema della giustizia minorile da un canto meno garantista, e dall’altro più diffidente verso gli strumenti sopra citati, che collocano il minore, i suoi bisogni e il suo sviluppo al centro del procedimento penale che lo riguarda, di modo che questo abbia una funzione educativa prima che retributiva in un momento critico per il suo sviluppo. Bisogna insomma anticipare la risposta repressiva dello Stato, perché alzare le pene non basta più. Un attacco frontale a quella che è forse l’unica eccellenza del nostro sistema della giustizia. E che fino ad oggi ha dato ampiamente prova di funzionare. Con un ricorso sempre più residuale al carcere per i minorenni, accompagnato da una costante calo della loro delittuosità. Un calo che dopo la pandemia ha avuto però una battuta d’arresto. Ma perché? Se il sistema della giustizia è sempre lo stesso, probabilmente perché sta cambiando qualcosa al di fuori di questo. E alcuni segnali ci sono. Telefono Amico, che dal 1967 offre supporto a chi si trova in un momento di crisi, soprattutto per prevenire gesti estremi, segnala come la sua utenza sia raddoppiata negli ultimi anni, dalla pandemia ad oggi, e come sia cresciuta soprattutto per i giovani. Mentre l’Istat, con dati fermi però ancora al 2021, ci dice che la percentuale di adolescenti in cattive condizioni di salute mentale passa dal 13,8% nel 2019 al 20,9%. E dal 2021 allora ad oggi la situazione si è probabilmente ancora aggravata. Questa è verosimilmente l’emergenza a cui il decreto Caivano risponde nel peggiore dei modi, colpendo con durezza proprio dove andrebbe fatto l’esatto contrario. *Antigone Il decreto Caivano e quella speranza effimera che possano derivarne voti e consenso di Ezio Menzione Il Dubbio, 9 settembre 2023 Come hanno detto, quasi unanimemente, molti commentatori (compreso sul Dubbio) il decreto Caivano è la riproposizione della linea autoritaria e repressiva del governo Meloni, che consiste, a seguito di gravi fatti, di dare risposte semplicistiche e inefficaci: previsione di nuove fattispecie di reati, aumento delle pene, carcerazione preventiva laddove prima non era consentita, tanto più grave questa volta perché riguarda minori, che il carcere non dovrebbero mai nemmeno conoscerlo. Risposta estemporaneamente repressiva. Magari accompagnando, a titolo di esempio, le nuove norme con nuovi blitz in luoghi deputati del crimine (in questo caso Torbella a Roma e proprio Caivano a Napoli), che però non sortiscono alcun risultato, perché queste sceneggiate in divisa hanno la stessa efficacia sul territorio di quella cui aspirerebbero le nuove norme repressive. Ma è giusto usare anche la parola autoritario: sì, proprio, autoritario, perché si danno poteri più o meno pieni anche a un istituito nuovo commissario (ma quanti ne ha insediati Meloni da quando è a capo de governo?) pur non ignorando affatto che sul territorio vi sono presìdi che ben potrebbero muoversi sol che fossero dotati dei mezzi necessari: questo sottrarre potere di indirizzo e possibilità di intervento ai legittimi esponenti politici e alle organizzazioni che sul posto svolgono da molto tempo un lavoro lodevole e di provata efficacia non può non essere chiamato manovra autoritaria. Manovra imposta e calata dall’alto. Evasione e dispersione scolastica: sono decenni, per esempio, che l’associazione Maestri di Strada le combatte tenacemente e capillarmente e con un certo successo proprio a Napoli e dintorni: perché non ci si è rivolti ad essa? Su tutto ciò, come si è detto, il giudizio negativo è quasi unanime. Certo, ci si meraviglia che il governo non abbia approvato anche l’abbassamento dell’età dell’imputabilità: da 14 a 12 anni, o magari a 10. Non bisognerebbe meravigliarsi: la Spagna, che ha lo stesso limite nostro, lo ha però abbassato a 12 per i reati di terrorismo. E lo ha fatto anche la Scozia, portandolo a 10. Imboccata una strada, non c’è limite all’assurdità. Il solo fatto che Salvini e altri lo abbiano proposto è molto indicativo: così come nei giorni precedenti era stato indicativo che lo stesso energumeno avesse proposto la castrazione chimica per gli stupratori. Non passa, per ora, la proposta, ma intanto la si rende “legittima” e plausibile. Incassando sperabilmente voti. E poi, se non passa oggi a forza di parlarne magari passerà domani. Ma è poi così vero che si incassano voti e consensi? Lì per lì certamente e i sondaggi (per quel che valgono, ma almeno un po’ valgono) lo confermano. Ma sono consensi stabili o volatili e affidati agli eventi di cronaca? Se un minore ne ammazza un altro per questioni di parcheggio di un motorino, il consenso andrà a chi la spara più grossa sulla pena che gli deve toccare, minore o non minore. Ma quando poi in carcere un minore si suicida o muore per l’aggressione da parte degli altri detenuti, quel consenso prima prestato così ad occhi chiusi, potrebbe essere revocato e indirizzato altrove. E qui veniamo al punto centrale: come è possibile fermare la spirale fatto di cronaca - risposta repressiva - consenso e voti? Non basta la denuncia del carattere repressivo e della inefficacia della risposta che la destra (in questo caso, ma vale anche per governi di colore diverso) propone e impone. Occorre anche attrezzarsi con proposte diverse, non modulate sul breve periodo e basta; con pratiche alternative per fronteggiare i fenomeni delinquenziali, e ce ne sono sul territorio; con un’amplissima discussione da condursi non solo sui giornali e in tv, ma in ogni luogo di incontro e di scambio, tanto più in quei luoghi in cui la delinquenza sembra scaturire “naturalmente”. Questo lavoro darà forse inizialmente pochi risultati, ma intanto contribuirebbe a rintuzzare i tentativi autoritari e poi porrebbe le premesse per un’inversione di tendenza, anche sul piano del consenso. Piantedosi frena gli entusiasmi: “Non basta un tratto di penna” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 9 settembre 2023 Di fronte alle polemiche sul “decreto Caivano” il ministro frena gli entusiasmi. l ministro Abodi in sopralluogo al Parco Verde. La Cgil attacca “Solo repressione”. “Bisognerebbe arrivare a una civiltà che faccia sì che le donne siano libere di uscire come vogliono, la sera, con la minigonna”. In visita a Palermo, il ministro dell’interno Matteo Piantedosi si ritrova a commentare l’ennesimo femminicidio, commesso proprio in Sicilia, nel trapanese. Ma non sfugge alle contraddizioni del suo governo e le polemiche contro il cosiddetto decreto Caivano non si placano. Ieri al Comune alle porte di Napoli si è presentato il ministro dello sport Andrea Abodi, che dovrà gestire la ristrutturazione del complesso sportivo abbandonato di Parco Verde all’interno del quale sono avvenuti gli stupri. Qui ha incontrato anche don Maurizio Patriciello, il parroco che aveva lanciato il grido d’allarme. Pur rallegrandosi delle attenzioni dell’esecutivo, Patriciello si è detto preoccupato sul fatto che i fondi stanziati dal governo per la ristrutturazione della struttura finiscano alla criminalità organizzata. “Abbiamo avuto questo decreto - dice ancora - certamente poteva essere fatto meglio. La realtà non è fatta solo di arresti, ci vuole altro, ci vuole un supporto alle famiglie che non c’è, abbiamo solo tre assistenti sociali”. Di fronte a chi lo critica, Piantedosi prova a giustificarsi così: “Le complessità di questo fenomeno sono tali che non è che pensavamo che con un tratto di penna queste si potessero cancellare”. Gianna Fracassi, segretaria generale Flc Cgil, definisce il decreto “un provvedimento finalizzato a contrastare la dispersione scolastica e la vulnerabilità sociale attraverso un approccio securitario e repressivo: prendiamo atto che lo Stato ha deciso di arrendersi rispetto alla prevenzione del disagio e della vulnerabilità sociale”. Nello specifico, prosegue Fracassi, mancano interventi profondi e diffusi che prevengano l’emergenza sociale ed educativa che riguarda tanti luoghi del nostro paese e non solo al sud”. È un giudizio che rilancia anche la Cgil nazionale: “La risposta che il governo sta dando al disagio giovanile e alle differenze sociali, che crescono anche tra le nuove generazioni, e ai fenomeni di criminalità che coinvolgono minori è ancora una volta profondamente sbagliata - dicono dal sindacato - È ispirata a quella filosofia esclusivamente punitiva che ha contraddistinto, fino a oggi, l’operato dell’esecutivo nell’affrontare le grandi questioni sociali, come le diseguaglianze e la povertà”. Anche il sindacato di polizia Siulp, a suo modo frena: “Nella disattenzione generale della politica, non esistono scorciatoie e non vi sono norme repressive che, da sole, possono risolvere il problema del degrado e della devianza giovanile se non sono accompagnate da misure preventive di intervento sul sociale e sulla formazione alla legalità che, contestualmente, offrano ai giovani prospettive di un futuro diverso da quello che vivono, anzi subiscono, negli ambienti degradati di alcune periferie nelle quali vivono”. Le opposizioni ne approfittano per provare a contrattaccare. Il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca critica la scelta di nominare il commissario Fabio Ciciliano per gli interventi a Caivano. Dal Pd, Sandro Ruotolo ricorda che “in nessun paese democratico l’aumento delle pene ha ridotto i crimini gravi. In nessun paese democratico l’abbassamento dell’età della punibilità ha ridotto i reati violenti dei minori”. A Napoli e provincia, riporta Ruotolo, ci sono “cinquemila minori che hanno a che fare con la giustizia minorile. In Campania 93 ragazzi sono attualmente detenuti di cui 35 accusati di omicidio e tentato omicidio. E pensiamo di risolvere il dramma delle nostre periferie riempiendo le carceri di altri minori insieme ai genitori?”. I dubbi iniziano a circolare anche in Forza Italia: il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè manifesta in serata il suo malumore. Il deputato di Azione Enrico Costa sottolinea come “Piantedosi spiega che la possibilità di arresto in flagranza dei minori è introdotta ‘per fattispecie che finora prevedevano l’assoluta assenza di punibilità del minore nell’immediatezza’. L’arresto come pena immediata. Manco Bonafede”. Il riferimento è al ministro della giustizia del M5S nel governo con la Lega. Un guardasigilli non proprio attento alle ragioni del garantismo. Il “pugno duro” sui ragazzini li terrà fuori dal carcere… si spera di Filippo Facci Libero, 9 settembre 2023 Prevenire è meglio che carcerare. La condanna al gabbio di due minorenni a Torino (una sedicenne e un quindicenne per tentato omicidio) è ciò che il cosiddetto “Decreto Caivano” del governo dovrebbe appunto mirare a evitare - questo almeno l’auspicio - e non, viceversa, incentivare, non accentuare per numero ed entità delle pene: qui l’equivoco. La condanna dei due minorenni resta una sconfitta educativa e rieducativa dello Stato, e il primo a saperlo è il giudice che lo Stato rappresenta e che ha emesso la sentenza. D’impulso si potrà dire che “giustizia è fatta”, ma servirà a poco, come dimostrano altri episodi di malavita minorile di cui si ha notizia in queste ore. La condanna a quasi 7 anni e a 9 anni è una sconfitta anzitutto rieducativa perché sappiamo tutti che l’articolo 27 della Costituzione resta una chimera (“le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”) e che, bene che vada, si abbrevierà la detenzione in coloro che avranno dato segni di ravvedimento: ma non è escluso che i ragazzi tra qualche anno escano comunque disorientati, spersi tra i cento treni che avranno perso, peggio ancora istruiti da quell’università del crimine che il carcere rappresenta ancora. È una sconfitta educativa, pure, perché nulla in passato si è evidentemente frapposto tra le loro adolescenze precoci e il mondo criminale degli adulti, culturalmente e mediaticamente mitizzato: non un controllo sociale o la cosiddetta “assistenza”, non la scuola che non è uno strumento di polizia, non i genitori - qualche volta semplicemente irresponsabili, talvolta complici - e non una riprovazione ambientale da parte di chi li circonda. È su questo che punta il Decreto, nelle intenzioni: e questo è il senso del “Daspo urbano”, del ritiro dei cellulari, dell’interdizione dal frequentare delle zone in cui il crimine faccia “status” o altre zone appetibili per la micro-criminalità in quanto centrali, benestanti, palestra di apprendistato per scippi e risse e vandalismi. È questo il senso della norma che punisca seriamente quei tanti, troppi disgraziati genitori che non mandano nemmeno i figli alla scuola dell’obbligo, accusabili di “elusione” o addirittura “elusione assoluta” nel caso la prole non risulti neppure iscritta in un istituto scolastico. Non più, quindi, una ridicola multa di trenta euro, bensì una pena sino a due anni, che - opinione personale - sono anche pochi, perché i genitori non rischieranno mai il carcere, mentre a rischiarlo, “istruendosi” nelle favelas delle metropoli, potrebbero essere i loro figli. Molti fingono di dimenticarlo: “il carcere per i minori” esiste da sempre ed è il carcere minorile, e quando ne esci, spesso, finisce che non sei rieducato ma pronto per una promozione al grado successivo. Uno dei condannati ha preso 9 anni ed è maggiorenne da pochissimo: per lui la promozione è assicurata. Il reato è odioso quanto stupido: hanno gettato da una balaustra una bicicletta che ha travolto degli adolescenti tra i quali uno che non tornerà mai più come prima, ed tutt’ora in ospedale. Il padre del ragazzo ha fatto un commento che potrebbe suonare a introduzione del decreto, in teoria: “Spero che i ragazzi, la collettività, le baby gang si rendano conto che con la vita non si può giocare, che capiscano che quando si sbaglia si rischia seriamente”. Il punto è proprio questo: sembra che non se ne rendano molto conto, o che, peggio, approfittino di quella zona penalmente franca che l’età minore rappresenta. Gli adolescenti che fanno i piccoli spacciatori - scelti proprio perché adolescenti, ossia minori - oggi vengono lasciati andare e ciao: per questo si vuole estendere anche alle scuole, alle università e alle aree limitrofe un divieto di avvicinamento. Per questo si vuole introdurre un nuovo tipo di ammonimento che scatti tra i 12 e i 14 anni, con annesso obbligo di firma in questura due volte a settimana. Per questo, in certi casi, si vogliono rendere punibili pur blandamente i genitori. Il resto - fondi per fronteggiare il degrado di Caivano, nuovo personale il controllo del territorio - attiene all’ordine pubblico e cioè alle ragioni per cui in alcune zone del Paese i ragazzini vengono reclutati dalla criminalità mentre in alte zone no, con annessi episodi di prostituzione minorile e organizzazioni di para-stato criminale che assiste i delinquenti. Il resto è lasciare che il destino passi da un soave impunità assoluta alle mani di un giudice penale e ai suoi chiari di luna. Prevenire è meglio che carcerare, dicevamo. “Il decreto Caivano non è soltanto punitivo. Lo scopo è prevenire già nella fascia under 14” di Stefano Zurlo Il Giornale, 9 settembre 2023 Il sottosegretario con delega alla giustizia minorile Andrea Ostellari, uno dei padri del provvedimento che affronta l’emergenza della baby criminalità spiega: “Tra le novità, l’ammonimento ai dodicenni e la messa in prova prima dei processi”. Più carcere? “No, direi più prevenzione e più sicurezza”. Che cosa cambia in concreto? Solo pene più alte e manette facili? “No, un attimo. La prima vera rivoluzione è quella dell’ammonimento ai dodicenni, uno strumento mai usato nel passato con i giovanissimi. In pratica, finora non c’era modo di contrastare gli illeciti compiuti dai ragazzi con un’età inferiore ai 14 anni”. Ora? “Ora, quando un adolescente commette un fatto che costituisce reato per cui non è imputabile, lo si convoca davanti al questore con i genitori e lo si ammonisce. In questo modo sono tutti avvisati, anche le famiglie che potrebbero anche dover pagare sanzioni fino a 1.000 euro. Non solo: le questure hanno così la possibilità di mappare questa fascia d’età che oggi sfugge ad ogni controllo. Ma non c’è solo questo”. C’è la messa alla prova? “Sì, ma anticipata. Il pm può disporla prima del processo, bruciando i tempi che di solito sono lunghissimi. Tu hai imbrattato il muro? Bene, me lo sistemi entro una certa data e il reato si estingue. Attualmente, invece si deve aspettare il processo e intanto passano anni e ci si incattivisce. Capisce? In questo caso, sulla carta c’è meno carcere perché lo stato dà un’occasione importante a chi ha sbagliato e consente di ripagare il danno. Consideri che nel 2022 ci sono state più di tremila sentenze di estinzione del reato perché la messa alla prova era andata bene: noi contiamo di incrementare questi numeri già incoraggianti”. E se uno rifiuta l’offerta? “Andrà incontro al processo senza alcuno sconto. L’ammonimento e la messa alla prova anticipata possono incidere molto sul funzionamento di un sistema lento, farraginoso e che spesso si inceppa”. Si volta pagina anche sul versante della dispersione scolastica... “Le multe sono al momento poco più che carta straccia: circa 30 euro per chi non manda i figli in classe fino all’età di 16 anni”. Nel futuro? “Colpiamo padri e madri anche nel portafoglio per responsabilizzarli. La loro condotta diventa delitto punibile con la reclusione. Inoltre rischieranno di perdere l’assegno di inclusione. È chiaro che se il figlio tornerà a scuola riavranno il loro assegno”. Poi c’è il capitolo inasprimento delle pene. Funzionerà? “Io credo molto nella prevenzione, ma non possiamo ignorare l’emergenza che stiamo attraversando. Molte città, non solo Milano, Roma o Napoli, sono in balia delle baby gang e contemporaneamente in alcune aree più degradate del Paese abbiamo assistito con sgomento a episodi terribili: omicidi e stupri. D’altra parte i dati ci dicono che i minori entrati nel circuito della giustizia minorile sono aumentati di un terzo in quindici anni, passando dai 14 mila del 2007 ai 21 mila circa del 2022. Dobbiamo reagire a questa impennata”. Ma come? “Da domani il rischio di essere arrestato per chi commette gravi reati sarà più alto, cosa che invece finora era impossibile. Come si vede, la logica del provvedimento però non è quella di sbattere in cella il ragazzino e poi buttare la chiave. Ci muoviamo a ventaglio, sperimentando diverse soluzioni, con un approccio pragmatico e per nulla ideologico. Ce la mettiamo tutta per recuperare i ragazzi che hanno deviato e per questo stiamo ragionando anche sul potenziamento delle comunità che svolgono un ruolo fondamentale”. “Daspo e ammonimento? Per gli spacciatori saranno un vanto” di Liana Milella La Repubblica, 9 settembre 2023 Intervista al deputato di Forza Italia Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera: “Il problema non si risolve col carcere, dobbiamo riempire il tempo ai giovani”. “Il problema non si risolve col carcere a 15 anni, perché se dici al piccolo spacciatore ti do tre mesi di galera in più lui ti risponde “e sti c….”. Non solo, “se gli dai l’ammonimento del questore lui se ne vanta pure con gli amici”. Il vice presidente della Camera Giorgio Mulè, deputato di Forza Italia da sempre garantista, ai ministri del governo Meloni dà il seguente consiglio, ovviamente a “titolo personale”: “Riempite il tempo dei giovani: è questa l’unica strada, un anno di pena in più non risolve”. Lei si considera un garantista, come la mette con il decreto minori? “Se guardiamo alle gravi emergenze - immigrazione, violenza sulle donne e ragazzi violenti - vediamo che sono tutte figlie di una mancata prevenzione o di una netta sottovalutazione dei fenomeni. In politica questo avviene per convenienza, perché è poco utile agire su situazioni incancrenite in quanto ti costringe a forzare i tuoi principi, proprio come quello del garantismo”. Vede? La contraddizione c’è, garantisti a parole, giustizialisti nei fatti... “Però bisogna guardare i fatti per quello che sono. Lo spaccio. Se si parla con chi si occupa del recupero ci si rende subito conto che tutti dicono la stessa cosa, chi arriva in comunità dopo essere stato in carcere è più motivato a cambiare perché ha vissuto un’esperienza forte e negativa come stare in prigione. Lo dicono quelli che combattono davvero il fenomeno”. Dunque è d’accordo... “Un segnale punitivo ci può stare. Anche perché il tempo di oggi, l’età di oggi, non corrisponde più al tempo e all’età di ieri. Basta sentire la reazione di ragazzi che spacciano e che di fronte a una possibile punizione reagiscono con un “e senno che mi fai?”. Ma non ci si può fermare qui”. Perché alla fine il carcere, come dice lei stesso, è inutile... “Il problema non si risolve con la cella a 15 anni…Il governo deve agire da governo, qui non basta un decreto punitivo. Bisogna scartavetrare la legge 309 del ‘90 sulle tossicodipendenze. Il sottosegretario Mantovano sta lavorando, e bene, per rivederla. Ma bisogna fare i conti con le strutture pubbliche e private per i minori che non ci sono. E bisogna recuperare il senso della punizione che ormai abbiamo perduto e che parte dai genitori che non portano i figli a scuola”. D’accordo con i due anni di carcere pure per loro? “Responsabilizza e fa maturare chi considera la scuola al pari di nulla. Non c’è altro modo per convincerli se non mettergli la paura del carcere se non ce li mandano”. Scusi, ma lei è palermitano, perché chi manda un figlio a spacciare ed è vicino alla mafia dovrebbe credere nelle scuole dello Stato? “Non bisogna accettare il principio che se sei figlio di un mafioso, allora tuo padre non ti manda a scuola. Invece serve il tempo pieno, anzi pienissimo: palestre, piscine, mense. Guardiamo i tassi di evasione scolastica al Sud, siamo anche oltre il 40% in alcune zone, perché il tempo pieno non si fa. E invece questi ragazzi devi chiuderli a scuola per toglierli dalla strada. Entri alle 8 ed esci alle 17, a scuola ci mangi, fai il doposcuola, fai sport…”. Lei s’illude... “Io sono convinto che così la mafia dovrà ricorrere ai pensionati e non ai ragazzini per vendere la droga”. Resta il fatto che il decreto Meloni è tutto giocato sugli aumenti di pena, com’era successo con il decreto Rave, con Cutro e con il reato universale... “Il panpenalismo e la politica di alzare le pene non porta a nulla, è dimostrato che gli aumenti non corrispondono alla diminuzione dei reati. Chi viene beccato se ne frega di un anno in più e continua a spacciare come prima”. Quindi vede che il decreto è aria fritta? “Lo è se la soluzione si ferma lì, se spingi solo il bottone rosso e alzi le pene, allora è solo una scorciatoia. Se aumenti solo le pene e non metti più scuole, più insegnanti, più agenzie di lavoro è inutile. Se arrivi al penale e ti fermi lì, allora vuol dire che hai fallito in partenza, come per il 41bis, che è la constatazione di un fallimento”. Però il ministro supergarantista Carlo Nordio questo decreto lo ha sottoscritto, e non è la sua prima misura di quel tipo... “L’oceano bisogna cominciare a svuotarlo, altrimenti c’è solo l’immobilismo. Va rivista la legge sulle tossicodipendenze spero entro la fine dell’anno, le strutture di recupero pure. Non bisogna fermarsi al decreto Caivano, altrimenti tra quattro mesi avremo il decreto Zen, poi il decreto Murazzi. E finiremo per dare l’ergastolo ai ragazzi che spacciano, ma non avremo risolto nulla”. Esatto, ma la sua maggioranza ha fatto proprio questo... “Gliel’ho già detto, aumentare solo le pene è una fesseria, tutto il resto invece conta molto di più, e parlo delle strutture per il recupero e devo dire che il governo ha un piano ad ampio spettro. Altrimenti sa come va a finire? Che il boss dice al piccolo spacciatore, ti do 15 anziché 10 euro per vendere la droga visto che rischi un anno in più di galera, ti do un premio di produttività…”. Beh adesso c’è pure il Daspo… “Ho paura che, come l’ammonimento del questore, possa essere perfino una medaglia che il bullo di turno può esibire davanti al branco: “Picciotti,ho l’ammonimento del questore, datevi una regolata, io sono uno pericoloso…”. Già me la sento questa battuta, perché per i mafiosi farsi la galera è sempre stata una medaglia se sei stato dentro da muto. Mi vengono in mente i ragazzi di Mery per sempre”. Realistico pensare che li spaventi se gli tolgono il cellulare? “Solo se fossimo in un cantone svizzero in cui lo levano a un ragazzo convocato perché ha imbrattato un muro…Siamo realisti, in città come le nostre chi fa tutto questo? E quando sei uscito dalla questura quanti secondi ci stai a trovare un altro telefono? Così non mi stai dando la medicina per guarire, ma solo l’impressione di fare la faccia dura. La vera scommessa per tentare di risolvere il problema è riempire il tempo dei ragazzi per sottrarli alle devianze”. Dove stanno i soldi per scuole e comunità di recupero? Finora ci sono solo quelli del centro sportivo di Caivano, e pare anche un grande sforzo economico solo perché don Patriciello lo ha chiesto alla premier... “Io domani vado a Gaeta con Rita Dalla Chiesa e Caterina Chinnici per parlare della mafia che ci fa schifo. Lo so che non ci sono assistenti sociali per verificare la dispersione scolastica che arriva anche al 60%. Del resto non li abbiano neppure per i femminicidi” Certo, il disastro è proprio lì, denunce inascoltate. È d’accordo con la legge Bongiorno sull’avocazione se il pm non si muove? “Il decreto sul Codice rosso una stretta la dà, se c’è il sospetto fondato dell’inadempienza, l’obbligo di vedersi tolta l’inchiesta responsabilizza i pm”. Scusi, ma ha mai visto un poliziotto o un carabiniere rimosso perché ha rimandato a casa la donna picchiata? “Mai, e non ho visto neppure pm rimossi perché sono stati fermi 90 giorni”. “Il decreto Caivano è miope, sui minori Salvini va contro il diritto”, parla la Pm Tiziana Paolillo di Angela Stella L’Unità, 9 settembre 2023 La procuratrice presso il Tribunale per i Minorenni di Genova ed esponente di Md: “Solo una reazione ai fatti di cronaca. Dei ragazzi bisogna occuparsi prima che commettano reati”. Dl Caivano: abbiamo raccolto il parere della dottoressa Tiziana Paolillo, procuratore della Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Genova, esponente di Magistratura Democratica. Secondo lei questo decreto è la risposta giusta al disagio giovanile? Il decreto, da una prima lettura, non è assolutamente una risposta al disagio giovanile ma una reazione -quasi sull’onda dell’emozione e della paura suscitata da recenti fatti estremamente gravi che coinvolgono minorenni- che appare improntata esclusivamente alla repressione, all’inasprimento delle sanzioni e alla punizione. Un intervento del genere, non accompagnato da una seria riflessione del fenomeno della devianza minorile e della risposta che lo Stato dovrebbe dare in funzione preventiva, è estremamente miope. È indubbio che l’aumento della commissione di reati, anche estremamente gravi, da parte dei giovanissimi è un forte richiamo alla realtà e alla responsabilità per gli adulti e, in generale, per tutte le istituzioni che dei minori si dovrebbero occupare ben prima che commettano reati e che, evidentemente, da tempo, latitano. La violenza minorile è in crescita? Sì. Dal post lockdown in avanti si può affermare che praticamente ogni ufficio giudiziario minorile italiano ha visto un aumento dei reati commessi dai minorenni. Il vicepremier Matteo Salvini ha detto: “Se un ragazzino uccide, deve pagare come un cinquantenne”. Lei è d’accordo? Sono in totale disaccordo. Un minorenne, a differenza di un cinquantenne, ha una personalità in cambiamento, in crescita e suscettibile di modifica. Trattare un minorenne come un adulto è contrario ad ogni principio giuridico, anche internazionale, e di buon senso. Occorre lavorare, con risorse professionali effettive e non tramite meri proclami, con i ragazzi che commettono reati: farli riflettere, metterli davanti, al momento giusto, alla sofferenza che hanno provato le vittime delle loro condotte, far in modo che -anche grazie a tutti gli strumenti responsabilizzanti ed educativi del procedimento penale minorile italiano, che di regola, se sapientemente modulati, abbattono il rischio di recidiva- il loro processo di crescita viri verso la legalità. Prima ancora, però, bisogna lavorare fuori dalle aule dei tribunali, con presidi esterni sul territorio, quali ad esempio i servizi sociali e le scuole, che vanno potenziati e non indeboliti sempre di più o addirittura demonizzati. Molto significativa la revisione delle condizioni per applicare la custodia cautelare dei minorenni: la detenzione preventiva sarà così possibile nei confronti degli indagati e degli imputati per reati che prevedono un massimo di pena superiore a 6 anni (sinora erano 9). E Ia custodia cautelare diventa possibile, in ogni caso, quando si procede per i reati di violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale e per i per furti, oltre al traffico di stupefacenti. Rivisto di conseguenza anche il limite di pena per l’applicazione delle misure diverse dalla carcerazione anticipata, il limite di pena si abbassa da 5 a 4 anni. Che ne pensa? Sono contraria ad ogni intervento repressivo non accompagnato da un parallelo e serio intervento che abbia concrete finalità preventive. Abbiamo visto, purtroppo, che l’inasprimento delle pene e delle procedure per i c.d. reati di “codice rosso” non ha in alcun modo fermato la violenza sulle donne. I fenomeni, anche criminosi, vanno letti nel tempo, con le giuste pause di riflessione e i giusti strumenti culturali altrimenti si rischia di agire sull’onda dell’emergenza e di riempire ulteriormente gli istituti penali minorili (già sufficientemente pieni) senza alcuna garanzia che quei ragazzi, una volta usciti dal carcere, non commetteranno più reati. A parziale bilanciamento si interviene sulla messa alla prova. Giusto così? La messa alla prova, come ho accennato, è il fiore all’occhiello della giustizia minorile italiana, deve essere potenziata e resa efficace anche tramite risorse umane ed economiche adeguate. Un progetto di messa alla prova perché sia davvero un progetto efficace deve essere costruito addosso al ragazzo, valorizzando le sue capacità ed attitudini positive e deve essere fattibile e realistico (non è realistico né fattibile un progetto -solo per fare un esempio- che richieda ad un ragazzo di 17 anni di tornare a scuola con ragazzini di undici anni per prendere la licenza media o mandarlo a fare volontariato al canile se ha la fobia degli animali). Un ulteriore fattore determinante perché una messa alla prova sia positiva è il tempo: per conoscere l’imputato, per costruire il progetto, per consentire che lo stesso sia realizzato, per consentire, in definitiva, l’avvio o la giusta ripresa di quel processo di crescita che evidentemente è mancato o è stato interrotto. Da esperta quali suggerimenti darebbe per contrastare il fenomeno della violenza minorile? Bisogna iniziare a lavorare su più fronti con i bambini sin dalle elementari: insegnargli il rispetto dell’altro, l’importanza di studiare per se stessi per poter esprimere validamente le proprie idee e, prima ancora, per farsene una propria, la cura del proprio corpo e del proprio sesso, ad utilizzare correttamente i cellulari e gli strumenti informatici moderni che, non vanno messi all’indice, ma vanno sempre mediati da un adulto capace che possa spiegare ai ragazzi quanto utili possano essere se utilizzati nel modo giusto o quanto possano essere pericolosi se usati in modo distorto o, peggio ancora, se abbandonati nelle loro mani senza alcuna spiegazione. È un lavoro lungo e impegnativo ma penso che, nel tempo, possa essere l’unico tragitto da seguire e su cui investire. Di Bella: “Così lo Stato può salvare i minori e le loro madri dalle famiglie mafiose” di Nello Trocchia Il Domani, 9 settembre 2023 Il presidente del tribunale dei minori di Catania: “Abbiamo un gigantesco problema di infanzia negata, di dispersione scolastica, di analfabetismo. Ci vuole un piano nazionale”. “Il papà tagliava i panetti di cocaina e il bambino guardava. Abbiamo un gigantesco problema di infanzia negata, di dispersione scolastica, di analfabetismo, i minori nel circuito penale non sanno neanche firmare. Ci vuole un piano nazionale senza precedenti”. A dirlo è il giudice Roberto Di Bella che racconta la sua esperienza a Catania, da presidente del tribunale dei minori, dopo gli anni vissuti a Reggio Calabria, dove con il progetto ‘Liberi di scegliere’ è riuscito a restituire un altro orizzonte di vita ai figli della malavita, andati via con le loro madri per uscire dal determinismo sociale e dall’eredità criminale. Che fine ha fatto il suo ‘Liberi di scegliere’? La cultura mafiosa si eredita all’interno della famiglia, si trasmette di padre in figlio, io ho visto migliaia di ragazzi nel circuito della giustizia minorile poi finire al 41 bis o sotto terra. Abbiamo deciso di interrompere questi destini, siamo intervenuti sulla responsabilità genitoriale, abbiamo allontanato i ragazzi dalle loro famiglie, l’Erasmus della legalità. In questo momento il progetto è finanziato dalla conferenza episcopale italiana e ha consentito a trenta donne, insieme ai figli, di andare via. Il governo trasformi in legge ‘Liberi di scegliere’, nessuno è entrato nel cuore delle logiche di mafia come abbiamo fatto noi, lo stato si è infiltrato ed ha avuto successo. Dobbiamo perseverare. “Giudice se avessi avuto anche io questa opportunità non mi ritroverei in questo cimitero, continui”, mi ha detto un boss al 41 bis. Lei è a Catania da tre anni, quale situazione ha trovato? Ho trovato il degrado, una situazione terribile. La dispersione scolastica è a livelli insopportabili, chi arriva nel circuito penale non sa neanche firmare, avevamo il dovere di intervenire. Abbiamo chiesto ai dirigenti di segnalare i casi più gravi, siamo passati da 40 segnalazioni nel 2021 a mille nel 2022. Abbiamo studiato la norma e collegato l’erogazione del reddito di cittadinanza (ridimensionato dal governo, ndr) all’impegno di mandare i figli a scuola per aumentare la responsabilità dei genitori con i quali abbiamo avviato un percorso. Se non c’è ascolto ammoniamo i genitori fino all’adozione di misure ancora più drastiche, da ultimo la decadenza della responsabilità genitoriale. Abbiamo assistito a una ripresa della frequenza, ma non basta, abbiamo fatto anche altro. Cosa? I servizi sociali non si muovevano in modo adeguato. Così è stato varato un piano di assunzioni grazie a comune e azienda sanitaria locale e sono nati gruppi di lavoro composti da assistenti sociali, psicologi, neuropsichiatra infantile, figure professionali che collaborano con l’autorità giudiziaria. Non solo. Abbiamo avviato il tempo piano sperimentandolo in sei scuole, bisogna aprire gli istituti nel pomeriggio in tutto il mezzogiorno perché la scuola diventi presidio di legalità. Da una recente indagine Istat è emerso che i dati elevati di disoccupazione sono collegati alla dispersione scolastica, all’impoverimento intergenerazionale e alla devianza minorile. Bisogna potenziare il tessuto sociale, quello che è stato fatto per Caivano dal governo da un punto di vista economico bisogna estenderlo, non può essere destinato a un solo territorio. C’è qualcosa che apprezza del pacchetto approvato dal governo? Non bisogna demonizzarlo, ci sono tanti aspetti positivi. C’è un osservatorio prefettizio che viene introdotto a partire dalla nostra esperienza che coinvolge ogni realtà del tessuto urbano, osservatorio che si occupa di rigenerazione urbana e dispersione scolastica. Con le regole precedenti il minore fermato in una piazza di spaccio non poteva essere arrestato, ora si fornisce al giudice una possibilità in più per evitare l’utilizzo di minori come pusher eludendo i controlli di polizia. Con le regole precedenti se un minore veniva intercettato con una pistola col colpo in canna non poteva essere arrestato, si poteva applicare il fermo solo in presenza di arma clandestina o se in possesso di più armi. Se i ragazzi entrano nel circuito della giustizia minorile per loro può essere un’opportunità educativa per arrestare l’ascesa criminale. Le organizzazioni criminali hanno sfruttato le debolezze del sistema per cooptare i ragazzi. Nel decreto viene introdotta questa ipotesi, quando un minore non imputabile (dai 12 ai 14 anni) commette un reato può essere convocato dal questore che lo ammonisce e sanziona i genitori con una sanzione di mille euro. A volte i genitori non ci sono, non ha solo una faccia punitiva questo impianto? Sfatiamo un mito, noi sotto i 14 anni interveniamo già con misure amministrative e civili. Sono strumenti in più che possono essere applicati in modo discrezionale, il decreto è certamente perfettibile, quanto meno ha il pregio di porre l’attenzione sul disagio giovanile e iniziare. Ora serve tutto il resto. “Ai giudici minorili servono risorse, non leggi inapplicabili” di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 settembre 2023 “Pochi magistrati e norme che sono solo petizioni di principio. Basta con questa bulimia riformatrice”. Parla Cristina Maggia, presidente dell’Associazione italiana magistrati per i minorenni e per la famiglia. “Il decreto Caivano ha riportato in vigore la pena che c’era negli anni Novanta per il piccolo spaccio. L’arresto divenne vietato per i minori perché avremmo riempito le carceri”. “La pena mai è stata un deterrente. Non lo è per nessuno, figuriamoci per un adolescente”. “È facile fare leggi, è molto difficile renderle efficaci e utili”. Cristina Maggia, presidente dell’Associazione italiana magistrati per i minorenni e per la famiglia (Aimmf) e presidente del Tribunale per i minorenni di Brescia, fa questo mestiere dal 1993. Ha letto attentamente il testo del decreto Caivano approvato giovedì in Consiglio dei ministri prima di accettare l’intervista. E parte da una premessa: “Siamo un Paese che ne ha a bizzeffe di leggi, mai fatte osservare. Perché poi la mancanza di risorse non permette di rendere effettivi ed esigibili quei diritti che si intende tutelare”. Difficile applicarle? Veniamo da un anno durissimo in cui è entrata in vigore la legge sul processo civile chiamata Cartabia che ha demolito il sistema minorile civile, che dovrebbe fare prevenzione e tutelare i bambini. Adesso ci viene chiesto di intervenire su tutta una serie di cose che nel 1993 già c’erano. Ricordo che al Tribunale dei minori di Genova arrivavano centinaia di segnalazioni dalla Liguria, dove non ci sono neanche tanti bambini, per inadempienza scolastica. Che noi archiviamo. Perché il numero di giudici era - ed è - troppo contenuto per una competenza distrettuale. In Italia c’è un tribunale per minorenni per ogni regione, tranne alcune eccezioni tipo la Sicilia dove ce ne sono 4, la Campania due, la Lombardia con due a Milano e a Brescia. In ognuno ci sono 5 o 6 giudici, al massimo sono 12. Ecco, queste persone dovrebbero fare civile e penale - perché nel minorile non c’è divisione come per gli adulti -, dovrebbero fare prevenzione, protezione del minore da condotte dannose familiari, e intervenire su tutto il mare magnum di questioni che riguarda i minori. Non mi sto lamentando, sto dicendo che sono proprio petizioni di principio, queste che ci vengono date. Dovrebbero mettere risorse e invece ci vengono continuamente tolte da una bulimia riformatrice di cui io, che sono vecchia, sono esausta. È un continuo adattare il nostro lavoro a riforme che non hanno mai ritenuto necessario approfondire. Ed è un problema politico bipartisan. Nel merito? Francamente questo decreto non mi non mi fa né caldo né freddo. È solo doloroso vedere come il minorenne, che è oggetto di diritti in tutte le convenzioni internazionali, è sempre l’ultima pedina nella nostra società. E adesso addirittura è anche il mostro che crea le peggiori e più efferate situazioni di criminalità, mentre il mondo degli adulti è innocente. Eppure, lo sappiamo, i minori sono lo specchio delle loro esperienze esistenziali, della famiglia e del contesto, non vengono fuori come i funghi del tutto casualmente. Non possiamo trattarli tutti allo stesso modo e tantomeno da cinquantenni, come è stato detto. Per fortuna nel 1988 un legislatore ebbe la capacità di comprendere che un minore non è un adulto, e che la sua crescita cambia in base alle esperienze di vita ricevute. Che tipo di “baby gang” ci sono in Italia? Detesto la definizione “baby gang”. Esistono associazioni a delinquere composte da minorenni che lo fanno per commettere reati o che partecipano a un’associazione di adulti. Per fortuna Caivano non è l’Italia. La definizione è stata coniata da qualche sindaco del nord dove si formano gruppi di ragazzi arrabbiati, in maniera del tutto estemporanea, senza un progetto criminoso, che sfogano la loro impulsività nei confronti dei beni pubblici, oppure rapinano qualcuno che rappresenta tutto ciò che loro non sono e che non riusciranno mai ad essere. Ecco, alla base di questi agiti c’è una totale mancanza di pensiero e una rabbia verso il mondo adulto che non c’è, troppo spesso narcisista ed egocentrico, che si ricorda di loro solo per avere un figlio de esibire. Sono aumentati i reati commessi dai minori negli ultimi anni? Non ho dati italiani recenti, ma ho appena preparato per il mio Presidente di Corte d’appello la relazione del periodo 1º luglio 2022 - 30 giugno 2023. E il penale è leggermente in diminuzione qui. Il furto è il primo tra i reati, il traffico di stupefacenti è crollato. Le parlo del nostro distretto di Corte d’appello che rappresenta le province di Brescia, Bergamo, Mantova e Cremona, il più industrializzato d’Italia. Ci sono radicate 135 etnie diverse, e c’è un grande problema culturale per molti ragazzi di seconda generazione legato all’appartenenza a due mondi così diversi: la mamma velata che non parla una parola di italiano né lo vuole imparare, e il compagno di classe che fa tutto quello che vuole perché tanto i genitori non ci sono e danno la pillola alla figlia tredicenne. Ma accanto agli agiti aggressivi, c’è un aumento esponenziale degli agiti autolesivi. In Italia negli ultimi due anni c’è stato il 27% di aumento di suicidi e tentati suicidi, nel mondo minorile. La pena è un deterrente? Non lo è mai stata. Non lo è per nessuno, figuriamoci per un adolescente. Per esempio, questo decreto ha riportato in vigore la pena che c’era negli anni Novanta per il piccolo spaccio. Prevedeva il carcere da 1 a 5 anni e consentiva l’arresto. Ma siccome fuori da qualunque liceo italiano c’era chi spacciava e non potevamo avere tutti questi ragazzi in carcere, era stato reso facoltativo l’arresto per il piccolo spaccio, visto che per i minori non esiste l’arresto obbligatorio, neanche per l’omicidio. L’arresto è sempre facoltativo e lo decide il giudice, salvo che in alcune ipotesi di reato è proprio proibito. Ora, con questo decreto diventa di nuovo consentito l’arresto per il piccolo spaccio e anche, ad esempio, per i reati di resistenza a pubblico ufficiale. E invece hanno dimenticato di rendere possibile l’arresto per il reato di lesioni aggravate che si compie durante i pestaggi, una situazione molto frequente. Per chi fa uso di stupefacenti c’è anche il Daspo che allontana il minore dalla scuola. Cosa ne pensa? Se c’è un reato perseguito, quindi un fascicolo, il Daspo non ha ragione di essere. Il Daspo è una misura di polizia che si applica quando il sospettato non incorre in un reato punibile. Il possesso per uso personale di sostanze è attività perseguibile dal punto di vista amministrativo ma non penale. Intervenire con il Daspo per allontanare il minore da scuola non credo sia una buona idea: questi ragazzi andrebbero recuperati e inglobati, non esclusi, anche se mi rendo conto che alcuni soggetti non sono facili da trattare. In molti di loro, con l’umiliazione potrebbe aumentare la rabbia. E la strada diventare la loro scuola, il Daspo il loro vanto. Soprattutto nelle Caivano d’Italia. Riforma della giustizia, diciamoci la verità: occorre già riformare le riforme di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 9 settembre 2023 Al netto della abrogazione del reato di abuso di ufficio, riforma importante che mi auguro vada in porto senza modifiche così come proposta dal Governo, sul resto di questo primo pacchetto di riforme governative del processo penale occorre dirci la verità. Esiste infatti una distanza molto significativa se non addirittura decisiva tra i virtuosi principi liberali che con esse si vorrebbero affermare, ed il concreto ed effettivo impatto riformatore che le norme proposte riuscirebbero ad ottenere nella loro attuale formulazione. Si guardi, per esempio, alla riforma della custodia cautelare. “Sarà un collegio di giudici a decidere sulle richieste del PM, e l’indagato avrà diritto ad essere interrogato prima della emissione della misura”, ha orgogliosamente rivendicato il Ministro Nordio a Cernobbio, in un tripudio di applausi. Magnifica intenzione, tuttavia destinata - allo stato - a rimanere tale. Innanzitutto viene escluso da questa innovazione garantista l’ormai vastissimo catalogo dei reati c.d. di maggiore allarme sociale, come se la presunzione di non colpevolezza ed il rafforzamento dei diritti di libertà dell’indagato possano avere una diversa considerazione solo perché il reato ipotizzato dal PM è più grave di altri. Ma soprattutto essa trova applicazione solo nel caso in cui il PM invochi la misura cautelare paventando il pericolo di reiterazione del reato. Basterà dunque che il PM ipotizzi - in modo del tutto insindacabile in quella fase - altresì il pericolo di inquinamento della prova (cosa che già oggi avviene nove volte su dieci!), per vanificare la epocale riforma, limitandola quindi ad un numero davvero eccezionale e marginale di casi. Analoga considerazione occorre fare per il divieto di impugnazione delle sentenze di assoluzione da parte del P.M. Benissimo, purché si sappia che tale divieto viene limitato ai reati minori (quelli di competenza del giudice monocratico), rispetto ai quali - statistiche alla mano - le impugnazioni delle Procure sono davvero sporadiche, se non del tutto eccezionali. Clamorosa è poi la illusorietà della cosiddetta “stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni”. E questo non solo perché l’ampliamento del divieto è impercettibile (estendendosi alle intercettazioni “non utilizzate” dal Giudice), ma soprattutto perché la norma si guarda bene dal mettere mano sulla ridicola sanzione (poche decine di euro) prevista per chi viola quei divieti, che è la vera e sola causa della impunità della gogna mediatica che si intenderebbe combattere. Questo mentre, con l’altra mano, lo stesso governo amplia - contro le indicazioni della stessa Corte di Cassazione - la micidiale intrusività dello strumento intercettativo ben oltre i reati di mafia. L’auspicio dunque è che, in nome di una autentica volontà riformatrice liberale, voglia porsi rimedio a questa oggi incolmabile distanza tra intenzioni e realtà. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Intercettazioni, audizioni al via. Azzariti: fondati i dubbi di Forza Italia di Simona Musco Il Dubbio, 9 settembre 2023 Il costituzionalista sui rilevi degli azzurri al decreto legge: “È così, retroattività fuori dalla nostra Carta”. I possibili profili di incostituzionalità relativi al decreto legge 105, che estende il raggio delle intercettazioni per consentire l’utilizzo degli strumenti previsti per la lotta alla criminalità organizzata anche in assenza della contestazione del reato associativo, già segnalati dall’Ufficio legislativo di Forza Italia, “sono più che fondati. E auspico che in sede di conversione vengano fatte delle modifiche”. A dirlo al Dubbio è Gaetano Azzariti, professore ordinario di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Convinto che la norma, scritta dal governo per tranquillizzare i capi delle procure di fronte ad una sentenza di Cassazione che metteva a loro dire in discussione il concetto di criminalità organizzata, possa arrivare davanti alla Corte costituzionale - e forse essere demolita - date le sue criticità. La maggioranza vuole portarla in Aula alla Camera il prossimo 24 settembre. E per questo, martedì, inizieranno le audizioni degli esperti, chiamati a dire, nelle Commissioni congiunte Giustizia e Affari costituzionali, come e se il testo sia migliorabile. Il primo intervento sarà quello del procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo. Dopo di lui a dire la propria saranno Ginevra Cerrina Feroni, professoressa ordinaria di diritto comparato all’Università degli Studi di Firenze, Edoardo Raffiotta, professore associato di diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Lorenzo Casini, professore ordinario di diritto amministrativo alla Scuola Imt Alti Studi di Lucca, Ida Nicotra, professoressa ordinaria di diritto costituzionale all’Università degli Studi di Catania, Alfonso Celotto, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università degli Studi di Roma-Tre, Fabrizio Siracusano, professore associato di diritto processuale penale all’Università degli Studi di Catania, Gian Luigi Gatta, professore ordinario di diritto penale all’Università degli Studi di Milano, Sergio De Montis, procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo e Grazia Ofelia Cesaro, presidente dell’Unione nazionale Camere minorili. Nessun nome, al momento, è stato presentato dal gruppo di Forza Italia. Che potrebbe affidarsi ai costituzionalisti convocati dai colleghi per risolvere le criticità segnalate dal documento - e che non pochi mal di pancia hanno provocato tra gli azzurri -, prima fra tutte la pretesa di rendere applicabile ai processi già in corso la nuova norma. La norma, spiega Azzariti, non è interpretativa, esattamente come segnalato dalla scheda di FI. La criticità costituzionale è la pretesa di “correggere” per decreto un’interpretazione della Corte di Cassazione. “E questo non si può fare, se non pro futuro - sottolinea il costituzionalista -. Quindi è chiaro che i principi costituzionali di favor rei e di non retroattività delle norme penali non sono discutibili. Da costituzionalista traggo, dal documento di Forza Italia, l’auspicio che tali problematiche vengano risolte in sede di conversione con un emendamento chiarificatore”. Obiezioni potrebbero essere sollevate anche dal Presidente Sergio Mattarella una volta che sulla sua scrivania arriverà la norma convertita in legge, “ma questo non è immediato. Il Capo dello Stato non è la Corte costituzionale e queste sono criticità costituzionali che andranno, presumibilmente, davanti al giudice delle leggi”. Il controllo del Presidente della Repubblica è più lato, non di legittimità costituzionale o di merito politico, ma ciò non esclude la possibilità di agire in qualche senso per evidenziare le criticità. “Nel caso in cui il Presidente dovesse rinviare alle Camere tutta la legge di conversione tutto il decreto andrebbe in fumo”, sottolinea Azzariti. Da qui la possibilità di inviare un messaggio alle Camere, come fatto nel caso delle concessioni balneari, possibilità che però potrebbe essere ignorata dal Parlamento, come più volte accaduto anche in passato. Si tratta, dunque, di un’arma “opportuna, ma un po’ spuntata, perché purtroppo la storia ci insegna che i governi sono abbastanza sordi a questo tipo di sollecitazioni”. Senza dimenticare che la questione costituzionale, in questo caso, è più delicata, dal momento che in ballo ci sono i rapporti tra il legislatore e la magistratura, da tempo tesi. Altra questione la scelta dello strumento, ovvero la decretazione d’urgenza, ormai diventata una prassi. “L’abuso della decretazione d’urgenza è una tragedia di sistema costituzionale che si va moltiplicando e che andrebbe affrontata - conclude Azzariti -. Ovviamente non è un’invenzione di questo governo, ma le ultime statistiche parlano di un decreto legge a settimana. E questo dovrebbe inquietare tutti. Anche su questo il Capo dello Stato è rimasto inascoltato, nonostante abbia convocato sul punto, tempo fa, i presidenti di Camera e Senato. Si tratta di strumenti di straordinaria necessità ed urgenza. Quando l’eccezionalità diventa assoluta regola c’è da preoccuparsi. Non si interviene così con un decreto legge su questioni che per essere risolte dovrebbero essere affrontate con ben altra meditazione. Bisognerebbe riscoprire lo strumento della legge ordinaria e del dibattito parlamentare, che è stato pretermesso”. Con le carriere separate i pm nella tana del lupo di Gian Carlo Caselli La Stampa, 9 settembre 2023 Se i gravi problemi di bilancio che ci affliggono lasceranno tempo per altro (ma anche se per far dimenticare i problemi di bilancio si cercherà di dirottare l’attenzione su altro), stanno per irrompere sulla scena politica alcune importanti riforme - o pseudo riforme - di portata costituzionale. Tra queste la separazione delle carriere tra pm e giudici: il destriero in groppa al quale Carlo Nordio, ministro della Giustizia, è sceso in campo - con avvocati e “berluscones” di vecchia e recente appartenenza - per combattere una battaglia che ha come scopo ultimo ridurre l’indipendenza dei pm. Sgombriamo il campo da un equivoco: la separazione delle carriere è cosa ben diversa dalla separazione delle funzioni, che nel nostro sistema esiste da tempo. Si devono evitare commistioni improprie, perché è intuitiva l’inopportunità che chi è stato pm compaia il giorno dopo come giudice nello stesso tribunale (o viceversa). E per transitare da una funzione all’altra è oggi previsto un articolato sistema di controlli di professionalità e di incompatibilità territoriali che hanno reso il fenomeno pressoché inesistente. Con la separazione delle carriere si vorrebbe invece rompere l’attuale colleganza (determinata dalla omogeneità di status) tra giudicanti e requirenti; perché si dice che un giudice non controllerebbe con sufficiente rigore l’operato di un pm che è suo collega. A parte che, ragionando cosi, a essere separate dovrebbero essere piuttosto - ciò che nessuno ragionevolmente propone - le carriere dei giudici di appello e quelle dei giudici di primo grado; - la separazione delle carriere produrrebbe due concorsi diversi per pm e giudici, due diversi Csm, due carriere diverse e appunto separate. E insieme a tanti altri magistrati (tra cui moltissimi come me ormai in pensione e quindi - come dire - fuori dalla mischia) sono convinto che disancorare il pm dalla cultura della giurisdizione (nel nostro sistema, un elemento di garanzia irrinunciabile) significherebbe inesorabilmente farne un funzionario del governo tenuto ad adempierne le direttive. Perché una cosa è certa: ovunque vi sia un qualche declinazione della separazione delle carriere le cose funzionano così. Eppure (si osserva) ci sono anche paesi di indiscutibile caratura democratica. E allora diciamolo: del problema separazione delle carriere potremo eventualmente parlare, senza farne un tabù ideologico per ridurre i pm scomodi in quanto indipendenti in un angolo, quando anche la nostra politica saprà bonificarsi da quelle componenti ancora oggi compromesse con fatti di corruzione o di malaffare. Altrimenti, mettere il pm, di fatto, alle dipendenze del potere politico del momento (non interessa di che colore), sarebbe come spalancare l’ovile al lupo. Conviene al nostro Paese? Infine un ricordo personale. Invitato a Vienna per un convegno organizzato dai magistrati della Procura anticorruzione di quella città, li trovai in un momento di grande euforia per una novità giudicata “rivoluzionaria”. Dipendevano dal ministro della Giustizia e le direttive di questi sulle inchieste (se farle o non farle, fino a che punto arrivare, quali personaggi escludere...) erano tassative. Ma gli “ordini”, che prima erano soltanto “verbali”, adesso - ecco la grande novità - dovevano essere impartiti con atto scritto da inserire nel fascicolo processuale. Per questa grande conquista stavano allegramente brindando… Teniamoci stretto quel che abbiamo. La Corte Ue frena i pm: “Usino i dati telefonici solo per reati gravi” di Valentina Stella e Tiziana Roselli Il Dubbio, 9 settembre 2023 I giudici di Lussemburgo: il sacrificio della privacy è giustificato solo nelle indagini sulla criminalità. Può essere considerata una svolta, in chiave garantista, per le regole sull’utilizzo, nelle inchieste penali, dei dati di traffico comunicativo detenuti dai gestori delle comunicazioni elettroniche. E viene da una sentenza emessa lo scorso 7 ottobre dalla Corte di Giustizia dell’Ue. Il fatto: un procuratore lituano era stato rimosso perché, nell’ambito di un’indagine da lui diretta, aveva fornito informazioni in modo illecito a un indagato e al suo difensore durante alcune conversazioni telefoniche. La conferma dell’illecito era stata ottenuta grazie ai dati forniti dai provider di servizi di comunicazione elettronica. In risposta, il procuratore lituano ha contestato l’uso dei tabulati telefonici, sostenendo che costituisse un abuso dei diritti fondamentali delle persone, protetti dall’articolo 15 della direttiva 2002/58 del Parlamento europeo e del Consiglio. Si tratta della direttiva del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche. Il procuratore aveva fatto ricorso al “Tar” di Vilnius, che gli aveva dato torto. Si è rivolto allora Corte amministrativa suprema di Lituania che ha sospeso il giudizio e inviato gli atti alla Corte di Lussemburgo. Secondo la quale, appunto, “i dati personali relativi al traffico e all’ubicazione conservati da fornitori in applicazione di una misura adottata ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva “relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche” ai fini della lotta alla criminalità grave e messi a disposizione delle autorità competenti, non possono essere successivamente trasmessi ad altre autorità e utilizzati ai fini della lotta contro condotte illecite di natura corruttiva, che sono di importanza minore rispetto all’obiettivo della lotta alla criminalità grave”. Questa decisione, contenuta nella causa C-162/22, ha notevoli implicazioni per la protezione dei dati personali e la tutela della vita privata nell’ambito delle comunicazioni elettroniche perché individua un limite all’uso del dato acquisito dal gestore delle comunicazioni. Secondo la Corte, solo la lotta contro reati gravi può giustificare ingerenze nei diritti fondamentali, come previsto dagli articoli 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Riguardo all’ordinamento lituano, la sentenza ha stabilito chiaramente che i dati personali relativi al traffico e all’ubicazione non possono essere utilizzati in indagini per condotte illecite di natura corruttiva nel servizio pubblico, fatte salve determinate condizioni, quali la conservazione mirata dei dati, limitata nel tempo e basata su criteri oggettivi e non discriminatori, e il rispetto del principio di proporzionalità. La Corte ha sottolineato che la lotta alla criminalità grave ha un’importanza maggiore rispetto alla lotta contro la criminalità in generale. Solo in circostanze eccezionali, dunque, è giustificata un’ingerenza nei diritti fondamentali dei cittadini attraverso la conservazione dei dati. Quali riflessi possono venirne per il sistema penale italiano? Ovviamente la Corte Ue non risolve la controversia nazionale. Spetterà al giudice nazionale risolvere la causa conformemente alla decisione di Lussemburgo. Ma sicuramente si tratta di una sentenza che porterà, anche da noi, a un’ampia riflessione da parte degli esperti. Si potrebbe, ad esempio, ipotizzare che se l’autorità giudiziaria chiede al gestore alcuni dati in merito ad indagini per reati di mafia e poi li utilizza per un procedimento che riguarda reati non di mafia si ravvisi una violazione della direttiva. In realtà adeguare l’ordinamento interno a quello comunitario non è impresa facile. Ad esempio occorre chiedersi cosa si intenda, nel nostro Paese, per ‘reato gravè: tutti quelli per i quali è possibile intercettare? Nel nostro caso, nell’elenco vi è anche la corruzione. Occorre ricordare che su una materia simile il nostro Paese si è già dovuto confrontare nel 2021 quando il Consiglio dei ministri approvò un decreto su proposta dell’allora guardasigilli Marta Cartabia con cui l’Italia si adeguava alla sentenza della Corte di Giustizia Ue del 2 marzo 2021. La sentenza riguardava l’Estonia: l’accesso ai dati conservati dai fornitori poteva essere consentito solo a determinate condizioni: in presenza di “forme gravi di criminalità” o per far fronte a “gravi minacce alla sicurezza pubblica”, a prescindere dal periodo di tempo cui i dati ineriscono, dalla quantità e qualità degli stessi e se vi fosse stata la preventiva autorizzazione di un’autorità giudiziaria o amministrativa indipendente e terza rispetto alle parti, pubbliche e private. In sintesi, precludeva agli inquirenti il potere di acquisizione diretta di tali informazioni e dati personali. Vedremo nei prossimi mesi cosa farà il governo rispetto a questa importante decisione comunitaria. Cartabia, sì alle pene sostitutive anche se il ricorso per cassazione non era già presentato al 30 dicembre 2022 di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2023 La pendenza in sede di legittimità coincide con la conclusione dell’appello e rende applicabile il regime transitorio. La domanda di applicazione delle pene sostitutive al giudice dell’esecuzione è possibile, in base al regime transitorio stabilito dall’articolo 95 del Dlgs 150/2022, anche durante il decorso del termine per presentare ricorso per cassazione. Infatti, tale situazione è da considerarsi pienamente equiparabile a quella del giudizio pendente in Cassazione espressamente contemplata dalla norma transitoria. Quindi anche chi non avesse proposto ancora al 30 dicembre 2022 il proprio ricorso di legittimità godeva per il principio di uguaglianza della stessa possibilità di azionare la domanda di conversione della pena in sede di giudizio di esecuzione. La sentenza n. 37022/2023 della Corte di cassazione penale ha quindi affermato che il principio del favor rei che opera rispetto all’introduzione di norme più favorevoli all’imputato va applicato nel modo più uniforme possibile senza creare situazioni di svantaggio non giustificate. Nel caso concreto in applicazione dell’articolo 2, comma 4, del Codice penale la disciplina transitoria della riforma prevede esplicitamente un’applicazione anticipata del nuovo e ampliato regime delle pene sostitutive riferendosi ai procedimenti pendenti in sede di merito o di legittimità. Ed è proprio sul punto della sussistenza della pendenza del processo che la pronuncia in esame precisa che durante il decorso del termine per impugnare una decisione assunta dal giudice del grado precedente determina la pendenza in quello successivo anche se materialmente l’impugnazione non è stata ancora presentata. Padova. Nelle nostre carceri non c’è la “peggior umanità” di Vito Ometto* difesapopolo.it, 9 settembre 2023 Tanto clamore hanno generato le parole dell’assessore regionale al lavoro Elena Donazzan, che riferendosi alle persone chiuse in carcere ha parlato di “peggior umanità”. Di seguito riportiamo la lettera inviata alla Difesa da Vito Ometto, diacono permanente impegnato proprio presso il Carcere circondariale di Padova. “La peggior umanità”. Con queste parole l’assessore regionale al lavoro, Elena Donazzan, si è espressa commentando gli ultimi episodi di violenza nelle carceri di Padova. Ma esiste una peggior umanità? Secondo la sig.ra Donazzan sì e si trova nelle carceri d’Italia. Ma questa rappresentante regionale conosce chi è ospite dei nostri carceri? Conosce le storie di chi si trova dietro le sbarre e le vicende che li hanno portati lì? Mi permetto di presumere di no. Conosce per bene lo stato in cui vivono i reclusi e il grande lavoro che fa la polizia penitenziaria? È vero, ci sono dei reclusi che sono più problematici di altri, ma spesso hanno anche problemi legati a depressioni e malattie mentali che avrebbero bisogno di più attenzioni o luoghi diversi dal carcere normale. Nelle nostre carceri non c’è la “peggior umanità”; ma ci sono umanità che hanno avuto nella vita meno opportunità di umanizzazione rispetto ad altri. E il compito di chi li incontra come i cappellani, diaconi, religiose/i, volontari... è quello di ascoltare e parlare loro con il cuore, che significa, essenzialmente, sentire per l’altro e sentire con l’altro. L’umanità, che non si può non avere, si può vivere nella quotidianità attraverso un’educazione attenta all’affettività, alle emozioni, all’empatia, al confronto, alla resilienza. L’umanità è il sentimento che identifica ognuno di noi che ci rende simili, assomiglianti, vicini, solidali, uniti. Umani insomma. Noi ci crediamo e ci proviamo. *Diacono permanente presso la Casa circondariale di Padova San Gimignano (Si). Torture nel carcere: “Una violenza e sofferenza oltre le 12 ore” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 settembre 2023 Testimonianze e prove raccolte rivelano un’azione finalizzata a terrorizzare e addomesticare i detenuti. Questo e altro ancora nelle motivazioni sulla condanna dei cinque agenti penitenziari. Nel frattempo a rischio il reato di tortura. “Un vero e proprio esercizio di violenza, di abuso della forza pubblica e di abuso di autorità, perpetrato ad opera di componenti dell’apparato pubblico di custodia e, quindi, di appartenenti alle pubbliche Istituzioni”. E tale violenza, per di più, “non è stata affatto esercitata in forma istantanea, subitanea e isolata, ma si è piuttosto tradotta in plurimi, reiterati e distinti atti, tra loro legati tutti dall’unitario intento, portato avanti dagli odierni cinque imputati e condiviso anche dagli altri dieci imputati in procedimento connesso, di dar vita ad una punizione di A. che potesse valere “d’esempio” per tutti gli altri detenuti collocati nel reparto isolamento, così da ivi imporre l’ordine mediante il terrore e in modo di riaffermare, in quel contesto, rapporti di dominio mediante l’uso di esemplari forme di violenza collettiva”. Sono alcuni passaggi delle motivazioni, da poco depositate, riguardanti la sentenza di condanna nei confronti dei cinque agenti penitenziari del carcere di San Gimignano, con pene da 5 anni e 10 mesi fino a 6 anni e 6 mesi per torture, falso e minaccia aggravata nei confronti del detenuto tunisino. Una delle prime condanne da quando è stato introdotto il reato di tortura - Si tratta di una delle prime condanne da quando è stato introdotto il reato di tortura che ora il governo vorrebbe cambiare. Un reato che in realtà risulta ben codificato e le sentenze lo dimostrano. “Abbiamo sostenuto che il reato di tortura sia più grave quando è commesso dal pubblico ufficiale perché disegna un rapporto di potere che viene estorto tradendo la fiducia che ognuno deve avere nelle forze di polizia che sono nella massima composizione sana”, ha ricordato l’avvocato Michele Passione, parte civile del Garante nazionale delle persone private della libertà. Ricordiamo che la prima lettera di denuncia su quei fatti la pubblicò Il Dubbio in esclusiva. Lettera giunta all’associazione Yairaiha Onlus, che si è costituita parte civile. “Dai loro racconti - ha commentato Sandra Berardi, presidente dell’associazione - è emerso chiaramente come la vessazione e i trattamenti inumani e degradanti fossero la norma anche prima dell’ottobre del 2018. Nella denuncia avevano parlato di vero e proprio metodo sistematico di intervento violento e vessatorio finalizzato a terrorizzare e addomesticare i detenuti”. Il detenuto picchiato fu “compresso e schiacciato per più di 40 secondi” - Come si legge nelle motivazioni, secondo il collegio giudicante, la violenza illegittima commessa nei confronti del detenuto era “dunque, finalizzata ad incutere timore e terrore nell’ambito di una ristretta comunità, qual è quella dei detenuti collocati all’interno del reparto isolamento della Casa di reclusione di San Gimignano, al fine di restaurare l’ordine turbato da precedenti inottemperanze e manifestazioni di protesta poste in essere da questi ultimi, anche in tempi immediatamente recenti, nonché con finalità di preventiva dissuasione e generale deterrenza rispetto ad eventuali e futuri comportamenti scorretti e mal tollerati, da parte dei detenuti medesimi”. Le prove acquisite nel corso dell’istruttoria, secondo il collegio, mostrerebbero che il detenuto tunisino quel pomeriggio venne preso a forza dalla cella 4 nel lato A del reparto d’isolamento, “trascinato e strattonato lungo il corridoio” per metterlo nella numero 19. Venne colpito alla testa da due pugni, mentre si trovava in terra “ripetutamente percosso con molteplici calci inferti in più parti del corpo, per oltre trenta secondi”. Rialzatosi, era rimasto privo di vestiti. Era nuovamente caduto, venendo “compresso e schiacciato per più di 40 secondi” da uno degli imputati che pesava 135 chili. I giudici tengono a sottolineare che “ferme e pacifiche, pertanto, le plurali violenze fisiche subite da A., le molteplici sofferenze da questi patite appaiono ampiamente provate e testimoniate tanto dalle espressioni e smorfie facciali da questi assunte nel corso della subita violenza, quanto dagli atteggiamenti posturali, tipicamente associati ad uno stato doloroso, percepiti da plurimi testimoni che, l’indomani, si sono recati a fare visita ad A.”. E dette sofferenze, da ultimo, “hanno inoltre costituito oggetto di espresse dichiarazioni da parte del medesimo A., che in più occasioni ha rievocato lo stato di profondo dolore avvertito e percepito quel giovedì 11 ottobre 2018, unitamente allo stato di angoscia, paura e frustrazione vissuti anche nei giorni seguenti”. Secondo il collegio giudicante, alla luce del complessivo quadro tracciato in materia di delitto di tortura, si ritiene che gli imputati abbiano dato, ciascuno, il loro rilevante contributo causale nell’inflizione di ripetute e plurime violenze nei confronti del detenuto, “che hanno a costui cagionato acute sofferenze fisiche nonché un complessivo trattamento inumano e degradante, sol che si pensi tanto alla prolungata fase della violenza collettiva sullo stesso esercitata, quanto e soprattutto alla condizione di privazione, per A., di parte del suo vestiario, protrattasi per un arco di tempo superiore alle dodici ore”. Per i giudici c’è stata tortura “oltre ragionevole dubbio” - Quindi, “oltre ragionevole dubbio”, secondo i giudici c’è stata la tortura da parte di cinque agenti del carcere di San Gimignano nei confronti del detenuto tunisino di 31 anni. L’11 ottobre 2018 è stata posta in essere, da parte di una squadra composta da 15 agenti, assistenti e ispettori del corpo di polizia penitenziaria, una spedizione punitiva nei confronti del carcerato. E sarebbe stato scelto perché mingherlino, dunque più fragile, oltre che per la condizione psichica “disagiata”. Non solo. Anche perché non aveva fuori dalla cella nessuno che l’avrebbe aiutato per il trattamento ricevuto. Una sorta di punizione che poteva valere d’esempio per gli altri detenuti nel reparto di isolamento. Ricordiamo che a febbraio del 2021, altri dieci agenti - i quali hanno scelto il rito abbreviato - sono stati condannati per i medesimi fatti. Anche in quella sentenza di condanna viene individuata la fattispecie autonoma di reato. Il giudice ci aveva tenuto a sottolinearlo. Non è un dettaglio di poco conto. La legge sul reato di tortura, a suo tempo, non fu accolta con entusiasmo da chi ha combattuto per l’introduzione perché potrebbe indurre a proporne la diversa lettura della norma in termini di fattispecie autonoma di reato. In estrema sintesi, la tortura da parte di pubblici ufficiali è inserita al secondo comma e c’era il rischio che venga considerata come una fattispecie aggravata, invece che come reato autonomo. Questo non è accaduto. Ma se dovesse passare la modifica proposta dal partito di maggioranza, passerà esattamente quello che si temeva. Un completo snaturamento della legge. A tal proposito è intervenuta anche Amnesty International, esortando il governo a ripensarci. Frosinone. Carcere, troppi suicidi e pochi educatori. Ieri la visita del Garante dei detenuti di Nicoletta Fini ciociariaoggi.it, 9 settembre 2023 Visita nella casa circondariale di Frosinone, ieri mattina, del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. Tra le principali questioni affrontate durante l’incontro con la direttrice Teresa Mascolo e con il comandante, il dirigente Rocco Elio Mare, quella del suicidio avvenuto nove giorni fa nella struttura del capoluogo del trentacinquenne di Ceccano, Antonio Di Mario, e del tentativo di evasione, mercoledì pomeriggio, di un detenuto, prontamente ripreso dagli agenti della polizia penitenziaria nell’area del campo sportivo interno alla struttura. L’episodio fa tornare di nuovo sotto i riflettori il carcere del capoluogo, a pochi giorni dal suicidio del ceccanese per cui è stata avviata un’indagine e per il quale la sorella della vittima, Laura Di Mario, chiede di fare luce. La donna ha inviato una pec, tramite il suo avvocato Marco Maietta, anche al garante. Abbiamo contattato telefonicamente il dottore Stefano Anastasìa, a margine dell’incontro nel carcere di Frosinone, dove si è intrattenuto anche con alcuni detenuti per ascoltare le loro richieste con la promessa di incontri periodici con rappresentanti delle sezioni detentive e per raccogliere eventuali problematiche e criticità. Un altro suicidio in carcere - “Sono in corso indagini sul suicidio avvenuto la scorsa settimana. Ho incontrato la direttrice, il dirigente sanitario e il comandante, i quali sostengono che sono stati adottati tutti i protocolli relativi al rischio suicidario, e all’assistenza di cui aveva bisogno il trentacinquenne. Purtroppo, il fenomeno dei suicidi in carcere è frequente. Episodi che accadono maggiormente nelle carceri piuttosto che fuori, legati anche alla situazione di disagio e spesso alla disperazione che si vive nel carcere e su cui, naturalmente, gli operatori devono fare tutto il necessario per evitarli. La sorella di Di Mario ha fatto benissimo a chiedere che vengano fatti tutti gli accertamenti per chiarire ogni dubbio. È giusto verificare le condizioni effettive di detenzione del ragazzo e se sia stato fatto tutto il possibile per prevenire quel tragico gesto”. Mercoledì il tentativo di evasione di un detenuto - “Proprio in occasione della visita di oggi (ieri, ndr) ho incontrato il detenuto che aveva tentato di evadere e che è stato subito bloccato dagli agenti della penitenziaria. Anche queste sono cose che, purtroppo, capitano e che spesso gli operatori riescono a risolvere con professionalità, prima che la situazione possa degenerare, anche con conseguenze gravi per gli stessi detenuti”. Sovraffollamento e carenza di organico tra le criticità - “Il sovraffollamento è presente in diversi istituti del Lazio, come la carenza di organico. Neanche la casa circondariale di Frosinone è esente da tali problematiche. Anche comprendendo gli agenti impegnati in altri servizi, a Frosinone mancano almeno una cinquantina di unità di polizia penitenziaria. Un altro problema emerso durante l’incontro e portato all’attenzione dalla direttrice, è quello della mancanza di educatori. Sugli otto previsti, attualmente sono cinque gli operatori, uno dei quali ha chiesto di andare via. E questa situazione pesa sulla gestione dei percorsi di reinserimento dei detenuti”. Ha incontrato anche alcuni detenuti - “Sono stato nella sezione isolamento dove ho potuto incontrare il giovane che ha tentato di evadere mercoledì. Sono stato in visita, inoltre, in un paio di altre sezioni dove ho incontrato un gruppo di detenuti che mi ha illustrato problematiche di carattere generale, ad esempio sulla disponibilità di risorse per attività lavorative interne che in questo secondo semestre non riescono a coprire l’attività. Tra le altre problematiche portate all’attenzione, le difficoltà di accesso a misure alternative. Siamo rimasti d’accordo che farò periodicamente un incontro con i rappresentanti delle sezioni detentive per raccogliere le problematiche dei detenuti. Sassari. Sanzione disciplinare in carcere per Cospito: stop a sport e attività ricreative di Manuela D’Alessandro agi.it, 9 settembre 2023 L’anarchico, che è stato a lungo in sciopero della fame per protestare contro il 41 bis, è accusato di avere reso affermazioni “diffamatorie” durante un colloquio con la sorella. Il carcere di Sassari ha inflitto una sanzione disciplinare ad Alfredo Cospito, l’anarchico a lungo in sciopero della fame per protestare contro il 41 bis a cui è sottoposto per reati di terrorismo. Nel documento letto dall’Agi si contesta al detenuto di avere reso affermazioni “diffamatorie” durante un colloquio nel quale commentava con la sorella la possibilità che avrebbe potuto ricevere le foto del padre e della madre che, in passato, gli erano state negate. “Le foto me le hanno sbloccate da Torino, dal signor Saluzzo, quella testa di... ma il carcere si sarà opposto”. Il riferimento è al procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, che si è occupato del suo caso. I legali di Cospito, gli avvocati Flavio Rossi Albertini e Maria Teresa Pintus, hanno presentato un reclamo al magistrato della Sorveglianza contro la sanzione che prevede “l’esclusione dalle attività sportive e ricreative per sette giorni, sanzione sospesa condizionalmente per il termine di sei mesi se in questo termine non commette altre infrazioni”. I legali sottolineano che i reclusi possono essere sanzionati solo “per fatti previsti dal regolamento come illeciti”. E non è questo il caso, argomentano, “perché non ha offeso un operatore penitenziario o una persona che entra ed esce dal carcere ma una terza persona avulsa dal novero dei soggetti che quotidianamente e fisiologicamente frequentano l’istituto”. Inoltre, sostengono, “le sale colloqui degli istituti penitenziari sono spazi privati nei quali si manifestano diritti insopprimibili nei quali si manifesta la propria personalità, intesa come desideri e frustrazioni”. Bologna. Il Sindaco Lepore: carceri piene di giovani disperati di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 9 settembre 2023 “Le carceri sono già sovraffollate e piene di ragazzi che lo Stato non riesce a recuperare, che escono ancora più arrabbiati e disperati di quando sono entrati. Per affrontare la criminalità giovanile servono più scuola e più lavoro. Questo serve per togliere i ragazzi dalla strada”. Lo dice il sindaco Matteo Lepore commentando il dl Caivano del governo. “Come sindaci lo vediamo ogni giorno e anche per questo molti di noi mettono volontariamente risorse a disposizione delle scuole statali. Penso alle medie,per rimanere aperte il pomeriggio e anche la sera. Così si aiutano i ragazzi e le famiglie. Da altre parti ci pensa il Terzo Settore, ma lo Stato cosa fa per la scuola e le famiglie? D’estate le scuole rimangono chiuse tre mesi, i genitori sono stremati e senza aiuti. La pausa estiva va accorciata e le scuole devono essere aperte il pomeriggio. Ci sono tanti territori come Caivano, mettere un’intera generazione in carcere è controproducente ne stiamo già vedendo gli effetti. La delinquenza giovanile è già l’effetto delle politiche repressive e carcerarie dello Stato”. Firenze. Una via e un’aula di giustizia per Alessandro Margara nove.firenze.it, 9 settembre 2023 Le cerimonie di intitolazione avranno luogo il 15 settembre. Alessandro Margara (1930-2016), magistrato di sorveglianza, ha portato la luce dell’umanità e della giustizia nelle carceri nel solco della Costituzione e del più alto pensiero riformatore, da Cesare Beccaria a Piero Calamandrei. A lui, saranno intitolate una via e un’aula di giustizia a Firenze: le cerimonie di intitolazione sono in programma il prossimo venerdì, 15 settembre. Il tratto di strada è quello presso le Murate, perpendicolare e di congiunzione tra Via dell’Agnolo e Via Ferdinando Paolieri. La cerimonia di intitolazione della Aula di udienza “Alessandro Margara” si terrà lo stesso giorno presso il Palazzo di Giustizia di Firenze (viale Alessandro Guidoni 61, Firenze - piano 0) alle ore 15. Saranno presenti, tra gli altri, Silvia Botti per la Fondazione Giovanni Michelucci, Grazia Zuffa per la Società della Ragione, Marcello Colocci per l’Associazione Volontariato Penitenziario, istituzioni fondatrici dell’Archivio Sandro Margara. Zerocalcare e Luigi Manconi: “Apriamo gli occhi sulle carceri italiane” di Raffaella De Santis La Repubblica, 9 settembre 2023 Il fumettista e il sociologo attivista per i diritti umani insieme nell’incontro al Festival di Mantova. “Abolire gli istituti penitenziari non è un’utopia. Ma una questione di giustizia”. Pienone da concerto in Piazza Castello, eppure Zerocalcare e Luigi Manconi al Festivaletteratura di Mantova parlano di carceri. Un segno che si può. Si può affrontare un tema sociale prima di cena e avere applausi e attenzione. Un’ora e mezza serrata, moderati da Luca Misculin, durante la quale il sociologo e il fumettista cult hanno denunciato la disumanità degli istituti penitenziari: “Sono dannosi, abolirli non è un’utopia ma una questione di giustizia”, ha sintetizzato Manconi tra gli applausi del pubblico che per entrare aveva fatto una lunga fila. “Le carceri sono il nostro rimosso”. Entrambi d’accordo su questo, sul tentativo di relegare il male dietro le sbarre, che è poi un modo semplice per non vederlo, per far finta che non ci riguardi. “Se le carceri avessero pareti di vetro forse potremmo vedere che succede dentro”. Zerocalcare non è la prima volta che denuncia. Per Internazionale aveva disegnato una storia sulle carceri italiane durante la pandemia, da Rebibbia a Santa Maria Capua Vetere. Manconi fornisce dati che inchiodano la realtà alla disumanità: “In appena il 40% delle celle in cui sono rinchiuse detenute non c’è il bidet. Questo disprezzo nei confronti del corpo femminile è un’offesa alla dignità”. Il sovraffollamento (“l’odore del carcere è quello dei corpi ammassati”) è l’altro grande problema insieme a quella che Manconi ha definito efficacemente “l’infantilizzazione del detenuto, la sua riduzione a una condizione di minorità”. Il linguaggio diventa allora una spia: i moduli che i detenuti devono compilare per qualsiasi richiesta vengono chiamati dentro l’ambiente carcerario “domandina”, il detenuto addetto alle pulizie “scopino”, quello addetto alla spesa esterna “spesino”. Zerocalcare ha portato sul palco la sua Rebibbia: “Chi abita a Rebibbia è abituato al carcere: si vedono persone che aspettano le visite nel pratone, secondini che vivono in zona, padri con figli che aspettano l’apertura per le visite. Al tempo stesso però nel quartiere il carcere è un posto nascosto. Nessuno se ne accorge a meno che non si alza il fumo nero delle rivolte e senti rumore elicotteri”. L’incontro con Salvatore Ricciardi, un detenuto condannato a 30 anni di carcere diventa allora per Zerocalcare il superamento di una linea, il momento in cui capisce in concreto che cosa significa essere rinchiuso e rivede anche alcune sue idee: “Salvatore Ricciardi veniva a lavorare alla radio dove tenevo una trasmissione, poi tornava a dormire in carcere. Quel signore mite e generoso ha cambiato l’immagine che avevo del carcere. L’ha cambiata molto più del carcere vero, Rebibbia, di cui vedevo solo le mura perché abitavo a 100 metri”. Eppure preferiamo non vedere. Manconi insiste: “Da decenni si parla a Roma di spostare Regina Coeli e a Milano di spostare San Vittore. Di nuovo una rimozione, stavolta anche fisica, spaziale: cancellare al proprio sguardo il male ha una sua concreta attuazione attraverso le politiche urbanistiche, portando le carceri lontani dal centro storico”. A questo punto entra nel discorso la responsabilità politica. Per Zerocalcare “il motivo per cui non parliamo di carcere è perché in questo momento il consenso politico si ottiene nel modo opposto”. Dunque meglio nascondere ciò che non porta voti? Altri dati, sempre Manconi: La frequenza suicidi donne è doppia rispetto uomini, all’interno della popolazione detenuta la frequenza dei suicidi è 16-18 volte superiori a quelli che avvengono fuori dal carcere, il 30% dei detenuti è costituito da tossicodipendenti e al momento nelle carceri italiane ci sono 19 bambini dai zero ai tre anni, reclusi con le loro madri. Sembrano pochi? “Io li chiamo gli ‘innocenti assoluti’. Per i quali il nostro sgangherato welfare non è stato in grado di realizzare case famiglia. È un dato che proprio per il numero esiguo di persone coinvolte è ancora più struggente”. Infine la conclusione: “I dati dimostrano che le misure alternative al carcere sono più efficaci per abolire il rischio di recidiva: la recidiva da parte di coloro che hanno espiato in una cella chiusa è del 70%. La percentuale scende al 20% per chi è stato in detenzione domiciliare. Dunque quando diciamo di abolire carcere non parliamo di un’utopia ma di una misura più efficace. il carcere l’estrema ratio a cui ricorrere quando tutto gli strumenti si sono rivelati inutili”. Se le mura del carcere fossero di vetro. Ripensare la detenzione per ridare dignità festivaletteratura.it, 9 settembre 2023 Non c’è altro modo per dirla: i detenuti sono i Grandi Rimossi della nostra società. Il pensiero della reclusione dietro le alte mura è ormai respingente a tal punto da provocare timore e sdegno e venire filtrato quotidianamente dai media. Le notizie che ci raggiungono dalle carceri riguardano solo due eventi specifici: i suicidi o le rivolte. Eppure, la condizione dei detenuti negli istituti penitenziari dovrebbe riguardare tutti noi. Ne parlano in una Piazza Castello gremita e partecipe il fumettista Zerocalcare e Luigi Manconi - sociologo, politico ed ex docente universitario - con la mediazione del giornalista Luca Misculin. Manconi è perentorio quando tratteggia lo stato in cui sono costrette a sopravvivere 58 000 persone: per cominciare solo in metà delle carceri italiane le celle dispongono di doccia. Solo il 40% delle celle che ospitano detenute hanno il bidet. Il blindo poi, la porta di ferro attraversata solo da una piccola feritoia, è quasi sempre chiuso. In un’estate torrida come quella che sta terminando non è difficile immaginare quali miasmi e quali malesseri fisici le carceri italiane producano. L’offesa alla dignità del corpo è il primo passo per la cosizzazione, per l’annullamento dell’individuo. I dati a nostra disposizione sono davvero tanti perciò ignorare la realtà che sta al di là del muro è una scelta deliberata. Il controllo violento dei corpi e dell’animo dei detenuti si riverbera su tutti - dentro e fuori - perché nessuno dovrebbe lavare l’insalata nello stesso vaso in cui si pulisce i piedi. Nessuno. Manconi parla di promiscuità coatta: spazi da cui è vietato evadere ma che umiliano senza sosta chi si trova ad abitarli. Il sovraffollamento degli istituti penitenziari d’altronde ha lo scopo non dichiarato ma reiterato di infantilizzare i detenuti. Un processo che inizia nella cosiddetta società civile e che passa dalle parole usate per descriverne i ruoli. Il carcerato responsabile della pulizia degli spazi per esempio si chiama Scopino, quello è delegato all’acquisto della spesa Spesino e, per chiudere in bellezza, Concellino è il compagno di cella. Vezzeggiativi e diminutivi, termini adatti all’infanzia non a persone adulte. Chi attraversa le porte blindate del carcere viene deresponsabilizzato, privato della sfera affettiva, famigliare e sessuale. Il carcerato subalterno vive una condizione di minorità in cui non avrà modo di praticare il reinserimento, non potrà comprendere, evolvere, rieducarsi. È il fumettista romano Zerocalcare a toccare un altro punto importante del discorso: le carceri influenzano ed alterano profondamente il tessuto abitativo circostante e le persone che ne fanno parte. Spesso i quartieri adiacenti la mastodontica cittadella di cemento assorbono un’umanità con cui è necessario fare i conti: dai secondini che prendono casa vicino al luogo di lavoro alle persone che al mattino presto lo raggiungono per fare visita ai loro cari. Una presenza scomoda, stigmatizzata nel tentativo di allontanare dallo sguardo e dal cuore l’indesiderato. A concorrere alla volontà politica di eradicare dal cuore della città istituti penitenziari come San Vittore o Regina Coeli il racconto stereotipato che si fa della prigione. Il carcere ha un forte valore sia concreto che simbolico. Lì si trovano coloro che hanno commesso Il male. Un male che la società civile condanna e vuole vedere annientato, rimosso come macerie o detriti. È fondamentale comprendere che il cittadino che in carcere non entra avverte oscuramente che quel male che hanno commesso coloro che in carcere sono detenuti lo riguarda. Il cittadino avverte che i detenuti non hanno resistito ad una tentazione che anch’egli avrebbe. Da qui la volontà di tenere lontano il disagio e il dolore. Dalla stessa radice sboccia il cattivismo social e televisivo anche dei più progressisti. Una crudeltà facile da esprimere per chi non paga le conseguenze di quello che dice. Cosa succederebbe però se le mura delle carceri italiane diventassero improvvisamente di vetro? Quanto riusciremmo a odiare da vicino? Il carcere poi è ancora oggi un’istituzione di classe. A parità di reato chi ne ha i mezzi sconta la propria pena ai domiciliari quindi lontano dall’asfissiante e angusto spazio di una cella. La rabbia e determinazione che si percepiscono dalle parole di Manconi e Zerocalcare sono comprensibili. Anzi, sono necessarie perché le alternative esistono già e vengono testate in paesi come la Spagna. I dati raccolti finora dimostrano come le misure alternative al carcere siano di gran lunga più efficaci nel combattere, fra gli altri, la reiterazione di reato. Il cammino, dunque, dovrebbe andare in direzione di una riduzione progressiva dell’uso del carcere. Ad esso verrebbero destinate solo le persone che si sono dimostrate e confermate soggetti socialmente pericolosi. Abolire il carcere non è utopia. Da qui passa la restituzione di dignità a chi commette un reato e a chi non lo hai mai fatto. Responsabilizzare i detenuti è segno di civiltà mentre il sistema carcerario contemporaneo è una enorme macchina irrazionale, insensata, incapace di guardarsi. C’è molto da fare. Per prima cosa riconoscere che un mondo senza prigioni è un mondo libero dall’istinto di vedere distrutta, schiacciata una persona e credere fermamente nel potere della trasformazione. La politica accende i riflettori sulle periferie degradate di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 9 settembre 2023 La rinascita della Commissione parlamentare, cancellata dalla maggioranza Lega-M5S, è un’ottima notizia. I dimenticati stanno tornando di moda. Con la brutalità della cronaca nera esasperata da un’assenza di interventi fin troppo protratta, le nostre periferie urbane si ripropongono al centro dell’agenda politica ad appena nove mesi dalle elezioni europee. Al netto di un sempre auspicabile sussulto di sensibilità sociale nelle stanze dei bottoni, la spiegazione più semplice di questa nuova attenzione è che esse sono un immenso serbatoio di voti dispersi, il cui recupero pur molto parziale potrebbe garantire una bella spinta nella competizione di giugno 2024. Alle elezioni amministrative del 2021, per dire, nel municipio romano delle “Torri” (Tor Bella Monaca, Torre Maura, Torre Angela), il più degradato della Capitale, ha votato appena il 32% degli aventi diritto, con un crollo ulteriore al 27% nelle Regionali di quest’anno. Nella Caivano oggi simbolo d’ogni male, l’affluenza è scesa di 16 punti tra le due più recenti consultazioni, pur attestandosi alle politiche attorno a un 49% sostenuto dalla campagna pentastellata sul reddito di cittadinanza che in alcune realtà di disagio estremo è stata forse fraintesa come voto di scambio. Di sicuro le periferie (geografiche, economiche o esistenziali che siano) sono ciò che viene più facile esorcizzare in momenti di relativa tranquillità congiunturale: “Non siamo noi”, “è quel che basta per mettere tutto a distanza anche con cuore dolente”, notava Lucia Annunziata sulla Stampa. Ma sono anche ciò che diventa attualissimo nei periodi di vacche magre, con conseguenze politiche spesso rilevanti. Nella seconda metà degli anni Dieci, quando si sommarono gli effetti della crisi economica a quelli della crisi migratoria, la morte della diciottenne Pamela Mastropietro, massacrata a Macerata da un profugo nigeriano, provocò un’ondata xenofoba che ribaltò i rapporti di forza nel centrodestra decretando l’ascesa elettorale di Matteo Salvini. Molti indicatori ci dicono adesso che sulle periferie e sulle loro stratificazioni di ultimi e penultimi si stanno riaddensando nuvole di tempesta. Dopo il Covid, che tutto ha paralizzato e peggiorato, ecco una nuova stagione di ristrettezze, con inflazione, caro bollette, mutui e benzina alle stelle, lavoro povero, esodati del reddito, masse di migranti alle porte. È una miscela infiammabile che ha trovato una miccia in Caivano e nel suo disastrato Parco Verde con annessa catena di orrori ed errori. Giorgia Meloni, cresciuta in una destra che nei ghetti urbani aveva la sua constituency, ne ha colto la pericolosità sin dalla visita alla cittadina dell’hinterland napoletano, spingendo ministri, prefetti e forze dell’ordine a un’ostensione muscolare di cui non conosciamo, al momento, intensità e durata. I blitz, sia pure simbolici e in favore di telecamere, hanno comunque il merito di rivendicare allo Stato il controllo delle tante “Caivano d’Italia”. Un decreto tarato su bande giovanili e povertà educativa mostra, se non altro, la volontà di prendere in carico una situazione incancrenita: perché l’eterno disastro delle periferie si è incarnato e moltiplicato nel disagio dolente di una generazione di malacarne-bambini, abbandonati da tutti e pronti a tutto. L’idea di spaventarli con un Daspo urbano (inutilmente tentato da Minniti contro la microcriminalità nel 2017) sa un po’ di grida manzoniana. Così come la sacrosanta sanzione penale ai genitori che non li mandano a scuola può risolversi in un colpo a vuoto se i primi ad annaspare nella droga o nei sottoscala delle mafie sono magari proprio quei genitori. Sicché la strada più promettente appare come sempre la più lunga. Nel nostro caso, quella tracciata dal ministro Valditara, con più docenti per i ragazzi caivanesi e non solo: il famoso esercito di maestre elementari con cui Gesualdo Bufalino pensava di battere la mafia. Bisogna naturalmente creare poi dignitose condizioni perché questi docenti accettino la cattedra e restino in zona. “Gli abitanti di Caivano sono eroi”, ci spiegavano i carabinieri. E così veniamo al tasto dolente, fuori dai proclami draconiani e dai reportage “embedded”. L’esecutivo deve sbarazzarsi del fastidioso sospetto di minacciare tratti di corda non avendo da dispensare il becco d’un quattrino. Le amministrazioni locali sono ancora sotto choc per il taglio di tredici miliardi, di cui 2,5 per risanare le periferie più devastate e 3,3 per la rigenerazione urbana: migliaia di progetti previsti in origine dal Pnrr, Scampia e Corviale in prima fila. I progetti “da mille euro sulle ringhiere” sono incompatibili con gli obiettivi strategici di innovazione e infrastrutturazione del Piano, sostiene il governo, pur assicurando che gli interventi verranno spostati su altre voci di bilancio. Nei prossimi giorni il ministro Fitto, plenipotenziario di Meloni sul Pnrr, vedrà il forzista Alessandro Battilocchio, presidente della nuova Commissione parlamentare sull e periferie, per ragionare del salvabile. La rinascita della Commissione, cancellata nella scorsa legislatura dalla maggioranza Lega-Cinque Stelle, è già di per sé un’ottima notizia. Ci racconta cifre d’un mondo nel quale non dovrebbe essere richiesto l’eroismo della sopravvivenza e dove invece, solo per restare nel Napoletano, si contano il 40% di patrimonio edilizio in pessime condizioni, il 14% di famiglie ad alto disagio economico e il 25% di ragazzi “neet”, fuori dal lavoro e dalla formazione. Il vice di Battilocchio, il pd Roberto Morassut, propone di inserire in Costituzione, all’articolo 44, un comma nel quale la Repubblica riconosce le periferie con la loro “specificità” come potenziale limite alla “piena parità dei diritti sociali e di cittadinanza”, indicandone “la rigenerazione” quale priorità. In fondo, canonizzare i ghetti urbani come grande questione democratica potrebbe servire anche ai più smemorati: per non ricominciare tutto daccapo a ogni campagna elettorale. “Nessuno resti solo”. Certo, ma la politica da 40 anni non ascolta il grido di Caivano di Roberto Saviano Corriere della Sera, 9 settembre 2023 L’altra sera, proprio mentre guardavo in tv un approfondimento su Joe Petrosino, il super poliziotto italo americano che per primo aveva compreso i forti legami tra la criminalità organizzata a New York e la mafia siciliana - Petrosino fu ucciso a Palermo mentre seguiva una pista investigativa - ho pensato a come la ghettizzazione, l’emarginazione e la miseria nera, la povertà sia economica che educativa non possano che avere come sbocco il degrado e il crimine. E spesso è crimine organizzato, perché chi è emarginato e povero deve consorziarsi per poter agire. Da questa banalissima analisi sulla genesi delle organizzazioni criminali si evincono le prime, enormi responsabilità di quella che generalmente, con troppa indulgenza forse, definiamo la società civile di riferimento. Rimasi colpito dalle parole che l’attrice Vittoria Belvedere, calabrese di origini, emigrata al Nord con la famiglia, ha affidato a una recente intervista: “In Brianza da piccola ho capito cosa è il razzismo. Le mamme dicevano ai figli: “Non giocate con lei, è una terrona”“. In generale questo è l’atteggiamento verso chi arriva da fuori, da lontano. C’è tanta diffidenza e, se lo straniero è anche povero, allora davvero esiste una quasi totale impossibilità di solidarizzare con la condizione del nuovo arrivato. Si costruisce un muro fisico, burocratico, di totale mancanza di empatia tale per cui, fare blocco, unirsi come cemento diventa quasi una necessità. Non accade a tutti, ma accade. Così, per quanto questa analisi possa sembrare semplice, ritengo che spieghi bene anche perché ci sono interi quartieri a Napoli, aree urbane nella primissima periferia, sorte senza soluzione di continuità con i quartieri oggi valorizzati dal turismo, che non riescono però, nonostante l’innegabile continuità territoriale, a trovare un riscatto. Quartieri in cui gli abitanti sono totalmente abbandonati a sé stessi: gli abitanti per bene, che diventano vittime sacrificali, e gli abitanti per male, che per usare una metafora in voga in questi giorni, diventano lupi. E oggi la figura del lupo è stata ripresa proprio per descrivere un’attitudine predatoria di carattere sessuale, con riferimento allo stupro di Palermo prima e di Caivano dopo. Non è un caso che la fiaba di Cappuccetto Rosso abbia spesso suggerito interpretazioni che vanno in questa direzione: la mantellina rossa potrebbe simboleggiare l’arrivo del ciclo mestruale, quindi la maturità sessuale raggiunta. Il consiglio che la madre dà alla giovane donna ancora bambina è di non attraversare il bosco, dove il lupo potrebbe farle del male, abusando di lei, credendola matura. La fiaba ha un’origine remota, Perrault la scrisse alla fine del ‘600, e a quel tempo la madre non sarebbe stata accusata di vittimizzazione secondaria. Oggi per fortuna le cose sono cambiate e chi dice “non passare di là perché altrimenti ti violentano” di fatto sta puntando il dito sulla vittima e non sul carnefice. Ma cosa accade quando ghetto e bosco coincidono? Quando tutto è già palese perché sono avvenute in passato violenze analoghe che non hanno trovato alcuna risposta concreta da parte delle istituzioni? Oggi, la tragedia di Caivano viene raccontata e riceve attenzione perché viene dopo un altro crimine insopportabile, quello di Palermo. Ma è tardi, è tardissimo. In un ghetto che le organizzazioni criminali considerano storicamente a propria disposizione, i governi che si sono succeduti negli ultimi quattro decenni sarebbero dovuti intervenire ben prima. Perché non si è fatto? Perché povertà estrema e mancanza di prospettive rendono il voto acquistabile con poco. Da territori abbandonati sono in molti a guadagnare in termini di manodopera criminale e di sostegno politico. Chi perde, invece, è chi ci vive. A Caivano servono investimenti veri e costanti. Quelli che non sono stati fatti negli ultimi 4 decenni. Che prospettive hanno Caivano e tutte le aree degradate e povere del Sud ad alta densità criminale, se gli investimenti per la riqualificazione previsti nel Pnrr sono stati cancellati senza spiegazioni razionali? Serviva davvero questa ennesima tragedia annunciata per portare attenzione? E quanto durerà? La politica dei proclami è del tutto deresponsabilizzata e tra qualche giorno tutto tornerà come sempre. Tanto chi vive a Caivano, come diceva Eduardo, “è cos’ ‘e niente “, no? Per salvare i giovani coltiviamo l’umanità di Chiara Saraceno La Stampa, 9 settembre 2023 “Coltivare l’umanità significa valorizzare e nel limite del possibile sostenere l’umanità anche di chi è lontano e diverso”. L’umanità, come modalità di essere, sentire, vivere, stare in relazione con altri, non è un dato per scontato, che fluisce naturalmente dalla biologia. Va coltivata, fatta fiorire e accudita in se stessi e negli altri, perché rimanga vitale ed anche perché non rimanga un esercizio selettivo, che distingue tra chi ha diritto di godere e di vedersi riconosciuta la pienezza dell’umanità e chi invece è considerato sub-umano, nei fatti e talvolta anche nelle norme. L’esercizio, e il riconoscimento, selettivi dell’umanità dell’altro/altra attraversa la storia e le culture. Schiavitù, colonialismo, forme di sfruttamento estremo, razzismo, uso della tortura, condizioni carcerarie lesive della dignità, oppressione delle donne, sono solo gli esempi più diffusi e plateali di forme di riconoscimento dell’umanità parziali, quando non del tutto assenti. Anche le società democratiche fondate sui diritti, e sull’eguaglianza rispetto a questi, conoscono forme di riconoscimento selettivo, quando non negazione dell’umanità, di individui e di interi gruppi sociali, sia al proprio interno sia verso l’esterno. Le discriminazioni e riduzione degli spazi di libertà delle donne persistono anche qui, così come quelle nei confronti delle persone omosessuali e transessuali, o di etnia e colore della pelle diverse dalla propria. Si tollerano condizioni di povertà estrema, che non consentono il pieno sviluppo delle capacità e l’esercizio della libertà di essere e fare. Sinti e camminanti in tutti i paesi sono la popolazione insieme più discriminata e più disprezzata. Si rinchiudono persone in condizioni indegne - che si tratti di carceri, di centri di prima accoglienza o centri per il rimpatrio. Si abbandonano a se stesse periferie abitate da persone e gruppi sociali considerati marginali. I troppi Caivano sparsi per l’Italia sono l’esito di un esercizio selettivo di riconoscimento e coltivazione dell’umanità da parte in primis delle istituzioni pubbliche e della politica, ma anche della società civile che li ha ignorati, condannandoli non solo ad una invisibilità che li rende estranei, ma a forme di umanità ridotta fin da piccoli. Ci si abitua alle migliaia di disperati che muoiono ogni anno attraversando il deserto, Paesi ostili, il mare, le foreste, nel tentativo di trovare condizioni di vita migliori, più umane. Facciamo accordi, non solo come Italia, ma come Europa, per esternalizzare ad altri Paesi, proprio perché considerati di fatto meno democratici ed evoluti dal punto di vista dei diritti umani, il contenimento di questi movimenti, indifferenti alle condizioni di negazione di umanità costituiti da campi profughi che, nel migliore dei casi, sono “non luoghi” ove si può solo riprodurre da una generazione all’altra la condizione di profugo immobilizzato, sradicato e non appartenente, senza futuro e senza libertà. Nel peggiore dei casi sono veri e propri inferni dove malattie, mortalità, violenza sono la norma. Coltivare l’umanità significa coltivare la capacità di ridurre questi rischi di gerarchizzazione quando non di insensibilità, di riconoscere, valorizzare e nel limite del possibile sostenere l’umanità anche di chi è lontano e diverso. A questo fine l’educazione ha un ruolo centrale, nella misura in cui sostiene lo sviluppo delle capacità ed insieme forma/dovrebbe formare allo spirito critico, sollecitando anche l’interesse per le differenze, come fonte di conoscenza insieme di ciò che ci accomuna come umani, delle diverse sfaccettature in cui l’umanità si presenta, dei rischi, o casi veri e propri, di mancato riconoscimento o conculcamento dell’umanità. Ma lo sbocco, il fine del coltivare l’umanità tramite l’educazione è l’acquisizione di capacità cognitive ed emozionali che favoriscano la consapevolezza che occorre costruire le condizioni per consentire a tutti di essere riconosciuti nella propria umanità. Garantire condizioni di vita dignitosa a tutti coloro che abitano un determinato territorio, il rispetto e la dignità anche alle persone che si trovano private delle libertà, contrastare la povertà educativa per permettere a tutti i bambini e bambine di far fiorire le proprie capacità, contrastare forme di ghettizzazione e/o di gerarchizzazione tra meritevoli e non meritevoli di aiuto e riconoscimento, mettere a punto politiche migratorie meno emergenziali e più rispettose dei migranti, pur nella impossibilità di accogliere tutti - queste sono le concrete azioni necessarie perché la coltivazione dell’umanità non rimanga un privilegio. Tutto questo e altro ancora è compito in primis della politica. Ma è anche una nostra responsabilità come singoli e come associati nella società civile contribuire a sviluppare pratiche e contesti di vita in cui l’umanità dell’altro/a sia riconosciuta e fatta fiorire. Opponendo resistenza attiva a tutte le narrazioni e pratiche che viceversa la negano più o meno selettivamente. I giovani che non vedono la violenza: per uno su 5 le ragazze se la cercano di Martina Mazzeo La Stampa, 9 settembre 2023 La ricerca di ActionAid: per 4 adolescenti su 5 ci si può sottrarre a uno stupro. L’appello: “La proposta di Valditara non basta, introdurre codici anti-molestia”. Hanno tra i 14 e 19 anni e nel loro cuore si annida l’orrore che alla fine sì, “un po’ te la cerchi”, sì, “lo stupro è anche un po’ colpa della vittima”. È questa la fotografia tra l’inaspettato e lo sconcertante scattata da una ricerca di ActionAid e Ipsos su un campione rappresentativo di 800 giovani tra maschi e femmine, secondo cui per 1 adolescente su 5 le ragazze possono provocare la violenza sessuale con un abbigliamento o un comportamento provocante. Un dato che fa più impressione nei giorni degli stupri di Palermo e Caivano e nelle ore di decreti bandiera per il governo quali “baby gang” e codice rosso. Anche il principale sindacato studentesco ammette di fare i conti con questa cultura di vittimizzazione secondaria. E attende al varco il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara che promette l’educazione sessuale nelle scuole superiori. “Sarà concreta, laica, non binaria, come servirebbe?”, si chiede l’Uds. Urge, perché, sotto il cielo della parità di genere, dove il “parental control” evocato dalla ministra Roccella sembra non esercitarlo nessuno, c’è una certa confusione. Se i giovani censiti da Ipsos sono concordi su chi commette atti di violenza nel nostro paese - i ragazzi maschi, soprattutto se in gruppo, e gli uomini adulti - non hanno invece le idee chiare su quali comportamenti siano violenti e quali no: 1 su 5 non riconosce come violenza toccare parti intime altrui senza consenso mentre indica come atto violento l’aggressione fisica. Per il 78% anche fare foto e video in situazioni intime e diffonderle, soprattutto per le ragazze, è violenza. E non sempre poi i ragazzi e le ragazze che la subiscono la denunciano, chi per vergogna (62%), chi per paura (55%), chi perché lo ritiene inutile (48%). Vittime sono specialmente ragazze della fascia d’età 17-19, che rischiano più spesso di ricevere molestie verbali mentre camminano per strada o di essere vittime di commenti a sfondo sessuale. Scandagliando i motivi per cui si diventa oggetto di violenza, i ragazzi indicano al primo posto le caratteristiche fisiche (50%), poi l’orientamento sessuale (40%) e l’appartenenza di genere (36%). E se le persone transgender rischiano di venire insultate, quasi 1 rispondente su 3 sostiene che molte persone che si identificano in questo modo stanno solo seguendo una moda. “I dati - spiega Maria Sole Piccioli di ActionAid - confermano la necessità di occuparsi di violenza, non solo di bullismo e cyberbullismo”. Si chiama Youth for Love il programma europeo che l’organizzazione porta avanti nelle scuole italiane da oltre quattro anni, con circa 2800 studenti coinvolti dalla Lombardia alla Sicilia. Per Piccioli la violenza tra adolescenti e la cultura dello stupro affondano ancora oggi le radici nella società patriarcale. Per questo “la proposta del ministro Valditara non può bastare: vanno introdotti codici anti-molestia, bagni neutri, Carriere Alias, fondi stabili per il supporto psicologico in ogni istituto”. Sono le studentesse a dettare l’agenda. Come Gaia, che frequenta il Liceo Cine TV Rossellini a Roma, ed è portavoce dello sportello di ascolto “Contatto” fondato per affrontare insieme le difficoltà quotidiane. Al Rossellini un bidello denunciato da una studentessa per averle toccato i glutei è stato assolto perché il gesto è durato “una manciata di secondi, senza alcun indugio”, una manovra “maldestra”, scrisse il collegio. “La scuola dovrebbe attivare dei corsi anche per i professori e il personale Ata, altroché” pensa Gaia. Alessia, iscritta a un istituto di estetica professionale a Palermo, si arrabbia pensando a quello che è successo nella sua città e a quei commentini “continui” sussurrati o fischiati in mezzo alla strada che “possono fare sentire molto vulnerabili”. Poi c’è chi come Arianna, 16 anni di Agrigento, si chiede cosa potrebbero pensare di lei i suoi genitori se mai si trovasse a subire una violenza sessuale. “Noi giovani - ragiona Gaia - abbiamo bisogno di riferimenti adulti che non troviamo e di una educazione all’equilibrio psicologico, che molti di noi non hanno”. Il dl Caivano? “Ho paura che possa diventare indottrinamento”. Insomma, ai ragazzi, violenti e non, servono modelli educativi positivi più che il carcere. Ne è convinto anche don Dario Acquaroli, pedagogista e direttore della comunità don Milani di Bergamo che attualmente ospita 6 minori provenienti dal circuito penale minorile. Don Dario vede “adolescenti lasciati soli a crescere” e un inasprimento delle pene che “guarda agli effetti di un problema piuttosto che alle cause”. Se gli effetti sono gli stupri, la causa è proprio l’abbandono dei ragazzi. “C’è bisogno del coinvolgimento di tutte le agenzie educative, la famiglia, la scuola. In adolescenza capire che si è tutti preziosi e stupendi è un traguardo enorme: la bellezza è sempre un antidoto alla violenza”. “Lavoratori, donne e migranti: in quelle vite calpestate c’è la crisi della nostra società” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 9 settembre 2023 L’Italia dovrebbe essere leader in Europa di un nuovo approccio sulle migrazioni, invece guarda questa vicenda da buco della serratura. Mi viene in mente la frase di Frisch: “Volevamo braccia, sono arrivati uomini”. È stato uno degli animatori della Comunità di Sant’Egidio. È tra i fondatori di Demos, Democrazia Solidale, di cui è segretario nazionale, e Vice presidente del gruppo PD alla Camera dei deputati. La parola a Paolo Ciani. Che sulla guerra ha sempre avuto idee chiare e comportamenti politici e parlamentari coerenti: “Occorre dire “basta” di fronte alle armi per contrastare l’idea che la pace sia dei deboli, sia dei fessi sia degli stupidi, utili idioti al servizio di Putin - ha affermato andando controcorrente rispetto ad un pensiero unico bellicista-. È inaccettabile quel ridicolizzare l’interlocutore che oggi va tanto di moda senza capire un fatto fondamentale e cioè che la pace si fa con i nemici. Con chi altro? È questa è l’unica strada. Dobbiamo tener presente che i parlamentari che hanno portato alla nostra Costituzione e all’articolo 11 di ripudio della guerra erano in buona parte partigiani che avevano fatto la guerra, imbracciato le armi, probabilmente ucciso e visto morire arrivando, poi - forse proprio per questo - da padri costituenti, a dire “Mai più!”. Dobbiamo rimettere al centro del nostro impegno questa riflessione comune”. “Naufragi e operai: una Repubblica fondata sulle morti”. È il titolo di apertura di questo giornale a un impegnato articolo di Mons. Paglia... Un titolo che sintetizza con efficacia e giustezza eventi tragici e tutt’altro che episodici, come ben argomenta Mons. Paglia. Le vicende dolorose di questa estate ci hanno aperto, o riaperto, gli occhi di fronte a delle tematiche di fondo, che sono tali perché riguardano gli esseri umani. Il tema delle migrazioni, che tragicamente nel nostro paese si rivela attraverso i naufragi e i morti in mare, è un tema sul quale l’Italia non riesce ad aprire una pagina nuova. Lo dico in maniera bipartisan. L’altro giorno è scomparso Giuliano Montaldo, il grande regista di “Sacco e Vanzetti”. Il nostro paese dovrebbe essere campione del mondo di migrazioni, proprio per l’esperienza che milioni di nostri connazionali hanno vissuto negli anni. Esperienze segnate anche da tanta sofferenza, dolore, morte, ma anche esperienze di successo, di vite cambiate in meglio, di sostegno al paese di origine attraverso le rimesse. Tante cose che oggi potremmo rivedere nei cittadini di tutto il mondo che provano ad arrivare in Europa. Invece continuiamo a vedere questa vicenda dal buco della serratura, sperando che, non si sa bene come, possa risolversi. Al contrario, ritengo che dovrebbe essere il ruolo dell’Italia in Europa quello di farsi promotrice di un nuovo approccio del nostro continente rispetto alle migrazioni. Un approccio non emergenziale, un approccio intelligente e, aggiungerei, anche “utilitaristico”. Vale a dire? In una Europa che invecchia, con paesi spopolati; in un continente alla continua ricerca di manodopera, il tema di flussi che possono essere gestiti e non subiti, mi sembrerebbe la cosa più intelligente. Purtroppo, però, l’Italia non riesce ad uscire da una logica emergenziale e securitaria. Le vicende di questi giorni, anche l’idea di Cutro per cui da una tragedia il governo ha deciso di fare un provvedimento punitivo nei confronti dei migranti, la vicenda stessa delle Ong e del decreto che le ha fortemente penalizzate, le norme che hanno previsto lo smantellamento dell’accoglienza diffusa, va tutto nella direzione opposta. Non ci sono novità in vista, se non l’annunciata moltiplicazione dei numeri sui decreti flussi dei prossimi anni, il che va a dimostrare il fatto che anche il governo riconosce una necessità. C’è bisogno di un radicale cambio di visione, di politiche, ma anche, la dico così, di “rivoluzione” culturale. Quella che invoca è una “battaglia di civiltà” che unisca idealità e concretezza. Da cosa partire? Mi viene in mente un’affermazione di Max Frisch: “Volevamo braccia, sono arrivati uomini”. Con questa frase Frisch bollava - a metà anni Settanta - le politiche di reclutamento di manodopera straniera (italiana in larga misura) in Svizzera. Una riflessione che aderisce perfettamente al dibattito odierno e che dovrebbe spingerci a fare un ragionamento rispetto alle persone che arrivano e non rispetto alla ricerca di manodopera. Per il dibattito attuale sembra fantascienza. Ma il fatto che anche il governo riconosca la necessità di far entrare 450mila immigrati in tre anni è una novità significativa, anche se non va dimenticato che la più grande sanatoria di cittadini immigrati irregolari in Italia l’ha fatta la Bossi-Fini. Altro tema tornato di drammatica attualità è quello del lavoro, e dei morti sul lavoro: la strage di Brandizzo e non solo... I video che stanno uscendo in questi giorni sono sconvolgenti. Perché dimostrano, cosa che può sempre accadere, che il tema non è l’errore umano o qualcosa che non ha funzionato. Il tema è che questa è la consuetudine. Come la donna morta al telaio a cui era stato tolto il blocco perché potesse lavorare più velocemente. Emerge che questa è la normalità. Coscientemente si fa sì che la vita dei lavoratori non valga nulla o ben poco. Se coscientemente togli quello che potrebbe proteggere la loro vita, di quelle morti sei in qualche modo responsabile, se non sul piano giudiziario, certo su quello politico e mi permetto di aggiungere morale. Aggiungerei il tema della violenza che in questa estate è stata particolarmente efferata. Gli stupri, i femminicidi. Laddove si tocca la persona - morti in mare, morti sul lavoro, violenza contro donne e minori - ciò è la drammatica sanzione di una grande crisi della nostra società. Perché battersi per il salario minimo o per una diminuzione delle spese militari genera ancora tanto scandalo, anche tra chi si dice progressista? Un po’ perché si sono affrontati questi temi in maniera ideologica e dal mio punto di vista ciò ha sviato da una giusta lettura delle cose. È chiaro che se noi mettiamo come presupposto e al tempo stesso finalità assoluta del lavoro, la massimizzazione del profitto, il primato assoluto dell’impresa e dell’imprenditore, il lavoratore e il salario vengono comunque dopo, in totale subalternità. Viviamo in un paese in cui c’è ancora diffusissimo un tema di lavoro nero, di sfruttamento dei lavoratori. Un tema che non va disgiunto o addirittura contrapposto al salario minimo. Chi lo fa mente due volte. E poi un diffusissimo lavoro sottopagato che il Covid ha disvelato in dimensioni impensabili. A venire giù non sono stati i datori di lavoro che erano in regola con i contributi ai dipendenti, e che sono riusciti a tenere grazie ai ristori, ma quelli che non avevano i lavoratori in regola e, ahinoi, ancor di più i lavoratori che negli anni sono stati sfruttati attraverso il lavoro nero. Io ho conosciuto gente in fila a prendere i pacchi viveri, persone che pensavo potessero essere il mio vicino di casa, il mio compagno di scuola, ai quali chiedere perché stai qua. A diversi di loro l’ho chiesto. Mi hanno risposto: perché lavoro per un noleggio con conducente, con un contratto a 3 ore pur facendo l’orario pieno. Questa è una realtà largamente diffusa. Conosco tante giovani donne che lavorano a 4,5 euro nelle mense, nelle pulizie degli alberghi…Non è possibile questo. Battersi per un salario minimo è battersi per la giustizia, per la dignità. E lo stesso vale sulle armi. Io credo che una nostra serietà nei rapporti internazionali, di fedeltà a impegni, siano sacrosanti. Ma va subito aggiunto che se non ci fosse stata questa sciagurata guerra russo-ucraina, sono anni che l’Europa vive in pace, che stiamo riflettendo sulla de- escalation delle armi nucleari, sulla loro messa al bando, che dibattiamo su un esercito europeo e quindi di un risparmio rispetto agli eserciti nazionali. Cose più che normali in un’epoca in cui decidere come destinare il budget dello Stato, tanto più in un tempo di crisi sociale ed economica. In un tempo segnato da una crisi del genere, che nessuno può disconoscere, rimettere in discussione le spese militari mi sembra una cosa di assoluta normalità, di certo una delle sfide che la sinistra non solo non deve aver paura di affrontare ma che deve attrezzarsi per vincere. In questo senso, il fatto che la Segretaria del PD, Elly Schlein, si sia detta favorevole al rinvio di 5 anni dell’obiettivo del 2% del Pil per le spese militari, rappresenta un segnale importante che va nella giusta direzione. La guerra. Anche qui. C’è un mondo solidale che continua a sostenere la necessità di andare oltre la diplomazia delle armi. Perché in Italia chi afferma questo viene tacciato di essere filo-Putin. Pure Papa Francesco… Anzitutto non esiste la diplomazia delle armi. Le armi servono a fare la guerra e non diplomazia. Purtroppo c’è stato un appiattimento di pensiero, in un primo momento dovuto anche allo shock di vedere l’invasione di un paese libero, sovrano, nel cuore dell’Europa. Era comprensibile una prima reazione. Ma il fatto che, dopo più di un anno e mezzo, aprire una discussione seria, fattiva, sul tema di un cessate-il-fuoco, possa sembrare un cedimento all’invasore russo, è veramente incomprensibile. Dopodiché è altrettanto evidente, per chi conosce e vede i conflitti nel mondo, che la guerra non s’interrompe a soluzione trovata. La guerra s’interrompe e poi si cerca una soluzione. Dire che oggi non dobbiamo parlare con la Russia perché loro sono gli invasori, è sbagliato. Perché prima dobbiamo fermare la guerra e poi trovare la soluzione migliore, più giusta per tutti. La tragedia di guerre che si protraggono da decenni, ci dimostra che la guerra se non la fermi va avanti. E l’idea di poter firmare la guerra con una vittoria militare è irrealizzabile. Per sostenere prima di tutto gli ucraini aggrediti, che hanno subito tantissime perdite e distruzioni, dobbiamo cercare di arrivare quanto prima possibile ad un cessate-il-fuoco. In questo sicuramente il ruolo di Papa Bergoglio è fondamentale, come d’altro canto lo è stato quello dei papi del ‘900 e dell’inizio di questo secolo rispetto alla pace. Crepet sull’allarme suicidio fra i giovani: “Diciamo no al marketing della paura, ma dove sono gli adulti?” di Emanuela Minucci La Stampa, 9 settembre 2023 Lo psichiatra commenta i dati diffusi dall’associazione Telefono Amico: 3700 richieste di aiuto in sei mesi: “Genitori staccatevi dal cellulare, date il buon esempio”. Il pensiero del suicidio fra i giovani sta aumentando. Lo dicono i numeri diffusi dalla sede di Padova del “Telefono Amico”. Nei primi sei mesi del 2023 sono state 3.700 le richieste di aiuto da parte di ragazzi per gestire questo stato d’animo estremo. Un aumento del 37% rispetto all’anno scorso. Professor Crepet, che cosa pensa di questo aumento delle richieste di aiuto psicologico da parte dei ragazzi? “Anch’io, dal mio osservatorio di “mail amica” ricevo molte lettere da parte di giovani in difficoltà e mi guardo bene dal pensare che le loro siano storie inventate. Ciò premesso non credo che queste telefonate possano rappresentare un indice epidemiologico del fenomeno. Le crisi adolescenziali e giovanili rappresentano una galassia talmente complessa che non si può certo pretendere di misurarla o capirla attraverso una telefonata. Personalmente ho cominciato a occuparmene 30 anni fa, con il libro Le dimensioni del vuoto”. Il problema del grido di aiuto lanciato dalle nuove generazioni a un mondo che pecca di latitanza d’ascolto non nasce certo oggi”. Oggi, però, si dice che la tendenza alla chiusura in se stessi dei giovani sia in aumento a causa del famoso telefonino e del mondo parallelo e finto che riesce a creare è d’accordo? “Il problema non sono i social o il web in sé, ma l’esempio che si riceve. Io padre, madre, famiglia insomma, devo essere in grado di dare un buon esempio a mio figlio, offrirgli un’alternativa alla dimensione virtuale: una gita in montagna, una torta da fare insieme, la riscoperta delle parole e dell’ironia. Certo che se un adolescente vede che la madre sta con le amiche su WhatsApp, la zia va a caccia di “mi piace” su Instagram e il padre appena può gioca a padel, non si può ottenere nulla. Tua figlia si chiude in camera e tace? Portala al mare, come si faceva con i matti di 40 anni fa che non l’avevano mai visto. Sta zitta anche in spiaggia? Prima o poi qualcosa la convincerà che è stato più bello finire sulla battigia che non navigare su TikTok. Poi bisogna stare attenti alla comunicabilità della depressione”. Che cosa vuole dire? “Che il disagio psicologico non è trasmissibile ma è comunicabile: insomma non c’è una base biologica, ma c’è un’induzione culturale. Se accendo il telefonino e tutti parlano di eco-ansia e a casa pure parlano di quella cosa lì, io, adolescente fra i 16 e i 17 anni, assorbirò lo stato di difficoltà psicologica che regna in casa. Sta a noi famiglia spezzare le catene: con una discussione, dei biscotti alla cannella, una mostra, una sfilata. Insomma, un’esperienza vera. Ricapitolando: spezziamo le cattive abitudini e attenti al marketing dell’ansia”. Esiste un marketing dell’ansia? “Eccome. Se un ragazzino si mette sul cellulare e scopre una ragazza che denuncia la sua ansia per l’ecodestino del pianeta e magari c’è pure un ministro che si mette a piangere davanti a lei il messaggio diventerà virale e al ragazzo verrà da pensare: ecco che cos’è il disagio che provavo. Ho l’eco-ansia”. Altri consigli per i genitori? “Non fidatevi dei modelli cosiddetti positivi, la ragazza carina con i capelli biondi piastrati che usa il rossettino giusto e il vestito accattivante su Instagram. Non gioite se vostra figlia segue questo presunto modello di perfezione. Amate l’imperfezione, il figlio che va controcorrente, che ha il dono dell’ironia. E non preoccupatevi delle crisi adolescenziali. Le abbiamo avuti tutti e quante. Raccontate loro le vostre crisi, sappiate scherzarci sopra. E siate credibili. Non augurate loro buonanotte compulsando con la mano sinistra il vostro telefonino”.