Edilizia carceraria e disagio sociale. Quando si superano i livelli della tollerabilità di Mario Panizza L’Osservatore Romano, 8 settembre 2023 L’impianto architettonico dove il detenuto dovrà scontare la pena non deve essere visto come un luogo di reclusione, ma deve rappresentare l’occasione per riabilitare e offrire le maggiori possibilità per il futuro reinserimento sociale. La grave situazione delle carceri italiane arriva in cronaca tutte le volte che accadono fatti clamorosi, come, tre anni fa, le rivolte scoppiate in molti istituti penitenziari, nel periodo di maggiore intensità della pandemia da Covid-19. Attualmente siamo di fronte a un fenomeno ugualmente drammatico e, per certi aspetti, ancora più preoccupante: il diffondersi dei suicidi tra i detenuti e, in alcuni casi, anche tra gli agenti di custodia. Le cronache rendono un quadro veramente allarmante. Archiviati gli eventi più drammatici, l’interesse sulla situazione carceraria tenderà però progressivamente a spegnersi e i buoni proponimenti, volti a rinnovare il sistema con provvedimenti “umanizzanti” e a impegnare risorse per risanare lo stato generale della situazione edilizia, scivolerà, come accade ciclicamente, nel dimenticatoio. Eppure l’attuale condizione è ben oltre i livelli della tollerabilità; sembra impossibile infatti poter trascurare la gravità di un fenomeno che coinvolge l’intero sistema: strutture e personale. Nell’affrontare il problema delle carenze edilizie emergono limiti e difficoltà anche di comprensione, di individuazione delle priorità. Può capitare infatti di non cogliere la reale entità del problema. Per i progettisti, ad esempio, è facile che l’attenzione converga istintivamente verso la qualità architettonica, ponendo come prioritaria la ricchezza e il valore della soluzione formale e distributiva dell’edificio. Ciò è ovviamente importante e riguarda il tema centrale del modo in cui predisporre lo spazio fisico dove il detenuto dovrà scontare la pena: l’edificio non deve essere visto come un luogo di reclusione, ma deve rappresentare l’occasione per riabilitare e offrire le maggiori possibilità per il futuro reinserimento sociale ed è questo, senza alcun dubbio, il principio che deve ispirare l’impianto architettonico destinato alla detenzione. Solo attraverso il mantenimento del rapporto con il lavoro e con la propria famiglia è possibile che le persone, che hanno commesso un reato, non si “perdano” definitivamente. Sappiamo che, senza un’attenta e accorta attività rieducativa, il detenuto tornerà a delinquere. La recidività è molto alta: fino al go cento. Molti sono gli studi e gli esempi che sperimentano il rapporto tra la psicologia dell’individuo, estesa al comportamento nel gruppo, e l’ambiente regiden7iale del recluso: l’organizzazione spaziale attraverso unità circoscritte, raccolte intorno ad ambienti comuni dove poter lavorare e studiare; la dotazione dei servizi per la ginnastica; la scelta appropriata dell’arredo e dei colori; eccetera. chiaro che la qualità dell’architettura è in grado di favorire comportamenti virtuosi, di recupero. La situazione attuale si colloca tuttavia in una dimensione in cui si è ben lontani dal potersi dedicare esclusivamente ai temi della qualità e del rapporto rasserenato tra il detenuto e la società. Siamo di fronte, e con evidenza, a un problema soprattutto di quantità, di strutture carenti, se non addirittura assenti. In molte carceri mancano le dotazioni elementari per assicurare al singolo individuo le condizioni per una sopravvivenza dignitosa. Solo quando è garantita la disponibilità di uno spazio sufficiente e dei servizi primari si può pensare di avviare un processo reale di reinserimento. L’affollamento in tutte le carceri italiane, l’inadeguatezza dei servizi igienici, la scarsezza del personale che, soprattutto nel periodo estivo, quando, ulteriormente ridotto, limita l’uso di tutti gli spazi disponibili, stanno provocando la grave situazione di insostenibilità, di reale pericolo fisico, diffuso sia tra gli uomini che tra le donne. Non pochi valutano la condizione delle carceri italiane talmente compromessa e ingestibile da considerarla irrecuperabile, al punto da dover procedere a una sostituzione quasi integrale del patrimonio esistente. Personalmente ritengo che una soluzione così drastica sia da respingere per molti motivi, soprattutto di ordine pratico e di urgenza. È necessario disporre, quanto prima, di risorse concrete e realistiche, che assicurino, attraverso interventi aggiuntivi, una condizione di vivibilità individuale accettabile. A ciò si può giungere solo senza disperdere l’esistente e programmando un accorto e graduale processo di integrazione di quanto si dispone. Attraverso opportuni progetti di ristrutturazione, buona parte degli impianti più antichi, e apparentemente insanabili, può essere adeguata alle norme e alle dotazioni necessarie. Questo favorirebbe inoltre la conservazione di un patrimonio storico che, altrimenti, nel tempo andrebbe inevitabilmente in rovina. Dismesso, senza un riuso immediato, diventerebbe molto rapidamente fatiscente. L’ipotesi che viene dal ministero di Grazia e Giustizia di recuperare, anche utilizzando i fondi del Pnrr, le caserme non più in uso, al fine di fornire, in tempi rapidi, ambienti da aggiungere alla dotazione attuale potrebbe apparire, almeno sul piano teorico, positiva. Questa proposta deve però dimostrare concretezza e realizzabilità, corrispondendo ad almeno due condizioni pratiche ineludibili: la disponibilità di personale, adeguato per numero e preparazione a sanare le attuali carenze e a soddisfare le esigenze collegate ai futuri interventi; il censimento delle caserme realmente disponibili, escludendo quelle, non poche, già riutilizzate o in procinto di esserlo, come la Guido Reni a Roma, e quelle, ugualmente numerose, che sono state trasferite dallo Stato agli Enti locali. Il problema della carenza dell’edilizia carceraria è talmente grave che, attualmente, non può rischiare di essere contaminato da proiezioni azzardate che prefigurino cambiamenti radicali dello status del detenuto o ipotizzino disponibilità teoriche non verificate sul territorio. Per le carceri, ancora più che per le altre strutture di servizio urbano, è necessario che il progetto di architettura corrisponda alle esigenze primarie della società e sappia calibrare le soluzioni in base ai tempi e alle urgenze. L’obiettivo resta il recupero sociale del detenuto, ma a ciò va anteposto il rispetto per la condizione dell’individuo durante la reclusione. Solo così è possibile procedere verso una concreta reintegrazione, offrendo condizioni di benessere fisico e mentale al detenuto. Ricordiamoci che Dostoevskij, e ancora prima Voltaire, hanno sostenuto che il valore e l’emancipazione di una società si misurano proprio sullo stato del suo sistema carcerario. Violata la Costituzione nell’assurdo no del Fisco all’abbuono “prima casa” sull’Imu dell’ex detenuto di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 8 settembre 2023 Il processo è una pena, il carcere è una pena, parrebbe ora, per il fisco italiano, esserlo anche per il possesso di un immobile. Il caso, che dalla rassegna stampa consta di un unico e simile precedente nel 2013, riguarda la vicenda di un soggetto recluso e condannato a una lunga pena detentiva che - uscito dall’Istituto per terminata espiazione - si è trovato destinatario di molteplici avvisi di accertamento e intimazioni di pagamento per non aver corrisposto l’Imu su quella che - ad avviso del Fisco - era nel frattempo diventata la “seconda” casa, ritenendo l’Ufficio che l’Istituto di pena presso cui e per il tempo nel quale il soggetto era stato recluso potesse considerarsi a tutti gli effetti come “nuova” prima abitazione. Più nel dettaglio, in ossequio a quanto disposto dall’art. 13, comma II, del D. L. n. 201/ 2011, “L’imposta municipale propria non si applica al possesso dell’abitazione principale e delle pertinenze della stessa Per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”. Secondo, dunque, l’interpretazione formalistica (e, occorrerebbe dire, forse un po’ cieca) del fisco, il soggetto detenuto, coattivamente residente e dimorante abitualmente presso l’istituto di pena, merita la tassazione sull’immobile posseduto - la cd. prima casa - in quanto abitazione non (più) principale, sostituita questa dal carcere! Non fa una piega… Numerose sono state le impugnazioni dei plurimi avvisi di accertamento ricevuti, tutte rigettate dalla giustizia tributaria. Una vicenda, dunque, al limite del paradosso, che impone riflessioni - prima che di carattere giuridico - di umanità, solidarietà e buon senso. Su queste ultime, ciascuno ha la sua personale coscienza. Con riferimento, invece, a considerazioni di carattere giuridico valga osservare - tra tutte - l’erronea interpretazione data dal Fisco al dettato normativo sopra richiamato. Il (pre) requisito cardine ai fini dell’esenzione dal versamento dell’Imu è che il contribuente sia possessore dell’immobile principale in cui abita. Solo questo aspetto basterebbe per comprendere come un soggetto detenuto non possa dirsi in alcun caso possessore o titolare di altro diritto reale sull’Istituto di pena o sulla cella in cui “vive”. Questo semplice dato di fatto, a parere di chi scrive, è più che sufficiente per ritenere che - seppur astrattamene il soggetto recluso risieda e dimori abitualmente altrove (in carcere) il mutamento dello status libertatis (da libero a detenuto) non comporti certamente il mutamento dell’animus possidendi: il soggetto continua a essere proprietario e possessore di un solo e unico immobile, sebbene non vi risieda e dimori più abitualmente. I precedenti, come si diceva, sono scarsissimi, eppure - a livello sistematico - qualche ulteriore considerazione è possibile svolgerla. Anzitutto, valga osservare come la norma sia stata oggetto a più riprese di interventi “correttivi” da parte della Corte Costituzionale per situazioni che - pur diverse da quella qui in esame - erano accomunate dalla medesima disparità e irragionevolezza. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 209 depositata il 13 ottobre 2022, si è espressa - ad esempio - sulla vexata quaestio relativa al riconoscimento dell’esenzione dall’Imu ai coniugi che risiedono anagraficamente o dimorano abitualmente in immobili diversi. La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quarto periodo, D. L. n. 201 del 6 dicembre 2011, poiché, il citato articolo, disponendo che per poter accedere all’esenzione dall’Imu occorre il duplice requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale e non considerando sufficiente la sola residenza anagrafica, si pone espressamente in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 3, 31 e 53 Cost. Non solo, merita poi menzionare un’ipotesi di esenzione dal pagamento dell’Imu assai simile a quella che caratterizza i soggetti detenuti, ossia quella dei pensionati stabilmente ricoverati in strutture sanitarie e di riposo che mantengono la residenza nella prima casa. L’articolo sopra citato, infatti, prevede che “I comuni possono considerare direttamente adibita ad abitazione principale l’unità immobiliare posseduta a titolo di proprietà o di usufrutto da anziani o disabili che acquisiscono la residenza in istituti di ricovero o sanitari a seguito di ricovero permanente, a condizione che la stessa non risulti locata”. In definitiva, per il principio di ragionevolezza (trattare parimenti situazioni simili e diversamente situazioni dissimili) di cui all’art. 3 Cost. sembrerebbe proprio che il Legislatore, con un intervento ad hoc, ovvero la Consulta, nei limiti e nel rispetto della sua cognizione, dovrebbero porre fine a questa triste disuguaglianza sociale. Anche in questo caso, l’italo fisco non manca di dispiegare tutte le sue carenze alle quali solo il Legislatore può porre definitivamente un punto fermo. Il populismo penale, un’altra arma di distrazione di massa di Claudio Cerasa Il Foglio, 8 settembre 2023 L’istituzione di nuovi reati e l’aumento delle pene sono le uniche forme di intervento in materia di giustizia contemplate dalla politica italiana. Misure che gettano fumo negli occhi dell’opinione pubblica ma non risolvono nulla. Rave illegali, aumentate le pene fino a sei anni. Traffico di migranti, aumentate le pene fino a trent’anni. Violenza di genere, aumentate le pene fino a cinque anni. Violenza contro il personale sanitario, aumentate le pene di un terzo. Violenza contro il personale scolastico, aumentate le pene fino a sette anni. Omicidio nautico, aumentate le pene fino a dieci anni. Reato universale di gestazione per altri, aumentate le pene fino a due anni. Occupazione abusiva di immobili, aumentate le pene fino a due anni. Incendi boschivi, aumentate le pene per i piromani fino a sei anni di carcere. Istigazione all’anoressia, proposta reclusione fino a quattro anni. Istigazione alla violenza sui social, proposte pene fino a cinque anni. Muri imbrattati, proposta reclusione fino a un anno. Acquisto di merce contraffatta, proposte pene fino a un anno. Truffa ai danni di soggetti minori o anziani, proposte pene fino a sei anni. Dispersione scolastica, proposto aumento di pena fino a due anni per i genitori che non mandano i figli a scuola. Baby gang, pene più severe per i minorenni, fino a cinque anni per spaccio. Abbiamo fatto del nostro meglio e li abbiamo messi insieme tutti. Tutti cosa? Lo avete visto: tutti gli aumenti di pena approvati dal governo Meloni e tutti gli aumenti di pena proposti dalla maggioranza di centrodestra negli ultimi dieci mesi. Abbiamo fatto un calcolo per difetto e alla fine la somma degli anni di pena in più che il governo ha scelto e proposto di aumentare si avvicina alla famosa quota cento così amata da Salvini. Sono novantadue, ma certamente ci siamo persi qualcosa (e ce ne scusiamo). Il succo del ragionamento è evidente. Per la politica, aumentare le pene è come giocare al Superenalotto: lo sforzo è poco, il costo è ridotto, ma l’impressione di essere impegnati a fare qualcosa che improvvisamente potrebbe cambiare tutto è forte. E sul momento, tanto basta per sentirsi appagati. Aumentare le pene, per il governo, provoca le stesse vibrazioni: basta aggiungere un comma, una legge, due righe, una sanzione in più e il gioco è fatto. Ieri, il Consiglio dei ministri, come sapete, ha approvato un pacchetto di norme pomposamente presentato come una grande “stretta” sulla sicurezza. E lo schema è ormai collaudato. L’attenzione dell’opinione pubblica viene catturata da un fatto di cronaca che suscita emozioni, sdegno, indignazione. La politica, istantaneamente, sente il bisogno di fare qualcosa per mostrare di essere sul pezzo. E per provare a essere fortissimamente sul pezzo, decide di utilizzare l’aumento delle pene come un gesto concreto, per così dire, per ottenere alcuni risultati precisi. Primo: indicare ai propri elettori la bellezza dei propri muscoli. Secondo: mostrare sensibilità nei confronti della vittima di un reato. Terzo: mostrare vicinanza nei confronti di chi si è indignato per quel fatto grave. Quarto: trasformare la spietatissima stretta in una maschera utile a nascondere la propria incapacità a lavorare sulla prevenzione di un reato. Quinto: creare un terreno di potenziale scontro con i propri avversari, mossi dal desiderio di trasformare ogni critica alla stretta in una manifesta insensibilità verso il tema su cui si interviene. Non ti piace il nostro illuminato aumento delle pene? E allora è ovvio: sei amico dei comunisti che organizzano rave illegali, sei indifferente al traffico dei migranti, sei ipocrita sulle violenze di genere, sei insensibile alle violenze contro il personale sanitario, sei strafottente verso le minacce al personale scolastico, sei un complice di chi acquista figli da uteri in affitto, sei solidale con chi occupa abusivamente immobili, sei amico di chi imbratta i musei, sei complice degli orrori delle baby gang. L’aumento sistematico delle pene è possibile che permetta di raggiungere molti di questi obiettivi. Tutti probabilmente ma tranne uno: quello di litigare con i propri avversari su questo tema. Sarebbe bello dire che l’approccio securitario è una caratteristica esclusiva della destra populista. Sfortunatamente, però, l’uso della legislazione d’emergenza - con adozione di nuove norme penali, inasprimento di norme preesistenti, allargamento dei poteri di indagine giudiziaria - è una scorciatoia comoda per tutti. E la scelta di passare la palla ai magistrati, sempre, anche a costo di dilatare a dismisura il potere di intervento, andando a intasare ancora di più i tribunali, è una scelta drammaticamente bipartisan, come dimostra la reazione del Pd ai fatti di Brandizzo (il Partito democratico ha chiesto, nell’ordine, di introdurre un nuovo reato, “l’omicidio sul lavoro”, e di costruire una nuova commissione di inchiesta parlamentare. Una logica ferrea d’altronde: da anni si aumentano le pene per prevenire reati ad alto impatto emotivo e poi però si sostiene contemporaneamente che l’unico modo per intervenire su quei reati sia quello di aumentare ancora di più le pene, ammettendo involontariamente che l’aumento precedente delle pene non ha portato ad alcun risultato. “Aumentare le pene - ha scritto sconfortato giorni fa sul nostro giornale il professor Giovanni Fiandaca - è un modo semplice per ottenere titoli dei giornali e per evitare di spendere tempo e risorse per una seria prevenzione che costa sacrificio e porta risultati non immediati. La scorciatoia è sempre la stessa: coprire con il populismo penale la propria incapacità di affrontare alla radice i mali sociali via via emergenti delegando di fatto al potere giudiziario il compito di trattarli secondo i paradigmi delle colpe e dei castighi individuali”. State attenti però a essere d’accordo con il professor Fiandaca. Potrebbe essere la spia della vostra frequentazione dei rave, della vostra vicinanza ai trafficanti di migranti e alla vostra amicizia con le baby gang. Decreto Caivano. Daspo e arresti in flagranza: le misure anti baby criminali di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 8 settembre 2023 Il governo ha varato il decreto contro la criminalità giovanile, dopo gli episodi di violenza registrati a Caivano e a Palermo: ecco che cosa contiene. “Questo è il segno di uno Stato che decide di metterci la faccia”. A una settimana esatta dalla trasferta a Caivano, dopo lo stupro delle due cuginette di 10 e 12 anni, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, rivendica il decreto varato ieri nel Consiglio dei ministri che ha dato il via all’istituzione della Zes unica(zona economica speciale) per il Sud, allo stanziamento di 45 milioni di euro per Lampedusa e alla proroga della circolazione per i veicoli diesel Euro 5 in Piemonte. Soprattutto, però, la premier parla del decreto Caivano con la stretta sulla “criminalità minorile che si sta allargando a macchia d’olio”, con misure severissime anche per i genitori. E, prima di partire per il G20, affronta in conferenza stampa i temi di questi giorni: dalla manovra ai rapporti di maggioranza, da Gentiloni al patto di stabilità. “Basta ragazzi armati” - La premier prende di petto l’argomento contestato delle pene più alte per i minori: “Se l’uso dei minorenni si è allargato nelle pratiche criminale è anche perché la criminalità organizzata sapeva che non ci sarebbero state particolari conseguenze. Si è fatta scudo dei giovani. Per tutelarli li abbiamo esposti”, evidenzia. Ma, aggiunge, “finora se un ragazzo girava con la pistola carica non si poteva arrestare. Per questo abbiamo previsto l’arresto in flagranza per reati prima non previsti per ragazzi tra 14 e 18 anni”. Questo, assicura la premier, “non è repressione è prevenzione”. Nel decreto c’è il Daspo urbano per i quattordicenni ma non c’è l’abbassamento della imputabilità da 14 a 12 anni. “Non se n’è mai parlato” assicura la premier. C’è invece l’estensione ai dodicenni dell’ammonimento del questore. Ma, assicura la premier: “Nessuno sbatte in galera i bambini. I 12enni vengono convocati assieme ai genitori che possono essere chiamati in causa”. “Potestà genitoriale” - “Se introduci un minore nelle dinamiche criminali credo sia giusto che ti venga tolta la potestà genitoriale”, afferma Meloni. Soddisfatta che la stessa punizione sia estesa anche a chi favorisce la dispersione scolastica. “Noi offriamo alternative alla strada e allo spaccio, potenziamo la scuola e il doposcuola. Ma funziona se i bambini a scuola ci vanno. Finora per chi non li mandava la pena era di 30 euro e basta. Ora ti fai due anni di carcere e rischi la revoca della patria potestà”, avverte, sottolineando che “il fenomeno riguarda sempre più bambine di famiglie islamiche”. Dopo l’incontro a Palazzo Chigi con la madre di Giovanbattista Cutolo, il giovane musicista ucciso a Napoli, la premier parla di quell’omicidio come di una “ferita aperta del Paese”. E annuncia: “Ho proposto per lui la medaglia al valor civile”. Nuove misure - “Le misure sono insufficienti. Ma siamo pronti a inserirne altre”, assicura. Ad esempio la certificazione dell’età di chi accede ai siti porno, espunta dal testo. “È una materia molto complessa sulla quale si interrogano i governi di mezzo mondo e non considero giusto intervenire per decreto. Spero che il Parlamento possa agire: quando il ministro Roccella ha detto che l’età di primo accesso ai siti pornografici è scesa ormai a 6 anni ho visto sbiancare le facce di alcune madri ed anche la mia”. Spaccio di lieve entità - Il provvedimento, ha sottolineato il sottosegretario di Stato, Alfredo Mantovano “vale per l’immediato per Caivano e varrà per altre aree e individua un modulo di intervento che prende in considerazione non solo la piaga della criminalità minorile e lo sfruttamento criminale dei minori, ma anche l’offerta di qualcosa di positivo e di alternativo alla strada dello spaccio e del crimine”. Si riparte dal mega centro sportivo divenuto teatro degli stupri e dal commissario straordinario Fabio Ciciliano. Il ministro dell’Interno Piantedosi ha enumerato tutti i casi, incluso lo spaccio di lieve entità, “che vedevano l’impunità dei minori per i quali ora invece c’è l’arresto facoltativo”. “Abbiamo cercato di coniugare la necessità di repressione della delinquenza minorile con un percorso non solo punitivo, ma educativo”, ha aggiunto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. E il titolare dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, ha illustrato lo sforzo che, all’interno dell’Agenda sud, verrà compiuto per supportare scuole e insegnanti. Maggioranza solida - La premier afferma che “non la preoccupa la dialettica interna alla maggioranza” né “il confronto pre-elettorale in vista delle Europee”. Ma nella manovra occorre “puntare su grandi provvedimenti: sanità, lavoro e famiglia”. Quanto agli interrogativi sul prossimo patto di stabilità mette in guardia da modifiche: “Siamo aperti e disponibili ma sarebbe drammatico un ritorno alle vecchie regole”. Sul Superbonus: “È un’eredità oggettivamente pesante: di fronte a una stima iniziale di 36,5 miliardi, oggi siamo a 93 e supereremo i 100”. L’opposizione - Critica la segretaria dem Elly Schlein: “La prima impressione è che si insista solo sulla repressione, ma serve un investimento sulla prevenzione”. Arriva la stretta contro le baby gang di Eleonora Camilli La Stampa, 8 settembre 2023 Il governo vara le prime misure: pene più severe e arresti per i minori criminali, via gli smartphone ai violenti, Daspo urbano per i 14enni e ammonimento ai 12enni. Sarà più facile finire in carcere anche per i minorenni. Nel decreto approvato si prevede infatti un abbassamento da 9 a 6 anni della pena a partire dalla quale anche a un minorenne si può applicare la custodia cautelare in carcere. Quest’ultima è allargata ai minori anche nel caso di possibilità di fuga, una fattispecie finora prevista solo per gli adulti. Inoltre il decreto contiene un aumento della sanzione per lo spaccio e detenzione di sostanze stupefacenti, anche nel caso di “lieve entità”, e l’arresto in flagranza del minore trovato a vendere sostanze. Lo stesso vale per i minorenni che girano armati. In questo caso viene anche aumentata la pena per la detenzione di strumenti atti ad offendere e abuso di armi bianche. “Finora non era possibile arrestare un quindicenne armato con pistola carica”, spiega la presidente Giorgia Meloni, ora sarà possibile per i ragazzi dai 14 anni in su. La misura è nata anche sulla scia del recente omicidio a Napoli di Giovanbattista Cutolo, da parte di un minorenne, che lo ha freddato a colpi di pistola e che era già stato accusato in passato di tentato omicidio. Carcere se i figli non vanno in classe - I genitori che non mandano i figli a scuola o li ritirano prima della fine dell’obbligo scolastico rischiano fino a due anni di carcere e la possibilità di perdere la potestà genitoriale. È questa la norma prevista dal decreto per contrastare la dispersione scolastica e che è nata proprio a Caivano. La premier spiega infatti di aver scoperto lì che nei casi di abbandono dell’istruzione da parte dei minorenni fosse prevista solo un’ammenda di 30 euro e di aver voluto inasprire la pena. Ora non vigilare sull’istruzione dei figli verrà “elevato al rango di delitto, con una pena detentiva fino a due anni”, spiega il Guardasigilli Carlo Nordio. E aggiunge: “Siamo intervenuti nei confronti dei genitori e di chi esercita la potestà, perché la fonte della delinquenza risiede molto spesso nella scarsità di senso civico delle famiglie”. Anche per la presidente del Consiglio la norma ha lo scopo di richiamare la responsabilità dei genitori e il ruolo. E sottolinea di essere a conoscenza del fatto che il tema non riguarda solo gli italiani ma anche “moltissime famiglie rom e islamiche”. Ammonimento dai 12 anni in su - Nel decreto non è previsto un abbassamento dell’età a partire dalla quale un minore può essere considerato imputabile. Un tema su cui si è ampiamente dibattuto alla vigilia del Consiglio dei ministri. Entra, invece, la possibilità di un ammonimento da parte del questore per i ragazzi a partire dai 12 anni, che commettano delitti la cui pena non è inferiore ai 5 anni, come nel caso di rapina, aggressione, furto o danneggiamento aggravati. L’ammonimento è accompagnato dalla convocazione in caserma dei genitori, che possono essere sanzionati con un’ammenda per la mancata vigilanza sul minorenne. “Non c’è il tema: sbattano in galera i bambini di 12 anni” ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, spiegando che le norme sono frutto di un’interlocuzione con “chi si occupa abitualmente di questi temi, come i giudici minorili”. In realtà la richiesta di abbassare oltre i 14 anni la responsabilità penale era arrivata da alcuni esponenti della Lega, come Giulia Bongiorno. Ma per la premier “non è un tema all’interno della maggioranza”. Per il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, prevedere l’imputabilità dei ragazzi sotto i 14 anni “sarebbe stato contrario alla razionalità e all’etica”. Daspo urbano esteso ai 14enni - Il daspo urbano, una misura prevista fin dal 2017, verrà esteso anche ai ragazzi dai 14 anni in su. È previsto nel caso in cui i minorenni si rendano responsabili di “comportamenti che aggravano il disordine urbano” in comuni che non sono luoghi di residenza o di dimora abituale. In questo caso potrà essere previsto l’allontanamento e l’impossibilità di far ritorno nella città, dove sono avvenuti i fatti, per un periodo di tempo. Il decreto interviene anche su un altro tipo di daspo, già esistente, quello per l’uso di stupefacenti e lo estende agli over 14. Anche in questo caso c’è l’allontanamento e il divieto di frequentazione di alcuni luoghi come le sedi universitarie, le scuole, i locali pubblici, nel caso di spaccio e detenzione di sostanze. Inoltre, vengono inasprite le misure del cosiddetto “daspo Willy”, introdotto dal governo dopo l’uccisione di un ragazzo, Willy Monteiro Duarte a Colleferro da parte di un gruppo di coetanei: “Vengono rafforzate le norme per il contrasto a disordini e violenze che possono accadere negli esercizi pubblici e nei locali di intrattenimento”, spiega il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, sottolineando che ci sarà la possibilità di applicare il provvedimento anche alle sole persone denunciate e non ancora condannate. Via gli smartphone ai violenti - Per il minore, dai 14 anni in su, che ha ricevuto un ammonimento da parte del questore è prevista anche la possibilità di limitare l’uso dei cellulari e delle piattaforme social. Scompare invece dal provvedimento l’annunciata ipotesi dell’oscuramento dei siti pornografici agli under 18. Una misura difficilmente applicabile: avrebbe dovuto comportare il riconoscimento facciale degli utenti che accedono ai siti hot e, dunque, avrebbe comportato una violazione della privacy. Nel dl verrà invece sollecitato l’uso da parte delle famiglie del parental control sui dispositivi in uso ai ragazzini. “Il porno produce danni alla salute, può creare dipendenza, gli esperti ci dicono che l’età di accesso a questi siti è di 6-7 anni. Vogliamo sollecitare e sostenere le responsabilità educative in primo luogo attraverso la famiglia. Le app di parental control già esistono ma non vengono utilizzate”, spiega la ministra delle Pari opportunità Eugenia Roccella. Il governo interverrà mettendo a disposizione risorse e promuovendo campagne di sensibilizzazione. Aiuti speciali a Caivano e al Sud - Il primo articolo del decreto prevede una misura specifica per il risanamento del territorio di Caivano, per realizzare una vera e propria “bonifica”, dicono dal governo. Ci sarà, infatti, l’istituzione di una struttura commissariale, affidata al dirigente medico della Polizia Francesco Ciciliano. Inoltre, viene previsto uno stanziamento di 30 milioni di euro per sistemare alcuni luoghi, a cominciare dal Centro sportivo Delphinia “che era un fiore all’occhiello del territorio prima di diventare una discarica”, afferma il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, e che la premier ha annunciato di voler riqualificare entro la primavera prossima. Proprio lì si sarebbero consumate negli anni le violenze sulle due cuginette. Sono previsti poi interventi specifici sull’edilizia e sulla scuola. Il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, ha assicurato che a Caivano arriveranno 20 docenti in più per le scuole medie e uno stanziamento significativo permetterà anche di aumentare il personale tecnico. In generale, il decreto prevede anche un rafforzamento del personale docente di 2.000 scuole del sud e 6 milioni di euro per incentivare gli insegnanti che operano nelle cosiddette “zone di frontiera”. Dl Caivano, Meloni: “Un 15enne armato deve poter essere arrestato” di Lorenzo Milli Il Dubbio, 8 settembre 2023 Salvini chiede e ottiene pene più aspre. Inasprimento delle pene per i minori, ammonimento anche dai dodici anni e misure punitive, fino alla reclusione, per i genitori che non mandano i propri figli a scuola. Sono le principali novità del decreto Caivano, illustrato ieri in conferenza stampa da mezzo governo alla presenza della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Che ieri ha incontrato a palazzo Chigi la mamma di Giovanbattista Cutolo, il 24enne musicista ucciso all’alba del 31 agosto durante una lite per un parcheggio fuori da un pub a Napoli. “Nella maggioranza non è mai stata discussa l’imputabilità del dodicenne, è un tema che non ci siamo proprio posti francamente - ha sottolineato la presidente del Consiglio - Prevediamo l’arresto in flagranza, anche per alcuni reati per i quali non era previsto fino a oggi, dai 14 ai 18 anni: perché oggi se un ragazzo di 15 anni gira armato con una pistola carica non si può arrestarlo. E io francamente penso che questo non sia più affrontabile nell’attuale situazione”. Norme certamente repressive ma secondo il governo anche “di prevenzione”, perché “se l’uso dei minorenni si è allargato a dismisura in questi anni nelle pratiche criminali è anche perché nell’utilizzo di questi minorenni da parte della criminalità organizzata non ci sarebbero state particolari conseguenze”, ha puntualizzato Meloni. La quale poi si è detta “terrorizzata” dai dati illustrati dalla ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, secondo i quali il primo accesso dei bambini ai siti porno avviene attorno ai 6 anni. Previsto inoltre l’obbligo di app per il controllo delle attività dei minori sul web da parte dei genitori e una campagna informativa per l’utilizzo delle stesse. Tornando alle misure derivanti dai fatti di Caivano, i provvedimenti sono arrivati dopo un botta e risposta tra il vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini, e l’altro vice di Meloni, Antonio Tajani. Il primo aveva chiesto pene maggiori per i minori, “che se sparano e uccidono devono andare in galera come i 50enni”, provocando la risposta del secondo. “Non possiamo che considerare un 14enne che gira armato un criminale - ha spiegato Tajani - Detto questo, ci sono le carceri minorili che devono lavorare per la rieducazione e non dobbiamo mai rinunciare alla possibilità di far sì che questi giovani si allontanino dal mondo del crimine e deve essere sempre considerato un soggetto che può redimersi”. Una dialettica definita “normale” da Meloni “tra alleati di governo di partiti diversi” Su Caivano Meloni ha annunciato lo stanziamento di 30 milioni di euro. “Non pensate che il governo ritenga che siano sufficienti - ha detto -. “Verranno stanziate tutte le risorse che saranno necessarie per vincere questa sfida”. Tra le quali “l’impegno di riaprire il Centro sportivo di Delphinia Caivano entro la primavera del 2024”. Meloni vuole il carcere per “salvare” i minori. Ma l’emergenza non c’è di Giulia Merlo Il Domani, 8 settembre 2023 Il Consiglio dei ministri ha approvato il cosiddetto decreto Caivano. La premier: “Non sono norme repressive ma di prevenzione”. Il governo Meloni ha scelto di trasformare la cronaca in emergenza politica, cavalcando l’onda emotiva con la risposta immediata che ormai è diventata il tic dell’esecutivo: il carcere e le misure cautelari, che sarà più facile disporre anche per i minori. “Non le considero norme repressive ma di prevenzione, perché se l’uso dei minorenni si è allargato nelle pratiche criminali è perché le conseguenze sono lievi. Per paradosso, per tutelare i minori li abbiamo esposti ancora di più”, è stato il ragionamento di Giorgia Meloni. In pratica, secondo la premier il carcere servirebbe a salvare i ragazzi (così come il daspo urbano e la possibilità di arrestare i genitori che non mandano i figli a scuola). “Coniughiamo la necessità della repressione della delinquenza minorile con la necessità di consentire ai minori un percorso rieducativo”, ha tentato di ridimensionare il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Tuttavia, la linea è quella di Meloni. La parte più sostanziale del decreto a doppia matrice Giustizia e Interni approvato ieri dal Consiglio dei ministri prevede soprattutto l’allargamento dei presupposti per la misura cautelare ai minori prevedendo anche per loro l’ipotesi di pericolo di fuga, “allineandola a quella degli adulti”. A diciotto anni, inoltre, nei casi di maggior pericolosità del giovane, scatta il “possibile trasferimento nelle carceri ordinarie”. Oltre al daspo urbano allargato ai minori, inoltre, vengono previsti la possibilità di arresto e pena detentiva in caso di reati connessi agli stupefacenti, violenze e minacce anche in caso di lieve entità. Misure durissime. Anche in quelle periferie a cui il governo intende dare risposte di natura penale, l’esperienza di chi ogni giorno si confronta con la devianza minorile offre da tempo risposte diverse. I numeri - Secondo i dati del ministero della Giustizia, il numero di minori presi in carico dai servizi social in seguito a denunce è rimasto tendenzialmente stabile negli ultimi anni, con una leggera flessione al ribasso nel periodo del Covid. Nel 2018 gli under 18 presi in carico erano 21.305, sono diminuiti fino ai 19mila nel 2020 per poi tornare a crescere nel 2021 (20.797) fino ai 21.551 nel 2022. Lo stesso si è verificato per gli ingressi negli istituti penali per i minorenni, che nel 2022 sono tornati leggermente sopra le 1000 unità come erano nel 2018, dopo una diminuzione a 700 nel 2020. Infatti, “l’età imputabile è già fissata a 14 anni e i lavori socialmente utili, con le messe alla prova, le sperimentazioni di giustizia riparativa e di mediazione penale sono già presenti nel diritto penale minorile”, commenta il presidente del tribunale dei minori di Trento, Giuseppe Spadaro. Se il quadro penale complessivo non è drasticamente cambiato tanto da imporre strette securitarie, il vero dato di contrazione riguarda invece il contesto. Nonostante la giustizia minorile sia al centro di grandi cambiamenti con la riforma Cartabia, a fine 2022 la scopertura media di magistrati minorili era del 12 per cento, ma con picchi del 33 per cento al tribunale dei minori di Napoli e del 27 in quello di Palermo. Carenze ancora più gravi, invece, si attestano tra gli assistenti sociali. La Cgil Funzione Pubblica ha elaborato dei dati per cui, a mancare, sarebbe addirittura del 50 per cento, con poco più di 15mila assistenti sociali rispetto ai 30mila necessari tra psicologi, educatori e altre figure destinate al sostegno delle famiglie in difficoltà. “Le risorse finalizzate alle assunzioni ci sono, ma sono stati spesi solo il 40 per cento degli stanziamenti messi a disposizione degli ambiti territoriali sociali”, denuncia il sindacato. Per altro, con una spesa estremamente disomogenea da nord a sud. I dati del ministero del Lavoro risalgono al 2018, ma mostrano come la media pro capite spesa al nord-est sia di 177 euro, i 58 euro del meridione. “Ma il vero problema è quello di non depotenziare la tutela”, continua Spadaro, perché “negli anni si è alimentata una immagine di servizi sociali e giustizia minorile nemici delle famiglie, e non invece presidi a protezione dell’infanzia maltrattata”. La devianza criminale nei minori, infatti, ha come causa profonda il fatto che i bambini crescano “soli in situazioni di deprivazione, di abbandono o di violenza, senza aiuti e senza la possibilità di altre relazioni sane con adulti interessati a loro. Disinvestire sulla tutela dei bambini produce inevitabilmente una fascia più ampia di adolescenti sofferenti, sia che agiscano contro se stessi o contro gli altri”. Gli strumenti - Anche per questo immaginare come soluzione l’inasprimento delle pene rischia di avere l’effetto contrario e di aumentare l’emergenza sociale. “Ci sono studi di ogni genere che dimostrano come le pene detentive e la diminuzione dell’età imputabile rischi di produrre l’effetto opposto, aumentando il tasso di criminalità”, spiega Silvia Albano, magistrato romano e membro dell’Anm che per anni si è occupata di minori. “La devianza minorile, infatti, è un sintomo di disagio del minore e della famiglia, che andrebbe intercettato e prevenuto potenziando i servizi sul territorio”, che sono, per i magistrati minorili, “le sentinelle per attivare misure di protezione dei minori che vivono in contesti violenti. Bisogna agire quando si è ancora in tempo per recuperare il ragazzo, togliendolo dal tessuto criminale”. Come con gli adulti, del resto, anche per i minori il dato sulla recidiva dimostra come la repressione penale produca solo una spirale di violenza. Sempre secondo i dati del ministero della Giustizia, il tasso medio di recidiva dei minori che hanno sperimentato percorsi alternativi di messa alla prova è del 19 per cento, contro il 29 di chi ha seguito un iter processuale tradizionale. Il problema è che anche questo avviene “a macchia di leopardo”, spiega Spadaro. “L’emotività è sempre cattiva consigliera del legislatore penale, lo è ancora di più quando si interviene nel diritto penale minorile”, è il commento di Stefano Musolino, segretario di Md e procuratore aggiunto a Reggio Calabria, secondo cui ancora una volta la scorciatoia del governo è quello di attribuire “compiti salvifici” al diritto penale, “guardato con sospetto quando coinvolti sono i colletti bianchi, mentre buono per anestetizzare le paure, generate dalla criminalità di strada”. La cura sbagliata della repressione di Chiara Saraceno La Stampa, 8 settembre 2023 Sembra ormai un riflesso condizionato del governo: a ogni problema di ordine sociale si risponde con un decreto che inasprisce le pene. Poco importa che non vi è nessuna evidenza empirica dell’efficacia di pene maggiorate e che quelle che esistono già spesso non vengono applicate, vuoi per trascuratezza, vuoi per mancanza di personale e strutture adeguate. Inasprire le pene solletica i comprensibili desideri di vendetta delle vittime e concentra l’attenzione sui violenti e il loro intorno sociale, distogliendola dalle responsabilità di chi ha lasciato che si producessero contesti in cui mancano le condizioni minime perché si possa crescere e vivere in sicurezza e fiducia e dove l’umanità è quotidianamente offesa. Responsabilità in primis delle istituzioni in cui si articola lo Stato: polizia certo, ma anche enti locali, scuola (incluso il ministero che la governa e distribuisce i finanziamenti), sanità, politiche edilizie, di assistenza sociale e così via. “Non abbiamo bisogno di più polizia, ma di normalità” ha dichiarato un preside delle scuole di Caivano, specificando che intendeva anche riscaldamento e messa in sicurezza della scuola, la mensa, strisce pedonali davanti a essa, vigili urbani: cose che non appartengono alla normalità di chi vive e va a scuola in quel luogo. “Dateci gli insegnanti più bravi”, e la possibilità di avere un tempo-scuola lungo e ricco di attività, ha chiesto un’altra preside, la professoressa Carfora, che intanto va a riprendersi i ragazzi che abbandonano la scuola, senza chiedere che vengano puniti duramente i genitori. Perché sa che con i genitori occorre parlare, convincerli, con i fatti e non solo con le parole, che vale la pena di investire nei loro figli, che il loro destino non è inesorabilmente segnato, che si può avere fiducia. Metterli in carcere non farà che peggiorare la situazione dei loro figli. Non mandare i figli a scuola è certamente un indizio di scarsa attenzione, cura e responsabilità da parte dei genitori, le cui ragioni vanno indagate e possibilmente risolte, anche tramite forme di accompagnamento. La revoca della potestà genitoriale, auspicata da Meloni insieme al carcere, è una misura molto grave, da maneggiare con cautela. Stupisce che un governo che include persone e partiti che in altri tempi e contesti denunciavano l’affido familiare come negazione del diritto naturale dei genitori ad avere i propri figli con sé, a prescindere, oggi agiti con leggerezza questa minaccia. “Dateci più maestri di strada e più comunità educative”, chiedono coloro che ogni giorno lavorano nei contesti difficili. “Dateci lavoro”, chiedevano le mamme di Caivano che la presidente del Consiglio non ha voluto incontrare, neppure quella che aveva denunciato lo stupro della sua bambina. Come non aveva voluto incontrare i sopravvissuti di Cutro, quasi non fossero loro le vittime, coloro la cui esperienza e ragioni andavano ascoltate. Un rifiuto di incontro che ha rafforzato l’immagine di Caivano e dei suoi abitanti come tutti indegni e bisognosi di essere “bonificati”, invece di incominciare a correggerla proprio da lì, dalla restituzione almeno sul piano simbolico della loro dignità e status di cittadini, con una propria voce ed esperienza significativa, anche se parziale, dura, scomoda. Un rifiuto che risalta ancora di più a fronte dell’incontro con la mamma del giovane musicista ucciso per una stupida lite da un giovanissimo coetaneo a Napoli. Forse perché questa mamma appare più “rispettabile” e chiede, nel suo strazio, pene esemplari? Certo che ci vuole anche più controllo del territorio e che chi è violento va contenuto e messo di fronte alle sue responsabilità, anche se minorenne. Ma, come hanno osservato diversi giuristi e operatori sul campo, a partire dalla Garante per l’infanzia, quando si tratta di minorenni occorre muoversi con intelligenza e cautela, avendo in mente che il fine ultimo sia, insieme all’attenzione alla vittima, il recupero del minorenne colpevole. Rendere più facile la carcerazione dei minorenni non serve. Serve piuttosto approntare, non solo sulla carta, strumenti di sostegno e affiancamento alla famiglia e alla scuola, che ne rafforzino, o compensino, l’azione educativa. Soprattutto, situazioni complesse come quelle dei contesti sociali degradati non possono essere risolte con blitz della polizia e l’intervento dell’esercito (con buona pace del presidente De Luca). La notizia che il ministro Valditara ha deciso di mandare più insegnanti a Caivano, così come la decisione di aprire un nuovo bando per gli asili nido, sono positive, anche se, invece di ricorrere a un bando, sarebbe più opportuno individuare con precisione le aree dove il bisogno è più urgente. Ma non si dovrebbe aspettare che una situazione esploda, o semplicemente diventi visibile sui media, per intervenire nelle aree a forte presenza di criminalità, disagio minorile e povertà educativa. Occorre prevenirne la formazione e intervenire tempestivamente ai primi segnali, con una dotazione di servizi educativi, sociali, culturali, di tempo libero, che coinvolga le comunità nel loro insieme, non solo come destinatarie passive, tanto meno come soggetti da bonificare, ma come soggetti attivi, di cui valorizzare le capacità e sostenere quella che Appaduray ha chiamato la “capacità di aspirare”. Bonino: “Le leggi fatte dal governo sull’onda dell’emotività sono inutili” di Luca Roberto Il Foglio, 8 settembre 2023 “Quest’esecutivo sta dimostrando di saper usare solo due leve: il proibizionismo e l’inasprimento delle pene. Sono entrambe strategie che non servono. Nordio e Forza Italia? Mi hanno deluso”. Colloquio con la ex ministra e storica esponente dei Radicali. “Quando ero ministra io ricordo che una volta, in Consiglio dei ministri, ci fu un dibattito su un incidente che aveva colpito un bambino sulle scale di una scuola. C’era chi voleva un decreto ad hoc. Al che io intervenni per dire: ma per fare cosa? Per abolire le scale? La scuola? I bambini? Ecco, questo governo sta facendo molto di peggio”. A Emma Bonino questa strategia portata avanti dal governo di legiferare in seguito a specifici eventi di cronaca, sull’onda dell’emotività, proprio non piace: “Non solo queste nuove norme sui reati minorili. Hanno accumulato un lungo elenco di interventi di questo tipo: dalla stretta sui rave all’introduzione del reato universale contro i trafficanti, il contrasto alla gestazione per altri fuori dai confini nazionali. Ti svegli una mattina e scopri che introducono l’ergastolo per gli incidenti stradali, che hanno inasprito le pene per l’omicidio nautico, per il reato di istigazione ai disturbi alimentari. Ecco, ai problemi complessi offrono solo due soluzioni: l’inasprimento delle pene e il proibizionismo. Ma il problema è che hanno dimostrato di non funzionare affatto”. Eppure lo abbiamo visto sin dal primissimo Consiglio dei ministri di questo esecutivo, lo scorso ottobre: a poche ore dallo sgombero di un raduno non autorizzato, il governo intervenne con un testo che gli esperti criticarono lungamente per l’inconsistenza giuridica delle norme, scritte per dare l’impronta di una “mano forte”. Perché questa insistenza? “I casi sono due”, ragiona l’ex ministro degli Esteri, storica esponente dei Radicali, in Parlamento fino alla scorsa legislatura. “O sono davvero convinti che sia una soluzione, e sarebbero in buona fede. O molto più realisticamente vogliono far vedere di muoversi, di fare qualcosa, di prendere decisioni. Sperando che questo muova consenso”. La grande controindicazione è l’incapacità di fermarsi a riflettere sugli effetti a lungo termine, realizzando pur sempre che cercare di normare un’emergenza contingente non avrà per forza successo nel lungo periodo. “E da questo punto di vista, utilizzando sempre i decreti d’urgenza in barba alla Costituzione e ai richiami del presidente della Repubblica, dimostrano di avere scarsa conoscenza della complessità. Anche perché la loro è una reazione emotiva elettiva. Non mi pare, per fare un esempio, che si siano posti il problema di cosa sta succedendo in paesi come il Niger, dove stanno morendo decine di persone”. Per quanto questa cultura panpenalista non sorprenda se rivendicata da Lega e Fratelli d’Italia, di certo fa specie che nella maggioranza un partito dichiaratamente garantista come Forza Italia non riesca a imporsi su questioni così dirimenti. Non trova? “Credo che la struttura di Forza Italia e la sua classe dirigente siano state sconvolte dalla morte di Berlusconi. E soprattutto su certi interventi dimostrano di essere in difficoltà, di aver un po’ perso la bussola”, è l’analisi della ex senatrice di +Europa. Discorso che si potrebbe estendere anche al ministro della Giustizia Carlo Nordio, di cultura garantista e che però sempre ha apposto la propria firma su questi pacchetti di norme punitive in questi mesi. “Nordio mi ha molto deluso e mi dispiace, perché molte delle cose che scriveva nei suoi editoriali sul tema del rispetto delle garanzie e dei diritti e delle pene mi trovavano d’accordo. Si sarà reso conto anche lui che scrivere articoli per un giornale è un conto. Portare le tue idee all’interno del Palazzo incontra molte più resistenze”. Proprio sulla giustizia, questo governo riuscirà a fare quelle riforme che il paese aspetta da anni? “Si dovranno fare perché ce le chiede l’Unione europea per accedere alle risorse del Pnrr. Ma anche lì, credo che alla fine sarà tutt’altro che rose e fiori nella maggioranza”. Giuseppe Spadaro: “Ma io giudice dico che i ragazzi hanno bisogno di essere aiutati” di Simona Musco Il Dubbio, 8 settembre 2023 “La repressione crea solo ulteriore emarginazione. Trattare i ragazzini come criminali adulti è un errore: li trasformerà in reietti”. A parlare è Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale dei minori di Trento, da sempre in prima fila per la tutela dei minori. Un lavoro, il suo, che svolge senza timore di apparire controcorrente, con un unico faro: il superiore interesse dei bambini. Presidente, il ministro Salvini ha detto: se un ragazzino uccide deve pagare come un 50enne. È d’accordo? No. Il nostro ordinamento prevede un particolare riguardo nel processo penale per i minorenni tenendo conto che la loro personalità è in formazione. Il nostro Paese ha recepito nel 1991 la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e il settore penale minorile è fedele al dettato costituzionale, che prevede la funzione rieducativa della pena, più di quanto non lo sia per il penale riferito agli adulti. Andrebbe potenziato il dipartimento giustizia di minorile con personale altamente specializzato nelle carceri e, in particolare, nelle comunità. L’esecuzione della pena è essenziale, ma in ottica rieducativa o, ancor meglio, di recupero sentimentale emotivo sociale. Nella sua esperienza di presidente del Tribunale dei minori, che idea si è fatto della criminalità minorile? Ho conosciuto diverse realtà, passando dalla Calabria all’Emilia Romagna e ora nel Trentino: ogni territorio ha una sua particolare storia. Ma ciò che ho potuto notare è una fascia ampia di crimini minorili che nasce da contesti di grave, gravissima deprivazione socioeconomica e familiare, nei quali l’aggancio con la scuola si è perso da tempo. Parliamo di ragazzi che si sentono respinti dalla società “perbene” e che sfidano, attraggono l’attenzione, cercano affermazione per vie non lecite o vogliono prendersi beni o posizioni sociali cui non avrebbero accesso in altro modo. Ci sono poi i ragazzi che commettono reati provenendo da situazioni di violenza subita, anche familiare, per cui il loro atteggiamento ripropone modelli che gli adulti hanno trasmesso. A volte sono forme di adesione a quei modelli per entrare in un cerchio più “elitario”, ma in senso deviante. Ci sono infine ragazzi “insospettabili”, per i quali l’accesso all’illegalità è più connesso al vuoto di riferimenti adulti significativi, al vuoto di impegni, al pieno di relazioni poco consistenti, o solo virtuali, alla mancanza di empatia verso gli altri, al pieno di immagini adrenaliniche che li spingono a sentirsi invincibili e impunibili… E questa terza parte forse è quella comparsa più di recente, mentre le altre due erano ben visibili, credo, anche decenni fa e ora sembrano sorpassate dall’ultima. Il punto è che, invece, convivono tutte e tre. Come si risolve la piaga dei giovanissimi che commettono reati? Facendo cose che hanno una incidenza reale sulla loro vita, pensate per tutte le forme di devianza minorile e utili anche per gli adulti: contrasto alle disuguaglianze, all’abbandono scolastico, alla solitudine delle famiglie, alle dipendenze. Tutte, inclusa - ma non solo - quella dal web. Ma anche investendo sulle capacità, i talenti, la creatività, il valore dell’amicizia che per questi ragazzi è ancora fortissimo, ma non deve diventare settario, non deve diventare clan. È necessaria anche l’educazione alla cittadinanza e la creazione di opportunità di aggregazione sane, dove ora mancano. E poi bisogna intervenire per contrastare i fenomeni di bullismo. Niente risolve i problemi da solo. Serve tanto lavoro di rete tra giustizia, scuola, famiglie, terzo settore e servizi sociali. Ma anche educazione alla legalità, perché i ragazzi sappiano che a 14 anni sono già imputabili, quindi educazione alla responsabilità. A rischiare, ma per il bene comune. C’è chi ha proposto di abbassare l’età imputabile. Sarebbe una soluzione? No. L’età imputabile è già fissata a 14 anni. Ci sono Paesi dove è fissata a 12 anni e non hanno condizioni migliori delle nostre. Bisogna andare alla radice. E le proposte di spingere sui lavori socialmente utili, per esempio, è già presente nel penale minorile, con le messe alla prova, dove già da decenni si sperimenta anche la giustizia riparativa, mediazione penale eccetera. Solo che lo si fa a macchia di leopardo e d’ora in avanti potrebbe svolgersi in modo più organico. Non serve anche maggiore tutela? Assolutamente. Va potenziata e non distrutta, come si è fatto alimentando un’immagine di servizi sociali e giustizia minorile nemici delle famiglie, e non, invece, presidi a protezione dell’infanzia maltrattata: è stato deleterio. Ci sono famiglie in difficoltà che non chiedono aiuto per paura - o servizi paralizzati che non intervengono per paura - e questo lascia i bambini soli in situazioni di deprivazione, di abbandono o di violenza, senza aiuti e senza la possibilità di altre relazioni sane con adulti interessati a loro. Disinvestire sulla tutela dei bambini produce inevitabilmente una fascia più ampia di adolescenti sofferenti, sia che agiscano contro se stessi o contro gli altri. Misure ulteriormente punitive rischiano di marginalizzare i ragazzi più disagiati, dunque? Certamente sì. Mentre si risparmia sulla scuola, la sanità e il sociale, mentre l’ultimo rapporto Istat conferma che la povertà si eredita, accrescere la repressione è come partire dai sintomi, essendo tra coloro che quei sintomi hanno creato. Gli strumenti attuali bastano? E il nuovo decreto è efficace? Non parlo di decreti da approvare perché non ritengo possa farlo un semplice giudice se non nelle sedi istituzionali di consultazione della magistratura. Se per “strumenti attuali” si intendono le norme, forse potrebbero bastare, soprattutto se si ripensasse l’esigenza di una giustizia minorile specializzata e dotata di quello che le occorre per funzionare, in tutta Italia, con organici adeguati e iper- specializzati. Se per “strumenti attuali” si intendono le risorse disponibili allora no, non bastano. È poco il personale, è insufficiente la formazione, è arrugginito il lavoro di rete… Tanto, tantissimo dovrebbe essere cambiato. Non però a partire dalle norme, ma a partire dalle prassi, dalle risorse, dall’organizzazione del lavoro dentro e tra tutti gli attori della rete, includendo tutti i soggetti che le ho già elencato, come magistratura, scuola e tutti gli altri. Gherardo Colombo: “Il carcere non serve a nulla. Bisogna stare sui territori ed educare” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 8 settembre 2023 L’ex magistrato non condivide la linea dura: “Non è che il timore del carcere comporti necessariamente l’astensione da commettere reati” Che gliene pare dottor Gherardo Colombo, lei che è stato magistrato, dei provvedimenti sui minorenni ? “Secondo lei, è attraverso la minaccia di una punizione che si riesce a fronteggiare la trasgressione oppure attraverso l’educazione?”. Scolastica o familiare? “Scolastica familiare, televisiva e attraverso i social. Vivi dove la violenza degli adulti è frequente, guardi la tv e vedi uccidere dalla mattina alla sera, i notiziari parlano di ammazzamenti in continuazione, ci sono un sacco di serie, film e trasmissioni in cui viene sostanzialmente esaltata la violenza, sia del trasgressore sia delle forze dell’ordine. A furia di far vedere che si ammazza, la gente impara ad ammazzare. Sui social fa furore il degrado della dignità delle persone”. Sembra esserci una recrudescenza delle violenze tra i più giovani... “Sono i guai causati nella psiche dei ragazzi dalla pandemia e dalla interruzione della loro vita sociale, che è durata tanto ed ha provocato situazioni di disagio molto marcate che riguardano non soltanto l’aggressività nei confronti degli altri, ma anche nei confronti di se stessi, come i suicidi, gli atti di autolesionismo”. Cosa crede sia necessario? “Se guardiamo dal campo educativo, credo servirebbe presenza costante di controllori nel territorio. Un conto è fare i blitz come a Caivano, un conto è che esista una presenza visibile e di una certa costanza che non appaia come il segno di una repressione, ma appunto di un controllo”. Ci sarà più carcere per i minori... “Che a mio parere non serve a niente. Non è che il timore del carcere comporti necessariamente l’astensione da commettere reati. Forse anche tra chi governa c’è chi ritiene che il carcere serva a poco. Da una parte non è detto che minacciando una pena poi si sia in grado di infliggerla e di eseguirla; dall’altra, quando ci si riesce, 70 volte su cento l’ex detenuto torna a delinquere. Addirittura, soprattutto in certe zone e per la criminalità non sporadica, senza nemmeno arrivare a quella organizzata, il carcere costituisce un titolo di merito nella carriera delinquenziale. Bisognerebbe insistere sull’altra strada, quella culturale”. Carcere per i genitori che non mandano i figli a scuola... “Altro provvedimento punitivo. Non è attraverso l’imposizione ai genitori che si risolve il problema, ma andando a vedere quali sono le condizioni della famiglia e perché i figli non vengono mandati a scuola che ha tanti problemi ed ha bisogno di risorse e di contenuti. Quanto alle prime, leggo che il dl prevedrebbe somme a favore della scuola, questa mi sembra una buona notizia. Per i secondi, andrei a rivedere gli esperimenti di recupero della frequenza scolastica”. C’è poi il mondo di internet... “Se è impossibile intervenire sui social, allora bisogna educare i ragazzi a capire ciò che trovano in rete e ad evitare quel che danneggia la loro formazione. Più che obbedire senza capire, hanno bisogno di spiegazione, di ascolto. Mi pare il contrario di quello che si sta facendo”. “Inasprire le sanzioni per i minori non serve”. Parla la Garante nazionale dell’infanzia di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 settembre 2023 “La lotta alla criminalità minorile va combattuta innanzitutto con la prevenzione”, dice Carla Garlatti (Agia). “Il minore non può essere trattato come un adulto. L’ho sentito dire ed è una frase che mi fa accapponare la pelle”. “Un inasprimento sanzionatorio del sistema penale non è la direzione corretta per affrontare la criminalità minorile. Punire e basta non serve. La sanzione nei confronti del minorenne deve essere sempre accompagnata da un’attività educativa, che deve avere la prevalenza”. Lo afferma, intervistata dal Foglio, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti, commentando l’adozione da parte del governo del cosiddetto decreto Caivano. Il provvedimento contiene una serie di misure che inaspriscono le sanzioni contro la criminalità giovanile e anche l’abbassamento da nove a sei anni della pena minima perché un minorenne possa essere sottoposto a misura cautelare in carcere. “Il minore non può essere trattato come un adulto. L’ho sentito dire ed è una frase che mi fa accapponare la pelle”, aggiunge Garlatti. L’Autorità garante per l’infanzia si riferisce, indirettamente, alle tante dichiarazioni giunte nelle ultime ore con le quali è stata invocata una parificazione tra la punizione dei minorenni e quella dei maggiorenni. “Un quattordicenne che gira con un coltello o con una pistola, è capace di intendere e volere e se sbaglia, se uccide, se rapina, se spaccia deve pagare come paga un uomo di cinquant’anni”, ha affermato ad esempio il leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini. “Il minore che commette un reato non è un maggiorenne, il suo percorso formativo non si è ancora esaurito - spiega Garlatti, dal 2017 al 2020 presidente del Tribunale per i minorenni di Trieste - Nel nostro ordinamento si ritiene che il ragazzo a 14 anni abbia la capacità di intendere e di volere per commettere un atto, ma non è ancora maturo per capire quali sono le conseguenze di quell’atto, qual è la valenza effettiva dell’atto che ha compiuto. Quello che ho notato, basandomi anche sulla mia esperienza lavorativa, è che manca proprio la percezione della gravità dei fatti commessi. Allora il minore deve essere sanzionato adeguatamente, ma deve essere soprattutto aiutato a crescere, educato, accompagnato”. A opinione della Garante nazionale per l’infanzia, la lotta alla criminalità minorile va combattuta innanzitutto con la prevenzione. “Il ragazzo che sbaglia va certamente punito, ma questo non basta - afferma - Bisognerebbe individuare le aree di marginalità, quelle cosiddette a rischio, e fare degli investimenti mirati che riguardino le comunità educanti, a cominciare dalla scuola e dalla famiglia”. “La dispersione scolastica - prosegue Garlatti - è un fenomeno che deve essere combattuto perché è l’anticamera dell’esposizione del minore a una situazione di rischio di devianza. Il ragazzino che ciondola tutto il giorno diventa una preda facile della criminalità. Bisogna invece creare una rete fra scuola, famiglia e comunità che diventi per il ragazzino più attrattiva del fascino che può avere la strada della devianza. E’ inoltre importantissimo intensificare i procedimenti di giustizia riparativa, nei quali anche la vittima viene presa in considerazione”. Per combattere la dispersione scolastica, il governo ha scelto invece di introdurre un nuovo tipo di reato che punisce, con la reclusione fino a due anni, il genitore che impedisce al figlio minore di andare a scuola. “Credo che la proposta non abbia alcun tipo di utilità e che anzi possa essere addirittura dannosa”, dichiara Garlatti. “Molte volte - spiega - i ragazzini che non vanno a scuola provengono già da contesti di marginalità in cui la circostanza che il genitore venga attinto dalla misura carceraria può portare il minorenne a trovarsi in una situazione di marginalità ancora maggiore. Il fatto poi che un genitore vada in carcere significa che il minore si verrebbe a trovare nel bisogno ancora maggiore di andare a lavorare, sicuramente in nero”. Per fortuna, è stato almeno evitato l’abbassamento dell’età della punibilità penale. “Abbassare la soglia non serve perché nel nostro ordinamento già oggi il minorenne che ha meno di 14 anni e commette un reato entra comunque in contatto con un giudice, il quale può prevedere l’adozione di tutta una serie di misure nei confronti del ragazzo e se necessario anche del nucleo famigliare”, dice la Garante nazionale dell’infanzia, che teme i segnali emersi nell’ultimo periodo: “Ciò che mi preoccupa è che ci sia una deriva punitiva che non tenga in considerazione che il minore non può essere trattato come un adulto. Se vogliamo un recupero di questi ragazzi, non possiamo non ritenere prevalente la fase della rieducazione”. I genitori dei figli che non vanno a scuola non vanno arrestati ma aiutati di Alberto Pellai* Famiglia Cristiana, 8 settembre 2023 Servono interventi di supporto sociale, economico, culturale ed educativo più che sanzioni di natura penale”. Ha fatto molto scalpore la notizia che il Governo, in un prossimo decreto legge volta ad arginare la criminalità minorile, ha introdotto anche la pena di incarcerazione fino a 2 anni per quei genitori i cui figli disertano l’obbligo scolastico. Raccontata così, questa notizia lascia disorientati. Spesso l’abbandono scolastico avviene proprio in quelle zone e in quei quartieri in cui l’illegalità è all’ordine del giorno. Minori che non vanno a scuola vengono a volte intercettati dal circuito della microcriminalità e dello spaccio. Si dovrebbe immaginare che l’intervento di legge dovrebbe essere applicato a questi eventi da cui, con un drammatico e problematico effetto domino, derivano poi un’infinità di altri problemi. La legge ha il dovere di sancire ciò che è giusto e ciò che non lo è. Ha il dovere di punire colui che la infrange con lo scopo di promuoverne consapevolezza, capacità riparativa e riabilitativa. Ma nel territorio urbano in cui il degrado socio-economico del mondo adulto si trasforma in abbandono ed emergenza educativa forse l’intervento dello stato dovrebbe essere di altra natura. Genitori che non si occupano dell’assolvimento dell’obbligo scolastico dei figli, sono spesso genitori che con quegli stessi figli hanno perso il contatto e la capacità di supervisionarne e accompagnarne la crescita. Ci sono fragilità adulte che oggi generano infinite fragilità nel territorio della crescita e che forse necessitano di interventi di supporto sociale, economico, culturale ed educativo più che sanzioni di natura penale. Ci sono nuclei famigliari la cui consistenza educativa è povera perché tutto è povero nel loro contesto di vita. In queste situazioni più che la minaccia di incarcerazione del genitore inadempiente, si dovrebbe lavorare per promuovere tutti quei fattori di protezione in grado di trasformare un genitore fragile in genitore competente. La letteratura scientifica - e alcune esperienze sono state sviluppate anche nella nostra nazione - riferisce di splendidi programmi di assistenza domiciliare a famiglie fragili che vengono proposti nel momento stesso in cui nasce un figlio. Così quel neonato e i suoi adulti di riferimento possono giovarsi dell’aiuto di specialisti di prevenzione che fanno “home-visiting” e che permettono di promuovere un sano legame di attaccamento tra l’adulto e il bambino, pre-requisito per garantirne una crescita sana sul piano psico-emotivo. Ci sono progetti di educazione di strada che intercettano minori a rischio e invece di lasciarli dispersi nei loro quartieri, favorendone l’ingresso nelle spire della micro-criminalità, permettono a quegli stessi minori di entrare in circuiti educativi virtuosi in cui essere sostenuti nei propri bisogni di crescita ed evolutivi. Un minore che abbandona la scuola è una sconfitta per tutti, prima di tutto per gli stessi genitori che lo hanno messo al mondo. Non c’è un solo genitore che interrogato al riguardo, si dichiarerebbe felice di sapere che il proprio figlio è uscito dal circuito scolastico e ha abbandonato la scuola dell’obbligo. Per cui, non penso che il tema centrale della questione sia mettere quel genitore in carcere. Perché sarebbe come incarcerare un analfabeta che non avendo saputo leggere le istruzioni di un dispositivo infiammabile, ha generato un incendio per totale inconsapevolezza di ciò che stava accadendo. Purtroppo oggi ci sono minori che nascono e crescono in famiglie e quartieri in cui il mondo adulto soffre di un analfabetismo educativo che lascia bambini e bambine in balia di un destino che li trasforma in “randagi” dell’esistenza, senza una bussola che ne orienta i passi e la direzione. In questo randagismo, l’abbandono scolastico è uno degli indicatori che ci parla non di famiglie penalmente colpevoli, ma di emergenze educative di cui ogni membro della comunità educante deve sentirsi corresponsabile. Va però aggiunta la buona notizia in base alla quale lo stesso governo che ieri ha reso perseguibile per legge e detenibile in carcere il genitore inadempiente, ha stabilito però che verranno erogati 32 milioni di euro in tre anni per rafforzare l’organico docenti e che sarà istituito un Fondo contro la dispersione scolastica a partire dal 2024. Nello stesso decreto, dovrebbe anche confluire con un provvedimento contro l’abuso di porno online da parte dei minori. Ecco, questo è il tipo di interventi che dovrebbe fare notizia. E che se davvero diventa strutturale all’interno delle politiche famigliari a scolastiche di una nazione, porterebbe a rendere l’abbandono scolastico una “non notizia”. *Psicoterapeuta Mattarella chiede prevenzione contro la violenza sulle donne e i femminicidi: “Barbarie sociale” di Vanessa Ricciardi Il Domani, 8 settembre 2023 Il presidente nelle ultime settimane è intervenuto spesso sui fatti di attualità chiedendo a tutti di agire: “I diritti non sono una conquista irreversibile”. Una “barbarie sociale”. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, chiede più prevenzione contro la violenza sulle donne, partendo dai fatti di cronaca. Ogni giorno si susseguono notizie in tutta Italia di soprusi e femminicidi: “La violenza contro le donne in Italia, in questi ultimi mesi - ha scritto in un intervento sul Corriere -, ha continuato a manifestarsi con numerosi casi di assassinio e di stupro”. Un intollerabile barbarie sociale richiede un’azione più consapevole di severa prevenzione, concreta e costante”. A questa “si deve affiancare, nell’intera società, un impegno educativo e culturale contro mentalità distorte e una miserabile concezione dei rapporti tra donna e uomo”. Diritti da difendere - Il messaggio arriva in occasione dei 10 anni de La27esima Ora, la “festa festival” che il Corriere organizza a Milano. Il presidente ha colto l’occasione per schierarsi: “Abbiamo oggi bisogno più che mai della forza e della cultura delle donne, che con le loro lotte, il loro impegno, la loro originalità hanno indotto e talvolta costretto le società moderne a ripensare stili, modelli e organizzazioni, contribuendo all’affermazione del valore universale della libertà”. Mattarella, in occasione del discorso di fine anno, aveva sottolineato l’importanza di avere per la prima volta una presidente del Consiglio donna: “Il chiaro risultato elettorale ha consentito la veloce nascita del nuovo governo, guidato, per la prima volta, da una donna. È questa una novità di grande significato sociale e culturale, che era da tempo matura nel nostro paese, oggi divenuta realtà”. Le donne, ricorda adesso “hanno cambiato la politica, la cultura e la società. E continueranno a farlo, in questa stagione in cui sfide decisive impegnano l’Italia, l’Europa e il mondo intero sulla frontiera della pace, dello sviluppo, dei cambiamenti climatici, dell’occupazione e della riduzione delle disparità”. Ha quindi augurato a tutti buon lavoro. Mattarella ha citato Nelson Mandela e la necessità di difendere la libertà perché “i diritti non sono una conquista irreversibile”: “Non c’è libertà in quei regimi che soffocano le naturali richieste delle donne a una effettiva parità, alla libertà nelle decisioni che riguardano la propria vita, che escludono parte rilevante della popolazione dall’istruzione e dal mondo del lavoro”. E “non c’è completa libertà quando non sono garantiti a tutti i cittadini pari condizioni di crescita e di sviluppo. Non c’è libertà, oggi, quando una persona è vittima di molestie e violenze fisiche o morali”. Un susseguirsi di interventi - Il presidente nelle ultime settimane è intervenuto spesso sui fatti di attualità. Durante il Meeting di rimini, nel suo intervento dello scorso 25 agosto ha tracciato la linea richiamando all’accoglienza per i migranti, dopo il tragico incidente di Brandizzo ha deciso di aggiungere immediatamente e fuori programma un appello contro le morti sul lavoro, andando poi di persona a portare dei fiori sul luogo dove sono rimasti uccisi cinque operai. Pochi giorni fa ha incontrato la ministra del Lavoro Marina Calderone, chiedendole ragguagli sull’azione di governo. Un appuntamento su cui il Quirinale ha deciso di fare anche una breve comunicazione, a differenza di quanto accaduto in precedenti incontri. Adesso interviene a sua firma contro la violenza sulle donne. Violenza sulle donne, approvato il Ddl sulla speditezza delle indagini di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2023 La norma interviene sul “Codice Rosso” prevedendo un’ulteriore ipotesi di avocazione delle indagini preliminari da parte del Pg presso la Corte d’appello quando il Pm non senta la persona offesa entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato. Via libera definitivo dell’Aula della Camera al Ddl per l’avocazione delle indagini per i delitti di violenza domestica o di genere . Il testo è stato definitivamente licenziato a Montecitorio con 200 voti a favore, nessun contrario e 61 astenuti (Pd e Avs). La norma si inserisce nell’ambito del cosiddetto ‘Codice rosso”. Il testo, che si compone di un unico articolo, si propone di rendere più stringente l’obbligo del pubblico ministero di assumere informazioni dalla persona offesa nel termine di tre giorni dall’acquisizione della notizia di reato, assicurando l’effettività dell’intervento del Pm a tutela della vittima dopo l’iscrizione della notizia di reato. A tal fine il provvedimento prevede che nel caso in cui il pubblico ministero assegnatario delle indagini non proceda nel termine dei tre giorni all’ascolto della persona offesa, il procuratore della Repubblica possa revocargli l’assegnazione del procedimento, procedendo direttamente, o attraverso l’assegnazione ad un altro magistrato dell’ufficio, all’assunzione di informazioni dalla persona offesa (salvo che non emerga la necessità di tutelare i minori o la riservatezza delle indagini). Il provvedimento, inoltre, prevede che il procuratore generale presso la corte di appello acquisisca con cadenza trimestrale dalle procure della Repubblica del distretto i dati sul rispetto del termine fissato dall’articolo 362, comma 1-ter c.p.p. e invii al procuratore generale presso la Corte di cassazione una relazione almeno semestrale. Per la senatrice della Lega Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia a Palazzo Madama, e prima firmataria del disegno di legge: “Velocità è quello che chiede allo Stato una donna che denuncia una violenza e il rafforzamento del Codice Rosso rappresenta in questo senso un importantissimo passo avanti. Adesso, se la vittima di violenza non viene ascoltata entro i tre giorni previsti dal Codice Rosso, il procuratore potrà revocare l’assegnazione del fascicolo, assegnandolo a chi è invece in grado di intervenire subito”. Più critiche le opposizioni. “Io questo problema drammatico lo ho vissuto. Conosco bene il dramma che vivono queste donne. Questa legge non risolve il problema. Votiamo a favore ma se vogliamo davvero fermare questa tragedia bisogna fare molto di più”. Lo ha detto in lacrime nell’Aula della Camera la deputata di M5S Daniela Morfino, in dichiarazione di voto. Il Codice Rosso - Il ‘Codice rosso’ è una legge che tutela le donne e i soggetti deboli che subiscono violenze, atti persecutori e maltrattamenti. Si tratta della L. 69/2019 dal titolo ‘Modifiche al Codice penale, al Codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere’. La polizia giudiziaria - non appena acquisita la notizia di reato - riferisce immediatamente al Pm, anche oralmente. Entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, il Pm - laddove si procede per delitti di violenza domestica o di genere - deve assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato. Gli atti d’indagine delegati dal pubblico ministero alla polizia giudiziaria devono avvenire senza ritardo. Altra novità l’allungamento dei tempi per sporgere denuncia: la vittima ha 12 mesi per farlo e non più 6 come in precedenza. Modificata la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Il giudice, al fine di garantirne il rispetto, può predisporre anche il ricorso al braccialetto elettronico. Dopo l’entrata in vigore del ‘Codice Rosso’, le misure di prevenzione sono applicabili anche al reato di maltrattamento nei confronti del coniuge o del convivente. La legge 69/2019 introduce 4 nuovi reati nel codice penale: Art. 612-ter Cp: il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate (il cosiddetto ‘revenge porn’), punito con la reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 5mila a 15mila euro. Art. 583-quinquies Cp: il reato di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (‘sfregio del volto’), punito con la reclusione da 8 a 14 anni. Quando si provoca la morte della vittima è previsto l’ergastolo. Art. 558-bis Cp: il reato di costrizione o induzione al matrimonio è punito con la reclusione da 1 a 5 anni. La pena aumenta se il reato è commesso a danno di minori e si procede anche quando il fatto è commesso all’estero da o in danno di un cittadino italiano o di uno straniero residente in Italia. Art. 387-bis Cp: la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, sanzionato con la detenzione da 6 mesi a 3 anni. Inasprite le pene: il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, da un minimo di 2 e un massimo di 6 anni, passa a un minimo di 3 e un massimo di 7; lo stalking passa da un minimo di 6 mesi e un massimo di 5 anni a un minimo di 1 anno e un massimo di 6 anni e sei mesi; la violenza sessuale dal minimo di 5 al massimo di 10 anni passa da 6 a 12 anni. La violenza sessuale di gruppo passa a un minimo di 8 e un massimo di 14 anni, prima era punita col minimo di 6 e il massimo di 12. La legge prevede anche specifici obblighi formativi - sia sul fronte della prevenzione sia su quello del perseguimento dei reati - per il personale delle forze dell’ordine con funzioni di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria. I femminicidi e le urla del silenzio di Assia Neumann Dayan La Stampa, 8 settembre 2023 Il sistema ha fallito. Prendere atto che in Italia la politica, la magistratura, le forze dell’ordine abbiano fallito sarebbe già un po’ meno di niente. Non trovo una spiegazione al fatto che una donna che denuncia, anche più volte, l’ex marito o compagno per atti persecutori, abusi o violenze o qualunque altro reato, finisca per essere ammazzata. Marisa Leo è vittima, l’ennesima, di un uomo. Marisa Leo è vittima, l’ennesima, di un uomo che lei aveva già denunciato. Marisa Leo è vittima, l’ennesima, di questo fallimento. La figlia di Marisa Leo è vittima, l’ennesima, di un uomo e di un sistema che ha fallito. Qualcuno deve prendersi la responsabilità di questo fallimento e dire alla figlia di tre anni di Marisa Leo, e a tutte le donne, e a tutti gli orfani che i femminicidi creano, che questo sistema finisce qui, un sistema dove il meccanismo della denuncia a un certo punto diventa niente. C’è la sottovalutazione del rischio, l’incapacità di tutelare le donne, una burocrazia che non protegge nessuno. Continuare a sentirsi dire che bisogna denunciare quando poi apriamo il giornale e leggiamo di una donna morta ammazzata è avvilente. Marisa Leo nel 2020 aveva denunciato il suo assassino per stalking e poi per violazione degli obblighi di assistenza familiare. Insieme avevano avuto una bambina. Marisa Leo era una donna che lavorava, si occupava del marketing della cantina vitivinicola sociale “Colomba bianca”, era una professionista realizzata. Marisa Leo aveva 39 anni, una figlia piccola, un lavoro di responsabilità, e il suo corpo è stato ritrovato senza vita nell’azienda di famiglia. Aveva acconsentito a un appuntamento con l’ex compagno, e questi incontri quasi sempre rappresentano l’ultimo momento da vive. Gli ultimi appuntamenti che portano all’omicidio hanno due dati di fatto: nessuna donna va a suicidarsi, e tutti gli uomini vanno per uccidere. In Italia dall’inizio del 2023 sono 79 le donne ammazzate dagli uomini: sono molte le persone che dicono che i femminicidi non sono una strage né un’emergenza, e che i reati sono diminuiti. Per quanto mi riguarda, fosse anche una sola la vittima sarebbe troppo. Quando una donna viene uccisa dal compagno lo strazio si moltiplica, infetta le famiglie, i genitori, i figli rimasti orfani, è un dolore che fa morire la società civile, è un dolore che moltiplica la rabbia perché quelle donne erano andate a denunciare. Nelle ultime settimane sui giornali abbiamo letto delle storie di violenza, anche su delle bambine, che dovrebbero farci pensare a quanto fallimento siamo in grado di sopportare. Quello che so è che bisognerebbe fare in modo che una donna venga protetta se denuncia, che le forze dell’ordine non dovrebbero sottovalutare i rischi, bisognerebbe finanziare centri antiviolenza. Il femminicidio è un omicidio, è un reato che dovrebbe portare dritti all’ergastolo; poi possiamo parlare quanto vogliamo del fatto culturale, dell’educazione, del patriarcato, ma i fatti culturali non si risolvono in un quarto d’ora, e le donne muoiono, ieri, oggi, domani. Io vorrei che qualcuno mi dicesse che le pene sono certe, che se denuncio un uomo per atti persecutori quell’uomo non può avvicinarsi a me e se lo fa va in carcere. Ogni storia, ogni vita è diversa, ma queste storie hanno sempre lo stesso finale. Negli Stati Uniti la stampa evita di ribattere il nome dei responsabili di mass shooting (stragi fatte con armi da fuoco, come quelle nelle scuole); infatti, nessuno di noi si ricorda come si chiamavano i responsabili della strage di Columbine, ma tutti abbiamo presente cos’è stato Columbine. Non so se è giusto, ma io il nome dell’assassino di Marisa Leo non voglio scriverlo. Voglio ricordare i nomi delle vittime, e soprattutto vorrei che questi nomi se li ricordassero quelli che sono pagati per far funzionare un sistema. Riforma del processo penale, al via la Commissione di Nordio di Valentina Stella Il Dubbio, 8 settembre 2023 Si è insediata ieri mattina alle 10 la “Commissione per la riforma del processo penale”, istituita dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, con decreto ministeriale del 5 maggio 2023. Il Guardasigilli ha portato il suo saluto alla prima seduta in Sala Falcone in via Arenula. La commissione, “che avrà un intenso calendario di riunioni - si legge sul sito del ministero -, è composta da autorevoli rappresentanti delle diverse anime del mondo del diritto” : accademia, avvocatura, magistratura, oltre a delegati dell’Ufficio legislativo del ministero e del Gabinetto. A presiederla, il capo dell’Ufficio legislativo, Antonio Mura”. Entro un anno, il gruppo di lavoro dovrà sottoporre al Guardasigilli proposte di intervento normativo. Allo stesso tempo, la Commissione lavorerà a possibili semplificazioni del rito per favorire la migliore attuazione del giusto processo e realizzare una “efficienza qualitativa”, nella cornice degli impegni sottoscritti con l’Europa tramite il Pnrr. “Attuare fino in fondo i principi del processo accusatorio”, con una condizione invalicabile: “L’indipendenza e l’autonomia della magistratura sono valori su cui non si può transigere”, ha detto il Guardasigilli nel dare il benvenuto ai numerosi componenti della Commissione. Nel suo saluto - si legge sul gnewsonline - “il Guardasigilli ha sintetizzato i due obiettivi principali affidati al gruppo di lavoro: portare a compimento l’opera di Giuliano Vassalli e rendere reale il principio del processo accusatorio” e, allo stesso tempo, favorire “un’efficienza qualitativa della giustizia penale”. “Viviamo una contraddizione normativa, di un codice penale, firmato da Benito Mussolini, che resiste - ha ripetuto come spesso fa Nordio - e un codice di procedura penale, ideato da un eroe della Resistenza, come Giuliano Vassalli, che è stato nel tempo snaturato”. Il ministro ha sintetizzato così lo spirito del lavoro chiesto alla Commissione: “Rendere costituzionalmente orientato un processo accusatorio mai davvero decollato”. Se alcune riforme sono al di fuori del perimetro di intervento - in quanto possibili “solo con interventi sulla Costituzione”, ha chiarito - è sul resto che invece la Commissione dovrà concentrarsi per “rendere reale, effettivo ed efficace il processo accusatorio, che ha tre gambe: accusa, difesa e giudice”. Dopo il ministro, è stato il presidente della Commissione, Antonio Mura, ad entrare subito nel vivo delle questioni, con un auspicio introduttivo: “Questa può essere la sede in cui confrontarsi su proposte costruttive; questa è la sede giusta dove le etichette “giustizialista/ garantista” possono essere messe da parte e si arrivi ad una riflessione matura. Ritengo che il mandato conferito alla Commissione - ha sottolineato ancora Mura - debba avere un punto di riferimento non sempre ricordato nel dibattito sul Pnrr: l’obiettivo finale è la qualità della risposta di giustizia ai bisogni dei cittadini”. Prossima riunione il 9 ottobre. Per il Cnf era presente la Segretaria Giovanna Ollà, insieme agli esponenti dell’Ucpi Eriberto Rosso, Paola Rubini, Beniamino Migliucci. Sempre a proposito di modifiche dei codici di rito, ieri, l’aula della Camera ha approvato in via definitiva la proposta di legge sulle nuove norme al “Codice rosso” per le vittime di violenza domestica e di genere. Il testo, già votato dal Senato, ha ottenuto a Montecitorio 200 sì, nessun voto contrario e 61 astenuti (Partito democratico e Alleanza Verdi e Sinistra). Giustizia riparativa nel penale di Dario Ferrara Italia Oggi, 8 settembre 2023 La mediazione fra la vittima e il responsabile serve a risolvere gli effetti del reato e offre al secondo - indagato, imputato o condannato - benefici sulle sanzioni in cambio di riparazioni, materiali o simboliche. Diventa realtà la giustizia riparativa introdotta dalla riforma del processo penale: la mediazione fra la vittima e il responsabile serve a risolvere gli effetti del reato e offre al secondo - indagato, imputato o condannato - benefici sulle sanzioni in cambio di riparazioni, materiali o simboliche. Il tutto su base volontaria e nella riservatezza assoluta, con tanto d’inutilizzabilità delle dichiarazioni nel procedimento. Le linee guida, con il “chi fa che cosa”, arrivano da Milano nello schema operativo realizzato da uffici giudiziari e organismi forensi. Nessun pericolo. L’accesso al programma va consentito dalle indagini alla fase esecutiva e, almeno in astratto, per qualsiasi tipo di reato, a patto che sia utile per risolvere le questioni sorte dalla condotta illegale e non mettano in pericolo i partecipanti e l’accertamento dei fatti. La mediazione, del tutto gratuita, è gestita da professionisti presso strutture pubbliche che fanno capo agli enti locali in ogni distretto di Corte d’appello (a Milano il Comune ha già istituto il centro). A seconda della fase, spetta a pm, gip e gup informare gli interessati che è possibile ricorrere all’istituto, indicando obiettivi e garanzie. Chi invia il caso al centro per la mediazione? Durante le indagini il pm, poi il giudice che procede e in fase esecutiva la magistratura di sorveglianza. Programmi di restorative justice sono previsti anche nella sospensione del procedimento con messa alla prova. Forma e sostanza. Sta al mediatore valutare l’esistenza di un valido consenso, ma si può ipotizzare anche un percorso senza la vittima diretta. La riparazione del responsabile comprende forma e sostanza: scuse formali, dichiarazioni pubbliche, impegni nei confronti della comunità o privati, ad esempio a non frequentare determinati luoghi o persone; ma anche risarcimento del danno, restituzioni e l’impegno a eliminare le conseguenze dannose, pericolose o ulteriori del reato. Alla fine del percorso il mediatore invia al magistrato la sua relazione. Ma l’autore dell’offesa non viene penalizzato se non si raggiunge l’esito riparativo (idem per mancato avvio o interruzione). E non è richiesto l’accertamento del fatto o il riconoscimento della propria responsabilità. Le informazioni acquisite sono inutilizzabili sia nel procedimento sia in fase di esecuzione della pena. Rimessione tacita. Nei reati per i quali la querela può essere rimessa l’imputato ha facoltà di chiedere la sospensione del procedimento fino a centottanta giorni, con conseguente stop dei termini di prescrizione: in tal caso il provvedimento che invia il caso al centro specializzato indica un termine congruo, compreso fra tre e sei mesi, per elaborare e svolgere il programma. E se la riparazione si raggiunge, la partecipazione del querelante equivale alla remissione tacita della richiesta di punizione. Ragione e proporzione. Sta al giudice valutare l’esito per i reati procedibili d’ufficio o con querela non ritirabile: la pena è ridotta in base alla proporzionalità e alla ragionevolezza della riparazione. Il successo del programma si affianca ai criteri previsti dall’articolo 133 Cp per determinare la sanzione, pesa per l’attenuante della riparazione e come condizione specifica per la sospensione condizionale breve; mentre in fase di esecuzione favorisce il lavoro esterno, i permessi premio, le misure alternative al carcere e la liberazione condizionale. Ma i benefici penitenziari non possono mai essere subordinati alla partecipazione al programma. Va assicurata l’assistenza linguistica a chi non comprende l’italiano. Cassazione, se la regola è una mannaia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 settembre 2023 Contestato il meccanismo di scelta del procuratore generale aggiunto e del primo presidente aggiunto, in base al quale le decisioni sono scontate. Si può calcolare anni prima chi avrà i requisiti per candidarsi e prevedere se qualcuno li avrà. Cassazione, se la regola è una mannaia - Il Consiglio superiore della magistratura ha votato ieri i nuovi numeri due della Cassazione, cioè il procuratore generale aggiunto e il primo presidente aggiunto, Alfredo Viola e Pasquale D’Ascola; candidati naturali a diventare i numeri uno nel 2025, quando andranno in pensione gli attuali vertici. Le decisioni prese ieri in commissione erano scontate come la prossima ratifica in plenum, poiché i due nominati (entrambi magistrati che godono di ottima fama) non avevano di fatto concorrenti in virtù di una riforma dello scorso anno, secondo cui anche alle funzioni direttive superiori della Cassazione si applicano i requisiti per gli uffici direttivi e semidirettivi di tribunali e corti d’appello: chi fa domanda deve avere quattro anni di lavoro davanti, e almeno altrettanti trascorsi nell’ufficio di provenienza. Una regola che estesa a pm e giudici di legittimità (tranne che per i due incarichi apicali, pg e primo presidente) s’è tramutata in mannaia, giacché in Cassazione si arriva solitamente nella fase finale della carriera. Per il posto preso da Viola (già sostituto pg e ora segretario generale del Csm) erano in lizza altri due candidati ma nessuno degli avvocati generali (un gradino sopra ai sostituti pg) tagliati via dalla riforma; D’Ascola invece non aveva avversari perché nessun altro degli oltre cinquanta presidenti di sezione aveva il doppio requisito richiesto dalla riforma. E quando fra 2 anni D’Ascola diventerà primo presidente, c’è chi ha già calcolato che nessun presidente di sezione potrà candidarsi al suo posto, lasciando campo libero a giudici destinati a scavalcare decine di magistrati di maggiore anzianità e esperienza. Una “distorsione” già denunciata al Csm dal pg Luigi Salvato, mentre uno degli esclusi ha sollecitato il Tar a investire la Corte costituzionale. Per evitare, se il Parlamento non ci ripenserà, che la scelta del migliore sia affidata solo all’anagrafe e ai calendari delle nomine precedenti. Marche. Il punto del Garante: “Il carcere di Fermo andrebbe chiuso, è inadatto” di Raffaele Vitali laprovinciadifermo.com, 8 settembre 2023 Poche misure alternative per chi deve scontare pene brevi; poco personale; troppi detenuti in attesa di sentenza definitiva; strutture inadeguate: ecco quattro nodi che il garante regionale dei diritti della persona mette sul tavolo della politica e del sistema delle Giustizia. “Non ci siamo occupati solo delle carceri, ma valutare lo stato di chi è privato della libertà personale è fondamentale. Non parliamo di criticità, ma di situazione pressante e preoccupante” esordisce Giancarlo Giulianelli che parte dall’aggressione di un detenuto con problemi psichiatrici a due agenti della polizia penitenziaria di Ascoli Piceno. “Vicinanza agli agenti, ma anche al detenuto che forse non si trova nella struttura detentiva giusta”. Tra i casi eclatanti da affrontare c’è quello di Fermo, che conta di 55 detenuti, a fronte di 41 posti regolamentari. “Va chiuso il carcere, che è casa di reclusione, di Fermo: un ex convento non adatto, con spazi stretti e porte fatiscenti. È meglio ridarlo alla città per altri usi. Il Comune ha individuato un’area, con il sottosegretario Delmastro ne abbiamo discusso ma non c’è disponibilità finanziaria attualmente. Quello che l’onorevole ha spiegato è che si potrebbero usare i fondi del Pnrr, non riuscendo a portare a termine il proprio programma, per costruire un nuovo istituto. Ideale sarebbe un carcere a metà tra Macerata, che è l’unica provincia senza struttura, e Fermo” chiarisce Giulianelli Il garante è stato a Fermo, dove mancava da un po’, una decina di giorni fa: “E’ stato riaperto lo spazio degli orti, rimasto chiuso per troppo tempo. Uno spazio ristretto, ma un detenuto mi ha confermato la funzionalità. È parte di un percorso di rieducazione. E poi so che il sindaco Calcinaro, che è molto attivo, vuole far ripartire la convenzione che permette ai detenuti più meritevoli di svolgere lavori per la comunità”. Tornando al piano regionale, il garante sottolinea “l’eccessivo ricorso alle misure cautelari, come dimostrano i dati. A fronte di una popolazione di 877 detenuti, 201 sono in attesa di sentenza definitiva. 121 in attesa di giudizio, 80 appellanti o ricorrenti in cassazione. Le Marche hanno il 22, 8% di detenuti in ‘misura cautelare’. Se non tutti, fosse anche la metà, stessero ai domiciliari, il sovraffollamento si ridurrebbe” prosegue. La capienza totale nei sei istituti regionali è di 743, ma i detenuti sono 877. “A questo si aggiunge una carenza di personale di polizia. Il caso più eclatante è Montacuto, che ha il tasso più basso di personale in base ai presenti. Interessante anche il panorama sullo stato dei ‘marchigiani in carcere’: sono 723 i detenuti residenti nelle Marche, 341 i nati nelle Marche. “Una popolazione che delinque poco” sottolinea. Il garante non raccoglie solo i dati, ma va a parlare coni detenuti cercando di risolvere le problematiche. “Vogliamo che il detenuto si senta attenzionato, che qualcuno si occupi di lui. Per questo è necessario ripristinare il Sio, Sportello Orientativo Informativo finanziato dalla regione, nel carcere di Ancona. Uno sportello che svolge le pratiche da patronato per il detenuto e che è necessario. Il nuovo sindaco lo ha già capito”. Un dato che bisogna valutare è il poco uso delle misure alternative al carcere: domiciliari e affidamento in prova ai servizi sociali, che può essere richiesto fino a un residuo di pena di 4 anni. “Al 30 giugno, 380 hanno una pena entro i tre anni. Quindi qualcosa non funziona tra pena da scontare e misure alternative. Altri 135 devono scontare tra i 3 e i 5 anni. Insomma, il 50% della popolazione detenuta non vede concesse le misure alternative. Ne parlerò con il presidente del tribunale di sorveglianza. Ma deve essere anche il detenuto che deve mostrarsi voglioso di partecipare al programma rieducativo”. Programma rieducativo che nel 2024 sarà anche legato al calcio: “Abbiamo siglato un accordo con la Lega Nazionale Dilettanti, faremo un corso di calcio a tutti gli istituti e dopo una selezione nei sei istituti vogliamo creare una squadra di detenuti che sfiderà i campioni olimpionici italiani. Un progetto che parte a fine anno e si strutturerà nel prossimo”. Padova. Violenze in cella, Donazzan al sit-in degli agenti: “Qui lavorate con la peggiore umanità” di Stefano Bensa Corriere del Veneto, 8 settembre 2023 È bufera: “Da lei odio verbale”. Tutti contro l’esternazione dell’assessore regionale. Il Pd: “Passerella elettorale, affronti i problemi”. M5S: “Odio verbale inaccettabile”. L’ultimo episodio era avvenuto all’alba del 2 settembre, quando un detenuto marocchino ha minacciato di morte medico e agenti (ferendone tre) per poi devastare la cella. Ma sarebbe stata solo l’ennesima aggressione avvenuta nel carcere di Padova, al punto da spingere i sindacati, giovedì mattina, a organizzare un sit-in per chiedere più personale denunciando una situazione esplosiva. Nessuno, tuttavia, avrebbe immaginato che al Due Palazzi si sarebbe presentata l’assessore regionale al Lavoro Elena Donazzan (Fratelli d’Italia), che al termine di un’ispezione ha espresso “solidarietà agli agenti” perché “in carcere mancano regole d’ingaggio” e soprattutto perché “qui lavorate con la peggiore umanità”. Il Pd: passerella elettorale - Ed è quest’ultima frase che ha fatto esplodere una polemica virulenta: “Solitamente sono gli avvoltoi che si avventano sulla carcassa. Stavolta, invece, è stata Elena Donazzan. Che invece di affrontare i tanti problemi delle carceri venete ha piegato la sofferenza e i disagi di reclusi e lavoratori per fare la sua personale passerella elettorale” ha attaccato, ieri, la capogruppo del Pd in Regione, Vanessa Camani, assieme ai consiglieri dem. “I problemi - ha aggiunto Camani - non sono le persone bensì sono generati dal grave malfunzionamento del sistema carcerario italiano, flagellato dalla pesante carenza di agenti di polizia penitenziaria e di operatori, dal sovraffollamento, che in Veneto tocca la punta del 120%. La Regione potrebbe investire risorse per i servizi sanitari nei penitenziari. Ridurre questo dramma alla bassa qualità umana dei detenuti, come fa Donazzan, dimostra quanto l’assessora sia lontana non solo dai problemi concreti ma anche e soprattutto dalle soluzioni serie”. M5S: odio verbale - Di “odio verbale inaccettabile” parlano invece l’onorevole Enrico Cappelletti e la senatrice Barbara Guidolin del Movimento 5 Stelle, mentre Elena Ostanel, consigliera regionale del gruppo “Il Veneto che Vogliamo”, definisce le parole di Elena Donazzan “sfogo estivo da Law & Order”: “Come spesso fa l’assessore al nemico si toglie dignità umana, lo si schiaccia, lo si sbatte in un livello inferiore. E invece negli istituti di pena ci sono persone: il 29% della popolazione carceraria ha più di 50 anni, le donne sono il 4,4%, il 31,6% è iscritto a un corso scolastico”. “Sono state parole inopportune” aggiunge Margherita Colonnello, assessore all’Inclusione Sociale del Comune di Padova. “Il problema - dice - non è da ricercare nella “peggiore umanità” ma nella pigrizia istituzionale che lascia inapplicato l’articolo 27 della nostra Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione”. Come Comune siamo vicini a tutta la comunità del carcere e continueremo a sostenere i progetti di contatto e reciproca conoscenza tra detenuti e cittadini. Ora è tempo che anche i ministeri competenti risolvano davvero i problemi”. Padova. Donazzan: “Peggior umanità sì, ma tutti possono riabilitarsi” di Andrea Priante Corriere del Veneto, 8 settembre 2023 “Hanno strumentalizzato le mie parole. Ormai ci sono abituata. Se i bambini sono la migliore umanità, i detenuti come li dovrei definire? Sono persone che qualcosa di male nella vita devono pur averlo fatto. Ma non è un’umanità irrecuperabile: credo fermamente nella capacità di redenzione di chiunque”. Assessore Elena Donazzan, lei è finita di nuovo nelle polemiche per aver definito i carcerati “la peggior umanità”. Cosa intende? “Qualunque cosa io dica viene pesata e giudicata nell’ottica di dimostrare che Donazzan è fascista. Come se l’essere una donna di destra, significhi avere un peccato originale da scontare”. Lei ha detto ai rappresentanti della polizia penitenziaria che “non esistono regole d’ingaggio chiare in assoluto, quando abbiamo a che fare con la peggiore umanità” e che gli agenti non hanno a che fare “con le signorine: qui dentro c’è la parte degenerata della società”. Davvero non si aspettava delle critiche? “Partiamo dalle regole di ingaggio. Per anni gli agenti hanno chiesto che venissero fissate delle regole di intervento in caso di situazioni di particolare tensione all’interno del carcere. Regole che consentano anche a loro di sapere fino a dove possono spingersi senza rischiare di finire sotto processo. Finalmente il ministero della Giustizia ha approvato un protocollo operativo, ed è una buona notizia anche se gli istituti di pena sono realtà complesse e quindi è impossibile decodificare tutte le situazioni che si possono creare al suo interno. Come assessore al Lavoro, ho semplicemente espresso questo pensiero a dei rappresentanti sindacali”. Ma lei ha anche definito i detenuti “la peggiore umanità”, dei “degenerati”... “Gli agenti di polizia penitenziaria non devono vigilare su una scuola dell’infanzia, ma su un carcere. E se i bambini sono “la migliore umanità”, i detenuti come li dovrei definire? Sono persone che qualcosa di male nella vita devono pur averlo fatto, per essere recluse. E i continui episodi di violenza ai danni di agenti e operatori, dimostrano che lavorare nelle prigioni significa esporsi proprio alla pericolosità dei detenuti”. Risse e tensioni spesso sono la conseguenza di altri problemi “strutturali” alle carceri italiane, non crede? “È giusto interrogarsi sulle condizioni all’interno degli istituti. Sicuramente il sovraffollamento e la scarsità di organico di agenti e operatori sono un problema che va ad acuire il rischio che le tensioni degenerino. Ma anche su questo fronte il governo si sta muovendo: c’è l’intenzione di aprire nuove strutture e assumere personale per sorvegliarle”. In prigione non ci finiscono solo criminali incalliti. Lei stessa, in passato, ha difeso persone finite in cella, come Walter Onichini, condannato per aver sparato a un ladro in fuga. Sono tutti “degenerati”? “Ma certo che no, e io non volevo generalizzare ma solo esprimere la mia solidarietà agli agenti penitenziari. In generale, la “peggiore umanità” non significa un’umanità irrecuperabile: credo fermamente nella capacità di redenzione di chiunque, come nel potenziale riabilitativo dei nostri istituti di pena. Da quando sono stata eletta in Regione, ho sempre promosso progetti finalizzati al reinserimento dei detenuti: dai corsi di formazione professionale alle attività culturali. Tutti meritano una seconda occasione”. Padova. Ornella Favero: “Frasi errate se si toglie speranza può esplodere tutto” di Andrea Priante Corriere del Veneto, 8 settembre 2023 “I detenuti non sono la peggiore umanità. È l’umanità dolente, emarginata. L’umanità che alcuni politici vorrebbero nascondere, utilizzando le prigioni come discariche”. “La popolazione dei detenuti è complessa. Ci sono persone che hanno commesso reati gravi ma ci sono anche tanti uomini e donne che nella vita si sono ritrovati a commettere uno sbaglio”. “Le parole di Donazzan sono pericolose, tolgono speranza”. Ornella Favero è il volto-simbolo del volontariato in carcere. Attiva nella Casa di reclusione di Padova, ma non solo, con un gruppo di reclusi nel 1997 fondò “Ristretti Orizzonti”, diventata una tra le più autorevoli riviste sui temi della detenzione. Autrice di libri, organizza convegni sulla legalità e dal 2015 è presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, che rappresenta enti, associazioni e gruppi impegnati quotidianamente dentro e fuori de mura degli istituti di pena. Favero, parlando con i rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria, l’assessore al lavoro Elena Donazzan ha manifestato loro solidarietà sostenendo che “non esistono regole d’ingaggio chiare in assoluto, quando abbiamo a che fare con la peggiore umanità. Perché voi non avete a che fare con le signorine: qui dentro c’è la parte degenerata della società”“. Che ne pensa? “Sono parole pericolose. Far credere all’opinione pubblica che in cella ci finiscano solo persone cattive, dei “degenerati”, significa far filtrare indirettamente il messaggio che questi uomini e donne possono essere trattati nel modo peggiore. Ma se puntiamo solo alla punizione dei detenuti, alla loro umiliazione, che tipo di persone avremo quando usciranno di galera? Saranno arrabbiate e frustrate nei confronti di una società che non sa credere e investire nella loro riabilitazione. La “peggiore umanità” è qualcosa di irrecuperabile. Ma la verità del carcere, per fortuna, è ben altra”. In carcere ci va chi si è macchiato di reati, spesso gravi... “La popolazione dei detenuti è complessa. Ci sono persone che hanno commesso reati gravi ma ci sono anche i disagiati, quelli con problemi economici o psichiatrici, e tanti uomini e donne che nella vita si sono “semplicemente” ritrovati a commettere uno sbaglio. In tanti anni di lavoro nelle carceri, ho capito una cosa: può capitare a chiunque di noi - alle famiglie borghesi come a quelle operaie, ai professionisti come ai senzatetto - di ritrovarsi con un amico o un parente in cella. Persone che abbiamo sempre amato e rispettato e che non vorremmo mai che venissero definite “la parte degenerata della società”“. Non crede che le aggressioni di cui sono stati vittima gli agenti penitenziari negli ultimi mesi dimostrino una situazione di criticità? “Le aggressioni, così come i gesti di autolesionismo, spesso sono sintomo delle pessime condizioni in cui versano i nostri penitenziari. Centinaia di detenuti costretti in celle sovraffollate, che spesso non riescono a vedere i loro familiari e a malapena possono parlarci al telefono. E a mantenere calmi gli animi, ci sono agenti costretti a turni massacranti perché mancano gli organici, mentre scarseggiano anche operatori e psicologi. Se si continua a ghettizzare i reclusi, invece di offrire loro la speranza di un futuro migliore, la situazione non potrà che diventare esplosiva”. Roma. Regina Coeli, testimonianza irrinunciabile di Valentina Calderone* Il Manifesto, 8 settembre 2023 Si è tornati a proporre in questi giorni, grazie a una mozione presentata dal Partito democratico di Roma Capitale e votata ieri all’unanimità dall’Assemblea Capitolina, la chiusura del carcere di Regina Coeli. Il tema del sovraffollamento e delle carenze strutturali della maggior parte dei penitenziari ci accompagna da decenni. Alcune carceri, è ovvio, sono più adeguate di altre. Meglio costruite, con impianti funzionanti, progettate con spazi per realizzare attività. Ma, a fronte delle poche eccezioni in cui queste caratteristiche sono rispettate, in Italia tratteniamo detenuti e detenute in luoghi che marciscono, con l’umidità che mangia i muri, tubature fatiscenti e spazi vivibili ben al di sotto dei tre metri quadrati a testa, limite minimo stabilito dalla Corte europea dei diritti umani. Tra queste ci sono le carceri storiche, edifici nati per altri scopi e trasformati col tempo in istituti di detenzione. Come Regina Coeli, il carcere romano nel quartiere di Trastevere che da convento è diventato, a fine ‘800, casa circondariale. Durante la Seconda guerra mondiale alcune sezioni dell’istituto furono requisite dai nazisti e lì venivano trasferite le persone in attesa di esecuzione, tra cui Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, che riuscirono a evadere. Per questo motivo, su quelle aree sussiste un vincolo storico e architettonico da cui discende l’impossibilità di apportare modifiche strutturali. Tornando a oggi, su 628 posti disponibili, in quel carcere sono stipate oltre mille persone, un tasso di sovraffollamento del 160% in una struttura in cui non ci sono sale per le attività educative, in cui non esistono spazi verdi e dove le ore d’aria si trascorrono in cubicoli di cemento. La mozione votata in Assemblea capitolina e che impegna il Sindaco e la Giunta a promuovere presso il Governo e il Ministro della Giustizia la richiesta di chiusura di Regina Coeli, trova fondamento nell’insalubrità di un luogo che nemmeno i fondi straordinari ciclicamente stanziati per le ristrutturazioni riescono a rendere vivibile, come rilevato anche dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura in una recente visita all’istituto. D’altra parte, chiedere la chiusura di un carcere significa ipotizzare quali possano essere le alternative. A prescindere dalle proposte, non evocate da questa mozione, di costruire palazzi o di trasformare Regina Coeli in un albergo, è l’idea di privare la città di un luogo attraverso il quale si possa avere ancora un contatto diretto con il carcere a non convincere del tutto. La presenza di quelle mura davanti ai nostri occhi continua a rappresentare un modo per non dimenticare l’umanità che lì è rinchiusa e, proprio perché tramite l’edilizia penitenziaria degli ultimi decenni è stata operata la scelta di nascondere sempre più lontano dal nostro sguardo gli istituti, avere dei presidi fisici a ricordarci che il carcere è un pezzo di città diventa un fatto culturale cui bisogna dare peso. Chiudere Regina Coeli non deve diventare pretesto per promuovere la costruzione di un nuovo istituto - o per trasformare qualche caserma allo scopo - sicuramente più grande, sicuramente più lontano, che verrebbe stipato di persone in poco tempo. L’unico strumento davvero efficace per affrontare i problemi strutturali e di sovraffollamento è la deflazione della popolazione detenuta. Su 58mila persone presenti nelle quasi duecento carceri italiane, 15mila hanno un fine pena sotto i due anni. Facciamo uscire subito questi uomini e queste donne, rendiamo Regina Coeli un piccolo istituto a trattamento avanzato, e continuiamo a permettere a quel luogo di ricordarci che di carcere non dobbiamo mai smettere di occuparci. *Garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale San Gimignano (Si). “Il detenuto fu torturato”, i giudici non hanno dubbi La Nazione, 8 settembre 2023 Le motivazioni della storica sentenza di condanna per la violenta aggressione a un tunisino di 31 anni. “Scelto perché mingherlino, nessuno lo avrebbe aiutato”. Nello stretto corridoio del carcere di Ranza a San Gimignano, l’11 ottobre 2018, un detenuto tunisino di 31 anni, era stato spostato di cella in modo forzato. Si trovava dentro per scontare una condanna per furti e droga. In quel corridoio sarebbe stato sottoposto ad un trattamento “inumano e degradante”, sosterrà poi il pm Valentina Magnini che ha seguito l’inchiesta fin dalle prime battute raccogliendo elementi contenuti in un fascicolo di migliaia e migliaia di pagine. Come documentato da un video delle telecamere interne di 4 minuti e 32 secondi, i quindici della polizia penitenziaria si sarebbero mossi “a falange”, indossando i guanti. Il detenuto credeva di andare a fare la doccia, aveva in mano asciugamano e spazzolino. Era successo tutt’altro. A segnalare che c’era stato un episodio da valutare in primis la nota del magistrato di sorveglianza di Siena, unitamente alle lettere manoscritte di alcuni detenuti che si trovavano nel reparto di isolamento. Un caso subito bollente su cui era intervenuto anche il segretario della Lega Matteo Salvini, che si recò a Ranza dopo che emerse la vicenda a portare solidarietà. C’è stata tortura, “oltre ogni ragionevole dubbio”, da parte di cinque agenti del carcere di Ranza a San Gimignano nei confronti di un detenuto tunisino di 31 anni. L’11 ottobre 2018 “è stata posta in essere, da parte di una squadra composta da 15 agenti, assistenti e ispettori del corpo di polizia penitenziaria ... una spedizione punitiva” nei confronti del carcerato. Che sarebbe stato scelto perché mingherlino, dunque più fragile, oltre che per la condizione psichica “disagiata”. E ancora: perché non aveva fuori dalla cella nessuno che l’avrebbe aiutato per il trattamento ricevuto. Una sorta di punizione che poteva valere d’esempio per gli altri detenuti nel reparto di isolamento. Questa la ricostruzione fatta dal collegio presieduto dal giudice Simone Spina, che ha depositato le motivazioni della storica sentenza di condanna emessa il 9 marzo con i colleghi Elena Pollini e Francesco Cerretelli dopo tre anni di processo per i cinque della penitenziaria. Gli altri dieci colleghi erano stati condannati per lo stesso episodio nel febbraio 2021 con rito abbreviato a pene che variavano da 2 anni e 3 mesi a 2 anni e 8 mesi. Hanno fatto appello ma non c’è ancora la data dell’udienza. I giudici senesi sostengono, come detto, che c’è stata “una spedizione punitiva orchestrata e condotta, dagli imputati, ai danni del detenuto che integra una manifesta violazione del divieto internazionale di tortura e trattamenti inumani o degradanti che risponde pienamente... ai tratti normativi descritti dall’autonomo delitto di tortura commessa da pubblici ufficiali”. Previsto dall’articolo 613 bis del codice penale. Proprio quello che con una proposta di legge targata Fratelli d’Italia si è chiesto alla Camera di abrogare lasciando in piedi solo una sorta di aggravante. Un tema dunque caldissimo del dibattito politico. Interessante, al riguardo, il passaggio della sentenza, dove si scrive “che la previsione della tortura come reato, ad avviso del tribunale, costituisce una forma di tutela non solo internazionalmente necessaria ma ancora costituzionalmente imposta e pretesa”, citando l’articolo 13 della Carta. Le prove acquisite nel corso dell’istruttoria, secondo il collegio, mostrerebbero che il detenuto tunisino quel pomeriggio venne preso a forza dalla cella 4 nel lato A del reparto d’isolamento, “trascinato e strattonato lungo il corridoio” per metterlo nella numero 19. Venne colpito alla testa da due pugni, mentre si trovava in terra “ripetutamente percosso con molteplici calci inferti in più parti del corpo, per oltre trenta secondi”. Rialzato, era rimasto privo di vestiti. Era nuovamente caduto, venendo “compresso e schiacciato per più di 40 secondi” da uno degli imputati che pesava 135 chili. Insomma, quanto emerso dalle prove assunte nel contradditorio per i giudici senesi “corrisponde ad un disinvolto esercizio di violenta disumanità e ostentato disprezzo nei confronti della persona detenuta”. In sostanza si è trattato “di una ragionata e ben pianificata esecuzione di un atto di forza a carattere dimostrativo” con alcuni agenti, ossia i cinque imputati, che dirigono mentre altri (i dieci già condannati con rito abbreviato) “seguono e presenziano” contribuendo alla “carica intimidatrice” della spedizione punitiva. Nelle 257 pagine delle motivazioni i giudici evidenziano, attingendo anche a numerose intercettazioni telefoniche, che gli indagati erano preoccupati per l’inchiesta e c’era necessità di “tenere la linea”. Una sorta di versione comune. Quella che il collegio definisce una “contro-narrazione” delineata in alcune relazioni di servizio stese una volta compreso che quanto avvenuto in isolamento era ormai uscito fuori dalle mura di Ranza. “Contro-narrazione” che si frantuma di fronte “alla chiara evidenza dei fatti direttamente raffigurati” nelle videoriprese che, ripetutamente contestate dalle difese, sono state al centro del dibattimento. Ritenute dai giudici “fonte di prova decisiva e assolutamente cruciale ai fini dei fatti” e di cui si ribadisce la genuinità. Che documentano “un trattamento inumano e degradante” nei confronti del tunisino pur escludendo l’aggravante della crudeltà. Nella sentenza si evidenzia anche che il detenuto era stato messo in isolamento in maniera illegittima, con decisione autonoma di uno degli imputati. “Ci sono voluti sei mesi per la stesura della sentenza - commenta a caldo l’avvocato Manfredi Biotti che difende quattro degli agenti e premette che le motivazioni vanno lette con massima attenzione - avremo 45 giorni per presentare appello”. Ribadito di nutrire “ancora dubbi sulle modalità di acquisizione del video”, osserva “che se ciò che viene contestato è tortura vuol dire che il reato deve essere completamente riscritto perché evidentemente lo strumento a disposizione del giudice è troppo generale”. Brescia. Grazie alla generosità dei bresciani 28 frigoriferi in carcere di Manuel Colosio Corriere della Sera, 8 settembre 2023 La richiesta dalla Casa circondariale, raccolti più di 5 mila euro. Il grazie della Garante dei diritti delle persone private della libertà, Luisa Ravagnani, a chi ha donato. Consegnati alla casa circondariale Nerio Fischione 28 frigoriferi (20 piccoli e 8 grandi) in risposta ad una specifica richiesta proveniente dal carcere bresciano e rilanciata con un appello sui social nelle scorse settimane dalla Garante per i diritti delle persone private di libertà del Comune di Brescia, Luisa Ravagnani. “Abbiamo raccolto 5750 euro, cifra che dimostra come la sensibilità nei confronti del carcere e di chi lo abita non sia impossibile da trovare, almeno a Brescia” commenta Ravagnani ringraziando sempre via social “tutte le persone che hanno contribuito al raggiungimento di questo importante obiettivo: non vi menziono uno alla volta solo perché non sono certa vi faccia piacere (a volte si preferisce restare anonimi) ma sappiate che senza di voi oggi saremmo ancora alla ricerca risposte che non arrivano mai”. La Garante ha ricordato anche il contributo di ACT - Associazione Carcere Territorio OdV-ETS Brescia “che ha gestito tutta la complicata burocrazia, e lo fa ogni volta senza tirarsi indietro” e anche Fenice Servizi SRL “perché i titolari sono proprio così: ogni volta chiudono la questione aggiungendo tutto ciò che manca per raggiungere l’obiettivo prefissato”. Grosseto. Al “Festival di Letteratura Resistente” a Pitigliano si parla di carceri, diritti e libertà La Nazione, 8 settembre 2023 Il Festival Internazionale di Letteratura Resistente a Pitigliano propone un programma ricco di musica, reading, presentazioni di libri, mostre, laboratori, film e corti d’autore. Il tema: “Nuovi e vecchi diritti civili”. Gratuito e a offerta libera, per discutere di diritti civili, carceri, discriminazioni. La ventiduesima edizione del Festival Internazionale di Letteratura Resistente entra nel vivo e fino a domenica proporrà un programma ricco di musica dal vivo, reading, presentazione di libri, mostre, laboratori, film e corti d’autore. Il titolo di questa edizione è “Nuovi e vecchi diritti civili” e l’evento è a cura dell’associazione Strade Bianche, in collaborazione con il Comune di Pitigliano, la biblioteca comunale “Zuccarelli”, il Centro culturale Fortezza Orsini aps, Fondazione Marco Pannella, Radio Radicale, Coscionilab; Proloco l’Orso di Pitigliano. “Il focus del dibattito sarà sui nuovi e vecchi diritti civili - dice Marcello Baraghini - a partire da quelli per cui Pannella si è battuto tutta la vita, parlando anche delle condizioni delle nostre carceri, del carcere ostativo, del 41bis. Il festival coltiva l’idea di una letteratura che resiste ad ogni strumentalizzazione o discriminazione anche per questo motivo gli eventi sono gratuiti e le quote per partecipare ai laboratori (per bambini di ogni età) sono a offerta libera. Le Macerie, luogo che contribuisce a formare l’identità dei pitiglianesi e che rappresenta un pezzo importante della memoria condivisa è una location perfetta per il Festival, anche perché contigua alla storica libreria Strade Bianche, dove avverranno le presentazioni di tutti i libri, la seconda rassegna dei corti d’autore e le performance musicali e artistiche in programma”. Oggi alle 18 Irene Testa, presenta il libro “Azadi - Libertà in Iran”, dove l’autrice affronta l’indifferenza dell’Occidente davanti alle rivendicazioni di ragazze e ragazzi che urlano al diritto di una vita libera, nei modi e nell’esprimersi. Alle 19 “Un mondo senza galere è possibile”, con Sandra Berardi e Francesca de Carolis. Alle 21: “Balla coi Libri”, con Daniela Piretti, Marcello Baraghini, Elisabetta Peri e Maurizio Turco. Cagliari. Il cantautore Manuel Pia ha tenuto un concerto in carcere di Alessandro Pirina La Nuova Sardegna, 8 settembre 2023 Libertà come filosofia di vita. Libertà nelle scelte personali e professionali, libertà di innamorarsi di una star del cinema, libertà di dire no a un certo modo di fare musica che contrasta con i suoi principi. Ma “Libertà” è anche il titolo del concerto che Manuel Pia, cantautore nato a Cagliari ma cresciuto a Ussana, terrà oggi nella casa circondariale di Uta. Un evento promosso dall’associazione Socialismo Diritti Riforme Odv. Per Pia, in qualche modo, si tratta di un ritorno a casa. “Più di dieci anni fa sono stato il primo musicista a tenere un concerto dentro un carcere di massima sicurezza, in quella occasione Buoncammino - racconta -. Tutto nacque grazie al sostegno della dottoressa Maria Grazia Caligaris, sempre attenta a questi temi. Ai tempi io avevo scritto un brano dedicato ai detenuti, intitolato appunto “Libertà”, a lei piacque e sposò l’idea di fare un concerto nel carcere”. Dopo dieci anni si ripresenta la stessa occasione. Il carcere oggi si trova a Uta, ma il titolo dell’evento resta tale e quale, “Libertà”. Manuel Pia, però non sarà da solo. Al suo fianco ci sarà una band, la Free Inside, nata dalla volontà di alcuni detenuti di dedicarsi alla musica. “Quando mi è arrivata la proposta sono andato alla casa circondariale di Uta per fare un sopralluogo e il direttore mi ha presentato un gruppo di ragazzi che suona. Lì è scatta la molla: perché non ci esibiamo insieme?”. E così nel corso del concerto Pia eseguirà diversi brani tratti dalla sua nuova incisione, “Eocene”, realizzata con la collaborazione di Dalila Di Lazzaro, che è anche la sua compagna di vita. In scaletta anche alcune cover, Bob Dylan, Creedence, Pino Daniele, Nomadi, e una rivisitazione in chiave strumentale del “Nessun Dorma”. A fare da file rouge il brano “Libertà”, che colpì anche Maurizio Costanzo, che volle Manuel nella sua trasmissione su Rai Radiouno. Poi sarà il turno della Free Inside, con alcuni classici rock, da Neil Young a Jimi Hendrix. “Sogno di poter realizzare un tour nelle carceri sarde con la Free Inside, sarebbe un’esperienza bellissima”. La scintilla con la musica scocca da bambino. “Di nascosto strimpellavo la chitarra di mio zio, finché non mi ha beccato e mi ha detto suonala quando vuoi. A casa mia si è sempre ascoltata grande musica: Guccini, De André, Pino Daniele. Sono stati la mia formazione cantautorale. Poi dopo l’artistico ho lasciato la Sardegna perché ai tempi offriva poco e a Fiseole ho preso il diploma in chitarra moderna”. E lì inizia a calcare i palchi al fianco di artisti importanti, da Steve Vai a Beppe Carletti, da Neffa a Paola Turci. “Mai dimenticherò quando ho aperto con i miei brani il concerto di Irene Grandi a Gesturi davanti a 21mila persone. In quei casi la gente aspetta l’artista, invece ci fu un applauso gigantesco anche per me”. Dalila - L’incontro con la grande attrice è stato casuale, a una festa in un locale a Milano. “Sembravo destinato a incontrarla, già da ragazzino mi affascinava il suo spot del collirio, e poi avevo letto tutti i suoi libri. Mi ha sempre colpito, oltre la evidente bellezza, la sua eleganza. Mi sono avvicinato a salutarla e lei mi ha ripetuto alcuni aneddoti dei miei brani: mi aveva ascoltato attentamente. Qualche mese dopo scrissi il brano “Dalila”, glielo feci avere e da lì abbiamo iniziato a collaborare, a scrivere insieme, alcuni brani ancora chiusi nel cassettino, altri già usciti. E poi ci siamo innamorati”. La battaglia - Pia ha fatto della musica la sua vita, ma in questo momento chi come lui ha fatto questa scelta non ha grandi opportunità. “Oggi in Italia non c’è più spazio per chi fa musica. Lo dico da cantautore. Ci sono l’urban, il rap, la trap, ma non c’è la musica. Ormai i grandi cantautori fanno i grandi numeri solo ai concerti grazie ai loro successi passati. E anche tutti i sistemi per fare passare la musica sono taroccati. Ultimamente ho rifiutato ingaggi importanti per suonare sulle navi da crociera, volevano mandare anche l’elicottero a prendermi. Ho detto no perché io voglio continuare la mia lotta perché noi cantautori dobbiamo avere più voce in capitolo. Oltre ovviamente per stare con la mia dolce metà”. La verità, vi prego, sulla galera. Da Mantova appello alle coscienze di Cristina Taglietti Corriere della Sera, 8 settembre 2023 L’impegno del sociologo Luigi Manconi e del fumettista Zerocalcare, ieri in dialogo. Il fumettista di Rebibbia e il sociologo dei fenomeni politici, insieme per parlare di carceri e giustizia. Ieri sera al Festivaletteratura. Il fumettista di Rebibbia e il sociologo dei fenomeni politici, insieme per parlare di carceri e giustizia. Ieri sera al Festivaletteratura Zerocalcare (per l’occasione chiamato sempre con il suo nome, Michele Rech) e Luigi Manconi si sono confrontati su un tema caro a entrambi. Il disegnatore vicino ai centri sociali, autore di numerosi albi per Bao Publishing (La profezia dell’Armadillo, Kobane Calling, Niente di nuovo sul y fronte di Rebibbia) oltre che delle serie animate per Netflix Strappare lungo i bordi e Questo mondo non mi renderà cattivo, e lo studioso, più volte parlamentare, fondatore negli anni Ottanta della rivista “Antigone”, da sempre impegnato sul fronte della giustizia (presiede Fonlus A buon diritto, dedita alla tutela dei diritti fondamentali della persona): due voci che arrivano a chicdersi: Oltre le sbarre cosa?. Le analisi e i dati di Manconi, la narrazione di Zerocalcare, che ha messo al centro dei suoi libri il quartiere di Rebibbia, dove vive. Dignità è la parola chiave da cui parte Manconi per chiedersi: “Che dignità può avere una persona che nello stesso lavandino si deve lavare il viso, i piedi e l’insalata? Tutto in un carcere porta alla negazione di quella dignità. Anche il sovraffollamento è funzionale allo scopo non detto del carcere, l’infantilizzazione del detenuto, che deve stare in uno stato di minorità”. Nel carcere, come nella società, il linguaggio è decisivo: “Tutto - dice Manconi - rimanda a quest’infantilizzazione: la domandina che si deve fare per qualunque cosa, che sia una visita medica o un colloquio; il detenuto addetto alle pulizie viene chiamato scopino; quello alle spese spesino; il compagno di cella è il concellino. Il detenuto è come un bambino, privo di autonomia, di indipendenza, per lui non è prevista la dimensione affettiva, familiare, sessuale. Perché ciò che è funzionale non è un detenuto consapevole, ma un detenuto subalterno”. La dimensione familiare del carcerato la intravede Zerocalcare accanto al “moloch gigantesco di Rebibbia che è grande quanto il quartiere stesso, anzi di più, visto che si estende oltre. Chi abita lì - dice - vive l’indotto del carcere, costituito dai secondini, ma anche da un’umanità che non si vede altrove: le persone che arrivano, i visitatori, i parenti, i padri che portano i figli sul pratone da cui si vede la sezione femminile. Ma al tempo stesso, lì come nella società, il carcere è qualcosa di rimosso perché quello che succede dentro le mura fuori non si vede”. E qui si arriva, secondo Manconi, a un’altra parola chiave, rimozione: “Il carcere è davvero il grande rimosso, il luogo in cui viene imprigionato chi ha commesso il male, perturbante per tutti perché in qualche modo tutti avvertono di non essere completamente al riparo da quella tentazione. Bisogna spostare ciò che turba, inquieta, crea disagio. Per questo da anni si parla della possibilità di spostare Regina Coeli dal centro di Roma e San Vittore dal centro di Milano, due istituti conficcali nel cuore delle due città, due simboli così corposi e materiali. Per questo il lavoro di Michele è così importante”. Eppure, aggiunge il fumettista, “le mie posizioni sul carcere continuano a provocare un grande choc nei miei lettori, anche quelli più progressisti, più allineati con le mie idee, tanto che a volte ho l’impressione che del carcere abbiano parlato solo per dire che Berlusconi ci doveva andare”. Espressioni come bisogna buttare la chiave, non è un albergo a cinque stelle o dovevano pensarci prima sono usate da una parte e dall’altra. Anche se, dice Zerocalcare, “ho l’impressione che il cattivismo sia qualcosa di facile quando non si deve fare i conti con le conseguenze. Se fossero chiamati a essere i boia in prima persona, anche le loro parole cambierebbero”. Il passaggio dal controllo del corpo come attività di vigilanza, centro del sistema carcerario, dice Manconi, diventa a volte manipolazione, violenza, tortura. “Che cosa ci dice il dato che i suicidi in carcere arrivano a essere anche 18 volte in più dei suicidi fuori? E che cosa ci dicono quei 19 bambini da zero a 3 anni per cui il nostro sgangherato welfare non è stato in grado di trovare una soluzione alternativa al tenerli in cella con le madri?”. Le domande come questa sono molte. Michele Rech ricorda che anche il carcere è una istituzione di classe: avere un domicilio, qualcuno che ti dà un lavoro, o non averli, fa la differenza. Manconi risponde con un altro dato che dice tutto: “La recidiva da parte di coloro che hanno espiato la loro pena interamente in cella è del 70%. La recidiva di chi ha avuto accesso a misure alternative, come i domiciliari, del 20%”. Carla Cerati, la rivoluzione culturale contro i manicomi di Giovanna Ferrara Il Manifesto, 8 settembre 2023 Il volume “La classe è morta. Storia di un’evidenza negata”, a cura di Pietro Barbetta (Mimesis) si basa sui ritratti rubati nei manicomi di Colorno, Gorizia e Firenze dalla fotografa e scrittrice. Il volume di Carla Cerati “La classe è morta. Storia di un’evidenza negata”, a cura di Pietro Barbetta (Mimesis, pp. 144, euro 15) riattualizza il portato che esplose nella lunga gestazione del 1968 in ordine alle istituzioni totali che, intanto, il filosofo Foucault andava sistemando in narrazioni nitide, capaci di dar conto di uno stato di cose che trasformava la cura in oppressione. Attorno a questo pensiero Franco Basaglia, e sua moglie, lanciavano la pionieristica impresa contro l’assetto manicomiale e, come una freccia che si conficca nella pietra, riuscivano in una rivoluzione degli istituti psichiatrici e in una rivoluzione culturale che si va erodendo man mano che passano gli anni, secondo anche il giudizio della figlia, Alberta Basaglia. Il libro, composto dai ritratti di Carla Cerati rubati nei manicomi di Colorno, Gorizia e Firenze, dalle riflessioni del critico Jhon Foot, dalla postfazione di Silvia Mazzucchelli, dà conto, ripartendo da allora, del percorso di sgretolamento di ragioni e progetti di liberazione subiti dalla psichiatria, che si dibatte ora tra i dispositivi dei trattamenti sanitari obbligatori e si arena in reparti ospedalieri dove può capitare di morire legati al letto da cinte di contenzione, come fu per il maestro Franco Mastrogiovanni, colpevole declamatore di poesie in un mondo che non ne possiede. La classe è morta spiega quel brocardo basagliano secondo cui le persone si dividono in “quelle che hanno e quelle che non sono”: dalla lettura delle immagini (“èkphrasis o il punto di intensità che scaturisce dalla viseità, giacché ogni espressione del volto è espressione di potere”) si snodò un percorso fino alla legge 180, che sbarrò le porte agli istituti psichiatrici, riassumendo in sé il disgusto di più di una generazione verso l’oppressione dell’autorità, quando essa comincia ad avere per nemico la stessa soggettività, l’individualità non conforme, il non essere passivo. Il paziente perfetto è il paziente annientato, reso docile dai trattamenti-armamentario che ne fustigano la volontà fino a farlo scomparire. Si legge come accompagnamento a una delle foto, che per scelta politica, non ha attributi autoriali, una frase di uno degli operatori: “controllare lucchetti e pazienti”, categorie non differenziabili dentro l’ontologia di “cose”. È anche un ritratto dell’architettura infernale dell’istituzione totale se, accanto agli internati, ci sono sbarre e bagni luridi, se essi vivono tra chiavistelli e squallore, se le loro mani sono nascoste nel nodo della detenzione di stoffa. Di quella poderosa presa di coscienza basagliana, alla quale contribuirono le immagini letterarie di Primo Levi, di Frantz Fanon, di Erving Goffmann, ora raccogliamo i pezzi sparsi, poiché, appunto, “la classe è morta”. O forse perché essa non è mai stata così diffusa, così trasversale, perché forse l’oppressione non ha mai colpito così come ora le radici della vita, così vicine alle radici dell’insorgenza. Da lockdown al carcere, gli anni terribili dei minori grazie a una politica senza visione di Andrea Ruggieri Il Riformista, 8 settembre 2023 La pigrizia di chi davvero fa l’agenda politica in Italia (cioè i giornalisti televisivi) smarca i politici dall’obbligo di confrontarsi sulle riforme serie che possono, quelle si, cambiare la vita dei cittadini e volgerla a facilità, dall’inferno che è oggi. Il Governo (nemmeno la maggioranza, perché il Parlamento è nullo) continua a fare norme sulla scia di quanto propone la cronaca, e anche quando sbaglia (come sull’obbrobrio degli extraprofitti, sul divieto di cellulare ai minori o sulla ‘comunistata’ di mettere un tetto ai prezzi degli aerei che rispondono dicendo: “Benissimo, tutti a terra”) si trova la ridotta di Capalbio targata Pd e i figli di Ruggero di Un Sacco Bello (‘ravanelli, piselli, love love love’) targati Cinquestelle ad andargli dietro: un’assicurazione sulla vita, come mettere un pippone a marcare Leo Messi anche se è in giornata no e sembra più John Fashanu. A un anno dal nuovo Governo non c’è nessuno che paghi un grammo di tasse in meno, nessuno che grazie a tagli della burocrazia delle tristemente famose 70 autorizzazioni possa dire quanto disse a me a Miami un commerciante a margine di un convegno, indicando un negozio sfitto su Lincoln Road: “La differenza tra me e te è che io li posso aprire un negozio domani sera, e incassare dal giorno dopo, tu apri forse tra un anno, e intanto paghi affitto e tasse senza incassare un euro”, e nessuno che possa dire: “Ma sai che c’è? Non ho un ghello, i tassisti non bastano, mi metto a fare il driver di Uber e guadagno”. Io so che non è facile, e non do la croce addosso a nessuno. Ma voglio esortare il Governo a indicare una road map di qui a quattro anni per fare e credere nella creazione di nuove opportunità e valore. I ragazzi ci guardano, e temono di doversene andare dove queste cose si sono fatte e si fanno, dove si pensa al futuro facendo cose serie, e non solo gli opinionisti su fatti di cronaca che illuminano trasmissioni pigramente a caccia di ascolti. Tutti lamentano che i ragazzi sembrano sversare maggiore aggressività, (anche se i reati sono per fortuna in calo), ma nessuno ricorda che sono frutto di chi li cresce e che negli ultimi anni hanno sofferto la reclusione da lockdown e coprifuoco durante cui hanno avuto meno libertà dei cani (quelli potevano uscire per fare pipì, i ragazzi per dissetarsi della loro sete di vita, no). Stiamo vedendo, e vedremo ancora, i frutti di quell’orrore di reclusione che fu peggio del carcere (dove almeno puoi socializzare con altri detenuti, a casa da solo no). Grazie che poi sviluppano dipendenza da social. Perciò, e anche perché capiscano che li guardiamo e aspettiamo protagonisti sani accanto a noi, portiamo la piena imputabilità a 16 anni. La società cambia, e con essa devono farlo le leggi. Oggi la criminalità organizzata sa che se affida la manovalanza ai minorenni non solo li fidelizza, ma anche che se li beccano gli fanno poco più di una carezza. La nostra pancia chiede meno opinione e gossip, e più concretezza e crescita. Migranti in Veneto, dalle scuole all’aeroporto: a Treviso si cercano capannoni di Michela Nicolussi Moro Corriere del Veneto, 8 settembre 2023 Padova sgombera le palestre in vista della ripresa delle lezioni ma gli arrivi continuano e l’accoglienza si complica. Cresce la tensione sul tema migranti, nel Veneto. L’impressione è che lo scollamento tra Comuni e prefetture e tra prefetture e cooperative sociali sia sempre più esasperato: posti non se ne trovano e ci si deve inventare di tutto, spesso senza trovare un accordo. Il caso Padova - Nell’ultimo mese riflettori puntati su Padova: giovedì la Croce Rossa ha smantellato le brandine allestite nelle palestre della scuola media Falconetto, la prima ad accogliere, dal 18 agosto, una quarantina di richiedenti asilo, e del convitto San Benedetto da Norcia, dove ne erano stati sistemati altri 35. Entrambi gli impianti erano stati messi a disposizione dal Comune e i profughi ospitati sono stati trasferiti in parte in appartamenti e strutture di proprietà delle cooperative sociali ubicati in città e provincia e una trentina all’ex aeroporto militare “Allegri”. Nel pomeriggio la Cri, con un’ambulanza, un mezzo adibito alla logistica e diversi volontari, ha trasferito all’interno della parte ormai in disuso dello scalo padovano le brandine tolte alla Falconetto, che così potrà pulire a fondo la palestra prima dell’inizio della scuola. Ora si tratterà di capire per quanto tempo i migranti resteranno nel nuovo centro di accoglienza straordinaria e come si organizzerà la loro permanenza in locali in disuso da anni. La prefettura ha imposto il silenzio assoluto sull’intera operazione. Si sa invece che la terza palestra, offerta dalla Provincia a Selvazzano, saluterà i richiedenti asilo il 15 settembre. Il campo mobile - Nel frattempo tiene banco la richiesta inoltrata alle coop dal prefetto, Francesco Messina, di trovare 600 metri quadri di terreni con allacciamenti alle reti idrica, elettrica e fognaria destinati a diventare un “campo mobile per cento migranti almeno fino al 31 dicembre 2023”. “È una proposta che abbiamo sentito solo dalla prefettura di Padova e che ci ha sorpresi - ammette Ugo Campagnaro, presidente di Confcooperative - mai ipotizzata una soluzione del genere. Le nostre associate terreni ne hanno ma per costruirci immobili a vocazione sociale, da quello che so nessuna vuole cederli per farci un campo di accoglienza profughi. In compenso, se il Comune è riuscito a sgombrare la Falconetto è grazie anche ai posti letto offerti dalle cooperative”. E se il sindaco Sergio Giordani ribadisce di preferire l’accoglienza diffusa, il collega di Tribano, Massimo Cavazzana, ha scritto alla premier Giorgia Meloni, al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, al prefetto Messina e ai presidenti nazionale e regionale dell’Anci, Antonio Decaro e Mario Conte, per denunciare “le difficoltà nella gestione dell’emergenza immigrati”. “A chi arriva servono tempi veloci e regole certe - scrive Cavazzana - è indispensabile dare obiettivi immediati, per evitare che la noia e il non far nulla demotivi queste persone. Sono necessari una rapida identificazione dei migranti, un corso base di lingua italiana mirato all’orientamento al lavoro (abolito invece dal governo, ndr) e attività di volontariato da assegnare loro per integrarli e impedire che cedano a mille tentazioni. Per coloro che resteranno servirà un rapido avvio agli istituti professionali, per tenerli occupati nello studio e poi inserirli nel mercato del lavoro. Sono richiesti operai specializzati in vari settori, dall’industria all’artigianato, dall’edilizia all’agricoltura”. Secondo il sindaco di Tribano bisogna anche “risolvere in via definitiva la situazione di chi non è stato accolto e continua a vagare nell’anonimato nei nostri Comuni”. E chiude: “Abbiamo le mani legate, è auspicabile un protocollo nazionale per i sindaci”. Le altre province - Anche nelle altre province si pensa a soluzioni nuove. “Noi stiamo cercando capannoni adeguati, in quanto a spazi, condizioni e location, nella zona industriale di Treviso - rivela Abdallah Khezraji, vicepresidente della Consulta regionale per l’Immigrazione e responsabile della cooperativa “Hilal”, che si è aggiudicata il bando per la gestione della caserma Serena di Treviso, centro di accoglienza migranti -. Ne stiamo vedendo alcuni, per trovarne uno idoneo. Qui la prefettura non ha previsto campi profughi, ma piuttosto che lasciare persone per strada, meglio le tende. Dopotutto anche i militari dormono in tenda”. A Vicenza il prefetto Salvatore Caccamo ha optato per utilizzare una decina di appartamenti confiscati alla mafia e lo stesso sta facendo il prefetto di Verona, Giovanni Cafagna. Migranti. Ecco i campeggi d’emergenza: “Servono un’area con allacciamenti e fogne” di Michela Nicolussi Moro Corriere del Veneto, 8 settembre 2023 Padova, il prefetto Messina chiede alle coop un’area di 600 metri quadri per una “tendopoli”. “L’ipotesi di una tendopoli non c’è in questo momento”, diceva due giorni fa il sindaco di Padova, Sergio Giordani, parlando dell’emergenza migranti e della difficoltà di trovare altri spazi in cui ospitarli. In effetti più che tendopoli nella città del Santo potrebbero sorgere “campeggi di emergenza” da mantenere almeno fino al 31 dicembre prossimo, stando alle intenzioni del prefetto Francesco Messina. Il quale a fine agosto ha inviato una lettera “ai signori gestori dei centri di accoglienza di cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale”. Insomma, alle cooperative sociali, alle quali si chiede un’”area per il posizionamento di moduli abitativi per l’accoglienza migranti”. Le richieste - “Attesa la necessità di procedere all’ampliamento dei centri di accoglienza, è intendimento di questa prefettura procedere all’individuazione di un’area di circa 600 metri quadri idonea alla realizzazione di un campo mobile, attraverso il posizionamento di moduli abitativi da adibire all’accoglienza di circa 100 cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale, presumibilmente sino al 31 dicembre 2023 - scrive Messina -. A tale riguardo si rappresenta che la superficie dev’essere idonea agli allacciamenti dei moduli abitativi alle reti idrica, fognaria ed elettrica. Con la presente si chiede ai gestori di comunicare entro due giorni dal ricevimento della presente l’eventuale disponibilità della predetta area, che determinerebbe altresì l’ampliamento della capienza dei propri centri”. “Significa che chi dovesse mettere a disposizione della prefettura i terreni per realizzare il campo mobile, un campeggio, dovrebbe poi occuparsi pure della sua gestione, sorveglianza inclusa - spiegano le cooperative -. E tutto sempre per i 27,50 euro a migrante al giorno, più 2,50 euro di pocket money, passati dalla prefettura. Risultato: nessuno ha offerto terreni, tantomeno dotati di allacciamenti”. Gli enti dell’accoglienza - E allora lunedì Messina ha riunito la ventina di enti padovani impegnati nell’accoglienza migranti per rilanciare l’”invito a collaborare”. Ma di campi nemmeno l’ombra. “I moduli abitativi potrebbe invece fornirli la Protezione civile nazionale, che nel Centro polifunzionale di Castelnuovo di Porto, vicino Roma, dispone di centinaia di tende, prefabbricati, container e roulotte - rivelano i gestori -. Se il prefetto è arrivato a chiederci terreni è perché ormai da sei mesi i posti letto in appartamenti e strutture sono esauriti. Ogni tanto se ne liberano tre da una parte e tre da un’altra, ma sono gocce nel mare. E del resto con quello che passano le prefetture è impossibile pagare affitti, spese e bollette di altri alloggi, i costi sono raddoppiati nell’ultimo anno. Per non parlare di cibo, vestiti e tutto l’occorrente a persone che non hanno più niente. Già è un miracolo riuscire a mantenere i centri esistenti, il costo della vita è aumentato mediamente del 10% e in inverno c’è da pagare pure il riscaldamento”. L’altra difficoltà lamentata “è che ci vogliono tre anni per un permesso di soggiorno e tempi lunghi per le foto segnaletiche e le visite mediche”. “I prefetti rispondono che in realtà adesso i soldi che riceviamo per l’accoglienza sono di più, perché è decaduto l’obbligo di organizzare i corsi di italiano - chiudono le coop - ma noi siamo cooperative sociali, è la nostra vocazione. Offriamo pure mediazione culturale, assistenza legale e psicologica”. Il campo mobile - L’idea del “campo mobile” nasce non solo per sistemare una parte dei 150/200 profughi in arrivo ogni settimana nel Veneto, che ne conta ora 8.457 (oltre duemila a Padova), ma anche per liberare dai migranti le palestre del convitto San Benedetto da Norcia, della media Falconetto, entrambi in città, e della media “Cesarotti” di Selvazzano prima dell’inizio della scuola. L’idea del sindaco Giordani di restituirle agli alunni una settimana in anticipo rispetto alla campanella del 13 settembre sembra già sfumata: in tutto la Croce Rossa ha allestito 120 brandine contro le 90 inizialmente previste, perché gli arrivi sono continui. E poi: se la città era insorta per due tende montate dentro la caserma Prandina per qualche settimana nel 2015, cosa succederà con un campeggio? Che tra l’altro arriva dopo anni di campi nomadi, fonte di continue proteste. Droghe, la repressione folle. In cella per fatti di lieve entità di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 settembre 2023 Allontanamento con Daspo da scuole e università per possesso o uso di stupefacenti. Per il piccolo spaccio arresto in flagranza anche per gli adolescenti. Magi: “Faremo appello a Mattarella”. Il fatto che non sia stato il Guardasigilli Carlo Nordio ma il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ad illustrare in conferenza stampa la nuova norma infilata nel decreto Caivano per inasprire le pene in materia di sostanze, prevedendo l’arresto anche per i ragazzi dai 14 anni in caso di reati di lieve entità, e addirittura - incredibilmente - l’allontanamento con Daspo dalle scuole e dalle università anche nel caso di semplice “uso di stupefacenti”, già dice tutto sullo spessore giuridico dell’operazione. Se il ministro di Giustizia ha tentato una specie di giustificazione al provvedimento, spiegando che in ogni caso spetta al tribunale dei minori l’ultima parola sul trasferimento in carcere dell’eventuale adolescente reo, con meno titubanza è stato il titolare del Viminale a rivelare il calibro proibizionista delle nuove norme: il decreto prevede “un inasprimento sanzionatorio per lo spaccio di stupefacenti di lieve entità”, ha detto, che ha “il sostanziale effetto di potenziare la facoltà di arresto in flagranza per i minori” e “di ampliare i casi di applicabilità della pena detentiva in carcere, anche per i minori e per gli adulti”. Non solo. Contrariamente alla sbandierata intenzione di contrastare la dispersione scolastica, Piantedosi ha riferito che il Daspo urbano verrà esteso ai minori sopra i 14 anni e che sarà applicato anche “per l’uso di stupefacenti, con l’allontanamento dalla frequentazione di certi luoghi: sedi universitarie, scuole, locali pubblici, ampliando anche la platea dei reati per il Daspo ricomprendendo reati di semplice detenzione di sostanze stupefacenti”. Insomma, per l’uso o il possesso di cannabis un adolescente rischia di non poter più frequentare la scuola, mentre per lo spaccio in flagranza di reato di pochi grammi di hashish o marijuana è previsto direttamente l’arresto. Da tenere presente che i cosiddetti “fatti di lieve entità” sono sanzionati, secondo il comma 5 dell’art. 73 del T.U. 309/1990, con la reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da 1.032 euro a 10.329 euro. E pensare che alla vigilia del Cdm l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti aveva avvisato la premier Meloni di fare attenzione “quando si parla di minorenni che commettono un reato”, di non usare solo un approccio repressivo e di valorizzare invece la giustizia riparativa. Anche perché, a voler contrastare la violenza di genere minorile - perché è di questo che si tratta, se si intende intervenire sulla spinta dei fatti di cronaca di Caivano - bisognerebbe almeno analizzare, come fa l’Eurispes nell’indagine “La criminalità: tra realtà e percezione”, i dati sui reati commessi in Italia dal 2007 ad oggi. Secondo l’Istituto di studi politici economici e sociali, diversamente dalla flessione costante negli ultimi anni del totale dei delitti commessi dagli adulti, e delle relative segnalazioni, il numero dei minori denunciati e/o arrestati negli ultimi quattro anni è tendenzialmente crescente. Aumentano cioè le azioni di contrasto alla criminalità minorile, anche se la maggior parte dei detenuti negli istituti per minori sconta pene non per omicidi o per violenza sessuale ma per rapine, furti e proprio violazione delle norme sugli stupefacenti. Secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia, nei 17 Ipm italiani erano 436 i ragazzi reclusi al 31 agosto 2023, mentre oltre 19 mila erano in carico dai servizi sociali. Ad attendere “il mare fuori”, ci sono 484 minori o giovani adulti condannati per rapina, 254 per furto, 162 per spaccio e solo 38 per tentato omicidio e 11 per violenza sessuale. Addirittura 68 per oltraggio a pubblico ufficiale. “L’operazione show di Caivano che ha portato al sequestro di 28 grammi di cocaina è stata un fallimento, ma si continua a insistere sulla strada sbagliata”, attacca il segretario di +Europa Riccardo Magi. “Con questo decreto si va addirittura a modificare il testo unico sugli stupefacenti, nonostante la legislazione penale italiana in materia di droghe sia già tra le più repressive d’Europa”. Per Magi “mettere giovani, magari incensurati, e soprattutto minorenni in carcere è il vero mondo al contrario”. Anche sul metodo, aggiunge, “è gravissimo che per decreto si modifichino le norme penali, alla faccia del garantismo”. “Noi - conclude - su questo ci rivolgeremo direttamente al Presidente Mattarella”. “Italo-palestinese detenuto arbitrariamente in Israele”, il caso in Parlamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 settembre 2023 Nel panorama geopolitico internazionale, l’interesse per i diritti umani e le questioni legate alla giustizia assume sempre un’importanza centrale, specialmente quando coinvolge un cittadino con la nazionalità italiana che viene arrestato in modo inusuale all’estero. In questo contesto, emerge il caso della detenzione di Khaled El Qaisi, un cittadino italo- palestinese residente a Roma, il quale è stato soggetto a un arresto che ha suscitato legittime preoccupazioni e richieste di spiegazioni da parte dei suoi famigliari. Queste richieste hanno trovato voce in Parlamento attraverso un’interrogazione presentata Nicola Frantoianni, segretario di Sinistra italiana. A esprimere il loro sdegno e preoccupazione per questa vicenda sono state la madre di Khaled, Lucia Marchetti, e sua moglie, Francesca Antinucci. Il 31 agosto scorso mentre Khaled, che gode della doppia cittadinanza italiana e palestinese, stava attraversando il valico di frontiera di ‘ Allenby’ insieme alla sua famiglia, dopo aver trascorso le vacanze a Betlemme, in Palestina, è stato fermato. Durante il controllo dei bagagli e dei documenti, dopo un’attesa prolungata e angosciante, Khaled è stato ammanettato, lasciando sbalordito il giovane figlio di soli 4 anni, la moglie e tutti coloro che erano presenti, in attesa di poter riprendere il loro viaggio. Le richieste di spiegazioni avanzate dalla moglie sono rimaste senza risposta, e invece, è stata costretta a partire con il figlio verso il territorio giordano, priva di telefono, denaro e senza alcun contatto, in un paese straniero. Solo grazie alla generosità umana di alcune donne palestinesi, la moglie e il bambino sono riusciti a raggiungere l’Ambasciata Italiana nel tardo pomeriggio. Khaled El Qaisi è un traduttore e uno studente di Lingue e Civiltà Orientali presso l’Università La Sapienza di Roma, noto e rispettato per il suo appassionato impegno nella raccolta, divulgazione e traduzione di materiale storico palestinese. Inoltre, è uno dei fondatori del Centro Documentazione Palestinese, un’associazione dedicata a promuovere la cultura palestinese in Italia. Nicola Fratoianni, raccogliendo le istanze dei familiari di Khaled, ha presentato mercoledì scorso un’interrogazione parlamentare al Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, relativa alla detenzione del cittadino italo- palestinese Khaled El Qaisi. Questa interrogazione pone l’attenzione sulle circostanze dell’arresto di El Qaisi da parte delle autorità israeliane e chiede quali urgenti iniziative siano state adottate e intendano essere adottate per garantire i suoi diritti e il rispetto degli standard internazionali. Nell’interrogazione parlamentare Nicola Fratoianni chiede al ministro quali urgenti iniziative siano state adottate e intendano essere adottate a tutela di Khaled El Qaisi, cittadino italiano tratto in arresto all’estero. Le domande specifiche includono le ragioni della custodia di Khaled El Qaisi, la verifica della garanzia dei diritti dell’equo processo, come previsto dall’articolo 111 della Costituzione italiana e dall’art. 6 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo (Cedu), il diritto di difesa e la conformità delle condizioni di detenzione agli standard internazionali, come stabilito dall’art. 27 della Costituzione italiana, l’articolo 3 della Cedu e l’art. 7 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici. L’interrogazione parlamentare presentata dal deputato di Sinistra italiana Nicola Fratoianni solleva importanti questioni riguardo alla detenzione di Khaled El Qaisi e alla tutela dei suoi diritti umani. Questo caso richiama l’attenzione sulla necessità di garantire che i cittadini italiani all’estero siano trattati in modo giusto e conforme agli standard internazionali. La speranza è che questa interrogazione porti alla luce i fatti necessari per garantire una risposta appropriata e una soluzione equa per l’italo-palestinese. Da Chico Forti a Khaled: la difficile via d’uscita per i connazionali reclusi in un Paese straniero di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 settembre 2023 Secondo la Farnesina sono 2.058 italiani reclusi nel mondo, 861 in attesa di giudizio. Secondo l’ultimo dossier, pubblicato nel 2022, della Farnesina sono ben 2.058 gli italiani reclusi nelle carceri del mondo. Di questi, 861 erano in attesa di giudizio, 31 in attesa di estradizione e 1.166 erano stati condannati. Se analizziamo la distribuzione geografica, notiamo che la maggior parte dei detenuti si trova nell’Unione europea, con 1.526 casi registrati, di cui 810 sono condannati, 709 in attesa di giudizio e 7 in attesa di estradizione. La Germania ospita il maggior numero di italiani detenuti con 713 casi, seguita da Francia, Spagna e Belgio con rispettivamente 230, 229 e 157 detenuti italiani. Al di fuori dell’Unione europea, le Americhe ospitano 200 detenuti italiani, con la maggioranza di essi in Brasile (33), Argentina (26), Repubblica Dominicana (24) e negli Stati Uniti (31). In Asia e Oceania, sono presenti 54 detenuti italiani, con la maggior concentrazione in Australia con 27 casi. Mediterraneo e Medio Oriente contano 33 detenuti italiani, di cui la Tunisia e gli Emirati Arabi Uniti sono in testa con 11 e 7 cittadini italiani detenuti. In Africa sub- sahariana, non vi sono cittadini italiani in attesa di giudizio o estradizione nel 2021, ma ci sono 13 italiani condannati, con la maggior parte di loro in Costa d’Avorio, Sud Africa, Senegal, Camerun e Repubblica Democratica del Congo. È interessante ricordare il caso di Chico Forti, un ex produttore televisivo e velista italiano condannato all’ergastolo senza condizionale nel 2000 in Florida, Stati Uniti, per frode, circonvenzione di incapace e concorso in omicidio. Forti ha sempre sostenuto di essere vittima di un errore giudiziario e il suo caso ha attirato l’attenzione internazionale. Il suo caso sembrava sul punto di incontrare una svolta nel 2020, quando l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio parlò di un imminente ritorno in Italia di Forti. Il Governatore della Florida aveva infatti accolto l’istanza di Forti di avvalersi dei benefici previsti dalla Convenzione di Strasburgo e di essere trasferito in Italia. Sono passati tre anni dall’annuncio trionfale di Di Maio, ma ancora nulla di fatto. L’assistenza consolare è un diritto garantito ai cittadini italiani detenuti all’estero, ma la sua efficacia può variare notevolmente da Paese a Paese. Katia Anedda, fondatrice e presidente della Onlus Prigionieri del Silenzio, ha sottolineato la necessità di una riscrittura della Convenzione di Strasburgo del 1983, poiché non è riconosciuta da tutti i Paesi e i tempi di applicazione possono essere troppo lunghi. La sua organizzazione ha anche chiesto l’istituzione di una figura statale o l’estensione del magistrato di collegamento per assistere i detenuti italiani all’estero in modo più efficace. La questione dei cittadini italiani detenuti all’estero è complessa e richiede una valutazione caso per caso. A questo ora si aggiunge il caso dell’italo palestinese recluso in Israele. Il processo infinito a Yunus. “Diritti a rischio in Bangladesh” di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 8 settembre 2023 Il “banchiere dei poveri” teme il carcere. Allarme Onu per tutti gli oppositori. A pochi mesi dalle elezioni, la premier Hasina sta soffocando il dissenso. A 83 anni, dopo una vita passata a combattere l’apartheid finanziario, il “banchiere dei poveri” Muhammad Yunus è ancora in prima linea, costretto a difendersi da quello Stato che gran giovamento ha tratto in questi anni dalla sua invenzione: il microcredito, capace di risvegliare lo spirito di imprenditorialità anche nei mendicanti. Se il Bangladesh in questi anni ha registrato un balzo della partecipazione femminile all’economia e l’uscita di milioni di persone dalla povertà il merito è anche suo. La Grameen Bank da lui fondata nel 1983 ha consentito soprattutto a donne senza mezzi di accedere a finanziamenti per avviare attività imprenditoriali e vivere. Eppure questo economista visionario, acclamato a livello internazionale e insignito del Nobel per la pace, nel 2006, da anni è perseguitato in patria, alle prese con due processi, uno per violazione delle leggi sul lavoro e l’altro per corruzione ed evasione fiscale. Con le elezioni generali alle porte - previste tra dicembre e gennaio - gli attacchi contro di lui si sono moltiplicati: Yunus teme di finire in prigione. La prima ministra Sheikh Hasina, che governa ininterrottamente il Bangladesh dal 2009, nei suoi comizi elettorali parla dell’eroe dello sviluppo come di un personaggio diabolico, lo definisce un “succhiasangue” dei poveri, per i suoi tassi di interesse “esorbitanti”, lo accusa di appropriazione indebita. Lo incolpa anche per la decisione della Banca Mondiale di ritirarsi nel 2012 dal progetto cruciale di un ponte sul fiume Padma, l’affluente principale del Gange in Bangladesh, un caso di corruzione, a suo dire. A riaccendere l’attenzione del mondo sull’ingrato destino dell’economista sono ora le Nazioni Unite. Yunus “è vittima di vessazioni e intimidazioni da quasi un decennio”, ha sottolineato ieri l’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu. Preoccupa la svolta autoritaria in corso e gli sforzi del governo per mettere a tacere i critici e sradicare il dissenso: “Le persecuzioni legali verso i leader della società civile, i difensori dei diritti umani e le altre voci dissenzienti sono un segnale preoccupante per lo spazio civico e democratico del Bangladesh”, ha detto una portavoce, invitando le autorità giudiziarie del Paese “a garantire che siano rispettati i diritti a un giusto processo”. Human Rights Watch parla di attacco “sistematico” all’opposizione. Più di 800 attivisti sono stati arrestati a luglio dopo una manifestazione dell’opposizione accolta con proiettili di gomma e lacrimogeni. L’altro giorno, oltre 160 personalità, tra cui Barack Obama e Bono degli U2, hanno pubblicato una lettera per denunciare le “minacce contro la democrazia” ed esprimere il loro sostegno a Yunus. Hasina da tempo ce l’ha con l’economista dei poveri. Nel 2011 aveva spinto anche per rimuoverlo da capo della Grameen Bank, poi il governo è riuscito a prendere il controllo del board. All’origine di questo accanimento il fatto che Yunus abbia accarezzato l’idea di entrare in politica nel 2007. Non importa che questa prospettiva non si sia mai concretizzata. La premier e le compiacenti polizia e magistratura stanno stringendo la morsa. Alcuni ipotizzano che questo assedio preluda al sequestro pubblico di Grameenphone, il più grande operatore di telefonia mobile del Paese, che Yunus ha contribuito a lanciare. Con l’obiettivo di garantirsi almeno altri 5 anni di potere.