Il sovraffollamento aumenta, e 19 bimbi sono ancora in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 settembre 2023 Il sovraffollamento nelle carceri italiane continua a crescere, con oltre 7.000 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Ma quando consideriamo anche le celle inagibili, il problema diventa ancora più evidente. Un altro aspetto che non possiamo ignorare è la presenza di bambini dietro le sbarre, con ben 19 di loro attualmente detenuti. Secondo i dati aggiornati dal ministero della Giustizia al 31 agosto, la situazione è allarmante. La capienza regolamentare delle carceri è di 51.206 detenuti, ma al momento ce ne sono ben 58.428. Questo rappresenta un aumento di 679 reclusi rispetto al mese precedente e addirittura 2.791 in più rispetto al mese dell’anno scorso. La detenzione è già di per sé una condizione difficile e drammatica sia per i detenuti, che possono subire violenze sia mentali che fisiche, sia per le gravi difficoltà di reinserimento nella società una volta usciti, spesso portando a recidive. Il sovraffollamento aggrava ulteriormente la qualità della vita dei detenuti, costringendoli a condividere spazi ristretti. Inoltre, va notato che il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle Pene o Trattamenti Inumani o Degradanti ha stabilito che ogni detenuto dovrebbe avere a disposizione almeno 4 metri quadri di spazio vitale. A marzo scorso, il Comitato europeo ha lanciato una raccomandazione agli Stati membri affinché affrontino il problema del sovraffollamento penitenziario in modo determinato, fissando un numero massimo di detenuti per istituto penitenziario da rispettare rigorosamente. Ha anche esortato i governi a collaborare con legislatori, giudici, pubblici ministeri e dirigenti carcerari per affrontare il sovraffollamento penitenziario con un’azione concertata. Tuttavia, è importante notare che non possiamo valutare il problema solo in termini numerici assoluti. Ogni carcere ha la sua situazione di sovraffollamento che riguarda ciascuna sezione, e costruire nuove sezioni non è una soluzione efficace. Prendiamo il caso del carcere di Monza, dove il sovraffollamento è diventato insostenibile con 707 detenuti in un’istituzione progettata per ospitarne 411. Questi numeri straordinariamente elevati stanno mettendo a dura prova sia il personale di custodia che i detenuti stessi. Il sindacato Uilpa della Polizia Penitenziaria ha denunciato con forza questa crisi carceraria e ha evidenziato le conseguenze devastanti del sovraffollamento. Nonostante il recente tentativo di affrontare il problema con l’apertura del reparto Luce, il problema persiste. Questo reparto, precedentemente destinato alle detenute donne e rinnovato grazie agli sforzi dei detenuti stessi, ha una capacità teorica di 80- 90 posti, ma al momento ospita solo 45 detenuti. La situazione più critica si trova nelle sezioni progettate per ospitare 50 detenuti, con camere da due posti, dove una media di 13- 17 detenuti condivide lo stesso spazio, dormendo in condizioni inumane su brandine. Il problema, quindi, rimane e sta destando allarme in diverse carceri. Mentre il ministero della Giustizia sta valutando un decreto legge per dare la possibilità di far usufruire ai detenuti solamente due telefonate in più, non si sta facendo abbastanza per garantire misure alternative per coloro che non hanno strumenti o possibilità di dimora, né per garantire un vero supporto all’affettività attraverso una liberalizzazione delle chiamate. Inoltre il Parlamento si rifiuta tuttora di calendarizzare la legge sulla liberazione anticipata speciale presentata da Roberto Giachetti di Italia Viva, su proposta di Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino. Prevede due opzioni. Una che si passi dai 45 giorni (già previsti ogni semestre di pena) a 60 giorni di liberazione anticipata per tutti i detenuti che hanno avuto un buon comportamento in carcere. Prevede inoltre che sia direttamente l’istituto a concederla e non il magistrato di sorveglianza già oberato da molte incombenze. L’altra proposta, di liberazione anticipata “speciale”, è di 75 giorni ogni semestre, soprattutto per compensare i due anni terribili che i detenuti hanno vissuto con il Covid. Ma nulla da fare. Nel frattempo, i bambini dai 0 ai 3 anni rimangono detenuti con le loro madri, mentre i tentativi di riforma non hanno luce. Lo scorso marzo, infatti, in Commissione Giustizia della Camera, il Pd ha dovuto ritirare il progetto Serracchiani (che riprendeva la proposta dell’ex deputato Siani, frutto di un lavoro con le associazioni del settore), dal momento che Fratelli d’Italia aveva inserito degli emendamenti destinati a peggiorare il testo. Tutto è rimasto quindi fermo, mentre il malessere e la tensione cresce. In aumento i detenuti minorenni. Antigone: “Il 100% degli italiani vengono dalle periferie” ansa.it, 6 settembre 2023 I numeri parlano chiaro: in carcere, al 15 marzo 2023, sono 380 i minori detenuti in Italia, di solo 12 sono ragazze. Dati, fotografati dal rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzioni che confermano l’aumento dei minori in carcere, dopo il calo dovuto alla pandemia da Covid. Nel febbraio 2020, i ragazzi negli Ipm, gli istituti di pensa minorile, erano 374. Nel mese di maggio di quello stesso anno erano 280.I minori in Ipm sono 180, mentre sono 200 i giovani adulti tra i diciotto e i venticinque anni che hanno commesso il reato da minorenni. I ragazzi stranieri sono il 46,8% del totale dei ragazzi detenuti, ovvero 178. Tra loro, le ragazze sono 5. Nel 18,9% dei casi, i minori sono finiti negli Ipm per reati contro la persona, considerata la tipologia di reato generalmente più seria. Mentre addirittura il 61,2% di essi ha riguardato reati contro il patrimonio. Per quanto riguarda i minori stranieri, nel 2022 sono stati il 22% dei ragazzi complessivamente avuti in carico dai servizi della giustizia minorile, sono stati invece il 38,7% dei collocamenti in comunità, fino ad arrivare a essere il 51,2% degli ingressi in carcere. Gli Ipm attivi in Italia sono attualmente sedici (da quando, nell’aprile 2022, fu chiuso quello di Treviso a seguito di disordini messi in atto da ragazzi, la cui riapertura annunciata per la fine di febbraio non è avvenuta). La grandezza delle carceri varia attualmente dalle 54 presenze di Nisida alle 5 di Pontremoli, unico Ipm interamente femminile d’Italia. A Roma troviamo 48 ragazzi, a Torino 34, ad Airola 31, a Milano 27. Dall’altro lato troviamo 8 ragazzi a Cagliari, 9 a Caltanissetta, 11 a Catanzaro, 13 a Firenze. I minori negli istituti vengono dalle periferie Il 100% dei ragazzi italiani detenuti negli istituti di pena minorile arrivano dalle periferie, dal sottoproletariato dell’Italia meridionale. Lo dice a LaPresse Alessio Scandurra di Antigone. “Se non vengono dalle periferie sono stranieri - afferma - la premessa è che tanti ragazzi che oggi sono in Imp non lo saranno tra qualche mese, è un sistema di passaggio, oppure è luogo di punizione quando non rispetti le regole della Comunità. In quel caso non sei in Ipm, sei in punizione”. “È difficile cambiare le proprie abitudini, ha i suoi stili di vita, le sue cose, il quartiere gli ha insegnato certe cose - dice ancora - Ci sono quartieri dove non c’è molto altro a parte la strada. Quindi quando si viene da un contesto simile, è difficile immaginare che si arrivi in Ipm e si cambi”. “Quando vieni da un determinato posto, un istituto di pena deve diventare più forte di quello stesso contesto da cui vieni”, prosegue. “A volte ci si riesce, altre no - conclude - ma molti sono ragazzi particolari che hanno storie estreme, gli altri in Ipm non ci arrivano, si trovano soluzioni alternative”. Polizia penitenziaria: ecco i protocolli operativi di Marco Belli gnewsonline.it, 6 settembre 2023 Per la prima volta il personale di Polizia Penitenziaria che presta servizio nelle strutture dell’Amministrazione potrà contare su regole certe che permetteranno di affrontare in modo più efficace e sicuro una serie di situazioni e scenari che possono verificarsi sia negli istituti sia in occasione di traduzioni e piantonamenti delle persone detenute. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha varato ieri i Protocolli operativi per il personale del Corpo. E oggi sono stati presentati nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Chigi dal sottosegretario alla Giustizia con delega alla polizia penitenziaria, Andrea Delmastro Delle Vedove, insieme al capo del Dap Giovanni Russo e alla vice capo Lina Di Domenico. “Un risultato storico. Regole di ingaggio chiare e precise per le donne e gli uomini della polizia penitenziaria, che in tal modo potranno affrontare gli eventi critici sapendo fin dove potersi spingere per garantire ordine, legalità e sicurezza negli istituti penitenziari. Alla redazione del Prontuario - ha sottolineato il sottosegretario Delmastro Delle Vedove - hanno contribuito direttamente alcuni comandanti di istituti indicati dalle diverse sigle sindacali, che voglio ringraziare per il loro contegno collaborativo”. “È una operazione di legalità e trasparenza”, ha affermato Giovanni Russo. “Perché il carcere è anche il carcere dei diritti: quelli della popolazione detenuta, ma anche quelli di chi deve mantenere ordine e sicurezza all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari”. Il capo Dap ha inoltre sottolineato che “quello che mancava da decenni e che veniva invocato a giusta ragione dalle sigle sindacali, dalla polizia penitenziaria, dagli agenti in trincea, purtroppo inascoltati per decenni, era proprio un quadro chiaro di regole. E in sei mesi, con un lavoro corale che ha coinvolto l’intero staff del Dipartimento, abbiamo dato risposta a questa esigenza”. I protocolli raccolgono infatti le indicazioni dei due gruppi di lavoro appositamente costituiti dal capo del Dap rispettivamente il 1° marzo e il 29 maggio 2023, allo scopo di definire tecniche operative e metodologiche per la gestione delle operazioni di Polizia Penitenziaria. Il manuale contiene una serie di indicazioni precettive relative a specifiche regole di comportamento da adottarsi di fronte ai differenti eventi critici. Sono inoltre previste indicazioni precise riferite alla responsabilità dei diversi soggetti chiamati a intervenire, e il richiamo alle norme di riferimento e alla giurisprudenza in materia. Le schede tecniche del prontuario, invece, colorate secondo la gravità della situazione prevista, sono classificate da un codice identificativo specifico per ogni evento critico, lo stesso adottato dal sistema informativo in uso alla sala Situazioni del Dap. Per elaborare regole chiare che potessero evitare ai poliziotti penitenziari di incorrere in eccessi o in situazioni che possono creare dubbi sul loro operato, ha spiegato la vice capo del Dipartimento Lina Di Domenico, “si è fatta una attenta valutazione, anche perché sono stati richiamati prioritariamente i principi che regolano l’uso della forza. Siamo partiti dalle norme europee, abbiamo letto attentamente la giurisprudenza in merito e quindi di base è stata prevista nello stato di necessità, cioè dove non è altrimenti possibile, e in base al principio di proporzionalità”. I protocolli, immediatamente operativi, sono stati trasmessi ieri dal Dipartimento: il prontuario ha raggiunto i provveditorati regionali dai quali sarà inviato a direttori e comandanti di reparto degli istituti penitenziari del territorio; il manuale invece è stato recapitato alla direzione generale della Formazione, che lo adotterà nei corsi di formazione e aggiornamento che riguarderanno tutto il personale del Corpo. Delmastro: “Ecco i nuovi protocolli per la Polizia penitenziaria. Ma tranquilli, non è uno scudo penale” di Francesco De Felice Il Dubbio, 6 settembre 2023 È un Andrea Delmastro soddisfatto quello che in conferenza stampa a palazzo Chigi ha presentato i nuovi Protocolli operativi della polizia penitenziaria. Al fianco del sottosegretario alla Giustizia c’erano il capo del Dal e la suo vice, Giovanni Russo e Lina Di Domenico. Delmastro ha parlato di “un risultato storico, erano anni che la polizia penitenziaria chiedeva fin dove fosse possibile spingersi per garantire l’ordine, la sicurezza e la legalità nella gestione delle criticità che quotidianamente affliggono il carcere e in particolare degli eventi critici. Da oggi finalmente queste regole di ingaggio ci sono e sono chiare e precise”. Il sottosegretario ha spiegato che sono stati “presentati a tutte le organizzazioni sindacali di categoria, ottenendone il consenso”. Chiarendo anche che “si tratta non di uno “scudo penale”, che la penitenziaria non ci aveva chiesto, ma di un vero e proprio manuale operativo scritto da vari comandanti di istituto, indicati dagli stessi sindacati: operativo da subito, dovrà essere integrato naturalmente da un adeguato percorso di formazione. Limitatamente ai casi indispensabili, il concetto ispiratore è quello del minor gradiente possibile di uso della forza finalizzato al miglior risultato possibile. Va ripristinata l’idea che l’unica gerarchia possibile all’interno degli istituti è quella di chi indossa la divisa e non della criminalità”. Per il capo del Dap, Giovanni Russo, si tratta di “un’operazione di legalità e trasparenza. Di legalità, perché il Corpo da anni chiedeva inascoltato delle norme cui attenersi partendo dal presupposto che il carcere deve essere il luogo dei diritti dei detenuti ma anche di chi è chiamato a mantenerne la sicurezza. Di trasparenza, perché il nuovo manuale nasce alla luce del sole e sarà adottato in tutte le scuole di formazione. Ieri lo abbiamo consegnato al Garante dei detenuti, chiedendone la collaborazione. “L’uso della forza - ha spiegato Lina Di Domenico - previsto solo laddove indispensabile e deve rispettare criteri di proporzionalità. L’addestramento alle tecniche MGA (Metodo globale di autodifesa) richiederà tempo ma più sarà alto il livello di preparazione degli agenti più saranno garantiti i diritti dei detenuti”. Soddisfatto, come tutti i suoi colleghi, Massimiliano Vespia, segretario generale della Fns Cisl per “la concretezza con il quale il sottosegretario Delmastro ha portato avanti questa situazione, la stessa che riteniamo continuerà a mettere sulle altre questioni che stiamo affrontando nei diversi incontri” Delmastro ha anche annunciato: “84 milioni di euro per 8 nuovi padiglioni detentivi. I refrain quando si parla di sovraffollamento sono due: un bel “svuotacarceri”, e non è il nostro, o l’edilizia penitenziaria, la nostra risposta”. Il sottosegretario ha parlato anche di detenuti stranieri e tossicodipendenti: “Un terzo dei detenuti sono stranieri e un terzo tossicodipendenti. È necessario incrementare i trattati bilaterali finalizzati a ottenere che i primi possano scontare la pena nei Paesi di origine anche in assenza del loro consenso e lavorare ad un intervento legislativo che dia ai secondi la possibilità di scontare la pena presso strutture di disintossicazione”. Lo stallo delle riforme della giustizia (e il litigio tra meloniani e forzisti) di Ermes Antonucci Il Foglio, 6 settembre 2023 L’esame delle proposte di riforma su abuso d’ufficio, prescrizione e separazione delle carriere resta in stand-by. Intanto Fratelli d’Italia e Forza Italia si azzuffano per farsi belli agli occhi dell’opinione pubblica. Sono ripresi, sia al Senato che alla Camera, i lavori sui provvedimenti di riforma della giustizia. Ripresi, ma sostanzialmente fermi. La contraddizione è ben presto spiegata: la commissione Giustizia del Senato ieri ha svolto una serie di audizioni sul disegno di legge presentato dal ministro Carlo Nordio lo scorso giugno, incentrato sull’abolizione dell’abuso d’ufficio. Peccato che le audizioni siano state sostanzialmente la ripetizione di quelle già effettuate a fine maggio alla Camera, dove era già in discussione una proposta di legge sull’argomento (il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, infatti è tornato a bocciare la riforma, così come il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Giuseppe Busia). A coordinare i lavori, inoltre, stavolta è la senatrice - e presidente della commissione - Giulia Bongiorno, notoriamente contraria all’abolizione tout court del reato di abuso d’ufficio, prevista dal ddl elaborato da Nordio, che dunque rischia grosso. Alla commissione Giustizia della Camera è invece ripresa l’attività con la riunione dell’ufficio di presidenza. Qui il dibattito, che entrerà nel vivo oggi, è incentrato sulla riforma della prescrizione, oggetto di ben tre proposte di legge (una di Enrico Costa, di Azione, una a prima firma di Pietro Pittalis, di Forza Italia, e una a prima firma di Ciro Maschio, di Fratelli d’Italia). Tutte puntano, con alcune differenze, a superare la riforma Bonafede, che ha previsto l’interruzione del decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Nonostante l’ampia condivisione dei partiti, il retroscena è piuttosto preoccupante: le forze di maggioranza più impegnate nel dibattito, Forza Italia e Fratelli d’Italia, si stanno infatti azzuffando attorno alla scelta del testo base su cui proseguire l’esame alla Camera. Come riferiscono fonti parlamentari, il contrasto non riguarda il contenuto delle proposte, tutte più o meno simili e comunque emendabili in futuro, ma la volontà di attribuirsi la paternità del provvedimento. Insomma, è tutta una questione di bandierine: come accaduto quasi sempre fino a ora, FdI avrebbe voluto porre la bandierina anche sulla riforma della prescrizione, adottando come testo base la propria proposta di legge. Stavolta, però, i meloniani hanno ricevuto la dura opposizione di FI, da sempre impegnata a difendere l’istituto della prescrizione e a denunciare i danni causati dalla riforma grillina della prescrizione. Tra i due partiti è venuta a emergere una sorta di sfida, piuttosto imbarazzante, visto che la scelta del testo base costituisce solo il primo passo dell’esame del provvedimento, per giunta spendibile con l’opinione pubblica soltanto in termini molto superficiali. Ancora è da capire come questo scontro sarà superato, tuttavia è indicativo dell’esistenza di alcune tensioni all’interno della maggioranza attorno ad alcune riforme chiave della giustizia. Un altro fronte in cui il dibattito si appresta a riprendere, ma anche qui a rimanere fermo, è quello sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Oggi alla commissione Affari costituzionali della Camera, dove sono incardinate varie proposte di iniziativa parlamentare, saranno svolte alcune audizioni informali, tra cui quella (di nuovo) di Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm. Su questo tema, tuttavia, nei giorni scorsi il ministro Nordio ha ribadito che sarà il governo ad avanzare, più in là nel tempo, una propria proposta di riforma costituzionale. Anche queste audizioni, quindi, rischiano di rivelarsi quasi del tutto inutili. Toghe sulle barricate, legali col governo. Al via l’iter per separare le carriere di Giulia Merlo Il Domani, 6 settembre 2023 Alla Camera comincia l’iter per separare le carriere, al Senato la cancellazione dell’abuso d’ufficio. La magistratura è pronta alle barricate, ma su entrambe le riforme pesano le incognite politiche. Muro contro muro tra magistratura e avvocatura, convergenze trasversali al governo. Riprendono così i lavori in parlamento e così anche i tanti cantieri aperti nel settore giustizia. Due i dossier aperti: in commissione Giustizia al Senato procede il ddl Nordio, il disegno di legge che modifica alcuni aspetti di procedura penale ma soprattutto punta ad abrogare il reato di abuso d’ufficio; in commissione Affari costituzionali alla Camera, invece, prende il via con audizioni informali la riforma costituzionale di separazione delle carriere delle toghe. In entrambe le commissioni si sono già delineati gli equilibri di categoria, ma soprattutto è emerso il fatto che per la giustizia si sta aprendo una stagione più che complicata di contrapposizione tra le toghe e il ministero guidato da Carlo Nordio, in un momento in cui il governo è già sotto stress. Toghe contro avvocati - Su entrambi i testi di riforma, infatti, l’Anm ha già espresso posizione contraria. Il cosiddetto ddl Nordio era stato bocciato già al momento del suo licenziamento dal cdm, con prese di posizione dure da parte della magistratura associata soprattutto contro l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, che secondo le toghe rischia di violare i trattati europei. Ieri in audizione, però, il presidente Giuseppe Santalucia ha ribadito che le nuove norme rischiano di creare “incertezza”, sono destinate a “non reggere sul piano organizzativo” nella parte in cui introducono il giudice collegiale sulle misure cautelari, oltre che di “incorrere in una possibile censura di incostituzionalità” non solo sull’abuso d’ufficio, ma anche per il restringimento del potere di impugnazione delle sentenze d’appello da parte del pm. Giudizio opposto invece da parte degli avvocati, con il presidente del Cnf Francesco Greco che ha espresso una valutazione sostanzialmente positiva e di condivisione con l’intervento del governo. Soprattutto sulla cancellazione dell’abuso d’ufficio, Greco ha ricordato le statistiche sull’esiguo numero condanne per questo reato rispetto al numero di indagini, “che mostra i limiti della fattispecie per come si configura oggi”. Contrapposizione identica si verificherà anche oggi, quando alla Camera si svolgeranno le audizioni in materia di separazione delle carriere. Il tema è oggetto di un dibattito annoso e ora torna attuale: Santalucia ripeterà quanto detto negli ultimi mesi e quindi il rischio che la separazione porti ad una “sottoposizione del pm al controllo politico” e un rischio di ridimensionamento del principio di autonomia della magistratura. Per gli avvocati, invece, “il giusto processo non si raggiungerà mai fino a quando nel processo ci saranno due colleghi e un estraneo”, ha anticipato Greco. Uno scontro di principio insolubile, che vede compatta la magistratura. Santalucia - toga progressista di Area - si è espresso in contrapposizione chiara con il governo e anche la corrente moderata di Magistratura indipendente, che di solito tende ad una linea meno aggressiva di scontro politico, in un comunicato ha definito la separazione delle carriere un modo per “assoggettare al potere politico tutti i magistrati” ma soprattutto per “indebolire il Csm”. Posizioni che potrebbero trovare ulteriore sfogo questo fine settimana, quando l’Anm si riunirà nel suo “parlamentino”. Nel frattempo, però, continua a raccogliere adesioni la lettera firmata da oltre 500 magistrati a riposo (tra cui Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo, Francesco Greco e Armando Spataro), i quali hanno anche promosso un incontro per discuterne pubblicamente. Anche i magistrati in servizio sono pronti a pubblicare un documento analogo, che potrebbe diventare presto argomento di discussione tra le correnti e che rischia di riaccendere la polemica con il centrodestra, che già ha considerato una indebita invasione di campo la lettera dei magistrati in pensione al ministro Nordio. Il governo titubante - Il dibattito giuridico, tuttavia, rischia di rimanere un puro esercizio retorico adatto a rinfocolare scontri, meno di produrre riforme. La separazione delle carriere, infatti, è una riforma costituzionale che prevede un iter aggravato di approvazione con due passaggi alle camere. Molto laboriosa dunque, ma soprattutto fuori dall’agenda delle emergenze del ministero della Giustizia, che - come ha ricordato Nordio al forum Ambrosetti - ha come priorità la velocizzazione della giustizia, soprattutto di quella civile, nell’ottica di incontrare gli obiettivi del Pnrr. Senza contare che la convergenza politica sulla carta è solida, in concreto rischia di essere piena di se e di ma. L’iniziativa vede una fortissima convergenza al centro di Forza Italia, Italia Viva e Azione, con adesione anche della Lega (tutti hanno presentato autonoma proposta). Fratelli d’Italia si è sempre detta favorevole, ma l’incognita vera sarà la volontà politica di palazzo Chigi di aprire un fronte di polemica macroscopico con le toghe per un tema slegato dalle impellenze concrete del settore. Le stesse perplessità riguardano anche la cancellazione dell’abuso d’ufficio: Forza Italia la perora con forza ed è intenzionata a spalleggiare Nordio perchè il testo approvato in cdm non venga snaturato. Certo è che il rischio di incostituzionalità rispetto ai trattati europei è una incognita esistente, con il rischio di uno stop del Quirinale. Anche in questo caso in maggioranza non esisterebbe una contrarietà politica nel merito, ma molti scrupoli concreti ad infilarsi in un nuovo ginepraio sia nei rapporti con il Colle che con Bruxelles. Il tutto, durante la stesura della legge di Bilancio. Per questo la sensazione in maggioranza è che ci sia il rischio di un rallentamento tattico dei due iter, che solo per FI sarebbero una priorità. Intercettazioni, Csm e abuso d’ufficio: si cambia. Allarme di toghe e Anac di Felice Manti Il Giornale, 6 settembre 2023 Dopo le audizioni in commissione oggi si apre l’iter tra Camera e Senato. “Dove eravamo rimasti?”. Enzo Tortora, la vittima più illustre della malagiustizia che miete innocenti senza che nessuno paghi, quando tornò in Rai dopo la gogna provò con queste parole a ricucire lo strappo con i suoi telespettatori. Come se nulla fosse. E così è ripartito lo scontro sulla riforma della giustizia: avvocati da una parte, magistrati dall’altra. Forcaioli contro garantisti. Nessuna sintesi, nessuna possibile ricucitura. Nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera e del Senato si annuncia in salita il cammino della riforma ordinaria della giustizia (relatori il vicepresidente azzurro Pietro Pittalis e la deputata Sara Kelany di Fdi), si annuncia durissimo - come sul muro di Huy alla Freccia Vallone - l’arrivo della riforma costituzionale, con la separazione delle carriere che ricompatta (per motivi diversi, ma tant’è) una magistratura dilaniata. Persino la corrente moderata di Mi teme le insidie “dietro l’ingannevole etichetta della separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri”. Per il segretario di Magistratura indipendente Angelo Piraino l’eventuale approvazione del disegno di legge nel suo testo attuale “condurrebbe a un estremo indebolimento del Csm” e rischierebbe di “assoggettare al potere politico tutti i magistrati” con l’abolizione dell’articolo 107, terzo comma, che vieta di prevedere gerarchie tra i magistrati. In commissione Senato si cerca la sintesi sulle migliaia di intercettazioni (oltre 95mila nel 2021), dopo la stretta invocata dal Guardasigilli Carlo Nordio e l’apertura ai trojan per alcune ipotesi di criminalità grave, voluta dalla premier Giorgia Meloni, nell’ultimo Consiglio dei ministri prima della pausa estiva, su indicazione del Procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, per arginare potenziali effetti dirompenti (ma non retroattivi) su processi in corso dopo la sentenza 34895/2022 della Cassazione sulla nozione di “criminalità organizzata”. Si va verso quattro server “interdistrettuali” e centralizzati per la loro conservazione (dopo le storture denunciate proprio in commissione, tra attacchi hacker, privacy a rischio e possibile contaminazione delle prove), ma resta il problema del filtro preliminare per evitare che finiscano sui giornali fatti e persone estranee alle indagini, sebbene per chi violerebbe questi divieti secondo le Camere penali le sanzioni sarebbero “inadeguate”. “Ma così si altera un equilibrio già raggiunto tra diritto alla riservatezza nel processo e all’informazione che è quello della rilevanza. Se l’intercettazione è trascritta nella perizia perché mai non dovrebbe poter essere pubblicata?”, si è chiesto ieri il leader Anm Giuseppe Santalucia in commissione Giustizia al Senato, a cui ha risposto Enrico Costa di Azione, contrario alla giustizia mediatica: “Perché interessa tanto ai magistrati che le intercettazioni vengano pubblicate? Rafforzano le loro inchieste? Pronunciano sentenze anticipate? La luce dei riflettori?”. Forza Italia non molla sull’abuso d’ufficio, come ha ribadito ieri Pierantonio Zanettin (“serve l’abolizione totale”), anche Nordio è convinto che sia un reato troppo vago, rimaneggiato più volte (l’ultima nel 2020) e con pochissime condanne. L’Anm è divisa, per Franco Coppi “toglierlo vorrà dire che i Pm procederanno per corruzione”, i sindaci fanno spallucce ma sotto sotto tifano perché venga cancellato, al netto dei distinguo sulle “modifiche necessarie” del presidente Anci Antonio Decaro, mentre M5s e Pd suonano la grancassa: così si favoriscono i corrotti perché è un reato spia per la Pubblica amministrazione, come sostiene anche il presidente dell’Anac Giuseppe Busia che parla di potenziali “gravi vuoti normativi” che ci allontanano dall’Europa. Come se la malagiustizia non fosse la mamma di tutte le bacchettate che la Corte europea dei diritti dell’uomo ci infligge. Dl Intercettazioni, Forza Italia in trincea: “È incostituzionale” di Simona Musco Il Dubbio, 6 settembre 2023 Nota dal “legislativo” degli azzurri: illegittimo estendere le nuove norme antimafia ai vecchi reati. Fratelli d’Italia in Senato sposa l’addio all’abuso d’ufficio. Rischia di essere incostituzionale la scelta del governo di estendere il raggio delle intercettazioni per consentire l’utilizzo degli strumenti previsti per la lotta alla mafia anche in assenza della contestazione del reato associativo, scelta concepita dall’Esecutivo per “rimediare” a una sentenza della Cassazione che delimitava la “mafiosità” degli illeciti. A certificare il “contrasto” con la Carta è una bozza tecnica predisposta dall’ufficio legislativo di Forza Italia, scheda ad uso interno che servirà come base per la presentazione di emendamenti al testo governativo. Un fatto che non sorprende, dati i malumori generati da quel provvedimento tra gli azzurri, tanto da spingere molti a chiedersi, all’indomani del via libera in Consiglio dei ministri, dove fosse finito il garantismo “millantato” dal guardasigilli Carlo Nordio. Il cortocircuito, secondo il legislativo degli azzurri, è palese: il testo è stato infatti presentato come norma di interpretazione autentica, ma “per come formulato (...) non appare tale”. Non solo perché “manca la premessa che introduce questo tipo di norme”, ma anche per la disposizione transitoria che prevede l’applicabilità delle nuove disposizioni anche ai procedimenti già in corso. Un’aggiunta che ha senso solo se si tratta di una nuova disposizione e che, in quanto tale, varrebbe solo a far data dalla sua approvazione. La deroga pone dunque un problema di costituzionalità: se la norma ha carattere innovativo, allora “le intercettazioni illegittimamente disposte prima della modifica normativa non possono adesso essere considerate legittime e utilizzabili a fini di prova”. E l’intervento del governo “non può valere come una sanatoria per intercettazioni illegali nel momento in cui sono state disposte (a voler accedere alla tesi della Prima Sezione della Cassazione, che sembra confermata, indirettamente quanto paradossalmente, dal decreto-legge)”, si osserva nella scheda. “Se la norma transitoria intende dire questo, è di più che dubbia legittimità costituzionale perché gli articoli 15 Cost. e 8 Cedu consentono limitazioni alla riservatezza nei limiti e con le garanzie stabilite dalla legge; una legge che, evidentemente, deve preesistere rispetto al momento in cui quelle limitazioni sono disposte”. La scheda sembra confermare la “scollatura” ideale di FI dal resto della maggioranza quando di mezzo ci sono le garanzie. Una distanza che sembrava confermata anche dai dubbi avanzati nelle scorse settimane da Fratelli d’Italia, incerta circa l’opportunità, in termini elettorali, di andare fino in fondo sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Ma a sorpresa ieri, nella commissione Giustizia del Senato, che ha ripreso l’esame del ddl penale dopo la pausa estiva, il meloniano Sergio Rastrelli non ha lasciato spazio a incertezze interpretative, sostenendo la necessità di abolire il reato, così come previsto dal testo di Nordio, per il quale sono partite le audizioni. “Nel corso del tempo - ha affermato - tutti gli interventi riformatori hanno cercato di ovviare all’impresa impossibile di dare tassatività e chiarezza alla norma”, senza riuscirci. Da qui la domanda rivolta al capo dell’Anac Giuseppe Busia, che in audizione ha sostenuto la necessità di tipizzare la norma per garantire maggiore tassatività e il pericolo, con la sua abolizione, di creare vuoti normativi e scostamenti dai vincoli internazionali. “Ma non ritiene che già tutta la casistica dei reati contro la Pa riesca a coprire tutto lo scenario - ha chiesto di rimando Rastrelli -, considerando l’aggravante comune che prevede un aggravio di pena ogni volta che si agisce con abuso di potere o in violazione dei doveri in capo al pubblico ufficiale? Inoltre c’è una serie di organismi, Anac compresa, creati col fine di anticipare il controllo dell’operato della Pa. Tutto questo sforzo non è tale da rispondere agli obblighi imposti dalla Convenzione Onu di Merida?”. Per Busia il pericolo però c’è: “Per il giustissimo obiettivo di offrire certezza normativa”, ha sottolineato, si potrebbe ottenere l’effetto di “creare incertezze ulteriori”, portando a una “riespansione di altri reati”. Motivo per cui sarebbe preferibile prevedere, ad esempio, “che la mera violazione di principi generali o regole procedurali non costituisca abuso d’ufficio”. Ma, soprattutto, “occorre che scriviamo dal lato amministrativo il limite entro cui si esercita la discrezionalità amministrativa”. Concetti ribaditi anche dal presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, secondo cui “una volta eliminato l’abuso d’ufficio, il pm dovrà necessariamente verificare se questo tratto di condotta faccia riferimento a fattispecie più gravi. L’abolizione non gioverà a ridurre le indagini in un sistema in cui vige l’obbligatorietà dell’azione penale”. In commissione è stato audito anche il segretario Ucpi Eriberto Rosso, critico sulla scelta di “non mettere mano alla disciplina delle intercettazioni, secondo un bilanciamento dei contrastanti interessi, peraltro di rilevanza costituzionale, in gioco”. La sfida sulla giustizia riparte oggi anche in commissione alla Camera, dove inizieranno le audizioni in tema di separazione delle carriere, con la presenza, tra gli altri, del presidente del Cnf Francesco Greco. Un tema che ha suscitato la reazione anche di Magistratura indipendente, la corrente ritenuta più vicina al governo: “Segnaleremo in tutte le sedi competenti il tentativo in atto di alterare l’equilibrio tra i poteri e di ledere l’indipendenza e l’autonomia della magistratura”, si legge in una nota firmata dal presidente e dal segretario del gruppo, Stefano Buccini e Angelo Piraino. “Vedrete, sul ddl Nordio non ci sarà un dietrofront: l’abuso d’ufficio cadrà” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 6 settembre 2023 Il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia del Senato Pierantonio Zanettin: “A Palazzo Madama il centrodestra è unito. Giulia Bongiorno sosterrà senza riserve la riforma del Ministro”. “Della relatrice del ddl voluto da Nordio mi fido totalmente. Lavoriamo molto bene insieme, i rapporti personali sono ottimi, oltre a essere improntati a stima reciproca”, afferma Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia al Senato, gettando così acqua sul fuoco riguardo alle polemiche che nelle ultime ore hanno sfiorato Giulia Bongiorno, al vertice dell’organismo di Palazzo Madama e, appunto, relatrice del primo provvedimento targato Nordio. La senatrice leghista è “sospettata” di voler annacquare il testo del guardasigilli, non essendo particolarmente convinta, ad esempio, dell’abolizione tout-court del reato di abuso d’ufficio. Senatore Zanettin, nessun problema dunque con gli alleati di governo e, in particolare, con la presidente Buongiorno, esponente di primo piano della Lega e molto ascoltata da Matteo Salvini? Nel modo più assoluto. Si tratta di polemiche strumentali. Non ci sono contrasti. Io sono certo, anzi, che la presidente Buongiorno interpreterà il proprio ruolo con la massima lealtà e si farà garante degli accordi di maggioranza sulla giustizia. Le prossime elezioni Europee a giugno rischiano, però, di favorire una concorrenza ‘ giustizialista’ a destra e di rallentare quindi il percorso delle riforme di stampo garantista? Diciamo che più che le elezioni Europee del 2024, il tema ha riguardato l’attività del governo fino ad oggi in questo ambito. Mi spiego: in questi primi mesi sono prevalse all’interno dell’esecutivo spinte che definirei non propriamente garantiste, penso ad esempio al decreto ‘ anti rave’, uno dei primi atti del governo. Confido che ci sia presto una inversione di rotta, a cominciare proprio dal ddl Nordio sul penale. Il ministro della Giustizia, intervenendo domenica al meeting di Cernobbio, non ha fatto affermazioni molto rassicuranti sul punto. Ha dichiarato che a lui ‘ piacerebbe’ abrogare l’abuso d’ufficio, il che implicitamente conferma che su questo aspetto c’è una forte spinta a riconvertire la norma in un’ulteriore limitazione delle condotte penalmente rilevanti di cui all’articolo 323. Una soluzione sarebbe quella di restringerle ai casi di mancata astensione dell’amministratore, ma senza cancellare del tutto la fattispecie... Guardi, la posizione di Forza Italia è chiara ed è quella della sua totale abolizione. Il reato è stato modificato nel 2020 e non ha risolto i problemi. Sempre a Cernobbio, Nordio ha ribadito che separare le carriere in magistratura non è una priorità. E questo nonostante la riforma istituzionale del premierato potrebbe tranquillamente partire dal Senato senza impedire che alla commissione Affari costituzionali della Camera si vada avanti con il testo sulla separazione attualmente... Non ho il sentore che Nordio voglia fare una retromarcia su questo aspetto, essendo da sempre convito che la separazione delle carriere sia una delle priorità. Il tema in questo momento, mi permetta, è però un altro. Quale? Riguarda la possibilità di realizzare gli obiettivi del Pnrr in tema di giustizia, e quindi la diminuzione dell’arretrato, sia nel civile che nel penale, nei tempi fissati. A che punto siamo? Mi pare chiaro che gli obiettivi sottoscritti all’epoca con la Commissione europea siano irraggiungibili nelle tempistiche previste. Adesso non possiamo scaricare la responsabilità di ciò su Nordio che ha ereditato questa situazione. Dobbiamo cercare una soluzione quanto prima, visto che dal raggiungimento degli obiettivi sulla giustizia dipende in parte l’erogazione dei fondi Pnrr. Mano tesa al ministro? Ovvio. Nordio deve poter contare su Forza Italia che sarà sempre al suo fianco nelle battaglie garantiste. Come, appunto, quella sull’abolizione abuso d’ufficio e della separazione delle carriere in magistratura. Che tempi si possono prevedere? Fare previsioni ora è azzardato. Speriamo di procedere celermente. L’importante è studiare bene il testo e gli eventuali emendamenti. C’è da considerare che da metà ottobre l’Aula sarà impegnata nella sessione di Bilancio. Difficilmente ci potrà essere una approvazione prima della fine dell’anno. Cosa si aspetta dalle opposizioni? Spero in una leale e proficua collaborazione. Tutti i sindaci del Pd, ad iniziare da quello di Bari Antonio Decaro che è anche il presidente dell’Anci, sono per l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Mi aspetto allora da parte dei colleghi del Pd in commissione un confronto trasparente e corretto e non un ostruzionismo fine a se stesso, assolutamente controproducente quando si tratta di realizzare interventi in una materia delicata come la giustizia. “Assolto perché non sono mafioso, ma lo Stato non mi restituisce i beni” di Annalisa Costanzo Il Dubbio, 6 settembre 2023 Vive con soli 324 euro al mese in un garage, senza acqua e luce. Lunedì scorso la protesta a Reggio Calabria: l’ex ristoratore si è arrampicato sulla gru nel cantiere del Palazzo di Giustizia. Assolto perché il “fatto non sussiste”. Francesco Gregorio Quattrone ristoratore di Reggio Calabria non fa parte di alcuna associazione di stampo mafioso - lo ha sentenziato un tribunale -, eppure la confisca di tutti i suoi beni è diventata definitiva. “Mi hanno lasciato con 372 euro al mese in tasca - spiega il 66 enne - dicendo: “Da adesso vivrete con questi soldi”“. E con quei soldi Quattrone, conosciuto dai suoi clienti e amici come Ioli, vive in una stanza senza acqua calda e senza luce. È un uomo disperato. “Sono stato depredato dalla giustizia italiana di tutti i sacrifici fatti in 40 anni di lavoro, miei e della mia famiglia - racconta al Dubbio -. Chiedo al procuratore della Repubblica e a tutte le istituzioni di prendere provvedimenti verso questo sistema che punisce l’innocente”. Chiede giustizia e rimarca: “Il mio caso è paradossale, non mi fermerò mai fin quando la giustizia non opererà correttamente”. È pronto a tutto e lunedì mattina, l’ormai ex ristoratore ha inscenato una forte protesta, arrampicandosi sulla gru nel cantiere del Palazzo di Giustizia, proprio davanti al Cedir, struttura dove hanno sede gli uffici della procura di Reggio Calabria. Con sé l’uomo ha portato tutta la sua disperazione, un cellulare e un manifesto: “Giustizia giusta la cerco e la voglio. Quando l’ingiustizia diventa legge, ribellarsi è un dovere al diritto”, ha scritto a caratteri cubitali col colore nero, il colore che simboleggia il dolore, il lutto. “Con la confisca viene sostanzialmente decretata la sua morte civile”, rimarca l’avvocato Baldassarre Lauria, che da alcune settimane è stato chiamato per affiancare l’avvocata Maria Domenica Vazzana. A Baldassarre è stato affidato il compito di portare il caso dell’imprenditore reggino - e quindi l’Italia - direttamente davanti alla Cedu. Proprietario del locale “Arca di Joli”, Quattrone nel 1995 viene coinvolto nel procedimento “Olimpia” ma viene prosciolto. Nel 2010 finisce nell’inchiesta “Entourage”: per la Dda reggina è un presunto affiliato a una cosca di ‘ndrangheta della città in riva allo Stretto. “Vengo arrestato e dopo 15 giorni rilasciato per assenza di gravi indizi. Nel 2012 - grida Quattrone dalla gru dove lunedì ha passato gran parte della giornata - scatta il sequestro dei beni: ristorante, pizzerie, albergo, tutti i terreni, i conti. Nel 2020 si conclude il processo per associazione. Vengo assolto perché il fatto non sussiste, assoluzione richiesta dal pubblico ministero, inappellabile e io dico, ok, va bene, avete sbagliato fino adesso, ma ora restituitemi i beni. Nel 2015, però, in Cassazione la confisca diventa definitiva: sostanzialmente mi viene detto che tutti i beni sono ormai dello Stato italiano. Ma se io non sono un mafioso perché se li deve tenere lo Stato?”. È questa la domanda che Quattrone fa in continuazione. Due settimane fa la corte di Appello di Catanzaro ha respinto l’istanza di revocazione della misura, non ritenendo nuovi elementi di prova sufficienti le agende ritrovare dalla difesa di Quattrone, nelle quali lo stesso, negli anni, ha scritto “gli appuntamenti di ricevimenti e feste che ho ospitato nel mio ristorante, lavorando 24 ore al giorno con mia moglie, i miei figli e i miei generi”. “Le misure di prevenzione hanno un doppio binario che consente alla prevenzione di giungere a un giudizio diverso rispetto a quello del processo penale”, spiega l’avvocato Lauria, che qualche tempo fa ha portato davanti alla Cedu il caso della famiglia “Cavallotti”, una storia simile a quella di Quattrone. La Cedu ha dichiarato ricevibile il ricorso e allo stesso tempo ha posto al governo italiano una serie di questioni che toccano i punti nevralgici del sistema di prevenzione. Il governo guidato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni dovrà fornire risposte entro il 13 novembre 2023. “L’Italia - ricorda il legale - è l’unico Paese occidentale che ha un sistema giuridico di questa natura ossia che consente la confisca senza la condanna. Negli altri Paesi non è possibile giungere a una confisca del patrimonio senza che vi sia un accertamento sulla responsabilità, quello italiano è un unicum in tutta Europa. Il signor Quattrone è una vittima di questo sistema: è un soggetto che non ha alcun precedente, nessun giudizio di colpevolezza a suo carico e tuttavia vive in un garage senza acqua e luce perché gli hanno confiscato tutto”. Nei prossimi giorni i legali Lauria e Vazzana depositeranno alla corte di Appello di Reggio Calabria - l’autorità che ha formulato il giudizio di pericolosità sociale - una istanza di revoca per evidenziare una contraddizione giuridica con la sentenza di assoluzione. Dopodiché i difensori di Quattrone andranno direttamente alla Corte europea per un’azione di responsabilità nei confronti dello Stato italiano. Intanto Quattrone è rimasto solo, lo Stato ha i suoi beni e vive con soli 324 euro al mese di pensione di malattia. Ma con orgoglio sottolinea: “Vado a vendere fiori di zucca, qualche pezzo di pane, l’olio e quel che trovo, vivo così... in modo onesto e dignitoso”. Eri in cella? Niente abbuono sulla prima casa: paga l’Imu! di Maria Luigia Prudenzi* Il Dubbio, 6 settembre 2023 L’amara sorpresa di un ex recluso: respinti tutti i ricorsi, la permanenza in carcere non dà accesso all’agevolazione sull’abitazione di proprietà. Vorrei parteciparvi un caso che ha interessato un mio assistito e che, pur essendo un caso limite e credo raro, ma, altresì, una delle tante storture del nostro sistema giudiziario, ritengo solleciti riflessioni ed interrogativi. Molto in sintesi, il cliente, dopo aver scontato un periodo piuttosto consistente di reclusione in carcere in esecuzione di una sentenza definitiva di condanna, ha avuto l’amara sorpresa di dover far fronte a diversi anni arretrati di IMU e TASI relativi alla abitazione di sua proprietà, i cui avvisi di accertamento il Comune ha provveduto a notificargli appena tornato in libertà. L’Ente non ha riconosciuto esenzioni/riduzioni di imposta ed ha proceduto all’accertamento sul presupposto che la casa del mio assistito non poteva qualificarsi “abitazione principale” risultando egli nel periodo oggetto di accertamento risiedere... altrove! In sostanza, difettava il requisito della residenza o abituale dimora nell’immobile, richiesto dall’articolo 13, comma II, del DL n. 201/2011 per beneficiare della agevolazione tributaria. Nessuno spazio per la conciliazione/mediazione. Gli avvisi sono stati impugnati ed i relativi giudizi tributari si sono conclusi con altrettante pronunce di rigetto dei ricorsi. Senza dilungarmi in altri dettagli e in commenti, credo che questo breve quadro basti a suscitare in chi legge - come in me ha suscitato - sconcerto e un fremito di indignazione per la sostanziale iniquità della imposizione. Il caso non è di facile soluzione giuridica e mi ha costretto a ricercare e studiare affannosamente, studio non facilitato dal buio normativo e dalla assenza di precedenti. Nelle mie ricerche, ho trovato solo una piccola eco di cronaca di un precedente relativo al caso di un detenuto in un carcere del Nord Italia, ma non conosco l’esito che ha avuto. Credo che sia necessario un intervento del Legislatore per porre rimedio a una inaccettabile iniquità. *Avvocato Reggio Emilia. “Torture in carcere”, agenti al Tribunale del Riesame di Nicola Bonafini Il Resto del Carlino, 6 settembre 2023 Tre agenti della Polizia penitenziaria si sono difesi dall’accusa di tortura nei confronti di un detenuto, sostenendo che si tratti al massimo di abuso di mezzi di correzione. La difesa nega le sofferenze fisiche e psichiche necessarie per configurare il reato. “La fattispecie di tortura non è integrata. Al massimo si è trattato di abuso di mezzi di correzione”. È quanto hanno sostenuto ieri, davanti al Tribunale del Riesame, gli avvocati di tre agenti della polizia penitenziaria finiti sott’inchiesta, insieme ad altri undici colleghi, per le condotte verso un uomo allora detenuto nel carcere della Pulce: secondo l’accusa, il 7 aprile, è stato incappucciato, preso a calci e pugni e denudato. I loro difensori - Liborio Cataliotti ne assiste due, Carmen Pisanello il terzo - hanno anche chiesto la revoca delle misure disposte dal gip Luca Ramponi: la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio per un anno e l’obbligo di firma quotidiano. I legali hanno sostenuto che dai certificati medici non emerge prova delle sofferenze fisiche e psichiche necessarie per configurare il reato di tortura: a loro dire, non sono state constatate ferite all’occhio o al costato. E hanno riferito che il detenuto ha anche rifiutato di sottoporsi a una visita psichiatrica che potesse certificare un eventuale trauma. L’avvocato Pisanello ha poi sostenuto che al suo assistito era stato prospettato di dover intervenire verso un detenuto che aveva ricevuto ben 32 rapporti disciplinari in 22 mesi in tutti gli istituti penitenziari che lo avevano ospitato, per di più alto e corpulento, nonché agitato perché non voleva sottostare all’isolamento. “Ci sono forse stati eccessi, ma in relazione a un comando a cui il mio assistito doveva adempiere e in una situazione di paura”, ha sostenuto l’avvocato Pisanello. Ci si è poi soffermati su un’altra circostanza: “Quando il detenuto fu lasciato da solo in cella, si tolse qualcosa dalla bocca. Secondo la Procura era un pezzo di ceramica; per noi invece era un frammento di una lametta o di una bombola spray, con il quale lui si autolesionò un braccio per otto volte, procurandosi tagli altrimenti impossibili se non con un oggetto affilato come il metallo”. La difesa ha anche negato, alla luce delle videoriprese, che in quel frangente i poliziotti avessero un’espressione di piacere sadico. I giudici si sono riservati la decisione. Biella. Spacciavano in carcere: arrestate 56 persone tra agenti e detenuti di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 settembre 2023 89 indagati, 56 misure cautelari. La procura: “In quell’istituto non ci spiegavamo l’aumento della tossicodipendenza negli ultimi anni”. È il carcere della “grigliata” notturna organizzata il 27 luglio scorso dal sindacato di polizia penitenziaria Sinappe a cui partecipò, insieme ad alcuni esponenti locali della destra, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove (ma non la Garante dei detenuti territoriale, Sonia Caronni, mai invitata). Il Pd denunciò che quella notte tra gli invitati all’insolita festicciola che si svolse all’interno della Casa circondariale di Biella c’erano anche “alcuni agenti coinvolti nelle indagini su presunti illeciti nel carcere”, ma i dem si riferivano con ogni probabilità ad un’altra inchiesta, quella delle violenze su tre detenuti stranieri su cui indaga la procura di Torino. Ieri invece sono finiti in carcere, o ai domiciliari o comunque sottoposti a diverse misure cautelari, 56 persone delle 89 indagate dalla procura biellese per l’introduzione e la circolazione interna all’istituto di droghe, telefonini, sim e altro ancora. Hashish, marijuana, cocaina, crack, eroina, oppioidi e sostanze anabolizzanti venivano spacciate, secondo l’accusa, talmente liberamente nelle celle e negli spazi comuni da far meritare all’istituto di viale dei Tigli l’appellativo di “Paese dei balocchi”. Dove, secondo alcuni testimoni dell’inchiesta aperta nel 2019, “ci puoi trovare quello che vuoi”. Ieri sono finite in carcere 33 persone, detenuti ed ex detenuti, agli arresti domiciliari 12 famigliari di ristretti e 3 agenti di polizia penitenziaria, mentre per altri tre poliziotti è stata chiesta la sospensione, da stabilire però in seguito all’interrogatorio di garanzia. L’inchiesta nasce da un illecito di smercio di tabacchi, ma la svolta arriva il 20 dicembre scorso con l’arresto di un poliziotto penitenziario. Secondo quanto riferito in conferenza stampa dalla procuratrice capo di Biella Teresa Angela Camelio, dal questore Ciccimarra, dai pm Paola Ranieri e Sarah Cacciaguerra, nell’aprile 2021 era stata già effettuata una perquisizione all’interno del carcere ma, avrebbe scoperto poi la Squadra mobile cui è affidata l’indagine, i detenuti dediti allo spaccio di sostanze erano stati avvisati da alcuni poliziotti penitenziari quattro giorni prima, in modo da far sparire ogni traccia. Quel giorno però qualcosa nel muro di omertà - che per una volta univa invece di dividere carcerati e guardie - cominciò a sgretolarsi. Sempre secondo l’ipotesi accusatoria, ogni settimana entravano nel carcere di Biella 150/200 pastiglie di Subotez, un farmaco utilizzato per trattare la dipendenza da oppioidi, panetti da un chilo di hashish e telefoni cellulari. Nascosti in confezioni di torroncini, tavolette di cioccolato e quant’altro. All’interno della casa circondariale lo spaccio avveniva a prezzi di un certo rilievo: i detenuti potevano pagare anche 1.000-1.500 euro per uno smartphone, 200-500 euro per un microtelefono. Una rete criminale dentro e fuori le mura carcerarie si assicurava poi, con minacce e violenze, il pagamento sicuro. All’interno c’erano anche - è la ricostruzione della procura di Biella - i cosiddetti “cavalli blu”, gli agenti penitenziari coinvolti che percepivano compensi tra i 600 e i 1500 euro ogni volta che un “pacco” con la mercanzia veniva introdotto in carcere. La Squadra mobile avrebbe raccolto numerose testimonianze sulla complessa dinamica dei traffici, che sarebbero stati addirittura organizzati in “piazze”, a seconda dei piani, dei reparti e delle sezioni. Stupisce però, se così fosse realmente, il contenuto numero di agenti coinvolti nell’inchiesta. Spiega Camelio: “Purtroppo la situazione, che diversi anni fa mi venne presentata da alcuni rappresentanti della polizia penitenziaria nel corso di un colloquio in procura, non solo è immutata, ma è implosa, dando origine a un vero e proprio caos”. Soprattutto, ha spiegato la procuratrice capo, in questi ultimi anni nel carcere di Biella c’è stato un aumento della tossicodipendenza: “Durante le indagini più volte è sorto l’interrogativo di come fosse possibile che molti detenuti abbiano rischiato l’overdose, ovvero siano stati presi in carico dal Serd successivamente all’accesso in istituto senza che prima fossero soggetti tossicodipendenti”. La notizia ha colpito il sottosegretario Delmastro: “Se il quadro indiziario sarà confermato saremo assolutamente inflessibili - ha assicurato - È una cosa odiosa e intollerabile che chi indossa la divisa commetta determinati reati. La polizia non può mai confondersi con l’Antistato”. Parole che sarebbe necessario ascoltare anche quando l’accusa è di tortura, o anche solo di violenza sulle persone detenute. L’Aquila. Matteo Messina Denaro trasferito al reparto 41bis dell’ospedale Ansa.it, 6 settembre 2023 Il boss di Castelvetrano era stato operato e poi trasferito nel reparto di Rianimazione dell’ospedale “San Salvatore” dell’Aquila lo scorso 6 agosto. Massimo riserbo dei medici sul suo stato di salute. Matteo Messina Denaro dopo esser stato operato e poi trasferito nel reparto di Rianimazione dell’ospedale “San Salvatore” dell’Aquila lo scorso 6 agosto, ha lasciato il reparto per passare in quello destinato ai detenuti ristretti al regime del 41bis sempre all’interno del nosocomio abruzzese. Al momento resta stretto il riserbo, da parte dei medici, sullo stato di salute del boss di Castelvetrano. Il ricovero d’urgenza per l’ex super latitante, a causa di un blocco intestinale, era avvenuto a poche ore di distanza dall’appello lanciato dai suoi avvocati, Lorenza Guttadauro e Alessandro Cerella, circa l’aggravamento del quadro clinico del detenuto che si alimentava solo con integratori e succhi di frutta. Situazione, questa, che li ha portati a presentare al Tribunale della Libertà, un’istanza di sospensione della misura cautelare con quella del ricovero in ospedale dove poter ricevere una migliore assistenza. Messina Denaro, affetto da un tumore, è dal giorno del suo arresto in cura all’interno del penitenziario dove è stata allestita per lui una stanza adatta a svolgere la chemioterapia. A luglio aveva subito un piccolo intervento per problemi urologici ed era però rientrato presto nell’istituto di pena. Napoli. “Sparo dunque sono”. Quel distacco dalla realtà di Antonio Mattone Il Mattino, 6 settembre 2023 Potrà mai cambiare Napoli mentre ruba la vita ai giovani che non hanno nulla che fare con la malavita, come Giogiò? Sarà possibile rigenerare le periferie degradate, quelle dell’orrore dell’infanzia violata? Dobbiamo innanzitutto riscontrare che gli episodi di violenza coinvolgono sempre di più i minori. Si è abbassata l’età di coloro che sono i protagonisti sulla scena del crimine. Vittime e carnefici. E sono aumentate le risse soprattutto nelle notti maledette della movida napoletana. Le pagine di cronaca di questi mesi sono piene di aggressioni verso ragazzi che restano sfregiati nel corpo e nell’anima per uno sguardo di troppo, per aver urtato un piede o un motorino, in ogni caso per motivi davvero insignificanti. Sempre più spesso gli autori dei crimini vengono individuati con più facilità, grazie al sistema diffuso di videosorveglianza. Tuttavia, colpisce che questo non scoraggia affatto, come se si fosse salvaguardati da una sorta di onnipotenza che potesse garantire impunità. E poi quando succede l’irreparabile, si è subito pronti a minimizzare, fino a dire che non ci si rende conto di premere il grilletto su un ragazzo inerme, come è successo contro il giovane musicista. Un atteggiamento superficiale che è rivelatore di un distacco dalla realtà, ma anche della crisi del senso comune di umanità di giovani che trovano la loro identità nella pratica aggressiva. “Sparo dunque sono”, sembrano dire con i loro comportamenti feroci. E’ come se nella loro testa ci fosse un conflitto mentale latente che può scoppiare casualmente. Una scintilla che riesce a generare un cortocircuito omicida. Un malessere che ha tante sfaccettature e radici complesse e che parte dall’aria che si respira nell’ambiente familiare e nel contesto sociale che si frequenta, dove un percorso di devianza comincia per lo più dall’abbandono scolastico. La scuola è vista come un’inutile perdita di tempo perché non se ne percepisce nessun interesse né una convenienza sociale o economica. C’è un grande problema educativo, ma anche di senso di irrilevanza da combattere e d’identità da trasmettere. Questi adolescenti, un po’ narcisisti e un po’ abbandonati a sé stessi, che hanno riferimenti solo col mondo criminale degli adulti, cercano di uscire dall’anonimato e dalla rabbia in cui sono cresciuti affermandosi con la violenza. Con i social che fanno da palcoscenico e certe fiction che forniscono modelli poco edificanti e in ogni caso lontani dalla vita di tutti i giorni. Alcune settimane fa, nel carcere di Poggioreale, un giovanissimo finito per la prima volta in galera, con fare arrogante ha chiesto agli altri carcerati dove tenessero il cellulare. Alla risposta negativa ha reagito infilando due dita negli occhi di un ignaro compagno di cella. Come ha scritto il direttore de Core sulle pagine di questo giornale, servirebbe un esercito di educatori, scuole e palestre. Ma anche programmi per contrastare la dispersione scolastica. Oggi siamo in grado di sapere quali sono i ragazzi inadempienti, ma mancano progetti strutturati di recupero. E mancano i fondi per realizzarli. Cambiare questa realtà è un processo di lunghissimo periodo, ammesso che ci sia qualcuno che veramente voglia farlo. Un disegno che richiederebbe tante risorse ma soprattutto una visione, strategie da condividere con senso di responsabilità e collaborazione istituzionale. I politici sono diventati come i capponi di Renzo, di manzoniana memoria. In questi giorni abbiamo assistito a dichiarazioni altisonanti e scandalizzate, ma possibile che solo ora si accorgono delle case popolari occupate e gestite dai clan camorristici? Possibile che le continue denunce di don Maurizio Patriciello sul degrado del Parco Verde siano state voce di uno che grida nel deserto? Possibile che non si vedano le occupazioni di intere strade vicine anche a siti istituzionali come Questura e Regione dove la camorra lucra affari da milioni di euro con i parcheggiatori abusivi senza che nessuno muova un dito? Quella che appare visibile è la faccia della malavita piuttosto di quella dello Stato. La buona volontà della politica non si misura sulle dichiarazioni ma sui fatti. Solo dando risposte concrete, si potrà cambiare questa terra, e onorare la memoria di Giovanbattista, di Francesco Pio e di tutti gli altri a cui non abbiamo saputo offrire il futuro che sognavano. Napoli. La bonifica di Caivano è uno show in divisa di Mario Di Vito Il Manifesto, 6 settembre 2023 Telecamere e 400 agenti mobilitati per 3 denunce e pochi sequestri. Intanto il governo prepara una nuova stretta sulla sicurezza. Il blitz scattato dopo gli annunci di Meloni. Si va verso il Daspo urbano per i giovanissimi. L’annunciata bonifica di Caivano si è risolta in uno show ad uso e consumo delle telecamere del Tg1, allertato in anticipo del blitz al Parco Verde della periferia di Napoli finita di recente al centro delle cronache per la vicenda dello stupro di due ragazzine di 10 e 12 anni. Tra polizia, carabinieri e finanzieri sono stati mobilitati 400 uomini, ma il risultato dell’operazione è, a voler essere gentili, modesto: tre persone denunciate per contrabbando di tabacchi e 44mila euro sequestrati a due soggetti. Rivenuti inoltre 408 grammi di hascisc, 375 grammi di marijuana, 28 grammi di cocaina, 5 bilancini di precisioni, 3 armi bianche (una mazza da baseball, un coltello a serramanico e un arco), una pistola replica, alcune munizioni e un “altarino” della camorra. Sono stati inoltre identificate 141 persone e controllati 110 veicoli, dieci dei quali sono stati sequestrati (nove perché senza assicurazione e uno perché risultati rubato). Ritirate infine sette patenti e altre quattro automobili sono state sospese dalla circolazione. Numeri e circostanze che sarebbero finiti in un trafiletto delle cronache locali se non fosse che, nei giorni scorsi, la premier Meloni in persona si era recata a Caivano promettendo una grande risposta dello Stato alla situazione di degrado. Il Viminale, in una nota, specifica che si è trattato di un’operazione ad “alto impatto”, ovvero una di quelle che prevedono posti di blocco e perquisizioni a tappeto, e per questo si parla di “una forte risposta delle istituzioni pubbliche alle gravi situazioni emerse nella cronaca recente”. La passerella in divisa, però, è scattata alcune ore dopo il ferimento di un uomo a colpi d’arma da fuoco: il fatto è avvenuto proprio a Caivano intorno alle 22 di lunedì sera, con i carabinieri che sono intervenuti e hanno trovato per strada sette bossoli e rilevato tracce di sangue sull’asfalto. Nel frattempo, all’ospedale di Frattamaggiore, era stato ricoverato un 43enne al quale avevano sparato alle gambe. Intanto, a Roma, il governo lavora a una nuova stretta sul fronte della sicurezza. Forse già al consiglio dei ministri di domani - o più probabilmente a quello della settimana prossima - si discuterà un provvedimento diviso in tre: misure per velocizzare i rimpatri dei migranti con specifici reati alle spalle, misure per aumentare le pene a chi aggredisce le forze dell’ordine e misure di contrasto della criminalità minorile. Su quest’ultimo punto stanno lavorando insieme i ministeri della Giustizia e degli Interni. Si parla di un Daspo urbano espressamente dedicato alla fascia d’età compresa tra i 14 e i 18 anni, cioè della possibilità da parte dei questori di vietare in via preventiva ai ragazzi l’ingresso in determinate zone urbane per un periodo che va dai 12 mesi ai 2 anni. In tutto questo la senatrice leghista Giulia Bongiorno, attraverso un’intervista a Libero, ha anche lanciato l’idea di rivedere il principio di non imputabilità per i minori di 14 anni. Genova. L’accoglienza è di “casa”, apre il Centro Bethel chiesaluterana.it, 6 settembre 2023 Aprirà le porte ufficialmente e fisicamente l’8 settembre prossimo alle 15,00 a Genova il Centro di Accoglienza Bethel. L’iniziativa di cui, insieme alle Chiese Battiste, Valdesi e Libere, la Comunità Luterana di Genova è capofila, ha ricevuto il supporto delle altre Comunità Luterane in Italia attraverso una attività di “Matching Grant”. Da anni le Chiese Evangeliche genovesi, e la Comunità Luterana in particolare, operano nella presa in carico dei detenuti e delle detenute. Un impegno che si traduce nell’accompagnamento in percorsi di reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. Un lavoro diaconale, quindi, che svolge in rete e che intende il reinserimento come parte della cura del prossimo che soffre. Negli anni, perseguendo l’obiettivo della completa riabilitazione e reinserimento sociale degli ex detenuti, ci si è resi conto della crescente difficoltà a reperire soluzioni abitative temporanee per i permessi premio. Il primo passo verso il processo di risocializzazione e reinserimento sociale. Allo stesso modo i detenuti con un contratto di lavoro o di pensione hanno difficoltà ad usufruire di misure alternativa alla detenzione mancando un alloggio dove poter essere accolti ed ospitati. Un problema che risulta tanto più evidente tra i detenuti stranieri: il periodo di detenzione, infatti, provocando la perdita di ogni domicilio pregresso rende necessaria la ricerca di alloggio in affitto. Ricerca che richiede un periodo di transizione che rischia di risultare problematico durante la detenzione carceraria. L’acquisizione di un appartamento in conduzione, consentirà quindi di esercitare l’accoglienza come soluzione temporanea abitativa, il Centro Bethel appunto. L’abitazione, inoltre, prevede un uso contemporaneo plurale, monitorato dai volontari dell’Associazione “Amici di Zaccheo”, per garantire il rispetto delle regole ed un adeguato turn-over. Le persone che potranno usufruire dei locali a disposizione verranno seguite con colloqui regolari di accompagnamento, in vista di una loro completa riabilitazione e reinserimento nella società. Il progetto di inserimento della persona seguirà le procedure concordate con educatori ed assistenti sociali dell’UDEPE (Ufficio esecuzione penale esterna di concerto con la Magistratura di Sorveglianza), e con i Servizi Sociali del Comune. Arezzo. Una storia di riscatto. Detenuto-giardiniere fa l’orto con gli ospiti della Casa Pia di Lucia Bigozzi La Nazione, 6 settembre 2023 Oggi è il suo turno settimanale all’istituto: il lavoro con Michele e Nedo tra insalata e fragole. Dopo la pandemia riparte la convenzione con il carcere per progetti di reinserimento. Lui è la mente, l’altro il braccio. Michele ha 42 anni e una vita in salita: sta in una carrozzina ma non ha perso la speranza. È così anche per l’uomo che lo aiuta a tirar su l’orto. Lui sta in carcere ma cerca il suo riscatto partecipando al percorso di reinserimento previsto dalla convenzione tra la Casa Pia e l’istituto penitenziario aretino. Dirimpettai per logistica, ora anche per condivisione del progetto che riprende slancio dopo lo stop imposto dalla pandemia. Mario (nome di fantasia) provvede a tenere in ordine gli spazi verdi della casa che ospita un’ottantina di persone, non tutte anziane. Dalla cura del giardino, alla potatura degli alberi fino alla gestione dell’orto. Una piccola “enclave” dove Michele e Mario piantano fragole, cavolfiori seguendo il calendario delle stagioni, ma nelle operazioni sono coinvolti anche gli altri ospiti dell’istituto Fossombroni, curiosi dell’impegno tra piantine, zappe e palette. Qui ciascuno ha i compiti precisi e tutto si tiene in un ordine spontaneo, fatto di buon senso, saggezza e umanità. Un equilibrio armonico, dentro al quale c’è anche Nedo, 59 anni che ha il compito di annaffiare una zona dell’orto. Mario fa il turno alla Casa Pia tre giorni a settimana nell’arco di due ore, ma è quanto basta per ricostruire e coltivare il seme della speranza, proprio lì, con Michele, Nedo e gli altri ospiti. “La convenzione con il carcere è stata rinnovata questa estate e ha trovato seguito con la gioia e la soddisfazione di poter offrire un’occasione di vicinanza, responsabilizzazione, coinvolgimento sociale e valorizzazione professionale per un nuovo detenuto, con un percorso di reale reinserimento, arricchito anche dai legami umani e collaborativi instaurati con alcuni nostri ospiti”, spiega Debora Testi, presidente della Casa Pia. Mario si dà da fare e garantisce la pulizia degli spazi verdi; una opportunità sancita dalla legge che per i detenuti prevede la possibilità di rendersi utili alla comunità, a titolo volontario e gratuito. In questo ambito c’è anche il servizio in enti di assistenza sociale e dunque la casa di riposo. La sperimentazione, avviata prima della pandemia, ha dato buoni frutti e adesso si traduce in un progetto che guarda in prospettiva. Antonio Rauti, consigliere con delega al sociale aggiunge: “La Casa Pia è una struttura aperta al il territorio e questa convenzione testimonia, il legame, la sensibilità e l’attenzione verso i nostri ‘vicini’ della casa circondariale”. Il direttore Stefano Rossi richiama la funzione sociale del progetto: “Tra gli ottanta ospiti ci sono diciotto persone autosufficienti con fragilità. Vivono in miniappartamenti che affacciano sul giardino e tutti osservano con curiosità l’attività nell’orto”. Oggi Mario sarà al lavoro insieme a Michele e Nedo: è il suo turno di presenza alla Casa Pia. Il programma prevede la messa a dimora delle piantine di insalata. E Nedo sa già che dovrà annaffiarle. Tra sorrisi e speranza. “The Green Border”, il confine dell’umano e l’Europa a due facce di Cristina Piccino Il Manifesto, 6 settembre 2023 Venezia 80. Il film di Agnieszka Holland, in concorso, accende i riflettori sulla brutalità dei respingimenti. La persecuzione contro i migranti tra Polonia e Bielorussia, il rischio della solidarietà, la zona rossa. The Green Border, Il confine verde, è quello tra la Bielorussia e la Polonia, chilometri infiniti di alberi, di natura, di animali che separano l’Europa (e la Nato) dalla zona di influenza russa,e che oggi sono uno dei luoghi d’accesso possibile per chi cerca di entrare in Europa “clandestinamente” ma viene invece stritolato dalle politiche europee e da quelle dei singoli governi. Da una parte la Polonia cattolica e razzista - come tanti altri paesi europei - dall’altra la Bielorussia di Lukashenko che ha illuso chi arrivava da zone devastate dai conflitti quali Siria e Afghanistan di un territorio safe-gate Giunti lì in volo potevano facilmente attraversare il confine che li avrebbe portati in Europa, fortezza e al tempo stesso luogo fragile di contraddizioni sempre più profonde. Da qui parte Agnieszka Holland per il suo nuovo film, in concorso, The Green Border, che parla appunto della Polonia sempre più a destra di Duda, dell’Europa indifferente e complice che “paga” i regimi autoritari purché tengano fuori i migranti dai confini - ce ne è una lunga lista da Erdogan al presidente tunisino Saied, ultimo in ordine di apparizione - delle strategie dei governi che usano le persone nelle loro prove di forza senza preoccuparsi delle loro vite. Intrappolati tra Polonia e Bielorussia, e nei loro regolamenti di conti - che rimandano alla Russia di Putin e alle alleanze Nato - gli esseri umani di ogni età vengono picchiati, derubati, stuprati, gettati come fossero sacchi di spazzatura da una parte all’altra, e muoiono di fame, di sete, di freddo, risucchiati dalle paludi della imponente foresta. Dove non c’è copertura di rete, così non si può comunicare, i medici non sono ammessi, e anche i media sono tenuti lontani dal governo polacco. La chiamano “la zona di emergenza” chi vi viene sorpreso finisce in galera e rischia di restarci a lungo. Holland sembra guardare al suo film sul nazismo, Europa Europa (1990) per costruire una narrazione del presente che interroga a partire da quanto accade ai migranti diverse parti della società del suo Paese - e che potrebbero essere di qualsiasi altro luogo europeo. Bianco e nero, una scelta che quest’anno ritorna in diversi film della Mostra, diviso in capitoli il film comincia con una famiglia siriana padre, madre, nonno e tre bambini che dalla Bielorussia vuole raggiungere un parente in Svezia. Sono stremati dalla guerra, dalla violenza ‘l’Isis ha torturato il padre, i bambini non vanno a scuola. Eppure la madre ha accettato questo viaggio solo perché le hanno assicurato che sarà “facile” altrimenti non avrebbe mai messo in pericolo i piccoli. A loro si unisce una donna afghana, viaggia sola, vuole chiedere asilo in Polonia, le cose sembrano tranquille ma una volta al confine con la Bielorussia precipitano e loro si ritrovano nel bosco senza sapere dove andare, in una trappola di brutalità e privazione di ogni minimo diritto, respinti da una parte all’altra. In questo che diventa un teatro del contemporaneo, Holland dispone i suoi soggetti: ci sono i soldati che si prestano a questa disumanità “per dovere” - eichmannianamente. Gli attivisti che aiutano e provano a resistere correndo molti rischi. I cittadini indifferenti che se li critico poi non trovo lavoro. Chi come Julia, che è psicanalista, ha scelto di non occuparsi dal mondo e si stupisce di fronte alla rabbia contro la destra e le bugie sui migranti di un suo paziente. Questi universi, ciascuno con la sua visione della realtà si incrociano, qualcuno cambia e decide di esporsi, molti altri rimangono invece nelle loro convinzioni. Finché nell’ultimo capitolo i confini si aprono: è iniziata la guerra in Ucraina, i profughi ucraini arrivano accolti con gentilezza anche dalle autorità. Cosa hanno di diverso dagli altri? Sono dunque molte le domande che la regista mette in campo in un film che nella scelta di rimanere in un solo luogo, quel confine e il bosco, illumina senza concessioni la brutalità di un azzeramento del diritto umano. È un rituale ripetuto, feroce, implacabile che si afferma, in cui a un certo punto i migranti quasi spariscono come individui, nonostante ciascuno ripeta spesso le sue storie, per diventare una moltitudine indistinta da inseguire e strumentalizzare. È l’aspetto più forte della regia che in questa “frattura” rispetto a un racconto concentrato su una sola prospettiva solleva la sua inquietudine sulla contemporaneità e sul futuro. Come può quanto accade in quel luogo non pesare sul resto, non determinare altre repressioni, altre violenze, nuovi conflitti? L’Europa razzista che si riflette nel totale distacco di chi massacra le persone mentre si organizza la serata - come fanno molti dei giovani militari - o appunto in chi pensa che quanto accade non lo riguarda che prospettiva sociale e politica può offrire? Così come la volontà dell’accoglienza basata sulle opportunità, secondo guerre e provenienze. Questione di opportunità. E di un diritto che non ha valore in sé. Holland ci riflette e insieme ai migranti parla di noi. Agnieszka Holland: “In Ue crimini contro l’umanità, il passato può tornare” di Lucrezia Ercolani Il Manifesto, 6 settembre 2023 Venezia 80. La regista polacca presenta, in concorso, il suo film “The Green Border”. Alla fine della conferenza stampa un minuto di silenzio per i 60.000 che negli ultimi anni sono morti cercando di entrare in Europa. “Il rischio del totalitarismo in Europa non è mai scomparso, è stato solo messo a tacere, tolto dalla nostra “agenda” afferma Agnieszka Holland quando presenta alla stampa il suo Green Border (titolo originale Zielona granica). La regista polacca usa parole dure - anche se mai quanto le immagini del film dove chi, stremato e in cerca d’aiuto, viene calpestato, deriso, gettato dall’una e dall’altra parte del filo spinato.”Il vaccino dell’Olocausto è svanito, l’Europa ha paura e sta perdendo le sue convinzioni, il futuro potrebbe essere molto simile al passato. Credo anzi che sarà proprio la crisi dei rifugiati, iniziata ormai quasi dieci anni fa, a imprimere la forma al nostro avvenire. La verità è che l’Europa, da culla della democrazia, si è rivelata teatro di terribili crimini contro l’umanità”. Quando le viene chiesto il ruolo del suo film e del cinema in generale in questo scenario, risponde: “Abbiamo voluto affrontare questa storia da diversi punti di vista perché sentivamo mancare una narrazione su ciò che accade al confine tra Polonia e Bielorussia. Il cinema europeo non racconta abbastanza il mondo di oggi, deve prendersi nuovamente questa responsabilità”. Una domanda sollecita la regista sul confronto, inserito in Green Border, tra la diversa accoglienza riservata ai profughi del Medio Oriente e a quelli ucraini. Come sono spiegabili atteggiamenti così distanti tra loro? “Sappiamo che l’essere umano è complesso e che può fare il bene così come il male. Al di là di individui che provano piacere nella persecuzione, la direzione in cui si esprime questo potenziale nel 99% della popolazione dipende da molti aspetti tra cui la politica, i governanti, la chiesa, i media”. E proprio sul ruolo dei media Holland prosegue: “In Polonia ce ne sono alcuni molto validi che hanno documentato la crisi dei migranti con onestà, ma quando poi il governo ha istituito la “zona rossa” intorno al confine, vietando l’accesso in virtù dello stato di emergenza, in pochi hanno protestato. Per questo definirei i media nel loro complesso pigri e codardi rispetto a questa situazione”. Ad affrontarla a viso aperto ci sono invece individui che si organizzano per portare aiuto, spesso rischiando la propria libertà: è il lato positivo e ottimista del film, “l’altra Europa”. La regista afferma di aver scelto l’attrice Maja Ostaszewska anche per essersi esposta in prima persona in difesa delle organizzazioni umanitarie. L’interprete aggiunge: “Fare questo film è stato importante, ma anche difficile. Quando le riprese terminavano non potevo non pensare che a 200 km da noi c’erano persone che erano veramente in quella condizione disperata, cercando un aiuto che spesso viene negato. Io credo che il discorso non sia politico ma innanzitutto umano, si tratta di rispondere a una domanda antichissima: cosa facciamo quando qualcuno in pericolo bussa alla nostra porta?”. Prima di terminare l’incontro, la regista legge una lettera scritta per l’occasione da Grupa Granica, realtà che riunisce chi lotta per l’accoglienza in Polonia. Nel testo si dice che dal 2014 sono morte circa 60.000 persone cercando di entrare nell’Ue, di cui un terzo hanno trovato la loro fine nel Mar Mediterraneo. Si chiede alla sala un minuto di silenzio, rispettato con partecipazione. Resta ora da vedere quali saranno le reazioni in Polonia per un film che punta apertamente il dito contro il governo. Scuole, cani antidroga e terrorismo di Claudio Cippitelli Il Manifesto, 6 settembre 2023 “Si apre la porta dell’aula: gli studenti vengono fatti uscire dalla classe e ammassati lungo un corridoio dove, uno alla volta, vengono sottoposti all’annusamento dei cani antidroga, che cercano lo stupefacente nei vestiti e nello zainetto”. Questa scena è stata descritta con medesimo sdegno da Ludovico Arte, preside dell’Istituto Marco Polo di Firenze e da Franco Coppoli, insegnante di Terni, durante la Summer School di Forum Droghe e CNCA (coordinamento nazionale comunità di accoglienza), che quest’anno si è tenuta a Roma presso la Città dell’Altra Economia. Uno sdegno operante quello dei due docenti, tanto da spingere entrambi a rifiutare una pratica “preventiva” da loro stigmatizzata come diseducativa e violenta, tanto da ricordare una scena possibile nell’Argentina della dittatura, magistralmente descritta nel film La notte delle matite spezzate di Héctor Olivera. L’annuale momento formativo quest’anno ha avuto come titolo Just say know - Droghe: conoscere prima per ridurre i rischi dopo, dedicato alle forme possibili di comunicazione e confronto sulle droghe a scuola. “Alle medie era venuto uno della Guardia di Finanza e l’unica cosa che ci aveva detto era la procedura per ingoiare le bustine di cocaina, gli ovetti…quali sono le procedure per arrestare uno che le ha ingoiate. E poi ci aveva detto che molti giovani sono a favore, però guardando le statistiche di alcuni paesi che le hanno legalizzate sono aumentati gli incidenti stradali e poi se n’è andato”. Le testimonianze degli studenti, raccolte nei mesi precedenti attraverso focus group, sono spietate: un paio di affermazioni gettate là, “e poi se n’è andato”. Anche mostrare competenze in materia di droghe è ritenuto sconveniente: “Un giorno c’è stata una presentazione sul doping, durante l’ora di motoria, e hanno dato un sacco di informazioni sbagliate, non esatte. Io non mi sono sentito di dire la mia perché avrei marcato male e strano, e poi non volevo fare la figura di quello che sa le cose”. Sai le cose? Se il modello proposto si sintetizza con lo slogan coniato da Nancy Reagan “Just say no”, ovvero “tutto quello che devi sapere sulle droghe è che devi dire no”, sapere è altamente sospetto, meglio “non marcare male”. Il dialogo insegnanti/studenti spesso ruota attorno ai danni, presentandoli come inevitabili, così inchiodando i ragazzi a una condizione “inerme”: si enfatizza la “insensatezza del consumo” invece che riconoscerne le ragioni, la ricerca e, a volte, anche il disagio che ci sta dietro; si taglia fuori una parte fondamentale dell’esperienza, quella della significazione, poter nominare ciò che si cerca, effetti gradevoli inclusi; si ignorano l’auto-controllo e la regolazione, convincendoli - paradossalmente - di non aver alcuna competenza e alcuno strumento da mettere in campo per proteggersi. Una incapacitazione intenzionale, l’opposto di una prospettiva di empowerment. C’è un’alternativa? Nella Summer School sono stati presentati modelli di intervento innovativi, come l’approccio “Safety first” dei pedagogisti R. Skager e M. Rosembaum, centrato sul realismo circa le scelte e le esperienze dei ragazzi, in dialogo con loro e con i loro consumi, e sulla priorità della messa in sicurezza di chi usa. Se va molto male, i cani in classe. Se va solo male, ecco le campagne antidroga, utili a propagandare la determinazione del governo a combattere la “droga”, ad ammonire su rischi mai specificati (tutte le droghe fanno male) e indicare che, se ti penti e vai dove ti dico: “se ne può uscire”. Una comunicazione basata sull’emotivo (le emozioni, quelle vere), come nelle migliori tradizioni della propaganda: però può andare male e il testimonial scelto, l’ex CT della Nazionale, se ne va in Arabia Saudita a vivere l’emozione vera di 90 milioni di euro esentasse. Migranti. Richiedenti asilo fuori dai Centri di accoglienza, così il governo crea l’emergenza di Gaetano De Monte Il Domani, 6 settembre 2023 Le ombre sul sistema dell’accoglienza. I posti ci sono, ma secondo alcuni enti gestori non vengono assegnati. Nel frattempo, il ministero dell’Interno chiede di fare spazio per “assicurare il turn over” all’interno dei Cas. È il 23 agosto, a Roma, nella città calda e desolata tre uomini sono in fila, sostano in attesa davanti alla sede di uno sportello per migranti e rifugiati che si trova all’interno di un centro sociale, lo Spin Time Labs, nel quartiere Esquilino. C’è un cittadino del Sudan, Khalid. Ha 35 anni e svolge qualche lavoretto saltuario, in nero, dato che nel centro di accoglienza straordinario (Cas) dove è ospitato fin dal suo arrivo in Italia, non era previsto - secondo la legge che ha istituito questi centri - un percorso di sostegno lavorativo. Accanto a lui c’è Idris, ha 50 anni ed è nato in Somalia. Aspetta da diverse settimane di ricevere una comunicazione dall’ufficio immigrazione della questura di Roma che dovrà rilasciargli il permesso di soggiorno. Anche Idris è ospite di un centro di accoglienza straordinario, così Ahmed, trentenne di origina afghana che attende da alcuni mesi di essere convocato dagli uffici di via Teofilo Patini per poter rilasciare le sue impronte e ricevere un permesso con cui attestare la sua presenza regolare in Italia. “Nella settimana tra il 14 e il 20 agosto tutti hanno ricevuto una comunicazione dalla prefettura di avvio procedimento per la cessazione delle misure di accoglienza. Abbiamo attualmente in carico quindici persone in questa situazione di grande difficoltà, perché alcuni non hanno nemmeno ancora ricevuto la comunicazione per il rilascio del permesso di soggiorno”, racconta Giovanna Cavallo, operatrice presso lo sportello di assistenza legale Legal aid che si trova all’interno dello stesso centro sociale e fa parte della rete del Forum per cambiare l’ordine delle cose. “Contro questa decisione prefettizia chiederemo al tribunale amministrativo l’accesso immediato per queste persone al sistema di accoglienza ordinario (Sai, ex Sprar ndr). Vogliamo, inoltre, che sia fatta chiarezza sul meccanismo di assegnazione dei posti all’interno del sistema di accoglienza, che non è chiaro e trasparente”, aggiunge. E poi conclude: “A Roma i tempi che intercorrono tra il riconoscimento della protezione e il rilascio del permesso di soggiorno da parte della questura possono raggiungere anche i dodici mesi, e una persona, nel frattempo, non può finire in strada”. Diritti a rischio - Ad aver complicato il quadro delle tutele per i richiedenti asilo e rifugiati è stata la circolare firmata il 7 agosto scorso dal funzionario del ministro dell’interno, Francesco Zito. Nel documento, che è stato consultato da Domani, si legge che “con particolare riferimento ai soggetti che abbiano ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale, ma che siano ancora ospitati nelle strutture di cui agli artt. 9 e 11 del citato D.Lgs. 142/2015 (centri straordinari) si evidenzia la necessità che venga disposta la cessazione delle misure di accoglienza, anche nelle more della consegna del conseguente permesso di soggiorno”. E ancora, si precisa che “l’applicazione di tale misura avverrà nell’ottica di corretto utilizzo delle risorse pubbliche, al fine di assicurare il turn over nelle strutture di accoglienza e garantire la disponibilità di soluzioni alloggiative in favore degli aventi diritto”. A Bologna il prefetto Attilio Visconti, già qualche giorno prima della circolare del Viminale, aveva mandato una comunicazione agli enti gestori in cui in sostanza si intimava, a un centinaio di richiedenti asilo che da tre anni erano ospiti dei centri, di uscire immediatamente. “In realtà, questa circolare del prefetto di Bologna è ancora più illegittima di quella del ministero”, precisa l’avvocata dell’Associazione studi giuridici immigrazione, Nazzarena Zorzella, “perché i richiedenti asilo hanno per legge il diritto di rimanere in accoglienza fino alla conclusione dell’intero iter di protezione internazionale, cioè anche nel caso in cui abbiano presentato ricorso, e fino alla decisione ultima del tribunale”. Tornando alla circolare del Viminale, Zorzella riferisce che sia la prefettura di Mantova sia quella di Pisa stanno già procedendo con le comunicazioni di revoca dell’accoglienza per chi è titolare di protezione internazionale: “Si tratta di un provvedimento, anche questo, completamente illegittimo, che non tiene conto delle linee guida dello stesso ministero, le quali prevedono un periodo di permanenza di sei mesi nei Sai, dove hanno il diritto di essere accolti, ancora più a lungo, le persone che hanno qualche tipo di vulnerabilità. E non possono, dunque, essere sbattuti in strada”. Eppure, sempre più spesso, accade. È il caso di un ragazzo somalo di 30 anni. L’avvocata che lo assiste, Loredana Leo, si è rivolta al Tar del Lazio. “Perché lo stesso è costretto a vivere in strada e a cercare di giorno in giorno alloggi di fortuna e la sua situazione psicofisica esige una presa in carico continuativa”, si legge nel ricorso per cui si attende ancora l’esito. Scarsa trasparenza - Secondo i dati aggregati diffusi nel “dossier Ferragosto” dallo stesso Viminale, da gennaio a luglio di quest’anno le richieste d’asilo sono state 72.460, il 70 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E le domande che sono state già esaminate sono circa 33.000, poco più della metà di quelle ricevute. Questo dato è però parziale, perché non è utile a fotografare le persone che ogni anno avrebbero diritto all’accoglienza, per esempio i minori. Quanto ai centri, una mappa aggiornata e ufficiale di quelli gestiti dalle prefetture, attualmente, non esiste. Si sa soltanto che il 70 per cento dei richiedenti asilo presenti oggi in Italia sono ospitati nei così detti Cas. La quota restante viene “gestita” attraverso il sistema ordinario, gli ex Sprar, che ora si chiamano Sai, sono di competenza dei comuni ma dipendenti dai fondi dello stesso ministero dell’Interno. Da parte sua entro il 30 giugno di ogni anno il Viminale dovrebbe presentare al parlamento la relazione sul funzionamento del sistema di accoglienza al fine di “fronteggiare le esigenze straordinarie connesse all’eccezionale afflusso di stranieri nel territorio nazionale”. Un appuntamento che il ministero disattende regolarmente, pubblicando le relazioni in ritardo. Gli ultimi dati disponibili sono quelli relativi al 2021. Nonostante gli obblighi di legge, la relazione sul sistema con i dati sul 2022 non è ancora stata pubblicata, quella sul 2020 è stata trasmessa alle camere soltanto il 16 ottobre 2022 e quella relativa al 2021, il 29 novembre scorso. Tutto ciò che sappiamo nel dettaglio sulle strutture, i posti disponibili, le presenze, i prezzi per l’erogazione dei singoli servizi e dei gestori che li erogano, centro per centro, lo apprendiamo da una piattaforma opendata aggiornata una volta l’anno che si chiama Centri d’Italia, realizzata da Openpolis insieme alla ong ActionAid. Fabrizio Coresi, che per la ong è esperto di migrazione, dice che “dal 2018 al 2021 sono stati chiusi più di 3.500 centri, soprattutto le strutture più piccole, con meno di 20 posti letto: i Cas di piccole dimensioni hanno perso 24.000 posti. Mentre il sistema ordinario gestito dai comuni, nello stesso periodo, ha perso oltre 1.000 posti”. Non solo, dice Coresi: “Nell’ultimo rapporto che abbiamo pubblicato, Il vuoto dell’accoglienza, emerge come dato più rilevante quello sui posti liberi. Nonostante il continuo richiamo al sistema al collasso, oltre il 20 per cento dei posti disponibili tra il 2018 e il 2021 non è stato utilizzato. Un dato che varia da provincia a provincia, un vuoto dell’accoglienza che interessa ampiamente il sistema ordinario che, al 31 dicembre 2021, aveva più di 10mila posti liberi, quasi il 30 per cento della rete Sai”. “Nonostante sentenze del Tar e del Consiglio di stato che impongono al ministero di fornirci dati, il Viminale oppone ora un nuovo rifiuto - conclude - La lettura distorta della realtà, d’altra parte, è favorita dalla mancanza di trasparenza e ha portato a riproporre norme che avevamo visto nel decreto Sicurezza del 2018, addirittura peggiorandole. Anche se i dati dovessero mostrare la saturazione del sistema nel 2022-2023, quindi, questa non sarebbe dovuta certo al numero degli arrivi, ma all’assenza di pianificazione, al mancato investimento nel sistema ordinario, a una gestione non trasparente e irrazionale, a politiche che, nei fatti, gettano le basi per creare l’emergenza che si propongono di affrontare”. Altro che invasione. Bruno Segre: “La droga mi ha portato via un figlio ma dico che va liberalizzata” di Pasquale Quaranta La Stampa, 6 settembre 2023 L’avvocato simbolo della Torino antifascista compie 105 anni: “Canapa inoffensiva, meglio la diffusione responsabile che i pusher”. Bruno Segre, un monumento antifascista di Torino, festeggia il suo 105º compleanno con il telefono che non smette di squillare. L’avvocato e giornalista partigiano ci accoglie nel suo appartamento a Mirafiori Nord, al mattino, e poi alla sera mentre si svolge la festa in suo onore presso il Polo del ‘900, sede del Museo della Resistenza, con circa 60 invitati. Solo due settimane fa i giornali avevano erroneamente annunciato la sua morte a causa di una omonimia. “Sono resuscitato”, commenta con un sorriso, mentre ci dona due libri. Il primo è una raccolta di aforismi, pubblicata a sue spese, con l’intento di “far divertire chi legge imparando i valori fondamentali della vita”, scrive nella dedica. Apriamo una pagina a caso: “La vita non è nulla dove manca la libertà” (Körner). Il secondo libro, ancora incellofanato, è la sua biografia curata da Nico Ivaldi, intitolata “Non mi sono mai arreso” (Editrice Il Punto). Avvocato Segre, dopo la Seconda Guerra Mondiale si è innamorato del giornalismo. Che ricordi ha degli inizi e cosa ha imparato? “La mia prima esperienza appassionata risale ai tempi dell’università. Scrissi una novella per l’unico settimanale illustrato che circolava all’epoca, Le vostre novelle, con la redazione a Milano, nei tumultuosi anni Quaranta. In cambio, ricevetti una busta con un vaglia di 100 lire (circa 75 euro). Toccai il paradiso, era la mia prima retribuzione per quel tipo di lavoro. Quell’esperienza mi ha insegnato che se ti pagano, ti apprezzano. Ho scritto numerose novelle con lo pseudonimo Sicor, la traduzione latina del mio cognome, Segre”. Poi ha collaborato con l’Ordine dei giornalisti, istituito nel ‘63... “Mi fu affidato il compito di revisionare e aggiornare l’elenco dei pubblicisti, verificando se lavorassero ancora o fossero in vita, tra altre cose. Non sono diventato presidente dell’Ordine dei giornalisti perché ero già iscritto all’Ordine degli avvocati, la mia principale professione”. Anche da giornalista, oltreché da avvocato, si è impegnato per la promozione dei diritti civili: qual è il confine tra giornalismo e attivismo? “Per me, il giornalismo rappresenta una professione ideale perché ti mette in contatto con il mondo, ti consente di comunicare le tue idee e di raccogliere quelle degli altri, offrendo una visione collettiva della società. Il confine dice? È rappresentato dalla lealtà e dalla sincerità. Un vero giornalista è come un medico: deve essere sempre onesto, corretto, pronto a riconoscere i propri errori e mai indulgere in ingiurie. Si può anche ferire qualcuno facendogli un complimento. Ricordo con disapprovazione che alcuni giornali durante la guerra aggiungevano propaganda alle loro corrispondenze, strumentalizzando così una professione nobile e degna e trasformandola in uno strumento di odio e persecuzione”. Nel mirino della propaganda nazifascista c’erano anche persone omosessuali. Ha dei ricordi a riguardo? “C’era un odio viscerale contro i pederasti, che venivano perseguitati. Angelo Pezzata fu il primo a denunciare questa ingiustizia. Io cercavo di avvertirli, dicendo loro di non recarsi in questura, poiché sarebbero stati schedati. Li esortavo a non rivelare la loro appartenenza a quello che veniva chiamato “terzo sesso”, perché sapevo che qualora si verificasse un delitto, avrebbero già avuto i loro nomi nei registri e sarebbero stati arrestati in massa”. Nonostante sia un pacifista convinto, si unì alla Resistenza armata per liberare Caraglio, in provincia di Cuneo. Esistono guerre giuste? “A causa del mio impegno antifascista, fui arrestato nel 1942 con l’accusa di disfattismo politico e rinchiuso nelle carceri “Nuove” di Torino. In seguito, nel settembre 1944, subii un secondo arresto e finii in una caserma utilizzata come prigione. Dopo essere stato liberato, mi diressi immediatamente verso Caraglio. Lì, c’era la presenza dei sostenitori del regime fascista, che erano armati. Mi affidarono il compito di gestire il diario storico della divisione. Personalmente, non ho mai sparato e nemmeno sapevo come usare un fucile, dato che ho sempre detestato le armi. Ho sempre associato la libertà all’antimilitarismo, considerando spade, gradi e giuramenti come semplici buffonate”. Quale messaggio vorrebbe condividere con le nuove generazioni? “Consiglio vivamente di mantenervi lontani dalle droghe. Ho perso mio figlio Elio a causa della droga, ero legatissimo a lui. Il suo nome era un omaggio al mio nome da partigiano durante la Resistenza, quando ero conosciuto come Bruno Serra, detto Elio. Se fossi un legislatore, opterei per la liberalizzazione dell’uso di sostanze inoffensive come la canapa. Preferirei vedere una diffusione responsabile di tali sostanze piuttosto che l’attività di questi spacciatori che si aggirano intorno alle scuole”. Si considera un riferimento anticlericale? “Non mi definirei tanto anticlericale quanto antireligioso. Ritengo che finché esisteranno le religioni, continueranno a esistere divisioni tra ebrei, evangelici, buddisti e così via. Il mio punto di vista è che il nemico è la religione stessa, in quanto rappresenta una forma di conforto modesto destinato alle anime più semplici. L’uomo autentico e coraggioso affronta la realtà con occhi sereni, senza bisogno di consolazioni religiose”. Qual è il regalo più bello che ha ricevuto per il suo 105° compleanno? “In realtà non l’ho ancora ricevuto, nel senso che quello che desidererei ricevere è la presenza di molte persone in Piazza Savoia il 20 settembre, in occasione dell’anniversario della breccia di Porta Pia. Questo evento rappresenta un importante simbolo di laicità, poiché segnò l’inizio del processo di separazione tra i poteri dello Stato e quelli della Chiesa”. Sudan. La guerra sul corpo delle donne: lo stupro usato come arma per umiliare e annientare le ragazze e le loro comunità di Francesca Mannocchi La Stampa, 6 settembre 2023 Un marchio e un’onta che le accompagnerà per sempre. Un passo avanti e uno indietro. Così si muove Aysha nel Centro di transito per rifugiati a Renk, città sud-sudanese al confine con il Sudan. E lì che dal 15 aprile arrivano via terra decine di migliaia di profughi e sfollati di ritorno. Lì che è giunta anche lei dopo un mese di viaggio. Con sé non ha più niente. Non ha un vestito per cambiarsi, non ha più soldi. Non ha più nessuno. Del passato resta l’immagine della separazione e della disumanità. Il giorno che ha trovato il coraggio di lasciare Khartoum, gli uomini delle Rsf (Forze di Supporto Rapido) hanno bloccato il veicolo che trasportava i suoi nipoti, tre ragazzi e tre ragazze. Aysha ha visto i ragazzi legati e trattenuti con la forza dentro il veicolo e le giovani trascinate via tra le grida in un altro mezzo, perso velocemente dalla vista. Tre giovani rapite mentre cercavano la via di fuga dalla guerra, condotte verso un destino di abuso. Per raccontare quello che ha visto e udito cerca una tenda in cui nessuno la ascolti. La vergogna, propria o altrui, per essere raccontata necessita del pudore del silenzio. Così si siede a terra, si scopre il volto e finalmente piange. Viveva nella parte settentrionale di Khartoum e ha faticato a resistere nascosta con le donne della sua famiglia e i nipoti più giovani per le prime settimane dopo l’inizio dei combattimenti. Finirà, speravano. Si ripeteva di avere un solo scopo, sopravvivere e proteggere le figlie e le figlie delle figlie da quello che le guerre sudanesi avevano insegnato senza che nessuno imparasse la lezione, cioè che il corpo delle donne sarebbe di nuovo diventato la trincea delle violenze di chi combatte. E volevano proteggere i più giovani dal reclutamento forzato. Un giorno di maggio la sua vicina Halima è entrata in casa, le ha detto che uomini senza divisa militare avevano cominciato a fare irruzione nelle case cercando armi e portando via gli uomini. Erano entrati anche in casa sua, avevano chiuso la nipote diciassettenne in una stanza con la madre e avevano violentato la ragazza davanti ai suoi occhi. “Se provate a gridare, vi violentiamo tutte, hanno detto. Sono felici quando violentano. Cantano quando violentano. Ci chiamano schiave, dicono che possono fare di noi quello che vogliono”. Halima non aveva più lacrime. Le ha detto solo: andate via. Così Aysha ha messo nelle tasche della sua abaya nera i soldi che le erano rimasti, ha chiamato a raccolta i nipoti, e si è decisa a unirsi alle migliaia in fuga, cercando di richiesta d’aiuto in richiesta d’aiuto, il contatto di chi poteva portarli via da Khartoum. Ma da Khartoum è uscita sola. Dei suoi tre nipoti maschi non ha saputo più nulla. Delle ragazze, dicono i sussurri di chi è sopravvissuto, si sa solo che siano state portate in una base militare, che ci siano altre decine di giovani. Che le milizie Rsf le “usino a loro piacimento”. La storia di Aysha è una delle poche che emerge dai non detti delle tende improvvisate di Renk, tra i miasmi dell’acqua tra cui giocano i bambini, i resti di cibo marcito, la terra diventata fango per le piogge. È la voce di chi non può trattenere il dolore per avere perso i suoi cari, per non aver potuto fare niente per sottrarli a un destino segnato. La storia delle umiliazioni che si consumano sulla pelle, nell’anima di donne e ragazze, stupri usati come arma di guerra, strumento di prevaricazione, onta e marchio che le accompagnerà per sempre, arma utilizzata anche per umiliare la donna, la sua famiglia e la sua comunità. Sono le donne e i bambini a soffrire l’impatto più devastante della crisi in Sudan che ha provocato lo sfollamento forzato di oltre tre milioni di persone, di cui 700 mila fuggite nei Paesi limitrofi, come il Sud Sudan. Quando sono scoppiati i combattimenti, ad aprile, le strutture mediche hanno cominciato a essere danneggiate e distrutte in maniera sistematica, per questo la maggior parte delle organizzazioni internazionali ha evacuato il personale e secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) del Sudan, a luglio quasi l’80% degli ospedali sudanesi erano fuori servizio. Erano le donne e le ragazze, anche prima del conflitto, in Sudan, a correre in rischio maggiore di violenza sessuale. Oltre 4 milioni quelle esposte alla violenza di genere. Donne che faticano a parlare e non riescono a dimenticare. Le donne del Darfur - “Devi rassegnarti o uccideremo tutti i tuoi fratelli”. Sono state queste le ultime parole che Bushra ricorda di aver ascoltato prima di chiudere gli occhi e sperare che il suo corpo non venisse violato. Studentessa di Economia, la sua, a El Geneina, era la vita di una ordinaria venticinquenne, con i desideri e le aspettative della vita che verrà. Terminare gli studi, trovare un lavoro, sposarsi, avere dei figli. Poi in Darfur è tornata la guerra. Bushra ha raccontato ai ricercatori di Human Rights Watch che hanno raccolto la sua testimonianza, di aver sentito entrare in casa otto uomini armati, due con l’uniforme delle Forza di Supporto Rapido (Rsf) e gli altri in abiti civili. In quel momento, nell’abitazione del quartiere Tadamun dove viveva, si nascondevano venti persone, gli otto uomini hanno sfondato la porta, gridato di consegnare tutti i telefoni, imposto agli uomini di uscire e urlato di consegnare le armi. La madre di Bushra ha fatto cenno a lei e alle altre giovani di chiudersi in una stanza. E così hanno fatto, pregando a bassa voce di essere risparmiate. Poi un uomo in abiti civili è entrato nella stanza, si è avvicinato a lei, le ha toccato il seno, le ha puntato il fucile alla tempia, ha fatto un cenno con la mano indicando il materasso e ha detto: non uccidiamo le donne, ma se ti sacrifichi non uccideremo nemmeno gli uomini. Così si è sdraiata, nelle orecchie aveva le urla delle cugine e delle vicine nella stanza, il suono di un proiettile esploso nella stanza accanto, il grido acuto di sua zia che era stata ferita, e le voci di cinque uomini che si alternavano a violentarla. Sopravvissuta agli stupri non ha parlato per giorni, prima di chiedere a sua madre di essere portata via. Gli uomini in casa non c’erano più, prelevati dalle Forze di Supporto Rapido (Rsf), e non c’erano più neppure i soldi che servivano a prendere la strada per salvarsi. Ma sua madre ha raccolto una busta con due asciugamani, qualche veste e un po’ d’acqua e sono scappate in Ciad, dove sono arrivate una settimana dopo. A El Geneina, capitale del Darfur Occidentale, prima della guerra vivevano circa 550 mila persone, dalla fine di aprile alla metà di giugno 400 mila, sono scappate come Bushra, solo una delle tante, troppe, sopravvissute a stupri di gruppo. Due settimane fa Human Rights Watch ha pubblicato un lungo rapporto per denunciare le violenze perpetrate dalle Rsf a El Geneina. I casi di stupro identificati sono 78, ma lo stigma sociale, unito alle infrastrutture distrutte, alle reti di comunicazione compromesse, rendono impossibile fare chiarezza sui numeri. Solo una delle sopravvissute ha dichiarato di aver ricevuto cure di emergenza, perché a El Geneina le milizie hanno saccheggiato e dato alle fiamme non solo abitazioni civili e strutture militari ma anche cliniche, ospedali e uffici di organizzazioni non governative. Secondo l’Unità sudanese per la lotta alla violenza contro le donne, le denunce e le testimonianze rappresentano probabilmente il 2% dei casi totali, il che significa che ci sono stati circa 4.400 casi di violenza sessuale nei primi tre mesi del conflitto. “Sono entrati in casa in tre, cercavano armi ma non hanno trovato nulla, poi mi hanno chiesto a quale tribù appartenessi. Quando ho risposto “Massalit” mi hanno violentata in tre. Sono rimasta sdraiata lì pensando che non avrei camminato mai più. Sono tornati dopo alcune ore e mi hanno violentato ancora, uno di loro diceva: “Voglio che resti incinta. Voglio che partorite tutte i nostri bambini”. Poi mi hanno trascinato in strada dicendo: “Se non vai via ti ammazziamo”. Mi sono alzata, mi sono unita a un gruppo di profughi diretti in Ciad e sono andata via. Da allora non ho più senso dell’orientamento”. Anche le poche parole che Alia ha consegnato una volta in salvo in Ciad raccontano lo stupro come arma. Di più, lo stupro come arma contro un gruppo etnico. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti le milizie hanno attaccato città e villaggi prendendo di mira soprattutto le zone abitate da una delle principali comunità non arabe, i Massalit, facendo tornare in Darfur lo spettro di guerre mai risolte, di una giustizia mai raggiunta né pretesa fino in fondo dalla comunità internazionale. Le rivendicazioni basate sull’etnia e l’inazione del governo sudanese nel risolvere le contese legate alla proprietà della terra hanno radici antiche. Già nel 2003, durante la campagna di pulizia etnica dell’allora presidente Al Bashir, le forze governative e le milizie Janjaweed, precursori delle Forze di supporto rapido, avevano attaccato le comunità non arabe, nel 2008 il pubblico ministero della Corte Penale Internazionale definì lo stupro “parte integrante” del modello di distruzione che il governo del Sudan stava infliggendo in Darfur, scenario identico al 2019 quando le Rsf si erano scontrate con i gruppi armati Massalit. Lo scorso anno Pramila Patten, Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale nei conflitti, aveva segnalato 100 casi di violenza sessuale da parte delle forze di sicurezza sudanesi, invitando le forze armate a collaborare con le agenzie internazionali per identificare i responsabili e ottenere giustizia. Ma poco, quasi nulla, è stato fatto. Allora come oggi lo stupro era stato un’arma di guerra e nonostante le denunce, le indagini non si sono trasformate in processi esemplari, alimentando il clima di impunità che alimentava e alimenta l’idea che la violenza maschile sulle donne rappresenti l’orgoglio di infliggere umiliazione al nemico.