Vita nelle carceri, il dramma è quotidiano di Francesco Jori La Nuova Venezia, 5 settembre 2023 La lettera della moglie di un detenuto elenca la vita raccapricciante che scorre entro le mura delle prigioni. È questo squallore a generare i reiterati episodi di violenza: dai litigi fino alle vere e proprie aggressioni. Nomen omen, il destino nel nome: istituto di pena. La cruda lettera-denuncia della moglie di un detenuto nel carcere di Verona, con la sua forte e sacrosanta eco mediatica, dà voce ai tanti volti anonimi per i quali la condanna giudiziaria si accompagna ad un’autentica pena umana nel senso più drastico della parola, sofferenza. Elenca con raggelante freddezza la “vita raccapricciante”, per usare le testuali parole, della quotidianità che scorre entro le mura di troppe delle nostre prigioni: per la quale non a caso l’Italia è già stata sanzionata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo; e che anche in questi giorni continua a riproporre sconcertanti casi di cronaca. A differenza di molte altre, quella lettera non si limita a una vicenda individuale: senza entrare nel merito della sentenza, chi l’ha stesa si propone come “compagna, moglie, madre, figlia, sorella di qualsiasi detenuto”: rendendo drammaticamente vive le migliaia di pagine di denunce che da anni si susseguono con sconcertante inutilità. Tra i tanti, l’esempio del puntuale rapporto dell’associazione Antigone, che dal 1998 porta in primo piano le storture del sistema carcerario: a partire dal sovraffollamento, pari al 121 per cento, con 10mila detenuti in più rispetto ai posti disponibili, e punte del 200 per cento in una ventina di istituti. Una vergognosa graduatoria in cui l’Italia occupa il secondo posto in Europa dopo Cipro. La ricaduta più tragica è quella dei suicidi in cella, in quota venti volte superiore a quella della vita ordinaria, e che si accentuano d’estate per le condizioni estreme di troppe carceri: dopo gli 85 del 2022, già 47 quest’anno, 1. 325 dal 2000 ad oggi. E tuttavia, è solo la punta d’iceberg di uno squallore diffuso: in sei penitenziari su dieci le celle sono senza doccia, in uno su tre ci sono celle con meno di tre metri quadri calpestabili per persona, in quattro su dieci esistono schermature alle finestre che impediscono il passaggio d’aria; quattro istituti su dieci non hanno corsi di formazione professionale, meno di un terzo dei 57mila e passa detenuti può disporre di un lavoro. È questo squallore diffuso a generare i reiterati episodi di violenza nelle carceri, dai litigi fino alle vere e proprie aggressioni. E qui entra in campo l’altra pesante criticità del caso italiano, quello della polizia penitenziaria (a sua volta sotto assedio: sei agenti feriti in cinque giorni a Padova), in forte sofferenza numerica già oggi ma ancor più in prospettiva: nei prossimi cinque anni si creerà un’emergenza senza precedenti, con quasi 20mila addetti che andranno in pensione. Per scongiurarla, servirebbero 3mila ingressi l’anno, ma le strutture sono del tutto inadeguate, con appena sette scuole di formazione per una capienza totale di 1. 800 unità. Se il catalogo è questo, risulta di bruciante evidenza che la Costituzione, con l’articolo 27 (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”), ha cambiato il volto e la finalità delle pene stesse ma non il carcere. D’altra parte, ci sono voluti trent’anni per passare dal dettato costituzionale alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Perfino il funesto Spielberg nel frattempo ha mutato anima e pelle: resta l’Italia, con la sua vergogna. Un detenuto su tre è straniero. E nessuno vuole lasciare l’Italia di Giuseppe China Il Tempo, 5 settembre 2023 Sono poco meno di ventimila e sul totale della popolazione carceraria pesano per il 31,3%. Basta un loro “no” per bloccare il trasferimento nel Paese d’origine. E da febbraio al ministero manca il responsabile per gli accordi internazionali. Occupano carceri già incredibilmente piene. Una fetta consistente delle persone recluse nel nostro Paese è rappresentata da detenuti stranieri: al 15 giugno 2023 gli individui privati della libertà personale non italiani erano 17.987, pari al 31,3% della popolazione carceraria. Ma non è finita qui perché spesso a questa circostanza esplosiva bisogna aggiungere il fatto che è impossibile rimandare i carcerati nel loro Stato d’origine. “Per riuscire a scambiare detenuti fra due Paesi (racconta l’ex direttore generale degli affari internazionali e della cooperazione giudiziaria, Stefano Opilio (è necessario che ci sia un accordo internazionale, ossia una legge dello Stato. In assenza di un’intesa non si può fare alcunché”. La materia è anche in parte disciplinata dalla convenzione di Strasburgo del 1983, siglata da 47 Stati, ma in molti casi diventa residuale dato che tanti dei firmatari sono membri dell’Ue, a cui si applica la decisione quadro 909 del 2008. Torniamo a chi è recluso all’interno dei nostri penitenziari. Il continente nettamente più rappresentato è quello africano: con 3.699 persone il Marocco è la nazione straniera con più galeotti in Italia (il 20,6% del totale); segue la Tunisia con 1.818 detenuti; i nigeriani, invece, sono 1.195; l’Egitto “esporta” 681 carcerati. Però non ci sono solo gli africani, dato che nelle nostre celle vivono 2.083 romeni e 1.876 albanesi. Ma quali sono i reati più commessi dagli stranieri? Al primo posto ci sono quelli contro il patrimonio (26,1%), i delitti nei confronti della persona pari al 22,2% e poi le violazioni della normativa sulle droghe (17%) e infine i reati contro la pubblica amministrazione che pesano per il 10,1%. “Tengo a precisare che l’accordo bilaterale (spiega il magistrato Opilio (presuppone anche il consenso del detenuto al trasferimento. Dettaglio che per esempio si applica all’Albania. Noi saremmo ben lieti di trasferire queste persone, ma appena si oppongono il procedimento si blocca. E instaurare il meccanismo automatico che c’è in campo europeo è complicato”. E ancora: “Va da sé che, nonostante i numerosi accordi, certi Paesi su questo tipo di negoziato non ci sentono proprio. L’Algeria non ha mai aperto una vera e propria negoziazione, così come la Tunisia che ha un interesse ben diverso dal nostro. Oppure il Marocco con il quale c’è un’intesa sul trasferimento dei detenuti. A Roma è legge, a Rabat non è stato ratificato per cui non è in vigore”. Lo spinoso tema dei carcerati stranieri è aggravato anche dal fatto che l’incarico di responsabile della struttura che se ne occupa è vacante dallo scorso 6 febbraio. Poi certo senza dubbio una parziale toppa al buco è messa dal ministero degli Affari Esteri che con la sua attività di “lobbying” gioca una parte importante nella complicata partita degli scambi tra prigionieri. Ma resta il fatto che alla luce dell’emergenza carceri quella casella va coperta al più presto. “Allo studio nuovi accordi per il rimpatrio dei detenuti stranieri. Andranno in cella a casa loro” di Edoardo Romagnoli Il Tempo, 5 settembre 2023 Il sottosegretario Delmastro indica la strada contro il sovraffollamento dei penitenziari: “Verrà superata la volontà del condannato di restare nel nostro Paese. Chi è stato condannato in Italia deve scontare la pena nel proprio Paese”. In Italia i penitenziari soffrono di un tasso di sovraffollamento del 119%. Su 51.249 posti disponibili i detenuti sono 56.674 quindi ci sono 5.500 detenuti in più rispetto alla capienza. Il Tempo ha sentito il sottosegretario al Ministero della Giustizia Andrea Delmastro per capire come il governo sta cercando di affrontare il problema. Sottosegretario Delmastro che soluzioni pensate di adottare per risolvere il problema del sovraffollamento dei penitenziari? “La sinistra propone sempre lo svuota-carceri, che non funziona perché in genere chi viene liberato poi torna in carcere, mediamente, dopo 6 mesi. Noi stiamo lavorando a un piano di edilizia carceraria da 84 milioni di euro per la costruzione di 8 nuovi padiglioni e la ristrutturazione di celle, già esistenti, ma inagibili”. Circa un terzo dei detenuti è straniero. C’è la possibilità di riuscire, nell’ambito del Piano Mattei, di inserire anche degli accordi per far scontare la pena nel Paesi di origine in modo da alleggerire il peso nei nostri penitenziari? “Sui 51.249 detenuti 17.987 sono stranieri e costano, come tutti gli altri, 137 euro al giorno che all’anno fanno 899 milioni 439 mila e 935 euro. Per questo stiamo lavorando a un progetto, collegato al Piano Mattei, che prevede di siglare accordi con i Paesi d’origine in modo che chi è stato condannato in Italia possa scontare la pena nei penitenziari dei loro Paesi. Nell’ambito di questo accordo cercheremo di superare la volontà del detenuto”. Sì perché oggi per trasferire un detenuto al di fuori dell’area Ue è necessaria anche la volontà del detenuto che può rifiutarsi di scontare la pena nel Paese di origine. Come pensate di “convincere” i Paesi d’origine ad accettare il rientro dei loro connazionali condannati in Italia? “Attraverso un meccanismo di premialità. L’Italia garantirebbe un sostegno per la formazione di lavoratori in loco garantendo anche un maggior numero di ingressi di lavoratori qualificati regolari (extraflussi) in cambio i Paesi africani dovrebbero accettare il rientro dei loro connazionali detenuti negli istituti penitenziari italiani”. Accordi simili già esistono per Albania e Romania. Ogni intesa sarebbe subordinata alla garanzia di una serie di requisiti e sul trattamento dei detenuti. I penitenziari soffrono di un sovraffollamento e, contestualmente, di una carenza di personale. Anche su questo state lavorando? “Stiamo lavorando anche su questo. Intanto procedono le assunzioni dei funzionari giuridico pedagogici, gli educatori che accompagnano i detenuti nel percorso di reinserimento sociale; questo per quanto riguarda il versante trattamentale. Sul lato sicurezza ad agosto sono già entrati in servizio 1.479 uomini del 181° corso di formazione per agenti di polizia penitenziaria. Altri 300 verranno assunti tramite lo scorrimento in graduatoria. Non solo sono stati finanziati altri due corsi di formazione: il primo da 1.713 alunni e il secondo da 1.758. Non è un lavoro facile perché veniamo da anni di disinvestimenti, flagellati dalla legge Madia”. E per i detenuti tossicodipendenti? “Sono un terzo della popolazione carceraria. Dobbiamo intervenire anche su questo perché abbiamo constatato come per questa tipologia di detenuto non bastano i corsi di formazione. Solo per fare un esempio: entri in galera per un reato legato alla tua tossicodipendenza, io ti inserisco in un percorso di formazione lavorativa insegnandoti, magari, a fare il ceramista. Tu puoi uscire dal carcere che sei un ottimo ceramista ma se sei ancora tossicodipendente non abbiamo risolto nulla. Se invece riusciamo, già dal giudice di primo grado, a farti scontare la pena in una casa di cura del terzo settore magari esci disintossicato abbassando in questo modo la possibilità di recidiva”. “Dietro le sbarre ingiustamente dal 1991”: si mobilitano il Partito Radicale e il Papa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 settembre 2023 L’ergastolano Beniamino Zuncheddu lotta per la liberazione condizionale mentre il processo di revisione procede lentamente. Ora si è ammalato in carcere. I Radicali organizzano per il 19 settembre a Roma una manifestazione, mentre Papa Francesco prega per lui. Il giorno successivo a Ferragosto, don Giuseppe Pisano, il parroco del piccolo paese sardo di Burcei, ha scritto una lettera a Papa Francesco chiedendo di pregare per Beniamino Zuncheddu, un uomo che trascorre gran parte della sua vita dietro le sbarre, accusato di essere coinvolto in una strage avvenuta nelle montagne di Sinnai nel lontano 1991. Tuttavia, come già riportato da Il Dubbio, la condanna all’ergastolo si basa su basi estremamente fragili, tanto che il suo processo di revisione è attualmente in corso, seppur con estrema lentezza. Questa situazione potrebbe rappresentare uno dei più gravi errori giudiziari italiani. Ciò che rende questa lettera ancora più significativa è il ricordo di un incontro avvenuto molti anni fa nella Basilica di Bonaria, durante la visita di Papa Francesco a Cagliari. In quell’occasione, il Pontefice si è fermato per alcuni istanti proprio con Beniamino Zuncheddu, che aveva portato un dono da parte di tutti i carcerati. Quel momento di umanità e compassione ha lasciato un’impronta indelebile nel cuore di don Giuseppe, il quale ora cerca l’assistenza del Papa per un uomo che ha costantemente dichiarato la sua innocenza. Papa Francesco ha telefonato al parroco di Burcei - A raccontare questa storia, nella scorsa settimana, è stato proprio don Giuseppe, ai microfoni di Radio Radicale. Inoltre, ha aggiunto che la lettera non è rimasta senza risposta: Papa Francesco, dopo averla ricevuta, ha risposto alla richiesta del parroco con una telefonata, in cui ha assicurato che avrebbe pregato per Beniamino Zuncheddu. Questa semplice promessa ha portato conforto e speranza a un uomo che oggi ha 58 anni e la vita distrutta. La vicenda di Beniamino ha catturato l’attenzione del Partito Radicale, che sta conducendo una battaglia per la sua liberazione. L’avvocato Mauro Trogu, intervistato da Radio Radicale durante la trasmissione “Lo stato del Diritto” condotta da Irene Testa, ha raccontato questa vicenda giudiziaria agghiacciante, che ha colpito profondamente coloro che seguono questa storia. La telefonata di Papa Francesco al parroco di Burcei è stata un gesto di solidarietà e compassione che ha contribuito a mantenere viva la speranza di giustizia per Beniamino Zuncheddu. Il 19 settembre è prevista una manifestazione del Partito Radicale a Roma, di fronte alla Corte d’appello, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla vicenda di Zuncheddu e per chiedere che sia fatta giustizia. Il processo di revisione è in corso alla Corte d’Appello di Roma - Ripercorriamo la vicenda. Zuncheddu sta scontando una condanna all’ergastolo per un triplice omicidio e un tentato omicidio avvenuti a Cagliari l’8 gennaio 1991. La sua vicenda ha suscitato indignazione e compassione, grazie alla tenacia dell’avvocato Mauro Trogu, sta combattendo su due fronti per ristabilire la sua innocenza. La prima battaglia di Beniamino riguarda la revisione del suo processo, attualmente in corso presso la Corte d’Appello di Roma. Questa revisione è basata su nuove prove schiaccianti che mettono in discussione la sua colpevolezza. La sua storia è così incredibile che alcuni la considerano uno dei più grandi errori giudiziari nella storia italiana. Zuncheddu è entrato in carcere a soli 27 anni e da allora non ha mai più visto la libertà. La sua condanna si basava principalmente sulla testimonianza di un unico testimone oculare, l’unico sopravvissuto alla terribile strage che ha scosso l’opinione pubblica all’epoca. Inizialmente, questo testimone aveva dichiarato che l’assassino aveva il volto coperto da una calza e quindi non poteva riconoscerlo. Tuttavia, dopo un periodo di tempo, ha improvvisamente cambiato versione, sostenendo che l’assassino aveva il volto scoperto e identificando Beniamino Zuncheddu attraverso un inusuale riconoscimento fotografico, senza il tradizionale confronto diretto. Ciò che rende questa storia ancora più incredibile è il fatto che le prime indagini stavano seguendo una direzione diversa, forse più vicina alla verità dei fatti. Tuttavia, una svolta improvvisa è avvenuta grazie all’intervento di un sovrintendente della Criminalpol, che ha ricevuto una confidenza che indicava Zuncheddu come l’autore degli omicidi. Questo agente ha iniziato a esercitare una pressione insolita sul testimone oculare, conducendo numerosi colloqui investigativi non verbalizzati. L’agente ha dichiarato che smise di credere che il testimone non avesse visto l’assassino e lo spinse a “dire la verità”. Poco dopo, il testimone oculare si dichiarò pronto a riconoscere l’autore degli omicidi e indicò Zuncheddu prima in una fotografia davanti al pubblico ministero e poi in una ricostruzione fotografica. Nel 2020 la procura generale di Cagliari ha avviato una nuova inchiesta - Nel 2020, la procura generale di Cagliari ha avviato una nuova inchiesta che ha rivelato intercettazioni ambientali tra il testimone oculare e sua moglie. Durante queste conversazioni, è emersa chiaramente la mala fede del testimone. Inoltre, è stato dimostrato che una delle motivazioni della sentenza di appello che ha confermato la condanna di Zuncheddu, secondo cui l’aggressore si trovava nella zona illuminata e poteva essere riconosciuto, è stata completamente smentita da una ricostruzione 3D effettuata da un colonnello dei carabinieri. La stessa difesa ha dimostrato che l’aggressore è rimasto nel cono di luce per soli 0,1 secondi ed era con la luce alle spalle, rendendo impossibile il riconoscimento. Inoltre, Beniamino Zuncheddu non aveva mai usato armi da fuoco in vita sua, a causa di un problema alla spalla che aveva sin dalla nascita. I delitti erano stati chiaramente commessi da professionisti, il che contraddice ulteriormente l’accusa. Nonostante la sua lunga permanenza in carcere, Zuncheddu ha sempre mantenuto una condotta esemplare e non ha mai violato le regole. Dopo aver lavorato all’interno e all’esterno dell’istituto, è stato ammesso al regime di semilibertà nel 2018 e ha dimostrato di essere un individuo capace di reintegrarsi nella società in modo civile e responsabile. Il 19 settembre la manifestazione del Partito Radicale a Roma - Tuttavia, la sua richiesta di liberazione condizionale subisce ostacoli. Il tribunale di Sorveglianza di Cagliari ha respinto la richiesta due volte, sostenendo che Zuncheddu non confessava i reati per cui era stato condannato. Tuttavia, la Cassazione ha annullato per tre volte queste decisioni, stabilendo chiaramente che il ravvedimento non richiede la confessione del reato. L’avvocato Mauro Trogu ha ribadito che la professione di innocenza non è incompatibile con la liberazione condizionale. Tante sono le prove che smentiscono la colpevolezza di Zuncheddu. Nonostante abbia trascorso più di tre decenni in carcere, la speranza di ottenere la sua liberazione e la revisione del processo rimane viva. Eppure la Corte d’Appello di Roma (competente per la revisione - continua a non sospendere la pena. Mentre il tribunale di sorveglianza di Cagliari va a rilento, fissando l’udienza per il 10 ottobre. In compenso Beniamino si è ammalato in carcere. Il Partito Radicale, come detto, ha organizzato una manifestazione davanti la Corte d’Appello per il 19 settembre. Il Papa sta pregando per lui. Rimangono solo i radicali e i preti, affianco a un ergastolano recluso ingiustamente. Nordio frena sulla separazione delle carriere, ma la maggioranza accelera e conta su Azione e Iv di Liana Milella La Repubblica, 5 settembre 2023 Alla Camera le audizioni sui quattro ddl costituzionali per dividere i giudici dai pm, mentre al Senato si apre il dossier su abuso d’ufficio e intercettazioni. Agosto è alle spalle, e la giustizia è sempre lì dove l’abbiamo lasciata. Anche se l’estate è stata segnata dai cinque morti di Brandizzo, dalla violenza contro le donne e da quella contro animali indifesi (vedi capretta di Fiuggi) o dal grilletto facile di chi ha ucciso l’orsa Amarena. Con un drammatico utilizzo dei social per diffondere immagini truci. Ma tant’è. Le commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera e del Senato riaprono invece i dossier su separazione delle carriere, abuso d’ufficio, intercettazioni. Il Guardasigilli Carlo Nordio, come ha detto domenica a Cernobbio, frena sulle carriere, considera quel ddl costituzionale un punto di arrivo e non di partenza per riformare la giustizia. Ma in Parlamento, proprio com’è avvenuto per l’abuso d’ufficio e le intercettazioni, invece c’è voglia di correre proprio su questo. Intestandosi la priorità dell’iniziativa. A spingere sul pedale dell’acceleratore è soprattutto Azione, con Enrico Costa, da sempre convinto che la riforma “madre” per cambiare la giustizia in Italia sia dividere i giudici dai pm, i primi succubi dei secondi, come diceva Berlusconi. Ma non solo. Azione vuole diventare protagonista anche della battaglia sulle intercettazioni. Sfruttando subito, in un decreto a più voci, gestito dalle commissioni sia Affari costituzionali che Giustizia di Montecitorio, la norma chiesta dai magistrati antimafia, annunciata già a metà luglio dal sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano, e poi firmata da Nordio, che mette in sicurezza tutti gli ascolti, anche quelli già fatti, da una sentenza della Cassazione del settembre 2022 che dava un’interpretazione restrittiva rispetto al concetto di criminalità organizzata. Il decreto ristabilisce invece, come del resto stabiliva già la sentenza Scurato delle Sezioni unite di piazza Cavour del 2016, che conta il “metodo mafioso” e non l’associazione mafiosa per utilizzare il metro più ampio delle intercettazioni già previsto dal codice. Il tutto non solo per il futuro ma anche per il passato. Ed è qui che protesta Costa, ma anche Forza Italia è critica. Costa vuole anche “approfittare” del decreto per presentare altri emendamenti stringenti rispetto all’uso degli ascolti. Sicuramente, tra questi, ci sarà quello per respingere la sola possibilità che un decreto approvato oggi possa avere un’applicazione pure per il passato. La solita querelle sulle intercettazioni riparte da qui, con il giallo di un presunto documento attribuito a Forza Italia - ma non ne sono a conoscenza né il presidente della prima commissione Nazario Pagano, né il vice presidente della Giustizia Pietro Pittalis, entrambi di Forza Italia, né tantomeno Pierantonio Zanettin, capogruppo per Fi nella commissione Giustizia del Senato - che boccerebbe già come incostituzionale la possibilità di applicare alle intercettazioni del passato una norma approvata oggi, anche se ha il sapore di un’interpretazione autentica. Ma alla Camera, da domani, l’argomento top sarà la separazione delle carriere, con le prime audizioni, sui quattro disegni di legge (Forza Italia, Lega, Azione, Iv), del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia e quello del Consiglio nazionale forense Francesco Greco, con l’esclusione a sorpresa di Giandomenico Caiazza, tuttora leader delle Camere penali, anche se in scadenza, ma patron della battaglia già nella scorsa legislatura con il ddl di iniziativa popolare portato in Parlamento che però non riuscì neppure a giungere in aula. Nordio invece sta a guardare, forse consapevole che la separazione delle carriere, come dicono i magistrati, non fa guadagnare alla giustizia un solo giorno, e soprattutto rischia, con il referendum, di essere bocciata ancora una volta. Nordio invece insiste su abuso d’ufficio e intercettazioni. È l’altro dossier sul tavolo della presidente della commissione Giustizia del Senato Giulia Bongiorno che già oggi pomeriggio ha convocato al piano ammezzato del Senato il presidente dell’Anac Giuseppe Busia e quello dell’Anm Santalucia. Su abuso d’ufficio e intercettazioni ripeteranno quanto hanno già detto alla Camera, soprattutto sul reato che i sindaci vogliono abolire. E sarà proprio il sindaco di Bari Antonio Decaro, nonché presidente dell’Anci, a spiegare la teoria della “paura della firma”. Mentre a Caiazza toccherà la difficile partita delle intercettazioni (bloccata la pubblicazione sui media se non sono contenute negli atti dei giudici), del gip sostituito da tre giudici, della stretta sulla carcerazione preventiva, possibile solo dopo un interrogatorio di garanzia. Nordio punta sulla giustizia civile (e in Fi nascono primi malumori) di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 settembre 2023 Il ministro della Giustizia ha rassicurato il Forum Ambrosetti di Cernobbio sui passi in avanti fatti sul settore civile. Sul penale spazio alla riforma dell’abuso d’ufficio, ma la separazione delle carriere dovrà aspettare. L’intervento in versione civilista del ministro Carlo Nordio alla giornata finale del Forum Ambrosetti di Cernobbio ha mandato nel pallone gran parte del mondo mediatico e politico. Non la platea di imprenditori, manager e investitori presenti in sala, che al termine del discorso del Guardasigilli si è lasciata andare in un lungo, reiterato applauso, che ha interrotto per diversi secondi la ripresa dei lavori. Proprio Nordio nel 2021 coordinò uno studio per la Ambrosetti House per calcolare l’impatto della giustizia lenta sull’economia, tema caro ogni anno all’incontro di Villa d’Este. “La malagiustizia ci costa due punti di pil l’anno”, spiegò l’ex procuratore aggiunto di Venezia. Un concetto ribadito dallo stesso Nordio proprio domenica scorsa: “La nostra priorità è la giustizia civile, perché la lentezza della giustizia costa all’Italia più di due punti di pil. Questa è l’urgenza più importante. Gli investimenti stranieri in Italia sono vulnerati da questa lentezza”. “Quando io parlo con i miei omologhi degli altri stati e con gli ambasciatori tutti mi dicono: ‘Noi non investiamo in Italia perché non c’è la certezza del diritto’”, ha aggiunto Nordio, prima però di sottolineare i passi in avanti fatti dal paese negli ultimi mesi per velocizzare i procedimenti civili, attraverso la semplificazione delle procedure, la digitalizzazione e l’informatizzazione, l’aumento delle procedure conciliative e la sistemazione dei giudici onorari. Il ministro ha poi voluto evidenziare gli effetti positivi determinati nel settore civile da alcune riforme penali, in primis dall’abolizione dell’abuso d’ufficio, contenuto nel primo decreto varato dal governo su indicazione del Guardasigilli lo scorso giugno, ora all’esame del Parlamento. “Su oltre cinquemila indagini che ogni anno si fanno su questa fattispecie (ha ricordato (meno di sei o sette arrivano a una condanna, che peraltro è estremamente platonica, che non giustifica minimamente le risorse che vengono impiegate, perché sono processi estremamente lunghi. Provoca soltanto la paura della firma: nessuno firma più nulla perché ha paura non di essere condannato, ma di essere inquisito”. Insomma, consapevole della composizione del pubblico che lo stava ascoltando, Nordio ha insistito per tranquillizzare il settore economico. Poi ha assicurato che “non esiste alcun slittamento della riforma della giustizia”, mandando in confusione gli organi di informazione. “Abbiamo portato al presidente del Consiglio un crono-programma che è già stato approvato dal Consiglio dei ministri in una prima parte, secondo i tempi decisi, e ha comportato essenzialmente delle proposte di riforma del codice di procedura penale e del codice penale”, ha dichiarato, riferendosi evidentemente al decreto legge approvato a giugno, riguardante l’abuso d’ufficio, ma anche la modifica del reato di traffico di influenze illecite, la riforma delle intercettazioni per rafforzare la privacy dei terzi, l’intervento sulle misure cautelari per garantire maggior contraddittorio tra le parti e la limitazione del potere di appello del pubblico ministero. “Passeremo presto alla seconda parte, forse già nel prossimo Cdm”, ha poi aggiunto Nordio, specificando però di non riferirsi alla riforma di carattere costituzionale (in particolare la separazione delle carriere): “Per altre riforme che vorrei affrontare, come quelle di carattere costituzionale, ad esempio la separazione delle carriere dei magistrati, servono tempi più dilatati come prevede la Costituzione”. La seconda parte della riforma penale annunciata da Nordio dovrebbe dunque riguardare il completamento della riforma dei reati contro la Pa e il tema della prescrizione. La separazione delle carriere verrà sacrificata per ora sull’altare della riforma costituzionale della forma di governo. I parlamentari di Forza Italia, primi sostenitori della separazione delle carriere, al momento non esprimono preoccupazione, anche se, lontano dai microfoni, alcuni malumori si fanno strada. Giustizia e devianza minorile, come funziona in Italia e in Europa di Andrea Aversa L’Unità, 5 settembre 2023 Togliere i figli ai genitori, aumentare le pene e abbassare l’età punibile non sono la soluzione ma l’ultima spiaggia di una politica incapace. La morte di Giovanbattista Cutolo, ucciso a Napoli da un 17enne, ha riaperto il dibattito sui rimedi da porre alla devianza giovanile. Tre sarebbero le soluzioni che secondo molti risolverebbero questa piaga sociale: togliere la patria potestà a genitori che vivono in contesti criminali, condannando i loro figli alla stessa vita; aumentare le pene per specifici reati; abbassare l’età punibile e quindi condannare e mandare in carcere i minorenni colpevoli di reati gravi. Rimedi da prendere in considerazione ma che non devono sfuggire a due considerazioni. La prima: siamo sicuri, scientificamente, che l’approvazione di tali provvedimenti renderebbe più pulita e sicura la nostra società? La seconda: non è che si tratta semplicemente di norme-spot da ‘ultima spiaggia’ realizzate da una politica incapace e alla continua ricerca del consenso? Giustizia e devianza minorile in Italia e in Europa - Veniamo ai fatti, anzi ai numeri. Nei principali paesi europei, secondo l’European Prison Observatory, Prison Insider e dalla pubblicazione “Alternatives To Custody For Young Offenders And The Influence Of Foster Care In European Juvenile Justice” (fonte, ragazzidentro.it, 2020), l’età punibile varia (ad esempio, si può finire sotto processo (ma non per forza in carcere (a 8 anni in Scozia, a 10 in Inghilterra, a 12 in Irlanda e in Olanda, in Francia e in Polonia a 13, in Italia a 14 e in Danimarca, in Finlandia, in Repubblica Ceca e in Svezia, a 15 anni). In generale si è assistito a un processo che ha disincentivato l’uso della detenzione e promosso quello delle pene alternative. In Europa - In Spagna, i minori che hanno tra i 14 e i 18 anni (non compiuti) sono giudicati attraverso un codice penale a parte. Per loro non è previso il carcere ma la reclusione presso strutture differenti. Molto spesso vengono condannati a svolgere attività socialmente utili o affidati temporaneamente ad una famiglia. In Germania è capitato che anche ragazzi di 20-21 anni siano stati giudicati con il sistema penale per minorenni. In generale la legislazione dipende da regione a regione, secondo le leggi federali previste. Spesso è considerato ‘minorenne’ anche un giovane di 24 anni. La detenzione - La detenzione è l’estrema ratio, sono invece tenute in grande considerazione, pene definite educative (l’impossibilità per il minore di recarsi in qualche luogo specifico) e disciplinari (il minore è condannato a riparare il danno causato e a prestare servizio presso un’associazione di volontariato). In Francia, per i minorenni, anche vige un sistema penale differente da quello previsto per gli adulti. Spesso, però, la separazione tra minori e maggiorenni all’interno degli istituti (da un punto di vista della detenzione (non sempre avviene. Nel paese transalpino le pene vengono comminate per probation (nel caso in cui la pena è sospesa) o attraverso i lavori socialmente utili. Pene alternative - In Portogallo, anche il sistema penale minorile sia separato da quello degli adulti, capita che i minorenni possano essere giudicati come i maggiorenni e addirittura detenuti con gli adulti. Se un giovane colpevole di reato ha tra i 12 e i 16 anni, è recluso in un centro educativo fino al compimento dei 20 anni (alle volte anche fino ai 25 anni). Previste dall’ordinamento giudiziario portoghese, anche pene alternative, attraverso le quali il minore condannato può prestare servizio presso associazioni di volontariato o partecipare a corsi di formazione. Il problema è sociale - Dunque, ad oggi, l’Italia è piuttosto in linea con il sistema penale di questi paesi. Perché introdurre quei cambiamenti tanto urlati in piazza e in tv servirebbe a ben poco? Innanzitutto, uno Stato che come soluzione alla devianza minorile decida di togliere l’affidamento dei figli ai propri genitori, è uno Stato che ha fallito. Certo, le scene alle quali spesso abbiamo assistito di bambini costretti dai familiari a spacciare droga, sono vergognose. Tuttavia, siamo sicuri che un ragazzino strappato ai suoi affetti non subisca alcun trauma? Questo nonostante alcuni casi, secondo quanto dichiarato a La Repubblica dal presidente del tribunale per i minorenni di Catania Roberto Di Bella, abbiano dimostrato che qualche minore sia stato così ‘salvato’ dalla vita alla quale suo padre e sua madre lo avrebbero condannato. Secondo argomento: l’inasprimento delle pene. Il regime penale - L’Italia è uno dei paesi con più leggi al mondo e uno dei pochi paesi dove qualsiasi problema si crede di risolverlo creando un nuovo reato. Nel Belpaese la prevenzione è inesistente, la bonifica sociale inefficace. La politica non interviene sulla dispersione scolastica, sulla disoccupazione, sull’incentivare attività sportive e culturali. Negli ultimi 30 anni c’è stata un’incapacità amministrativa che avrebbe dovuto garantire una certa mobilità sociale. Di conseguenza chi nasce in un determinato contesto, è impossibilitato ad emergervi. Sarebbe più facile, appunto, mandare in carcere un minorenne, piuttosto che recuperarlo. E veniamo qui all’ultimo tema: quello della detenzione minorile. Il carcere - Di sicuro, negli ambienti criminali, c’è spesso la tendenza a scaricare sui minorenni le responsabilità di un reato. Soprattutto se quest’ultimo è grave. Spesso gli adolescenti sono armati dagli adulti proprio per sfruttare tale vantaggio: un adolescente in carcere non ci va. E dunque? Gettiamo in cella un ragazzino, lo buttiamo in una stanza di pochi metri quadri insieme ad altre 6-7 persone più grandi, lo facciamo entrare in una struttura dove le condizioni igienico-sanitarie sono precarie, dove scarseggiano lavoro e attività educative. In questo modo saremo sicuri di aver risolto il problema. La soluzione è il diritto - Che finalmente tale punizione sia da monito per tutti quei gio0vani che usano pistole e coltelli come acqua fresca. Convinti che nessun minorenne delinquerà, perché impaurito dal finire in un penitenziario. Ciò con la consapevolezza che le carceri italiane tutto fanno, tranne che riabilitare il detenuto, così come invece afferma la Costituzione. In un paese nel quale il tasso di recidiva è molto elevato, quindi chi commette dei reati continuerà molto probabilmente a commetterli anche dopo la detenzione. Sempre se quella persona avrà la fortuna di uscire vivo da una cella. A Napoli - Tornando a Napoli, città (non la sola) devastata dalla devianza minorile e che ha visto morire troppi giovanissimi negli ultimi anni, il Comune ha attivato un ‘Patto educativo’ per contrastare il fenomeno della dispersione scolastica. Soluzione che dovrebbe, si spera, dare i suoi frutti tra qualche tempo. Inoltre, il Ministero degli Interni (tramite la Prefettura e gli operatori del Terzo settore (svolgerà un lavoro capillare sul territorio grazie all’attività delle forze dell’ordine. Queste ultime, secondo le anticipazioni pubblicate da La Repubblica, dovranno segnalare alla Procura quei minori che vivono in contesti sociali degradati. Il futuro - Contesti dove vi sono pregiudicati e / o latitanti, scenari familiari nel quale l’adolescente è costretto a lavorare invece di andare a scuola. Particolare attenzione sarà data a quei nuclei familiari collegati alla criminalità organizzata. Non ci è dato sapere se tutto questo funzionerà. Di sicuro non è abbastanza. Però ci auguriamo che possa essere un primo e piccolo passo per il futuro di questi giovani. Bongiorno: “I minori sotto i 14 anni siano imputabili” di Davide Varì Il Dubbio, 5 settembre 2023 Daspo ai minori, multe ai genitori, e castrazione chimica: le proposte della Lega contro la violenza giovanile e di genere. La senatrice: “Abbassiamo la soglia di imputabilità”. “La Lega sta lavorando a una serie di proposte sulla violenza dei minori. Tra queste, voglio ricordare quella del Daspo per i minori di 14 anni. Oggi i ragazzi crescono molto in fretta e attraverso la rete e i social acquisiscono in giovanissima età nozioni che un tempo si acquisivano dopo. Il tema è complesso e dovremmo anche pensare alla possibilità di abbassare la soglia di imputabilità, che oggi è fissata a 14 anni”. Lo afferma in un’intervista a Libero Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia al Senato e responsabile Giustizia del partito. “I casi di violenza sulle donne che in questi giorni riempiono le cronache rappresentano la punta di un iceberg: in tantissime, per i motivi più diversi, scelgono di non denunciare. Non si deve pensare che il fenomeno riguardi solo i casi seguiti dai media, il problema è drammaticamente più ampio - continua la senatrice -. La violenza sulle donne, comunque, c’è sempre stata ed è trasversale; investe tutte le classi sociali e tutte le fasce d’età. Per combatterla bisogna comprenderla, e innanzitutto distinguerla dalla violenza comune individuandone la specificità: affonda le radici nella discriminazione, in una concezione della donna come essere inferiore, oggetto, preda; ci sono uomini per i quali il consenso della donna è una questione del tutto irrilevante, anzi inesistente. La violenza sulle donne riguarda anche i più giovani, che a volte sembrano presumere una specie di “diritto all’amplesso”. Credo che in questo siano influenzati dall’uso di internet e dei social network”. Bongiorno si dice “assolutamente favorevole all’educazione sessuale e all’educazione alla prevenzione. E sono favorevole anche a quello che io chiamo “diritto penale preventivo”: parlare in modo chiaro ai ragazzi delle conseguenze delle loro condotte. Naturalmente, bisogna innanzitutto - fin da quando sono molto piccoli - educarli al rispetto e all’idea che uomini e donne sono diversi ma uguali quando si parla di capacità, diritti e doveri”. Dopo i fatti di Palermo e Caivano, teatro degli abusi su una ragazza di 19 anni e due bambine, la Lega ha lanciato una serie di proposte per contrastare la violenza giovanile. Prima fra tutte la legge sulla castrazione chimica per chi commette reati di violenza sessuale, un vecchio cavallo di battaglia del partito rilancio nelle scorse settimane da Matteo Salvini. Il testo, a prima firma Mara Bizzotto, è stato depositato al Senato e prevede due ipotesi: il trattamento potrà essere disposto sia su base volontaria che obbligatoria. “I tempi sono maturi per passare dalle parole ai fatti. Sia chiaro: non è prevista alcuna violazione dei diritti delle persone”, precisa la Lega. Ma ad opporsi non sono soltanto le opposizioni: l’idea non piace neanche a Forza Italia, e al suo leader Antonio Tajani. Il quale chiarisce che la castrazione chimica non è nel programma di governo: “Agire sul corpo di una persona non è la soluzione giusta - dice il vicepremier - io sono contrario anche alla pena di morte”. In discussione in Commissione Giustizia a Palazzo Madama anche il ddl che prevede “daspo per i minori di 14 anni e sanzioni per i genitori, multe salate per chi non manda i figli a scuola, inasprimento delle pene, lavori socialmente utili subito o processo senza sconti per chi commette reati”. Punire i bambini non ci aiuterà a evitare l’infanzia ferox di Francesco Petrelli Il Dubbio, 5 settembre 2023 La maturità precoce dei giovani? Un assunto tutto da dimostrare. L’ipotesi ventilata di rivedere il sistema sanzionatorio minorile, eliminando l’inimputabilità dei minori di quattordici anni (sospinta, come spesso accade, dalla cronaca giudiziaria (ripropone un tema che non è affatto nuovo. Ma si tratta di questioni piuttosto inquinate da pregiudizi culturali. Si è dunque affermato che “oggi i ragazzi crescono in fretta: devono essere consapevoli delle conseguenze dei loro atti”. Dove quel “devono” confonde il dato deontico (il dover essere) con la possibilità di “essere” davvero consapevoli, un elemento la cui effettiva sussistenza dovrebbe essere invece il frutto di una osservazione empirica della realtà. Il presupposto è che vi siano reati e condotte il cui disvalore sociale e morale, come una violenza sessuale, è di intuitiva percezione. Altri illeciti posti a tutela di beni giuridici più ineffabili, che lo sono meno. Ma è sufficiente questa prospettiva per discriminare la risposta sanzionatoria dell’ordinamento? La consapevolezza della illiceità e della immoralità di una condotta può riassumere in sé la pienezza della responsabilità di quella scelta? Noi sappiamo che la nostra idea di sanzione nasce dal presupposto razionale del riconoscimento di una attitudine malvagia dell’essere umano e al tempo stesso della rimediabilità del male. Se “puniamo” il male è perché crediamo nella sua evitabilità. E se riteniamo l’autore di un illecito punibile, è perché crediamo che fosse pienamente in grado di comprendere e di volere il suo atto. Una pienezza di cui un bambino è certamente privo. Una pienezza che un adolescente non ha certamente raggiunto. Corre tuttavia in proposito l’idea che la più precoce e rapida diffusione dell’informazione operata dai mediatori sociali renda i giovani adolescenti più maturi e più consapevoli di quelli di una volta. Che oggi i giovanissimi, come sostiene la Senatrice Bongiorno, “acquisiscono nozioni che si acquisivano dopo” è assunto che è tutto da dimostrare, che spesso confonde l’idea della conoscenza, della consapevolezza e della maturità con quella di una frastornata saturazione di dati nudi e crudi privi del loro significato. Le esperienze empiriche (e la cronaca giudiziaria) ci insegnano che nel mondo adolescenziale l’emotività sostituisce i sentimenti e la reattività domina la ragione. Il pensiero veloce prende il sopravvento su quello riflessivo. Il confine fra realtà e percezione è rarefatto. Il mondo virtuale si pone come unico mondo reale. La cognizione del limite si fa sempre più evanescente. E dobbiamo in proposito essere noi tutti consapevoli che quel mondo di latente impulsività e di virtualità tecnologica lo abbiamo consegnato noi ai nostri giovani, per cui di quella condizione di fragilità dovremmo noi tutti sentirci responsabili anziché scaricare sui minori gli esiti di un mondo disumanizzante. Occorre, in proposito, porsi una domanda pregiudiziale: se nella modernità una evoluzione vi è stata, questa evoluzione ha davvero aumentato le competenze del minore o ha solo aumentato il numero delle informazioni a disposizione? E tale patrimonio di dati corrisponde ad una crescita di consapevolezza e ad una vera educazione sentimentale, o si alimenta a detrimento del rapporto con la realtà e delle capacità di scelta? Sappiamo come nel nostro Paese corra sempre più veloce una diffusa e irragionevole cultura della pena e della penalità. Se questo sentimento fagociterà anche il processo e la giustizia minorile, e la risposta a queste domande sarà dunque quella sbagliata, avremo poco da sperare per quel che resta della Giustizia nel nostro Paese. Violenze sulle donne, 373 Centri Antiviolenza e 431 Case Rifugio: il coraggio oltre la solitudine di Giulio Sensi Corriere della Sera, 5 settembre 2023 I centri di supporto, distribuiti in tutte le regioni, registrano un aumento delle richieste. Istat: più vittime reagiscono e chiedono aiuto. Ma le risorse sono ancora insufficienti. La solitudine fa male quanto le botte e le minacce: le rafforza, ne attutisce il rumore, affievolisce la speranza per le donne che ne sono vittima di uscire dall’isolamento e dalla spirale della violenza. I femminicidi, gli stupri, le aggressioni denunciate e raccontate sono solo una minuscola punta di un iceberg sotterraneo e nascosto con cui l’Italia non riesce ancora a fare i conti, nonostante che il sistema di protezione stia crescendo e si sia rafforzato: il numero telefonico 1522 antiviolenza e antistalking è sempre più utilizzato, esistono 373 Centri Antiviolenza (Cav) in tutte le regioni e 431 Case Rifugio, l’utenza è in continuo aumento, sempre più operatrici e volontarie sono in prima linea a sostegno delle donne che vogliono gettarsi alle spalle un passato fatto di abusi fisici e psicologici. I dati vengono raccolti dall’Istat e dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri che monitorano dal 2017 il fenomeno. “L’indagine - spiega la referente della ricerca per Istat, Maria Giuseppina Muratore - rileva solo i numeri di quelle che hanno iniziato un percorso di uscita. La situazione sta migliorando: ci sono più denunce, più ricorso all’ospedale. Dal 2020 c’è stato un picco di ricoveri in codice rosa. I Cav sono gestiti da donne che credono fortemente in quello che fanno, lasciano libere le vittime di creare il loro percorso e le aiutano nella conquista di consapevolezza. Le operatrici hanno un’elevata formazione, i loro Centri sono radicati sul territorio e attivi con i servizi e la rete territoriale. Fare rete è cruciale, ma l’utenza è tanta e le risorse sono ancora insufficienti”. “La protezione e la prevenzione - commenta Linda Laura Sabbadini, statistica, già direttrice centrale dell’Istat ed esperta sul tema - sono un punto nodale. Le donne sono sole di fronte alla violenza: il 63 per cento di quelle che vengono uccise non aveva parlato praticamente con nessuno di quello che stava subendo. E questo nonostante gli sforzi di tantissime altre persone attive sui territori. Ma le risorse messe in campo devono essere fortemente incrementate”. Quelle che decidono di farsi aiutare trovano sostegno e accompagnamento. Francesca Maur è consigliera di DiRe, Donne in rete contro la violenza, che unisce 81 organizzazioni, 108 Centri che ascoltano più di 20mila donne ogni anno, gestiscono 62 Case rifugio e mobilitano quasi 3mila attiviste. I dati ufficiali dicono che si arriva ai Cav dopo essere usciti dalla spirale della solitudine, rivolgendosi principalmente ai parenti e agli amici, alle Forze dell’Ordine, servizi di pronto soccorso e ospedali. Nei Centri si trovano operatrici, psicologhe, avvocate pronte ad assistere. “La prima cosa che fanno i Cav - spiega Maur - è accogliere e ascoltare, senza giudicare. Viene fatta subito una valutazione del rischio che la donna possa subire recidiva ed essere ancora aggredita dal maltrattante. A quel punto parte un percorso di rielaborazione dei vissuti legati alla violenza che riguardano anche i figli, i quali possono subirla direttamente o indirettamente. Crediamo sempre alle donne, diamo loro fiducia. Nell’ottica di una restituzione di responsabilità, perché dentro la dinamica della violenza i maltrattanti tendono ad accusare le vittime di esserne responsabili”. Uscire dalla spirale non è semplice: dopo anni di relazione, in presenza di figli, magari senza un lavoro e un alloggio, con vissuti particolarmente traumatici, le donne non sempre trovano la forza di costruire una nuova vita indipendente. “È fondamentale - aggiunge Maur - la distanza fisica dall’autore dei soprusi. Nei casi in cui ci sia bisogno vengono ospitate, anche con i figli minori, per alcuni mesi nelle Case Rifugio a indirizzo segreto dove possono entrare maggiormente in contatto coi loro vissuti”. Sostenibilità e qualità - I Cav vivono prevalentemente di fondi pubblici, ma non sono ancora sufficienti e sono distribuiti in modo eterogeneo sul territorio. “Le realtà che riescono a retribuire le operatrici professionali - spiega Maur - assicurano più sostenibilità e qualità ai percorsi e garantiscono formazione continua. Anche la formazione che facciamo alle forze dell’ordine e alla magistratura dovrebbe essere rafforzata, così come gli interventi nelle scuole. È dalle giovani generazioni che può nascere e fiorire una cultura diversa”. Per Linda Laura Sabbadini le sfide sono tre. “La prima è lo sviluppo di una cultura del rispetto in tutta la società contro gli stereotipi di genere attraverso la formazione a scuola e di tutti gli operatori. La seconda è non lasciare sole le donne, rafforzando la rete e accompagnandole nel percorso di uscita. La terza è la difesa e la protezione per coloro che hanno scelto di rompere l’isolamento e quindi l’azione contro chi esercita la violenza”. Violenza contro le donne, “No” degli studenti al securitarismo di Luciana Cimino Il Manifesto, 5 settembre 2023 Dopo Palermo e Caivano il governo pensa alla galera per i minorenni. Le misure emergenziali del ministro dell’istruzione Valditara che parla di “cultura del rispetto”. Gli studenti Uds e Rdc: “Non basta, vogliamo una rivoluzione transfemminista e l’educazione all’affettività”. Dopo gli stupri di Palermo e Caivano l’educazione all’affettività nelle scuole, da sempre guardata con avversione dal centrodestra, è diventata per il ministro all’istruzione (e merito) Valditara una questione urgente che riguarda la “cultura del rispetto”. “Il rispetto non ci basta, pretendiamo educazione sessuale, al consenso, all’affettività, all’emotività, ai generi che sia veicolo della cultura del consenso (hanno risposto gli studenti dell’Unione degli studenti e della Rete della Conoscenza (ogni scuola del Paese dovrebbe essere presidio di educazione sessuale e che quest’ultima sia laica, obbligatoria e che parta dalle scuole dell’infanzia e permei ogni ordine e grado dell’istruzione come servizio continuativo per sviluppare una società libera dalle discriminazioni”. Gli studenti dell’Uds e Rdc annunciando anche una mobilitazione in tutte le piazze d’Italia per il 17 novembre, giornata internazionale dello studente, “per pretendere un modello di scuola differente, transfemminista ed inclusivo”. Diversamente dalla gran parte del resto d’Europa l’Italia non ha ancora inserito l’educazione alla sessualità e all’affettività come materia obbligatoria a scuola. La questione è rimandata alla volontà, e ai fondi, delle singole scuole o degli insegnanti. Dopo i recenti fatti di cronaca che hanno coinvolto donne molto giovani Valditara ha previsto lezioni con esperti del settore (psicologi, rappresentanti di associazioni in difesa delle vittime di violenza, avvocati). e un forte coinvolgimento degli studenti attraverso la “peer education”, formazione tra pari. Il 25 novembre, nel giorno delle manifestazioni femministe contro la violenza sulle donne, Valditara (con la ministra dlla famiglia Roccella) ha annunciato di volere coinvolgere gli studenti in “corsi” on le vittime di violenza. “Sarà una giornata importante che vedrà la partecipazione anche di testimonial”, Anche l’uso delle parole è un problema in questa iniziativa che non risolve il problema dell’educazione all’affettività. Sono almeno due le domande: come si sceglieranno gli esperti del settore? E su quali argomenti si punterà? Ci sono associazioni laiche e cattoliche, chi si occupa di stereotipi di genere e educazione alla differenza e chi di prevenire le gravidanze e le malattie sessualmente trasmissibili. “Da anni (ha aggiunto Tess Kucich, coordinatore nazionale della Rete Della Conoscenza (lottiamo avanzando proposte come questa, che sono essenziali perché la didattica nel suo complesso, non solo relativamente a quella sessuale. Gli studenti vanno messi al centro del processo educativo”. Valditara ha promesso un milione e 500 mila euro per le scuole di Caivano, la nomina di nuovi insegnanti e l’apertura pomeridiana dei plessi scolastici. Sono iniziative come al solito emergenziali. La logica è quella seguita dal governo Meloni sin dal decreto sui rave, Lo si vede dagli annunci di altri ministri e esponenti di Fratelli d’Italiae della Lega. Il piglio è securitario, ispirato alle urgenze imposte dalla cronaca. Ad esempio, la ministra alla famiglia Eugenia Roccella ha proposto di impedire l’accesso ai siti porno ai minori. Proposta che ha suscitato il plauso anche della ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini: “Non esiste la censura ma (ha detto (esiste una protezione per i minori che è fondamentale garantire”. Il Ministro alla Giustizia Carlo Nordio ha dal canto suo, annunciato una stretta sulla diffusione di materiale pedopornografico senza consenso e pene più severe per i minori che compiono reati gravi. Misure care alla Lega che ha rivendicato la sua primogenitura con la senatrice Giulia Bongiorno e il capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo. Con la prima che parla di ancora di “castrazione chimica” menzionata da Matteo Salvini), il “Daspo” per i minori di 14 anni e anche di abbassare la soglia d’età dell’imputabilità e il secondo di lavori socialmente utili per i ragazzini e “tolleranza zero” per i reati commessi dai minori. Alcune di queste misure potrebbero finire in un “decreto Caivano” forse in Cdm giovedì. Padova. 6 agenti feriti in 5 giorni, Zan al Due Palazzi “Situazione grave, Nordio venga a vedere” di Sara Busato Corriere del Veneto, 5 settembre 2023 Il senatore del Pd: “Si ascoltino gli operatori”. Domani sit-in della penitenziaria. Sovraffollamento, deficit di agenti di polizia e aggressioni. Condizioni al limite per detenuti e guardie. È la difficile situazione che sta vivendo il carcere di Padova. Dopo le numerose aggressioni - sei agenti feriti in cinque giorni - il deputato del Partito Democratico, Alessandro Zan ha fatto visita ieri ai Due Palazzi. “Ho sentito, da chi ha delega di governo in questo preciso settore, frasi che ancora inseguono il consenso più che la soluzione del problema - commenta l’onorevole - annunciare aumenti di pena o sanzioni aggiuntive per detenuti con questo tipo di problemi è inutile e dannoso. Il governo dovrebbe ascoltare gli operatori perché le soluzioni sono a portata di mano”. La stilettata è diretta ovviamente al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Un problema quello del sovraffollamento già denunciato da tempo. L’area penale è un ambiente sovraffollato con un numero eccessivo di detenuti. Sono 630 i detenuti, ma dovrebbero essercene solo quattrocento. Una struttura che include anche coloro che sono condannati a pene tra uno e quattro anni, che in realtà dovrebbero essere ospitati nella Casa circondariale. Una condizione insostenibile già denunciata in più occasioni dai sindacati di polizia penitenziaria. “La situazione è al collasso - commenta Gianpietro Pegoraro Fp Cgil (Una carenza che determina una condizione di insicurezza sia per la Polizia che per i detenuti. Vanno potenziati i servizi che già esistono come l’ufficio esecuzione penale esterna”. La polizia penitenziaria chiede un inserimento di altri cinquanta agenti che sarebbero sufficienti per coprire la carenza di organico. Un’altra criticità è la mescolanza di persone con diverse problematiche e fragilità, tra cui tossicodipendenza e malattie psichiatriche. Per il sindacato è necessario ed urgente istituire dei circuiti adatti di detenzione, con personale sanitario qualificato per il trattamento. Mancano inoltre protocolli di intervento ad hoc per gli agenti. Una situazione critica e fuori controllo esplosa nelle scorse settimane. Come l’ultimo caso di un detenuto che ha mandato in ospedale due agenti di polizia penitenziaria, di cui uno con la mandibola rotta e cinquanta giorni di prognosi. Senza contare che da tempo al carcere circondariale manca un direttore che agevolerebbe la situazione e la soluzione dei problemi. Nel frattempo, su questo fronte il sottosegretario con delega al trattamento dei detenuti, Andrea Ostellari, in visita nei giorni scorsi, aveva promesso che a fine settembre si concluderà il corso di formazione per cinquantasette neodirettori in Italia. Padova da sempre fiore all’occhiello del sistema carcerario italiano, a causa di carenze di organico e organizzative, sta compromettendo la sua funzione. Per questa difficile situazione, domani è stato organizzato dai sindacati, un sit-in di protesta davanti all’istituto. Roma. Il carcere di Regina Coeli deve chiudere: spazi inadeguati, affollamento e troppi suicidi romatoday.it, 5 settembre 2023 Una mozione, firmata dall’intero gruppo capitolino Pd, impegna Gualtieri a muoversi con il ministro Nordio affinché la casa circondariale di via della Lungara cessi le sue funzioni al più presto. Risse tra detenuti, agenti di polizia penitenziaria aggrediti, tre suicidi fino a luglio 2023 e tre in tutto il 2022. Regina Coeli, il carcere più antico di Roma in via della Lungara, finisce nel mirino della politica capitolina e in particolare del Pd. Con una mozione che verrà discussa nelle prossime settimane, il gruppo dei dem in Campidoglio chiede al sindaco Roberto Gualtieri di far chiudere la casa circondariale, facendo pressione sul ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il Pd chiede la chiusura di Regina Coeli - L’atto è stato firmato da sostanzialmente tutte le consigliere e i consiglieri Pd in Campidoglio e sottolinea le caratteristiche strutturali dell’edificio di via della Lungara, costruito nel 1642 per ospitare un convento e diventato carcere nel 1881: “Gli spazi interni sono angusti- si legge nella mozione - e non sono conformi alle normative vigenti, ribadite sia dalla Suprema Corte di Cassazione sia dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in tema di superficie destinata ai singoli detenuti”. Struttura inadeguata e maxi sovraffollamento - Inoltre, il Pd sottolinea le condizioni psicologiche dei detenuti: “Le condizioni sanitarie sono allarmanti - denunciano i consiglieri - sia sotto il profilo delle cure mediche sia quello della salute e della cura mentale. Nel 2023, solo nei primi sette mesi ci sono stati tre suicidi, stesso numero nell’arco del 2022. Questa struttura carceraria non è in grado di offrire concrete forme di speranza”. Focus anche sul sovraffollamento: “Oltre ad una evidente inadeguatezza strutturale - scrivono la capogruppo Baglio & Co. - il carcere romano di Regina Coeli ormai da decenni versa in condizioni di costante sovraffollamento, con picchi di presenze fino al 150% della sua capacità ricettiva ed anche sotto questo profilo si è, quindi, dimostrata una struttura del tutto inidonea e insufficiente alla sua attuale destinazione”. Quindi, in sostanza, per il Pd Regina Coeli va chiusa. E l’istanza di chiusura la deve presentare Gualtieri sul tavolo di Nordio. Il sindacato di polizia penitenziaria: “Discussione inutile, servono 400 agenti subito” - “Una discussione inutile, l’ennesima - il commento del segretario regionale dell’Unione Sindacati Polizia Penitenziaria, Daniele Nicastrini - perché si pensa che chiudere un carcere risolva i problemi. Sono anni che lamentiamo gravi deficit di organico, denunciamo le aggressioni, le risse, i traffici di droga interni, situazioni favorite anche da un sovraffollamento smisurato rispetto al numero di agenti. Altri che chiudere: servono urgenti misure straordinarie per sopperire alle carenze e fronteggiare il dilagare dei reati”. In base ai numeri forniti dall’USPP, per gestire i 1.000 detenuti presenti a Regina Coeli (nonostante una capienza di 600), ci vorrebbe per il sindacato una immediata integrazione di personale, che nel complesso dei 5 istituti di pena è stata quantificata in 400 unità: “In questi giorni, il sindacato ha indetto lo stato di agitazione - conclude Nicastrini - rappresentando un fortissimo disagio della Polizia Penitenziaria contro le aggressioni, risse, droga, suicidi e omicidi come il caso di Velletri, sulla quale ad oggi non trova alcun’attenzione della politica locale e di quella nazionale”. Biella. Inchiesta sullo spaccio di droghe carcere: 56 ordinanze cautelari in tutta Italia La Stampa, 5 settembre 2023 L’operazione in diversi comuni del Piemonte, della Lombardia e di altre regioni. Cinquantasei misure cautelari in tutta Italia nell’ambito di un’inchiesta che ha coinvolto il carcere di Biella. L’attività di polizia giudiziaria, coordinata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Biella è in corso dalle prime ore di questa mattina. L’attività, frutto dell’indagine della locale squadra mobile con il coordinamento della Procura, interessa diversi Comuni tra Piemonte, Lombardia e altre Regioni. I dettagli dell’operazione saranno resi noti in una conferenza stampa che si terrà questa mattina in questura a Biella. Le indagini e i precedenti - Il blitz è scattato dalle prime luci dell’alba. Una maxi operazione di polizia, nell’ambito di una attività investigativa che coinvolge il carcere di viale dei Tigli a Biella. Inquirenti e investigatori hanno messo sotto la lente di ingrandimento la struttura ormai da tempo. Negli ultimi anni, infatti, sono state diverse le indagini sulla casa circondariale biellese, alcune delle quali clamorose, come quella sui presunti pestaggi ai danni di detenuti e che aveva coinvolto 23 agenti della polizia penitenziaria. Il caso più recente risale al dicembre 2022 quando un agente venne arrestato con l’accusa di cessione di sostanze stupefacenti all’interno del carcere, corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio e istigazione alla corruzione. Assieme a lui furono indagati due detenuti, accusati di detenzione di droga e di telefoni cellulari, oltre che di resistenza a pubblico ufficiale. L’inchiesta ipotizzava la presenza nella casa circondariale di un’organizzazione per il traffico di droga, cellulari e schede Sim, che faceva capo a un gruppo di detenuti, con l’aiuto di agenti della penitenziaria compiacenti, che favorivano l’ingresso degli stupefacenti e dei telefoni. Asti. Il lavoro “dietro le sbarre” c’è, ma mancano spazio e sorveglianti di Daniela Peira lanuovaprovincia.it, 5 settembre 2023 Un aspetto della vita nel carcere di Alta Sicurezza svelato dalla Garante dei Detenuti. Oltre agli annunci di ricerca lavoro senza risposta nelle agenzie e sui media, c’è un altro luogo in cui l’impiego ci sarebbe ma è impossibile da assegnare. E, in questo caso, c’è pure tanta manovalanza, quanta si vuole. Parliamo del carcere di Asti e a sollevare il velo su questo particolare aspetto della sua quotidianità è Paola Ferlauto, Garante dei Detenuti della Casa di Reclusione di Quarto (foto in gallery). Di quale opportunità si tratta? Intanto ci muoviamo in un contesto molto particolare, ovvero in quello di una casa di reclusione dove quasi tutti i detenuti stanno scontando pene molto lunghe e, di questi, una ventina sono ergastolani. Essendo un carcere di Alta Sicurezza, a nessuno di loro è consentito il cosiddetto lavoro esterno dunque qualunque opportunità di impiego deve essere implementata e sviluppata all’interno delle mura carcerarie. E, grazie anche al prezioso lavoro di costruzione di “ponti” con la società esterna fatto dall’educatrice Monica Olivero, alcuni industriali astigiani si sono fatti avanti con progetti di somministrazione di lavoro all’interno del carcere. Una richiesta importante, in particolare, riguarda consistenti forniture di prodotti da forno da destinare alla grande distribuzione. Dunque le commesse esterne ci sono, la disponibilità del committente a formare i detenuti anche, la richiesta di poter accedere a questo lavoro da parte di chi sta scontando la pena pure. Cosa manca allora? Lo spazio adeguato. Nel carcere di Asti non vi sono locali liberi che abbiano le caratteristiche sanitarie e antinfortunistiche per essere adattate a laboratorio per prodotti da forno. E non solo. Anche se si riuscisse a ricavare, non ci sono abbastanza agenti penitenziari in servizio da poter garantire la vigilanza sui detenuti al lavoro. Perché è così importante per i detenuti avere un lavoro? Forse può sembrare banale e riduttivo, ma è un modo per impiegare utilmente il tempo che, in una cella, non passa mai. Poi è un’occasione importante per acquisire competenze teoriche e pratiche che, seppur in là nel tempo, possono “spendere” sul mercato del lavoro una volta espiata la pena. Infine, è un modo per guadagnare un salario, seppur modesto, per far fronte alle spese che ci sono all’interno del carcere e per inviare un po’ di soldi alla famiglia. Per coloro, poi, che hanno intrapreso un reale percorso di ravvedimento, un impiego rappresenta anche un importante riscatto personale rispetto al proprio passato. Ma gli spazi sono il nodo anche di altri aspetti della vita del carcere, vero? Sì, riguarda anche la piccola “popolazione” di detenuti cosiddetti comuni. Sono 8 e vivono nelle due sezioni di media sicurezza. Sono coloro che devono scontare pene sotto i 5 anni. Rappresentano un “sottomondo” all’interno del carcere dove sono separati dai detenuti dell’alta sicurezza con i quali non hanno mai contatti. Ma dei quali vivono le stesse restrizioni perché, per loro, non ci sono risorse per ristrutturare due celle che consentirebbero di recuperare spazi per la loro socialità. Parliamo di luoghi in cui giocare a carte, a ping pong, in cui accedere ad attività scolastiche ed educative. Anche in questo caso mancano i soldi per la ristrutturazione e il personale per sovrintendere alle attività. E così finiscono per fare la stessa vita degli ergastolani. Lei vuole rispondere sulle critiche emerse in questi giorni in merito alle visite in ospedale dei detenuti... Da più parti sono emerse allusioni al fatto che spesso i detenuti vengono inviati a fare visite specialistiche in ospedale sottraendo personale penitenziario alle normali attività di vigilanza del carcere. Intanto va specificato che al carcere di Asti il servizio sanitario funziona molto bene, con un medico di turno 24 ore su 24, un dirigente presente 3 ore al giorno, una caposala e infermieri che si turnano. Ma i detenuti seguono le stesse “code” dei normali cittadini per gli esami specialistici che in carcere non si possono tenere a causa della generalizzata carenza di medici. Visite che vengono scortate comunque da agenti assegnati alle traduzioni. I disagi maggiori si verificano per i trasporti “in urgenza” all’ospedale. In quel caso per ogni detenuto servono 4 agenti di custodia ma se il medico di turno ritiene che serva inviare il paziente in ospedale, bisogna fidarsi del suo giudizio. Teniamo conto che il detenuto non può scegliere nulla del suo percorso di cura. E, visto che l’età media della popolazione carceraria di una Casa di Reclusione è piuttosto alta e che molti di loro invecchiano in carcere, va da sé che quello dell’assistenza sanitaria debba essere considerato un servizio non comprimibile. Mantova. L’orto dei detenuti apre per Interno Verde, tra le visite più esclusive dall’edizione 2023 telemantova.it, 5 settembre 2023 L’orto più segreto di Mantova, quello coltivato dai detenuti che abitano il carcere di via Carlo Poma, aprirà eccezionalmente le porte al pubblico di Interno Verde. Il festival dedicato ai giardini più suggestivi e curiosi della città (che quest’anno si terrà sabato 23 e domenica 24 settembre (inaugura la quinta edizione con un evento decisamente inusuale, organizzato grazie alla preziosa collaborazione della casa circondariale e della polizia penitenziaria: una visita guidata che permetterà ai mantovani di scoprire la natura che cresce all’ombra del muro di cinta, curata e coltivata grazie a un progetto educativo di notevole impatto e significato, intitolato ironicamente Orto al Fresco. “Interno Verde già dalla prima edizione ha cercato di favorire, attraverso la meraviglia suscitata dal giardino, lo sviluppo di una socialità spontanea e vicina, in un’atmosfera inclusiva, di scambio e condivisione”, racconta Licia Vignotto, responsabile della manifestazione. “In un momento in cui purtroppo gli istituti penitenziari italiani vengono citati dai mass media soprattutto per le criticità di cui si fanno carico, l’apertura straordinaria dell’orto di via Carlo Poma crediamo rappresenti non solo un’importante occasione formativa per le persone che avranno occasione di partecipare, tanto per i detenuti quanto per i visitatori accolti, ma anche un importante segnale per la comunità”. La coltivazione è stata avviata nel 2021, parallelamente sono stati realizzati dei corsi di formazione finanziati dalla Regione Lombardia, avvalendosi quest’anno della collaborazione con la cooperativa Hike. Affianca e accompagna l’attività l’esperienza di Bonini Garden. “Sono molto contenta che anche quest’anno l’orto della Casa Circondariale sia compreso nel programma di Interno Verde”, spiega il direttore, Metella Romana Pasquini Peruzzi. “È un’occasione importante perché dà visibilità ad un bellissimo angolo nascosto della città, ricco di verdure, fiori, erbe aromatiche e alberi da frutto, e al contempo fa conoscere alla cittadinanza l’importante lavoro svolto dalla polizia penitenziaria e dagli educatori per i detenuti. Sono tante le opportunità predisposte per favorire il loro reinserimento: il lavoro nell’orto è una tra le più significative. Consente loro di trascorrere parte della giornata all’aria aperta, in un contesto positivo e privilegiato, e di acquisire un’esperienza spendibile all’esterno, una volta espiata la pena”. Come partecipare alla visita di Interno Verde - La visita (disponibile solo su prenotazione, per un gruppo di massimo 20 persone - si terrà sia sabato 28 che domenica 29 maggio alle 10.30. All’interno della struttura i responsabili del settore educativo, assieme ad alcuni detenuti impegnati volontariamente nella coltivazione di frutta e verdura, spiegheranno la nascita e lo sviluppo del progetto. Per partecipare è necessario essere maggiorenni, non avere familiari detenuti, non avere carichi penali pendenti. La prenotazione deve essere inviata tramite mail entro lunedì 11 settembre all’indirizzo info@internoverde.it, allegando la scansione del proprio documento di identità. Per maggiori informazioni: 3391524410. Sovrumana umanità di Mattia Feltri La Stampa, 5 settembre 2023 La ferocia e la clemenza dell’uomo si fronteggiano in due notizie in cronaca: un marocchino di 43 anni ha confessato l’omicidio della tabaccaia uccisa a Foggia la settimana scorsa, bottino da settantacinque euro; l’Alabama potrebbe essere il primo Stato a sperimentare un’esecuzione con l’azoto. Una mi sembra la tragica eterna notizia della condizione umana, l’altra appartiene invece a una storia più recente, da quando l’uomo si pose il problema di infliggere la morte con umanità. Allorché il condannato respira azoto puro, dicono i sostenitori, nel giro di pochi secondi perde conoscenza e subito dopo la vita. L’azoto puro è un’evoluzione della ghigliottina, lo strumento inventato per ridurre il supplizio a un batter d’occhio. Da un paio di secoli o poco più, l’obiettivo è di ammazzare ma con contegno, senza esibizione di sangue e sofferenza. Questo, mi pare, stabilirebbe la distanza fra un volgare assassino e l’assassino di Stato. Pure il comandante di Auschwitz, Rudolph Höss, racconta nelle sue memorie di quanto si batté nel trovare una soluzione più compassionevole, per far fuori gli ebrei, del gas scarico dei camion riversato nelle baracche, da cui uscivano urla raggelanti, e di come salutò con sollievo l’introduzione dello Zyklon B, così rapido e risoluto. Spero di non offendere l’uomo e i suoi sovrumani sforzi di umanità, ma ho sempre pensato che la sterilizzazione della morte non fosse studiata a beneficio della vittima, ma del carnefice, che rifiuta per sé la qualifica e la sente riecheggiare nello strazio del morente. Peggio di un assassino, c’è l’assassino che si arroga il diritto di non esserlo. Le tante Caivano d’Italia: da Milano, a Roma fino a Palermo, ecco le zone più disagiate di Eleonora Camilli* La Stampa, 5 settembre 2023 La Garante dell’Infanzia: chi non va a scuola rischia di finire nell’illegalità. Contesti di abbandono, servizi sociali assenti, storie di violenza e microcriminalità che si perdono nell’invisibilità. L’orrore su due cuginette poco più che bambine ha riacceso i riflettori sui palazzi del Parco verde, ma sono tante le Caivano d’Italia. Zone di periferia dove l’infanzia è a rischio. Da Milano a Palermo, da Roma a Catania, passando per i quartieri di Napoli. Qui solo tre giorni fa un ragazzo di sedici anni, già protagonista di un tentato omicidio, ha freddato a colpi di pistola Giovanni Cutolo, 24 anni, dopo una lite per un parcheggio. “Da Napoli il Parco Verde dista 15 chilometri, socialmente però siamo a tre metri”. Cesare Moreno, storico maestro di strada nella città partenopea, da anni si occupa di alcune delle zone più difficili dell’area nord ovest della città (Barra, San Giovanni a Teduccio, Ponticelli) tentando di strappare alla camorra i ragazzi dei quartieri. “I contesti di degrado sono ovunque, anche se in alcune aree le violenze sono presenti in forme meno clamorose. I problemi, però, sono gli stessi: ragazzi considerati insignificanti e lasciati a se stessi, servizi che non ci sono. Ormai si interviene solo per rispondere a un bisogno. Ma oggi la risposta a quello che è successo a Caivano è davvero riaprire il centro sportivo? E chi porterà quei ragazzi che hanno commesso abusi in palestra? Chi li seguirà?”. Per il maestro di strada l’unica risposta è “esserci. Sempre. Non solo quando succede qualcosa di clamoroso. Di Caivano ne esistono tante quante sono le nostre case, anche tra i giovani della borghesia. Quello che in alcuni contesti si chiama degrado, in altri è considerato devianza, ma i luoghi a rischio restano tanti”. Eppure in alcune zone la presenza è difficile anche per associazioni e volontari. Qualche giorno fa nel quartiere Tor Cervara di Roma, un uomo è stato ucciso a colpi di pistola e poi lasciato esanime in un carrello della spesa. Una notizia finita nei trafiletti della cronaca, che richiama però l’amara realtà di uno dei posti più difficili della Capitale. Le occupazioni delle palazzine di via Raffaele Costi e dell’ex fabbrica della Penicillina, diventate negli anni un riparo di persone con alto tasso di disagio, sono state sgomberate più volte per poi essere rioccupate. Ma alle operazioni di polizia non è seguito un intervento sociale. Così oggi la zona è off limits anche per le organizzazioni di volontariato. Le cose non vanno meglio nella vicina San Basilio. Posti altrettanto difficili si trovano nelle periferie di tante città. Nel quartiere Zen di Palermo si registra un tasso di abbandono scolastico tra i più alti d’Italia. Qui senza il supporto degli educatori tanti ragazzi rischiano di finire troppo giovani nelle mani della criminalità, tra lo spaccio e i piccoli furti. Lo stesso accade a Milano. Un tempo erano Quarto Oggiaro, a nord, e Barona, a sud-ovest, le zone da evitare, perché considerati quartieri-fortino in mano alla malavita. Oggi sono diventate zone complicate i rioni popolari del Corvetto, Gratosoglio, Giambellino-Lorenteggio, San Siro e di NoLo. “I contesti di periferia difficili si trovano dappertutto. Ma non si può intervenire solo quando c’è il richiamo della cronaca, bisogna prevenire”, sottolinea la Garante dell’Infanzia Carla Garlatti, che circa un anno fa, dopo l’insediamento del governo ha inviato una lettera direttamente alla presidente Meloni, per chiedere investimenti e un’attenzione al tema. Oggi chiede che quell’attenzione diventi una priorità. Tra i fenomeni da monitorare c’è soprattutto la dispersione scolastica. “La mancata frequentazione della scuola, le assenze non denunciate sono spesso indice di un problema. Ci si dovrebbe attivare, coinvolgendo la famiglia o i servizi sociali. Nella legge di Bilancio è stato previsto uno stanziamento per aumentare il numero degli assistenti sociali, figure ancora poco presenti. Ma bisogna intervenire prima che i fenomeni esplodano sui territori”. Garlatti torna a chiedere aree di educazione nelle zone ad alto rischio sociale. “Dobbiamo costruire una rete per far in modo che i ragazzi non escano dalla strada della legalità”. Stando ai dati la situazione è ancora troppo in salita. Il fenomeno dell’abbandono scolastico riguarda circa un ragazzo su cinque. Ed è spesso correlato alla situazione socio familiare di precarietà e indigenza. A oggi sono 1,4 milioni i bambini in povertà assoluta, con tassi più alti nelle regioni del mezzogiorno e nelle zone di periferia. Disuguaglianze che incidono sulla salute e sullo sviluppo dei ragazzi. “Moltissimi bambini vivono in Italia in contesti deprivati, cioè in territori dove alla povertà familiare si aggiunge quella educativa - sottolinea Raffaela Milano, responsabile dei progetti in Italia di Save the Children -. Oggi ci sono i Fondi del piano di ripresa e resilienza. Dovrebbero per prima cosa essere investiti per la crescita e lo sviluppo dei bambini, con risorse pensate per la riqualificazione degli spazi per l’infanzia e per rendere le scuole più attrattive per i ragazzi”. *Ha collaborato Andrea Siravo La Giornata della Carità: non solo aiuti a chi soffre ma azioni di pace e giustizia di Luciano Gualzetti* Corriere della Sera, 5 settembre 2023 Il richiamo è rivolto a tutti, credenti e non credenti, a non fermarsi alla prestazione, ma a vedere nel povero colui che ha diritto alla piena dignità umana. Il 5 settembre è la Giornata Internazionale della Carità. Giornata istituita dall’Onu nel 2012 per riconoscere il ruolo della Carità “nell’alleviare le crisi umanitarie e le sofferenze umane all’interno e tra le Nazioni”. Nel giorno della morte (il 5 settembre 1997) di Santa Teresa di Calcutta. Indicando così in Madre Teresa un riferimento di Carità per il suo servizio gratuito per i malati, i senza tetto, i “più poveri tra i poveri”. Ma cos’è la Carità? Madre Teresa direbbe: “Dobbiamo dare servizio immediato ed effettivo ai poveri: dando da mangiare agli affamati, non solo cibo ma anche la Parola di Dio. Dando da bere agli assetati: non solo di acqua, ma anche di conoscenza, di pace, di verità, di giustizia e di amore. Vestendo gli ignudi: non solo con abiti, ma anche di dignità umana. Dando alloggio ai senza tetto: non solo un rifugio fatto di mattoni, ma un cuore che comprende, che protegge, che ama…”. Al di là delle motivazioni di fede, il richiamo è ancora rivolto a tutti, credenti e non credenti, a non fermarsi a una carità che identifica la soluzione con la prestazione. Ma a vedere nel povero colui che ha diritto alla piena dignità umana, che chiede una vita felice, che mantiene sempre delle capacità, ancorché residue, per riprendere in mano la sua vita. La Giornata internazionale della Carità rappresenta dunque un importante richiamo a coloro che operano nel campo della Carità a non accontentarsi di un’azione, pur necessaria, di soccorso, ma ad assumere il proprio pezzo di responsabilità per cambiare, non solo la situazione della singola persona che aiutano, ma a cambiare le condizioni che l’hanno portata a chiedere aiuto e a cambiare le cose perché coloro che si troveranno nelle stesse situazioni non si trovino in difficoltà (anche le future generazioni). La Carità è gratuità e cura della persona, azione politica di pace e di giustizia, dono di sé e amore universale. Ma perché la carità sia efficace deve rimuovere le cause delle povertà, non deve dare per carità quello che è previsto per giustizia e deve offrire l’aiuto in modo tale che il povero non ne abbia più bisogno. Attivando la persona perché diventi responsabile verso di sé, la propria famiglia, gli altri ritornando alla piena cittadinanza con i relativi diritti e i doveri, nella comunità che magari l’aveva escluso. Agendo con una visione integrale: non solo sul piano economico, ma anche all’accesso alla salute, all’istruzione, al lavoro, alla casa, ai trasporti, a un ambiente vivibile, ai diritti e alla dignità per tutti, nessuno escluso. La Carità così intesa può ricostruire legami sociali che possano superare gli inevitabili conflitti e costruire condizioni di pace duraturi. Per promuovere, come i rappresentanti dell’Onu auspicavano istituendo la Giornata Internazionale della Carità, il dialogo tra persone di culture e religioni diverse, la solidarietà e la comprensione reciproca. *Direttore Caritas Ambrosiana Quel disprezzo per i lavoratori di Chiara Saraceno La Stampa, 5 settembre 2023 Il lavoro sta (ri)emergendo come grande questione sociale. Non si tratta solo e neppure principalmente del fenomeno delle cosiddette “grandi dimissioni” e del cambiamento nelle aspettative rispetto al lavoro, in termini di equilibrio con altri aspetti della vita, oltre che di riconoscimento di sé e delle proprie capacità che queste segnalano. A preoccupare sono aspetti ancora più basilari: il lavoro che non sempre c’è, o è accessibile (ad esempio alle donne con responsabilità familiari in assenza di servizi adeguati), o per il quale non si ha adeguata formazione; il lavoro remunerato troppo poco, o troppo precario e discontinuo, spesso anche privo dei requisiti minimi di sicurezza. La tragedia di Brandizzo, e lo stillicidio quotidiano (tre in media al giorno) di morti sul lavoro, che solo raramente diventano notizia, hanno messo in luce ancora una volta questo lato oscuro del lavoro manuale, troppo spesso non adeguatamente accompagnato da misure (tecnologiche, di preparazione, di ritmi di lavoro, di assunzione di responsabilità lungo la catena di comando (che proteggano dai rischi. Ciò che è successo a Brandizzo, accanto alle responsabilità dei singoli e di modelli organizzativi e contrattuali basati più sul fare in fretta che sul rispetto dell’integrità dei lavoratori, fa emergere anche un altro aspetto: mentre ci si preoccupa, giustamente, della possibile distruzione di occupazione da parte dell’intelligenza artificiale, non la si utilizza appieno per rafforzare la sicurezza sul lavoro, incluso contrastare l’errore (o azzardo) umano. Verrebbe da dire che aver dotato solo una piccola parte delle linee ferroviarie dei sistemi che consentono il blocco automatico di un treno quando c’è un ostacolo sui binari è analogo, su scala ben più grande, al togliere il sistema di sicurezza di un telaio che impedirebbe a questo di inghiottire chi ci lavora, anche se attua una manovra sbagliata. In entrambi i casi, si dimostra indifferenza, se non sprezzo del lavoratore/lavoratrice, della sua integrità, della sua vita. Una indifferenza che riguarda soprattutto il lavoro manuale (in fabbrica, nelle ferrovie, nei cantieri edili, in agricoltura. Un lavoro non destinato a sparire, a differenza di altri, a seguito dello sviluppo tecnologico, ma che da questo sviluppo dovrebbe derivare benefici non solo per quanto riguarda la faticosità, ma anche la sicurezza. Se la questione della sicurezza dovrebbe diventare centrale nelle politiche del lavoro, nelle contrattazioni sindacali, nella formazione professionale, nella predisposizione degli strumenti di controllo, anche quella salariale non è da meno. Riguarda non solo la necessità di definizione di un salario minimo, su cui sembra concentrata gran parte dell’attenzione e del dibattito, anche a sinistra. Un problema certo importante, stante che, come ha rilevato da ultimo anche un rapporto di Ambrosetti sul Global attractiveness index, l’Italia è “l’unico tra i grandi paesi europei dove i salari sono più bassi rispetto a trent’anni fa”, ma che non esaurisce la problematica del lavoro e lavoratori poveri. I bassi redditi da lavoro dipendono anche dalla difficoltà ad avere un salario “intero”, quindi dalla costrizione a part time involontario e/o a rapporti di lavoro sempre temporanei, quando a non rinunciare al lavoro per difficoltà a conciliarlo con le esigenze familiari. Anche sul fronte dell’occupazione la situazione appare problematica, nonostante i dati del secondo trimestre sulle forze di lavoro mostrino un miglioramento rispetto all’anno precedente, con un 1,6 per cento di occupati in più e una diminuzione delle persone in cerca di lavoro e inattive. Tuttavia il tasso di occupazione, specie delle donne e dei giovani di entrambi i sessi continua ad essere comparativamente basso, soprattutto tra i meno istruiti e nel Mezzogiorno, con effetti a catena su altri aspetti della vita individuale e sociale (dalla formazione di una famiglia, all’autonomia, ai consumi, alla partecipazione civile. Inoltre la situazione appare instabile, stante che nel mese di luglio, dopo sette mesi di crescita, c’è stata invece una diminuzione degli occupati, che ha riguardato proprio coloro che sono nelle età centrali, tra i 25 e i 49 anni. E le previsioni per l’autunno non sono rosee, con il PNRR che, a causa di rinvii, cancellazioni, incertezze, stenta a diventare quel volano per l’economia e l’occupazione che avrebbe dovuto essere. A fronte di questi dati, l’eliminazione del sostegno economico a molti (ormai ex) beneficiari del RdC, per sollecitarli a trovarsi una occupazione rischia di affollare ulteriormente l’area dei disoccupati privi di sostegno e dei lavoratori poveri esposti ad ogni ricatto. Tanto più che una buona parte di costoro non avrà neppure diritto al misero Sostegno formazione Lavoro e ai servizi a questo connessi. Gran Bretagna. “In carcere da 12 anni per il furto di un telefonino”, l’Onu accusa Londra di Enrico Franceschini La Repubblica, 5 settembre 2023 Thomas White resta in cella a causa dell’Ipp, “l’imprisonment for Public Protection”, una misura ora cancellata che di fatto prevede sentenze a tempo indeterminato. Più di 2.900 altri detenuti nelle stesse condizioni. In carcere da undici anni per il furto di un telefonino. Dove? Non in qualche feroce regime totalitario o corrotta repubblica delle banane, bensì nel Regno Unito, culla della democrazia e dello stato di diritto. Thomas White, un cittadino britannico, è in carcere dal 2012 per avere rubato un telefono cellullare. La sua situazione ha attirato su Londra le critiche dell’Onu, che lo definisce “un caso emblematico dei danni” che possono essere causati dalle sentenze a tempo indeterminato. Chiamate Imprisonment for Public Protection (Ipp), questo genere di misure furono introdotte in Gran Bretagna nel 2004 per proteggere il pubblico da criminali i cui reati non erano abbastanza gravi di per sé da meritare una sentenza all’ergastolo o comunque a lunghi anni di carcere, ma che per varie ragioni venivano considerati troppo pericolosi per essere rilasciati alla scadenza della condanna originale. Sono composte di due pene detentive: la prima è proporzionale al reato commesso e può essere anche breve, ma quando questa finisce ne inizia immediatamente una seconda, “a tempo indeterminato”, che dura fino a quando i giudici ritengono che il condannato non rappresenti più un rischio per la società. In teoria possono durare per sempre. Nel 2012 il governo conservatore di David Cameron ha abolito l’Ipp, giudicandolo un tipo di sentenza “poco chiara, inconsistente e incerta”. Ma quello stesso anno, quattro mesi prima che la legge fosse cancellata, White è stato condannato per il furto di uno smartphone. All’epoca aveva 28 anni, era padre di una bambina e in possesso di una fedina penale sporca per una serie di piccoli crimini. Non apparteneva a cosche mafiose o a una gang, eppure la sua reputazione spinse il giudice a condannarlo a 2 anni per il furto del cellulare più un “imprigionamento per protezione pubblica” a tempo indeterminato. Da quel momento non è più uscito di prigione. Non è l’unico a trovarsi dietro le sbarre con una sentenza senza limiti di tempo: più di 2900 detenuti, condannati come lui prima dell’abolizione della legge, sono tuttora in carcere senza sapere se e quando potranno uscirne, la maggior parte da più di dieci anni. Il suo caso attira più attenzione degli altri perché è forse l’unico ad avere subito di fatto una condanna all’ergastolo per avere rubato un telefonino. E perché, anche per questo, le sue condizioni mentali stanno peggiorando. I familiari hanno fatto più volte appello al Parole Board, la commissione che valuta il rilascio anticipato di un prigioniero, affinché esamini se può essere liberato, ma finora con risultato negativo. Sua sorella ha raccontato al Guardian che Thomas ha perso peso, dorme male, soffre di allucinazioni e vive in uno stato costante di depressione e di ansia. La questione ha suscitato l’interesse delle Nazioni Unite. “Il caso di Thomas White è emblematico dei danni psicologici provocati dalle sentenze a tempo indeterminato”, afferma Jill Edwards, commissaria speciale dell’Onu per la tortura e ogni altra punizione crudele, disumana o degradante. Le critiche al provvedimento non mancano nello stesso Regno Unito, dove lord Brown, un ex-giudice della Corte Suprema, ha definito l’Ipp come “la peggiore macchia sul nostro sistema giudiziario”. Ma intanto un uomo è da undici anni in una galera britannica, e rischia di impazzire, per il furto di un telefonino. Irlanda del Nord. Belfast senza pace: l’amnistia crea nuova tensione di Luigi Ippolito Corriere della Sera, 5 settembre 2023 La legge britannica che dovrebbe concedere clemenza per tutti i crimini commessi durante i trent’anni di guerra civile in Irlanda del Nord sta riaprendo il solco tra Londra e Dublino. Un’amnistia di stile “togliattiano” sta scavando un solco fra Londra e Dublino. Questa settimana il Parlamento di Westminster approverà una legge che concede clemenza per tutti i crimini commessi durante i trent’anni di guerra civile in Irlanda del Nord e che impedisce di avviare nuove inchieste su quel passato di sangue: un provvedimento voluto dal governo britannico per mettere una pietra sopra i Troubles, i cosiddetti “disordini” che dalla fine degli anni Sessanta fino agli accordi di pace del 1998 provocarono oltre 3 mila morti nella tormentata provincia nordirlandese, ma che per il governo della repubblica d’Irlanda lede i diritti delle vittime delle violenze commesse dai paramilitari e dalle forze di sicurezza britanniche. È per questo che, secondo quanto riferito dal Financial Times, Dublino sta pensando di trascinare Londra davanti alla Corte Europea per i Diritti Umani: e d’altra parte lo stesso Consiglio d’Europa ha già ammonito che la legge sull’amnistia viola i diritti delle vittime delle atrocità. La conseguenza immediata della diatriba è un ritorno della tensione fra Gran Bretagna e Irlanda, dopo che solo sei mesi fa era stato trovato finalmente un accordo sullo status post-Brexit dell’Irlanda del Nord; ma la minaccia di azione legale da parte di Dublino dà anche fiato a quella destra conservatrice britannica che vorrebbe abbandonare la Convezione Europea sui Diritti Umani, vista come una pietra d’inciampo sulla dura politica anti-immigrazione illegale del governo di Rishi Sunak. Ma, più in generale, lo scontro riapre la questione di quando sia il momento giusto per dimenticare il passato e andare avanti: nel 1946 Palmiro Togliatti, il leader comunista allora ministro degli Interni, promulgò una controversa amnistia per tutti i crimini commessi sia dai fascisti che dai partigiani durante la guerra civile e quel provvedimento consentì all’Italia di riprendere il suo cammino. L’Irlanda del Nord ha celebrato lo scorso aprile i 25 anni degli accordi di pace, ma le ferite non sono ancora rimarginate e le tensioni restano alte, tanto che da più di un anno le istituzioni della provincia sono paralizzate a causa del boicottaggio da parte degli unionisti protestanti, restii ad accettare un governo a guida cattolica dopo la vittoria elettorale del Sinn Fein. L’ora di voltare pagina, a Belfast, sembra che non sia ancora scoccata. Medio Oriente. Gli israeliani demoliscono le case dei palestinesi per punirli: un crimine di guerra di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2023 Le autorità israeliane ricorrono abitualmente alle demolizioni, a scopo punitivo, delle abitazioni di familiari di palestinesi che hanno condotto attacchi contro le forze o i civili israeliani. Hanno ripreso a farlo nel 2014, dopo una pausa di nove anni seguita alla valutazione di una commissione militare, che era giunta alla conclusione che le demolizioni delle case non avessero alcun effetto deterrente. Da allora, centinaia di palestinesi hanno perso le loro abitazioni, spesso a seguito di raid dell’esercito che hanno terrorizzato la popolazione locale e causato danni ad altre strutture. Poi ci sono le demolizioni per “abusivismo” o perché i terreni servono a scopo militare o all’espansione degli insediamenti o, semplicemente, a espellere i palestinesi da Israele. Ma torniamo alle demolizioni a scopo punitivo. Il 25 agosto la Corte suprema israeliana ha autorizzato la demolizione dell’abitazione della famiglia di Mohammed Zalabani, un palestinese di 13 anni in detenzione preventiva da febbraio con l’accusa di omicidio. I giudici hanno respinto il ricorso dell’organizzazione non governativa israeliana HaMoked. Giovedì scorso la squadra di demolitori si è palesata annunciando che sarebbe entrata in azione nei giorni successivi. L’abitazione in questione, di tre piani, si trova nel campo rifugiati di Shu’afat, a Gerusalemme Est occupata. Ci vivono i genitori di Mohammed Zalabani insieme ad altri tre figli, uno dei quali è nato da poco. Non solo i parenti di Zalabani rischiano di perdere tutto e di essere nuovamente sfollati senza avere alcuna responsabilità penale. La stessa pubblica accusa ha riconosciuto che la famiglia non sapeva nulla dell’attacco. Ma a rendere ancora più grave la vicenda è il fatto che Zalabani non ha commesso l’omicidio del quale è accusato. Il ragazzo ha effettivamente accoltellato un soldato israeliano che stava controllando i passeggeri di un autobus al posto di blocco di Shu’afat ma è stata una guardia privata di sicurezza, accidentalmente, a esplodere il colpo mortale. L’autopsia ha confermato che il soldato è stato ucciso da un proiettile e non da una coltellata. Quando la demolizione della famiglia Zalabani sarà eseguita, si tratterà della quattordicesima dall’inizio dell’anno. Secondo il diritto internazionale queste demolizioni sono una punizione collettiva: una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e un crimine di guerra ai sensi dello Statuto della Corte penale internazionale. Più volte le Nazioni Unite hanno chiesto a Israele di porvi fine. *Portavoce di Amnesty International Italia Corno d’Africa. Il report che mostra crimini di guerra eritrei in Etiopia di Riccardo Noury* Il Domani, 5 settembre 2023 Kokob Tsibah, nel Tigrè orientale, entra nella carta geografica degli orrori del Ventunesimo secolo per le violenze sistematiche commesse dalle forze di difesa dell’Eritrea. Alla carta geografica degli orrori del XXI secolo da oggi va aggiunto il nome di una località dell’Etiopia sconosciuta ai più: Kokob Tsibah, nel Tigrè orientale, vicino al confine con l’Eritrea. Qui, nel periodo immediatamente precedente e nei tre mesi successivi all’Accordo per la cessazione delle ostilità tra il governo federale dell’Etiopia e il Fronte popolare di liberazione del Tigrè, firmato nel novembre 2022, i soldati delle Forze di difesa eritree (alleate con l’esercito di Addis Abeba nel conflitto contro i gruppi armati tigrini scoppiato due anni prima) hanno commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità di dimensioni spaventose. Ci sono voluti mesi, ad Amnesty International, per svolgere ricerche esaustive: decine di interviste con testimoni diretti, familiari di vittime, sopravvissuti, esponenti di organizzazioni della società civile, medici e funzionari dell’amministrazione locale, oltre all’analisi di immagini satellitari, hanno contribuito alla stesura di un rapporto, pubblicato oggi, che contiene resoconti di violenze efferate e impunite contro la popolazione civile tigrina. Un rapporto inviato anticipatamente per commenti, il 17 agosto, ai governi di Eritrea ed Etiopia, cui non è seguita alcuna risposta. Mentre quella piccola parte del mondo che non si era distratta nei 24 mesi precedenti tirava un sospiro di sollievo per la firma dell’accordo di pace, sul campo i soldati eritrei facevano le loro scorribande. È stato facile identificarli, da parte dei sopravvissuti: per le divise che indossavano e per il dialetto che parlavano. A Kokob Tsibah 40 donne hanno denunciato a un’organizzazione della società civile locale di essere state stuprate e ridotte in schiavitù sessuale: prese perché mogli, madri o altre parenti di sospetti combattenti tigrini. Alcune sono state stuprate all’interno di una base militare delle Forze di difesa eritree, altre nelle loro abitazioni o in case occupate dalla soldataglia straniera. Amnesty International ha parlato con 11 di loro, che hanno chiesto di mantenere l’anonimato. I nomi, pertanto, sono di fantasia. Fanta è stata stuprata nella sua abitazione ininterrottamente per tre giorni, dal 1° al 3 novembre 2022, da cinque soldati eritrei per poi essere trasferita in una base militare insieme ad altre 14 donne. Lì gli stupri sono proseguiti: “Mi hanno stuprata per tre mesi. Non mi hanno mai lasciata in pace. Finiva uno e arrivava l’altro. Ci tenevano chiuse lì, non potevamo uscire, chiedere cure mediche, vedere le nostre famiglie”. Bezawit, 37 anni, madre di due figli, è stata portata in una foresta dopo che, il 2 novembre 2022, i militari eritrei erano entrati a Kokob Tsibah. Lì è stata stuprata da tre soldati. Poi è stata tenuta prigioniera nella sua abitazione per 90 giorni. “Mi dicevano “puoi urlare quanto ti pare, nessuno verrà a soccorrerti”. Mi hanno stuprata per quasi tre mesi, facevano a turno, si davano il cambio come fossero degli uscieri”. Nonostante le numerose ferite riportate, le sopravvissute allo stupro e alla riduzione in schiavitù sessuale non hanno ricevuto alcuna cura. La maggior parte di loro è stata visitata solo dopo il 19 gennaio 2023, quando le forze eritree hanno lasciato Kokob Tsibah. I massacri - Stuprate e fatte schiave le donne, uccisi gli uomini. I soldati eritrei di stanza a Kokob Tsibah ne hanno ammazzati a decine, forse più di 100, durante le perquisizioni porta a porta alla ricerca di combattenti delle forze tigrine e loro sostenitori. Dall’inizio, nel novembre 2020, del conflitto armato nel Tigrè, Amnesty International ha documentato violazioni dei diritti umani ad opera di tutte le parti in conflitto. Per la loro numerosità e sistematicità, si tratta di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità su cui Eritrea ed Etiopia hanno l’obbligo giuridico di condurre indagini efficaci e, ove vi siano sufficienti indizi, di celebrare processi. Un obbligo peraltro prettamente virtuale: è chiaro che gli organi della giustizia interna dei due stati non vorranno mai accertare quelle responsabilità criminali. L’11 settembre inizierà la cinquantaquattresima sessione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Amnesty International chiede che venga rinnovato il mandato della Commissione internazionale di esperti in materia di diritti umani sull’Etiopia. Se non accadrà, su quanto accaduto in uno dei conflitti più sporchi e crudeli del XXI secolo calerà definitivamente il sipario dell’impunità. *Portavoce di Amnesty International Italia