Quando le caserme si pensano come carceri di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 4 settembre 2023 Dal 2013 i vari Guardasigilli si sono scontrati con l’idea di trasformare le ex caserme in centri di detenzione, carceri, sollevando questioni sull’etica e l’efficacia di tale pratica, non sottovalutando il costo per l’adeguamento; tuttavia, ciò solleva interrogativi sul ruolo che queste potrebbero svolgere all’interno della società, per un cambio di finalità molto diverso da quelle per cui furono costruite. Il recente diniego formulato all’attuale Guardasigilli, ha suscitato particolare scalpore in quanto è apparsa come un’azione diversiva e propagandistica che non troverebbe realizzazione, ma non è così. L’errore di metodo fondamentale, sembra risiedere nella tendenza a etichettare queste nuove strutture come “carceri aggiuntive” o “carceri bis”, che perpetuerebbero il modello tradizionale di detenzione. Al contrario si dovrebbe adottare una prospettiva più ampia, considerando le caserme trasformate come spazi di riabilitazione, con un approccio cooperativo che potrebbe garantire un processo di riabilitazione più efficace, mirando a ridurre la ricorrenza di comportamenti criminali. Di fatto anziché compiere un’operazione di giustizia sociale verso i più abbandonati dalla società e dal contesto di accoglienza trovando una collocazione non carceraria, li si punisce ulteriormente garantendo un posto detentivo. Ricordo che Ordinamento Penitenziario, parla uno che era presente nel periodo di definizione e promulgazione della legge, ha nell’ offerta di servizi e nella territorializzazione della pena, i suoi capisaldi, capisaldi che sembrano oggi essere caduti nel dimenticatoio: non serve etichettare lo stesso Ordinamento come obsoleto e da riscrivere, a mio avviso è solo da attuare, dato che non lo è stato e sarebbe interessante conoscere i motivi. Su questi due punti fondanti, offerta di servizi e territorializzazione della pena, si fonda un mio progetto del 2008 (Casa Giustizia) presentato all’Amministrazione Penitenziaria, ritenuto non recepibile in quanto da completare. Il mio progetto prevedeva, l’uso delle caserme e altre strutture in disuso non vetuste, sia del pubblico che del privato, come ex scuole, ex ospedali civili e militari, per attuare una esecuzione penale non detentiva, per soggetti poveri sia di risorse sociali che personali. Il vero potenziale di questi luoghi dello Stato, potrebbe risiede proprio nella possibilità di coniugare questi spazi con l’offerta di servizi completi, amministrati in collaborazione tra Enti Locali e Organizzazioni del Privato Sociale. Il vero atto innovativo, starebbe dunque nell’avvio di un Terzo Polo Custodialistico (Territorio e Carcere), che va ad interrompe ogni rapporto col carcerario, in quanto si rivolge alle Autorità Locali e al Privato sociale nella gestione delle caserme rinnovate. Questa nuova destinazione potrebbe aprire la strada a un modello penitenziario, nuovo anche in Europa, in quanto centrato sulla riabilitazione e reintegrazione, meno sulla custodialità, con un approccio che terrebbe maggiormente conto dei detenuti in misura alternativa, quindi con nessun vincolo col carcere, che in questi luoghi trasformati in centri di supporto sociale, potrebbero avere aperta la strada ad una maggiore inclusione e reintegrazione nella società. Nel riproporre il mio progetto del 2008, chiedo al Signor Guardasigilli di non arrestarsi nella sua proposta di utilizzare le caserme e gli Ospedali militati dismessi; occorre la consapevolezza di impegnarsi per tutta la popolazione carceraria che non ha bisogno di carcere, ma che è li perché non sa dove andare, quasi ospite non pagante in quanto non ha i mezzi per uscire. Certo, rimane per la società un costo alto, ma la stessa percezione del pubblico, a conoscenza di questi fatti, assumerebbe un atteggiamento diverso, che non è quello di liberare le carceri ma di trasferire i detenuti poveri e con poche risorse in contesti di aiuti a costo inferiore e con una resa in positivo se, alla fine, li si trova lavoratori e non delinquenti, e si sa che i delinquenti allo Stato costano e non poco. Una visione trattamentale e umana, più vicina ai diritti non dati, cambia, per le nuove funzioni, le prospettive di utilizzo, nel richiedere le caserme e altre strutture dismesse e si potrebbe ottenere quel consenso fino ad ora negato. Analogo discorso è anche per tutti gli ospedali civile e militari dismessi per i detenuti malati dove il carcere il luogo preposto alla espiazione della pena e non di altre sofferenze accessorie come il morire senza la presenza di familiari venga a cessare. In conclusione, il dibattito sull’utilizzo delle caserme e strutture similari come potenziali carceri, rappresenta una sfida complessa che va oltre la mera questione dell’edilizia. La ristrutturazione di queste strutture richiede un approccio innovativo, che metta in primo piano la riabilitazione e la reintegrazione dei detenuti nella società. È giunto il momento di superare il vecchio modello e adottare una visione più conferme ai tempi e orientata al nuovo e utile come la giustizia Riparativa, modalità diversa e opposta al tradizionale e mero contenere non solo per il bene dei detenuti, ma per tutta l’Organizzazione penitenziaria e di tutta la società. Al Sig. Guardasigilli mando una dichiarazione positiva, convinta in quanto giusta, sulla sua proposta fatta nelle Carceri di Torino, affinché prosegua nella sua proposta, dando a queste strutture un nuovo volto che non è quello del carcere ma del rientro nel contesto sociale. Le ricordo i primi anni 80 quando eravamo in pochi, Lei compreso, a ribadire l’importanza delle Comunità per tossicodipendenti, non solo per curarsi ma per espiare una pena, per rientrare, a fine periodo nella società. Oggi appare facile a dirlo ma allora non era proprio così. Quello che le chiedo è di replicare quell’esperienza con i dovuti adeguamenti, essendo persone che cercano di liberarsi dalla dipendenza della criminalità. Alle varie autorità del contesto dell’Ente Locale e del Privato Sociale formulo ogni considerazione positiva, nell’affiancare il Sig Guardasigilli nel definire questo progetto, nuovo e credo unico in Europa, che si estranea dal carcere per rendere i detenuti coinvolgibili soggetti attivi e promotori di questa iniziativa, che non allungherebbe ulteriormente un’attesa, quella mia, di 20 anni. *Ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza Nordio: “Non c’è nessuno slittamento sulla riforma della Giustizia” di Davide Varì Il Dubbio, 4 settembre 2023 Il ministro della Giustizia al Forum Ambrosetti a Cernobbio chiarisce che il Cdm ha già approvato un cronoprogramma con “le riforme del codice di procedura penale e del diritto penale, compresa l’abolizione, che auspichiamo, del reato d’abuso d’ufficio. La separazione delle carriere dei magistrati ha tempi più dilatati”. “No, non esiste nessuno slittamento. Abbiamo portato al presidente del Consiglio un cronoprogramma ed è già stato approvato dal Cdm per la prima parte, secondo i tempi decisi, e ha comportato essenzialmente delle proposte di riforme del codice di procedura penale e del diritto penale, compresa l’abolizione, che auspichiamo, del reato d’abuso d’ufficio”. Lo ha detto in tono perentorio il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a un panel al Forum Ambrosetti a Cernobbio, che termina oggi, sul lago di Como. Una seconda parte del cronoprogramma, ha spiegato il ministro, “sarà presentata a breve, vorrei forse anche già nel prossimo Cdm, in via d’urgenza su altre materie, sempre penali. Vorrei altre riforme che potrebbero avere carattere costituzionale, come la separazione delle carriere dei magistrati. Esigono tempi più dilatati, perché le riforme costituzionali hanno tempi più lunghi”. Il ministro della Giustizia ha ribadito: “La nostra priorità è quella della giustizia civile, perché la lentezza della giustizia, soprattutto la civile, costa all’italia più di 2 punti di Pil”. Aggiungendo: “L’unico settore in cui siamo un pò ritardo sull’adeguamento alle direttive del Pnrr riguarda lo smaltimento dell’arretrato. Non voglio fare polemica con chi ha concordato questa specie di contratto, ma pensare di eliminare il 90% degli arretrati delle cause civili è una sorta di “Alice nel paese delle meraviglie”. Comunque, rassicura “ce la metteremo tutta e cercheremo di convincere l’Europa che la nostra è una direzione irreversibile che sta producendo i primi risultati”. Il guardasigilli è poi ritornato su uno dei temi che più hanno fatto discutere: l’abolizione dell’abuso d’ufficio: “Vi è un riflesso anche nella riforma penale che abbiamo proposto in ambito penale su accelerazione processi e certezza di diritto ed è la proposta di abrogazione del reato di abuso d’ufficio. Ho sentito che l’amico Calenda condivide con me la necessità di abolizione di questo reato. I sindaci sono venuti da me in processione chiedendola”. Infatti il leader di Azione, Carlo Calenda, aveva detto: “Noi voteremo per l’abolizione dell’abuso d’ufficio, un reato che ha creato disastri in Italia. Noi abbiamo scelto con Azione di avere una valutazione sulle proposte delle altre opposizioni e del governo totalmente oggettivi: uno dei problemi della politica è la fuga dalla realtà per cui una proposta si vota o non si vota a seconda di chi quella proposta la presenta”. E il ministro Nordio sull’abuso d’ufficio ha spiegato: “Su oltre 5.000 indagini che si fanno ogni anno su questa fattispecie - ha spiegato Nordio - meno di 6 o 7 arrivano a condanna. Che poi è condanna estremamente platonica, che non giustifica minimamente le risorse che vengono impiegate”. Quindi ha aggiunto: “Noi abbiamo panpenalizzato tutto e abbiamo intasato i tribunali di questo reato, che provoca anche la paura della firma. La condanna non arriva mai, uno non ha paura della condanna ma paura di essere inquisito”. “Ho parlato direttamente con il commissario europeo della Giustizia, Didier Reynders - ha concluso Nordio - e gli ho assicurato che il nostro arsenale, che deve combattere la corruzione, è il più efficace d’Europa e non c’è bisogno di mantenere questo reato. Faremo altri incontri e alla fine garantisco che arriveremo a questo risultato”. Giustizia, Nordio insiste: “La riforma non slitterà” di Felice Manti Il Giornale, 4 settembre 2023 Il Guardasigilli precisa: “Su carriere separate serve tempo, urgente smaltire arretrati civili”. “Nessuno slittamento per la riforma ma la nostra priorità è la giustizia civile: la lentezza dei processi costa all’Italia più di due punti di Pil”. È un Carlo Nordio risoluto, quello che a Forum Ambrosetti annuncia l’arrivo della riforma della giustizia, in parte già incardinata. Il Guardasigilli sa che il tempo dei proclami è finito, e a suo modo risponde a chi - frettolosamente - ha considerato già archiviata su un binario morto la riforma che dovrà separare le carriere di magistrati giudicanti e inquirenti. Nella tempistica della riforma della Giustizia “non c’è nessuno slittamento, il cronoprogramma è già stato approvato dal Consiglio dei ministri in una prima parte; ha comportato delle proposte sulle riforme del codice e diritto penale, come l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Una seconda parte sarà presentata a breve forse in via urgenza. Ci sono poi - sottolinea sempre Nordio - altre riforme di carattere costituzionale come le carriere dei magistrati che esigono tempi più dilatati”. Su uno dei cavalli di battaglia di Forza Italia manca ancora un testo, e nei giorni scorsi alcuni parlamentari azzurri non hanno mancato di segnalare la loro insoddisfazione al ministro. Che ieri ha risposto indirettamente anche a loro e all’Anm, contrarissima da sempre al provvedimento. Dunque, chi si aspettava un ministro della Giustizia rassegnato si sbagliava. Certo, il bersaglio grosso è la separazione delle funzioni (e la conseguente modifica del Csm, che dovrebbe diventare duale), ma serve una riforma costituzionale che rischia di incrociarsi con quella sul premierato. C’è chi sostiene che i due iter siano inconciliabili, che chi dice invece che, facendole partire dai due rami del Parlamento in parallelo, si possa procedere con le due riforme all’unisono. Sul fronte parlamentare, i numeri teoricamente ci sarebbero. Il Terzo polo a più riprese ha manifestato la sua disponibilità a sottoscrivere la riforma della giustizia, ma serve chiarezza. “Nordio ha annunciato per l’autunno un ddl governativo sulla separazione delle carriere. Finora non è stata scritta una riga, ma il Parlamento è stato cinque mesi fermo ad aspettare. Se un iter è più lungo è bene che parta subito, senza indugio”, attacca Enrico Costa di Azione, che poi accusa il governo di aver sacrificato “la separazione delle carriere per il premierato”. Ma prima c’è il tema dell’abuso d’ufficio, su cui si rischia lo scontro con l’Europa. “Su cinquemila cause giudiziarie sulla fattispecie dell’abuso d’ufficio, solo 6 o 7 arrivano a una condanna che spesso è platonica e che non giustifica l’investimento di risorse fatto”, insiste Nordio dal palco del workshop Ambrosetti a Cernobbio. “Pensate che tutti i sindaci, anche quelli del Pd - ha detto il Guardasigilli - sono venuti a chiederlo perché questa fattispecie di reato non conclude nulla ma provoca la paura della firma, perché chi firma ha paura di essere inquisito, non condannato perché la condanna non arriva mai. La Camera sul tema ha fatto audizioni - come ricorda anche l’azzurro Pietro Pittalis ed è pronta per presentare gli emendamenti. Domani in Commissione giustizia al Senato sfileranno il presidente dell’Anac Giuseppe Busia, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, il presidente dell’Anci Antonio Decaro ed il presidente dei penalisti Giandomenico Caiazza. La riforma della giustizia si intreccia anche con il Pnrr e con le richieste dell’Europa per lo smaltimento dell’arretrato, specie nelle cause civili. “La nostra è una direzione irreversibile che sta producendo i primi risultati ma è l’unico settore in cui siamo un po’ in ritardo”, conclude Nordio, non prima di lanciare una frecciatina al suo predecessore, che con l’Europa ha concordato “questa specie di contratto”, per usare le parole del Guardasigilli: “Non voglio fare polemica, ma pensare di eliminare il 90% degli arretrati delle cause civili è una sorta di Alice nel paese delle meraviglie”. Ma la Cartabia non si chiama Marta? Nordio: “Ora processi più veloci”. Ma con tre leggi li allunga ancora di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2023 Il Guardasigilli ripromette sentenze rapide. Né idee né norme per ridurre i tempi. “La prima cosa da fare è accelerare i processi, rendere la giustizia più efficiente e rapida”, “L’urgenza è velocizzare, i ritardi ci costano due punti di Pil”. Così diceva Carlo Nordio nei giorni del suo arrivo al governo, prendendo lo stesso impegno di tutti i predecessori: ridurre i tempi infiniti dei giudizi italiani. Una promessa ripetuta ieri al forum di Cernobbio, ricordando che “gli investimenti stranieri sono vulnerati da questa lentezza”. Eppure, a quasi un anno dall’insediamento, del nobile proposito non c’è traccia nei provvedimenti di legge annunciati (tanti) o approvati (pochissimi) dal ministro e dalla maggioranza. Nulla per scoraggiare i ricorsi strumentali degli avvocati, potenziare i riti alternativi e le risoluzioni delle controversie fuori dal processo, snellire il sistema delle notifiche. Anzi, nel penale si apparecchiano almeno tre misure destinate a ingolfare la macchina: l’introduzione di nuovi reati, il ritorno della prescrizione dopo il primo grado, la moltiplicazione dei giudici che dovranno decidere sulla custodia in carcere. E nel civile? Al netto dell’entrata in vigore della riforma Cartabia (realizzata dal governo precedente) l’impatto di Nordio è stato nullo. Tanto che il ministro delegato al Pnrr, Raffaele Fitto, oggi volerà a Bruxelles per trattare con la Commissione europea lo “sconto” richiesto dal governo sull’obiettivo di ridurre l’arretrato del 90% entro la metà del 2026. D’altra parte, su questo tema la distanza tra parole e fatti è stata evidente da subito. Dopo aver detto di voler sveltire i processi con una depenalizzazione (cioè tagliando la quantità di reati previsti), il Guardasigilli esordisce inventandosi un reato nuovo: nel primo decreto, sull’onda emotiva di un rave party sgomberato a Modena, spunta il “reato di rave” (“Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi”). A inizio dicembre, poi, Nordio espone le linee programmatiche in Parlamento. E l’urgenza di velocizzare sembra già scomparsa, in favore di obiettivi più “sensibili” dal punto di vista politico: l’ex pm si scaglia contro le intercettazioni, l’obbligatorietà dell’azione penale, la custodia cautelare, gli avvisi di garanzia. La crociata contro le intercettazioni, in particolare, monopolizzerà il dibattito nei mesi successivi, mentre dell’efficienza dei processi non parla più nessuno. Nel frattempo, tra le poche norme approvate nel 2022 spicca un favore ai colletti bianchi: con un emendamento al decreto Rave si reintroducono i benefici penitenziari (aboliti dalla legge Spazzacorrotti) per i detenuti per corruzione e altri gravi reati contro la pubblica amministrazione. Ma anche nel 2023 l’impostazione non cambia. Sul piano legislativo, nei primi mesi Nordio si fa notare solo per la creazione di un altro nuovo reato, stavolta contro gli scafisti, inserito nel dl Cutro. Per vedere un intervento di rilievo bisogna attendere metà giugno, quando il Guardasigilli presenta il ddl sulla giustizia penale dedicato a Silvio Berlusconi. E anche qui la presunta “urgenza” di stringere i tempi lascia spazio a priorità più ideologiche: il testo cancella l’abuso d’ufficio (unico esempio di depenalizzazione visto finora), depotenzia il traffico d’influenze, limita la pubblicazione delle intercettazioni e impedisce ai pm di appellare le sentenze di proscioglimento in una serie di casi; inoltre azzoppa le misure cautelari, prevedendo che i sospettati di reati non violenti (ad esempio la corruzione) debbano essere avvisati cinque giorni prima dell’arresto per sottoporsi a interrogatorio preventivo. Sempre in materia cautelare, poi, c’è una norma che va in direzione opposta all’efficienza: per decidere sulla richiesta di custodia in carcere non basterà più un solo gip, ma ne serviranno tre. Tutti e tre, in questo modo, diventeranno incompatibili a occuparsi delle fasi successive, con effetti devastanti soprattutto nei piccoli tribunali. Consapevole del problema, il ministro ha proposto di far entrare in vigore la norma tra tre anni, prevedendo un aumento di 250 posti del ruolo organico della magistratura. Soluzione utopica, perché aumentare i posti sulla carta non significa affatto riuscire a coprirli: come ha detto in un’intervista al Fatto il presidente dell’Anm (il sindacato dei magistrati) Giuseppe Santalucia, è probabile che “i nuovi assunti non basterebbero nemmeno a colmare i vuoti esistenti” (in alcuni distretti le carenze d’organico sfiorano il 25%). Più che per gli interventi, però, il ministro finora ha fatto parlare di sè soprattutto per i moltissimi annunci: dalla volontà di separare le carriere di giudici e pm a quella di tagliare l’uso dei trojan, dall’idea di abolire l’imputazione coatta alla suggestione di riformare il concorso esterno in associazione mafiosa. Tutte questioni che non impattano in alcun modo sull’efficienza della giustizia. Idem per le proposte di legge partorite dalla maggioranza, ad esempio quella in materia di prescrizione, che prevede di far tornare a correre il termine anche dopo il primo grado di giudizio, cancellando il blocco introdotto dalla riforma Bonafede. Un formidabile incentivo alle impugnazioni pretestuose e alle tattiche dilatorie, su cui però Nordio si è già detto d’accordo. Allo stesso tempo, in Parlamento giace un ddl di Forza Italia sul legittimo impedimento che garantisce il “diritto alla fuga dal processo” a ogni imputato: basterà che il suo legale produca un certificato medico (anche per un raffreddore) o dimostri di avere un qualsiasi altro “impegno professionale” in contemporanea all’udienza. Altro che velocizzare: una norma del genere rischierebbe di far rinviare i processi all’infinito, con effetti “intollerabili” sull’intero sistema, ha avvertito il presidente dell’Anm. Ma visti i precedenti, non è da escludere che Nordio sponsorizzi anche quella. La solitudine di Nordio: Forza Italia e Terzo Polo non si fidano più del ministro di Francesco Olivo La Stampa, 4 settembre 2023 L’annuncio del Guardasigilli: “Presto il secondo pacchetto della riforma”. Gli Azzurri pronti alle barricate. Il sospetto si stava allargando e Carlo Nordio si è visto costretto a chiarire: “Nessun rinvio, la riforma della Giustizia andrà avanti”. L’excusatio era “petita”, anche perché il Guardasigilli ha avvertito che i suoi maggiori alleati lo stanno abbandonando, stanchi di proroghe e provvedimenti poco garantisti. Forza Italia fa fatica a nascondere il malumore verso il governo e prepara la battaglia sul decreto che estende le intercettazioni nelle indagini sulla criminalità organizzata anche a chi non è indagato per associazione mafiosa, mentre il Terzo Polo approfitterà del dibattito parlamentare per aprire il fronte sui cosiddetti ascolti a strascico. I membri azzurri delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia si riuniranno nei prossimi giorni per scegliere la linea: un documento che circola tra i parlamentari berlusconiani individua problemi di costituzionalità nel decreto del governo sull’estensione della possibilità di intercettare. In particolare il dossier consegnato ai parlamentari critica gli effetti retroattivi della norma “non può valere come una sanatoria per intercettazioni illegali nel momento in cui sono state disposte”. La giustizia riscalderà l’autunno, Nordio, ospite del Forum Ambrosetti di Cernobbio, ha annunciato l’arrivo del secondo pacchetto di provvedimenti, “forse già nel prossimo Consiglio dei ministri”, che dovrebbe contenere norme sulla prescrizione, misure cautelari e, secondo quanto annunciato dal Guardasigilli, anche sull’utilizzo delle intercettazioni. Anche un forzista sempre prudente come Pietro Pittalis, dopo aver ribadito piena collaborazione al governo, precisa: “Giusto combattere la criminalità organizzata, ma non serve una legislazione speciale. Chiederemo una riunione di maggioranza per non stravolgere i principi costituzionali”. Domani in Senato approda il ddl che contiene l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, “ho avuto i sindaci in processione per chiedermi di cancellarlo”, ha raccontato ieri Nordio a Cernobbio. Ma anche in questo caso l’ala garantista della maggioranza teme che l’aver affidato il provvedimento alla commissione Giustizia del Senato, presieduta dalla leghista Giulia Bongiorno, dichiaratamente contraria all’abolizione, metta a repentaglio l’obiettivo del ministro. Poi c’è il tema della separazione delle carriere che, nonostante le dichiarazioni del ministro, a molti esponenti del centrodestra pare destinato a un binario morto. Nordio ha spiegato così il percorso lento: “Servono tempi più dilatati come prevede la Costituzione”. Ma proprio perché l’iter sarà lungo, ragionano i garantisti in Parlamento, sarebbe il caso di partire prima. I forzisiti ricostruiscono così gli ultimi passaggi: mentre la commissione Affari costituzionali stava procedendo con le audizioni, a marzo Nordio ha annunciato un disegno di legge del governo, bloccando di fatto l’iter in Parlamento. Quel testo però ancora non c’è e quindi la commissione tornerà presto a riunirsi per cercare di non impantanare uno dei sogni di Silvio Berlusconi. Perché questa impasse? Enrico Costa di Azione, che con il ministro ha avuto in passato un dialogo fluido e costante, ha un sospetto: “Il governo ha deciso di sacrificare la separazione delle carriere sull’altare del premierato”. Secondo questa teoria, molto diffusa anche nella maggioranza, dare la priorità alla riforma dell’assetto istituzionale dello Stato vuole dire accantonare altre riforme che richiedono una modifica costituzionale. Anche perché, in mancanza della maggioranza qualificata, Giorgia Meloni dovrebbe affrontare due referendum senza quorum, un rischio enorme, anche alla luce di un consenso che inizia a calare. Costa conclude: “Il governo finora ha accelerato con decreti su norme forcaiole come nuovi reati, a cominciare dai rave e intercettazioni, sta demolendo la riforma Cartabia sul Csm, e frena quello di buono che sta germogliando in Parlamento”. Un esponente della maggioranza, che chiede l’anonimato, riassume così questi mesi: “Nordio fa dichiarazioni garantiste, ma poi le norme le scrivono i magistrati del ministero”. E questi erano i sostenitori di Nordio Nordio a Cernobbio corteggia Calenda. Ma la separazione delle carriere “non è la priorità” di Liana Milella La Repubblica, 4 settembre 2023 Il Guardasigilli polemizza con la ex Cartabia sull’arretrato civile: “Pensare di eliminarlo in due-tre anni è una sorta di Alice nel paese delle meraviglie”. Nuove misure penali sulle intercettazioni al prossimo Cdm. E insiste sul cancellare l’abuso d’ufficio. Cita tre volte Carlo Calenda, perché il consenso e il voto di Azione saranno importanti in Parlamento. Al forum Ambrosetti di Cernobbio - dove il Guardasigilli Carlo Nordio si definisce “ospite da oltre 20 anni da modesto cultore giuridico che qui ha fatto programmi per accelerare la giustizia” - il patron di via Arenula è pronto a polemizzare con chi lo attacca. Riforme in ritardo? Falso. E ne annuncia una prossima sulla giustizia penale nel primo Cdm utile, “forse già questa settimana”. La sua priorità è velocizzare la giustizia civile, perché l’Italia non sta rispettando gli step previsti dal Pnrr. E qui ecco la prima critica all’ex ministra Marta Cartabia, anche se con i suoi consueti toni soft: “Non voglio fare polemica con chi ha fatto questo contratto con la Ue, ma pensare di eliminare l’arretrato civile in due-tre anni è una sorta di Alice nel paese delle meraviglie”. E a seguire la prima citazione del leader di Azione Carlo Calenda. Parla per quindici minuti, ma non si risparmia né sull’autodifesa, né tantomeno sulle critiche a chi lo ha criticato. Nell’ordine, sulle riforme che non arrivano mai nonostante i reiterati annunci, sulla difesa dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, sulla separazione delle carriere. E proprio qui Nordio ribadisce la sua linea contro chi - a cominciare da Enrico Costa di Azione - vorrebbe che la separazione tra giudici e pubblici ministeri partisse subito in Parlamento. Ma Nordio ripete quello che ha sempre detto, questa riforma costituzionale sarà l’ultimo step delle sue riforme, arriverà “dopo” quelle sul processo civile e penale. “Le riforme costituzionali - dice il ministro - esigono tempi più dilatati, per gli step lunghi previsti da stessa Costituzione”. Quindi arriveranno “dopo”. Anche se, proprio questa settimana a partire da mercoledì, la commissione Affari costituzionali della Camera parte con l’esame delle quattro proposte depositate - Forza Italia, Lega, FdI, Azione - con l’idea di accelerare al massimo l’invio in aula. E qui, come documentato da Repubblica, ha avuto toni molto polemici contro Nordio proprio il responsabile Giustizia di Azione Costa che è sempre stato un suo fan. Adesso, per Nordio, le priorità sono la giustizia civile, i cui ritardi rischiano di mettere in crisi il Pnrr, e il voto sul suo primo pacchetto legislativo, che contiene la soppressione dell’abuso d’ufficio, e che comincia l’iter parlamentare al Senato già martedì con le prime audizioni, che verteranno proprio sull’articolo 323 del codice penale, ma anche su misure assai contrastate dai giudici, come la stretta sulla custodia cautelare e sulle intercettazioni, criticate dalla Fnsi, perché non si potranno più pubblicare se non sono contenute nei provvedimenti dei giudici e non sono state presentate in udienza. Ma se l’arretrato civile, dice Nordio, costa all’Italia il 2% del Pil, è lì che bisogna concentrarsi. E proprio per questo lui insiste sull’abolizione dell’abuso d’ufficio, a suo avviso un “reato inutile”. Ripete ancora quello che ha detto dozzine di volte: “Tutti i sindaci, in primis quelli del Pd, sono venuti da me in processione per chiedermi di cancellarlo. Su 5mila indagini meno di 6 o 7 arrivano a una condanna estremamente platonica che non giustifica processi lunghi. Per punire un atto amministrativo basta il Tar e non serve il giudice penale, mentre noi abbiamo panpenalizzato tutto”. E chiude insistendo sulla cancellazione definitiva, su cui è pienamente d’accordo Azione: “L’abuso ufficio assume proporzioni gigantesche senza risolvere nulla, ma provoca solo la paura della firma di chi teme di essere inquisito con la delegittimazione sulla stampa”. Toccherà al presidente dell’Anac Giuseppe Busia e al presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, già da dopodomani nella commissione Giustizia del Senato, davanti alla presidente Giulia Bongiorno, spiegare perché non è vero che cancellare l’abuso d’ufficio è la panacea per riformare la giustizia. Una parola e una promessa per i giudici onorari “finora trattati in un modo che se l’avesse fatto un imprenditore privato sarebbe finito sotto processo, mentre adesso stiamo dando sistemazione anche a loro, e ciò porterà a una velocizzazione della giustizia”. Va detto che a “loro” la riforma Nordio non piace affatto. Non una parola invece dal Guardasigilli sui casi di violenza contro le donne, né tantomeno su quella contro gli animali, mentre le comunità dell’Abruzzo e di Fiuggi sono in rivolta per le uccisioni violente dell’orsa Amarena e della capretta. Nordio insiste sul suo garantismo. “La nostra parola d’ordine è garantismo, garanzia della presunzione d’innocenza garantita dalla Costituzione e garanzia della certezza della pena. In Italia è facile entrare in carcere da presunti innocenti, mentre è facile uscirne quando si è colpevoli conclamati, un rapporto perverso che va completamente mutato. Da qui la mia proposta fondamentale che per essere incarcerati prima del processo non solo serve la firma di un gip, ma quella di tre giudici e l’arrestando deve essere sentito prima di essere arrestato”. Si apre, con le sue parole, la campagna d’autunno sulla giustizia. Senza pm e guide forti. Le procure in difficoltà ma Nordio pensa ad altro di Giulia Merlo Il Domani, 4 settembre 2023 Le procure sono gli uffici con la maggiore scopertura di organico e le nomine dei vertici sono spesso impugnate. In questa debolezza, però, la politica non ha saputo intervenire. Con la ripresa dei lavori parlamentari, il grande dossier sulla giustizia che il guardasigilli Carlo Nordio è intenzionato ad aprire immediatamente è quello della separazione delle carriere. Questione storica che divide avvocatura e magistratura ma anche la politica in modo trasversale, le prime audizioni informali cominceranno in commissione Affari costituzionali alla Camera il 6 settembre, con l’Associazione nazionale magistrati e il Consiglio nazionale forense. Trattandosi di una modifica costituzionale, serviranno due passaggi parlamentari e già la magistratura associata sta alzando barricate. Tanto che fonti di maggioranza, soprattutto provenienti da Fratelli d’Italia, fanno subodorare la volontà di procedere coi piedi di piombo. In questo quadro politico di ripresa già molto complesso, tuttavia, la situazione reale all’interno delle procure italiane è ben diversa da quella di forza, ciclicamente rappresentata dal ministro che spesso ripete che “i pm hanno troppo potere”. Se sul piano mediatico è certo che la magistratura inquirente goda di maggiori attenzioni rispetto a quella giudicante, su quello pratico nel corso degli ultimi anni la situazione si è progressivamente modificata. Soprattutto per quanto riguarda la capacità di promuovere le indagini. Secondo i dati diffusi dal Csm a luglio scorso, infatti, le procure sono gli uffici giudiziari a soffrire di più per la carenza di organico: su 2.649 pm previsti sulla carta, ne mancano 426, con quindi circa il 16 per cento di posti vacanti, contro una scopertura nazionale complessiva del 15,5 per cento. Inevitabilmente, questo si riverbera sulla capacità degli uffici di portare avanti le indagini. Le nomine Non solo. Negli ultimi anni, proprio le nomine dei vertici degli uffici di procura sono state oggetto del consueto turnover ma anche e soprattutto di moltissimi cambi in corsa a causa dei ricorsi contro le nomine del Csm. Tra le conseguenze del caso Palamara, che ha messo in luce i meccanismi di concertazione delle nomine ai vertici degli uffici, c’è stata infatti anche l’impennata di ricorsi al Tar per chiedere l’annullamento delle decisioni del consiglio. E l’ulteriore conseguenza di un Csm sempre più lento nel decidere le nomine, col risultato di uffici gestiti da capi facenti funzione. Un esempio è quello della procura più importante d’Italia, quella di Roma: dopo il pensionamento di Giuseppe Pignatone nel 2019 il Csm aveva nominato a succedergli il suo braccio destro, Michele Prestipino. Dopo lo scandalo Palamara, che ha riguardato proprio la nomina del vertice romano, la scelta di Prestipino è stata impugnata fino al definitivo annullamento da parte del Consiglio di Stato. Così, dopo quasi due anni di stallo e dubbi, alla fine del 2021 il Csm ha nominato al vertice l’attuale procuratore capo, Francesco Lo Voi. Complessa è stata anche la nomina del capo dell’altra procura chiave, quella di Milano, terremotata invece dallo scontro interno tra magistrati e finito sotto l’etichetta di caso EM, con i veleni dei verbali di Piero Amara sulla Loggia Ungheria. In questo caso, il pensionamento del procuratore uscente Francesco Greco è avvenuto nel novembre 2021,1a nomina del suo successore è arrivata ad aprile 2022 con Maurizio Viola. La sua nomina, però, è stata immediatamente impugnata dai due esclusi, Maurizio Romanelli e Gimmi Amato: bocciato il ricorso al Tar, nei giorni scorsi Romanelli ha presentato appello al Consiglio di Stato. Caso a sé rimane la procura di Napoli: il posto è vacante da maggio 2022, quando il Csm ha nominato Giovanni Melillo a capo della direzione nazionale antimafia. Nelle prossime settimane (ma ancora senza una data certa) il consiglio dovrebbe finalmente nominare il suo successore in un ufficio senza guida da un anno e quattro mesi e il nome più gettonato è quello di Nicola Gratteri, ma la contesa sarà dura. In questo groviglio e nella debolezza strutturale delle maggiori procure del paese, la politica non ha ancora trovato la forza di intervenire se non con la proposta di separare le carriere. Eppure, la riforma Cartabia avrebbe gettato le basi per un riequilibrio del rapporto tra politica e toghe con la previsione - molto osteggiata in ambienti giudiziari - di prevedere che il parlamento debba fissare per legge i criteri generali di priorità nell’esercizio dell’azione penale da parte delle procure. Una misura coraggiosa, che dovrebbe uniformare il panorama sull’obbligatorietà dell’azione penale (che oggi è invece in mano alle circolari che ogni procura fissa autonomamente), ma su cui il parlamento non si è ancora esercitato. Secondo parte della dottrina, con in testa il professor Giorgio Spangher, “trattandosi di materia ordinamentale sembrerebbe fondato ritenere che il destinatario sia il ministro della Giustizia, che presenterà alle Camere il provvedimento per la sua approvazione” in parlamento. Eppure su questo fronte, che potrebbe dare impulso al lavoro delle procure sia pure con possibili polemiche, nulla ancora si muove. Sessione speciale in Parlamento contro la violenza anziché dividere pm e giudici di Liana Milella La Repubblica, 4 settembre 2023 Già, riparte il treno della giustizia. Ma il piede è sbagliato. Al via le audizioni, alla Camera, per separare le carriere dei magistrati, pm da una parte, giudici dall’altra. E per riscrivere le regole della prescrizione e tornare all’antico. E al Senato sul primo disegno di legge Nordio (via l’abuso d’ufficio, intercettazioni e prime indagini altrettanto segrete). Sfilano le stesse persone, gli stessi presidenti, dell’Anm Santalucia, dell’Anac Busia, delle Camere penali Caiazza, del Cnf Greco, dell’Anci De Caro. Sanno tutti cos’hanno da dire. Sono stati sentiti mille volte. Ma il punto è un altro: sono davvero questi i temi urgenti da affrontare? Ne è convinto Enrico Costa di Azione che ancora una volta sollecita il Guardasigilli Carlo Nordio a presentare il ddl costituzionale sulla separazione delle carriere. E lo rimbrotta perché ha fatto partire “commissioni zeppe di magistrati su tutto, ma su questo tema nulla”. Per lui è il segnale di una “frenata”. Ma i protagonisti della giustizia si stanno guardando intorno? Hanno letto le cronache di questo terribile agosto? La violenza ingiustificata si affaccia di continuo. Un tam tam giornaliero. Fa paura alle persone sane. Compiace le menti deviate, sadiche, criminali. Volutamente enfatizzata attraverso i social dove si scatena una morbosa caccia all’immagine più cruenta. A Palermo una ragazza violentata da sette individui. A Caivano stessa violenza, ripetuta all’infinito, su quasi bambine. Ad Anagni il gioco sadico colpisce una povera capretta. Con genitori che cercano perfino di coprire le responsabilità di chi l’ha uccisa pigliandola a calci. In Abruzzo basta un fucile per uccidere una mamma orsa che aveva l’unica colpa di portare in giro i suoi piccoli e non aveva mai aggredito nessuno. Non è la violenza il tema del giorno? Non è la necessità di rafforzare gli organici della magistratura per inquisire e processare in gran fretta gli autori dei reati? Non è necessario bandire dai social qualsiasi diffusione della violenza interrompendo un circuito infernale? Non è stato un gravissimo errore consentire il possesso di armi per una giustizia fai da te sugli animali? Dobbiamo aspettare che venga colpito un bambino per ripensarci? Non è tempo di cancellare qualsiasi giudizio accelerato - patteggiamento o abbreviato che sia - per crimini come questi? Non è ora di ripensare il circuito delle carceri per rieducare gli uomini violenti? Tutto questo è necessario, e le toghe devono essere protagoniste della nuova stagione. Ne servono molte di più e non è tempo di separare le carriere. È tempo di ergere un muro altissimo contro la violenza. L’idea stessa di commetterla dev’essere fonte di paura per il proprio futuro. Altro che video sui social… È tempo di sessioni straordinarie, alla Camera e al Senato, per occuparsi subito di tutto questo. Lasciamo il resto nel cassetto. A Brandizzo, teatro della tragedia in cui sono morti 5 operai, trionfa il panpenalismo di Claudio Cerasa Il Foglio, 4 settembre 2023 La forca è il collante dei partiti: ognuno ha il suo orticello da difendere. Lo si vede nella tragica vicenda degli operai travolti dal treno. È il panpenalismo il vero collante della politica italiana: inasprire le pene, introdurre nuovi reati, garantire il carcere ai colpevoli, rendere la giustizia più “certa” sono le uniche soluzioni che tutti i partiti (di destra come di sinistra) sono in grado di sventolare ogni volta che accade un fatto di cronaca. C’è chi (come Lega e Fratelli d’Italia) ipotizza di introdurre la castrazione chimica per gli stupratori, chi (come il Partito democratico) di fronte a una tragedia come quella di Brandizzo propone di introdurre un nuovo reato, quello di “omicidio sul lavoro”, c’è chi (come il Movimento 5 stelle) sogna di aumentare le pene per i reati di corruzione fino a trent’anni o di eliminare la prescrizione dall’ordinamento italiano ogni qual volta emerge un’indagine che riguarda politici o amministratori pubblici. L’istinto della forca unisce tutti, indistintamente. Serve a cavalcare lo sdegno dell’opinione pubblica. A cambiare, curiosamente, sono i problemi presi a cuore dai partiti. Ognuno ha il suo orticello di consenso: i partiti di centrodestra sono più attenti ai comportamenti che chiamano in causa i reati che riguardano la sicurezza urbana, quelli commessi dai migranti, le rapine, i furti, le truffe, gli stupri; i partiti di centrosinistra guardano con maggiore attenzione gli infortuni e gli omicidi commessi sul posto di lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori, il caporalato, la violenza sulle donne; i partiti più populisti, come il M5s, si concentrano sui reati commessi dai soggetti economici, finanziari e politici (i cosiddetti “potenti”). Insomma, ognuno ha il suo. L’importante è sembrare dei boia. Strage di Ustica, quelle 132 pagine desecretate che nulla rivelano di Lirio Abbate La Repubblica, 4 settembre 2023 Ecco cosa contengono gli unici documenti messi a disposizione della magistratura. Unica “rivelazione”: i palestinesi non hanno fatto attentati in Italia nel 1980. Sono 32 i documenti dei servizi segreti italiani acquisiti dalla Procura della Repubblica di Roma nell’ambito delle indagini sulla strage di Ustica che erano coperti dal segreto di Stato, che sono stati desecretati con direttiva dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. Si tratta di 132 fogli da cui emerge solo un fatto, che i terroristi internazionali nel 1980 non hanno effettuato attentati nel territorio italiano e non hanno colpito alcuna struttura italiana. Sono dunque questi i documenti a cui hanno fatto riferimento nei giorni scorsi il sottosegretario Alfredo Mantovano e pure Matteo Renzi, per sostenere che tutte le carte segrete su Ustica sono a disposizione dell’autorità giudiziaria. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha precisato che “nessun atto riguardante la tragedia del DC9 è coperto da segreto di Stato”. Sembra però paradossale immaginare che le 132 pagine prodotte, in cui non si cita mai Ustica, è tutta la documentazione che la nostra intelligence ha prodotto in questi anni sull’abbattimento del Dc9. Dovete sapere che l’unico riferimento specifico nelle carte desecretate è il titolo della copertina che custodisce l’incartamento: “Nr. 32 Documenti afferenti la vicenda ‘Giovannone Olp’ Acquisiti in copia dalla Procura della Repubblica di Roma - (Strage di Ustica)”. Insomma, sotto la copertina con il titolo che richiama - fra parentesi tonda - alla tragedia di 43 anni fa, non c’è nulla. È possibile quindi che le nostre agenzie di sicurezza Aisi e Aise, ex Sisde e Sismi, hanno ancora nei loro archivi incartamenti sulla strage? L’ex presidente del Copasir, Adolfo Urso, oggi ministro delle Imprese, si è limitato a dire dopo l’intervista a Giuliano Amato pubblicata da Repubblica: “Su questo argomento non posso esprimere nessuna opinione perché sono vincolato al segreto essendo stato anche il presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica”. Ci sono atti? “Non ho nulla da dire”, ha tagliato corto Urso. L’iter per acquisire le carte - Il percorso che hanno fatto le 132 pagine è stato il seguente: nel settembre del 2020 i magistrati della procura di Roma, nell’ambito dell’inchiesta riaperta dopo le dichiarazioni dell’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga che accusava i francesi di aver provocato l’abbattimento del Dc9 il 27 giugno 1980, hanno disposto l’esibizione dei documenti relativi ai rapporti fra il Sismi, il servizio segreto militare italiano e l’Olp, l’organizzazione per la liberazione della Palestina. Successivamente, nel mese di ottobre di tre anni fa, la procura di Roma ha disposto l’acquisizione di 32 atti. I documenti, finiti nel fascicolo giudiziario per la strage di Ustica, sono stati consegnati dall’intelligence italiana “ancora assistiti dalla classifica Segreto”. Poi, nel marzo del 2021, è stato comunicato alla Procura della Capitale che gli atti erano stati declassificati a “Non Classificato”. Gli atti sono stati esaminati e valutati e i magistrati romani hanno in seguito concesso il nulla osta al versamento degli stessi documenti all’archivio centrale dello Stato perché non contenevano elementi che avrebbero danneggiato l’indagine. Il deposito dei 32 atti è stato disposto anche a seguito delle istanze dell’Associazione dei familiari delle vittime di Ustica, con il fine di consentire la valutazione dell’eventuale pertinenza degli stessi con l’abbattimento del Dc9. Si tratta di un versamento che, a differenza degli altri avvenuti lo scorso anno all’Archivio centrale dello Stato effettuati dal Comparto intelligence, ha per oggetto singoli documenti e non interi fascicoli. In buona sostanza gli apparati di sicurezza hanno scelto i documenti da mostrare ai magistrati e una volta valutati dai pm sono stati inviati all’Archivio di Stato. Questi 32 documenti non costituiscono, quindi, una trattazione organica e sequenziale poiché sono stati estrapolati da diversi “fascicoli archivistici concernenti l’attività dell’allora Sismi”. Documenti che i pm hanno ritenuto essere non riconducenti all’inchiesta. Quel che ricordo di Ustica nella commissione parlamentare di Gianfranco Pasquino* Il Domani, 4 settembre 2023 La commissione parlamentare istituita nel 1988 aveva mostrato che l’ipotesi della bomba a bordo era fragile. L’ipotesi del missile, invece, era minoritaria per motivi politici. Negli anni Ottanta del secolo scorso ero senatore della Sinistra indipendente. Anche per un mio interesse personale e qualche competenza pregressa, il mio gruppo parlamentare decise di assegnarmi alla Commissione parlamentare d’inchiesta “sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi” istituita nel maggio 1988. Ovviamente, Ustica era una delle stragi sulle quali la Commissione aveva il compito di indagare. Nonostante il passare del tempo (ma mens sana et memoria longa!), ho due ricordi di un qualche interesse. Il primo è l’audizione in materia dell’allora ministro della Difesa, il liberale Valerio Zanone. Lo conoscevo dal 1967 quando a Torino frequentavamo il Centro Einaudi del quale facevano parte anche Piero Ostellino, poi direttore del Corriere della Sera, e Giuliano Urbani, poi uno degli importanti ispiratori di Forza Italia e più volte ministro. Il ministro Zanone, persona garbata e disponibile, mai sopra le righe, fu per tutto il tempo dell’audizione in grandissimo visibile preoccupatissimo imbarazzo. Ad alcune domande proprio non sapeva rispondere (non gli avevano fornito i dati? inadeguato, parziale, briefing degli uffici militari?); ad altre domande, con tutta evidenza, gli era stato detto (consigliato? imposto?) di non rispondere affatto, di eludere. Lo osservavo nervoso, si agitava sulla sedia, sudava. Il secondo ricordo è che, già dopo le prime sedute e le informazioni variamente, anche se sommariamente, ottenute e discusse dalla Commissione, si era diffusa la sensazione/convinzione che il Dc-9 dell’Itavia era stato colpito da un missile. Che quella sera del 27 agosto 1980 fosse in corso un’operazione di guerra sembrava innegabile, soprattutto era testimoniato da molteplici tracciati radar. Non sembrava possibile identificare tutti i protagonisti delle scorribande aeree, ma erano numerosi e diversi. L’ipotesi bomba a bordo trovava fra i componenti della Commissione e fra gli esperti che venivano ascoltati pochissimi sostenitori, non particolarmente convinti e, mi pareva, non proprio disposti a impegnare la propria reputazione per sostenerla. Alcuni sembravano interessati a mantenere viva una pista alternativa per evitare una troppo facile e troppo rapida prevalenza della tesi del missile. Per quanto mi riguardava mi ero rapidamente fatto l’opinione che era stato un missile, indirizzato a un altro obiettivo, lanciato da uno degli aerei in quell’improprio teatro di battaglia. Però, ero perfettamente consapevole che un conto è maturare un’opinione un conto molto diverso è disporre di prove sicure e inconfutabili. Come in altre commissioni fra i componenti c’erano esperti e alcuni parlamentari che si dedicavano maggiormente alla raccolta e all’analisi delle informazioni, mentre i loro compagni di partito li ascoltavano, li sostenevano e cercavano di trarre il massimo dal dibattito. La mia posizione era intermedia. Scarso consenso - Partivo con qualche conoscenza utile, mi fidavo degli apporti di un capacissimo consulente parlamentare della Sinistra indipendente, seguivo con il massimo di attenzione le audizioni. Nel corso delle riunioni, durante gli scambi informali negli intervalli, nei tragitti di andata e ritorno dal Senato al Palazzo di San Macuto, luogo nel quale si tengono gli incontri delle Commissioni bicamerali, parlavo con molti colleghi comunisti, democristiani, di altri partiti, mentre i socialisti erano abitualmente abbastanza “abbottonati”, non inclini a proseguire/ampliare i temi affrontati in Commissione. Sentivo, però, che fra tutti loro la (ipo)tesi della bomba risultava molto, molto minoritaria. La tesi del missile aveva, non scriverò moltissimi sostenitori, ma si presentava con maggiore plausibilità e, qui un vero punctum dolentissimum, con l’accompagnamento di enorme preoccupazione politica. La responsabilità di averlo lanciato era di un aereo da guerra francese. Che automaticamente coinvolgesse la Nato non era possibile sostenerlo (ed era preferibile non farlo). Nessuno dei colleghi parlamentari e dei giornalisti con i quali talvolta mi intrattenevo aveva la minima idea di che cosa potesse significare l’accertamento della responsabilità francese. Nell’intervista Giuliano Amato ha parlato di “ragion di Stato” e di “ragion di Nato”. Entrambe andavano nella direzione di non approfondimento dei fatti e delle responsabilità. Eravamo in terra incognita quasi paralizzati dall’incapacità di prevedere impatto e conseguenze dell’accertamento dei fatti. E ora? *Accademico dei Lincei Interdittive antimafia, i sospetti l’unica prova che causano l’ingiusto fallimento delle aziende di Agostino ed Ester Ferdeghini L’Unità, 4 settembre 2023 L’interdittiva antimafia scatta per la presenza di due dipendenti con precedenti penali: uno ci era stato raccomandato da un carabiniere e l’altro faceva un percorso di risocializzazione dei detenuti. La nostra azienda è nata alla Spezia nel 1932 ed è stata colpita a morte il 31 ottobre 2019. La chiamano “misura interdittiva antimafia”. Per il tuo bene, per prevenire il contagio del male assoluto, la Mafia, ti possono anche uccidere. Nel nostro caso, la Questura e la Prefettura avevano presunto l’infiltrazione mafiosa dalla presenza di due dipendenti con precedenti penali. Secondo la loro geniale intuizione queste persone erano state inviate dalla camorra per impadronirsi della nostra attività. In realtà, erano state, una, raccomandata da un carabiniere del nucleo investigativo e, l’altra, arrivata grazie all’adesione della nostra azienda a un percorso di risocializzazione dei detenuti e su segnalazione della Casa Circondariale della Spezia con il beneplacito del Magistrato di Sorveglianza. Il procedimento è stato impugnato al Tar e al Consiglio di Stato che, senza nemmeno considerare i ricorsi, ma solo sulla base della regola non scritta del “più probabile che non”, li ha rigettati, sottolineando anche che “con tanta brava gente che è senza lavoro, non era necessario assumere un detenuto”, calpestando l’articolo 27 della Costituzione. Oltretutto, queste persone, all’emissione dell’interdittiva, non facevano più parte dell’organico: uno già da settembre 2017 e l’altro da gennaio 2019. Ci hanno pure contestato di aver lavorato con quattro aziende sospettate di aver avuto rapporti con persone “controindicate”, ma con procedimento a loro carico archiviato o prosciolte e giustamente iscritte alla white list delle varie Prefetture italiane che gli consente di lavorare con la pubblica amministrazione. A nulla è servito il ricorso in Cassazione, dove è stata evidenziata la commissione del reato di associazione a delinquere, reato che a noi non è mai stato contestato. Attualmente, dopo tre anni e mezzo dalla prima denuncia pubblica tramite Nessuno tocchi Caino, si sta verificando ciò che noi avevamo previsto: il fallimento delle nostre aziende costruite con l’onesto lavoro di quattro generazioni di imprenditori, con una figlia che sarebbe stata la prima donna alla guida della Società dopo tre generazioni di uomini. È scandaloso che una misura con effetti così devastanti possa essere emessa a discrezione del Prefetto in seguito a indagini eseguite da organi di Polizia e senza alcun confronto tra le parti, in base a valutazioni infondate e contraddittorie che portano alla distruzione di imprese sane e persone oneste che le hanno create. È sconcertante che sia il Tar sia il Consiglio di Stato si siano spinti a una valutazione anticipata di responsabilità quando queste, semmai, dipendono da future valutazioni che spettano al Giudice penale. Questo pre-giudizio nei nostri confronti ha condizionato l’intero procedimento. Principi e regole basilari del Diritto sono stati violati: presunzione di non colpevolezza, giusto processo, parità delle armi tra le parti in causa, rispetto della proprietà privata, della vita sociale e familiare. E pure della libertà di circolazione, perché, al titolare è stata applicata anche una misura di prevenzione personale per diciotto mesi che ha avuto effetti deleteri sia sulla persona fisica che giuridica. Non tutti sanno che le imprese e le persone che vengono colpite da provvedimenti così brutali, se si potranno, forse, anche fisicamente rialzare, rimarranno delle anime morte che camminano e che vivono una vita ai margini della Società. Persone a cui è stata tolta l’azienda, il lavoro, la dignità. Calpestate da leggi ignobili e ancor peggio applicate in nome di una lotta alla Mafia solo di facciata. La nostra impresa, come altre decine di migliaia in Italia che hanno subito la stessa sorte, non sono state nemmeno sfiorate dal fenomeno mafioso. Ciò nonostante, sono state annichilite con una violenza al pari di un’arma di distruzione di massa da chi dovrebbe tutelarle. Attualmente siamo inermi di fronte a tanta devastazione in attesa della liquidazione giudiziale delle nostre amate aziende senza poterci difendere, mentre ci viene strappato il frutto del nostro lavoro, magari a vantaggio di altre aziende competitrici che si trovano con un concorrente in meno sul mercato e con beni aziendali rilevabili all’asta a prezzi irrisori. Nella disgrazia abbiamo avuto la fortuna di venire in contatto con Nessuno tocchi Caino che ha preso a cuore la nostra vicenda e ci ha motivato a presentare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, grazie alla collaborazione di avvocati eccellenti, è stato dichiarato ricevibile. Ci rimane la speranza che, a seguito di tanti ricorsi alla Cedu, finalmente ci si renda conto che in Italia esiste un sistema di prevenzione che sarà sicuramente necessario per la lotta alla Mafia ma che ha bisogno di correttivi urgenti per evitare che imprese sane che rappresentano la ricchezza del grano del Paese siano mischiate indiscriminatamente con la miseria della gramigna criminale. Frosinone. Detenuto morto in carcere, si indaga per omicidio colposo di Giovanni Del Giaccio Il Messaggero, 4 settembre 2023 La Procura di Frosinone ha aperto un fascicolo per omicidio colposo a seguito del decesso di un detenuto che si è impiccato in cella nel carcere di via Cerreto, è stato soccorso e successivamente è morto in ospedale. Il procedimento, al momento, è contro ignoti ma gli accertamenti stanno andando avanti per capire se possano emergere delle responsabilità. Se non ci sono dubbi, confermati anche dall’autopsia, sul gesto compiuto dal trentacinquenne di Ceccano che era in attesa di giudizio accusato di una rapina ma in passato aveva avuto a che fare con la droga, quello che si vuole capire e se doveva stare solo o meno e soprattutto se la macchina dei soccorsi ha fatto il possibile. L’inchiesta è senza dubbio un atto dovuto in un caso del genere, il decesso di un detenuto porta inevitabilmente a chiedersi se il sistema nel suo insieme abbia fatto ciò che doveva. Dall’invio in carcere fino all’accorgersi o meno delle sue difficoltà, dal tenerlo in cella da solo ai soccorsi. La polizia giudiziaria ha acquisito documenti, testimonianze e ogni altro materiale ritenuto utile per gli accertamenti, compresi i sistemi di videosorveglianza interni. Per il poco che si apprende pare che in passato la vittima avesse manifestato problemi psichiatrici, al punto di essere seguito dal servizio di prevenzione diagnosi e cura (Spdc) della Asl. Era compatibile la detenzione con questo? In istituto, comunque, era stato affidato a psicologi ed educatori e stava seguendo un percorso, cosa che non ha consentito però di comprendere che aveva deciso di farla finita. Un gesto estremo che si cerca di comprendere attraverso l’indagine ma che in realtà è talmente intimo da sfuggire a spiegazioni. Ma c’è un’inchiesta e si deve andare avanti, anche perché la sorella della vittima ha deciso di presentare un esposto sollevando il problema che il trentacinquenne non dovesse essere in cella da solo. A dare l’allarme, come emerso sin dal primo momento, un detenuto della cella vicina che chiedeva all’uomo delle cose ma non riceveva risposta. A quel punto ha capito che qualcosa non andava e chiesto l’intervento della polizia penitenziaria. Sui tempi di intervento il riserbo è massimo, ma fonti diverse concordano nel dire che l’arrivo del personale dell’istituto e quello dell’ambulanza sono stati celeri. Se c’è stato qualche ritardo è dovuto al fatto che l’elicottero del 118 non si è potuto alzare in volo perché mercoledì 30 agosto c’era maltempo. L’allarme è scattato comunque poco dopo le 20, il medico di turno in carcere è intervenuto, le condizioni dell’uomo erano già disperate e ci sono stati tentativi di rianimazione, poi il trasferimento allo “Spaziani” dove il decesso è avvenuto circa tre ore dopo. Se qualcosa non ha funzionato in tutta la “catena” - dalla decisione di mandarlo in carcere in poi - sarà appunto l’indagine a stabilirlo. Oggi, invece, a Ceccano si celebreranno le esequie: alle 15.30 nella chiesa di Santa Maria a Fiume. Palermo. “È emergenza minori, ma con la nuova riforma il tribunale è paralizzato” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 4 settembre 2023 Non usa mezzi termini la presidente facente funzioni del tribunale per i minorenni di Palermo, Flora Randazzo: “I più giovani continuano ad essere protagonisti di episodi drammatici, come vittime e come autori di reati: dai maltrattamenti alle violenze, ad abusi di ogni tipo. E oggi per effetto della riforma Cartabia il nostro lavoro è rallentato: è stata infatti ridotta drasticamente la possibilità di utilizzare i giudici onorari, che sono professionisti specializzati, psicologi, neuropsichiatri e assistenti sociali, preziosi per le nostre decisioni”. Quali conseguenze si sono determinate? “Semplificando, la riforma ha stabilito che con l’istituendo tribunale per minori e famiglia i giudici onorari non possano essere più utilizzati per le camere di consiglio. E sin da ora è imposto che non possano partecipare a molte impegnative udienze, soprattutto quelle dedicate all’ascolto dei minori, attività che adesso fanno capo ai soli togati. Attualmente, il tribunale di Palermo, che ha competenza anche su Agrigento e Trapani, ha 37 giudici onorari. E solo dieci sono i giudici togati impegnati sia sul versante civile che penale”. Cosa ne sarà dei giudici onorari? “Quando scadrà il loro mandato, nel 2024, avranno funzioni meramente burocratiche in quanto componenti dell’ufficio del processo, privati di funzioni istruttorie e decisorie. Così sin da ora stiamo perdendo professionalità importanti e riversando una mole enorme di lavoro sui giudici, che restano pochi, gli organici non sono stati infatti aumentati”. Dopo le proteste e le proposte dell’associazione italiana dei magistrati per i minorenni e la famiglia è stata concessa una proroga ai giudici onorari. Una marcia indietro rispetto alla riforma? “Si tratta di poca cosa, solo limitata all’ascolto e solo fino a dicembre. Poi, le conseguenze saranno drammatiche”. Di recente, è entrato anche in vigore il processo civile telematico nel vostro rito: le vicende relative ai minori dovrebbero essere di più veloce soluzione. È così? “Niente affatto, le nostre cancellerie sono completamente bloccate. Colpa di un sistema del tutto inadeguato: è stato preso il software del rito civile dei grandi ed è stato adattato ai minori, rispetto ai quali funziona in modo assolutamente inappropriato con conseguenti ulteriori rallentamenti”. Nell’idea del legislatore si sono volute introdurre più garanzie per la difesa... “Il nostro sistema di tutela dei minori è stato sempre un fiore all’occhiello, un esempio anche per altri paesi. Non nego che ci fossero dei problemi, legati al fatto che i giudici hanno svolto una funzione di supplenza rispetto ad altre istituzioni, ma le risposte arrivavano in maniera celere. Oggi, invece, per prendere un provvedimento bisognerà prima convocare i genitori di un ragazzo che ha bisogno di immediate tutele, perché ad esempio non va a scuola, o perché vive in una condizione di abbandono. Inevitabilmente, con una giurisdizionalizzazione della nostra attività, i tempi si allungheranno. Piuttosto, il sistema ha previsto che siano invece gli assistenti sociali ad operare immediatamente, in via amministrativa, su certe situazioni. Ma gli assistenti sociali non sono stati potenziati, e restano sempre in numero inadeguato rispetto alle esigenze. Con il risultato che sarà l’attività di tutela dei minori a risentirne”. Se la giustizia arranca, potrebbero esserci conseguenze anche sugli altri settori di intervento sociale? “La tutela dei minori non può essere delegata solo alla magistratura, è necessario che la società e le istituzioni si facciano carico di una presenza più complessiva nei luoghi del disagio crescente, che non sono sole le periferie. Sempre più spesso ci troviamo a che fare con il branco, con le violenze, con un uso scorretto del Web. È necessario prevenire”. Oggi, le lamentele per il funzionamento della giustizia minorile arrivano anche da parte di diversi esponenti nella classe forense che in passato erano invece sostenitori della riforma Cartabia. Come finirà? “C’è un grande dibattito in corso sugli effetti delle nuove norme. Non è un dibattito corporativo, il nostro obiettivo deve restare la tutela dei minori. Per provare a recuperare anche i responsabili di pesanti reati, il carcere dovrebbe essere l’ultima spiaggia”. Sarzana (Sp). Il Festival della Mente affronta il tema delle carceri di Benedetto Marchese cittadellaspezia.com, 4 settembre 2023 “Cultura arma più potente per il reinserimento di un detenuto”. Se n’è parlato nella ventesima edizione con il direttore del carcere minorile di Nisida, gli sceneggiatori della fortunata fiction e l’attore e regista spezzino Enrico Casale. Farina: “Perdiamo questi ragazzi nella fase da 0 a 6 anni, vivono in contesti particolari e crescono senza stimoli. Preferiscono l’isolamento a un’ora e mezzo di attività scolastica”. Il teatro che entra in carcere con il progetto nazionale “Per Aspera Ad Astra” e le vicende dei detenuti che escono dalle mura di un luogo di pena diventando fiction con il successo di “Mare fuori”. Su questa doppia chiave di lettura la ventesima edizione del Festival della Mente di Sarzana ha affrontato il complesso tema delle carceri in Italia nell’incontro condotto dalla giornalista Marianna Aprile, che ha riunito l’esperienza del direttore dell’istituto minorile di Nisida Gianluca Guida, gli sceneggiatori della fortunata serie Rai Maurizio Careddu e Cristiana Farina, e l’attore e regista spezzino Enrico Casale. Punti di vista differenti accomunati però dall’intento di voler di avvicinare i carcerati ad arte e cultura per costruire percorsi riabilitativi fondamentali anche in un contesto minorile come quello della struttura entrata di recente nella cultura giovanile proprio grazie a “Mare fuori” e alle teorie sull’identità dell’artista partenopeo Liberato. “La meraviglia in carcere non esiste - ha detto Casale rifacendosi al filo conduttore del Festival - ce la devi portare grazie alle maschere teatrali per trasformare per qualche ora quei luoghi fisici e mentali in un teatro. Gli attori detenuti non devono raccontare se stessi ma altre storie e il nostro compito è quello di far crear loro “buchi nella realtà”. Il teatro rigenera - ha aggiunto - perché prevede incontro, scambio e vicinanza e all’interno di un istituto è l’arma più potente per il reinserimento di un detenuto. Lavorando nel carcere della Spezia con alcuni studenti del territorio, ci siamo accorti dell’importanza del portare dentro altre persone. Sarebbe bello se il carcere potesse diventare un “quartiere della città” e un luogo di cultura”. Bisogni che per Guida - a Nisida da 27 anni e oggi direttore anche del Centro Europeo di studi sulla devianza e sulla criminalità minorile - partono da molto lontano: “Questi ragazzi ce li siamo persi nella fase da 0 a 6 anni, vivono in contesti particolari e crescono senza stimoli, arrivano da noi che sono analfabeti e preferiscono l’isolamento a un’ora e mezzo di attività scolastica. Dobbiamo riflettere sul meccanismo dell’affiliazione e dell’appartenenza che li porta a compiere certi gesti perché l’identità criminale si forma su “valori solidi” in contesti famigliari frantumati. Per essere attrattivi noi dobbiamo lavorare molto sulla rivalutazione dell’educazione della nuova società”. Quindi sul successo della fiction che ha acceso i riflettori sulla struttura dell’isola: “Difendo la sua grandissima forza comunicativa di verità - ha sottolineato Guida - non ha l’ambizione di raccontare il carcere e gliene sono grato. Apprezzo molto il tema della qualità delle relazioni per ragazzi che escono invece da legami tossici che la società spesso non vuole guardare. Dobbiamo capire da dove nasce il processo deviante. Ci sono almeno tre realtà nel modo di raccontare il carcere: una vicenda processuale complessa; la verità giornalistica che vuole tranquillizzarci dividendo buoni e cattivi, e infine la verità che stigmatizza chi entra in carcere rispetto a chi sta fuori. Noi affrontiamo una verità molto più fluida e ambigua che contiene corresponsabilità e cose che non sono andate bene, situazioni in cui c’è un po’ di bene e un po’ di male; dobbiamo superare i pregiudizi rispetto al raccontarsi”. “Per noi Mare Fuori è un mondo di sensazioni incredibili - ha affermato invece Careddu - abbiamo fatto un lavoro di grande documentazione anche grazie al direttore e abbiamo parlato con molte associazioni che si occupano di reinserimento per affrontare un problema con tantissime sfaccettature. Di recente un ragazzo mi ha fatto notare giustamente: “qui seguo corsi di teatro, studio e imparo a fare il pizzaiolo, ma perché queste cose non me le avete fatte fare fuori?”. Ci accusano di essere buonisti ma anche questo è un tema molto grande”. “Noi incontriamo ragazzi che nell’immaginario esterno terrorizzano ma che sono piccoli - è intervenuta Farina - ho la convinzione che sia ancora possibile recuperarli a quell’età e i fallimenti non mi hanno minimamente depotenziato. Tanti fatti di cronaca sono frutto di rapporti tossici e l’unico modo per uscire da queste relazioni è vedere qualcosa e meravigliarsi, le chiacchiere non servono. Siamo partiti dal presupposto di raccontare valori di hinterland di cui non si può capire molto se non si vivono, di periferie in cui manca lo Stato”. E il rischio emulazione sollevato di recente dal presidente della Campania De Luca dopo i tremendi fatti di cronaca? Per Guida “Una polemica sterile. Non c’è il rischio emulativo ma quello del riconoscimento, non è un bene ma è una realtà che non si può negare. Per loro Mare fuori è troppo edulcorata mentre si ritrovano di più nella serie di Gomorra”. Mentre per Careddu “è folle pensare che i ragazzi diventino camorristi per colpa delle fiction. Abbiamo visto con i nostri occhi realtà e luoghi in cui non hanno nulla da fare tutto il giorno se non scambiarsi un “tutt’appost”. Il vero problema è che nessuno si preoccupa di tirarli fuori da quei quartieri”. Trani (Bat). “Parlami dentro. Oltre il carcere. Lettere di (R)esistenza” al Festival letterario baritoday.it, 4 settembre 2023 Una raccolta di lettere indirizzate a persone detenute sconosciute. Si intitola “Parlami dentro. Oltre il carcere. Lettere di (R)esistenza”, l’ultimo volume di edizioni la meridiana, a cura di Marilù Ardillo, nato dall’invito rivolto al pubblico nel 2022 da Fondazione Vincenzo Casillo, Liberi dentro e Eduradio & TV, a condividere un gesto narrativo di resistenza scrivendo a una persona detenuta sconosciuta. Da tavoli, scrivanie e banchi di scuola di ogni parte d’Italia, circa un centinaio di persone dai 10 ai 93 anni ha risposto a questa “chiamata alle parole” che diventa oggi un volume disponibile on line e, dal primo settembre, anche in libreria. “È un libro di straordinario valore etico e politico perché dimostra che esiste una porzione di società civile davvero e fino in fondo civile - si legge nella prefazione di Paolo Di Paolo - in grado, se sollecitata appena, di immaginare anche ciò che si immagina a fatica, di vedere chi di solito non viene visto, di entrare in dialogo con chi fatica a rendere udibili le proprie parole. Queste pagine, così spiazzanti nell’intento, e così appassionate, rendono visibile l’invisibile, su più piani; e restituiscono in una forma scritta un’occasione inconsueta e coraggiosa di comunicazione fra coscienze umane”. Fondazione Vincenzo Casillo e edizioni la meridiana intendono far arrivare le copie del libro “Parlami dentro” ai detenuti degli Istituti penitenziari d’Italia, attraverso il coinvolgimento dei Garanti regionali dei diritti dei detenuti e dei Direttori degli Istituti di pena per facilitare, attraverso le lettere, l’incontro e il confronto tra chi è dentro e chi è fuori dal carcere, da sempre obiettivo comune a entrambe le realtà sin dall’inizio della loro collaborazione. “Parlami dentro” sarà presentato il 23 settembre, alle ore 18, al festival letterario I dialoghi di Trani alla presenza del viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto e di Daniela Marcone, Componente della Presidenza di Libera e Referente nazionale area Memoria. Modera il dialogo la giornalista Marilena Pastore. L’evento sarà reso accessibile tramite sottotitolazione in tempo reale su maxi schermo. Modena. Migranti, popoli e “confini”: in 14mila al Festival di Emergency Corriere della Sera, 4 settembre 2023 Quattordicimila partecipanti al Festival di Emergency appena concluso a Reggio Emilia per parlare del “Confine”: questo il tema dell’evento, trattato nei suoi tanti aspetti, da quello dei migranti attraverso il Mediterraneo a quello dell’accoglienza nelle città. Oltre 14mila presenze registrate a Reggio Emilia in tre giorni per Emergency: artisti, scrittori, giornalisti, sociologi, pedagogisti, ricercatori, linguisti, musicisti, cantautori e registi, operatori e volontari, insieme a tantissimi cittadini sono stati i protagonisti del Festival dell’associazione fondata da Gino Strada per la terza edizione dedicata al tema del “confine” e alle sue varie accezioni. Sono stati tre giorni di incontri aperti e gratuiti per riflettere sui confini del nostro tempo, sulle storie delle persone in movimento nel Mar Mediterraneo e sulle barriere che troviamo nelle nostre città. Come pure sulle contraddizioni di Internet, spazio solo apparentemente senza confini, sul carcere, sulle conseguenze della crisi climatica su diritti e giustizia sociale e sulle trasformazioni delle nostre comunità. L’evento, anche quest’anno, è stato organizzato grazie a un protocollo di intesa con il Comune di Reggio Emilia e con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna: si svolgerà nella città emiliana anche per i prossimi tre anni. Per la terza edizione il Festival ha proposto 46 eventi, con 88 ospiti, sette appuntamenti per bambini, famiglie, educatori e insegnanti, un live show serale, una mostra fotografica, un’attività mattutina sportiva, un ciclo di workshop formativi e cinque appuntamenti cinematografici. Il tutto in otto location tra piazze, cortili e posti al chiuso, con piazze gremite fino a sera. Campobasso. La Compagnia “Stabile Assai” di Rebibbia va in scena con “Parole incatenate” termolionline.it, 4 settembre 2023 Cittadinanzattiva e la Comunità terapeutica Molise “La Valle” presentano lo spettacolo teatrale Parole Incatenate della Compagnia “Stabile Assai” della casa di Reclusione Rebibbia di Roma, il più antico gruppo di teatro penitenziario in Italia, fondata nel 1982 da Antonio Turco coordinatore del Gruppo di lavoro - persone private della libertà del Forum Nazionale del Terzo Settore e coordinatore dell’Area sociale dell’Associazione italiana cultura sport Aics. È un evento storico per la realtà culturale del mondo penitenziario, ma anche del nostro territorio, perché detenuti, ex detenuti e la partecipazione straordinaria degli ospiti della Comunità La Valle, saranno gli interpreti delle storie scritte e dirette da Antonio Turco, che hanno come tema centrale la storia del carcere in Italia e l’evoluzione del sistema dal 1860 ad oggi. Dai briganti che sono stati i primi detenuti italiani, alla strage di piazza fontana, dal sequestro Moro alla banda della Magliana, Cosa Nostra e l’eroico sacrificio di Peppino Impastato fino, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, alcuni dei contenuti della rappresentazione. La compagnia Stabile Assai, ha vinto due volte il premio Troisi e ha ottenuto due medaglie d’oro da parte del Presidente della Repubblica Azeglio Ciampi e da parte del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, proprio per il valore sociale dell’attività teatrale quale strumento di socializzazione e riadattamento. Messina. Il “derby dell’amicizia” che va oltre le barriere del carcere di Letizia Barbera Gazzetta del Sud, 4 settembre 2023 Sport e solidarietà nella casa circondariale di Gazzi. All’evento, promosso dalla associazione “Hope for you”, ha preso parte Carmine Coppola. Sport e solidarietà per andare oltre le barriere del carcere, promuovendo lo spirito di squadra e il rispetto delle regole. È il senso del “Derby dell’amicizia”, l’iniziativa che si è svolta all’interno della casa circondariale di Gazzi, promossa da “Hope for you”, associazione di volontariato che da 15 anni collabora con la struttura penitenziaria. Nel campo sportivo interno al carcere, detenuti e volontari hanno disputato un mini torneo di calcio nell’ambito del progetto “Gioco anche dentro”. All’evento ha preso parte l’ex calciatore Carmine Coppola, sempre vicino alle iniziative dell’associazione, per l’occasione ha fatto da arbitro. È stato un momento di svago e allegria anche per un piccolo pubblico, composto da una trentina di detenuti, che hanno regalato calorosi applausi ed esultanza ai giocatori in campo. Alla fine a tutti è stata donata una medaglia mentre a Coppola è stata consegnata una targa ricordo. C’è stato anche un piccolo rinfresco a base di pasticcini offerto dai volontari. “Cerchiamo di fare comprendere a questi ragazzi che c’è un’opportunità di ricominciare anche per loro, siamo una piccola goccia nell’oceano, ma ci siamo per sostenerli e far comprendere che fuori c’è qualcosa di meglio”, spiega Rosa Denaro, volontaria dell’associazione “Hope for you”, si occupa dei detenuti con la stessa cura di una madre con i figli. Si tratta di eventi importanti soprattutto d’estate quando le attività del carcere sono sospese e il senso di solitudine e isolamento si fa più sentire tra i detenuti. L’iniziativa è stata possibile grazie al sostegno della direttrice del carcere Angela Sciavicco e dell’impegno degli agenti della polizia penitenziaria con la comandante Antonella Machì. “Sono eventi molto importanti - spiega Letizia Vezzosi, responsabile area trattamentale -, permettono ai detenuti di incontrare la società esterna e di arricchirsi dal confronto con chi non conosce la realtà carceraria, perché solo in questo modo è possibile per i detenuti capire che esiste anche altro e che la società esterna non si dimentica di loro, sono persone che hanno sbagliato ma questo non significa che non devono avere una seconda possibilità”. Importante, questo evento, così come il percorso teatrale avviato all’interno della Casa circondariale grazie all’impegno di Daniela Ursino, la presidente di “D’Arteventi”, che è riuscita, negli anni, a coinvolgere, enti, istituzioni, registi e attori, creando quella struttura “gioiellino” che è il Piccolo Teatro Shakespeare. “Questi eventi - aggiunge la dottoressa Machì - sono importanti anche perché permettono ai detenuti di mettersi in gioco per dimostrare che si può essere persone migliori”. L’iniziativa, come detto, è stata organizzata in collaborazione con l’ex calciatore Carmine Coppola: “Mi reputo un fortunato - dice la “bandiera” del glorioso Messina in serie A -, non ho mai giudicato nessuno e continuo a farlo, partecipo alle iniziative dell’associazione per dare un po’ di sollievo a chi in questo momento è in difficoltà sperando che prima o poi queste persone possano tornare ad una vita normale e soprattutto essere riaccettati nella società”. Un podcast sul carcere. “Un progetto per raccontare agli altri le storie del Sant’Anna di Modena” di Sofia Silingardi Il Resto del Carlino, 4 settembre 2023 Silvia Panini, modenese di 25 anni, è laureata in scienze politiche: “L’obiettivo è gettare una luce su luoghi e persone della città emarginate. Tra i detenuti c’è chi si è commosso e chi prova ancora tanta rabbia”. “Accendere una luce sui luoghi e, soprattutto, gli abitanti della città. Eventi, turismo, commercianti, fino ad altri aspetti della città di cui non si parla spesso, come il carcere”. Così Silvia Panini, modenese di 25 anni, una laurea in scienze politiche in giro per l’Europa e l’inizio di una carriera nella filantropia, ha deciso di raccontare in formato podcast, modalità oggi molto amata di raccontare in formato audio, il Sant’Anna di Modena. Com’è nata l’idea? “Il progetto Spot Modena è nato da alcuni ragazzi con lo scopo di gettare una luce su luoghi e persone della città. Andrea De Carlo, fondatore e mio caro amico, mi ha chiesto di fare un podcast sul carcere della città, non solo su chi sta scontando una pena, ma anche su chi ci lavora e volontari. Il podcast si chiama ‘Modena Peoplè perché l’idea è quella di far parlare le persone di Modena, tra cui c’è anche chi vive il mondo del carcere, di cui spesso ci si dimentica, in quanto qualcosa ai margini della città, anche geograficamente”. Come ha fatto? “Mi sono buttata a capofitto in questa avventura e la prima persona che ho incontrato è stata Paola Cigarini, storica volontaria del Sant’Anna, che mi ha messo in contatto con chiunque orbiti intorno al carcere. Ho conosciuto associazioni di volontari, avvocati, ma anche e soprattutto, grazie a dei don che li ospitano, persone che hanno vissuto o vivono in carcere”. Com’è stato? “È stato interessante ma anche difficile mettersi in contatto con gli ex detenuti. Il podcast è fatto di tre puntate, ciascuna dedicata a una persona ed è stato già un successo riuscire a trovare tre persone che volessero parlare. Inoltre, non essendo né psicologa né giornalista d’inchiesta, non avevo che conoscenze nozionistiche sul carcere limitate a quanto raccontato nelle news. Avevo un’idea di quello che poteva essere il carcere, ma non conoscevo il carcere di Modena, che ha peculiarità soprattutto in seguito alla rivolta del 2020, e soprattutto non avevo idea di cosa significasse vivere in carcere”. Cosa l’ha colpita di più? “Parlare direttamente con chi in carcere ci ha vissuto, è stato come togliere un velo a un’idea che avevo del carcere - come se avesse fatto luce su molti più dettagli che non conoscevo. Sentire l’emotività di chi ha vissuto il carcere: c’è chi si è commosso, chi prova ancora tanta rabbia. Ma c’era anche la gioia di poterlo raccontare, forse anche per evitarlo ad altri. Purtroppo è un tema di nicchia, che si conosce e si tende a voler conoscere poco, speriamo di aver dato la possibilità di conoscerlo in una maniera abbastanza fruibile”. Che immagine emerge del carcere? “Una delle storie riguarda una persona che lo ha preso come un momento di trasformazione di cui aveva bisogno per espiare la colpa. E quindi lui ne è uscito una persona nuova. Gli altri due racconti riguardano invece persone che in carcere ci sono finite in maniera molto meno ‘conscia’, dettata anche dalle loro condizioni socio-economiche. C’è carcere e carcere, c’è chi lo vive rendendosi conto di quanto commesso e cercando di cambiare. E poi c’è chi ci finisce per condizioni strutturali intorno a sé e delinque perché non ha altro modo per mangiare. Se queste persone, una volta fuori, non trovano un supporto socio-economico per non delinquere più, continueranno a farlo. Una grande riflessione sarebbe da affrontare: se il carcere sia effettivamente il modo per riabilitare una persona”. Il nostro libro con la voce delle donne afghane diventata un grido di libertà di Lucia Capuzzi, Viviana Daloiso, Antonella Mariani Avvenire, 4 settembre 2023 “Noi, afghane. Voci di donne che resistono ai talebani” edito da Vita e Pensiero, in collaborazione con “Avvenire”, nella collana Pagine prime (200 pagine, euro 15). Nelle redazioni dei giornali si inseguono le notizie giorno per giorno, ora per ora. Ma è anche normale programmare il lavoro, almeno per le “date fisse” che si vogliono sottolineare con servizi speciali, interviste o inchieste. Così anche noi ad “Avvenire” nel gennaio scorso abbiamo iniziato a guardare all’8 marzo. Poiché pensavamo che la Festa della donna meritasse una trattazione speciale, ci siamo interrogate: chi, che cosa vogliamo “illuminare”, tra i tanti angoli bui che ancora oggi, nel 2023, affliggono l’universo femminile? E soprattutto, come rendere il mondo un po’ migliore svolgendo semplicemente il nostro lavoro di giornalisti? Il progetto #avvenireperdonneafghane è nato rispondendo a queste due domande. Chi, se non le afghane, che un governo integralmente patriarcale sta cancellando dalla storia, meritava il nostro racconto? E chi, se non le ragazze e le donne espulse dalle scuole e dal lavoro, ha disperatamente bisogno che il mondo non le dimentichi? Dall’agosto 2021, quando i taleban hanno preso il potere, è stato un susseguirsi di bandi: l’associazione Nove onlus ne ha contati 46 “ufficiali”, a cui si aggiunge una ventina di obblighi travestiti da “consigli”. Un lungo elenco di proibizioni che ha eliminato la presenza femminile dalle università, dai luoghi di lavoro, dai parchi, dai negozi. Le donne non possono salire su un taxi o passeggiare per strada da sole, né entrare in un bagno pubblico né fare le estetiste e le parrucchiere... I taleban vogliono città senza donne in una nazione senza donne; propugnano una società “monogenere” poiché temono che il confronto e il dialogo con l’altra eroda le fondamenta di un potere forgiato dalla guerra e perpetuato in nome di essa. Una terrificante doccia fredda, dopo le speranze suscitate nel ventennio di governo instaurato dalle potenze occidentali dopo l’invasione conseguente all’attentato delle Torri Gemelle del 2001. Dunque, da metà febbraio a tutto marzo 2023, ogni giorno abbiamo pubblicato, online e sul giornale “di carta”, la testimonianza di una donna afghana, fino ad arrivare a una galleria di oltre 40 storie, le stesse che ora sono raccolte per la prima volta nel libro in uscita proprio oggi “Noi, afghane. Voci di donne che resistono ai talebani” edito da Vita e Pensiero, in collaborazione con “Avvenire”, nella collana Pagine prime (200 pagine, euro 15). Ognuna di loro - incontrata di persona in Italia o in altre città europee, intervistata in videoconferenza dall’esilio in Pakistan, o raggiunta con difficilissimi collegamenti in Afghanistan - ha offerto a noi giornaliste una lezione di coraggio, di resistenza, di speranza. Donne che continuano a lottare per la libertà di tutte, come la ex sindaca Zarifa Ghafari, esule in Germania, donne che hanno pagato un duro prezzo per il loro coraggio, come la ex magistrata Maria Bashir, minacciata di morte, o la ex deputata Malalai Joya, sfuggita alla vendetta e ora in semiclandestinità in Spagna, oppure donne che giocano a roulette con la vita restando a Kabul, come la candidata al premio Nobel per la pace Mahbouba Seraj, o come Roqia che ci ha raccontato il suo sogno di diventare pilota, coltivato quando in Afghanistan c’erano gli occidentali e poi drammaticamente naufragato nei divieti dei fondamentalisti islamici. Giovani che volevano solo praticare il loro sport preferito, come la calciatrice Nazira, oggi rifugiata in Italia, o la cestista disabile Nilofar, che ora porta la maglia di una squadra di basket di Bilbao … Nel libro sono raccontate, con le voci delle protagoniste, le vicissitudini di madri di famiglia arrivate in Italia dopo una fuga precipitosa nell’agosto 2021 e che ora in Italia stentano a trovare un loro futuro, come Zakia, scappata con marito e due figli adolescenti, la cui unica colpa era di gestire a Kabul una scuola per bambini autistici finanziata da una ong italiana. Tutte insieme, queste storie, raccontante con rispetto e partecipazione, offrono un quadro straordinario di come le donne afghane interpretano il loro duro destino: soffrendo, ma tenacemente resistendo, nella fede che un giorno potranno ritornare a dare un contributo al futuro del loro amato Paese. Abbiamo voluto che a raccontare di loro fossero le firme femminili di “Avvenire”, chiedendo ai colleghi uomini di mettersi in ascolto del dolore delle donne per schierarsi con ancora maggiore convinzione al nostro fianco, alleati indispensabili nella battaglia per la libertà e la pari dignità. Tutte le colleghe hanno voluto esserci, con entusiasmo e partecipazione e le loro firme sono raccolte, anch’esse, nel libro. Il libro che esce oggi rispecchia anche un prezioso lavoro di rete: numerose sono le associazioni impegnate in Afghanistan nel sostegno alla popolazione che ci hanno accompagnato e continueranno a farlo nei prossimi mesi. Con il loro supporto abbiamo potuto ricevere dall’Emirato e pubblicare, sotto anonimato, lettere scritte in prima persona da donne che combattono per i più elementari diritti: giovani infermiere che con il loro lavoro mantengono decine di familiari e tremano al pensiero di ciò che accadrebbe se dovessero perderlo, studentesse che hanno visto azzerare i loro percorsi universitari, operatrici umanitarie che si devono nascondere per distribuire i viveri per la sopravvivenza delle vedove di guerra e dei loro figli. Ogni lettera arrivata dall’Afghanistan alla redazione di “Avvenire” e che ora è pubblicata nel libro è stata trattata come un documento prezioso, nella consapevolezza che non si tratta solo di parole ma di vita vera, di una sofferenza senza fine. Nel libro c’è anche una sezione fotografica-letteraria: Laura Salvinelli, fotografa sensibile, più volte inviata in Afghanistan, con i suoi preziosi ritratti ha ispirato cinque scrittrici e giornaliste, che hanno scritto altrettanti racconti, ciascuno con la propria sensibilità, sul dolore di essere donna, oggi, nell’Emirato islamico dei taleban: Ritanna Armeni, Tiziana Ferrario, Mariapia Veladiano, Marina Terragni e Silvia Resta. Il progetto #avvenireperdonneafghane oggi si è concretizzato nel libro; ma, come abbiamo detto all’inizio, voleva rispondere anche alla domanda: come rendere il mondo un po’ migliore? Ecco che, accanto alla campagna giornalistica, abbiamo chiesto ai lettori di contribuire a sostenere un’opera educativa non ufficiale, che mira a colmare le lacune scolastiche delle ragazzine espulse dal sistema di istruzione. La risposta è stata eccezionale e perfino inattesa: grazie alla generosità di tantissimi, è stata raccolta una somma rilevante, che è stata già consegnata ai referenti locali in Afghanistan. L’esperienza della “scuola che non c’è” è diventata anche un documentario, il cui trailer sarà presentato il 6 settembre a Venezia. Il docu-film completo sarà protagonista di un evento nell’ambito della MedFilm Festival di Roma, il prossimo novembre. Un libro, un podcast, un documentario: tanti modi per stare accanto alle donne afghane che hanno bisogno, oggi più che mai, che il mondo non si dimentichi di loro. Lavoro, basta con la retorica: in Italia c’è lo sfruttamento di Piero Sansonetti L’Unità, 4 settembre 2023 Lo sfruttamento c’è sempre sul lavoro, sotto il salario minimo è super-sfruttamento. L’Italia è il paese europeo dove la parte del Pil costituita da stipendi e salari è la più bassa di tutte. Non date retta: “il lavoro è dignità, il lavoro è serenità, il lavoro è la soluzione contro la povertà, il lavoro cementa la società”. Non date retta: non è vero. E quando usano l’articolo 1 della Costituzione per esaltare la gioia del lavoro vi stanno fregando. È pura retorica. Il lavoro non è gioia, non è serenità, il lavoro è fatica, sudore, sacrificio, talvolta il lavoro abbrutisce, il lavoro può anche essere povertà. Il lavoro spesso è malattia, ferite, mutilazioni, morte. I dati dell’Inail sono parziali. E parlano di 600-700 mila incidenti sul lavoro al giorno, con morti e feriti. In realtà sono molti di più, perché di questo conteggio fanno parte solo i lavoratori regolari, assicurati con l’Inail. Poi ci sono altrettanti incidenti, e morti, che non vengono contati. Gli incidenti sono almeno un milione e mezzo. I morti forse 1500. State sicuri che tra i morti e i feriti difficilmente ci sono i manager, gli ingegneri, i notai. A loro succede raramente. Per una ragione molto semplice: non esiste “il” lavoro, esistono “i” lavori. Mi sapete dire voi che cosa ha in comune il lavoro di un alto dirigente di una fabbrica meccanica, che vive in ufficio, o in aereo, o in albergo, o al ristorante stellato, e guadagna due o tre milioni di euro all’anno, e un operaio della sua stessa fabbrica, che sta al chiodo, che attacca la mattina alle sei, e che per guadagnare due o tre milioni ci mette all’incirca 150 o 200 anni? Speriamo che si salvino tutti e due, ma se venite a sapere che uno dei due ha avuto un incidente sul lavoro potete scommettere che è toccato all’operaio. Quando diciamo lavoro, posto di lavoro, occupazione, di solito non immaginiamo il lavoro dei manager, né degli imprenditori grandi e medi, né dei proprietari terrieri, giusto? Parliamo degli operai, dei contadini che ancora esistono, dei rider, dei precari, dei muratori, dei camerieri, dei vigili urbani, degli autisti dell’autobus, dei lavoratori delle ferrovie, o dei piccoli autonomi, gli idraulici, i falegnami. Quanti sono in tutto? Alcuni milioni. 10, 15, 20 milioni. Più o meno uno su dieci, tra loro, l’anno prossimo subirà un incidente. E quasi tutti lo subiranno, grave o lieve, nei prossimi anni, prima della pensione. Cosa producono questi lavoratori? La gran parte della ricchezza nazionale. E quanto, di questa ricchezza che producono, resta nelle loro tasche? Forse un decimo forse un quinto. Il resto va allo Stato, va a coprire l’evasione fiscale dei ricchi, o va agli imprenditori che usano e rivendono il prodotto che i lavoratori hanno realizzato. Questo 90, o 80 o 70 per cento, il vecchio Carlo Marx lo chiamava plusvalore. Vuol dire che il lavoratore produce per dieci e tiene per sé una piccola parte. Nel dizionario italiano tutto questo è riassunto con la parola “sfruttamento”. Ho sentito dire che molti ritengono che sotto il salario minimo c’è lo sfruttamento. Sotto i 9 euro l’ora. Non è così: lo sfruttamento c’è sempre sul lavoro, sotto il salario minimo è super-sfruttamento. L’Italia è il paese europeo dove la parte del Pil costituita da stipendi e salari è la più bassa di tutte. Non solo dietro alla Francia e alla Germania, anni luce dietro la Francia e la Germania, ma dietro la Spagna, la Grecia e la media dei paesi europei. Avete sentito la retorica contro il reddito di cittadinanza? Dicono: “vorrebbero campare sul divano. Rifiutano la dignità del lavoro…”. No, amici, sul divano ci campano alcune centinaia di migliaia di redditieri, di speculatori, di finanzieri, quelli del reddito non rifiutano la dignità, semplicemente pagano la disoccupazione o rifiutano l’indegnità di lavorare per sei euro o cinque all’ora. Il lavoro - abbiamo titolato ieri su queto giornale - è sfruttamento, è morte. Il Presidente Mattarella ha detto belle parole sull’incompatibilità tra morte sul lavoro e civiltà. Purtroppo Mattarella sbaglia: non solo non c’è incompatibilità, c’è interdipendenza. Noi viviamo in un sistema economico per il quale l’insicurezza e l’incidente sul lavoro sono il carburante. Fanno rifornimento di morti tre volte al giorno. Senza quel carburante si fermano. Capolarato e salario minimo: più sicurezza e meno costi del lavoro per evitare lo sfruttamento di Marco Grimaldi L’Unità, 4 settembre 2023 Non solo tra i braccianti. Anche teriario poverissimo. Il caporalato oggi prospera e insieme allo sfruttamento si estende ad altri settori. Un piccolo viaggio tra i facchini, vigilantes e finte coop. Un’epopea che si rispetti si svolge lungo un esteso arco temporale e una mappa geografica vasta e variegata. Il nuovo caporalato sta assumendo queste caratteristiche. I settori che arriva a toccare sono i più diversi: dall’agricoltura alla logistica, dai servizi di pulizia al mondo della vigilanza e dei servizi fiduciari. Periodizzare è sempre un gesto convenzionale in storiografia. Si fa per segnare dei passaggi epocali, ma non si tratta mai di cesure nette. La rivolta di Rosarno potrebbe essere considerata, con questa cautela, il momento in cui è emersa la consistenza di una nuova stagione del caporalato in Italia. Là nella Piana di Gioia Tauro, nel Sud della Calabria, già dai primi anni Novanta lavoratori migranti venivano impiegati nella raccolta di agrumi e olive. Le loro condizioni di vita e di lavoro diventeranno man mano più drammatiche. Ma è nel pomeriggio del 7 gennaio 2010 che quella realtà esplode, con i colpi di arma da fuoco che feriscono due braccianti di origine africana di ritorno dai campi. I migranti reagiscono uscendo dalle fabbriche abbandonate e vandalizzando automobili e cassonetti. La popolazione reagisce con due giorni di pestaggi e “caccia al negro”. Almeno da allora nessuno può negare di sapere che i caporali sono tornati. Nella filiera del cibo da Foggia a Salerno, da Campobello di Mazara a Saluzzo. Si aprono nuove inchieste. Si scrivono nuove leggi, si firmano protocolli. Eppure, non solo le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti migranti non sembrano migliorare, ma oggi il caporalato prospera e si estende ad altri settori del mondo del lavoro. Le forme contemporanee di schiavitù in Italia si diversificano, lo sfruttamento e i salari da fame dilagano. Reclutamento di manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, a prescindere da come sia organizzata l’attività di reclutamento e intermediazione. Uguali sanzioni previste per chi recluta e per il datore, innalzamento delle pene se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia. Le cause giudiziarie che ipotizzano queste fattispecie di reato sono sempre di più e coinvolgono i lavoratori più diversi. Dal caporalato digitale, a quello contestato al mobilificio Mondo Convenienza ai danni di facchini e montatori. Dalle condanne a titolari di cooperative che si facevano pagare il pizzo dalle addette alle pulizie, alle inchieste che riguardano il mondo della vigilanza e dei servizi fiduciari. Nei casi più gravi, i lavoratori subiscono minacce e violenze anche fisiche. Esiste un terziario povero, che include i settori merceologici di servizi, pulizie, consegne, accoglienza, vigilanza, ristorazione, accoglienza, e sta diventando terreno di coltura di questo genere di abusi. Ambiti “labour intensive” dove vige la logica del massimo ribasso per la massima competitività. Un sistema fatto di esternalizzazioni, appalti, subappalti, finte cooperative, dove la contrattazione collettiva non ha più la forza di imporre minimi salariali equi. Perché la contrattazione non è autosufficiente e va sostenuta con altri strumenti? Perché esiste una concorrenza al ribasso tra contratti collettivi, proliferati negli ultimi decenni anche sulla stessa categoria merceologica, non essendoci alcun vincolo all’applicazione di un particolare contratto collettivo. Perché la proliferazione può significare applicazione di contratti “pirata”, ma anche di contratti collettivi di categorie diverse da quelle in cui si lavora, per abbassare il costo del lavoro. Ho cercato di fare luce su alcune porzioni dell’universo del nuovo caporalato, di raccontare quante costellazioni lo compongono, ma anche quante persone e situazioni potrebbero trarre beneficio dall’introduzione di un salario minimo legale e di tante altre norme necessarie a tutelare la dignità di chi lavora. Finalmente in questa torrida estate infiamma il dibattitto sul salario, ma questa terra è in fiamme da tempo come chi lavora e rimane troppo povero, perché “a fine stipendio manca ancora troppo mese”. È immigrazione, si fa troppo presto a chiamarla emergenza di Agostino Miozzo Il Foglio, 4 settembre 2023 Davvero 100mila arrivi spaventano un paese di 60 milioni di abitanti? Il dopo-primavere arabe e i compiti a casa non fatti dall’Italia. Nel linguaggio dei protettori civili il termine emergenza sta a significare una condizione ben precisa: qualcosa che minaccia la vita, la salute, le proprietà o l’ambiente: è una situazione che ha la possibilità di evolvere verso scenari peggiori, una condizione che in termini manageriali prevede decisioni e azioni rapide con adeguate misure straordinarie. Due articoli pubblicati sul Secolo XIX e sulla Stampa del 28 agosto mi hanno particolarmente colpito. Il primo di Matteo Zuppi, cardinale di Bologna, che analizza i processi migratori come fenomeni strutturali e non come condizioni di emergenza. Il secondo è quello del presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, il quale afferma che 100.000 migranti in un paese di 60 milioni di abitanti non dovrebbero rappresentare un’emergenza. Non sono un “vero” esperto di politiche migratorie, mi sono però occupato di migranti nelle molte situazioni dove i movimenti improvvisi di persone erano legati a conflitti o grandi disastri naturali e dove sono stato coinvolto come operatore umanitario. Non entro pertanto nel merito di un dibattito difficile e complesso che riguarda la gestione dei migranti nel nostro paese e mi limito a commentare il termine emergenza, che mi sembra assai abusato da molti politici e giornalisti nel dibattito attuale. Giustamente il cardinale Zuppi sottolinea che i processi migratori “sono parte della storia recente dell’Italia da lungo tempo e sarà così per anni” e, pertanto, dovrebbero essere considerati fenomeni che potremmo definire quasi naturali. Ogni specie si muove da un’area all’altra del pianeta alla ricerca di condizioni di sopravvivenza più adeguate, questo vale per il mondo animale e ovviamente anche per l’uomo. E questo è ancor più vero per l’uomo nell’èra della comunicazione globale, laddove le condizioni di vita di alcuni paesi “privilegiati” diventano il modello cui aspirare per uomini e donne che vivono in realtà molto più povere. A proposito di gestione dell’”emergenza migranti” vale la pena ricordare che nel 2008 l’allora presidente Berlusconi firmò un accordo con il colonnello Gheddafi che prevedeva il controllo da parte del governo libico del flusso dei migranti verso l’Italia. A seguito di quell’accordo, ottimo dal punto di vista tecnico e dei risultati, e sino al conflitto del 2011 nessun migrante partiva illegalmente dalla Libia, e i flussi dalla Tunisia rappresentavano quei movimenti fisiologici legati prevalentemente alla stagionalità dei lavori nel nostro paese. Non entro nel merito del costo o della valutazione “etica” dell’accordo Berlusconi-Gheddafi; l’effetto fu comunque indiscutibile e ne abbiamo avuto conferma solo all’indomani del conflitto voluto in particolare dalla Francia e dagli Stati Uniti per eliminare il colonnello libico. Che quel conflitto avrebbe aperto i flussi migratori soprattutto verso l’Italia era più che scontato. Possiamo quindi dire che le nuove rotte verso l’Italia, il caos dei centri di accoglienza o meglio dire delle carceri libiche attuali, sono stati una crisi ampiamente annunciata e prevista; difficile valutarla quindi al pari di una condizione di emergenza, quando di quel fenomeno avevamo tutti gli elementi conoscitivi in tempi non sospetti. Sono passati già dodici anni dal periodo dell’illusione delle “primavere arabe” che ha visto sviluppare la crisi libica, quella egiziana e poi quella siriana, cui dobbiamo aggiungere l’Afghanistan e numerosi altri paesi, soprattutto africani, oggetto di crisi dimenticate. Crisi che hanno visto milioni di profughi fuggire dai paesi in guerra. Molti di questi sono arrivati in Europa. Dodici anni sono tanti, certamente il tempo utile per trasformare un’emergenza in un processo di gestione strutturato e governato con criteri diversi da quelli emergenziali. Ho tutta l’impressione che, quantomeno nel nostro paese, non abbiamo fatto bene i compiti a casa. Il punto del presidente Occhiuto sui numeri assoluti è altrettanto significativo. Anche in questo caso non entro nell’analisi squisitamente politica di Occhiuto sulla difficoltà storica dell’Italia nel governo dei processi migratori e nell’incapacità di costruire percorsi di integrazione e gestione delle risorse umane. Risorse che se ben governate aiuterebbero certamente il nostro paese a superare quei limiti evidenti legati alla denatalità e all’invecchiamento della popolazione, alla cronica mancanza di manodopera che l’industria, il commercio, l’agricoltura quotidianamente lamentano. Sostenere che 100.000 persone siano una grave emergenza per l’Italia, paese di 60 milioni di abitanti, la settima potenza economica del pianeta è decisamente difficile da comprendere. Come altrettanto difficile è sentire capi di stato di paesi membri dell’Unione ribadire che un milione di migranti che nel 2022 sono arrivati in Europa rappresentano una minaccia alla nostra sopravvivenza! Sommando i 27 stati membri la popolazione europea ammonta a quasi mezzo miliardo di abitanti, la somma delle nostre economie rappresenta una delle prime potenze economiche del pianeta, e potremmo essere (ma non siamo) al vertice delle potenze militari e geostrategiche se raggiungessimo effettivamente il livello di “Unione” cui aspiravano i padri fondatori. Un milione su 500 milioni significa i decimali di un’unità, lo zero virgola… e se lo zero virgola può determinare la crisi di stati membri e magari la caduta dell’Unione significa che probabilmente questa Unione non ha fondamenta ma si regge su pilastri di argilla. Un’ultima considerazione: gli articoli 13 e 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani sottoscritta anche dall’Italia il 10 dicembre 1948 a Parigi recita agli articoli 13 e 14: ogni individuo ha il diritto di lasciare qualsiasi paese e di ritornare nel proprio paese. Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni. Non ho mai visto né sentito nell’esasperante dibattito sul tema che da anni ci affligge l’ipotesi, peraltro più che giustificabile e comprensibile, di rivedere la Dichiarazione universale; emendarla, correggere questi due come altri articoli, rendendo la dichiarazione originale più restrittiva e magari più “adeguata” ai tempi. Allo stato attuale quindi il dibattito pare essere in aperta violazione di una convenzione che anche il nostro paese ha firmato; qualcuno dovrebbe avere la forza e il coraggio politico di chiedere al Palazzo di Vetro un dibattito sul tema; mi stupisco che questo non sia ancora avvenuto. Psicofarmaci, niente medici, nessun diritto. L’inferno del centro rimpatri di Caltanissetta di Alessia Candito La Repubblica, 4 settembre 2023 Parla uno dei sommersi nel Cpr di Pian del Lago. Ci è finito per un garbuglio burocratico, in pochi giorni è stato tirato fuori e adesso dice: “Salviamo quei ragazzi”. “Sai qual è la prima cosa che ti dicono appena entri là? ‘La vuoi la terapia?’. Sono calmanti, sonniferi, non so quale altra schifezza. Non serve a curare niente, ti ammazza e basta”. Nell’inferno del Cpr di Pian del Lago, nel Nisseno, Bacary ci è stato per pochissimo tempo. “Ma un giorno lì dentro vale un anno. Io sono rimasto lì per poco più di 72 ore, mi è sembrato non finissero mai. Lì dentro non sei un essere umano, ti trattano come un animale da addomesticare. Non sembra neanche di stare in Italia”. Dei Cpr, i centri per i rimpatri che il governo Meloni vorrebbe sempre più attivi, più grandi e in ogni regione stando agli annunci, Pian del Lago è uno dei più vecchi. E dei più chiacchierati. Più volte in passato è finito al centro delle cronache per incendi, fughe, rivolte per le pessime condizioni di vita all’interno, denunciate da avvocati, giuristi e attivisti. Nulla è mai cambiato. Dentro Bacary è finito per un garbuglio burocratico: gli è stata negata la protezione internazionale, ha fatto appello ed è in attesa della fissazione del giudizio. Da terminale però non risulta e nel frattempo non ha documenti validi. Anche per questo chiede di trincerarsi dietro un nome di fantasia. “Ho paura che facciano del male a me e ai miei”. O banalmente che possa pregiudicare la sua battaglia legale. Fermato a un controllo stradale a Palermo, è stato subito trasferito in Cpr. “Mi hanno caricato su una volante e accompagnato a tutta velocità a Caltanissetta come se fossi un criminale. Ho fatto giusto in tempo ad avvertire la mia avvocata, poi mi hanno tolto anche il telefono”. Succedeva mesi fa, ma quello che ha visto, quello che ha vissuto lo divora. “Bisogna fare qualcosa per salvare quei ragazzi - dice - lì dentro stanno distruggendo uomini e creando mostri, incapaci di parlare, di pensare, di fare qualsiasi cosa. Perché? Io non lo capisco, non me lo spiego”. Tutto a Pian del Lago serve a farti dimenticare di essere una persona, un essere umano. “Io non avevo nome, non avevo identità. Io ero un numero. Io mi chiamavo trentacinque”. Per prima cosa, gli hanno chiesto di mettersi in fila. In fondo c’era un infermiere: “La vuoi la terapia?”. Gocce o pasticche, il risultato - spiega Bacary - era sempre lo stesso. “I ragazzi, molti giovanissimi, forse appena maggiorenni, diventavano degli automi. Incapaci di parlare, di pensare, di fare qualsiasi cosa. Molti passavano il tempo a dormire sui materassi luridi che ci sono lì dentro”. Nessun medico a verificare le condizioni, “chi stava lì da più tempo mi ha detto che il dottore si fa vedere solo una volta al mese”. A distribuire psicofarmaci “era un infermiere, dicevano fosse un tirocinante”. E forse - o almeno questo lui sospetta - quei farmaci venivano imposti anche a chi non li volesse: “Ogni volta che mangiavo qualcosa - e ce ne voleva, perché il cibo era poco e pessimo - improvvisamente mi veniva sonno, mi sentivo intontivo, avevo solo voglia di dormire, non mi importava più di nulla”. L’imperativo categorico -spiega - era far stare tutti calmi. A vegetare. “Ho chiesto di avere un libro, un fumetto, un giornale, non c’è niente. Neanche una televisione per capire cosa stia succedendo fuori”. Il Cpr è un non luogo, dove anche le semplici attività quotidiane sono un lusso difficile da conquistare. “Lì c’è una sola doccia funzionante per tutti, un unico lavandino, anche l’acqua in piena estate è razionata”. Parole in libertà? Lo sfogo di chi è stato ingiustamente imprigionato e liberato con tante scuse qualche giorno dopo? No, almeno stando al report di avvocati e consulenti giuridici di Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione, che un anno fa in un report pubblico denunciavano la distribuzione a pioggia di psicofarmaci, senza previo consulto e valutazione psichiatrica, pessime condizioni igieniche, ambienti inadeguati a ospitare esseri umani, totale mancanza di assistenza legale, impossibilità per i reclusi di comunicare con l’esterno. E dal Cara poco distante, dove da mesi va avanti una protesta per le pessime condizioni di vita, confermano. “Ogni notte si sentono urla, pianti, arriva l’odore dei lacrimogeni”. Perché l’effetto dei farmaci finisce. “La notte lì sembra giorno. C’è chi protesta perché ha bisogno di dosi sempre maggiori di medicine, chi cerca di scappare, chi sale sui tetti e minaccia di buttarsi giù”. Pian del Lago, racconta, è un inferno da cui fuggire è impossibile. “Appena arrivi ti tolgono lo smartphone. Significa che non puoi comunicare con nessuno, non puoi chiedere aiuto, non puoi documentare con foto e video quello che succede lì dentro”. Eppure, quanto meno formalmente non è un carcere. Chi finisce lì è in stato di detenzione amministrativa, “giuridicamente una contraddizione in termini”, spiega l’avvocata Ilenia Grottadaurea, perché pur in assenza di reato o imputazione vi è una privazione della libertà personale. In teoria, è regime che può durare massimo 90 giorni, in alcuni casi prorogabili a 120. Ma a molti capita di essere liberati e immediatamente o quasi di nuovo imprigionati lì dentro. Gli operatori legali sono pochi, possono passare giorni prima che si rivolgano a un nuovo arrivato. “Mi sono presentata appena il mio assistito è riuscito a contattarmi”, spiega l’avvocata Grottadaurea. Ma pur in presenza di una nomina formale ha dovuto attendere ore prima di riuscire a entrare. “Se non mi fossi presentata io al Cpr, sarebbe stato obbligato ad affrontare l’udienza di convalida da solo, affiancato da un avvocato che nulla sa del suo caso”. L’assistenza legale, gli sportelli di orientamento sono un miraggio. “Non volevo parlare per paura di ritorsioni - mormora Bacary - ma ogni giorno penso a quello che ho vissuto lì dentro e ogni giorno non posso che ripetermi che quei ragazzi non possono essere abbandonati. Lì dentro c’è per lo più gente che ci finisce perché non ha documenti validi o non li ha ancora. Per questo merita di essere lentamente ammazzata?”. Il destino oscuro di chi soffre di disturbi mentali in Slovenia di Klara Širovnik* Il Domani, 4 settembre 2023 Come avrebbe potuto essere la vita di Joc Podlesnik, che soffre di disturbi mentali? In Slovenia i malati psichici sono ancora confinati tutto il giorno, subiscono violenze e vengono disumanizzati. I tentativi dell’Ue di sostenere un percorso di riforme non bastano. Il reportage narrativo realizzato in partnership con Ereb. Joc Podlesnik ha 59 anni e trattiene tra le dita una sigaretta mentre passeggiamo in piazza Prešeren, forse la più bella di Lubiana. Io e il suo caro amico Andraž Rožman - scrittore, giornalista e attivista - chiacchieriamo e Joc ci segue a poca distanza: ogni tanto si allontana, poi ci raggiunge; saluta una vecchia conoscenza, si accende un’altra sigaretta, recupera una scatoletta di cibo da chissà dove e si ferma a fare una telefonata. Le estati insolitamente calde che Lubiana ha vissuto negli ultimi anni non disturbano Joc mentre gira per la città. Per sfuggire al caldo, che sfianca le persone e le lascia senza fiato, nuota nel fiume Ljubljanica. Questa città e queste strade sono la sua casa e ogni volta che è stato costretto a lasciarle, nel corso della sua vita, ha sofferto. Ci stiamo dirigendo verso la sede dell’organizzazione Kralji ulice - “re della strada” - dedicata alle persone bisognose, che pubblica un proprio giornale. Grazie alla vendita di questo giornale, che costa un euro, molte persone tossicodipendenti, senzatetto o con disturbi mentali possono guadagnarsi da vivere in Slovenia. Fuori dall’edificio dell’organizzazione si è radunata molta gente, per lo più uomini. Vengono qui per vendere i giornali o cercare conforto. Al momento Joc non fa parte dei venditori, ma visita regolarmente l’organizzazione. A Kralji ulice ci sono dei suoi amici che è felice di incontrare, e si sente al sicuro. Oggi riceverà anche un pass gratuito per un’imminente partita di basket, che per un tifoso appassionato come Joc è “una necessità assoluta!”. Da bambino, Joc voleva studiare storia e geografia. Era attratto da paesi esotici e città straniere. Dopo che gli è stata diagnosticata una schizofrenia paranoide, è stato ricoverato in un reparto psichiatrico e i suoi progetti sono andati in fumo. “Quando sono stato ricoverato per la prima volta nel 1982, mi hanno lavato come un maiale, con acqua fredda e un tubo nero”, ricorda. “La parte più spaventosa è quando devi spogliarti. Due uomini enormi, tecnici sanitari, ti accompagnano allo spogliatoio. Se sei troppo lento, rischi di essere colpito”. Andraž commenta che “la storia di Joc testimonia la situazione del nostro sistema di salute mentale. Ma è anche una storia sul presente: le condizioni negli istituti psichiatrici chiusi non sono cambiate molto fino ad oggi. Solo i metodi sono leggermente diversi”. Lo scrittore non è sorpreso dalle condizioni disumane in cui le persone con problemi di salute mentale hanno vissuto - e continuano a vivere - in Slovenia. Qui, rispetto ad altri stati membri dell’Ue, la deistituzionalizzazione è iniziata tardi e a un ritmo più lento. In Italia, ad esempio, il processo era al suo apice nel 1980 e il ricovero in istituto era vietato per legge; le persone con disturbi mentali gravi e cronici venivano assistite in diversi centri di salute mentale regionali. Un’iniziativa che non ha trovato riscontro oltre frontiera, in Slovenia. La retorica che giustificava la decisione di non avviare la deistituzionalizzazione sosteneva che vi fossero numerosi difetti in questo processo, nonché possibili effetti negativi, come un presunto aumento dei senzatetto e la mancanza di assistenza per i pazienti psichiatrici. Ad oggi, nessun istituto in Slovenia è stato completamente chiuso; gli istituti per lungodegenti e le unità istituzionali stanno addirittura crescendo o sono in fase di rinnovo. Le opportunità di reinsediamento nella società sono limitate. Violenza legalizzata - Come attivista e scrittore, che esplora anche i problemi di salute mentale nei suoi documentari, Andraž ha sentito decine di storie simili a quella di Joc. Alcune delle violenze negli ospedali psichiatrici sono legali - come l’essere legati per quattro ore - e altre non lo sono, ma esistono comunque (come le eccessive misure di contenimento, fino a dieci giorni, la disidratazione intenzionale e le percosse genitali). “Le persone vengono in psichiatria con la paura, angosciate e spesso esprimendosi in maniera aggressiva. In cambio, ricevono coercizione e violenza. I farmaci vengono forniti, ma non c’è abbastanza terapia basata sul dialogo”, continua Andraž. Quando Joc ha iniziato la sua “carriera da pazzo”, come la descrive lui stesso, c’erano altri metodi, come l’elettroshock e la terapia con l’insulina. Questi metodi non vengono più applicati, ma la violenza persiste. Andraž, che lavora quotidianamente con persone che hanno vissuto o vivono in questi istituti, dice: “Gli operatori spesso trattano le persone non come soggetti ma come oggetti, senza credere che la volontà della persona interessata abbia un valore. Per cambiare questa situazione, è necessario un cambiamento fondamentale nel pensiero e nel sistema”. Joc è un uomo molto riflessivo. Mentre camminiamo verso il suo appartamento dall’altra parte di Lubiana, parla di cambiamenti climatici, calcio, vendite di antiquariato e pesca. I suoi tanti interessi sono evidenti nella sua stanza parecchio disordinata, in cui si fa fatica ad entrare per il numero di oggetti. Le pareti sono ricoperte di fotografie di sportivi famosi e di imitazioni di opere d’arte. Gli scaffali sono tappezzati di libri, riviste e album fotografici contenenti immagini di persone con cui Joc non ha più contatti e di altre che continua a frequentare. Quando non si incontrano nel centro di Lubiana per un caffè e un croissant, è qui che Joc e Andraž trascorrono il tempo insieme. “Quando si parla della casa, Joc è sempre sul chi va là”, dice Andraž seduto nella stanza del suo amico. Per un po’ ha vissuto in un appartamento di sua proprietà, poi è stato inserito in una casa famiglia dell’Associazione slovena per la salute mentale (Šent) e si è ritrovato senzatetto per un breve periodo. Nel 2017 si è trasferito in un appartamento del Ljubljana Housing Fund - la sua attuale sistemazione - che è un “istituto senza personale”. Ogni abitante di Lubiana può teoricamente fare domanda per un alloggio di questo tipo. Se si soddisfano i criteri di ammissibilità (tra cui disoccupazione, disabilità, vulnerabilità sociale), ci si può aspettare che la domanda venga approvata. Tuttavia, questo non è un luogo in cui le persone con disabilità mentali, comprese quelle che sono state in istituti per lungo tempo, ricevono assistenza per le attività quotidiane che potrebbero non essere in grado di svolgere da soli, per l’assistenza fisica se ne hanno bisogno o per le terapie di cui potrebbero necessitare. L’edificio, con i suoi lunghi corridoi bianchi e i bagni in comune, ospita persone di ogni provenienza, con problemi di salute mentale, senzatetto... Persone che hanno commesso violenza e persone che ne sono state vittima. C’è la possibilità che Joc si ritrovi di nuovo per strada, e sebbene sia uno dei pochi che è riuscito a lasciare l’assistenza istituzionale - almeno in parte - la sua vita avrebbe potuto essere diversa con il giusto sostegno. Il museo della follia - L’offerta di un supporto adeguato in Slovenia è ancora in fase iniziale e gli istituti chiusi hanno una lunga storia. Andraž ricorda uno dei primi istituti ad essere stati chiusi in Slovenia: quello di Trate, operativo nel Castello di Cmurek dal 1949 al 2004 (e che fa parte del più grande Istituto di Hrastovec, che gestisce diversi rami, alcuni dei quali sono ancora attivi oggi). All’inizio l’Istituto di Trate era riservato ai malati gravi e agli infermi e successivamente ai pazienti neurologici e mentali. Il castello si trova al confine con l’Austria; il fiume Mura, la naturale linea di demarcazione, scorre sotto le mura. Darja Farasin e Sonja Bezjak abitano a Trate. Sono cresciute vicino all’istituto dove all’epoca vivevano 350 pazienti 24 ore al giorno. Mentre attraversiamo il castello, grande e freddo, Sonja ricorda: “Le persone residenti nell’istituto a volte passeggiavano per il villaggio, ma non c’era alcun contatto significativo tra loro e la gente del posto”. A vent’anni dalla chiusura, Sonja ritiene “un orgoglio che il primo “istituto totale” sloveno sia stato chiuso qui, nel 2004”. Per evitare che il castello cada in rovina - e per trarre insegnamento dalla storia recente - le ex “corsie dei pazienti” sono state trasformate in un museo della follia. Sonja ne è la direttrice. È molto appassionata della gestione del museo, un lavoro che svolge su base volontaria e senza retribuzione. “Questa è la nostra eredità e con questo museo vogliamo sensibilizzare l’opinione pubblica e contribuire al rispetto dei diritti umani delle molte persone che ancora oggi vivono negli istituti. Dobbiamo contrastarli”, dice. La creazione di istituti come quello di Trate è iniziata con l’industrializzazione, quando le persone hanno iniziato a lavorare fuori casa e non erano più in grado di prendersi cura dei parenti disabili. Durante l’occupazione nazista della Stiria slovena nel 1941, molti malati mentali furono giustiziati (circa 600 persone disabili della Stiria slovena vennero portate nei campi di sterminio in Austria), e dopo la guerra, castelli e palazzi furono nazionalizzati. Molti divennero luoghi di assistenza istituzionale (orfanotrofi, ospedali, case per anziani e disabili...). Poiché le persone non erano identificabili, i documenti lasciati a Trate testimoniano che furono dati loro nomi come “la Donna mutante”, o “Julka la sordomuta”. Fino al 1970, all’istituto di Trate c’era uno stile di vita più “tradizionale”: le persone, allora chiamate “pazienti”, lavoravano nei campi e nelle stalle. Gli standard sono migliorati con il socialismo, quando lo stato ha concluso che non si poteva vivere in quelle condizioni, così sono stati introdotti il riscaldamento centrale e i servizi igienici ed è stato assunto del personale infermieristico qualificato. “Le condizioni sanitarie erano disastrose. Anche il lavoro nei campi fu abolito perché percepito come sfruttamento. Ma sopravvivere senza lavoro divenne a suo modo più difficile: 350 persone erano ormai intrappolate dentro le mura”, continua la collega Darja. Le stanze testimoniano ancora lo stato dell’istituto poco prima della sua chiusura. Le finestre erano opacizzate: i pazienti non potevano vedere fuori. Nella sala da pranzo non c’erano posate. La massa disumanizzata si gettava il cibo addosso e mangiava con le mani. Anche gli operatori erano in grave difficoltà: di notte uno o due di loro dovevano assistere fino a 120 persone. La mancanza di terapia veniva compensata con pillole, barriere tecniche, misure di contenimento e camicie di forza. Le donne erano particolarmente vulnerabili. Alcune di loro, dopo aver subito abusi prima di entrare nell’istituto, vennero sottoposte a misure di sterilizzazione e contraccezione forzate, aborti e allontanamento dai figli. Le valigie e tutte le cose che erano state sottratte con la forza alle persone venivano lasciate nel castello. Neanche il personale era soddisfatto del modo in cui le persone venivano assistite, racconta Sonja, che ha contribuito a raccogliere le testimonianze degli ex dipendenti. La mancanza di igiene e il sovraccarico di lavoro erano particolarmente preoccupanti. Mentre in molti altri paesi il processo di deistituzionalizzazione è in corso da tempo, in Slovenia gli istituti sono ancora solidi. Oggi, circa 2700 persone vivono in istituti speciali e circa settecento in reparti chiusi, come si legge nella Strategia di deistituzionalizzazione, un documento interno del Ministero degli Affari sociali sloveno. La legislazione attuale consente un ulteriore aumento del numero di posti letto, contravvenendo alle linee guida dell’Ue e alla Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità. “La libertà è terapeutica” - Con l’aiuto di due finanziamenti europei, le cose hanno iniziato a prendere un’altra direzione. Uno di questi prevede il trasferimento dei residenti dalla struttura istituzionale Dom na Krasu a Dutovlje, al confine con l’Italia, in case di accoglienza comunitarie; il progetto vale 2,2 milioni di euro, di cui circa 1,8 dal Fondo sociale europeo. Si fonda sulla salvaguardia della dignità e sull’idea di prendere parte attiva alla propria vita. L’obiettivo è il reintegro nella comunità, e finora 171 persone sono state trasferite dagli istituti alle case famiglia. Il progetto segna l’inizio della fine dell’”istituzione totale” in questa parte di Slovenia. Il dialogo con la comunità è fondamentale per il successo dell’integrazione in un nuovo ambiente, ma non è sempre un percorso facile. Il progetto finanziato dall’Ue a Dutovlje ha incontrato la resistenza della cittadinanza locale. “Ovviamente c’è paura, ma la questione è quanto aumenta e come si genera l’escalation della paura. L’idea principale del progetto è quella di lavorare su tutti i livelli: utenti, parenti, personale, comunità in generale”, spiega il direttore Goran Blaško. Il progetto, con le sue scadenze e i suoi requisiti, ha anche limiti. Ha una durata di soli tre anni. Un altro problema importante è il sovraffollamento e la mancanza di spazio, soprattutto per le persone sottoposte a provvedimenti giudiziari. Ci sono stati casi in cui le persone sono state costrette a dormire nel corridoio. Mentre usciamo dall’appartamento di Joc, Andraž ricorda che un tempo preparava i pancakes per gli abitanti dell’istituto di Dutovlje, che ora è in fase di transizione. Una delle persone che vivevano lì non aveva i denti. Non gli era permesso mangiare i pancakes per paura di soffocare. “Avrebbe dato qualsiasi cosa per quel pancake. Era diventato aggressivo perché era l’unico a non poterlo mangiare. Mi sono chiesto cosa fare e ho tagliato il pancake in pezzi molto piccoli”, ricorda. Immediatamente il comportamento e l’atteggiamento dell’uomo sono cambiati. “Gli ho chiesto se potevo preparargliene un altro. Mi ha detto di no, e che ne dovevano rimanere un po’ per gli altri”. Cosa ci dice questo? “Come si diceva a Trieste: la libertà è terapeutica. Dobbiamo aprire le porte degli istituti e permettere una vita indipendente”, sostiene Andraž. Dopo avermi salutata, Andraž e Joc sono andati a prendere un altro caffè. Joc sta preparando un’altra campagna pubblica sull’importanza della deistituzionalizzazione in Slovenia. Continua a lottare ogni giorno e Andraž lo aiuta come può. Ma il fatto è che, sebbene Joc abbia grandi ambizioni, la vita continua e, alla fine della giornata, si preoccupa ancora di dove vivrà, di cosa mangerà e di come andrà a finire la tanto attesa partita di basket. Da una decina d’anni, gran parte dei paesi dell’Europa centrale e orientale ha avviato un processo di deistituzionalizzazione dell’assistenza alle persone con disturbi psichiatrici. Ma non tutti i paesi procedono alla stessa velocità. In Slovacchia il processo sembra essere addirittura a un punto morto, osserva Vesna Švab, psichiatra slovena membro della rete Mental Health Europe. Se la Slovenia fatica a cambiare direzione per l’assistenza alla salute mentale, si può dire che in Slovacchia la situazione sia molto simile: formalmente, c’è un impegno a deistituzionalizzare da un decennio, e anche questo paese ha ricevuto fondi europei per sostenere la transizione. Ma i risultati sono scarsi. Ecco perché, in Slovacchia come in Slovenia, la situazione viene denunciata dall’Ue, dagli utenti e dalle associazioni. *Prodotto in collaborazione con Ereb, media parigino e piattaforma di giornalismo narrativo