Giustizia riparativa? Liberarsi dalla necessità del carcere di Franco Corleone L’Espresso, 3 settembre 2023 Molti esultano per l’entrata in vigore della cosiddetta giustizia riparativa e addirittura scomodano il termine di rivoluzione per un modello di risoluzione dei conflitti che non si comprende se sia alternativa al diritto penale o piuttosto interna al processo. Aldo Moro, giovane giurista, auspicava non tanto un diritto penale migliore quanto qualcosa di meglio del diritto penale; il cardinale Martini proponeva un’alternativa alla pena piuttosto che pene alternative e, infine, Massimo Pavarini suggeriva di “cercare qualche cosa di meglio delle pene legali”. Una utopia certamente ma un orizzonte che va mantenuto integro proprio in tempi duri, quando Fratelli d’Italia propone di riscrivere l’articolo 27 della Costituzione ovvero il fondamento di una concezione della pena che punti al reinserimento sociale e rinunci alla vendetta come ripeteva instancabilmente Alessandro Margara. Il rischio della riforma Cartabia è costituito dalla eterogenesi dei fini, passando dallo stato penale che ha soppiantato quello sociale, allo stato etico. La giustizia riparativa, più correttamente andrebbe definita come rigenerativa o ristorativa delle relazioni sociali, non può assumere un carattere privatistico, ma deve essere una giustizia di comunità. Appare evidente che una società incattivita, povera di solidarietà, non è in grado di ricucire e ritessere rapporti umani. La gestione di una materia così delicata è affidata a una impalcatura burocratica di Conferenze per la giustizia riparativa istituite presso ogni Corte d’Appello che daranno vita a corrispondenti Centri ad hoc con il supporto di mediatori che spingeranno al riscatto morale e alla salvezza dell’anima. Di fronte a questo baloccarsi di filatori di nebbia concettuale, mi è tornato alla mente il movimento Liberarsi dalla necessità del carcere creato da Mario Tommasini, mitico assessore di Parma, sostenitore della sperimentazione di Franco Basaglia e editore del volume “Che cos’è la psichiatria?” con la copertina disegnata da Hugo Pratt. Movimento che ebbe il battesimo in un convegno a Parma il 30 novembre 1984 con la relazione introduttiva di Franco Rotelli, psichiatra e politico di acuta intelligenza. E’ un testo ricco di suggestioni che può ancora offrire delle linee di interpretazione delle contraddizioni che nel tempo non si sono sciolte ma aggravate. Rotelli ammoniva che il carcere non si sarebbe riformato dal suo interno, dietro le mura, con il peso del silenzio. “Il diritto penale deve restringersi, ridursi il più possibile, che altre forme di garanzia, altri patti sociali, lo devono sostituire”. Sollecitava il legame tra carcere e territorio e auspicava la ricostruzione del ruolo delle regioni, dei comuni, delle forze attive nel sociale, intellettuali, operatori e tecnici “per riuscire, ancora, a tagliare la testa del re”. Importante il richiamo ad evitare la “terapeutizzazione della pena alternativa alla detenzione.” Non abbiamo bisogno di distrazioni dalle condizioni materiali del carcere, divenuto fabbrica di morte come alle Vallette di Torino e non dobbiamo creare isole di privilegio di classe rispetto ai disperati della discarica sociale. È l’ora di una vera rivoluzione, a cominciare dalla cancellazione del Codice Rocco. Do you remember, ministro Nordio? Mirabelli (Pd): “Carceri, occorre una svolta sulle orme della Costituzione” Adnkronos, 3 settembre 2023 “L’alto numero dei suicidi e i numerosi episodi di violenza nelle carceri italiane ripropongono quotidianamente il tema di una situazione di tensione e di degrado diffusa negli istituti di pena che non può essere accettata e che deve spingere la politica, e prima di tutto il governo, a mettere in campo misure e interventi efficaci per migliorare le condizioni detentive. In questi mesi ci siamo, invece, trovati di fronte a un evidente immobilismo del ministro Nordio, che non può essere compensato dalle continue dichiarazioni piene di buone intenzioni o dalle proposte irrealizzabili, come quella dell’utilizzo delle ex caserme per creare nuove strutture detentive. Tutte cose che dimostrano la confusione che c’è nel governo su questo tema. Anche la pur condivisibile proposta di aumentare il numero delle telefonate concesso ai detenuti per garantire loro il supporto delle famiglie, da sola appare insufficiente”. Lo scrive il senatore Franco Mirabelli, vicepresidente del gruppo del Partito democratico al Senato e membro della commissione Giustizia, in un intervento pubblicato dal quotidiano Avvenire. “Servono scelte coerenti con una visione che non può non partire dal dettato costituzionale e dalla funzione rieducativa della pena. - chiarisce Mirabelli -. Serve mettere al centro questo obiettivo quando si ragiona su come intervenire per ridurre la pressione sulle carceri, che spesso devono ospitare più detenuti di quelli che la capienza consentirebbe, su come rendere la detenzione meno degradante, su come valorizzare il lavoro di chi opera nelle carceri ed è costretto a fare i conti con personale insufficiente, costretto a operare in una perenne emergenza”. “Nella scorsa Legislatura, anche per la necessità di fronteggiare il Covid, sono state introdotte misure che hanno funzionato ma che questo governo non ha voluto rendere strutturali: dalla possibilità dei domiciliari con i sistemi di controllo elettronico per chi aveva ancora da scontare 18 mesi, all’opportunità per chi era in semilibertà di non dover passare la notte in carcere, fino all’ampliamento della possibilità di comunicare con i familiari anche utilizzando la rete - spiega il senatore dem -. Nello stesso tempo, la ministra Cartabia, nella riforma del processo penale, ha insistito sulla necessità di un maggiore utilizzo delle pene alternative, della messa in prova, introducendo anche, guardando alle vittime, il tema della giustizia riparativa. Si sono introdotti interventi certamente insufficienti, ma chiari sulla direzione da assumere: quella del carcere come estrema ratio e non come l’unico luogo in cui scontare una pena che deve comunque avere la funzione che la Carta ha definito. Serve ripartire da ciò che è stato già sperimentato per riprendere un percorso fatto di cose concrete che non si limitano all’emergenza ma descrivono una politica e una idea. Una volta scelta la strada della Costituzione è chiaro che anche temi come la formazione e il lavoro diventano centrali, priorità imprescindibili dentro e fuori dal carcere per chi sconta una pena”. “L’altro dramma su cui non è più possibile accettare i silenzi e l’immobilismo è la realtà raccontata dai tanti suicidi, di carceri in cui il disagio psichico non trova risposte e, anzi, viene aggravato. L’insufficienza delle strutture destinate ad affrontare le patologie psichiatriche sta producendo, come testimoniano le cronache, effetti tragici fuori e dentro il carcere. Serve investire sulle Rems e sull’organizzazione della sanità negli istituti di pena sapendo che non tutto si risolve ridicendo la popolazione carceraria né assistendo inermi di fronte al crescere del disagio e alle sue spesso drammatiche conseguenze”, conclude Mirabelli. I mille mali della giustizia fai da te di Valerio Baroncini Il Resto del Carlino, 3 settembre 2023 Ogni volta che un cittadino cerca di farsi giustizia da solo, muore una piccola parte dello Stato. E questo cortocircuito giudiziario accade sempre di più in relazione ai figli: quanti padri e madri hanno vendicato le onte subite dai figli? Quante volte la cronaca ci ha risvegliato bruscamente a livello animale, bestie feroci che difendono i cuccioli, violenze irrazionali, belve ferite, esseri umani - alla fine è così - senza risposte. Il tema vero, come nuovamente ci interroga la devastante spirale di sangue del Ferrarese, è perché questo succeda. E allora la risposta è duplice. Da una pare c’è di sicuro una giustizia che spesso non arriva nei tempi e nei modi giusti. Una giustizia giusta è una giustizia veloce, innanzitutto per le vittime, ma anche per gli imputati. Una giustizia giusta è una giustizia che non derubrica alcuni reati a nulla, come accade spesso nei reati contro il patrimonio o in alcuni episodi legati agli stupefacenti. Una giustizia giusta è una giustizia non solo riparativa, ma prima di tutto orientata alla tutela della collettività e non solo di una parte dell’ingranaggio. Pensiamo ai furti, alle rapine, alle truffe, ma anche ai reati che riguardano la sfera sessuale. Secondo fronte: intentare una causa costa e spesso bisogna pagare per affermare i propri diritti e, in alcuni casi, bisogna pure essere ‘processati’ alle intenzioni se si è vittime. Qui i pensiero va alla violenza di genere e alle violenze. Violenze che, dunque, raddoppiano. Quali dunque le soluzioni? Di sicuro una maggiore cultura della giustizia, da formare a scuola, sì, ma soprattutto nelle famiglie e nei luoghi di ritrovo e associazionismo. E poi risposte tecniche più forti e immediate. Contro i pusher, ma anche contro gli aggressori e contro reati odiosi come quelli contro il patrimonio. La violenza non è mai giustificata, non possiamo nemmeno farla diventare giustificabile. Riforma della giustizia maggioranza in fibrillazione: il problema è il referendum costituzione di Paolo Pandolfini Il Riformista, 3 settembre 2023 Cresce il malcontento in Forza Italia per il piano di Nordio frenato da Meloni “Ci sono stati tanti annunci ma pochi fatti”. “Guardi, era stato il ministro della Giustizia Carlo Nordio ad annunciare che avrebbe intrapreso un profondo percorso riformatore di stampo “liberale” e “garantista”, musica per le nostre orecchie dopo anni di oscurantismo manettaro e giustizialista. Fin dall’inizio Nordio aveva avuto il nostro appoggio incondizionato. Stupisce, quindi, questo rallentamento”, afferma al Riformista un importante parlamentare di Forza Italia che non ha però voglia di essere citato per evitare di alimentare polemiche in un momento molto delicato per il governo. A distanza di quasi un anno dall’arrivo di Nordio a via Arenula, il bilancio riformatore del Guardasigilli non è certamente esaltante. “Ci sono stati tanti annunci ma pochi fatti. Ad esempio, prima dell’estate Nordio aveva dichiarato che avrebbe depositato un testo di riforma sulla separazione delle carriere, che è uno dei cavalli di battaglia da sempre di Forza Italia. Purtroppo, ad oggi il testo non è stato presentato e ciò non può non lasciarci indifferenti”, prosegue il parlamentare azzurro. Il timore, in altre parole, è che il ministro voglia ‘rallentare’ sulla riforma della giustizia, forse condizionato dalla premier che non ha intenzione di andare allo scontro con le toghe e quindi di mettersi contro l’Associazione nazionale magistrati che è contrarissima alla riforma della separazione delle carriere. Il problema è il referendum costituzione. Anche se la riforma fosse votata dal Parlamento, difficilmente il voto raggiungerebbe i due terzi sia alla Camera che al Senato. Numeri che il governo Meloni non ha, dovendo così ricorrere al referendum costituzionale dove non è previsto il quorum. Dal momento che anche riforma del premierato prevederà, per gli stessi motivi, un referendum costituzionale, i vertici di Fratelli d’Italia, prima della ripresa dei lavori parlamentari, avrebbero convinto la premier di non insistere sulla riforma della giustizia, ‘suggerendo’ a Nordio di frenare e di dedicarsi ad interventi meno divisivi. “La scelta politica è chiara: se Nordio ha cambiato idea dovrebbe dirlo chiaramente, anche per rispetto nei confronti di chi lo ha sempre sostenuto”, conclude il parlamentare forzista. Che qualcosa non torni lo ha capito anche il presidente delle Camere penali, l’avvocato Gian Domenico Caiazza. “I segnali nell’ultimo periodo sono evidenti. Ci viene ripetuto che è un percorso lungo, ed è vero. Però bisognerebbe cominciarlo subito e non rinviarlo costantemente perché per approvare un testo di riforma costituzionale servono due anni”, ha affermato ieri Caiazza in una intervista al Foglio. Eppure, l’iniziativa dei magistrati in pensione di firmare un appello a Nordio contro la riforma delle carriere si era rivelata un flop. Dopo il clamore inziale, l’appello delle 500 toghe è sparito dai radar, non essendo seguito dai colleghi in servizio che si esprimeranno sull’iniziativa governativa il prossimo fine settimana in una assemblea a Roma. Martedì, comunque, alla riapertura del Parlamento inizieranno le audizioni sul ddl Nordio sull’abuso d’ufficio e sulle intercettazioni. I primi ad essere ascoltati in Commissione giustizia al Senato saranno il presidente dell’Anac Giuseppe Busia, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, il presidente dell’Anci Antonio Decaro, ed il presidente dei penalisti Caiazza. Ustica, le parole di Giuliano Amato tra polemiche e consensi di Davide Varì L’Unità, 3 settembre 2023 Critiche da Bobo e Stefania Craxi, da Margherita Boniver e Matteo Renzi, mentre apprezzamenti arrivano dell’Associazione parenti delle vittime e dall’ex presidente della Camera Roberto Fico. L’intervista a Repubblica di Giuliano Amato, ex presidente del Consiglio e presidente emerito della Corte Costituzionale, ha riaperto una ferita nella storia italiana. Amato ha parlato di presunte responsabilità della Francia e della Nato nella strage di Ustica, che la sera del 27 giugno 1980 vide morire sui cieli del mar Tirreno 81 persone che viaggiavano a bordo del volo Itavia IH870 da Bologna a Palermo. L’ex presidente del Consiglio tratteggia il disegno che sarebbe stato dietro la strage, parlando del piano alleato per eliminare il dittatore libico Muammar Gheddafi. Una verità, quella di Giuliano Amato, che si richiama a quella espressa nel 2008 dall’ex Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che per primo aveva sollevato il suo j’accuse contro la Francia. Amato però va anche oltre, dicendo che ad avvisare Gheddafi dell’imminente pericolo fu il leader del Psi Bettino Craxi. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni ha detto: “Quelle di Giuliano Amato su Ustica sono parole importanti che meritano attenzione. Il presidente Amato precisa però che queste parole sono frutto di personali deduzioni. Chiedo al presidente Amato di sapere se, oltre alle deduzioni, sia in possesso di elementi che permettano di tornare sulle conclusioni della magistratura e del Parlamento, e di metterli eventualmente a disposizione, perché il governo possa compiere tutti i passi eventuali e conseguenti”. In una nota, Fabio Pinelli, vicepresidente del Csm, ha annunciato che condividerà “con l’intero Consiglio Superiore di valutare l’opportunità di avanzare alla Procura della Repubblica di Marsala la richiesta di rendere accessibili tutti gli atti del procedimento di potenziale interesse di quell’inchiesta e il compendio documentale delle iniziative portate avanti dal dottor Borsellino all’epoca. Tutto ciò, non solo per dare memoria ancora una volta dello straordinario contributo nell’interesse dello Stato da parte di Paolo Borsellino, ma anche per un dovere di carattere morale nei confronti dei familiari delle vittime, di vedere finalmente riconosciuto il diritto alla ricostruzione - per quanto possibile - della verità storica della tragedia di Ustica”. Le parole di Amato hanno provocato la reazione di Bobo Craxi che su twitter ha scritto: “È già scritto anche sui libri di storia che mio padre avvertì Gheddafi che lo avrebbero bombardato. Ma nel 1986”. E il figlio dell’ex leader socialista continua: “A parte lo strafalcione storico, la tesi francese è sempre stata presente mai provata del tutto e mai smentita. Messa così tira in ballo mio padre facendo vistosa confusione di date. Nell’80 era letteralmente impossibile che fosse a conoscenza di operazioni alleate”. Anche per Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia e presidente della Commissione Affari esteri e difesa a Palazzo Madama, si tratta di “una ricostruzione che colpisce in primo luogo per le imprecisioni storiche che contiene. È risaputo, infatti, che il presidente del Consiglio Bettino Craxi fece avvisare Gheddafi del bombardamento che si preparava sul suo quartier generale di Tripoli nel 1986. Amato, invece, oggi ci rivela che lo stesso Craxi fu artefice di una eguale “soffiata” al leader libico collocandola temporalmente nel giugno 1980 e mettendola in relazione con il disastro del Dc9 dell’Itavia. Amato, però, non porta nessun elemento a sostegno di questa nuova tesi, trincerandosi dietro un ‘avrei saputo più tardi, ma senza averne provà. Egli, da sottosegretario alla presidenza del Consiglio, condivise tutti gli atti dell’esecutivo a guida socialista, a cominciare dalle scelte di politica internazionale che resero grande l’Italia, messe in campo da un presidente del Consiglio che oggi ritiene “trasgressivo”. Se Amato ha elementi concreti che possano aiutare la verità e rendere giustizia alle vittime innocenti di Ustica, è pregato di renderli manifesti. In caso contrario, la sua è solo una testimonianza che aggiunge confusione a un quadro già complesso”, conclude. Per Matteo Renzi “il tema è che ci sono 81 italiani che sono morti nel modo più orribile, mentre andavano in vacanza, lasciando nel dolore famiglie che hanno chiesto la verità e continuano a chiederla. Che vi sia stato quello che Purgatori chiamava il muro di gomma è difficile negarlo e oggi Amato lo conferma in modo autorevolissimo. Per questo esprimo la perplessità sul modo in cui ha detto queste cose: noi dobbiamo trasparenza e verità a 81 famiglie prima di parlare con i francesi o i libici. Se ha qualche elemento in più, deve essere un po’ più conseguente e non limitarsi a un’intervista e a una ricostruzione del si dice. Chi come me o Amato ha fatto il premier e ha avuto accesso alla complicata materia dei segreti di Stato. il mio è un invito al presidente Amato: prima di chiedere a Macron, che andava alle medie al tempo di Ustica, prima di chiedere delle spiegazioni con un’intervista, dica tutto quello che sa, altrimenti sembra un messaggio in bottiglia e con 81 morti non si mandano messaggi in bottiglia”. Non si sbilancia il commissario Ue Paolo Gentiloni, altro ex presidente del Consiglio: “Non ho avuto tempo, ma credo che giornalisticamente sia una cosa molto interessante” da leggere. Matteo Salvini ritiene che “Giuliano Amato ha rilasciato dichiarazioni di inaudita gravità a proposito di Ustica: è assolutamente necessario capire se ci sono anche elementi concreti a sostegno delle sue parole. Visto il peso delle affermazioni di Amato e il suo ruolo rilevante all’epoca dei fatti, attendiamo commenti delle autorità francesi”. A Rainews24 Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, ha detto: “L’abbattimento avvenne per opera dei francesi. Questo è quello che sta scritto nelle carte, e questo è quello che da anni rivendichiamo. Riteniamo che debba essere chiarita fino in fondo la responsabilità di chi abbatté quell’aereo. E quindi le parole di Amato vanno in questa direzione. Oltre alla magistratura che non riesce evidentemente ad avere risposte da questi Paesi è importante, come dice Amato, che sia la politica, il Governo nostro, a chiedere al Governo francese finalmente di raccontare e assumersi la responsabilità dell’uccisione di 81 cittadini italiani”. E Alfredo Galasso, avvocato di parte civile dei familiari delle vittime della Strage di Ustica, ha dichiarato: “Finalmente è venuta fuori la verità su questa vicenda. Anche se con molto ritardo. Le cose sono andate esattamente così. Ma come si dice, meglio tardi che mai. Questo spiega anche l’atteggiamento tenuto sempre dal governo francese. Un atteggiamento difensivo e ostativo rispetto a tutto quello che è successo. Certamente adesso mi aspetto che il governo italiano faccia una formale richiesta al governo transalpino, chiedendo conto alla Francia di quanto successe a suo tempo. Sono passati tanti anni, ma questa è una vicenda così grave che merita una risposta precisa e puntuale rispetto a quella elusiva che fu data a suo tempo”. Critiche a Giuliano Amato arrivano anche da Margherita Boniver, già vice ministro degli Esteri ed esponente socialista: “L’intervista di Giuliano Amato è scandalosa. Innanzitutto perché sembra svegliarsi da un letargo durato oltre 40 anni, e in secondo luogo perché riesce ad offendere la memoria di Bettino Craxi, il quale certamente aveva fatto avvisare Gheddafi delle intenzioni da parte americana di bombardare Tripoli, ma questo avvenne nel 1985 e non certamente durante l’episodio orribile della strage di Ustica. Infine continua poi attaccando e diffamando la Nato e le sue intenzioni omicide e illegali in un momento in cui il nostro Paese ha un governo e un parlamento filo-atlantico in difesa della resistenza Ucraina. Per ultimo un invito pesante a Macron per confermare il coinvolgimento francese sempre smentito dalle forze militari italiane. Un bel gruppo di soggetti ricorderanno con stupore l’improvviso ritorno di memoria di un personaggio così ben informato ma che aveva perso apparentemente la memoria. Tutto questo comunque non può che nuocere al nostro Paese descritto come una banda di incapaci, pasticcioni e mentitori”, conclude. L’ex presidente della Camera dei deputati Roberto Fico in una nota scrive: “Le parole di Giuliano Amato sulla strage del Dc9 nei cieli di Ustica hanno un grande peso specifico. Chiariscono contorni, spiegano dinamiche internazionali e danno indicazioni evidenti sulle responsabilità. La sera del 27 giugno 1980 a bordo dell’aeromobile Itavia c’erano 81 persone che persero la vita a causa di un vero e proprio scenario di guerra che vide protagonisti aerei militari francesi e libici. Quello che Andrea Purgatori ha raccontato nelle sue inchieste è oggi confermato dall’ex Presidente del Consiglio. Da Presidente della Camera durante il mio mandato ho sempre voluto ribadire la richiesta di verità e giustizia per quanto accaduto, sostenendo l’instancabile lavoro dell’Associazione parenti delle vittime guidata da Daria Bonfietti. L’ho fatto in più incontri con i miei omologhi francesi e anche in un bilaterale con il ministro della giustizia Dupond-Moretti, affinché da parte francese fosse data risposta a una serie di richieste inevase della nostra magistratura”. “Fare verità sui segreti più dolorosi della nostra storia - conclude l’ex presidente di Montecitorio - è importante per rafforzare le nostre comunità, per dare sostanza alle nostre democrazie. Sono passati tanti anni e conosciamo bene questa storia, ma ugualmente un gesto netto da parte francese sarebbe certamente un messaggio di grande valore. Lo attendiamo”. Andrea De Maria, deputato Pd, ricorda: “Ho presentato negli anni diverse interrogazioni parlamentari, con il collega Verini, per sollevare il tema che oggi pone così autorevolmente Amato sulla strage di Ustica. Cioè l’importanza che si assumano iniziative verso paesi amici dell’Italia, come Francia e Stati Uniti, e in sede Nato per avere notizie utili a fare piena luce sulla strage di Ustica. Su quella battaglia area nel cielo del Paese nella quale è rimasto coinvolto un nostro aereo civile. Lo dobbiamo alle vittime e ai loro familiari. Lo dobbiamo alla dignità dell’Italia, di cui fu evidentemente violata la sovranità. Dopo queste dichiarazioni cosi importanti chiederò di nuovo al Governo, con una interrogazione parlamentare, di attivarsi in questa direzione”. Una sfida che ora la politica deve raccogliere di Daria Bonfietti* Il Manifesto, 3 settembre 2023 43 anni dopo Ustica. Amato ci porta all’interno di quello scenario internazionale che ci ha sempre delineato Andrea Purgatori, che anche oggi dobbiamo ricordare con riconoscenza, quando ci ha parlato di una partita tra Italia, Libia, Francia e Usa. Penso che l’intervista di Giuliano Amato a Repubblica sia un grande contributo alla verità sulla strage di Ustica e gli sono davvero grata; ci viene da un qualificato protagonista politico che ha sempre avuto un ruolo significativo e positivo nella vicenda. Voglio ricordare il suo intervento da sottosegretario per mettere a disposizione i fondi per il recupero del relitto del DC9 dal fondo del Tirreno, nel 1986: si è trattato di una spinta per superare un atteggiamento colpevolmente rinunciatario sul quale la Magistratura si era purtroppo adagiata. E ricordo poi la costituzione di parte civile del suo governo contro i militari rinviati a giudizio dal Giudice Priore, nei primi anni novanta. Anche quello un gesto altamente significativo perché spezzava, almeno formalmente, una catena di “continuità”. Una catena che portava le forze Armate, l’Aeronautica in particolare, ad essere non al servizio collaborativo con la Giustizia e la Magistratura bensì a partecipare e portare conoscenze soltanto alla difesa degli imputati. C’è molta di questa esperienza maturata negli anni nell’intervista: voglio sottolineare il racconto del rapporto con i vertici militari che, sfumato il salvifico alibi del cedimento strutturale che aveva impedito indagini e portato tra l’altro al fallimento della compagnia Itavia, si schierano ostinatamente per la bomba. Tutti insieme come per un vincolo d’arma, evidentemente per coprire possibili altre responsabilità. E anche oggi, permettetemi, questo accanimento per la bomba non deve far solo “cadere le braccia” ma va letto con la stessa chiave e la stessa domanda: perché non parlare della bomba nell’immediatezza dell’evento, quando qualche elemento era in qualche modo presente e poteva eventualmente indirizzare le indagini? E invece la bomba, ieri come oggi, solo per sviare! Ma poi Amato ci porta all’interno di quello scenario internazionale che ci ha sempre delineato Andrea Purgatori, che anche oggi dobbiamo ricordare con riconoscenza, quando ci ha parlato di una partita tra Italia, Libia, Francia e Usa. Nel ruolo di Craxi, legato a amicizie politiche arabe, Arafat-Gheddafi, dobbiamo anche leggere le contraddizioni generali di una politica italiana che “aveva la moglie americana e l’amante libica” , sosteneva Giulio Andreotti, (anche questo si è sempre sussurrato) e che aveva profondi legami con la Libia, ben oltre il 12% di azioni Fiat. E questo con grande disappunto degli alleati occidentali, contrariati in particolare per la troppa libertà concessa ai voli militari libici, non soltanto per operazioni di manutenzione in aeroporti dell’ex Iugoslavia. Teniamo sempre presente che il panorama internazionale dell’inizio degli anni 80 non è solo caratterizzato dalla ripresa pesante della contrapposizione occidente-blocco comunista ma anche dall’accentuarsi delle tensioni nel Mediterraneo- (l’associazione dei Parenti delle Vittime di Ustica ha approfondito questi temi storici in un convegno di studi “1980 l’anno di Ustica”) e per i conflitti tra Francia e Libia e tra Libia, Egitto e Usa nulla può escludere l’uso delle armi, in modo più o meno dichiarabile. E Gheddafi era il grande nemico! La Francia poi su tutta la vicenda Ustica ha sempre tenuto un atteggiamento molto poco collaborativo, arrivando a sostenere per molti anni anche nelle risposte ufficiali alla nostra Magistratura che l’aeroporto di Solenzara in Corsica era chiuso (come una tabaccheria d’estate) dal pomeriggio quel 27 giugno. Una risposta incredibile se si pensa che si tratta della struttura militare più a sud di quel Paese. Solo con la nuova indagine, dopo che anche il presidente Cossiga ha puntato il dito contro i francesi, si è ammesso che l’aeroporto era funzionante ma senza voler precisare quale attività venivano effettuate o venivano controllate. Voglio concludere con una mia lettura dell’intervista di Amato: c’è la descrizione della vicenda Ustica come il perdurare di uno scrigno segreto ostinatamente custodito dai militari sul quale la politica non ha potuto, saputo o voluto fare luce fino in fondo. Ecco è finalmente il momento, mentre ancora la Magistratura sta indagando, che la politica raccolga la sfida, chiedendo alla Magistratura il massimo dell’impegno e nello stesso tempo impegnandosi a fornirle ogni supporto. Intendo la più completa collaborazione internazionale: non è più possibile che stati amici o alleati, parlo intanto di Francia, Usa e Libia, ma anche agli altri stati che avevano aerei in volo attorno al DC9 (come ci ha indicato, ricordiamolo sempre, la Nato) non ci offrano totalmente il loro sapere, le loro informazioni, gli elementi raccolti quella notte nei vari siti militari. È un dovere per le vittime ma soprattutto per la nostra dignità nazionale. *Presidente Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica Sassari. Perizia per Marco Di Lauro: “Non sta bene, ma deve restare in carcere” di Andrea Aversa L’Unità, 3 settembre 2023 Eseguito l’esame sul figlio di Ciruzzo o Milionario, detenuto al 41 bis presso il carcere di Sassari. Nei prossimi giorni sarà reso pubblico l’esito ufficiale. Le anticipazioni dell’avvocato difensore Gennaro Pecoraro: “Mi è stato detto che non voleva essere visitato. Sarebbero stati confermati i problemi psichiatrici”. È stata eseguita la perizia su Marco Di Lauro. Ad averlo confermato a l’Unità è stato l’avvocato difensore di ‘F4’, Gennaro Pecoraro. L’ex boss d Secondigliano è detenuto al regime del 41bis presso il carcere di Sassari. Le sue condizioni di salute sarebbero precarie. Di Lauro sarebbe affetto da disturbi psichiatrici. Da mesi non seguirebbe la normale alimentazione, avrebbe perso peso e capelli, ha rifiutato di incontrare i parenti e il suo legale. Una situazione che sta ricordando quella del fratello Cosimo, deceduto nel carcere di Opera a Milano. La perizia su Marco Di Lauro - Per questo motivo l’avvocato Pecoraro ha fatto richiesta per l’esecuzione di una perizia psichiatrica per il proprio assistito. L’esame è stato eseguito dopo ferragosto non senza difficoltà. Secondo quanto appreso da l’Unità, Di Lauro avrebbe opposto resistenza impedendo al medico che avrebbe dovuto visitarlo di entrare nella sua cella. Una volta risolta l’empasse, grazie all’aiuto dell’amministrazione penitenziaria e degli agenti, lo specialista ha effettuato la perizia che però è durata poco tempo (circa quindici minuti). Le condizioni di salute - Il perito avrebbe accertato le difficili condizioni di salute di Di Lauro. Quest’ultimo sarebbe affetto da disturbi psichiatrici. Tuttavia, al momento e in attesa dell’esito ufficiale dell’esame, ‘F4’ resterà in carcere e ancora sottoposto al regime detentivo di massima sicurezza. Di Lauro è stato arrestato nel marzo del 2019, dopo 14 anni di latitanza. Il fratello Cosimo perse la vita a causa di, “un avanzato degrado psicofisico”. In quel caso l’istanza per la perizia psichiatrica fu respinta. Verona. Per Cristian Mizzon nessuna risposta di verità e giustizia, dal carcere il silenzio di Andrea Aversa L’Unità, 3 settembre 2023 Abbiamo provato a contattare (via mail e via Pec) sia il Garante per i diritti dei detenuti del Veneto, che la Direttrice del penitenziario di Montorio. In entrambi i casi il risultato è stato lo stesso: mutismo assoluto. Non è stato possibile ottenere, né informazioni sulle condizioni di salute del primo, né sul decesso del secondo. È stato trovato senza vita all’interno della sua cella. Probabilmente Cristian Mizzon è deceduto a causa di un’overdose di psicofarmaci. L’ennesimo omicidio di Stato avvenuto nelle carceri italiane è avvenuto il mercoledì precedente allo scorso ferragosto. Eppure la notizia è stata resa pubblica soltanto la domenica successiva. Quattro giorni per comunicare il decesso di una persona in custodia delle istituzioni. Eppure lo abbiamo saputo non per una nota ufficiale diramata dal penitenziario di Montorio a Verona ma grazie al lavoro certosino dell’associazione “Sbarre di zucchero” e all’informazione fornita da Radio Carcere. Cristian Mizzon morto nel carcere di Verona - Mizzon forse aveva dei problemi di dipendenza. Era finito in carcere per aver rubato dentro un supermercato. Era solo, senza i genitori e senza alcun rapporto con le sorelle. La sua famiglia era rappresentata dagli ultras del Verona. E solo è morto. Pare che la notte prima di perdere la vita (molto forte l’ipotesi del suicidio), Mizzon si sia fatto la doccia, la barba e si sia ben vestito. Nella sua cella sono stati trovati una grande quantità di farmaci. I fatti - Il carcere di Montorio non è nuovo a tali fatti di cronaca. Tra quelle mura si è tolta la vita Donatella Hodo. Eppure dall’amministrazione del penitenziario non abbiamo ricevuto nessuna risposta alle nostre domande. Abbiamo inviato una mail e una pec, rispettivamente, alla Direttrice del carcere Francesca Gioieni e al Garante per i diritti dei detenuti della Regione Veneto, l’avvocato Mario Caramel. In entrambi i casi, così come per Marco Di Lauro, abbiamo ottenuto soltanto una risposta: un silenzio assordante. Pare che per la malagiustizia italiana sia meglio questo che ottenere verità e giustizia. Torino. “Serve una riorganizzazione della sanità penitenziaria”: sopralluogo al reparto detenuti delle Molinette torinoggi.it, 3 settembre 2023 Il sopralluogo della Garante dei detenuti Monica Gallo e dell’assessore alla Sicurezza Gianna Pentenero. “La migliore condizione per la salute e la garanzia del diritto alla salute e alle cure deve prevedere una riorganizzazione della sanità penitenziaria riattivando servizi e prestazioni, comprese quelle possibili anche all’interno dell’istituto penitenziario torinese”. A sottolinearlo è la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino, Monica Cristina Gallo, dopo aver visitato, insieme all’assessora comunale con delega ai Rapporti con il sistema carcerario, Gianna Pentenero, il reparto detenuti dell’ospedale Molinette e aver constatato, come la stessa Garante evidenzia, che “negli anni sono state sicuramente apportate migliorie”. “Il Reparto detenuti della “Città della Salute” - spiega Monica Gallo - è il Centro di riferimento regionale per la cura dei detenuti e delle detenute ed è dotato di 19 posti letto. Da alcuni mesi è anche attiva la procedura per l’estrazione degli ovuli ingeriti da presunti spacciatori, procedura che per molti anni è stata gestita all’ interno della Casa Circondariale, con molti problemi. Negli anni - aggiunge la garante - grazie ad un confronto costante con la Direzione Sanitaria del presidio ospedaliero, il Reparto non accoglie più i TSO che invece vengono gestiti nei vari Servizi Psichiatrici Diagnosi e Cura degli ospedali cittadini. La linea adottata negli anni esclude, correttamente, il ricovero in urgenza in quanto le gravi condizioni del detenuto, al pari di un libero cittadino, necessitano di assistenza mirata onde evitare una evoluzione clinica negativa e non gestibile nel repartino. Stessa soluzione è adottata per le donne in gravidanza, poiché alle Molinette non è presente la competenza ostetrica ginecologica”. L’assessora Gianna Pentenero evidenzia che “quello delle Molinette è un reparto di eccellenza”, ma al contempo ricorda che “l’ultima rivolta nella Casa circondariale Lorusso e Cutugno, nata per questione legata ai trattamenti sanitari, impone una nuova e più approfondita strategia di trattamento della salute in carcere. Da mesi - sottolinea l’assessora con delega ai Rapporti con il sistema carcerario - sollecitiamo la Regione Piemonte affinché venga studiato un vero e proprio piano sanitario per un istituto, il Lorusso e Cutugno, che coi suoi 1500 detenuti e detenute si può considerare una piccola Asl - aggiunge Pentenero - dove avere un poliambulatorio adeguato. Invece si continua con una gestione che, generando malcontento, solleva proteste pericolose per la popolazione carceraria e per il personale della polizia penitenziaria”. Firenze. Documenti per i detenuti, accordo tra Comune e Sollicciano di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 3 settembre 2023 Tanti detenuti non hanno i documenti d’identità e quindi, anche se sono privati della libertà, non possono usufruire pienamente di alcuni servizi per i quali i documenti sono invece richiesti. Nasce da questa consapevolezza l’accordo tra Comune di Firenze, carceri di Sollicciano e Gozzini e Istituto penale per i minorenni con l’obiettivo di trovare soluzioni operative per il rilascio dei documenti e l’iscrizione anagrafica dei detenuti, sia italiani che stranieri. L’ufficio anagrafe del Comune, in collaborazione con gli istituti penitenziari, assicurerà un giorno di presenza in carcere mensile per assicurare ai detenuti il rilascio di documenti o fornire informazioni di carattere anagrafico. “Con questo accordo — spiega l’assessore all’anagrafe Elisabetta Meucci — vengono formalizzate e riorganizzate le procedure per l’iscrizione anagrafica dei detenuti, nel rispetto della normativa sull’ordinamento penitenziario. Viene inoltre disciplinato l’accesso dei dipendenti dell’anagrafe nei tre istituti, che avverrà con cadenza mensile per far fronte ai relativi adempimenti, come da esigenze manifestate dai direttori”. Il progetto ha avuto il via libera dalla giunta comunale e diventerà operativo a partire dalle prossime settimane, quando i primi operatori comunali andranno nelle carceri per incontrare i reclusi che hanno smarrito i propri documenti d’identità (dalla carta d’identità alla tessera sanitaria) al fine di un rinnovo. San Michele al Fiume (Pu). Un incontro con Valerio Calzolaio sulle “isole carcere” ilmetauro.it, 3 settembre 2023 Iniziativa promossa dal Gruppo Fuoritempo presso la parrocchia di San Michele al Fiume. Venerdì 8 settembre alle ore 21, terzo appuntamento della rassegna “Tu sei uguale a me” ideata dal Gruppo Fuoritempo e dalla Parrocchia di San Michele al Fiume e San Filippo. La rassegna si prefigge lo scopo di arricchirci nella conoscenza del mondo che siamo chiamati a condividere… e possibilmente a migliorare. Sono quattro appuntamenti molto differenti tra di loro ma accomunati dalla possibilità di conoscere l’altro. Il terzo appuntamento dal titolo “Isole Carcere: storia e geografia” vede la presenza di Valerio Calzolaio, giornalista e saggista, è stato deputato dal 1992 al 2006 e sottosegretario al Ministero dell’ambiente tra il 1996 e il 2001. Tra le varie pubblicazioni è autore di “Ecoprofughi”, “Da Moro a Berlinguer”, “La specie meticcia”, “Libertà di migrare”. La storia, la funzione sociale e le peculiari caratteristiche della detenzione penitenziaria sulle isole. Quale significato ha assunto nei secoli, e ha tuttora, la reclusione su territori lontani dalla terraferma? Quali vicende storiche e quale immaginario (letterario, cinematografico, culturale etc.) si legano a questa condizione? Che ruolo hanno oggi questi penitenziari, da quelli ancora attivi a quelli che ormai fanno parte del patrimonio storico-paesaggistico? Di questo e molto altro racconta Valerio Calzolaio, attraversando mari e bacini oceanici di tutti i continenti. Da l’Asinara e Procida nel Mediterraneo a El Frontón e Alcatraz nel Pacifico, all’Isola del Diavolo e Robben Island nell’Atlantico, passando anche per isole fluviali e lacustri. L’iniziativa vede le preziose collaborazioni dell’Amministrazione comunale di Mondavio, Antigone Marche, Caritas, Libreria “Ubik” di Senigallia e “Noi e l’Ambiente”. Gli incontri si terranno all’aperto, negli spazi della Parrocchia di San Michele al Fiume. In caso di maltempo gli appuntamenti verranno realizzati nei locali dell’Oratorio “La Pace”. “Contiamo stupri e femminicidi e ci arrabbiamo. Ma è ora di parlare anche dei modelli culturali” di Loredana Lipperini L’Espresso, 3 settembre 2023 Ci consoliamo con la retorica rassicurante delle belve, concentrandoci sul tema della sicurezza. Ma siamo incapaci di guardare alla crisi profonda delle relazioni che riguarda la nostra quotidianità. Contiamo, come sempre. Contiamo le donne morte ammazzate, mese dopo mese e anzi settimana dopo settimana. Sappiamo che al momento in cui scrivo questo articolo sono 75 nel 2023, e che i numeri ci dicono che una donna muore per mano di un uomo ogni tre giorni. Contiamo. Elenchiamo i nomi e l’età: Vera, 25 anni, impiccata in un casolare di Ramacca. Anna, 56, accoltellata a Piano di Sorrento, dopo due denunce al suo ex. Celine, 21, ancora per coltello, a Silandro. Mariella, 56, per pistola, a Troina. Sono solo le ultime storie. Contiamo gli stupri. A Palermo, sette contro una, “cento cani sopra una gatta”. A Caivano, quindici contro due ragazzine, per mesi. Contiamo e continuiamo a stupirci e ad addolorarci e arrabbiarci e a leggere articoli ed editoriali dove si parla di pacchetti di norme. Abolizione della pornografia. Sicurezza. Si parla meno di educazione sentimentale, osteggiata da decenni in quanto induce pericolosamente al “gender”. Meno di centri antiviolenza e case rifugio. Meno di formazione delle forze dell’ordine che accolgono le denunce, nonché di giudici e magistrati. Sappiamo che molti dei provvedimenti annunciati potrebbero servire (eppure abbiamo già leggi avanzate quanto poco applicabili per mancanza di strutture e personale), ma dovremmo anche sapere, e lo sappiamo, che serviranno fino a un certo punto. Perché se non si cambia la cultura di questo Paese, nulla cambierà. Cambiare la cultura significa smettere di considerare le donne con rassegnata compiacenza sognando i tempi andati (anche se non lo si dice, o lo si fa dire a un generale spuntato dal nulla), e capire quanto le relazioni siano cambiate, e quanto potrebbero ancora cambiare, e in meglio, se ci si decidesse ad affrontare seriamente il discorso invece di spettacolarizzarlo (vedi la serie Netflix sul caso Depp-Heard). Sappiamo, infine, che ci eravamo illuse: pensavamo di essere state capite e riconosciute, almeno nella maggior parte dei casi. Pensavamo che il cammino comune con gli uomini auspicato da Simone de Beauvoir nel 1949 fosse cosa fatta. Pensavamo che chi paragona le femministe a “moderne fattucchiere” fosse minoranza. Pensavamo che questo scavallare la soglia della violenza fosse frutto di un tempo diviso, di una generale condizione di frustrazione e rancore. Non è così o non è solo così. La sensazione di questi ultimi giorni è che il linciaggio della rete nei confronti degli stupratori e degli assassini non tocchi davvero la questione, e sia semmai rassicurante: loro sono diversi da noi. Sì, e no, perché l’immaginario è comune, e quell’immaginario non è stato ancora cambiato, ma solo scalfito, e quelle “comunità di dominio”, come le ha chiamate Alessandra Dino sul Manifesto, sono ancora intatte. Per capirlo, bisogna andare molto indietro nel tempo, fino al giorno in cui Ulisse naufraga sulla spiaggia dei Feaci. Riscuotendosi dal torpore, ode “un chiasso di donne”, o “grida femminili” che gli “percuotono l’orecchio”. Qualche giorno fa una brillante scrittrice marchigiana, Lucia Tancredi, mi ha parlato dell’aiscrologia, ovvero il linguaggio osceno che nell’antichità greca veniva attribuito alla voce delle donne. Aristotele lo scrive chiaramente: “La voce acuta della donna è una prova delle sue inclinazioni malvagie, poiché le creature giuste e coraggiose (i leoni, i tori, i galli e gli uomini) hanno voci potenti e profonde”. Margaret Thatcher studiò a lungo per eliminare i toni alti dalla sua voce ed essere considerata autorevole (da “casalinga stridula” a “statista”, per le cronache). E riprendersi la voce, ricordava tempo fa la scrittrice polacca Aleksandra Lipczak a proposito delle proteste contro la criminalizzazione dell’aborto, è un atto rivoluzionario. Bene, se si studiano i commenti che negli anni hanno espresso ostilità, se non odio, verso le donne autorevoli (Laura Boldrini, per fare un nome), in un numero notevolissimo di casi la critica riguardava il tono della voce. Troppo acuta, troppo stridula, troppo alta. C’è qualcosa di rivelatorio in questo fastidio, espresso non soltanto da odiatori abituali, ma da uomini colti e in carriera, come se la visibilità delle donne fosse stata accettata a malincuore, masticata amaramente e per convenienza, ma - almeno in larga parte - non davvero interiorizzata: e si dimentica che, piacciano o non piacciano le donne in questione, il ruolo pubblico che occupano dovrebbe essere riconosciuto. Di più: le donne di successo sono viste come coloro che sottraggono posizioni consolidate agli uomini. Neanche il tempo di riprendersi dal funerale di Michela Murgia ed è partita la schiera dei critici o degli scrittori o degli insegnanti che si affannavano a spiegare che non era una grande scrittrice e tanto meno un’intellettuale. A Vera Gheno un signore istruito e fin educato ha scritto che il genio femminile non è mai esistito, e che i bei tempi (ma questo lo ha scritto anche il plurivenduto generale) erano quelli in cui le donne stavano al posto loro. Se si reagisce, il ruolo della vittima viene ribaltato: non sono le donne a essere screditate (o stuprate, o ammazzate), ma gli uomini. Che non possono più dire niente (si vedano le reazioni alle proteste delle ragazze contro il catcalling). Che vengono censurati. Che vengono emarginati. O la cui vita, come dicono i giovani stupratori di Palermo, è stata rovinata. Ma non si dice mai che se esistono una sofferenza e una disillusione che vengono da lontano, all’interno di quel disagio si agita il rifiuto del cambiamento delle donne. Mancando una riflessione sulla crisi profonda delle relazioni, si va avanti, e quando non basta più il commento tossico su Facebook, si agisce nella vita reale. Specie se i modelli pubblici (politici, uomini dei media, intellettuali di ogni ordine e grado) manifestano verbalmente lo stesso disprezzo. C’è un romanzo in libreria in questi giorni che riassume benissimo la questione. È “Gli uomini” di Sandra Newman (esce per Ponte alle Grazie, traduzione di Claudia Durastanti). Immagina che in un tardo pomeriggio tutti i maschi spariscano, inclusi i bambini, persino i feti nel ventre delle madri. All’inizio, frammisto al dolore, c’è un vergognoso sollievo: “Le voci dei maschi da vivi, aspre e profonde. Il suono di un uomo dall’altra parte della casa. Suoni mascolini sullo sfondo, dimentichi di sé. Tutto via. (…) Non ci sono abbastanza donne in questo comitato. Un altro consiglio di amministrazione senza donne. I diritti dei maschi: tutto via. (…) La messinscena della ragazza. Che fa una voce da bambina. Che indossa scarpe rasoterra per assicurarsi che lui sia più alto. La sensazione soffocata di sentirsi parlare sopra. Un uomo che usa il falsetto per prenderti in giro. (…) Lui che inizia a far paura. Lui che prende a pugni il muro. Testa bassa e lascia che passi. Ti vergogni di averlo provocato. Tutto via”. Ma appunto c’è il dolore. I padri i fratelli gli amici i figli i compagni. Gli uomini che ci sono cari, e che non vogliamo perdere e che vogliamo al nostro fianco sulla stessa strada. Gli uomini che stanno dicendo non che “non sono come quelle bestie”, ma che il problema esiste. Il giovane cameriere che quest’estate, nelle Marche, ha usato il femminile sovraesteso per una tavolata di cinque donne e un uomo e lo ha dichiarato sorridendo, e senza affettazione. Allora, come si fa? Si lavora sull’immaginario. Vedendo Barbie di Greta Gerwig l’ho trovato, all’inizio, didascalico fino allo sfinimento. Ma alla fine di questo agosto penso che invece va bene così, se ragazze e ragazzi trovano in blockbuster la rappresentazione di un modello diverso. Che sia un film su una bambola o che siano le parole di Margaret Atwood ne “Il Racconto dell’ancella” (“Ma se sei un uomo in un qualsiasi tempo futuro, e ce l’hai fatta sin qui, ti prego ricorda: non sarai mai soggetto alla tentazione del perdono, tu uomo, come lo sarà una donna”). Va bene tutto, finché non si parlerà più di “chiasso di donne”, ma delle loro voci, e del loro essere nel mondo. Vive, e riconosciute. Al Parco Verde di Caivano: “Nessuna manutenzione né trasporti. Solo la politica delle passerelle” di Adriana Pollice Il Manifesto, 3 settembre 2023 Dopo gli abusi su due bambine. Bruno Mazza: “Abbiamo sette viali con nomi di fiori ma i fiori non ci sono, sembra una presa in giro. Ho visto i bambini fare i miei stessi errori, a 10 anni non riesci a raccontare le difficoltà che vivi osservando tutti i giorni l’illegalità”. Analisi dei cellulari, indagini e verifiche: due procure al lavoro sulla denuncia di stupro ai danni di due cugine di 11 e 13 anni (ma all’epoca dei fatti ne aveva 12) ora in una struttura protetta. Ad abusarle otto minorenni e due maggiorenni. I fatti si sono svolti a Caivano, i protagonisti vengono dal Parco Verde e dal rione chiamato il Bronx. La denuncia le famiglie l’hanno fatta a luglio, poi la notizia è arrivata alla stampa così il Parco Verde è diventato un caso: per la visita della premier Meloni, giovedì, c’erano persino i corrispondenti delle testate straniere. Le vie di accesso alla parrocchia e all’istituto alberghiero erano tirare a lucido, dietro l’angolo tutto era abbandonato, incluse le pensiline per linee di autobus che non passano più. Neppure i sacchi di amianto sono stati tolti: dissotterrati, posti sotto sequestro e lasciati in un’aiuola. Sotto terra avrebbero fatto meno male. In due anni i Carabinieri hanno fatto 150 arresti nell’ambito della criminalità organizzata legata alla droga ma resistono almeno 4 piazze di spaccio. “Un mese fa ho trovato un ragazzo morto per overdose, perché qua gira ancora l’eroina, all’interno di un’area di 9mila metri quadri, al centro di due grosse piazza di spaccio. Il posto si trova accanto alla chiesa di S. Paolo Apostolo, dove è venuta Meloni. Il parroco dovrebbe cercare di riaprire quell’area verde per evitare che i bambini osservino quotidianamente lo spaccio”: a raccontare è Bruno Mazza, un ex baby boss diventato l’anima e il motore dell’associazione Un’Infanzia da vivere. “Quel posto si chiama Villa Andersen - prosegue - ma lì le fiabe non le hanno mai viste. Tutti i politici fanno come ha fatto Meloni: vengono per i voti. Nel 2017, grazie al protocollo Terra dei fuochi, abbiamo partecipato al progetto ‘Scelgo la strada giusta’: siamo stati capaci di recuperare più pneumatici abbandonati di tutti i comuni del protocollo, così non sono stati usati per alimentare i roghi di rifiuti. Con gli pneumatici abbiamo realizzato un campetto polifunzionale, è venuto l’Esercito a inaugurarlo, è venuta la politica, le istituzioni. Ma non hanno mai messo la luce e l’acqua, i vigili del fuoco l’hanno dichiarato inagibile. Così funziona il rapporto tra il quartiere e lo Stato. Non c’è solo gente che spaccia, ci sono anche tanti che voltano le spalle e, magari, sull’emergenza ci mangiano. Perché poi arrivano i soldi per i progetti speciali che danno stipendi ai colletti bianchi ma non tolgono i ragazzi dalla strada. Sono io però che mi carico i sacchi di siringhe che tolgo dalla villa”. Nel 2008 Bruno ha finito di scontare la sua pena: “Ho visto i bambini del Parco fare le mie stesse cose, a 10 anni non riesci a raccontare le difficoltà che vivi osservando tutti i giorni l’illegalità. Allora ho deciso di fondare una associazione di volontariato: abbiamo recuperato, grazie a Fondazione con il Sud, l’80% delle infrastrutture che prima erano ritrovo per i tossici. Centinaia di bambini possono fare calcio, basket, pallavolo e tennis, abbiamo orti sociali, facciamo falegnameria per farli appassionare, formare. Abbiamo fondato una cooperativa sociale per fare manutenzione nel Rione (che non si fa da trent’anni). Non c’è la raccolta differenziata, non c’è spazzamento delle strade, non c’è cura del verde pubblico. Abbiamo sette viali con nomi di fiore ma i fiori non ci stanno. Sembra una presa per il culo. I ragazzi da noi si divertono ma sanno che ci sono delle regole: devono andare a scuola, devono studiare, si devono comportare bene. Imparano che qua non è più una giungla”. Il presidente dell’Arcigay Napoli, Antonello Sannino: “Sono stato tutta la settimana al Parco Verde, dove gestiamo da alcuni mesi un centro d’ascolto Lgbt+, Codice Rainbow Caivano, nato dopo l’omicidio terribile di Maria Paola Gaglione (a procurare l’incidente mortale il fratello che non accettava la relazione della sorella con un ragazzo trans ndr). Non è vero che la gente non vuole denunciare l’illegalità. C’è paura e c’è rabbia, ma ho visto tanta gente alzare la voce, dire tutte le cose che non vanno, dal filo della luce abusivo piazzato dal fratello del boss all’amianto mai portato via. Le persone nel Parco Verde non hanno alcuna fiducia in questo Stato che arriva, dopo una denuncia di violenza su due ragazzine, e pulisce le sole due strade per portare i politici in chiesa, in un’isoletta protetta che non è il Parco Verde”. Il cannabidiolo diventa sostanza stupefacente. “Sarà difficile trovarlo, un regalo al mercato nero” di Franco Giubilei La Stampa, 3 settembre 2023 La denuncia dei pazienti al ministro della Salute. Dal 20 settembre, l’accesso alla cannabis terapeutica richiederà una prescrizione medica. Ma molti medici sono restii a fornirla: ecco perché. Non bastavano le difficoltà nel reperire la cannabis terapeutica patite negli anni scorsi, dovute alla scarsa produzione e alle lungaggini dell’importazione dagli altri Paesi: dal 20 settembre il cannabidiolo (cbd), sostanza contenuta nella pianta, sarà inserita in una tabella che la equipara a un farmaco stupefacente, moltiplicando i problemi dei pazienti nel procurarsela. È l’effetto del decreto del ministero della Salute pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 21 agosto che revoca un decreto del 2020 sull’aggiornamento delle tabelle contenenti l’indicazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope, con cui il cbd entra a far parte dei farmaci stupefacenti. Cannabis terapeutica, tutto quello che c’è da sapere - Elisabetta Biavati, presidente dell’Associazione pazienti cannabis medica e autrice di una lettera aperta al ministro della Salute Orazio Schillaci, spiega a che cosa vanno incontro migliaia di malati che usano il cannabidiolo contro il dolore, ma anche l’ansia e l’insonnia: “Il cbd, finora di libera vendita in farmacia come preparato galenico che spesso viene smerciato col marchio della farmacia stessa, sarà disponibile solo con ricetta medica. Il problema è che i medici sono generalmente molto restii a compilare questa ricetta perché, per formazione culturale, tendono ad assimilare il cannabidiolo a una droga tout court quando, fra l’altro, di per sé non ha alcun effetto stupefacente”. Cannabis terapeutica: l’ha già utilizzata più di un italiano su 10 - L’alternativa ai medici di base che si rifiutino di prescriverlo saranno quelli a pagamento, a suon di 50-100 euro a ricetta, oppure il mercato nero: “Come per la marijuana i pazienti saranno costretti ad acquistarlo clandestinamente - aggiunge la presidente dell’associazione -. Chi vive vicino al confine con altri Stati come Francia, Svizzera e Slovenia, che lo vendono liberamente anche al supermercato, magari sarà facilitato, ma correrà comunque il rischio di incorrere in conseguenze legali, compreso l’arresto, perché non avrà la ricetta. Ci chiediamo anche se l’assunzione del cbd con queste modalità non comporti anche il rischio del ritiro della patente come avviene per chi assume hascisc e marijuana a scopo ludico”. La lettera al ministro ha toni accorati: “Le assicuro che non è solo questione di business, ci siamo anche noi pazienti, e il nostro dolore qui nessuno lo sta ascoltando”, scrive Biavati al titolare della Salute. Cannabis terapeutica: cinque cose da sapere sul Cbd - Tutt’altra musica negli Stati confinanti e in altri Paesi: “In Francia, Svizzera o Slovenia il cbd viene considerato alla stregua di un banale integratore, certo con determinate caratteristiche sul piano della legge, con tutele per il consumatore finale, come peraltro si poteva fare anche in Italia - spiega Biavati -. Tutti i maggiori scienziati e l’Oms sono concordi a non inserire il cannabidiolo fra gli stupefacenti in quanto non ha alcun effetto psicotropo, molti Paesi tra cui Israele, Canada e Germania lo utilizzano a livello pediatrico, soprattutto per l’epilessia farmaco resistente”. L’epidemia di golpe africani: un allarme per l’Europa di Federico Rampini Corriere della Sera, 3 settembre 2023 Un filo conduttore è la crisi di molti esperimenti democratici in Africa: solo il 38% degli africani è soddisfatto di come funziona la democrazia, le loro élite intellettuali la associano all’Occidente inteso come imperialismo e neo-colonialismo. Il golpe in Gabon è l’ottavo consecutivo in soli tre anni in quella parte dell’Africa, cioè la fascia occidentale e centrale del continente. Lo hanno preceduto Mali, Guinea, Burkina Faso e di recente il Niger, alcuni dei quali hanno subito dei colpi di Stato militari a ripetizione (è così che si arriva al totale di otto). L’instabilità politica che questa “epidemia” segnala, il grave arretramento della democrazia che genera, hanno spinto il responsabile della politica estera Ue Josep Borrell a parlare di “un grosso problema per l’Europa”. A conferma, della crisi in Gabon parleranno a breve i ministri della Difesa dell’Unione. In cerca di semplificazioni sarebbe facile soffermarsi su un aspetto: tutti i paesi sopra elencati per la “epidemia dei golpe” sono ex-colonie francesi. Molti di loro in seguito alla presa di potere dell’esercito hanno denunciato gli accordi con la Francia, in certi casi (Mali, Burkina) cacciando i contingenti delle forze armate di Parigi. Siamo dunque in presenza di una “seconda morte dell’impero coloniale francese in Africa”? Senza dubbio il sentimento anti-francese gioca un ruolo. Nel Niger poco dopo la deposizione del presidente democraticamente eletto abbiamo visto scendere in piazza delle folle che inneggiavano ai militari golpisti, urlavano “abbasso la Francia e viva Putin”. Le accuse di neocolonialismo contro Emmanuel Macron e i suoi predecessori sono pratica corrente. È ancora presto per dire se il copione si ripeterà in Gabon, dove pure la presenza transalpina è rilevante, per esempio con la società Elf nel petrolio. Greggio e cacao sono le due principali esportazioni del Gabon. Un simbolo che spesso viene usato per esemplificare i retaggi di colonialismo francese, è l’unione monetaria nel Cfa o franco africano, un’istituzione abbastanza curiosa anche nel nome, visto che a Parigi il franco non esiste più, sostituito ovviamente dall’euro da oltre un ventennio. Il Cfa è un’architettura a dir poco barocca: quella sigla descrive in realtà due unioni monetarie, una per l’Africa centrale e l’altra per l’Africa occidentale; tutt’e due legate all’euro da una parità fissa e garantite dal Tesoro di Parigi. Si possono tracciare delle (vaghe) analogie con il Commonwealth britannico. La Francia ne ricava pochi vantaggi comunque. In compenso paga un prezzo politico: nell’immaginario collettivo di molti paesi africani la sola esistenza di un “franco Cfa” è un simbolo potentissimo di ciò che loro percepiscono come un retaggio coloniale. Ma le accuse a Parigi sono solo in parte giustificate, per lo più invece sono pretestuose, incoerenti, in malafede. Gli stessi paesi che ora cacciano i militari francesi, magari per sostituirli con mercenari russi, l’altroieri avevano chiesto aiuto a Parigi per combattere terroristi jihadisti e milizie separatiste. Gli stessi militari che hanno preso il potere a ripetizione, invocando come pretesto per i loro golpe l’incapacità dei governi civili di garantire ordine e sicurezza, sono essi stessi responsabili per clamorosi insuccessi nel reprimere terroristi, jihadisti, organizzazioni criminali. I generali che cacciano i politici accusandoli di corruzione sono di solito i primi campioni della corruzione. Celebrare la seconda morte dell’impero francese è una forzatura anche perché la crisi della democrazia - e della sicurezza - si estende oltre l’Africa francofona. L’anglofono Zimbabwe ha appena tenuto delle elezioni di dubbia correttezza, non più limpide di quanto lo sia stata in Gabon la vittoria del “figlio d’arte” Ali Bongo (il 64enne presidente appena deposto viene da una dinastia ininterrottamente al potere da 56 anni, suo padre Omar Bongo governò dal 1967 al 2009). Il Sudan, che non è un ex colonia francese bensì fu un possedimento in condominio anglo-egiziano, è ancora devastato dalla guerra tra due fazioni militari. Una ricaduta di disordini e di repressione si sta verificando anche in Etiopia, la nazione dell’Africa che si vanta di non essere mai stata colonizzata da nessuno (a ragione gli etiopi definiscono “occupazione” l’episodio italiano, che considerano talmente breve e con impatto troppo modesto per potersi definire una colonizzazione). Un filo conduttore è la crisi di molti esperimenti democratici in Africa. L’ultimo sondaggio Afrobarometro rivela che solo il 38% degli africani sono soddisfatti di come funziona la democrazia nel proprio paese (quelli che ce l’hanno). Secondo la ong americana Freedom House metà degli Stati continentali sono “non liberi”, il 43% “parzialmente liberi”. Noi occidentali però questi giudizi dovremmo maneggiarli con moderazione e spirito critico, tenuto conto che anche le opinioni pubbliche di casa nostra danno segnali di delusione e disaffezione verso il sistema politico democratico. Dovremmo anche considerare quel che sta accadendo in Africa come un’emergenza che ci riguarda per diversi aspetti, non tutti scontati. Da una parte è un “grosso problema” (come dice Borrell) perché la catena dei golpe investe zone strategiche per l’Europa sia come origini di flussi migratori sia come giacimenti di risorse energetiche e minerarie. D’altra parte è un “grosso problema” se e quando questi golpe poggiano su narrazioni anti-occidentali e spianano la strada a ulteriori penetrazioni di Cina, Russia, o anche altri attori come Arabia saudita, Turchia. Dietro quest’ultimo fenomeno c’è una tendenza allarmante che accomuna tanti paesi africani: troppo spesso le loro élite intellettuali tendono ad associare la democrazia all’Occidente nel senso deteriore che esse danno alla parola Occidente, cioè come simbolo di imperialismo, post o neo-colonialismo, sfruttamento. Così facendo queste élite ottengono il triplice risultato di screditare la democrazia, avallare i golpe, legittimare le intese fra golpisti e Pechino, Mosca, eccetera. È utile che del tema si occupino i ministri della Difesa europei perché buona parte dell’Africa soffre per un deficit di sicurezza prima ancora che di stabilità o di libertà. La democrazia non sopravvive se non è capace di assicurare ai propri cittadini un minimo di “legge e ordine” (tema sottovalutato o incompreso negli stessi paesi occidentali). I militari del Gabon, come quelli del Niger, Mali e Burkina Faso prima di loro, sono dei bugiardi quando promettono sicurezza visto che fino a ieri hanno avuto vasti poteri per mantenere l’ordine e non lo hanno fatto. Qualcuno però dovrà riuscirci prima o poi. Crescita economica, sviluppo, occupazione, istruzione e sanità, progrediscono se esiste un minimo di sicurezza. L’Europa dovrebbe sviluppare una offerta alternativa - in una cornice di rispetto dei diritti umani - rispetto al Gruppo Wagner o altre milizie mercenarie. Il fatto che il golpe del Gabon sia accaduto a così breve distanza da quello del Niger ricorda un altro fallimento che si sta consumando: quello della comunità economica dell’Africa occidentale, Ecowas. Sotto la leadership della nazione più importante di tutto il continente, la Nigeria, l’Ecowas aveva promesso/minacciato un intervento militare multinazionale per ripristinare il legittimo governo civile in Niger. Poi l’Ecowas si è impaurita, soprattutto perché all’interno della stessa Nigeria sono cresciute le resistenze. Forse l’Unione europea dovrebbe riprendere il bandolo della matassa proprio da lì.