Il Dap: “Trasferire i detenuti violenti”. Ma è questo il “rimedio”? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 settembre 2023 La nuova circolare stabilisce criteri e processi chiari per velocizzare i trasferimenti, ma non fa altro che alimentare “la girandola dei detenuti”. “Trasferimento più celere per i detenuti violenti”: questo è il contenuto della nuova circolare del Dap illustrata dal sottosegretario della giustizia Andrea Ostellari, incontrando i Provveditori regionali dell’Amministrazione Penitenziaria, insieme al Capo del Dipartimento, Giovanni Russo, e al Direttore Generale dei Detenuti, Gianfranco De Gesu. Si tratta di una circolare emanata di recente dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che mira a trasferire più rapidamente a carceri diverse i detenuti più problematici. Ma è davvero questa la soluzione migliore per i detenuti violenti? I fatti sembrano suggerire di no, poiché si tratta soltanto di rimandare il problema a qualcun altro. “Chi compie azioni violente a danno di altri detenuti, degli agenti in servizio e del personale sarà trasferito, anche fuori Regione, con celerità ed efficacia”, ha spiegato il sottosegretario Ostellari a proposito del nuovo strumento messo a disposizione dei direttori e dei provveditori regionali. Vediamo il contenuto della circolare da poco emanata che Il Dubbio ha potuto visionare. In sostanza stabilisce chiaramente i criteri e i processi che le direzioni delle carceri devono seguire per garantire una gestione più efficace dei detenuti problematici. In base a questa circolare, le Direzioni delle carceri hanno l’obbligo di richiedere tempestivamente il trasferimento dei detenuti considerati pericolosi. Questa richiesta deve essere inoltrata ai competenti Provveditorati regionali o alla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento, secondo il circuito di appartenenza del detenuto. La richiesta deve essere supportata da prove concrete, specialmente nei casi in cui i detenuti hanno commesso gravi aggressioni contro il personale penitenziario, medico, infermieristico o contro altri detenuti. La circolare specifica anche che se un detenuto commette ripetute aggressioni gravi o se un istituto carcerario non è in grado di gestire situazioni di pericolo a causa di individui o gruppi particolarmente pericolosi, il Provveditorato può richiedere il trasferimento del detenuto. Questa richiesta deve essere motivata e inoltrata alla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento, e può essere effettuata anche in deroga al principio di territorialità. Ma accelerare i trasferimenti dei detenuti problematici risolverà veramente il problema? Non sembra, poiché il sistema penitenziario italiano non è attrezzato per gestire detenuti problematici. Il carcere è aggravato da due fattori. Uno da un mancato adeguamento del sistema penitenziario e dei servizi sanitari alla chiusura degli ospedali psichiatrici , l’altro fattore è stata proprio una circolare del Dap del 2019 che è diventato un altro motivo di girandola dei detenuti per gli istituti. Parliamo di una circolare che aveva disposto la possibilità di traferire i detenuti per motivi di sicurezza. Ma cosa ha provocato? Il detenuto che compie violenza è giusto che venga punito, ma se tali eventi debbano essere sempre causa di trasferimenti, vuol dire rimandare il problema ad altri. Una situazione che riguarda quasi esclusivamente i detenuti che sono in media sicurezza, spesso quelli più disperati che non avendo nessuna speranza, utilizzano metodi di protesta per farsi sentire. Un problema che riguarda principalmente i detenuti stranieri che, in mancanza di mediatori culturali e altre figure importanti per rapportarsi con loro, si sentono lasciati soli. Ora la nuova circolare dovrebbe semplicemente accelerare l’iter. Oltre che a rimandare il problema del detenuto “violento” ad altri istituti penitenziari, Gennarino De Fazio, Segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, fa notare a Il Dubbio che consente a qualche detenuto se stare o meno in un dato carcere e obera la polizia penitenziaria per le traduzioni. In effetti, potrebbe diventare un modo di farsi trasferire e magari rifarlo ancora. Non è un caso che nella nuova circolare sottolinea anche l’importanza della verifica accurata delle informazioni fornite. Le Direzioni delle carceri - ordina il Dap - devono assicurarsi che la violenza perpetuata da un detenuto sia genuina e non un tentativo da parte del detenuto di ottenere un trasferimento in una struttura di sua preferenza. Questo richiede un’analisi attenta e oggettiva delle relazioni di servizio e delle prove nel fascicolo del detenuto. Rimane il problema che un ulteriore velocizzazione della pratica, non fa che alimentare “la girandola dei detenuti”. Senza contare che i trasferimenti avvengono anche nei confronti dei detenuti che non sono violenti, ma che sono considerati scomodi dalle direzioni degli istituti penitenziari, ad esempio perché si attivano per reclamare i propri diritti. Ma questa è un’altra storia ancora. Dl Caivano e disagio giovanile: quale pena rieducativa? di Marzia Amaranto Il Riformista, 30 settembre 2023 Occasionato dalla vicenda di Caivano è ormai entrato a far parte del nostro corpus normativo il Decreto Legge recante interventi urgenti di contrasto al disagio giovanile e alla criminalità minorile. Tra gli assi portanti di detto provvedimento vi sono l’ampio ricorso alle misure di prevenzione e all’inasprimento di alcuni profili sanzionatori penalistici in rapporto alla criminalità minorile; il coinvolgimento delle famiglie nell’esercizio della responsabilità genitoriale; interventi di rafforzamento e potenziamento rivolti alla popolazione scolastica e universitaria nel territorio del Comune di Caivano e non ultimo la prevenzione della violenza giovanile in rapporto all’uso dei dispositivi informatici. Ma la vera questione da porsi, non solo per gli operatori del settore ma anche per chi ci legge, è se non sia un errore attribuire alla giustizia penale il compito di risolvere il problema del disagio giovanile e ancor di più della violenza, adoperata il più delle volte come mezzo di affermazione della personalità per il minore d’età, in contesti sociali privi di punti di riferimento educativi, dati non solo dall’istituzione scolastica, ma anche dai centri sportivi e di aggregazione giovanile? Non è errato sostituire quella fase fondamentale di recupero sociale del minore che delinque, con la maggiore repressione, aumentando in questo modo le probabilità di immissione definitiva nel circuito criminale? In soldoni è preferibile il rafforzamento delle misure preventive e/o delle misure punitive? Se rammentiamo che l’attenzione per le peculiarità dell’amministrazione della giustizia, nei confronti dei minori, ha trovato pieno riconoscimento - in un passato non così lontano - persino a livello internazionale, attraverso la risoluzione della Nazioni Unite che concernente le “Regole minime per l’amministrazione della giustizia dei minori”, meglio conosciute come Regole di Pechino e sin anche con le raccomandazioni del Consiglio d’Europa su “Le reazioni sociali alla delinquenza minorile”. L’importanza di tali documenti, insieme ai principi contenuti nella Nostra Carta Costituzionale, hanno indirizzato il Nostro legislatore nel processo di riforma, diretto a disciplinare il processo a carico di imputati dalla minore età, con le dovute “accortezze” imposte dalle specifiche condizioni psicologiche di costoro, dalla loro maturità e dalle esigenze educative. Ma se sino a ieri lo scopo rieducativo della disciplina relativa ai minori nel Nostro ordinamento era ben lontana dall’essere veicolo di pratiche deresponsabilizzanti, cercando bensì di garantire il difficoltoso equilibrio tra la necessità di tutela di un soggetto, ancora in fase di crescita e l’accertamento delle responsabilità dello stesso, durante lo svolgersi del procedimento, con una pretesa punitiva subordinata all’interesse-dovere dello Stato al recupero del minorenne, oggi i qui menzionati principi fondamentali, sui quali la tutela del minore d’età si incentrava, si scontrano con le prime criticità di una riforma che appare o almeno così fa sembrare, più che essere finalizzata alla rieducazione del soggetto, orientata a finalità prevalentemente punitive e sanzionatorie. Senza contare poi la situazione di sovraffollamento degli IPM, agli onori della cronaca sono gli Istituti di Milano, Torino e Bologna con giovani “in lista d’attesa” a causa del sovraffollamento. Per non tralasciare l’odissea del trasferimento dei minori da nord a sud della penisola, o persino negli istituti di pena per adulti, negando in questo modo il diritto di partecipare all’udienza, per la sola assenza di mezzi e uomini della polizia penitenziaria che si occupino della trasferta. Tutto questo eliminando concretamente la finalità educativa, oltreché la vera possibilità di garantire il diritto inviolabile di difesa, previsto come garanzia costituzionale. Lo stesso Istituto Penale per i Minorenni di Milano “Beccaria” non appare più come IPM-modello, spiccando su tutto, la vicenda riguardante la ristrutturazione dell’edificio, i cui lavori non sono conclusi, nonostante il continuo slittamento della data ultima di consegna. Oltreché le attività di recupero social-lavorativo proposte che riscontrano fatica nel tradursi in percorsi significativi di inserimento lavorativo. Tuttavia vi sono degli aspetti positivi, che nonostante ciò hanno trovato ben poco spazio nella narrazione pubblica, la previsione della messa alla prova sin dalla fase delle indagini. Questa norma potrebbe portare una importante deflazione dei procedimenti dinanzi ai Tribunali per i Minorenni. Carcere ingiusto. Giulio Petrilli, tutta la vita in cerca di riparazione di Valentino Maimone La Ragione, 30 settembre 2023 Se avete presente di cosa si parla quando si parla di 41 bis - il “carcere duro” per mafiosi e terroristi, dovete moltiplicarlo per un bel po’ di volte prima di ottenere l’equivalente del regime speciale che veniva applicato a certi detenuti negli anni Ottanta. Isolamento totale e assoluto, tanto per cominciare. E poi soltanto sessanta minuti d’aria nelle 24 ore. Un inferno così si gestiva “al bisogno”, poteva estendersi anche per sei anni consecutivi. Come accadde a Giulio Petrilli, arrestato 21enne con l’accusa di essere fra i capi dell’organizzazione terroristica Prima Linea. Non era vero, era soltanto un focoso universitario molto attivo con la sinistra extraparlamentare di allora, conosceva personaggi non proprio limpidi ma non aveva nulla a che spartire col terrorismo. I giudici lo condannarono lo stesso a 8 anni per banda armata, così dovette aspettare di essere scagionato da un terrorista “vero”. Seguirono appello e Cassazione, con assoluzione piena e definitiva. Era la fine degli Ottanta, il nuovo codice di procedura penale introduceva l’indennizzo per ingiusta detenzione. Lui lo richiese, ma gli risposero picche: “Per cose vecchie non si può”. Ci riprovò più tardi - grazie a spiragli normativi - ma fu di nuovo “No”: aver frequentato tipi loschi era una “colpa grave” e tale da non dargli diritto a una lira. Ci ha riprovato tutta la vita, poi l’altro giorno è stato colto da un’embolia polmonare e se n’è andato a 65 anni. Giustizia riparativa, a Milano messo a punto uno “schema operativo” condiviso di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2023 Il documento che sarà presentato ufficialmente il 3 ottobre è frutto di un lavoro congiunto di magistrati e avvocati, contiene le indicazioni procedurali e due modelli per l’invio della richiesta al Tribunale e alla Corte di appello. Milano si dota di uno “schema operativo”, frutto di un lavoro congiunto di avvocati e magistrati, per l’applicazione degli istituti della giustizia riparativa contenuti nella Riforma Cartabia ed entrati in vigore il 30 giugno 2023. La presentazione avverrà il prossimo 3 ottobre (ore 14.15) presso la Biblioteca Ambrosoli del Palazzo di Giustizia. Folto e di primo piano il parterre degli intervenienti tra cui il Presidente della Corte d’Appello di Milano, Giuseppe Ondei; il Presidente del Coa di Milano, Antonino La Lumia, la Pg Francesca Nanni, la Presidente del Tribunale di Sorveglianza Giovanna di Rosa, il Presidente f.f. del Tribunale di Milano Fabio Roia, il Procuratore Marcello Viola, la Presidente della Camera Penale di Milano, Valentina Alberta, il coordinatore della Commissione Giustizia Penale dell’Ordine degli Avvocati di Milano Enrico Giarda. Tutti soggetti sottoscrittori del documento a sottolineare lo sforzo di instaurare delle “buone prassi condivise”. Il progetto, si legge nelle premesse, mira a “suggerire modalità operative differenziate a seconda della fase del procedimento (cognizione o esecuzione) e ad individuare modalità di comunicazione tra i diversi soggetti coinvolti, che massimizzino la fruibilità dello strumento tenendo conto della limitatezza delle risorse”. Le linee guida sono state elaborate con la collaborazione del Centro per la Giustizia riparativa del Comune, a cui possono ancora essere inviati in valutazione eventuali casi specifici (giustiziariparativa@comune.milano.it). Il gruppo di lavoro organizzerà comunque riunioni “almeno semestrali per attualizzare, integrare e correggere il presente schema operativo”. Il programma di giustizia riparativa, si legge nel documento, è applicabile astrattamente a qualunque tipologia di reato, purché sia utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede; e sia accertata l’assenza di un pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti. Non è invece richiesto alcun accertamento del fatto (neppure nei limiti dell’esclusione dell’art. 129 c.p.p.), né il riconoscimento della propria responsabilità. Le parti dunque saranno sentite esclusivamente sulla sussistenza dei presupposti menzionati. Inoltre, l’eventuale dissenso della persona offesa non potrà essere ostativo all’invio del caso per la valutazione di programmi di giustizia riparativa senza partecipazione della vittima diretta. Mentre la valutazione della sussistenza di un valido consenso (personale, libero, consapevole, informato) della persona indicata come autore dell’offesa e della vittima sarà in ogni caso riservata al mediatore. L’accesso ai programmi di giustizia riparativa deve essere consentito in qualsiasi fase, sin dalle indagini e fino alla fase esecutiva o anche in caso di proscioglimento a prescindere dal fatto che sia individuabile in concreto una “vittima” o che manchi il consenso all’invio della vittima individuata. Infine, deve essere assicurata l’assoluta gratuità del percorso. Il documento indica in quali atti del Pm e del GIP/GU debba essere inserita l’informazione e quali sia l’autorità competente all’invio a seconda delle diverse fasi del procedimento. L’invio al Centro deve avvenire di regola attraverso un provvedimento senza particolari formalità del magistrato di sorveglianza, e non del direttore dell’istituto. Vi è infatti la necessità che l’accesso ai programmi “sia ampio e indiscriminato, con valutazione dei presupposti solo in capo al magistrato di sorveglianza”. I direttori degli istituti penitenziari saranno invitati, tramite accordo con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione penitenziaria, a fornire informazioni sulle possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa ex art. 47 co. 2 OP. Fermo quanto previsto dall’art. 15bis OP, viene sottolineato come l’ammissione al lavoro all’esterno, la concessione di permessi premio o misure alternative di cui al capo VI dell’ordinamento penitenziario e della liberazione condizionale non possano mai essere subordinati alla partecipazione a programmi di giustizia riparativa. Niente prescrizione “governata” dalle Procure: la mossa dei deputati di Errico Novi Il Dubbio, 30 settembre 2023 Nordio aveva ipotizzato di far decorrere l’estinzione dei reati dall’iscrizione a registro, che è controllata dai pm. Un’idea cara solo alle toghe, incluse quelle distaccate a via Arenula. Materia che sembrava finita nell’oblio e che è improvvisamente riemersa. Premessa: la riforma della prescrizione rientra fra quei dossier che vedono poche differenze nell’alleanza di governo. Era stato, tanto per dire, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, considerato il più intransigente alfiere, nel centrodestra, del “rigorismo” in ambito penale, a chiarire, prima delle Politiche di settembre 2022, che “il ritorno alla prescrizione sostanziale è questione di civiltà giuridica”, e che “la figura dell’imputato a vita è un’idea abnorme”. Tanto che in commissione Giustizia alla Camera, subito dopo l’avvio della legislatura, erano state incardinate diverse proposte di legge della maggioranza, oltre a una del deputato di Azione Enrico Costa, tutte proiettate verso l’addio alle riforme di Bonafede e Cartabia, col ritorno quindi a un regime di prescrizione sostanziale valido in tutti i gradi del processo. C’era solo da chiedersi perché, su un dossier relativamente semplice e privo di sgranature all’interno del centrodestra, Montecitorio non riuscisse ad avviare subito la discussione. In parte la risposta è nella precedenza assegnata alle proposte sull’abuso d’ufficio, scelta bizzarramente vanificata dall’assegnazione all’altra commissione Giustizia, quella del Senato, del ddl Nordio, che abolisce appunto il 323 del codice penale. Fatto sta che in piena estate, a lavori parlamentari fermi, proprio il guardasigilli aveva riaperto il confronto sulla prescrizione con un’ipotesi spiazzante: ripristinarla sì nella sua versione “sostanziale”, ma con una modifica radicale, cioè in modo da far decorrere i termini non più dal momento in cui sarebbe stato commesso il delitto ma da quando la notizia di reato perviene al pubblico ministero. Una rivoluzione. Che lascerebbe alle Procure un potere gigantesco. Sarebbe in tal modo il pm, infatti, a far partire di fatto il timer della prescrizione. E sul rischio che un potere simile venga esercitato con eccessivo arbitrio era intervenuta addirittura la riforma penale di Cartabia, che ha assegnato al gip il potere di verificare la tempestiva iscrizione a registro degli indagati, per evitare che un’eccessiva “libertà” degli inquirenti finisca per prolungare in modo improprio i termini massimi di durata delle indagini. Sarebbe assai singolare se, a fronte di un rafforzamento del controllo giurisdizionale sugli uffici di Procura, proprio un guardasigilli “nemico” degli abusi come Nordio spostasse di nuovo l’equilibrio a favore dei pubblici ministeri. Ma è chiaro che una proposta simile nasce anche nelle stanze di via Arenula, dal punto di vista cioè dei magistrati che monopolizzano tutti gli uffici del dicastero della Giustizia, a cominciare dal Legislativo. Si sarebbe trattato di un caso di riforma se non “dettata”, quanto meno idealmente ispirata dalla magistratura (da cui lo stesso ministro, d’altronde, proviene). Ad agosto, a fronte dell’ipotesi avanzata da Nordio, soprattutto Forza Italia aveva scavato una trincea, per prepararsi a respingere una così clamorosa modifica della prescrizione. Si trattava, è evidente, di contrapporre al punto di vista dei magistrati che affollano uffici e commissioni di via Arenula, quello dei parlamentari che rappresentano il centrodestra nelle commissioni di Camera e Senato, e che guarda caso sono nella quasi totalità avvocati: dal meloniano Ciro Maschio, che presiede la commissione Giustizia di Montecitorio, al suo vice Pietro Pittalis, di Forza Italia, agli altri deputati- penalisti azzurri Tommaso Calderone e Annarita Patriarca, ai senatori della Lega Manfredi Potenti, di FdI Sergio Rastrelli e di FI Pierantonio Zanettin. Tutti convinti che in ogni caso la prescrizione debba decorrere dal momento in cui sarebbe stato commesso il reato. Al di fuori di questo schema, l’istituto perderebbe infatti una delle sue funzioni prevalenti: tutelare il diritto della persona a non vedersi processata per fatti che risalgono a un’epoca lontanissima della propria vita, principio legato sia al generale diritto all’oblio sia al rischio che, dopo lustri o decenni, il diritto di difesa (la possibilità di rintracciare testimonianze, innanzitutto) sia fatalmente compromesso. È anche in quest’ottica, dunque, che va letta la mossa, comunque clamorosa, compiuta due giorni fa dal relatore delle proposte sulla prescrizione, Enrico Costa, e da tutti i deputati di maggioranza in commissione Giustizia: azzerare tutto e adottare, come testo base, la proposta del forzista Pittalis, che torna alla legge Cirielli. Un reset che, come spiegato da diversi esponenti del centrodestra, non prelude a un effettivo ripristino della riforma berlusconiana ma a un lavoro che, con gli emendamenti, costruirà un nuovo modello di prescrizione sostanziale, forse non lontanissimo dalla legge Orlando del 2017 ma certamente di “rottura” rispetto alle riforme di Bonafede e Cartabia. C’è questo, certo. Ma c’è anche la chiara manifestazione di un no rispetto all’ipotesi estiva di Nordio, cioè a un timer processuale posticipato alla “scoperta” del reato da parte del pm. Idea che sicuramente intriga tanti magistrati, a cominciare da quelli distaccati a via Arenula. Ma contro la quale i parlamentari- avvocati del centrodestra, di Azione e di Italia viva hanno, comprensibilmente, alzato una barriera preventiva. Dalla disciplina delle intercettazioni a quella della prescrizione: segnali di vita del Parlamento di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 30 settembre 2023 Riconquistata la purezza antimafiosa nelle prime, sembra si vada anche verso un netto ritorno al regime di prescrizione sostanziale, cancellando nel modo giusto sia lo scempio della riforma Bonafede, sia l’astruso rimedio della riforma Cartabia. La notizia è che il Parlamento a volte è ancora in grado di funzionare, non più solo come rassegnata macchina vidimatrice di decreti-legge e leggi-delega di matrice governativa. È accaduto in tema di intercettazioni, potrebbe accadere in tema di prescrizione. Sulla prima questione, come è noto, il Governo ha emanato alcune settimane fa un decreto-legge che costituisce la più drastica espansione della facoltà di uso dello strumento delle intercettazioni ambientali e telefoniche nella storia Repubblicana. In che modo? Applicando il già eccezionale regime intercettativo previsto per i reati di mafia (nessun limite nei luoghi di privata dimora, strapotere delle Procure, obblighi motivazionali drasticamente affievoliti, trojan a go-go) anche a reati comuni commessi “con modalità mafiose”, una aggravante che può essere contestata per le più fantasiose e pretestuose ragioni. Motivo? Alla vigilia della strage Borsellino, il Ministro Nordio chiacchiera imprudentemente di concorso esterno, la Meloni si infuria e ordina di rimediare, altrimenti come farà a partecipare alle celebrazioni palermitane? E dunque si tira fuori dal sacco una pacata sentenza della Cassazione di un anno prima (luglio 2022!), che negava la legittimità di quella micidiale espansione in via interpretativa, in difesa del diritto costituzionale alla riservatezza, e si decide di “correggerla” in favore di telecamera (secondo risalenti ed insistenti desiderata della Procura Nazionale Antimafia), con decreto-legge (l’urgenza era, ribadisco, la trasferta della Presidente). La purezza antimafiosa è riconquistata. Non è che il Parlamento abbia inteso cancellare questo scempio indecoroso, ma almeno, in un moto di ribellione e di residua dignità, ha pensato che si dovesse porvi un qualche rimedio. Nascono così, da una felice triangolazione Forza Italia-ItaliaViva-Azione, alcuni emendamenti, principalmente riferibili ai reati fuori dal catalogo mafioso. Obbligo di motivazione rafforzata del GIP; obbligo per la PG di “brogliacciare” anche le conversazioni a discarico dell’indagato, e divieto di menzionare anche solo per titoli o per sintesi le conversazioni irrilevanti per le indagini; recupero della più virtuosa giurisprudenza (sezioni Unite c.d. Cavallo) in tema di limitazione dell’uso delle intercettazioni come “pesca a strascico” di reati diversi da quelli per le quali esse sono state autorizzate. Lega e Fratelli d’Italia, seppur controvoglia, hanno dovuto, come si suol dire, abbozzare. Ora qualche buon segnale arriva anche per la riforma della prescrizione. Grazie alla medesima triangolazione esterna alla compagine governativa, sembra si vada verso un netto ritorno al regime di prescrizione sostanziale, cancellando nel modo giusto sia lo scempio della riforma Bonafede, sia l’astruso rimedio della riforma Cartabia. Insomma, segnali di vita dal Parlamento. Di questi tempi, un’autentica rarità. *Presidente Unione Camere Penali Italiane I magistrati di Area contro l’esecutivo: “Insofferente alle istituzioni di garanzia” di Mario Di Vito Il Manifesto, 30 settembre 2023 A Palermo il congresso della corrente delle toghe, la relazione di Albamonte. Oggi allo stesso tavolo Conte e Schlein: il campo largo alla prova della giustizia. Si parla di “tirannia delle maggioranze” e di potere giudiziario come “presidio di garanzia delle minoranze” al congresso di Area democratica perla giustizia, che si è aperto ieri a Palermo - a palazzo Chiaramonte Stersi, curiosamente sede per quasi due secoli di una prigione dell’Inquisizione spagnola - e si chiuderà domani. L’ha fatto il segretario Eugenio Albamonte nel suo discorso d’apertura, perfettamente in linea con il titolo del congresso: “Il ruolo della giurisdizione nell’epoca del maggioritarismo”. In platea i magistrati della corrente, ma anche ospiti come il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, che pure è intervenuto. È Albamonte però che, come in fondo era lecito aspettarsi, mena i fendenti più affilati. E l’obiettivo è per lo più il governo. “Da un anno a questa parte, nel nostro paese, i segnali di insofferenza delle forze di governo verso le istituzioni di garanzia si susseguono in modo allarmante attraverso vere e proprie campagne di delegittimazione”. Qualche esempio si ritrova nelle polemiche che in effetti hanno investito, in fila, l’Anticorruzione, la Banca d’Italia, il procuratore nazionale antimafia, gli uffici di bilancio della Camera e del Senato. Attacco anche alle riforme (in fase di costruzione o soltanto ventilate) del ministro Nordio: “Sotto l’ombrello della separazione delle carriere si nascondono norme insidiose per gli equilibri democratici. Un pm separato che non conduce più le indagini e non coordina la polizia giudiziaria, sarà strumento dell’iniziativa di quest’ultima, che, a sua volta, sarà alle dirette dipendenze del decisore politico”. Pinelli, nel suo saluto, ha ribadito la linea. “Da giurista ho sempre ritenuto fondamentali i principi di autonomia e indipendenza della magistratura - ha aperto -, irrinunciabili presidi di una giurisdizione dinanzi alla quale i cittadini devono potersi sentire uguali”. E ancora: “L’autonomia e l’indipendenza di ogni magistrato riposa, innanzitutto, nella soggezione del magistrato alla legge ed è strumentale all’esercizio imparziale e responsabile della”. Stamattina è previsto il momento clou del congresso: il maxi-tavolo che vedrà, tutti insieme, tra una buona dozzina di ospiti, il ministro della Giustizia Nordio, il leader del M5s Giuseppe Conte e la segretaria del Pd Elly Schlein. A proposito di questi ultimi due, la giustizia è uno snodo fondamentale dell’ipotetico campo largo prossimo venturo. E se in parlamento Pd e M5s sin qui sono riusciti a marciare uniti opponendosi alle varie iniziative della destra (spesso spalleggiata da Iv e Azione), resta un’incognita di fondo sulla compatibilità culturale tra la concezione della giustizia che ha il partito di Conte e quella che ha il partito di Schlein. Il dibattito di oggi sarà un primo stress test che aiuterà a capire l’aria che tira in questo senso. La magistratura ritrovi il suo ruolo, contro un governo insofferente alle istituzioni di garanzia di Eugenio Albamonte* Il Domani, 30 settembre 2023 L’esecutivo sta portando un attacco alla funzione interpretativa del diritto, che costituisce l’essenza del nostro ruolo nel sistema costituzionale, e alla liberta? di manifestazione del pensiero, soprattutto quando e? critico, da parte dei singoli magistrati e delle nostre associazioni. E? prodotto di recenti studi di politologia l’aver individuato un rapporto di forte connessione tra la maggiore o minore forza e coesione politica dei governi e l’attribuzione di spazi piu? ampi o piu? ristretti alla funzione giurisdizionale. Viene definito “tribunalizzazione della politica” il fenomeno in base al quale vengono trasferiti verso le corti giudiziarie temi politici e sociali di grande rilievo, per il fatto che la politica non abbia voluto o non sia stata capace di risolverli nelle sedi parlamentari. E cio? solitamente avviene o in ragione della difficolta? ad affrontare temi spinosi senza perdere di popolarita? o a causa della eccessiva ampiezza della composizione politica della maggioranza di Governo, che non e? in grado di trovare un minimo comun denominatore omogeneo per dare risposte alle istanze sociali. Anche quando la risposta del legislatore arriva, peraltro, questa e? frutto di estenuanti mediazioni che si traducono in una lettera normativa ambigua ed in un suo spirito incerto e confuso. Anche tale fenomeno contiene una implicita delega alla magistratura ed alla sua funzione interpretativa che e? tanto piu? ampia quanto piu? la legge e? mal scritta o ambigua e generica. Cio? e? avvenuto con grande evidenza in relazione a temi eticamente sensibili ma, in modo sotterraneo e ben piu? assiduo, ha riguardato questioni di primo rilievo nella definizione dell’identita? democratica del nostro Paese. Il trend e? destinato ad invertirsi quando la coalizione politica di Governo abbia una maggiore omogeneita? di principi e di programma e soprattutto sia investita di consenso maggioritario. In queste circostanze la fisarmonica della delega rimessa alla giurisdizione e? destinata a restringersi sia perche? e? ipotizzabile una piu? forte rappresentativita? dei valori dominanti nel Paese, da porre a fondamento delle scelte politiche e normative piu? sensibili, sia perché il drafting normativo, non piu? frutto di estenuanti compromessi, dovrebbe essere piu? netto ed incisivo e lasciare minori spazi all’interpretazione della magistratura. L’epoca del maggioritarismo non e? per cio? solo negativa. All’opposto abbiamo sempre sostenuto che la debolezza della politica determina l’inevitabile apertura di spazi, talvolta davvero eccessivi, rimessi con delega in bianco al potere giudiziario. Ed abbiamo più volte sottolineato come questo abbia determinato una sovraesposizione della magistratura, chiamata a sopperire attraverso il diritto giurisprudenziale all’immobilismo nell’azione politica del Governo e del Parlamento. Sovraesposizione che alla lunga impone alla magistratura di operare scelte dall’indubbio contenuto politico e che, quindi, ne puo? mettere in discussione l’apparente terzieta? rispetto agli opposti schieramenti che animano il dibattito sociale sui temi sensibili. Ben venga quindi una politica forte, con ampio consenso nel Paese e portatrice di valori netti, capaci di tradursi in testi normativi chiari cosi? restituendo le scelte politiche alla loro sede naturale. Se il maggioritarismo si limitasse a questo... Cio? a cui assistiamo invece va ben oltre: sia in Polonia che in Israele, ma anche in Ungheria, in Turchia, in Tunisia piu? di recente, tutti Paesi nei quali i Governi in carica hanno una investitura maggioritaria, viene espressamente rimesso in discussione il ruolo del potere giudiziario, a partire dalle rispettive Corti Costituzionali, quale presidio di garanzia delle minoranze ed argine alla “tirannia delle maggioranze”, attraverso il controllo di legittimita? sulle scelte normative operate dal Parlamento. Si sciolgono gli organi di autogoverno, si destituiscono magistrati autori di decisioni sgradite. L’insofferenza del governo - Nel nostro Paese, da un anno a questa parte, i segnali di insofferenza delle forze di Governo nei confronti delle istituzioni di garanzia si susseguono in modo allarmante attraverso vere e proprie campagne di delegittimazione che hanno colpito gia? l’Autorita? nazionale anticorruzione, il Governatore della Banca d’Italia, il Procuratore Nazionale Antimafia, gli Uffici di bilancio della Camera dei Deputati e del Senato... E non sono mancati gli interventi normativi gia? adottati e volti alla riduzione dei poteri di controllo attribuiti alla Corte dei Conti proprio in concomitanza con la spesa dei finanziamenti del PNRR. Come se tale attivita? non comportasse il concreto rischio di sviamento dei fondi pubblici, determinato dall’illegalita? politico-economica o dalla criminalita? organizzata. Ma il nodo centrale e? costituito dall’attacco portato alla giurisdizione ed ai diritti. Su questi ultimi abbiamo organizzato una tavola rotonda, che seguira? il mio intervento, e per brevita? rimando ad essa e ai nostri ospiti, che tracceranno il quadro degli interventi governativi, in parte programmati e in parte gia? eseguiti, e che sono funzionali a rimettere in discussione traguardi gia? conseguiti e che ritenevamo inviolabili nella salvaguardia dei diritti civili e politici, del lavoro, della liberta? di informazione, degli stranieri e dei migranti, del principio di indipendenza interna ed esterna della magistratura. Rivolgo invece la mia attenzione all’attacco portato alla giurisdizione. Che mi sembra mosso su diversi piani e a diversi livelli, tutti convergenti verso un drastico ridimensionamento del potere giudiziario quale strumento di controllo della legalita? del Paese, di tutela dei diritti, di contrasto ai fenomeni illegali. Un primo piano e? certamente quello dell’attacco portato alla funzione interpretativa del diritto; funzione che costituisce l’essenza del nostro ruolo nel sistema costituzionale. E? diffusa l’insofferenza per le decisioni che affermano e tutelano diritti che la cultura di Governo vorrebbe fossero negletti o fortemente ridimensionati. Anche quando quella tutela discende direttamente dai principi costituzionali e dalla normazione sovranazionale che l’Italia si e? impegnata a rispettare. Si pretende che l’attivita? di interpretazione si sviluppi non in linea con tali architravi ma in coerenza con i nuovi valori che si vanno affermando, ancorche? non ancora normativamente definiti. Si pretende sostanzialmente di sostituire il riferimento costituzionale che guida l’interpretazione con il sentimento diffuso nel Paese, rispetto al quale la maggioranza si propone interprete. E quando questo non avviene, e difficilmente potrebbe, immediata e? la reazione di rigetto, che confonde artatamente l’interpretazione del diritto operata dalla magistratura con la creazione del diritto riservata al legislatore e propone all’opinione pubblica l’immagine di una magistratura usurpatrice degli altri poteri e trasmodante in una funzione politica a lei estranea. Devo dire con rammarico che questa lettura e? condivisa anche ad alcuni orientamenti culturali interni alla magistratura che rimbalzano e riecheggiano, con linguaggio forbito, questa ricostruzione falsificata. La libertà di manifestazione del pensiero - Altro versante e? quello della liberta? di manifestazione del pensiero, soprattutto quando e? critico, da parte dei singoli magistrati e delle nostre associazioni. Anche qui la reazione e? veemente, ma solo quando il magistrato dice cose sgradite e non sintoniche al sentiment maggioritario. Si arriva a negare la liberta? di espressione, utilizzando strumentalmente ed in modo inappropriato una lettura del dovere di terzieta? del magistrato che aveva forse campo nell’epoca del regime e a brandire la minaccia disciplinare; potere del quale, peraltro abbiamo gia? dovuto contestare recenti utilizzi strumentali e in contrasto con le norme vigenti. Oltre alla liberta? di espressione dei singoli viene poi contestata la liberta? di associazione dei magistrati. Mai avremmo immaginato di dover difendere, nel dibattito pubblico, la liberta? dell’ANM, la sua piena legittimazione, ad intervenire sui temi delle riforme della giustizia e della magistratura come avvenuto in questo anno. E’ grave che anche segmenti autorevoli dell’avvocatura anziche? schierarsi a tutela della liberta? di espressione di tutti e anche nostra, avvalorino questa lettura antidemocratica di un principio cardine della giurisdizione quale la terzieta? del magistrato. Potrei continuare ricordando le aggressioni al ruolo e alla persona, subite da magistrati impegnati nella gestione di complesse indagini e relativi processi che coinvolgono personalita? politiche di primo piano. Tra queste la piu? grave e? certamente quella portata alla Procura della Repubblica di Firenze e in particolare ad alcuni di quei magistrati ai quali rivolgiamo la nostra calorosa solidarieta?. Ma per brevita? mi limito a rammentare l’ultima declinazione della campagna orientata a delegittimare il ruolo della giurisdizione e persino le decisioni giudiziarie. La definirei “revisionismo giudiziario” perche?, come nel revisionismo storico si tenta di rimettere in discussione la verita? dei fatti accaduti al fine di alleggerire il peso di responsabilita? politiche che grava sulle spalle degli eredi di risalenti e tramontate esperienze politiche che sono state drammatiche per il Paese. In questa nuova declinazione il revisionismo riguarda i fatti accertati da giudicati risalenti, tra i pochi che hanno fornito risposte reali circa la ricostruzione dei fatti e l’individuazione almeno parziale dei responsabili. Mi riferisco in particolare alla strage di Bologna. Risposte che si vuole rimettere in discussione attraverso l’utilizzo inappropriato delle commissioni parlamentari di inchiesta i cui esiti sarebbero scagliati contro le sentenze per inquinarne la credibilita? e cosi? travolgendo definitivamente l’autorevolezza di accertamenti, raggiunti all’esito di un impegno condotto con grande sacrificio da generazioni di magistrati. Le riforme - E fin qui nulla abbiamo ancora detto delle riforme. Anche in questo campo si distinguono due piani. Quello della riforma della magistratura e dell’organo di governo autonomo e quello delle riforme che riguardano la giustizia e, principalmente, lo strumentario di diritto penale sostanziale e processuale. In relazione al primo aspetto non voglio sottrarre argomenti a chi abbiamo invitato con grande piacere a partecipare alla nostra tavola rotonda proprio per approfondire il tema. Mi limito a ribadire cosa gia? detta piu? volte: sotto l’ombrello della c.d. “separazione delle carriere” vengono nascoste norme insidiose per gli equilibri democratici definiti dalla Costituzione, alcune di queste sono state piu? volte anticipate dal Ministro Nordio che si appresta a presentare un disegno di legge. Un PM separato che non conduce piu? le indagini e che non coordina la polizia giudiziaria sara? strumento dell’iniziativa di quest’ultima che, a sua volta, sara? alle dirette dipendenze del decisore politico da cui dipende funzionalmente e gerarchicamente. Verra? meno quindi lo scudo, fornito dalla nostra indipendenza e direzione delle indagini. Un presidio che, fino ad ora, ha impedito che il diritto penale venisse piegato in chiave securitaria, di diritto penale del nemico sociale della maggioranza di turno, di strumento di lotta politica da brandire contro l’opposizione, ed inguainare al cospetto delle illegalita? diffuse nelle file dei Governi e dei loro alleati politici ed economici. Anche l’intervento riformatore sull’art. 101 comma 2 della Costituzione inquieta e sgomenta. Se i giudici non sono piu? soggetti “soltanto” alla legge sono soggetti a “qualcos’altro” rispetto alla legge. Qualcosa che puo? interferire nelle loro decisioni e condizionarle, anche soltanto dall’interno degli uffici e della piramide giudiziaria, trasformando definitivamente il modello costituzione della giustizia, inquinandone la limpidezza e compromettendone l’affidabilita? e la reputazione nella comunita?. Quanto allo strumentario penale vengono subito in mente le nuove norme incriminatrici introdotte per contrastare i rave party ed i graffitisti che, in parallelo con la spinta turbocompressa in favore dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, definiscono una dimensione del diritto penale sempre inteso in chiave politica e classista. Caratterizzato da un marcato accento securitario che si accompagna alla blandizia verso segmenti di illegalita? che riguardano il potere politico ben piu? da vicino. E le stesse linee direttrici si leggono chiaramente nell’approccio agli strumenti investigativi, primi tra gli altri le intercettazioni telefoniche ed il trojan. Qui le limitazioni perseguite sono volte esclusivamente a tutelare la stessa classe politica ed amministrativa nonche? i settori economici a lei piu? prossimi, i cui reati vengono declassati tra quelli “di minor gravita?”. Mentre la propaganda legalitaria viene alimentata attraverso la sbandierata fermezza nel contrasto al crimine organizzato, come se i magistrati piu? autorevoli ed impegnati sul campo non avessero spiegato, con argomenti ed esempi concreti, la forte interconnessione tra quest’ultima criminalita? e l’illegalita? del mondo politico, amministrativo ed economico. La debolezza della magistratura - C’e? da dire che questa forte spinta al ridimensionamento del ruolo e della funzione della giurisdizione coglie la magistratura in una fase di debolezza. Una debolezza determinata da carichi di lavoro ingovernabili e crescenti, da carenze di persone e mezzi, dalla frustrazione determinata dai tempi lunghi e dalla scarsa effettivita? delle decisioni, da riforme che, come quella intestata alla Ministra Cartabia, spingono verso risultati misurabili soltanto attraverso il parametro della quantita? trascurando gli aspetti qualitativi. Che introduce procedure che complicano e rallentano invece di snellire, che vede una chiave di soluzione dei problemi nella gerarchizzazione, anche degli uffici giudicanti, nel conformismo acritico rispetto al precedente giurisprudenziale e nell’agitare lo spauracchio delle valutazioni di professionalita? e della responsabilita? disciplinare. Misure forse utili a governare una categoria di neghittosi e incapaci ma mortificanti per i magistrati italiani che tra mille difficolta? hanno mantenuto un livello alto di impegno e professionalita?. Spero di essere smentito ma non mi aspetto che il CSM voglia contrapporre, al disegno di restaurazione dell’attuale maggioranza politica, le energie necessarie e che solo pochi anni fa sarebbero state messe in campo, coralmente, da tutte le anime culturali della magistratura. Questo perche?, ad un anno dal suo insediamento, il nuovo Consiglio sembra anch’esso caratterizzato da logiche maggioritarie che vedono alleati i rappresentanti della magistratura conservatrice ed i laici espressi dalla stessa maggioranza di Governo, accomunati anche dalla condivisione di alcune posizioni. Mi riferisco, ad esempio, al tema dell’interpretazione delle leggi e del diritto alla manifestazione pubblica del pensiero da parte dei magistrati gia? sopra richiamati. In verita? sembra essersi creata anche una forte collaborazione operativa tra le stesse componenti della magistratura e le forze di Governo, che trova le sue articolazioni principali in Via Arenula e anche presso la Presidenza del Consiglio. Sembra difficile immaginare che questa intesa possa infrangersi al cospetto del disegno politico di complessivo ridimensionamento del ruolo della giurisdizione. Il Csm - Eppure, non e? una cosa buona che il CSM possa essere governato stabilmente da un unico blocco maggioritario che ne determini le scelte di alta amministrazione e di politica giudiziaria. Non e? bene perche? il CSM non e? organo di governo ma di garanzia e deve, nelle sue decisioni consentire a tutti i magistrati di riconoscersi e sentirsi rappresentati. Gia? in passato abbiamo assistito ad un Consiglio governato da una maggioranza stabile e pressoche? permanente. Ne e? seguito il consociativismo delle permanenti unanimita?, basate su logiche di spartizione correntizia. Ne? l’una ne? l’altra esperienza hanno fatto bene alla magistratura ed all’organo quanto potrebbe invece un Consiglio che, pur agendo attraverso l’inevitabile schema delle maggioranze, preveda una composizione volta a volta differente delle stesse, dando immagine concreta ad una contrapposizione tra differenti opzioni e valori e non di una aggregazione animata dal comune intento, seppur per finalita? differenti, di gestire da sola il potere che l’organo esercita sulla comunita? dei magistrati e sulla direzione e organizzazione degli uffici giudiziari. Certamente in questo anno il CSM non ha avuto modo ancora di affrontare i temi che evidenzino la radicale differenza tra la visione della giurisdizione largamente condivisa in magistratura e quella che viene prospettata dal Governo in carica. Ma alcune scelte, se valutate per le argomentazioni esplicitate, sono gia? indicative di valori che certo non possiamo condividere. Mi riferisco, per fare solo un esempio, ad una recente delibera che, per la nomina di un procuratore della Repubblica (proprio qui in Sicilia), preferisce un componente della Procura Generale presso la Cassazione ad un magistrato che aveva gia? positivamente svolto lo stesso incarico in altri precedenti uffici. Quella decisione si fonda sul positivo e prevalente apprezzamento di chi possa fare “nomofilachia circolare”, cioe?, immagino, una sorta di evangelizzazione delle giurisdizioni di merito attraverso la diffusione delle decisioni e dei principi affermati dalla Suprema Corte. Una scelta che tradisce una visione gerarchica e verticistica della magistratura, che pone al suo apice gli uffici di legittimita? e che nei fatti certamente interpreta fedelmente, anziche? contrastarlo, un disegno di arretramento rispetto all’idea di una giurisdizione orizzontale e diffusa che e? propria della Costituzione. Vedremo come si atteggera? la maggioranza consiliare alla prova delle tematiche che implicano scelte valoriali, come l’imminente circolare sull’organizzazione dell’ufficio del PM. Su questo tema e? la legge che finalmente pone riparo ai guasti di una eccessiva gerarchizzazione degli uffici e di una dirigenza senza controlli e senza responsabilita?, reintroducendo le Procure nel circuito tabellare. Non si tratta di rinunciare al necessario potere di indirizzo e di coordinamento del Procuratore ma di porre dei contrappesi ad un potere pressoche? assoluto che consente oggi, seppur nella sua patologia, di giungere alla mortificazione personale e professionale dei magistrati dell’ufficio, come avvenuto recentemente nella Procura della Repubblica di Nola, dove oggi, i giovani magistrati che hanno avuto il coraggio di denunciare gli abusi si trovano, loro, a subire un procedimento disciplinare. Dopo aver delineato il contesto, in modo certamente sommario ed impressionistico siamo arrivati al “Che fare?”. Come puo? un gruppo di magistrati come il nostro resistere e possibilmente reagire a questo disegno di alterazione profonda del modello costituzionale di giurisdizione? Che fare - Innanzitutto, possiamo e dobbiamo mantenere accesa la luce, coltivando la cultura del nostro ruolo e delle nostre funzioni per come sono state disegnate dalla Costituzione. Esclusivamente al servizio dei diritti e dei cittadini. Praticando quotidianamente tutti gli spazi che ci sono riservati nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto, con competenza e professionalita?, senza auto censurarci per compiacere il sentiment maggioritario o per timore di essere investiti da campagne mediatiche di delegittimazione, anche personale, orchestrate ad arte. Ponendo la massima accuratezza ed attenzione nell’assunzione delle nostre decisioni e nella redazione dei provvedimenti, nella consapevolezza che ogni distrazione, ogni scivolone verra? enfatizzato e strumentalizzato per delegittimare il nostro operato e l’intera categoria professionale. Dobbiamo essere consapevoli della posta in gioco e rendere consapevole l’intera magistratura dei rischi connessi alla realizzazione del disegno di restaurazione, nella convinzione che il modello costituzionale sul quale ci siamo formati sia ancora patrimonio culturale vivente ed intimamente condiviso tra i colleghi, comprese le generazioni piu? giovani che dobbiamo saper formare innanzitutto con l’esempio. Dobbiamo uscire dalle aule dei tribunali e partecipare al dibattito pubblico, ovunque si svolga, per spiegare ai cittadini che il drastico ridimensionamento del controllo giudiziario prima di ogni altra cosa colpisce l’effettivita? dei loro diritti. Dobbiamo saper fare rete coinvolgendo nella riflessione e nella critica le forze politiche e sociali che sono piu? affezionate al bilanciamento tra i poteri garantito dall’assetto ordinamentale vigente, la cultura giuridica, il personale amministrativo, alla cui dedizione dobbiamo tanta parte dei risultati perseguiti, l’avvocatura che dobbiamo sollecitare ad abbandonare le sterili contrapposizioni e a schierarsi per la preservazione di una giurisdizione realmente indipendente che non possono non avere anche loro a cuore. Dobbiamo farlo, possiamo farlo e sappiamo farlo, perche? siamo in possesso delle chiavi di lettura necessarie per capire la direzione che si sta prendendo e le conseguenze negative che ne verranno, forti degli strumenti culturali che vengono dai gruppi associativi che hanno dato vita ad AreaDG e del contributo dei tanti che si sono aggiunti. Siamo un gruppo di magistrati che ancora ritiene che la militanza culturale sia un valore e lo pratichiamo quotidianamente, attraverso un dibattito interno ed esterno particolarmente ricco ed effervescente. Siamo un gruppo di magistrati che non delega ad altri la rappresentanza ma nel quale ognuno rivendica il dialogo ed il confronto. In conclusione, di questa relazione, che e? l’ultima che rivolgo al gruppo nelle vesti di Segretario, mi concedo qualche ultima considerazione personale e qualche ringraziamento. Il ruolo di Area - In questi ultimi quattro anni AreaDG ha proseguito il percorso gia? intrapreso e si e? rafforzata nei contenuti e nella coesione. Molto si deve alla comunione di valori che ha tenuto unito il gruppo dirigente, le rappresentanze che si sono succedute in ANM ed al CSM, le dirigenze locali, i nostri rappresentanti nelle GES e nei consigli giudiziari. Una comunione di valori cresciuta nel dialogo continuo e nell’assoluta condivisione di strategie e di intenti. E? una modalita? d’essere che dobbiamo proseguire e se possibile intensificare, perche? costituisce la nostra forza e ci rende un soggetto attrattivo ed aggregante. Da parte mia sono stati anni di impegno ma anche di enorme soddisfazione, sono grato ed orgoglioso per la fiducia che avete riposto in me, per il sostegno e l’affetto che non mi e? mai mancato e che spero di essere riuscito a restituire, almeno in parte. *Segretario di Area “Diteci la verità su nostro padre” di Paolo Pandolfini Il Riformista, 30 settembre 2023 Lucia Borsellino, davanti alla Commissione parlamentare antimafia chiede di fare luce sui giorni prima della morte del magistrato che perse la vita in Via D’Amelio. “Vedremo se questa morte, se questo sacrificio, era evitabile”. Ha esordito così Lucia Borsellino, primogenita del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio, in audizione giovedì scorso davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Lucia è stata sentita assieme al marito e legale della famiglia Borsellino, l’avvocato Fabio Trizzino, per fare chiarezza sui tanti punti oscuri che ancora oggi impediscono di conoscere cosa effettivamente accadde in quell’estate del 1992. “Chiediamo che le componenti statuali a vario titolo e livello possano fare piena luce e senza condizionamenti su quelli che sono stati i dettagli della vita di mio padre, soprattutto negli ultimi 57 giorni tra le due stragi, anche grazie alle testimonianze dirette”, ha proseguito Lucia. “Fin da subito ci siamo resi conto che il corso delle indagini sulla strage nella quale mio padre perse la vita avrebbe creato dei depistaggi e questo ci ha portato a impegnarci direttamente, non solo partecipando ai processi ma anche portando istanze che abbiamo inviato in sedi pubbliche e istituzionali anche e soprattutto per il tramite della voce di mia sorella Fiammetta”, ha aggiunto. Non si può non rammentare il ruolo del falso pentito Vincenzo Scarantino, ideatore del più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana che iniziò con il ritrovamento dei resti della Fiat 126 carica di tritolo che uccise alle 16.58 della domenica 19 luglio 1992 Borsellino assieme agli agenti della sua scorta. Recentemente la Corte di Cassazione ha messo una pietra tombale sul processo Trattativa Stato Mafia, assolvendo il generale dei carabinieri Mario Mori e alcuni ufficiali del Ros che con Giovanni Falcone avviarono nel 1989 l’indagine del dossier mafia appalti, poi ripreso proprio da Borsellino in quei 57 giorni in cui il magistrato disse ad Antonio Di Pietro, in occasione del funerale del collega e amico d’infanzia, “dobbiamo sbrigarci”. Di Pietro, allora pubblico ministero a Milano, era impegnato in Tangentopoli. Fu Mori che dopo la sua assoluzione definitiva nel maggio scorso a sollecitare la politica a creare una Commissione di inchiesta sul dossier mafia appalti “per andare a fondo, perché, se come ha detto la sentenza del Borsellino Quater, l’inchiesta mafia appalti è la causa della strage, mi sembra doveroso per i morti e per i vivi che si trovi la verità.” Del resto fu Mori colui a cui Falcone aveva conferito la delega per avviare tale indagine con l’obiettivo di accertare la sussistenza, entità e modalità di condizionamenti mafiosi nel settore degli appalti pubblici nella provincia di Palermo, mettendo per la prima volta l’attenzione sugli interessi economici di Cosa nostra. “L’interessamento al dossier mafia appalti” per Trizzino “è la pista investigativa più meritevole di attenzione, in quanto plausibile causa di accelerazione nell’esecuzione della strage di via D’Amelio”. Scrivono i giudici sempre nella sentenza del Borsellino Quater che il magistrato “aveva mostrato particolare attenzione alle inchieste riguardanti il coinvolgimento di Cosa Nostra nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale”. “Borsellino io me lo immagino qui dietro di me, come era in quella foto, in cui si trova da solo nei corridoi del Palazzo di Giustizia a Palermo, che era diventato un luogo in cui non si trovava più a suo agio, al punto che lo ebbe a definire un nido di vipere”, ha aggiunto Trizzino, anticipando una ricostruzione che sarà fatta con il richiamo a dichiarazioni qualificate e sostenuta da documenti. “C’è un problema di strategia comunicativa”, ha continuato, riferendosi alla frase di Borsellino alla moglie Agnese Piraino: “Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica, forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”. “Ebbene in questa frase è sempre stato omesso il seguito “ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi ed altri”, ha puntualizzato l’avvocato della famiglia Borsellino. “Dobbiamo andare a cercare dentro la Procura di Palermo, quella che Borsellino chiamò “il nido di vipere”, per sapere se allora ci fossero in atto condotte che favorirono quel processo di isolamento, delegittimazione e indicazione come target e obiettivo di Borsellino e che sono quelle condizioni essenziali che hanno sempre preceduto gli omicidi eccellenti a Palermo”, ha quindi concluso Trizzino. “Le parole pronunciate da Lucia Borsellino e dall’avvocato Trizzino sono state così sconvolgenti e di tale importanza da meritare un approfondimento immediato. In particolare, il riferimento alle denunce presentate dalla stessa famiglia in merito alle affermazioni del giudice sul `nido di vipere’ che popolava la Procura di Palermo nel 1992”, ha affermato al termine dell’audizione la senatrice di Italia viva Raffaella Paita, componente della Commissione antimafia. “Credo che dovremmo chiedere perdono se non siamo riusciti in tutti questi anni a dare una risposta alle tante domande che fin qui ci avete posto, con sofferenza e amore. Abbiamo sentito il cuore batterci nei timpani. Vorrei che di questa Commissione non si avesse mai a dire che non si è fatto quello che si doveva fare”. Così invece la presidente della commissione Antimafia Chiara Colosimo. La audizione del legale della famiglia Fabio Trizzino continuerà lunedì prossimo. Roma. Carcere di Regina Coeli, il museo dei reietti di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 settembre 2023 Reportage dal più antico carcere italiano, dove le SS rinchiusero antifascisti ed ebrei, e che oggi raccoglie tossicodipendenti, malati psichici e homeless di Roma. Per il Campidoglio va chiuso. “Si potrebbe pensare di alleggerire il sovraffollamento dismettendo intanto la Terza sezione e trasformandola in una sorta di percorso storico-didattico a disposizione di tutta la cittadinanza, utile anche a combattere la sensazione di isolamento dei detenuti” Lo si potrebbe chiamare il carcere a chilometro zero. Dalle finestre degli uffici amministrativi che affacciano su via della Lungara, nel rione Trastevere, li si può guardare quasi in faccia, accampati proprio sotto il ponte prospiciente intitolato a Giuseppe Mazzini, sulla rive gauche del Tevere, accasciati su materassi raccogliticci, i detenuti di domani. Quelli che prima o poi saliranno i famigerati “tre scalini” di Regina Coeli. Non più “romani de Roma”, certificato che si acquisiva una volta proprio dal transito nel più antico delle carceri italiane, ma soprattutto giovani e giovanissimi migranti. Africani, maghrebini, asiatici… In generale, a parte la nazionalità, tossicodipendenti, malati psichici, senza fissa dimora e reietti di ogni genere. Sono loro che affollano ogni giorno, succubi senza via d’uscita del fenomeno delle “porte girevoli”, questo alveare di celle che si estende imponente fino alle pendici del Gianicolo. Su 53 detenuti suicidatisi dall’inizio dell’anno nei penitenziari italiani, secondo il report di Ristretti Orizzonti, cinque sono coloro che - tutti giovani - si sono tolti la vita qui, dietro una di quelle antiche finestre dove sono stati rinchiusi dal regime fascista anche molti dei padri della nostra Repubblica. Tasso di affollamento del 150% (“più di mille detenuti su 670 posti, ma - assicura la direzione del carcere - viene rispettata la disponibilità di uno spazio minimo di tre metri quadrati per ogni detenuto imposto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo”); spazi comuni praticamente inesistenti; turn over altissimo e, di conseguenza, impossibilità di pianificare un qualunque progetto di reinserimento (o inserimento, sarebbe meglio dire) sociale. Sono questi, insieme alla “vetustà” della struttura in parte tutelata dai Beni culturali e all’impossibilità di modificarne l’impianto, alcuni dei motivi che hanno spinto il gruppo consiliare del Pd a proporre l’ennesima mozione (una richiesta che si ripete di tanto in tanto da sempre: addirittura la prima volta, secondo alcune fonti storiche, fu nel congresso penale e penitenziario di Berlino del 1935) per la chiusura della Casa circondariale romana. Proposta questa volta votata però all’unanimità dall’Assemblea capitolina. Da sempre uno dei più ambiti edifici di Roma da parte delle mafie speculative di ogni risma, sull’antico carcere nato nel 1861 dall’annessione di due antichi conventi costruiti a metà del Seicento si sono immaginati i progetti più disparati (e milionari). Tutti irrealizzabili, però. “Non solo perché - spiega la direttrice Claudia Clementi, arrivata nel marzo 2022 da Bologna, dove per anni ha diretto il carcere più grande dell’Emilia Romagna - questo significherebbe trasferire più di mille detenuti non si sa dove, ma anche perché chiudere Regina Coeli significherebbe dover ridislocare buona parte degli uffici giudiziari di Roma, compresi il vicino Tribunale di sorveglianza, gli uffici del Garante nazionale dei detenuti e gli studi degli avvocati, perlopiù ubicati nel rione Prati, a due passi da qui”. Di fatto però, ammette anche Clementi, “probabilmente l’istituto così com’è è ingestibile”. Ma il problema sta a monte: “Per molti dei ragazzi che arrivano qui ogni giorno, la commissione del reato è l’ultimo dei loro problemi”. Doppia diagnosi e poli dipendenza segnano le vite della maggior parte dei detenuti. E non bastano le due unità dell’Asl di stanza nel carcere giudiziario romano - un lusso rispetto a molte altre strutture penitenziarie -, una di medicina di base e l’altra specializzata proprio sulle dipendenze e sulla salute mentale. Roma è una città dove l’aumento dell’uso di cocaina a basso costo lo si misura nel traffico, prima ancora che nelle fogne. E il carcere, come ovunque, è il suo specchio nascosto. Regina Coeli però è anche altro. Qui sono passati Antonio Gramsci, Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, Gaetano Salvemini, Alcide De Gasperi, Cesare Pavese e Luchino Visconti, Ernesto Rossi e molti altri prigionieri politici ed ebrei. Molte delle persone trucidate nelle Fosse Ardeatine o torturate in via Tasso vennero prelevate da queste celle. “Su questo carcere stanno studiando anche i ricercatori dell’università di Tor Vergata per un progetto finanziato dalla Germania al fine di rintracciare il luogo dove fu ubicato il primo gabinetto di polizia scientifica d’Europa (nel 1902, ndr), probabilmente in qualche scantinato oggi usato come magazzino”, racconta la dottoressa Clementi che accompagna il manifesto in una visita con molti paletti imposti ai giornalisti dal ministero di Giustizia negli ultimi cinque anni, grazie alle restrizioni volute dal ministro pentastellato Alfonso Bonafede. La Terza Sezione, che si dipana dalla prima delle due rotonde dell’antica struttura panottica, è originale, mai stata ristrutturata ed è sottoposta alla tutela dei Beni culturali per mantenere il più possibile la testimonianza di quello che fu la prigione dei nazisti, gestita direttamente dalle SS durante l’occupazione nazifascista di Roma. “La numerazione delle celle è stata cambiata nel corso dei decenni, perciò non sappiamo esattamente in quali celle vennero rinchiusi i detenuti politici come Pertini e Saragat, malgrado dalla descrizione della visuale esterna alle finestre presenti nei loro scritti si potrebbe intuire la collocazione”. Ogni anno, racconta ancora la direttrice Clementi, la comunità ebraica e le associazioni dei parenti delle vittime ricordano con una piccola cerimonia i loro congiunti antifascisti rinchiusi in queste celle. Una lunga e ricca storia penitenziaria, quella di Regina Coeli, che affianca quella propria dell’edificio e per certi versi addirittura la surclassa. Ed è da qui che bisognerebbe ripartire. “Si potrebbe pensare di alleggerire Regina Coeli dismettendo intanto la Terza sezione e trasformandola in una sorta di museo storico-didattico, con un percorso formativo a disposizione di tutta la cittadinanza, un modo per stabilire anche un contatto ulteriore e diverso tra il carcere e il resto della città, utile a tutti, soprattutto a combattere la sensazione di isolamento dei detenuti”, concordano la direttrice e il comandante capo fresco di nomina, Francesco Salemi. Perché, come dice Clementi, “la visita allo “zoo” (unica forma fin qui ammessa di contatto tra i reclusi e i rappresentanti delle istituzioni, ndr) non serve a nessuno”. Verona. Metadone in carcere: la lettera del detenuto e l’interrogazione di Tosi di Lillo Aldegheri Corriere Veneto, 30 settembre 2023 La lettera di un detenuto offre uno squarcio drammatico (e di prima mano) sul tema del “mercato nero” di metadone e di psicofarmaci all’interno del carcere di Montorio. Su queste vicende, l’ex sindaco Flavio Tosi, oggi parlamentare di Forza Italia, ha presentato un’interrogazione al governo, dopo che i suoi gruppi consiliari avevano depositato una mozione anche a Palazzo Barbieri. E intanto si attendono contatti tra la direzione del carcere e i vertici dell’Usl 9, per cercare di sopperire alla mancanza d’infermieri nel penitenziario. Proprio la scarsità di medici ed infermieri pare essere all’origine di un “mercato nero” tra le mura di Montorio ma anche di altre carceri italiane. Ed il meccanismo lo racconta anche la lettera di un detenuto, inviata all’associazione “Sbarre di Zucchero”, molto attiva nel dare sostegno a chi deve scontare la pena. Quando si viene arrestati, spiega il carcerato, passato anche da altri istituti di pena, è possibile fare richiesta di psicofarmaci: per molti detenuti sono davvero indispensabili, ma si può anche richiederli e poi non usarli, visto che i controlli medici, a causa della scarsità di personale, sarebbero rari. Un tempo, racconta la lettera, i medicinali venivano forniti dagli infermieri giorno per giorno, mentre ora (per la scarsità di addetti) vengono forniti in modo che bastino per diversi giorni. Chi li ottiene, e poi non li usa, li rivende a chi ne ha più bisogno, ottenendo in cambio (con una sorta di prezziario) denaro o altro. Lo stesso meccanismo verrebbe usato anche per creare un “mercato nero” di metadone, approfittando del fatto che non ci sono abbastanza medici o infermieri per controllare l’uso che viene fatto delle “dosi” consegnate ai detenuti. Il problema riguarda anche persone con problemi psichiatrici, talvolta gravi: le somministrazioni non possono essere seguite dal personale medico, a causa appunto delle carenze di organico, e ricevono la dose direttamente in mano, ragion per cui, spesso, possono evitare di assumendola ed invece rivenderla ad altri detenuti. Un meccanismo che penalizza chi davvero ha bisogno dei farmaci e che crea forme di criminalità e di abusi. Su questo tema sarebbero stati programmati incontri tra la direzione del carcere veronese ed i vertici dell’Usl 9, per cercare di aumentare il numero di infermieri disponibili. Flavio Tosi ha presentato un’interrogazione al Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e al suo vice, Francesco Paolo Sisto, chiedendo di avere informazioni sul numero e la tipologia di farmaci forniti ai detenuti nelle carceri italiane, con particolare riferimento alle strutture di Brescia e Verona, dove questa pratica è emersa. “Questa criticità ci è stata esposta dalla direttrice della casa circondariale di Montorio - spiega Tosi - ed è ritenuta sia da lei che dal sottoscritto causa di gravi disagi, talvolta anche con esiti fatali”. Tosi chiede di “andare in fondo alla vicenda senza reticenze o polemiche, poiché si tratta della sicurezza quotidiana di detenuti e lavoratori all’interno delle strutture carcerarie”. La consigliera comunale Patrizia Bisinella aggiunge che “la legge italiana parla di rieducazione e reinserimento dei detenuti, ma ottenere questi obiettivi senza intervenire su quanto avviene ogni giorno nella vita di chi è recluso dietro alle sbarre di una cella è impossibile”. Tosi ha intanto chiesto al sindaco Tommasi, di fare da tramite tra le aziende, le categorie economiche e la direzione del carcere affinché aumentino le possibilità di dare un lavoro ai detenuti. Sassari. La lettera dei detenuti: “Vi raccontiamo cosa succede davvero a Bancali” di Maria Verderame sassarioggi.it, 30 settembre 2023 Dopo la morte di Erik Masala, il 26enne trovato morto in cella a Bancali, i detenuti che si trovano reclusi nella casa circondariale di Sassari, hanno voluto far sentire la propria voce attraverso una lettera. La decisione di voler comunicare con il mondo esterno è arrivata dopo il grave episodio che ha coinvolto un loro compagno. I detenuti vogliono far conoscere le loro condizioni all’interno del carcere di Bancali, in particolare coloro che hanno avuto condanne inferiori a 4 anni e chi si trova ad aver scontato gran parte della pena, anche in condizione di buona condotta. I detenuti fanno sapere che sono tanti e che si sentono abbandonati e isolati dal mondo, costretti a stare in cella 18 ore e a vedere i loro affetti soltanto una volta alla settimana. Sovraffollamento e troppi detenuti con problemi psichiatrici - In particolare denunciano: “Ci sono persone con disabilità anche gravi, con età superiore ai 75 anni e patologie fisiche e psichiatriche. Ai detenuti, stando a quanto denunciano “non è possibile accedere ai benefici penitenziari come le misure alternative e la liberazione anticipata che, nostro malgrado, viene istituita in condizioni talmente minime che non permettono neanche ad un qualsiasi detenuto con pena in scadenza ormai prossima a pochi mesi, di uscire prima per raggiungere i nostri famigliari. Ciò nonostante la buona condotta, perché la liberazione anticipata, che per ogni semestre è di 45 giorni, non viene istruita dalla stessa area trattamentale. Parimenti si verificano le stesse condizioni su tutti i detenuti, che con i requisiti e i termini di legge raggiunti con buona condotta, ed essendo, in possesso altresì di accettazione e destinazione, nonché di lavoro con contratto e tutto il necessario, non vengono messi in condizioni di accedere al beneficio o alla misura alternativa”. Questo, secondo i detenuti, sarebbe alla causa di sovraffollamento, rivolte e anche gesti estremi all’interno della Casa circondariale, così come la presenza al suo interno di persone con disturbi psichiatrici e tossicodipendenze. L’aumento dei detenuti con gravi disturbi psichici era stato denunciato anche dalla garante regionale per i detenuti Irene Testa, i quali non dovrebbero stare all’interno del carcere di Bancali. Anche i sindacati avevano denunciato medesime problematiche, acuite dalla carenza di personale della polizia penitenziaria. Critica, infatti, stando alla denuncia dei detenuti, è la condizione dei più fragili all’interno del carcere di Sassari, i quali si trovano di fronte al “diniego, in quanto l’Area educativa relaziona detenuti compatibili al carcere e che non necessitano di cure territoriali, addirittura prendendosi gioco dei magistrati di sorveglianza che si affidano alle relazioni fornite dall’area trattamentale”. Sono tanti i detenuti che si trovano dentro Bancali residui di pena di pochissimi anni e addirittura mesi, più di una cinquantina di persone. Tra questi c’è un giovane straniero, che da diversi mesi attende la liberazione anticipata. “E’ stata più volte sollecitata all’area educativa, ma mai inoltrata all’apposito ufficio di sorveglianza, nonostante il fine pena sia previsto poco prima della fine dell’anno. Tutto ciò è vergognoso e ci sono numerose persone in queste condizioni”. I detenuti che stanno scontando la pena a Sassari hanno anche messo in luce la condizione ancora più difficile degli stranieri extracomunitari. “Queste persone, che escono per permessi premio per buona condotta devono lavorare come degli schiavi per produrre economia, chissà per chi. Altro che permesso premio, questo si chiama caporalato”. Erik Masala e gli altri - La morte di Erik Masala non è l’unica all’interno del carcere di Bancali. Altri suicidi o morti sono avvenuti all’interno della Casa circondariale sassarese. Tra questi c’è Salvatore Usai, morto nel settembre 2022 per overdose. Su questo caso i detenuti raccontano che le motivazioni del gesto sarebbero legare alla sua convivenza difficile all’interno della struttura penitenziaria. “Nonostante avesse scontato 7 anni ed era oltre la metà della pena, gli è stata negata la possibilità di accedere ai permessi premio e lo stesso, facendo una riflessione e vedendosi privato di ogni speranza, si è tolto la vita. Come Erik Masala, che, considerata l’età poteva essere il figlio o il fratello di ognuno di noi”. I detenuti rinchiusi nel carcere di Bancali hanno organizzato un’importante donazione ai famigliari di Erik Masala, per consentire loro di sostenere le spese per il funerale del giovane papà 26enne. I compagni del ragazzo si sono uniti in uno spirito di grande solidarietà sostenendo che il giovane “non doveva più nemmeno essere detenuto a Bancali in quelle condizioni”. Benevento. Detenuto morto, “Diversa condotta diagnostica avrebbe evitato l’arresto cardiaco” di Enzo Spiezia ottopagine.it, 30 settembre 2023 Così i periti nel processo a due medici per la morte di Agostino Taddeo. “In ultima analisi, una differente condotta diagnostica dei medici del Penitenziario di Benevento che prestarono la loro assistenza al detenuto, Sig. Taddeo Agostino in occasione delle osservazioni del 03 e 05 ottobre 2016 avrebbe evitato con elevata probabilità l’arresto cardiocircolatorio (per precoce individuazione e trattamento della causa dello stesso) che ne determinò l’exitus”. Sono le conclusioni alle quali sono giunti il cardiologo Gaetano Buonocore e il medico legale Saverio Terracciano, ai quali il giudice Daniela Fallarino ha affidato l’incarico di una perizia, per superare le consulenze del Pm, della parte civile e le due della difesa, nel processo a carico di due medici che, operando presso la casa circondariale di contrada Capodimonte in base a una convenzione con l’Asl, sono stati chiamati in causa nell’indagine sulla morte di un detenuto, Agostino Taddeo, 59 anni, avvenuta il 13 ottobre del 2016 al Rummo. Valutazioni, quelle dei periti, che dovranno superare il vaglio delle domande dei difensori delle parti: gli avvocati Angelo Leone, Vincenzo Regardi e Fabio Russo per la difesa, Vincenzo Sguera e Luca Russo per i familiari della vittima. La loro deposizione era in programma oggi, ma è stata rinviata. Secondo i periti, “dalla attenta disamina della condotta avuta dai medici in forze presso il Penitenziario di Benevento in occasione delle osservazioni ambulatoriali del 03, 04 e 05 ottobre 2016 emerge che le evidenziate omissioni diagnostiche (anamnesi, esame obiettivo, approfondimenti conoscitivi di natura laboratoristica e strumentale) e soprattutto la mancata disposizione del trasferimento del detenuto presso una struttura ospedaliera hanno sottratto al Sig. Taddeo la possibilità di una precoce diagnosi della sindrome coronarica acuta e delle conseguenze emodinamiche e, quindi, di prevenire il decesso con un idoneo approccio terapeutico erogato in tempi adeguati”. Gorizia. Lotta al caporalato, una questione di civiltà di Francesca Terranova rainews.it, 30 settembre 2023 Forum a Gorizia per fare il punto su un fenomeno ampiamente diffuso anche in Friuli Venezia Giulia: non sufficienti le risorse umane per reprimerlo in maniera adeguata. Gorizia, capitale europea della cultura: ma esiste una cultura se non c’è una cultura dei diritti? Con questa provocazione morale Enrico Sbriglia, presidente dell’Osservatorio regionale antimafia si rivolge agli esponenti di Cisl, Uil, Regione, ispettorato del lavoro e Confagricoltura presenti al tavolo, ospitato dal comune di Gorizia sul tema della lotta al caporalato. A sollevare il problema è Anna Limpido, dal 2021 consigliera di parità della Regione Fvg: che non è solo un ruolo di sensibilizzazione, spiega, ma è un pubblico ufficiale, quindi quando ha notizia di reato come lo sfruttamento ha l’onere di intervenire, anche processualmente. Non ha mai ricevuto notizie di caporalato ma non per questo si illude che il fenomeno non esista. Enrico Sbriglia, sottolinea che si tratta di “un fenomeno antico ed endemico dell’economia italiana. Oggi non è solo nell’agricoltura ma anche nell’edilizia e nell’industria. Perchè fingiamo di non vedere che c’è?” “Abbiamo le migliori norme in Europa per contrastare il caporalato” ha spiegato l’avvocata Teresa Dennetta, coordinatrice dei punti di ascolto antimobbimg di Gorizia e Udine e che si occupa di disagio lavorativo da 17 anni. I moderni schiavi sono quasi tutti uomini stranieri. Ma lo sfruttamento è una zona grigia molto vasta fatta anche di dimissioni in bianco o di ore di lavoro straordinario pretese e mai pagate. “Mancano risorse e incentivi per lottare contro tutto questo” conferna il capo dell’ispettorato del lavoro di Trieste e Gorizia Pierpaolo Guaglione. Le prime ad essere danneggiate sono le aziende virtuose. I criminali che schiavizzano il lavoro fanno concorrenza sleale. “L’immigrato cui un caporale offre lavoro e alloggio accetta perché spesso l’alternativa non c’è” fa notare Umberto Daneluzzi, direttore di Confagricoltura Fvg che spera il tavolo possa allargarsi in futuro al Fincantieri dato i problemi avuti con i subappalti a danno di operai bengalesi nel 2018. Mantova. Una possibilità in più: i detenuti diventano poeti primadituttomantova.it, 30 settembre 2023 “Comprovato l’effetto terapeutico della poesia: iniziativa che ha avuto un ottimo riscontro”. Un appuntamento anche a Cremona. Al via l’iniziativa “La parola come cura”: i detenuti nel carcere di Mantova si cimentano con la poesia. Previsto un appuntamento anche a Cremona. Dopo il successo della prima edizione, riparte la collaborazione fra casa circondariale di Mantova, Asst Mantova e associazione La Corte dei Poeti, che hanno dato vita al percorso che prende il nome di “La parola come cura”, un’iniziativa che porta la poesia in carcere e sta incontrando un grande riscontro fra i detenuti, entusiasti di potersi esprimere e confrontarsi con il mondo esterno. L’iniziativa rientra nel progetto Empowerment, a sua volta ricompreso nel macroprogetto Milione 4.0 di Regione Lombardia. Effetto terapeutico della poesia - È ormai assodato l’effetto terapeutico e riparatorio della poesia in tutte le sue forme di fruizione, lettura, scrittura e divulgazione. Molti dei partecipanti ai laboratori che si sono tenuti nei mesi scorsi hanno anche inviato i loro componimenti al premio nazionale di poesia “Terra di Virgilio”, ricevendo segnalazioni e vedendo pubblicati i propri testi sulla relativa antologia pubblicata da La corte dei poeti. I detenuti hanno inoltre avuto la possibilità di uscire dal carcere per partecipare alla cerimonia di premiazione che si è svolta durante il Festival Mantova Poesia lo scorso maggio. Tema centrale la consapevolezza di sé - A partire dalla stagione autunnale sono previsti tre incontri incentrati sulla consapevolezza di sé. Titolo della rassegna: La poesia rammenda i ricordi. Tutti gli incontri si svolgeranno nella casa circondariale di Mantova, dalle 14.30 alle 17, e saranno guidati da Roberta Pasotti, assistente sociale del Consultorio Familiare di Goito con un’esperienza significativa in attività laboratoristiche che puntano sull’uso della parola e sui suoi risvolti emotivi, quali ad esempio la scrittura autobiografica. Parteciperanno agli incontri anche la presidente de La Corte dei Poeti Lucia Papaleo, accompagnata da altri rappresentanti dell’associazione, e il coordinatore sanitario della Medicina Penitenziaria del carcere Laura Mannarini. È inoltre previsto un appuntamento nel carcere di Cremona, in data ancora da destinarsi, dove si testimonierà l’esperienza mantovana e verrà illustrato il premio di poesia per invitare anche i detenuti cremonesi ad aderire. Reggio Emilia. Mostra Liberi Art: “LiberiAmo l’Ambiente” di Anna Protopapa Ristretti Orizzonti Sabato 30 settembre 2023 alle ore 16.00 presso l’Eremo Laudato Si a Castelnovo ne Monti, si svolgerà l’inaugurazione della mostra Liberi Art “LiberiAmo l’Ambiente”, dedicata alla salvaguardia del creato. Liberi Art è un progetto rieducativo ideato dall’artista Anna Protopapa docente volontaria degli Istituti Penali di Reggio Emilia e realizzato con i detenuti della Casa Circondariale reggiana. Il progetto consiste nella realizzazione di quadri a temi sociali come ad esempio la violenza sulle donne, sui bambini, sull’ambiente, la Legalità, il bullismo. Sono tanti i temi che vengono affrontati con i ristretti partecipanti che poi si concretizzano con la realizzazione dei quadri. L’arte, un modo di rieducare i detenuti, ma anche di avvicinamento al dialogo per affrontare problematiche sociali, per riflettere, per rievocare e che offre la possibilità di esprimersi attraverso la creatività e per interagire anche con il mondo libero. Liberi Art è un cammino di crescita personale, di valorizzazione della persona che permette al ristretto di lavorare su stesso per migliorarsi, oltre ad acquisire competenze e scoprire i loro potenziali. La prima opera Liberi Art, fortemente voluta dall’artista Protopapa, è ispirata all’Enciclica di Papa Francesco “Fratelli Tutti”, per trasmettere attraverso la lettera del Santo Padre il messaggio universale dell’amicizia, della fratellanza, della solidarietà a cui noi tutti siamo chiamati a vivere dentro e fuori dal carcere. La mostra presenterà l’esposizione di 12 quadri realizzati, per lo più con materiali riciclati, dai detenuti nell’ambito del progetto rieducativo Liberi Art guidati dalla stessa artista volontaria tra i quali: “Mangiamo quello che inquiniamo”, “Salvaguardiamo l’ambiente: energia rinnovabili” e altri quadri a tema. Durante la stessa mostra inoltre saranno esposti anche 3 dipinti personali dell’artista A. Protopapa: “Il ritorno di Dante”, che mostra il Sommo poeta in una veste inedita. Altro dipinto dal titolo “26 Febbraio 2023: naufragio di Cutro”, realizzato con un pezzo del relitto della barca naufragata raccolto sulla spiaggia di Stoccato di Cutro da un sacerdote che ha poi donato all’artista. Infine il dipinto “Risorgere con la cultura” che l’artista Protopapa donerà al Dott. Gianni Ielli, Presidente del Gruppo Storico Folkloristico Il Melograno oltre a 350 segnalibri realizzati invece dai detenuti in segno di ringraziamento per aver accolto positivamente l’iniziativa. Durante l’inaugurazione il Presidente del Gruppo Storico Folkloristico Il Melograno donerà all’artista Protopapa dei materiali didattici che serviranno per le attività Liberi Art. L’educazione ambientale, dichiara l’artista, è un valore molto importante da trasmettere anche per chi vive dietro le sbarre: l’ambiente che purtroppo vediamo deturpato, violentato è lo specchio delle nostre azioni, così come per i detenuti la privazione della libertà personale è lo specchio dei loro errori. Alcune riflessioni dei detenuti che hanno affrontato questo importante tema: “Ogni volta che inquiniamo la natura seminiamo morte”, “La natura è come un animale in via di estinzione: va preservata, “Inquinare l’ambiente con rifiuti tossici, con la nostra mancanza di rispetto verso il creato è un atto criminale”. Un sentito ringraziamento al Presidente Gianni Ielli e al Direttivo del Gruppo Storico Folkloristico Il Melograno e al Sen. Fausto Giovanelli, Presidente del Parco Nazionale dell’Appennino Tosco Emiliano per la preziosa collaborazione e disponibilità. Un particolare ringraziamento alla Direzione degli Istituti Penali di Reggio Emilia, all’area educativa e al Corpo di Polizia Penitenziaria di Reggio Emilia per la collaborazione con la più profonda gratitudine verso gli uomini e le donne che tutti i giorni con dedizione e coraggio garantiscono la nostra sicurezza e quella degli stessi detenuti. Le opere in esposizione non sono in vendita perché il progetto Liberi Art si fonda su principi, valori umani, pertanto scevri da finalità monetarie e commerciali. Genova. “Voci dall’Arca” regala ai detenuti una diretta dal Carlo Felice rainews.it, 30 settembre 2023 “Un ponte tra cittadinanza e carcere, con i detenuti coinvolti”. Giunge alla sesta edizione “Voci dall’Arca” il progetto di musica e teatro civile che riunisce la cittadinanza con la popolazione detenuta e lo fa regalandosi un evento unico in anteprima come la diretta streaming per i detenuti di “A midsummer night’s dream” di Benjamin Britten del Carlo Felice. “Il sottotitolo di questa sesta edizione è ‘dato il posto in cui ci troviamo’ proprio perché è un teatro che si trova dentro la casa circondariale di Marassi, uno spazio aperto alla città. Un ponte tra carcere e cittadinanza - ha spiegato Mirella Cannata presidente di Teatro Necessario -. Un luogo dove si fa cultura e formazione professionale nei mestieri del teatro, dove le persone detenute sono coinvolte sia come attori che come tecnici per le compagnie ospiti che vengono a rappresentare il loro spettacolo”. Ben sette gli spettacoli già in cartellone sino a dicembre con un programma in divenire per il 2024. A sostegno della sesta edizione di questo progetto sia il Comune di Genova che Regione Liguria. “Un appuntamento che ormai è diventato centrale nella nostra città e regione - ha sottolineato Jessica Nicolini, coordinatrice regionale delle politiche culturali-. Inauguriamo una nuova stagione di una realtà che fa cultura da 20 anni, con un grande valore di inclusione sociale, grazie al coinvolgimento della popolazione detenuta che da anni viene portata sul palcoscenico del Teatro dell’Arca. Un’esperienza davvero innovativa e importante che si svolge sia dentro il carcere che nei teatri e che come Regione Liguria sosteniamo con convinzione”. “Un progetto che rientra nell’ottica in cui il carcere vuole essere proprio un modo per reinserire nella società persone ai margini - ha aggiunto l’assessore comunale al disagio e solitudine Francesca Corso - e questo credo che sia stato uno dei migliori metodi col quale farlo. Credo che il Teatro dell’Arca stia dimostrando come veramente si stia lavorando affinché queste persone in qualche modo possano riacquisire la propria vita nella più normale delle maniere e quindi credo che sia un esperimento molto riuscito in cui il comune di Genova continua a credere”. Pavia. Rosario Livatino, il killer del giudice di fronte alla reliquia della sua vittima di Anna Dichiarante L’Espresso, 30 settembre 2023 Accade nel carcere di Pavia: Paolo Amico, condannato per essere stato tra gli esecutori materiali dell’omicidio deciso dalla Stidda agrigentina nel 1990, partecipa alla cerimonia in ricordo del magistrato. Che dal 2021 è stato proclamato beato. Il killer medita davanti alla camicia sporca di sangue e ingrigita che la sua vittima indossava nel momento in cui incontrò il suo sguardo in un’estrema, vana, invocazione di pietà. Lui, il killer, si chiama Paolo Amico ed è stato condannato all’ergastolo tra gli esecutori materiali dell’omicidio. La vittima, invece, era Rosario Livatino: il “giudice ragazzino”, come l’hanno soprannominato per essere entrato in magistratura presto e per essere rimasto fermo ai 38 anni ancora da compiere. Era la mattina del 21 settembre 1990, quando il commando della Stidda siciliana di cui faceva parte Amico lo intercettò a bordo della sua automobile sulla strada statale Agrigento-Caltanissetta. E la camicia che s’era infilato quel giorno per andare al lavoro è diventata oggi una reliquia, esposta in alcune occasioni anche all’interno di istituti penitenziari: così, nella casa circondariale Torre del Gallo di Pavia, il 30 settembre questi due contrapposti destini s’incrociano di nuovo. Livatino è stato proclamato beato dalla Chiesa il 9 maggio del 2021, in virtù sia della sua fede sia dell’abnegazione con cui si occupò, da sostituto procuratore prima e da giudice a latere poi, di indagini e processi a carico della criminalità organizzata agrigentina. La sua reliquia arriva a Pavia per una serie di iniziative dedicate alla sua figura e organizzate dal Centro di solidarietà “Giò Bonomi”, dall’Unione dei giuristi cattolici e da varie istituzioni cittadine. Sono stati i promotori a chiedere che venisse esposta anche in carcere, perché la forza di un simbolo talvolta riesce a smuovere le coscienze nel profondo. Una richiesta accolta con convinzione da Stefania Mussio, direttrice della struttura dal marzo scorso; lei stessa, nel 2017, all’epoca in cui guidava il carcere di Sondrio, fu insignita di un riconoscimento speciale per l’impegno sociale dalla giuria della XXIII edizione del premio internazionale intitolato a Livatino. Un momento denso di significato, a cui si aggiunge la presenza di Amico. “L’ho conosciuto a Voghera, dov’era recluso in regime di alta sicurezza e dove io sono stata per un lungo periodo direttrice”, ricorda Mussio: “Lì è cominciato il suo percorso trattamentale, incentrato sul lavoro come strumento principale di recupero e di rieducazione, che gli ha permesso in seguito di essere trasferito nel circuito della media sicurezza a Milano Opera. Ora, spero che la possibilità di venire a Pavia con un permesso e di raccogliersi di fronte alla reliquia rappresenti un passo ulteriore verso la revisione critica dei fatti di cui si è reso responsabile”. Il killer e la vittima, entrambi possono trasmettere un messaggio alle circa 670 persone ristrette a Torre del Gallo. I vincitori del Premio letterario Carlo Castelli per detenuti di tutta Italia primapaginanews.it, 30 settembre 2023 Primo posto per il testo “Quelle mani sfiorite”. Ieri, venerdì 29 settembre 2023, presso la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, si è svolta con grande emozione la cerimonia di premiazione della XVI Edizione del Premio Carlo Castelli, un prestigioso concorso letterario dedicato ai detenuti delle carceri italiane. Questa edizione speciale commemora il 25° anniversario dalla scomparsa del volontario carcerario Carlo Castelli, a cui è stato intitolato il concorso, un tributo sentito alla figura che ha ispirato questa iniziativa di valore umanitario. Il Premio Carlo Castelli è un evento organizzato e promosso dal Settore Carcere e Devianza della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV, il quale coinvolge detenuti provenienti da penitenziari di tutta Italia, offrendo loro un’opportunità unica di esprimersi attraverso la scrittura. Ogni anno, un carcere o un Istituto Penitenziario Minorile (IPM) viene scelto come sede della cerimonia, durante la quale vengono letti e premiati i racconti selezionati da un’apposita giuria. Il tema di quest’anno, intitolato “Diario Dentro, pensieri dalla mia cella”, rappresenta la routine quotidiana dei detenuti, una sequenza inarrestabile di giorni monotoni. In questo contesto, la scrittura assume un ruolo essenziale, fungendo da strumento per affrontare il passato, elaborare il dolore e coltivare la speranza in un futuro diverso. I racconti dei detenuti ci offrono un’opportunità unica per acquisire una maggiore comprensione di una realtà spesso misconosciuta e ci trasmettono un messaggio potente di responsabilità, indirizzato a coloro che vivono al di fuori delle mura carcerarie. “La scrittura è un potente mezzo di recupero e trasformazione, che aiuta i detenuti a esplorare e condividere le loro esperienze, a ricostruire legami con il mondo esterno e a intraprendere un nuovo percorso di vita,” afferma Paola Da Ros, Presidente Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli. I racconti vincitori della XVI Edizione del Premio Carlo Castelli sono stati: Primo Classificato: “Quelle mani sfiorite”, un monologo, una profonda riflessione dentro la propria cella, di notte. L’autrice ripercorre momenti tragici tramite la descrizione di: “quelle tue mani che un giorno si sono sporcate, non di lavoro, ma di vita”. Solo alla fine della narrazione si alza una speranza di libertà: “il mio pensiero non avrà mai una prigione”. Secondo Classificato: “Scene di una prigionia”, un racconto che descrive la vita carceraria con una dualità di visioni: il giorno, caratterizzato da rumori assordanti, e la notte, in cui il silenzio è spezzato solo da qualche detenuto in sofferenza. Il testo riflette sulla povertà spirituale precedente alla detenzione e pone una domanda inquietante: “Mi chiedo se, a lungo andare, questa ristrettezza di spirito si impossesserà anche di me…” Terzo Classificato: “I…. “SE”….”, un racconto toccante che narra di un tragico evento all’interno del carcere di notte. Il racconto si concentra su Elena, che assiste a un suicidio nella sua cella. Il tema, purtroppo, è drammaticamente attuale, e il racconto porta il lettore a riflettere sui “se” che sembrano non avere fine. La XVI Edizione del Premio letterario Carlo Castelli ha riaffermato il potere della scrittura come uno strumento fondamentale per i detenuti, un ponte tra il loro mondo interno e l’esterno. “Nei prossimi mesi, ci impegneremo a diffondere e condividere questi testi nelle scuole, nei seminari e all’interno delle comunità, perché la forza della scrittura è trasformatrice. Ogni opera che giunge alla Federazione porta con sé pesanti fardelli, storie di rei e vittime che non dobbiamo mai dimenticare. Queste storie richiedono cura, rispetto e attenzione costante. Nulla deve andare perduto” conclude Giulia Bandiera, Delegato Nazionale Settore Carcere e Devianza. Valerio Bispuri: “La malattia mentale è ancora invisibile. Fotografo i dimenticati” di Michele Smargiassi La Repubblica, 30 settembre 2023 Con il suo nuovo libro, il fotografo racconta la malattia mentale in Africa e nel Paese di Basaglia: “Nessun intento di denuncia. volevo solo mostrare una umanità nascosta”. Il fotografo del lato oscuro della vita è un cinquantenne romano dal sorriso aperto e ottimista. Non diresti che Valerio Bispuri, fotografo dell’umanità nascosta, abbia passato anni della sua vita nelle galere sudamericane o nei manicomi africani. Ma anche italiani. La malattia mentale è l’ultimo continente che ha esplorato, in un lavoro durato anni. La mappa è ora un libro, Dimenticati, che difficilmente lascia indifferenti. Una delle tue immagini mostra le gambe di un paziente psichiatrico legate al letto in una struttura italiana. Basaglia è passato invano? “C’è una legge, in Italia, che autorizza ancora queste forme di contenimento. È molto discussa, certo. Ho esitato a inserire quella fotografia, ma se l’avessi esclusa avrei negato un dato di realtà. No, Basaglia non è passato invano, la sua riforma ha liberato dalla sofferenza inutile e dall’oppressione migliaia di vittime delle istituzioni totali. Ho visitato anche case-famiglia, piccole comunità, ho trovato belle esperienze. Ma la malattia mentale esiste, e in molti casi, anche qui da noi, è ancora invisibile, nascosta, negata”. Più di cinquant’anni dopo Morire di classe, il libro in cui Franco e Franca Basaglia chiesero proprio alla fotografia di mostrare l’invisibile, tu fotografo torni su quei passi. C’è bisogno di un nuovo lavoro di denuncia? “Nessuna denuncia. Vorrei che si capisse bene: io cerco un’altra cosa. Il mio non è un lavoro politico, non direttamente. Cerco umanità. Cerco di esplorare il mondo interiore di persone che nessuno ha piacere di frequentare. I dimenticati. L’ho fatto con i carcerati, l’ho fatto coi sordomuti…”. Da quando i malati mentali? “Ero a Buenos Aires per il lavoro nelle prigioni, che sarebbe diventato il mio libro Encerrados. Mi fu data la possibilità di entrare nel manicomio del Borda. Scoprii un mondo che ben pochi hanno visto”. Quelle immagini sono nel libro? “No. Mi lasciarono entrare solo per una settimana poi si stufarono di avermi fra i piedi. Una settimana è troppo poco. Avevo fatto pochissime foto”. Perché poi hai scelto l’Africa? “Lì è tutto estremo e difficile. La malattia mentale è una condizione riconosciuta, molto a fatica, solo da una decina d’anni. Anche le organizzazioni umanitarie hanno dato la precedenza alle epidemie, alle carestie, alle catastrofi, alle vittime delle guerre. Non era una emergenza visibile”. In Italia abbiamo una storia di impegno, invece. Perché hai scelto di mescolare immagini africane e italiane? Vuoi suggerire che non c’è differenza? “Non è un attacco al sistema italiano. Le condizioni sono molto diverse. Ma se avessi tenuto distinte le due realtà avrei dato l’idea di due generi di uomini diversi. Non è così. La malattia mentale è, nel fondo, la stessa ovunque. L’analogia che vedi è nella malattia, non nel contesto. A me interessa l’essere umano. In realtà questo lavoro avrebbe dovuto riguardare solo l’Africa. Ma dopo i primi viaggi tra Kenya e Zambia è scoppiato il Covid. Bloccato in Italia, mi è stato chiesto dall’Espresso un servizio sulla malattia mentale ai tempi della pandemia. Ho visitato le case-famiglia, gli Spdc, le Rems che sono le eredi dirette del sistema manicomiale, poi ho scoperto un mondo di piccole realtà nascoste, come i “repartini” psichiatrici delle carceri dove ci sono persone depositate lì, stranieri, senza famiglia alle spalle. Quel servizio è stato preso male. Ha sollevato polemiche che non mi interessavano”. È In Africa, però, che hai incontrato il tuo eroe… “Grégoire. Una persona unica. Non so neppure come definirlo… Un santo? Faceva il meccanico, ebbe disavventure, crolli psichici, recuperò, scelse di lavorare per i malati di mente. In Benin sono considerati una specie di demoni, alcuni vengono legati agli alberi e lasciati lì. Grégoire li andava a prendere per la strada, li portava nella sua comunità, una casa abbandonata. Non è uno specialista, ma ha un dono. Io l’ho visto: il più scalmanato, agitato, infuriato, lui riusciva a calmarlo con un tocco delle mani, con chissà quali parole sussurrate. Ho vissuto nella sua comunità, molti dei suoi assistenti erano stati suoi ricoverati. Un miracolo”. Sembra voler dire che la scienza psichiatrica arriva fino a un certo punto… “La malattia mentale è un continente vasto e sconosciuto. Tante persone se ne occupano, ma la soluzione universale non esiste. Ogni persona è colpita a modo suo, unico. Io ho cercato di esplorare quel continente”. Cosa hai trovato? “Due cose. Che la malattia mentale è la forma più assoluta di sofferenza. Il contesto conta fino a un certo punto, può scatenare, aggravare, ma qualcosa che è già lì, cristallizzato in una emotività, in un mondo inaccessibile. Seconda cosa: non si guarisce mai davvero. Si migliora, si può guadagnare una vita accettabile, trovare un posto nel mondo, ma non c’è mai una fine, qualcosa nel profondo ti accompagna sempre”. La storia del rapporto fra fotografia e psichiatria è antica, e non sempre felice... “È una storia di oppressione ma anche di liberazione. Prima di cominciare il lavoro ho parlato a lungo con Gianni Berengo Gardin, che con Carla Cerati realizzò quel libro fondamentale che hai citato. Dopo cinquant’anni ho ritenuto necessario tornare a vedere cos’è la condizione psichiatrica. La fotografia aveva abbandonato il campo. Alcuni fotografi hanno colmato il vuoto ma non in Italia: Raymond Depardon in Francia Alex Majoli in Grecia”. Denunciare le condizioni del malato mentale ha voluto dire rischiare di costruire il cliché del “matto”, urlante, con lo sguardo perso, accasciato, con la testa fra le mani. Come hai affrontato questo rischio? “Prendendomi tempo. Se un lavoro così lo fai in una settimana, il cliché è inevitabile. Ho passato ore a giocare a carte coi pazienti, a guardare la televisione con loro, senza fotografare. Amo il tempo non fotografico del mio lavoro. Mi permette di osservare con calma, di rendermi percepito, abituale, accettato. Non trovi solo foto di sofferenza nel libro: anche quotidianità, sorrisi, abbracci. Gesti. È incredibile quanto siano gli stessi in contesti lontanissimi. Fumare. Una certa ossessione per il cibo… C’è una specie di lingua dei gesti comune a tutti, un modo specifico di abbracciare, di sorridere, di guardare…”. Il bianco e nero? “Mi riconosco in una tradizione. In un linguaggio. Voglio che si capisca. Ammiro il lavoro dei grandi, Berengo, Scianna, cerco di aggiornare il loro modo di raccontare. Nella fotografia contemporanea, anche giornalistica, vedo troppa freddezza, un’attenzione assoluta al contenuto, al messaggio, e una assenza di emozione, di coinvolgimento. Il fotografo scompare. Ma a me le dita tremavano, quando facevo certe foto”. Nella vita sei una persona solare. Da dove viene questa attrazione per il lato oscuro dell’uomo? “A tredici anni ho letto Il conte di Montecristo. Una storia meravigliosa di privazione, oppressione, riscatto. Mi ha segnato: non riesco a non chiedermi che cosa c’è alla radice dell’ingiustizia, nel cuore dell’uomo. La mia serenità è uno schermo, mi protegge. In realtà dormo malissimo e soffro di incubi. Ma questo non conta, devo essere sereno perché altrimenti finisco per mettere troppo di me nelle mie fotografie, e questo non va bene”. Yuri Ancarani: “La violenza maschile sulle donne è probabilmente il problema principale d’Italia” di Bianca Bozzeda ilgiornaledellarte.com, 30 settembre 2023 La protagonista dell’ultimo film dell’artista ravennate, presentato all’80ma Mostra di Venezia e nelle sale a novembre, è Marina Valcarenghi, psicoanalista che per prima ha lavorato nelle carceri con detenuti condannati per reati di violenza sessuale. Presentato nell’ambito delle Giornate degli Autori della 80esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia ed entrato nella collezione del Museo del Novecento, il nuovo film di Yuri Ancarani (Ravenna, 1972) “Il popolo delle donne” affronta il tema della violenza degli uomini sulle donne attraverso le parole di Marina Valcarenghi, prima psicoanalista italiana ad essere entrata in contatto con i detenuti per reati di violenza sessuale già trent’anni fa. L’analisi del fenomeno in preoccupante crescita prende la forma di una lectio magistralis ambientata nel Cortile Legnaia dell’Università Statale di Milano. Ancarani, com’è nato l’incontro con Marina Valcarenghi? Ho conosciuto Marina durante le riprese di “Atlantide” (2021, Ndr) tramite un amico in comune. Le nostre conversazioni sono state molto utili per capire il modo di pensare di un ragazzo emarginato come Daniele, il protagonista del film. Tra i vari argomenti, si parlava del gruppo, del branco, di violenza, di atteggiamenti maschili. Marina spiegava in maniera molto semplice: da lì è nata la volontà di dare a tutti la possibilità di ascoltare le sue parole. E quello con l’artista Caterina Barbieri, compositrice della colonna sonora del film? Quando sono in montaggio ascolto molta musica. Volevo trovare un brano in grado di mantenere un ritmo che accompagnasse lo spettatore in un atteggiamento riflessivo. È qualcosa a cui non siamo più abituati. Ho ascoltato molto l’album “Fantas Variations” di Caterina Barbieri, e mi sono innamorato di “Fantas For Electric Guitar” suonato assieme a Walter Zanetti. È il brano perfetto per la colonna sonora del film. Lei dice spesso che sono “i luoghi pericolosi” ad attirarla e a ispirare il suo lavoro. Anche “Il Popolo delle donne” è un luogo pericoloso: non soltanto per il tema che affronta, ma anche perché è un lavoro sulla violenza sulle donne girato da un uomo. È la preoccupazione per la sempre maggiore violenza sulle donne ad aver dato origine al film, oppure la messa in discussione di sé? È da tempo che rifletto al tema della violenza maschile sulle donne, probabilmente il problema principale d’Italia. Credo di aver iniziato a pensare di fare un lavoro su questa tematica mentre realizzavo “San Siro” (2014, Ndr), luogo di intrattenimento dove tutti vanno come fosse un luogo di culto. Lì ho fatto un’overdose di mascolinità. Poi con Marina c’è stato il colpo di fulmine. Per quanto riguarda la pericolosità del tema, credo che un grande pericolo di oggi sia la comfort zone. Il comfort non mi interessa: voglio che i progetti siano delle sfide, e questo tema mi è sembrato una sfida molto interessante. Il film è il frutto della ricerca di una vita di Marina, e abbiamo pensato a questo lavoro insieme. Era importante creare un gruppo eterogeneo che si occupasse di questo tema. Nel film, Marina Valcarenghi parla dell’”avanzata della squadra femminile” e della “reazione isterica” degli uomini di fronte alla sempre maggiore presenza di donne in posizioni di rilievo, sia nell’ambito familiare sia in quello professionale. Le sue riflessioni hanno avuto un impatto sul modo in cui lavori? Da quando ho visto il film, e forse sono la persona che lo ha visto più volte, mi accorgo ogni giorno di certe dinamiche, le osservo, le studio, e se sono io ad aver fatto un errore, mi correggo. C’è un passaggio in cui Marina Valcarenghi spiega come “la violenza maschile sia direttamente proporzionale all’insicurezza femminile”: alla fine del film, però, si direbbe piuttosto che la violenza maschile sia direttamente proporzionale alla propria insicurezza, e non a quella altrui. Ci sono state delle reazioni da parte del pubblico a questo proposito? Il film in sintesi propone di scardinare i nostri stereotipi, da entrambi i sessi: anche i passaggi che possono apparire negativi, sono un grande invito a partecipare attivamente all’analisi e a reagire. Non è un film che cerca il consenso, ma invita a sollevare una riflessione comune. In una delle ultime scene lei entra in campo per “guidare” la videomaker in modo che non vada a sbattere contro la sua telecamera. C’è una certa onestà e trasparenza nell’aver mantenuto questa scena nel montaggio: potrebbe essere interpretata come l’ennesima intrusione maschile nell’azione e nel lavoro di una donna. È stata una scelta consapevole? È un semplice gesto da set, un fuoriscena che ho voluto mantenere per lasciare spazio alla libera interpretazione. La distribuzione del film, a cura di Barz and Hippo, inizierà il 13 novembre. Come pensa reagiranno le sale italiane? Sono entusiasta di questa opportunità. Il film è prodotto da Dugong Films con il sostegno del Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano e di Acacia (Associazione Amici Arte Contemporanea Italiana, Ndr). È un film semplice nella composizione visiva, girato in economia. Sono sicuro che questa semplicità verrà premiata e il film godrà di una buona visibilità. In questo momento rifletto molto sugli scioperi legati al rapporto tra scrittura cinematografica e intelligenza artificiale che si sono verificati negli Stati Uniti. Ma di quale scrittura parliamo? Il cinema americano non ha più scrittura, i temi sono sempre uguali, girano per la maggior parte attorno alla figura dell’uomo vincente. Molti film d’azione potrebbero essere benissimo scritti dall’intelligenza artificiale… Un progetto così diverso come “Il Popolo delle donne”, invece, non può essere scritto dall’intelligenza artificiale, perché ci vuole una vita intera e un’esperienza come quella di Marina Valcarenghi. Credo sia un film che tutti dovrebbero vedere. “Non è la mia Africa, è la loro”. Intervista a Matteo Garrone su “Io capitano” di Paola Zanuttini La Repubblica, 30 settembre 2023 “I migranti sono i portatori dell’epica contemporanea, e il mio è un grande romanzo d’avventura”. Il regista racconta come è nato il film che rappresenterà l’Italia ai prossimi Oscar. Matteo Garrone abita, anzi abitava, nella ex casa - corredata di scala acrobatica, giardino e topi (forse ratti) - del guardiano degli Stabilimenti De Paolis, praticamente la Cinecittà della Tiburtina, oggi ribattezzati Studios. Abitava, perché ha litigato con il proprietario e quindi lo becco in pieno trasloco, col passato in reflusso da armadi e cassetti e due lampade da terra, con le piantane a forma di corpo femminile in abito da sera e i paralumi al posto della testa, che sembrano domandarsi: ci terrà o ci lascia? C’è anche una gattina in ansia per il futuro: salta in braccio al regista poi viene da me, cammina sul tavolo, rischia di spegnere il registratore, fa le fusa e mette in campo tutto il repertorio di carinerie per ingraziarsi il destino. Già, perché Garrone è uno da cane e non sembra intenzionato a portarla nella casa nuova. La micia gli è stata semplicemente prestata da un’ex fidanzata per sgominare i topi, che zampettavano anche sotto il letto: compiuta la missione, rischia di tornare dalla legittima proprietaria e dal suo stuolo di barboncini toy. Niente contro i barboncini toy, ma peroro caldamente la sua causa prima di cominciare l’intervista su Io Capitano, Leone d’argento a Venezia, che è andato dal Papa e da Mara Venier, è il candidato dell’Italia per gli Oscar e regge bene al botteghino, sebbene affronti il tema al momento più divisivo in Italia: l’immigrazione. Questo film, lo dice lei, è popolare, ma è anche più “buono” rispetto a molta produzione precedente. Perché in questa odissea di due giovani senegalesi non inquadra l’orrore come in altri film? “L’orrore c’è ed era giusto che ci fosse, ma ho cercato di non speculare sulla violenza. Ho cercato di raccontarla attraverso gli occhi di Seydou, il protagonista. Mi sembrava più forte per lo spettatore vederne il riflesso nei suoi occhi. Per esempio, nei campi di detenzione libici, mi soffermo a lungo sul suo primo piano nella sala della tortura mostrando quasi niente, giusto un attimo, per far capire in che situazione si è trovato. E poi non indugio”. Per Gomorra era stato accusato di indugiare... “Non ricordo queste critiche per Gomorra, semmai per la vecchia storia che ci portiamo dietro dal Neorealismo: i panni sporchi si lavano in casa, non si dà all’estero un’immagine dell’Italia preda della criminalità. Ma la violenza per me è sempre stata ed è funzionale al racconto e al personaggio. Quindi serve per aiutare a capire a fondo le sue conflittualità, il dolore che vive. Oggi sono i migranti gli unici portatori dell’epica contemporanea. E questo film, essendo un grande romanzo d’avventura, con personaggi che vengono dal popolo, non ha sovrastrutture complicate, intellettuali”. Ripeto: non è che con il passare degli anni è diventato più buono? È successo anche a Quentin Tarantino, che chiude i suoi ultimi tre film con degli happy end anomali. “Me l’ha chiesto anche il critico del Guardian. Una parte del pubblico ha amato molto il film e un’altra l’ha trovato un po’ troppo, diciamo, patinato. Ma ci sta, giri un film e fai delle scelte, no? Non sono diventato buono, sono diventato padre e forse questo ha influito sui miei film. In Dogman, il protagonista ha un forte rapporto con la figlia. Pinocchio è un racconto di formazione e Io capitano è molto pinocchiesco: Seydou e Moussa abbandonano le madri come Pinocchio lascia Geppetto per il Paese dei balocchi”. Quanti anni ha suo figlio? “Quindici”. Più o meno come Seydou e Moussa, che non fuggono da guerre, regimi, persecuzioni o carestie: vogliono diventare musicisti di successo e firmare autografi ai bianchi. Scelta autoriale laica e antiretorica, ma che può dar fiato al coro di chi i migranti li odia: si è posto il problema? “C’è chi scappa da guerre, da povertà estrema o cambiamenti climatici, ma in Africa ci sono 52 Stati, quindi quando fuggi da un conflitto e non hai nulla, la cosa più facile è spostarti nel Paese accanto perché affrontare un viaggio verso l’Europa costa molti soldi. Ho semplicemente dato voce a dei racconti ancorati a storie vere, documentabili, persone che mi dicevano di essere partite perché volevano in qualche modo cercare fortuna, avere accesso a un mondo che poi è un mondo globalizzato, perché i social ci sono anche in Senegal. I miei due ragazzi vengono da una povertà dignitosa, qualcosa come l’Italia degli anni Cinquanta, c’è il piatto a tavola e c’è questa capacità di relazione delle famiglie numerose, dove la sera ancora si raccontano le storie, invece di stare attaccati ai cellulari. Ma c’è anche la voglia di accedere a un mondo che sembra ricco di promesse, di possibilità di realizzarsi nel lavoro, e di aiutare la famiglia per poi tornare in Africa. Le spinte sono tante, ma tra queste cose c’è anche il desiderio di conoscere il mondo. Sono giovani, no? E il settanta per cento degli africani sono giovani. C’è una domanda cui non sanno darsi una risposta: perché dei loro coetanei possono venire liberamente in vacanza in Africa con un aereo, mentre se loro cercano di andare in Europa devono rischiare la vita su un barcone?”. Come è arrivata l’idea di questo film? “Il primo incontro, casuale, c’è stato tanti anni fa, ero andato a trovare un amico che ha un centro di accoglienza per minori molto bello a Catania e lì sono venuto e conoscenza della storia di Fofana Amara, un ragazzino che portò in salvo 250 persone senza aver mai guidato una barca prima. Questo racconto mi è rimasto impresso, rimandava ai romanzi di Stevenson. Poi ho iniziato a lavorare a Pinocchio, forse anche addirittura a Dogman, gli anni sono passati e continuavo a rimandare anche perché mi sentivo un po’ in colpa o a disagio all’idea di occuparmene dalla mia condizione di italiano borghese. C’è chi magari ha passato vent’anni in Africa come padre Zanotelli, io faccio il regista, scelgo sempre generi diversi, vedevo il rischio di essere un intruso in una cultura non sua che specula per l’ennesima volta sul povero migrante. Ma a un certo punto ho avuto la sensazione che il film venisse a bussarmi, e mi sono ritrovato a lavorarci e anche a riflettere sul fatto che - vabbè, purtroppo, ahimè- col tempo invecchierò e probabilmente morirò, così succede, dicono, ma se il film viene bene, invece rimane, beato lui”. Da un anno i due attori protagonisti, Seydou Sarr e Moustapha Fall, stanno a Fregene ospiti di sua madre, la fotografa Donatella Rimoldi (che, va detto, in tempi di battaglie per l’aborto, è stata l’autrice della copertina primigenia dell’Espresso con la donna sulla croce) e se li porta nel tour di presentazione del film con l’altro ispiratore e consulente, Mamadou Pli. Lei trasforma le sue troupe in famiglie? “Per girare un film che sembri veramente un film africano l’ho fatto insieme a loro. Anche ai tempi di Gomorra avevo capito che l’unica è farsi guidare da chi ti racconta la sua storia. Cercavo, ovvio, di metterci la mia visione, però per evitare la trappola di chi entra in una cultura non sua e la guarda dall’alto ho lavorato insieme a chi dentro quelle storie ci stava. Non ho paura di dire che quando giravo alle Vele di Scampia una scena di spaccio, chiamavo Bombolo, un pusher con la sua postazione a pochi metri dal set, per chiedergli se la scena era verosimile, lui diceva la sua e poi tornava a spacciare. Per Io capitano in fase di sceneggiatura perdevamo dei giorni per mettere insieme elementi di storie diverse senza trovare un raccordo: poi chiamavamo Mamadou a Caserta e lui come Mister Wolf di Pulp Fiction trovava subito la soluzione”. Per dire: da Gomorra è tornato con una moglie e con la storia del film successivo, Reality, vicenda realmente accaduta a suo cognato. Da Il racconto dei racconti si è portato dietro Massimo Ceccherini: volpe e sceneggiatore in Pinocchio e solo sceneggiatore per Io capitano. Ci racconti questo sodalizio fra l’autore borghese suo malgrado che vince a Cannes e Venezia e l’attore di Pieraccioni che bazzica l’Isola dei famosi e viene espulso per bestemmie... “Massimo è stato fondamentale per due film che, non a caso, sono film popolari. Pinocchio e Io capitano raccontano il popolo, e chi poteva raccontarlo meglio di lui, che viene dal popolo? Gli piacciono le stesse cose, non cerca il pubblico popolare come può cercarlo un borghese con tutte le sovrastrutture intellettuali, lui ce l’ha da dentro e in questi film il suo aiuto è preziosissimo. Pinocchio ha fatto 15 milioni e Io capitano, pur in lingua originale con sottotitoli in italiano, è partito bene”. Quindi Ceccherini ha cambiato mestiere? “Ha ancora delle potenzialità immense da attore e da sceneggiatore e mi trovo proprio in sintonia con lui: è come scrivere con un bambino, ha quella semplicità lì. In realtà non scrive né legge libri, però appena metti giù un aggettivo che suona fasullo reagisce come un metal detector. Per Pinocchio, lui che idolatra Benigni, gli ha inventato delle scene che sembravano cucite su misura da un sarto di gran classe, perché ha una totale dimestichezza con la sua comicità. Ma all’inizio Roberto non lo conosceva ancora e io non potevo andare a dirgli “guarda che bella idea è venuta a Ceccherini”, facevo come l’amico di Cyrano che spacciava come propri i suoi versi. Poi quando abbiamo cominciato a girare ho reso a Massimo i suoi meriti e lui e Roberto sono diventati amici”. Considerando anche Pinocchio un diverso, in quanto burattino in transito verso l’umano, perché nei suoi film c’è tanta predilezione per stranieri, eccentrici, emarginati, borderline? “Dice? Non ci ho mai fatto caso”. Vuole l’elenco? Immigrati albanesi, imbalsamatori con la parafilia della bellezza, innamorati degli scheletri, camorristi allo sbaraglio, lavacani assassini... “Forse c’è il fatto che vengo dalla pittura, ma quello che mi fa scegliere una storia piuttosto che un’altra è il legame che riesco a creare con il personaggio, devo sentirlo vicino, amarlo, anche se magari fa delle cose che posso disapprovare. Per esempio, su Dogman, abbiamo lavorato 14 anni sulla sceneggiatura, sei o sette stesure, e ogni volta lo mollavo. E lo riprendevo proprio perché c’erano delle cose in quella storia che mi affascinavano”. Cosa? “Il finale in cui non sapeva se dar fuoco o no al cadavere del suo persecutore, se svelare agli altri che era stato lui e quindi ribaltare la visione che gli altri avevano di lui, oppure bruciarlo e rimanere anonimo. Quindi c’erano tutte queste cose, quasi dostoevskiane, ma c’era qualcosa che invece mi allontanava dal personaggio: l’idea che uno torturi un altro per un senso di vendetta. E quindi per anni continuavo a lavorare sulla sceneggiatura, finché all’ultimo ho capito il problema. Il problema è che il personaggio che poi abbiamo creato doveva essere un animale erbivoro in mezzo ai carnivori, cioè doveva essere uno che non avrebbe mai fatto del male a nessuno, ma che si ritrova dentro un meccanismo di violenza e non sa come uscirne. Cioè, lui vuole avere un senso di giustizia, mette l’altro nella gabbia e ok, adesso mi chiedi scusa e ritorniamo amici, finisce tutto. Ma quello inizia a spaccare la gabbia. Allora io lì mi identifico”. Quindi per lei la chiave è l’identificazione... “E anche per il pubblico. In Io capitano dal primo momento sto con Seydou, credo sia questo il motivo per cui il film è popolare, lui è un eroe profondamente empatico: dopo dieci minuti il pubblico parteggia per lui”. Tutti in attesa del lieto fine... “Tutti tranne lui, che non aveva questa certezza perché non gli ho dato la sceneggiatura. Era convinto di morire e che a suo cugino Moussa avrebbero tagliato la gamba. Gli raccontavo la trama giorno per giorno. Avevo fatto così anche in Gomorra con Marco e Ciro”. E perché? “Avessi detto che li ammazzavano avrebbero perso quell’atteggiamento di sfida così baldanzoso”. C’è sempre un sud più a sud, ora a sperare sono i “penultimi” di Alessandro Russello Corriere della Sera, 30 settembre 2023 Migrazioni e occasioni: mentre gli italiani cercano stipendi più alti al nord e all’estero, chi arriva aspira a prendere il loro posto. C’è sempre un sud al sud di ogni sud. Per dire, a parte chi continuerà a stare sempre peggio, che gli ultimi possono diventare penultimi e invertire la rotta della vita, spesso approdata via mare dopo aver visto in faccia la morte. I “nostri” penultimi sono arrivati al nord con i bus da Lampedusa a piedi scalzi, una maglietta al salmastro e un cellulare con dentro la loro storia e il loro destino (altro che “guarda quelli lì, hanno le sneakers e perfino l’iPhone”, unica forma di comunicazione con il mondo che hanno lasciato). Ora i bus cominceranno a guidarli loro perché ormai sempre meno italiani - diciamo molti di quelli che si ritengono “terzultimi” - vogliono fare gli autisti nelle aziende pubbliche. Insultati, aggrediti, sottopagati. Capita che a Padova sia stata avviata la formazione di alcune decine di richiedenti asilo grazie a un’Academy messa in piedi da Busitalia Veneto, società del Gruppo Ferrovie dello Stato che gestisce il trasporto locale. Insomma, presto al volante ci saranno (anche) i migranti. Più che “sostituzione etnica”, come direbbe qualcuno, “sostituzione tecnica”. Certo non basterà. Ma aiuterà, visto che i primi veneti, per la legge del contrappasso, pensano di emigrare a loro volta dal sud al nord destinazione Alto Adige, Provincia-Stato a regime speciale, nove decimi di entrate fiscali trattenute in loco grazie ad un’autonomia spinta conquistata nel dopoguerra con patti scolpiti nel marmo della Costituzione. Tradotto, a Bolzano per un autista girano buste paga con mille euro netti in più rispetto al Veneto. Insomma, oltre al sud, scopriamo che c’è anche un nord al nord di ogni nord, gioco non solo geo-lessicale che per non farsi mancare nulla ci dà l’ultima (ultima?) suggestione di quanto la mobilità sia un fenomeno senza confini. Perché, e non è uno scioglilingua, il nord di ogni nord esiste pure per gli altoatesini, a loro volta attratti dalle buste paga delle aziende di trasporti austriache. A Bolzano, con uno stipendio di duemila euro e passa, oltre cento autisti si sono dimessi perché in Tirolo si guadagna di più. Di questo passo finiremo al Polo Nord, ma tant’è. La concorrenza sul personale - per non parlare di medici, infermieri, camerieri o saldatori - ormai ha raggiunto vette impensabili. Invertendo le stesse leggi della domanda e dell’offerta con la consegna nelle mani del lavoratore di un potere di contrattazione individuale che sembra sfuggire al controllo aziendale e soprattutto sindacale. Naturalmente tutto ciò accade finché ci sono “più soldi”, nel nostro caso disponibili nelle regioni o province dotate della specialità costituzionale che è l’autonomia (o le autonomie). Per cui uno potrebbe chiedersi: com’è possibile, tanto per non parlare solo di autisti, che a qualche metro dal confine un medico o un professore siano pagati centinaia di euro in più con annessi e connessi tipo l’abitazione? Quando si dice no alle gabbie salariali (il dibattito è aperto) si dovrebbe sapere che esistono già e lo schema è esattamente questo: più soldi e più welfare in un mondo dove il mercato del lavoro lo fa la convenienza, se non altro nel pubblico. Se al sud il costo della vita è del 30 per cento in meno - e lo è - chi lo fa fare a un neoprofessore di Caltanissetta di venire a vivere a Treviso o Lambrate per non dire Milano, peraltro “minacciate” dal dumping delle vicine Trento o Bolzano? Aboliamo le specialità e pareggiamo i conti? Difficile. Sarebbe probabilmente ingiusto e problematico togliere le autonomie, frutto di delicati percorsi storici e di “cristallizzazioni” politico-finanziarie (quante volte i partiti “italiani” in Parlamento hanno avuto bisogno dei vori dell’Svp?). Dovrebbe essere il contrario, fare diventare le regioni a statuto ordinario “un po’ più speciali”. Ma anche qui la strada è piena di ostacoli. Per i detrattori della legge sull’autonomia a firma Calderoli - in lavorazione fra commissioni parlamentari e comitati di saggi - sarebbe una secessione del Nord. Per chi invece ci crede - dai governatori di centrodestra fino a qualcuno del centrosinistra (seppur oggi appartatosi per sopravvenuta gerenza Schlein) l’avvio di un’assunzione di responsabilità e di buongoverno con i quali recuperare risorse senza chiederne ulteriori allo Stato. Purtroppo il dibattito sulla modifica del Titolo quinto, peraltro avviato dal centrosinistra che del federalismo ha una sorta di copyright (la riforma porta la sua firma) si è “politicizzato” e l’eventuale approvazione di una qualsiasi piattaforma autonomista probabilmente non produrrà un granché. A quando un Paese di “uguali” fondato sulla responsabilità e la solidarietà? Le adozioni e le scelte dei giudici di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 30 settembre 2023 Il tramonto della legge, così come è tradizionalmente conosciuta nei Paesi dell’Europa continentale, ha trovato una nuova conferma in una importante sentenza della Corte costituzionale. La legge di norma è “generale e astratta”. Essa vale egualmente per tutti e lega conseguenze giuridiche al verificarsi delle condizioni che integrano la fattispecie che la legge descrive. Il giudice è soggetto (soltanto) alla legge, nel senso che, una volta constatato il verificarsi di quelle condizioni, è vincolato a trarne le conseguenze indicate dalla legge. “Essere inanimato”, “bocca della legge” sono le formule usate dall’Illuminismo per definire il giudice e quel suo ruolo. La realtà non è mai stata veramente in tal senso. Almeno in linea di principio però la discrezionalità del giudice nel risolvere il caso doveva essere limitata, in modo che il tenore della decisione risalisse il più possibile a chi ha prodotto la legge (ora il Parlamento) e non al singolo giudice. Accade però che, specialmente in certe materie, sempre meno si accetti che restino irrilevanti gli elementi specifici del caso concreto, ulteriori rispetto a quelli scritti nella legge: che cioè, in tal senso, le decisioni giudiziarie siano “astratte”. Si potrebbe pensare che un tale esito sia necessario per assicurare l’eguaglianza di trattamento di tutti davanti alla legge. Ma l’irrilevanza dei dettagli del caso concreto -che lo rendono differente da tutti gli altri- in realtà impone eguale trattamento per casi diversi e dunque finisce per collidere proprio con l’esigenza di eguaglianza. Da tempo, quindi, cresce la diffidenza rispetto alle previsioni legislative di conseguenze automatiche -cioè inevitabili- ogni volta che si constati che il fatto corrisponde alla descrizione legislativa. Oltre alla attenzione prestata dal principio di eguaglianza ai profili concreti - che richiede considerazione per le differenze - , una ormai non recente novità è rappresentata dal sopravvento di fonti normative internazionali e specificamente europee. In esse le formule usate sono normalmente generali e indicano principi, senza descrivere specifiche fattispecie concrete da cui far discendere conseguenze. È in questo contesto che si inserisce l’orientamento della Corte costituzionale di sfavore per le previsioni di automatismi adottate dalle leggi: un orientamento che da ormai numerosi anni porta la Corte a dichiarare l’incostituzionalità di norme che quegli automatismi stabiliscono o, come è avvenuto nella sentenza dell’altro ieri, a adottare una interpretazione della legge compatibile con le previsioni costituzionali, con esclusione dell’automatismo e attribuzione invece della decisione al giudice del caso concreto. La legge del 1983 (Diritto del minore ad una famiglia) disciplina la adozione in varie forme e, per quella ordinaria, stabilisce la cessazione dei “rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvi i divieti matrimoniali”. A lungo e ancor ora prevalentemente la lettura di tale formula è stata nel senso della cessazione di ogni tipo di rapporto. Il carattere assoluto della recisione dei legami con la famiglia di origine si fa derivare dalla valutazione effettuata in via generale dal legislatore, secondo la quale solo la cancellazione della famiglia di origine garantirebbe l’interesse del minore. Nessuno spazio dovrebbe avere la valutazione in concreto. Nel caso specifico il padre dei bambini aveva ucciso la loro madre; i bambini erano in stato di abbandono, ma avevano un buon rapporto con i nonni. Considerando che l’automaticità della interruzione di ogni rapporto famigliare contrastava con le particolarità della vicenda concreta, il Procuratore generale della Corte di Cassazione aveva proposto una lettura del testo di legge nel senso che venivano automaticamente a cessare solo i rapporti giuridici con la famiglia di origine, ma non - quando fosse necessario nell’interesse dell’adottato - quelli di natura socio-affettiva. La Cassazione aveva però ritenuto che la lettera della legge fosse inequivoca e insuscettibile di altra interpretazione. Donde la questione di costituzionalità, sollevata davanti alla Corte costituzionale. Essa ha ammesso che il giudice della adozione possa stabilire che - come era avvenuto nel caso che ha originato la decisione costituzionale - l’adottato possa avere incontri con alcuni membri della famiglia di origine. Tale possibilità è coerente con la evoluzione dell’istituto dell’adozione, che ad esempio riconosce ora all’adottato il diritto di essere informato della sua condizione di figlio adottivo ed anche di ottenere informazioni sull’identità dei genitori biologici. La rottura dei legami con la famiglia di origine non è più assoluta. Anche per influenza della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, come scrive la Corte costituzionale, si ritiene ora che “lo sviluppo della personalità del minore abbandonato non richieda, sempre e di necessità, una radicale cancellazione del passato, per quanto complesso e doloroso. La tutela dell’identità del minore si associa al riconoscimento dell’importanza che rivestono, da un lato, la consapevolezza delle proprie radici e, da un altro lato, la possibile continuità delle relazioni socio-affettive con figure che hanno rivestito un ruolo positivo nel suo processo di crescita”. La fine di ogni rapporto con tutti i membri della famiglia di origine non è più l’effetto necessario e automatico della adozione, deciso dal legislatore una volta per tutte. Essa e la sua modulazione dovrà invece essere frutto della decisione giudiziale. Deriverà dalla valutazione di tutte le circostanze del caso, alla luce del principio - costituzionalmente rilevante - del prevalere del concreto interesse del minore. Arretra ancora una volta l’incidenza delle scelte legislative e aumenta quella della decisione del giudice. Si tratta di una evoluzione che si svolge ormai da tempo, non solo in Italia e riguarda vari campi del diritto, non solo quello dei rapporti famigliari. Sembra non rendersene conto il legislatore, che prosegue impegnandosi a dettagliare e irrigidire le disposizioni che approva. E rimane in ombra -coperta dalla sola sua indipendenza- una discussione e una risposta al quesito che riguarda le qualità richieste ad un giudice, incaricato di svolgere quel sempre più gravoso compito. Migranti. I Garanti territoriali in assemblea esprimono venti osservazioni e richieste Ristretti Orizzonti, 30 settembre 2023 La Conferenza fa proprie le osservazioni del Garante nazionale delle persone detenute e quelle della Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza sulla necessità di rispettare il principio di presunzione di minore età. L’approccio emergenziale utilizzato dal Governo sui migranti “appare immotivato, non potendosi qualificare né l’immigrazione tramite le rotte marittime e quella dei Balcani né la delinquenza minorile quali fatti nuovi, inaspettati o imprevisti nella quantità e nella qualità”. Così la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, in un ordine del giorno, approvato dall’assemblea riunitasi oggi a Roma, con il quale i Garanti di regioni, province e comuni esprimono 20 osservazioni e richieste. Per i Garanti territoriali, l’enfasi sui rimpatri appare di fatto immotivata, il sistema dei rimpatri è inefficace, e la richiesta di una garanzia pari a poco meno di 5.000 euro per non essere trattenuti nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) “introduce una discriminazione fattuale di tipo censuario tra i migranti”. “Il piano di apertura di ulteriori Cpr - si legge nell’ordine del giorno - e la dilatazione del tempo massimo di trattenimento (che passa da 4 mesi e mezzo a 18 mesi) rischia di rendere la detenzione amministrativa un fenomeno di dimensioni sempre più rilevanti. Se nel 2022 sono transitati in uscita dai Cpr 6.383 persone secondo i dati del Garante nazionale dei diritti delle persone privati della libertà personale, tali numeri sono destinati a crescere drasticamente. È necessario che regioni, province, città metropolitane e comuni aggiornino la propria normativa, uniformandola a quelle che prevedono la competenza dei Garanti Territoriali in materia di Cpr”. Citando il Garante nazionale, la Conferenza dei Garanti territoriali ricorda l’esiguo e labile quadro normativo non offre sufficienti tutele e garanzie per assicurare il pieno e assoluto rispetto della dignità della persona. Inoltre, “i Cpr sono di fatto sottratti alle garanzie costituzionali riconosciute ai detenuti dall’ordinamento penitenziario” e “non è stata ancora individuata una autorità giurisdizionale competente in materia di violazioni dei diritti fondamentali in condizioni materiali di detenzione nei Cpr, né procedure attraverso le quali far valere i propri diritti”. “Le miserrime condizioni di vita nei Cpr - prosegue l’ordine del giorno - già di per sé lesive della dignità personale, se prolungate nel tempo si configurano come trattamenti inumani e degradanti”. Infine, la Conferenza dei Garanti territoriali “fa proprie le osservazioni della Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza espresse il 27 settembre nel corso della presentazione al Parlamento delle proprie attività, ed in particolare sulla necessità di rispettare il principio di presunzione di minore età, viste le difficoltà a procurarsi i documenti all’arrivo in Italia, sulla necessità di strutture ad hoc differenti da quelle degli adulti, ed infine sull’importanza di “mettere i diritti di bambini e ragazzi al centro delle politiche pubbliche, […] in maniera strutturale e con una programmazione adeguata, senza rincorrere le emergenze e senza trasformarli in terreno di contrapposizione tra diversi schieramenti” in quanto “lo scontro politico non fa bene ai diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”. Migranti. La lobby dei Cpr: multinazionale-fantasma esercita pressioni in Parlamento e fa profitti di Ilaria Cucchi La Stampa, 30 settembre 2023 Ors Service Ag, una multinazionale fantasma per il territorio italiano perché, di fatto, non è stato possibile reperirne una sede operativa. Nel nostro Paese sarebbe soltanto uno studio di commercialisti dove ha sede legale. Ha però una società di lobby per rappresentare i propri interessi addirittura in Parlamento. Quali sono i suoi interessi? La risposta è tanto semplice quanto inquietante: la gestione con massimo profitto dei Cpr e cioè dei centri che ospitano ‘temporaneamente’ i migranti che debbono essere riportati nei paesi d’origine. Quanto più sono i migranti e quanto più lungo è il periodo di tempo in cui vi sono reclusi, tanto più alti sono i profitti della Compagnia. La premier Meloni ed il grande ministro Salvini sono in grado di spiegarci come tutto ciò possa essere compatibile con i loro programmi di governo contro coloro che dall’immigrazione clandestina traggono profitto? Se questa lobby era presente in Parlamento anche prima del vostro avvento al governo ci potete spiegare come mai non ve ne siete ancora accorti vista l’eccezionale emergenza in atto? Visto che volete riempire il territorio del nostro Paese di queste strutture orripilanti spendendo fiumi di danaro pubblico, avete reale e diretta conoscenza di quanto vi sto dicendo? Sapete come vengono gestiti questi centri ed in quali condizioni sono costretti a vivervi i tantissimi detenuti senza pena? Io lo so. Io l’ho visto con i miei occhi, sentito con le mie orecchie, percepito con il mio olfatto. Sono in Senato per mio fratello Stefano, che tra due giorni compie gli anni, e voglio a tutti i costi mantenere la mia promessa di occuparmi dei diritti dei più deboli. Tra le altre cose visito a sorpresa carceri e Cpr. Sono stata al Cpr Ponte Galeria una prima volta a Marzo ed ho dovuto fare i conti con una realtà terribile. Ne sono uscita in lacrime di fronte alla resa dello Stato alla disumanità di trattamento di persone che, disperatamente alla ricerca di un futuro migliore, anziché trovare la terra promessa, sono cadute in veri e propri luoghi di tortura senza motivo e priva di alcun senso. Come se la tortura potesse avere un qualche senso o ragione. Vivono in gabbie, talvolta nel loro sterco, senza possibilità di comunicare con l’esterno. Sopravvivono giorno dopo giorno in attesa di poter capire il perché della loro condizione. Sono abbandonati a se stessi e, se si ammalano, è veramente un grave problema. Sembrano polli in un allevamento intensivo con la differenza che, soffrendo spesso la fame, non ingrassano. E quale è la soluzione che viene loro offerta dal nostro Paese? La droga per dimenticare. La droga per non pensare, la droga per cancellare ansie e dolori. Vengono loro somministrate quantità industriali di psicofarmaci per farli star buoni, ‘perché così non disturbano’. Tutto ciò viene praticato al 90 per cento di quei detenuti senza pena. Sono entrata in quel luogo orribile e di incommensurabile sofferenza munita di telecamera. È tutto documentato. Ministro Salvini, si tolga quel crocifisso di dosso. Presidente Meloni, i Cpr vanno contro la legge degli uomini e contro la legge di Dio. Solo degli sprovveduti possono credere che il business dell’immigrazione sia solo quello degli scafisti. Lo abbiamo in Parlamento e ciò sarà fino a che non porrete fine a tutto questo. Migranti. L’Unicef contro il decreto Meloni: “Rischia di compromettere le garanzie per i minori” di Vanessa Ricciardi Il Domani, 30 settembre 2023 Dall’inizio dell’anno 289 minori sono morti nel Mediterraneo, oltre 11mila hanno attraversato il mare da soli, mentre riprendono i salvataggi delle Ong. Sea Watch denuncia con un video lo speronamento di un gommone con 50 persone da parte della Guardia costiera libica. I bambini soli che cercano un posto sicuro attraverso il mare sono in costante crescita, lo raccontano i dati presentati ieri dall’Unicef: da gennaio a settembre oltre 11.600 piccoli migranti hanno attraversato il Mediterraneo per raggiungere l’Italia senza i loro genitori o tutori legali. Si tratta di un aumento del 60 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Andrea Iacomini, portavoce dell’Unicef che di recente è stato in missione a Lampedusa, rispondendo a Domani, ha lanciato l’allarme sul decreto Meloni appena approvato che interviene sul fronte accoglienza. L’età di arrivo è scesa: “Molti dei bambini che ho incontrato avevano meno di 15 anni”. Le misure approvate dal Consiglio dei ministri due giorni fa prevedono che in casi di mancanza di posti dedicati, i ragazzi di 16 e 17 anni vengano collocati nei centri per adulti. Iacomini però spiega: “Bisogna evitare che minorenni siano accolti in strutture non adeguate, in condizione di promiscuità con adulti e senza accesso al supporto di cui hanno bisogno per le loro necessità specifiche, con figure professionali dedicate. Aumentano infatti i rischi per la loro protezione, in un ambiente meno tutelato e meno incentrato sui bisogni specifici dei minorenni”. Una situazione che è già realtà “in alcuni contesti emergenziali, dato il sovraffollamento delle strutture di seconda accoglienza e la necessità di trasferire velocemente i minori dall’hotspot”. Tra le nuove norme, anche un pacchetto per il riconoscimento dell’età tramite gli accertamenti medici. I rappresentanti della struttura delle Nazioni Unite, non sono tranquilli: “Esprimiamo preoccupazione su alcune delle misure previste dal nuovo Decreto Legge che rischiano di compromettere le garanzie previste per i minori stranieri non accompagnati sulle quali non si dovrebbe tornare indietro”. Bisogna invece, dice Iacomini, “garantire che l’accertamento dell’età sia effettuato soltanto in caso di fondati dubbi, e nel pieno rispetto della dignità delle persone coinvolte”. Il sistema normativo attuale, specifica, prevede specifiche garanzie a tutela di questa fase molto delicata. Gli hotspot - Ai pericoli del mare si aggiunge la necessità di spostarli al più presto dall’hotspot, dove non è detto che ci siano tutti servizi necessari: “Anche se la Croce Rossa ha sicuramente migliorato le condizioni”, ha spiegato il coordinatore risposta Unicef in Italia, Nicola Dell’Arciprete. Servono non solo percorsi specifici, ma anche di affido. Attualmente “esiste un problema di capacità”, ma “nelle strutture emergenziali è difficile garantire i servizi minimi. Ci stiamo adoperando per cooperare con le istituzioni perché i minori di 14 anni non siano inclusi in quelle strutture”. Più di 21.700 minorenni non accompagnati in tutta Italia si trovano in strutture di seconda accoglienza, rispetto ai 17.700 di un anno fa. Intanto la strage continua: dall’inizio dell’anno almeno 289 bambini sono morti e scomparsi nel Mediterraneo. Almeno 990 persone risultano disperse tra i flutti da giugno ad agosto. Serve una risposta a livello europeo e corridoi sicuri: “Il mar Mediterraneo - ha sottolineato Regina De Dominicis, direttore regionale dell’Unicef per l’Europa e l’Asia centrale - è diventato un cimitero per i bambini e il loro futuro. Il tragico bilancio delle vittime tra i bambini in cerca di asilo e di sicurezza in Europa è il risultato di scelte politiche e di un sistema migratorio in crisi”. La mancanza di soccorso coordinato, e cooperazione per gli sbarchi, aggravano i pericoli che i bambini corrono durante la traversata. Il dibattito in corso tra il Parlamento europeo e gli Stati membri dell’UE sul Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, secondo l’Unicef, rappresenta un’opportunità. Le Ong - Dopo giorni di pausa per via del mare mosso, sono ricominciati i viaggi, e i salvataggi delle Ong. La Geo Barents ha soccorso giovedì 61 persone da un barcone in difficoltà in zona di salvataggio libica. Tra loro, 5 minori non accompagnati. Nonostante questo le autorità italiane hanno assegnato Civitavecchia per lo sbarco. Migranti. Il piano di Piantedosi e i rimpatri volontari assistiti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 30 settembre 2023 “Ecco come si rallentano i flussi di migranti che arrivando in Libia e Tunisia mirano all’Italia”. Aiutare economicamente per farli restare dove sono. Il ministro ne ha parlato ieri mattina a Palermo nell’aula bunker dell’Ucciardone nel corso della conferenza internazionale sulla convenzione Onu contro il crimine organizzato. “Non possono essere i trafficanti a decidere chi entra nel nostro Paese”. Intercettare i migranti lungo il loro viaggio dai Paesi subsahariani alle coste del Nordafrica per offrire loro un’alternativa concreta alla traversata verso l’Europa: e cioè un contributo per realizzare un progetto di inserimento economico e sociale nei Paesi di origine. In una parola rimpatri volontari assistiti via terra per rallentare i flussi di migranti verso Libia e Tunisia e sfoltire l’enorme massa di migranti pronta a partire verso l’Italia. Ecco il piano del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, anticipato ieri sera in accordi bilaterali con i ministri dell’Interno di Libia e Tunisia, e spiegato questa mattina a Palermo nell’aula bunker dell’Ucciardone alla conferenza internazionale sulla convenzione Onu contro il crimine organizzato. Un piano, quello sui rimpatri volontari assistiti, che è un vecchio pallino di Piantedosi, già proposto mesi fa in Germania al G7 dei ministri dell’Interno e sottoposto ieri a Bruxelles al consiglio affari interni della Ue durante la discussione, poi interrotta, sul nuovo Patto Asilo e immigrazione. Un piano che Piantedosi vorrebbe finanziato dalla Ue per alleggerire la pressione ai confini esterno della Ue da realizzarsi con la collaborazione delle agenzie dell’Onu, in particolare l’Oim che già lavora (anche se con numeri ancora poco significativi) ai rimpatri volontari assistiti. “L’80% dei migranti che raggiunge irregolarmente l’Europa”, ha detto Piantedosi”, si affida ai trafficanti. La nostra scommessa è trovare nuove strade per combattere le organizzazioni di trafficanti e offrire a chi intraprende il viaggio verso l’Europa un progetto alternativo”. Per questo Piantedosi annuncia uno studio delle rotte di terra che portano dai Paesi subsahariani alle coste del Mediterraneo e l’intervento di personale dedicato lungo dei corridoi nei Paesi di transito. Nessuno Stato può accettare che i trafficanti determinino chi entra nel suo territorio. Dobbiamo accompagnare i migranti verso i paesi d’origine offrendo loro concrete opportunità”. Nel corso dei lavori della conferenza il ministro di grazia e giustizia Nordio firmerà un accordo di cooperazione giudiziaria con Algeria e Libia, accordo di cornice per facilitare il lavoro di magistrati e investigatori impegnati nel contrasto alle organizzazioni transnazionali di trafficanti. Bullismo, body shaming, razzismo, orientamento sessuale: la metà dei romani è stata discriminata di Camilla Palladino Corriere della Sera, 30 settembre 2023 Lo afferma una ricerca di Ace. Oggi con Retake la riqualificazione del parco don Giacomo Alberione, nel quartiere Ostiense. Un romano su due ha subìto un episodio di discriminazione nel corso della sua vita. È l’allarmante dato emerso dalla ricerca commissionata da Ace, marchio di Fater specializzato in detergenti per la casa e impegnato in diverse iniziative di sensibilizzazione. A cui si aggiunge l’80 per cento dei cittadini intervistati che dichiara di aver assistito ad almeno un atto discriminatorio, di fronte a cui poco più della metà (41 per cento) ha scelto di non reagire. Tra le forme di aggressione più frequenti, al primo posto c’è il bullismo (40 per cento), a seguire il body shaming (32 per cento), poi gli insulti verso l’etnia (30 per cento), infine l’orientamento sessuale (29 per cento). Due iniziative al parco - Per questo Ace, insieme all’associazione a tutela della riqualificazione urbana Retake e all’organizzazione che promuove la cultura dell’inclusione Diversity Lab, ha lanciato due iniziative che partono oggi dalla Capitale. Stamattina tra le 9.30 e le 12.30 gli studenti della scuola primaria Alessandro Malaspina, con i residenti che si sono uniti a loro, riqualificheranno il parco don Giacomo Alberione, nel quartiere Ostiense, per il progetto “Scendiamo in piazza”: l’obiettivo è restituire alla cittadinanza spazi pubblici più puliti e predisposti all’aggregazione sociale. Un evento che “permette di far maturare nei bambini il senso di appartenenza a una collettività e lo sviluppo del senso civico”, commenta la dirigente scolastica Valentina Cardella. “Abbiamo voluto dare spazio ai più giovani, infatti - aggiunge Francesca Elisa Leonelli, presidente di Retake - . Saranno proprio i ragazzi i protagonisti del cambiamento”. Rimozione dei graffiti offensivi - La seconda iniziativa della mattinata è la “Formula anti-odio”, un laboratorio sul linguaggio inclusivo con la rimozione di tutti riferimenti all’odio scritti sui muri del parco, usando un prodotto Ace rimuovi-graffiti non in vendita, ma ideato per l’occasione dall’azienda. A raccontarlo è Antonio Fazzari, general manager di Fater: “La straordinaria collaborazione con Retake e Diversity Lab è nata da una semplice necessità: un detergente in grado di eliminare i graffiti. Così i nostri ricercatori hanno creato uno spray che riuscisse a cancellare le frasi ignobili scritte in giro per l’Italia”. Alla riqualificazione dell’area verde, infine, si aggiunge la campagna di comunicazione realizzata con la consulenza di Diversity Lab e nata da un’idea dell’agenzia di comunicazione Dlvbbdo: le testimonianze di quattro ragazzi vittime di pregiudizi di vario genere. Tra cui Osayi, nata e cresciuta nel Lazio ma costantemente discriminata per il colore della sua pelle. Le vittime nascoste dell’invasione russa in Ucraina di Eleonora Mongelli linkiesta.it, 30 settembre 2023 Il Media Initiative for Human Rights ha pubblicato una mappa almeno ottanta centri di detenzione in Russia, Bielorussia e nei territori ucraini occupati. Volontari, giornalisti, insegnanti, semplici cittadini. Sono le vittime nascoste dell’invasione russa in Ucraina. Colpevoli solo di vivere in un territorio occupato, sono interrogati, rapiti, detenuti, torturati e fatti scomparire. A quasi un anno di distanza dalla conferenza che abbiamo tenuto a Roma sulle sparizioni forzate, in cui venivano segnalati trecento casi documentati di civili ucraini presi in ostaggio dalle forze armate russe, ci troviamo davanti a un’escalation di brutalità che si manifesta ben lontano dai riflettori, perché il capillare controllo degli occupanti non lascia permeare (quasi) nulla e il lavoro di raccolta e verifica di dati risulta enormemente difficile. Eppure, è proprio in quelle zone che vengono perpetrati i peggiori crimini internazionali sulla popolazione ucraina. A maggio 2023, il ministero degli Affari Interni dell’Ucraina ha segnalato ventitremila persone ufficialmente considerate scomparse in seguito alle ostilità. Alcune di loro sono detenute dalle forze russe nei territori occupati dell’Ucraina, mentre altre sono state trasferite sul territorio della Federazione Russa. Media Initiative for Human Rights (MIHR), che continua diligentemente a registrare i crimini di guerra e altre atrocità commesse dall’esercito russo in Ucraina, ha identificato millecentosessantotto ostaggi civili detenuti nella Federazione Russa e nei territori occupati dell’Ucraina. Il numero effettivo, dicono, potrebbe essere però da cinque a sette volte superiore, perché la Russia non fornisce informazioni sui civili che tiene prigionieri, e li trasferisce frequentemente, il che rende molto più difficile la loro ricerca. La maggior parte di questi ostaggi civili è stata rapita dalle regioni di Kherson, Kharkiv, Donetsk, Luhansk e Kyjiv. Tra gli individui presi di mira vi sono coloro con sentimenti pro-Ucraina, ex personale militare e persone che secondo gli occupanti potrebbero potenzialmente porre resistenza all’occupazione. Dalle testimonianze raccolte è emerso che gli ostaggi civili sono spesso detenuti insieme ai prigionieri di guerra. Questo aspetto è molto importante perché fa capire che l’obiettivo è quello di utilizzarli come pedine per ottenere in cambio la liberazione di militari russi. Nel rapporto del 27 giugno 2023, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR) ha identificato un totale di centosessantuno strutture di detenzione utilizzate per trattenere individui nel contesto della guerra. Di queste, centoventiquattro strutture si trovano nel territorio dell’Ucraina occupata, di cui cinque in Crimea. Altre trentacinque strutture di detenzione, che includono centri di detenzione preventiva, colonie penali e campi temporanei, si trovano nella Federazione Russa. Inoltre, gli investigatori dell’OHCHR hanno scoperto due sedi situate in Bielorussia utilizzate dalle forze armate russe come strutture di detenzione temporanee o di transito per le persone detenute, compresi i prigionieri di guerra trasferiti dalle regioni settentrionali dell’Ucraina. MIHR ha pubblicato una mappa dei luoghi di prigionia gestiti dalle forze armate russe. La mappa contiene dati relativi a oltre ottanta centri di detenzione situati in Russia, Bielorussia e nei territori temporaneamente occupati dell’Ucraina, raccolti intervistando i testimoni: civili tenuti in ostaggio e soldati tornati dalla prigionia. Inoltre, dalle testimonianze raccolte si è riusciti a definire un quadro abbastanza chiaro delle condizioni a cui sono sottoposti le persone rapite, che includono anche gruppi vulnerabili come bambini piccoli, adolescenti, persone con disabilità, donne e anziani. Tatiana, figlia dell’ostaggio Mykola Savchenko della regione di Kherson, ha riferito: “È stato rapito dalla casa del vicino dove stava giocando a scacchi. L’esercito russo è entrato in casa, li ha bendati e portati via nel bagagliaio di un veicolo. Mio padre, cinquantotto anni, è stato preso il 3 aprile 2022 e non è ancora tornato. Prima di lui hanno preso anche ragazzi, non c’è un limite di età”. Volodymyr Khropun, un volontario della Croce Rossa ucraina della regione di Kyjiv, ha raccontato: “Alcuni di noi sono stati sottoposti a torture. Ho personalmente visto l’uso di due pistole elettriche su un ragazzo. Il 23 marzo 2022, un gruppo di quattordici persone, me compreso, è stato portato via da Dymer. Lungo il percorso, è stata aggiunta al nostro gruppo un’altra donna. Abbiamo trascorso la prima notte all’aeroporto di Hostomel, prima di essere trasportati in Belarus in due camion Ural. C’erano da trentacinque a trentasette individui in ciascun camion, con solo pochi soldati tra loro. Circa il novanta per cento dei detenuti erano civili. Siamo stati costretti a firmare documenti bendati, senza alcuna spiegazione sui contenuti. Siamo stati trattati come merci, rapiti e trasportati in un altro Paese, dove siamo stati sottoposti a interrogatori senza alcuna forma di protezione legale”. I civili ucraini presi in ostaggio dai russi, alcuni mentre facevano volontariato e distribuivano aiuti umanitari alla popolazione civile, sono spesso detenuti insieme ai prigionieri di guerra, in ambienti insalubri, privi di provviste di cibo, acqua potabile e cure mediche. Da marzo 2022, sia civili che militari sono stati detenuti a Olenivka, nell’oblast di Donetsk. Indipendentemente dal loro status, emerge dalle testimonianze raccolte che tutti i detenuti sono sottoposti alla procedura di ammissione, che è stata definita come tra le peggiori fasi della detenzione, nella quale si consumano varie forme di violenze fisiche, torture psicologiche e persino finte esecuzioni. Un ostaggio civile della regione di Zaporizhia, che desidera rimanere anonimo, ha condiviso la sua esperienza dopo essere stato scambiato con un prigioniero russo: “All’arrivo a Olenivka, siamo stati riclassificati come prigionieri di guerra invece che civili. Ci hanno tenuto in baracche e sottoposti a costanti abusi fisici, tra cui colpi in faccia e spari in prossimità delle nostre teste. A Tokmak, ci hanno bendati e ci hanno spinto deliberatamente con la testa contro pali di ferro, prima di picchiarci con un bastone sulle gambe e sulla schiena. Anche a Melitopol abbiamo subito torture. A Kursk siamo stati picchiati tutti, mi hanno costretto a strisciare fino a quando i gomiti cominciavano a sanguinare e la testa sembrava spezzarsi. Ci picchiavano per divertimento usando taser e manganelli”. Viktor Prokhun della regione di Kyjiv ha testimoniato di come è stato sottoposto a una finta esecuzione. Durante una perquisizione, sono stati trovati alcuni suoi libri ucraini su argomenti patriottici: “Quando hanno trovato i libri, uno dei soldati ha esclamato: “Sei esattamente ciò che stiamo cercando. Ci pagano un milione per un vero Banderita”. Poi mi hanno portato davanti a un pozzo e hanno simulato un’esecuzione. Mi hanno costretto a inginocchiarmi e hanno iniziato a sparare sopra la mia testa”. Oltre a un’analisi dettagliata dei luoghi di detenzione degli ostaggi civili, MIHR ha recentemente pubblicato un report che mette in luce le condizioni a cui sono sottoposti i civili una volta rapiti. Il documento descrive le strutture di detenzione in tre regioni: Kyjiv, Chernihiv e Sumy, nonché le rotte di trasporto dei detenuti civili basate su prove specifiche. Nonostante siano state occupate fin dai primi giorni dell’aggressione russa, queste regioni sono state liberate rapidamente dall’Ucraina, perciò è qui che si sono concentrate le prime indagini sul campo, le interviste a testimoni e vittime di crimini di guerra, e le visite ai luoghi di detenzione dei civili da parte delle forze militari russe. Le informazioni sono state raccolte usando il sistema di documentazione delle indagini I-DOC per l’analisi e la sistematizzazione delle indagini sui crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Si tratta di un sistema che facilita il trattamento dei fatti legati alle gravi violazioni degli standard internazionali nel campo dei diritti umani e del diritto penale che si rifà alla tassonomia della matrice dei casi della Corte Penale Internazionale e al Case Matrix Network. Al 31 agosto 2023, il contributo di MIHR al sistema I-DOC ammontava a centosei documenti registrati. Questi documenti includono testimonianze documentate anche con materiale fotografico. Tra queste c’è la storia di Mikola, rapito nella regione di Kyjiv il 3 marzo 2022, che ha raccontato come lui e gli altri due uomini con cui si trovava siano stati cosparsi di benzina: “Ho avuto la fortuna di indossare abiti da lavoro resistenti alle intemperie - la benzina mi è arrivata solo attraverso le pieghe. L’altro ragazzo, invece, aveva vestiti ordinari che si sono completamente inzuppati, causandogli la caduta di metà della pelle. L’ho visto dopo quando siamo stati entrambi visitati in una tenda medica in un campo nella regione di Kursk”. Racconta sempre Mykola che nel periodo in cui i civili sono stati detenuti in un campo all’aperto, la temperatura esterna era di quindici gradi sotto zero: “Le persone sono state lasciate senza cibo per almeno quattro giorni e ci privavano anche dell’acqua. Ci hanno ordinato di toglierci le scarpe. Versavano acqua nelle scarpe, ma non ci lasciavano bere. Dovevamo restare a terra. Semplicemente sdraiati e aspettare di morire. È quello che è successo a uno di noi. Un pover uomo che aveva il diabete e continuava a gemere. A un certo punto, abbiamo realizzato che non rispondeva più. Non ricordo il suo nome, ma viveva non lontano dal nostro villaggio”. Dopo il terzo o quarto giorno di permanenza nel campo, i civili rapiti sono stati riuniti. Mykola aiutò gli altri a mettersi le scarpe, poiché avevano le mani legate dietro la schiena, mentre le sue erano legate davanti: “I loro piedi erano gonfi per il freddo e non riuscivano a far entrare le scarpe. Non sapevo dove fossimo e quanto fossi ridotto male. Ho aiutato tutti a salire su un veicolo, che è poi partito. I russi erano in procinto di spostare i civili, quando si sono trovati sotto il fuoco. A quel punto, gli ucraini rapiti sono stati lasciati a terra. I russi hanno detto che lasciavano i civili rapiti non protetti per una ragione precisa: se fossero stati uccisi, sarebbe stata colpa dell’esercito ucraino. Per fortuna, tutte quelle persone sono uscite indenni, solo una ha subito una commozione cerebrale”. Ricaricati sul camion sono stati portati in direzione di Chernobyl e poi in elicottero in Belarus. Successivamente, i civili rapiti furono portati in aereo dalla Belarus a un campo per prigionieri di guerra a Kursk. Dopo altri vari spostamenti, Mykola fu rimpatriato in Ucraina il 4 febbraio 2023 nel contesto di uno scambio di prigionieri di guerra. Sono tanti i particolari della testimonianza di Mykola che si ritrovano negli altri racconti. Durante l’occupazione, l’esercito russo ha stabilito le proprie regole nelle aree popolate e ha compiuto azioni illegali contro la popolazione civile. Dopo la liberazione di città e villaggi, sono stati scoperti numerosi luoghi di detenzione e tortura istituiti dall’esercito russo. Molti residenti civili sono stati portati in questi luoghi, dove hanno subito mutilazioni e lesioni di varia gravità, e alcuni di loro sono stati trovati uccisi. Molte sono le testimonianze che riguardano la regione di Chernihiv, dove un gran numero di persone è considerato disperso e la loro sorte rimane ancora sconosciuta. Alcuni ostaggi civili sono stati trasferiti nel territorio della Federazione Russa, dove sono detenuti illegalmente in penitenziari. La liberazione dei territori raramente salva gli ostaggi civili. Sono pochi i casi in cui i russi, ritirandosi, hanno rilasciato delle persone, perché, di solito, i prigionieri civili vengono trasferiti. Per questo gli esperti concordano sulla necessità di istituire un meccanismo efficace ad hoc all’interno dell’attuale quadro giuridico internazionale finalizzato alla protezione e alla liberazione degli ostaggi civili. A questo proposito, Dmytro Lubinets, Commissario per i Diritti Umani del Parlamento ucraino, ha inoltre proposto l’istituzione di un’agenzia governativa speciale che lavori per il rilascio dei civili detenuti dalla Federazione Russa. Come già sottolineato dalle organizzazioni per i diritti umani, tra cui la FIDU, la detenzione arbitraria e la presa di ostaggi civili durante un conflitto armato sono rigorosamente vietati dal diritto internazionale. Lo spostamento forzato della popolazione da parte della forza occupante costituisce un crimine di guerra e la sistematicità di questa pratica potrebbe prefigurare anche un crimine contro l’umanità. Tenere alta l’attenzione su quanto accade nei territori occupati dell’Ucraina è dovere della comunità internazionale, sia per proteggere i civili costantemente esposti alle brutalità delle forze armate russe, sia per evitare che narrazioni propagandistiche interferiscano con la verità dei fatti. Un rischio ancora concreto visto che c’è ancora chi auspica un cessate il fuoco sotto occupazione, pur con la consapevolezza che una tale tregua, seppure duratura, altro non sarebbe che una condanna silenziosa della popolazione civile ucraina ai crimini più atroci che possono essere commessi durante una guerra. Turchia. Ergastolo aggravato a Kavala per le proteste di Gezi Park di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 30 settembre 2023 Il filantropo sconterà la condanna in isolamento. Il processo contro di lui in violazione dei principi della Cedu, condannato anche dalle Nazioni unite. La terza camera dell’alta Corte di appello ha confermato, il 28 settembre scorso, la pena all’ergastolo aggravato per il filantropo turco Osman Kavala, condannato nell’aprile dell’anno scorso al termine di un processo durato ben sei anni e travagliato da numerose irregolarità, a cominciare dagli oltre 20 mesi di detenzione preventiva con cui questa vicenda è cominciata. I giudici hanno ritenuto valide le accuse secondo cui Kavala avrebbe organizzato e finanziato le rivolte di Gezi Park, avvenute tra maggio e luglio 2013, nonché sostenuto il tentato golpe del 15 luglio 2016. Kavala avrebbe così tentato di rovesciare il governo e per questo gli è stato comminato il carcere a vita. Aggravato, ovvero senza poter sperare di beneficiare di sconti di pena, amnistie o perdono presidenziale, e sempre in isolamento. 18 sono invece gli anni di carcere confermati a carico dell’avvocato Can Atalay e per Tayfun Kahraman, Mine Özerden e Çigdem Mater Utku, accusati di aver sostenuto Kavala nell’impresa. Gli avvocati difensori hanno ribadito la posizione secondo cui le accuse delle autorità inquirenti non hanno fornito alcuna prova concreta a sostegno delle pesanti accuse che Kavala stesso aveva definito “pura fiction”. Amnesty, che monitora il processo fin dalle sue prime battute, ha dichiarato che Kavala è stato arbitrariamente incarcerato a causa del suo attivismo, ec che questo processo ha apertamente violato il sistema di protezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu). La decisione della Corte di Strasburgo del 2019 ha infatti imposto il rilascio dell’uomo, ma è rimasta inascoltata sino ad oggi da ogni grado del sistema giudiziario turco, tanto da destare un’allarmata reazione nel 2021 anche da parte delle Nazioni unite, preoccupate da come l’atteggiamento dei tribunali turchi stia minando alla base i meccanismi di giustizia internazionali. In un incontro a porte chiuse raccontato in un report del 2022 di Article19, organizzazione che si occupa di diritto legale, alcuni giudici della Corte costituzionale ribadirono la loro opinione per cui la Corte non avrebbe alcun obbligo di aderire alle sentenze della Cedu. Il caso Kavala è un processo dove leggi e procedure, e il senso di giustizia, cedono il passo alle volontà politiche e vendicative di un governo che attraverso Kavala ha deciso di dettare l’esempio e scongiurare un Gezi 2.0, il cui spirito a 10 anni di distanza sopravvive nell’immaginario di opposizioni politiche e civili pur sfiancate da anni di repressione e abusi. Vale oggi la pena ricordare, trascorsa ormai una decade, quali furono le richieste avanzate al governo di allora, che poi è lo stesso di oggi, dalla piattaforma Taksim Dayan?smas?, attorno a cui si coagulò buona parte dell’eterogeneo movimento Gezi: la preservazione del parco, la fine della violenza della polizia, il rispetto del della libertà di riunione, il perseguimento dei responsabili delle violenze contro i manifestanti, la fine della svendita di spazi pubblici e risorse naturali a privati, il diritto di esprimere bisogni e lamentele senza subire arresto o tortura, la tutela di media il cui dovere è verso il bene pubblico e l’informazione corretta, la contestazione di alcuni megaprogetti che, poi effettivamente realizzati, hanno sconvolto il volto della metropoli sul Bosforo. Questo ergastolo significa imprigionare per sempre un uomo in carne ed ossa, con tutta la sua umanità, e allo stesso tempo queste richieste, entro cui si condensa Gezi Ruhu, lo Spirito di Gezi. L’Europa incerta sul Nagorno-Karabakh di Paolo Lepri Corriere della Sera, 30 settembre 2023 Mentre Francia Germania e Olanda sono vicini all’Armenia, altri - tra cui l’Italia - sono attenti a conservare i buoni rapporti con l’Azerbaigian (grande fornitore di gas). L’Europa agisce, nella crisi del Nagorno-Karabakh, ma lo fa in modo incerto, non senza divisioni, evitando di rendersi pienamente conto dell’emergenza umanitaria che si sta aggravando di giorno in giorno (i profughi sono già 50.000) nell’enclave armena in territorio azero conquistata nei giorni scorsi dall’esercito di Ilham Aliyev. È certamente importante che il primo ministro armeno Nikol Pashinian e lo stesso Aliyev si vedano la settimana prossima a Granada in occasione del vertice della Comunità politica europea,il forum lanciato da Macron per promuovere dialogo e cooperazione. All’incontro nel quale si dovrebbe iniziare a discutere di un trattato di pace, assisteranno il presidente francese, il cancelliere tedesco Scholz e il presidente del Consiglio europeo Michel. Ma l’Ue non arriva a questo appuntamento con tutte le carte in regola. La dichiarazione sugli sviluppi del conflitto messa a punto durante l’Assemblea generale dell’Onu si è scontrata con l’opposizione ungherese di Viktor Orbán e non conteneva una condanna dell’offensiva militare azera. L’Europa, come ha sottolineato anche Le Monde, sta affrontando questo dossier “in ordine sparso”. Mentre Francia Germania e Olanda sono vicini all’Armenia, altri - tra cui l’Italia - sono attenti a conservare i buoni rapporti con l’Azerbaigian (grande fornitore di gas) e infine alcune nazioni dell’ex blocco comunista continuano a tenere conto (nonostante che Yerevan e Mosca siano sull’orlo della rottura) degli armeni nell’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva, fondata dopo il crollo dell’Urss. Questo scenario rischia di complicarsi ancora di più se andrà avanti il discorso su possibili sanzioni all’Azerbaigian per rispondere a violazioni dei diritti umani degli armeni del Nagorno-Karabakh. Il minimo che si può chiedere intanto ai Paesi “amici” di Aliyev è fare pressioni per convincerlo alla moderazione.