Verso il “pacchetto carceri”. È polemica di Fulvio Fulvi Avvenire, 2 settembre 2023 Gli appelli delle associazioni sul provvedimento del governo: “Serve un approccio globale”. Pronto all’approvazione il testo messo a punto dal ministero della Giustizia dopo i suicidi di agosto. Boscoletto (Cooperativa Giotto): “Bisogna ripartire dalle persone e restituire dignità”. Il “pacchetto carceri”, destinato a introdurre novità nel sistema penitenziario, è pronto e sarà esaminato a settembre, in una delle prossime sedute del Consiglio dei ministri. Il provvedimento prevede, tra l’altro, la nomina di direttori negli istituti di pena dove l’incarico è vacante (non più “ad interim”), norme sulla tutela del personale di sorveglianza e l’aumento delle telefonate dei detenuti ai loro parenti che passeranno da quattro a sei al mese (mezz’ora di chiamate in tutto), secondo quanto annunciato la vigilia di Ferragosto dal ministro Nordio. La cosa è “quasi fatta” ma nel frattempo non si placano le polemiche. Diverse associazioni del settore hanno inviato infatti una lettera-appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a Papa Francesco e allo stesso Guardasigilli, nella quale si sottolinea come i problemi delle carceri non si risolvono solo così: “Non bastano due telefonate in più al mese”. Il documento è diventato anche una petizione con quasi duemila firme finora raccolte, tra cui quella di Nicola Boscoletto, presidente del consorzio sociale Giotto di Padova, di cui fa parte l’omonima cooperativa con la quale lavorano (in pasticceria, officine per l’assemblaggio di biciclette e valigie e due cali center) circa 200 detenuti della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova. “È come quando la casa si allaga perché abbiamo lasciato i rubinetti aperti e cerchiamo di asciugare il pavimento con secchi e stracci, ma l’acqua continua a scorrere” osserva. Per Boscoletto, come per gli altri firmatari dell’appello, tra cui Ristretti Orizzonti, Antigone, Sbarre di zucchero e la Camera penale di Milano, la proposta del Guardasigilli non risolve il problema della solitudine e della disperata inquietudine di chi vive dietro le sbarre, causa principale dei suicidi e degli atti di autolesionismo. Serve, invece, un approccio globale: “Bisogna ripartire dalla persona, restituirgli la dignità”. “La nave che va a picco - aggiunge il presidente del Consorzio Giotto - il sistema non funziona, anzi diciamo proprio che è fallito: io non attacco chi ci lavora, che anzi è penalizzato, agenti, dirigenti, educatori, operatori sociali, volontari ma questa è la realtà. È scientificamente provato nel tempo che non è la punizione che toglie o limita dalla società la delinquenza, il “pugno duro” che molti invocano è demagogia dei politicanti. Succede invece che più punisci un detenuto più questo una volta uscito torna a commettere reati, tant’è vero che il tasso di recidiva, non a caso, è del 90%. La risposta da dare allora è lavoro, scuola e attività. Mettendosi tutti insieme, perché nessuno si salva da solo”. Per Boscoletto, inoltra, bisogna “allargare le esperienze che adesso riguardano una decina di realtà tra Roma, Bollate, Padova, la Sicilia. Perché sono solo 700, tra i 57mila ospiti dei penitenziari italiani, quelli che lavorano dietro le sbarre. Buone pratiche da esportare, perché patrimonio comune”. E c’è chi invoca a gran forza una riforma del settore. “Ben venga - osserva Boscoletto - se fatta come si deve ma intanto bisogna applicare le leggi che ci sono e la Costituzione. Devono cambiare, invece, le persone”. E la liberalizzazione delle telefonate? “Va detto innanzitutto che esiste libertà di corrispondenza sia in uscita che in entrata: i carcerati possono scrivere e ricevere lettere senza censura (solo l’1% è sottoposto a controlli, i 41bis e quelli dell’alta sicurezza). Invece i numeri telefonici depositati, e autorizzati dal magistrato, sono tracciabili, le schede sono controllate: allora che rischio c’è, visto che i cellulari vengono utilizzati, al 95%, non per commettere reati ma per chiamare mogli, figli, genitori, fratelli. E poi, liberalizzarne l’uso significa anche eliminare un fiorente mercato clandestino dietro le sbarre”. Il costo umano dell’immobilismo di Franco Mirabelli* Avvenire, 2 settembre 2023 L’alto numero di suicidi e i numerosi episodi di violenza nelle carceri italiane ripropongono quotidianamente il tema di Urla situazione di tensione e di degrado diffusa negli istituti di pena che non può essere accettata e che deve spingere la politica, e prima di tutto il governo, a mettere in campo misure e interventi efficaci per migliorare le condizioni detentive. In questi mesi ci siamo invece trovati di fronte ad un evidente immobilismo del ministro Nordio che non può essere compensato dalle continue dichiarazioni piene di buone intenzioni o dalle proposte irrealizzabili come quella dell’utilizzo delle ex caserme per creare nuove strutture detentive. Tutte cose che dimostrano la confusione che c’è nel governo su questo tema. Anche la pur condivisibile proposta di aumentare il numero delle telefonate concesso ai detenuti per garantire loro il supporto delle famiglie, da sola appare insufficiente. Servono scelte coerenti con una visione che non può non partire dal dettato costituzionale e dalla funzione rieducativa della pena. Serve mettere al centro questo obiettivo quando si ragiona su come intervenire per ridurre la pressione sulle carceri, che spesso devono ospitare più detenuti di quelli che la capienza consentirebbe, su come rendere la detenzione meno degradante, su come valorizzare il lavoro di chi nelle carceri opera ed è costretto a fare i conti con personale insufficiente costretto a operare in una perenne emergenza. Nella scorsa legislatura, anche per la necessità di fronteggiare il Covid, sono state introdotte misure che hanno funzionato ma che questo governo non ha voluto rendere strutturali: dalla possibilità dei domiciliari con i sistemi di controllo elettronico per chi aveva ancora da scontare 11? mesi, alla opportunità per chi era in semilibertà la di non dover passare la notte in carcere, fino all’ampliamento della possibilità di comunicare con i familiari anche utilizzando la rete. Nello stesso tempo la ministra Cartabia, nella riforma del processo penale, ha insistito sulla necessità di un maggiore utilizzo delle pene alternative, della messa alla prova, introducendo anche, guardando alle vittime, il tema della giustizia riparati va. Si sorto introdotti interventi certamente insufficienti, ma chiari sulla direzione da assumere: quella del carcere come estrema ratio e non come l’unico luogo in cui scontare una pena che deve comunque avere la funzione che la Carta ha definito. Serve ripartire da ciò che è stato già sperimentato per riprendere un percorso fatto di cose concrete che non si limitano all’emergenza ma descrivono una politica e una idea. Una volta scelta la strada della Costituzione è chiaro che anche temi come la formazione e il lavoro diventano centrali, priorità imprescindibili dentro e fuori dal carcere per chi sconta una pena. L’altro dramma, su cui non è più possibile accettare i silenzi e l’immobilismo è la realtà, raccontata dai tanti suicidi, di carceri in cui il disagio psichico non trova risposte e, anzi, viene aggravato. L’insufficienza delle strutture destinate ad affrontare le patologie psichiatriche sta producendo, come testimoniano le cronache, effetti tragici fuori e dentro il carcere. Serve investire sulle REMS e sull’organizzazione della sanità negli istituti di pena sapendo che non tutto si risolve riducendo la popolazione carceraria né assistendo inermi di fronte al crescere del disagio e alle sue spesso drammatiche conseguenze. *Vicepresidente del gruppo Pd al Senato Riforma Nordio addio: con la corsa alle Europee riecco la destra rigorista di Errico Novi Il Dubbio, 2 settembre 2023 Concorrenza spietata tra i partiti di maggioranza di qui a giugno: ciascuno penserà solo a conquistare quanti più seggi è possibile a Strasburgo. In un simile scenario la coalizione di governo rischia di sacrificare proprio la giustizia liberale, che non è certo l’esca migliore per sedurre la pancia dell’elettorato. Con candida rassegnazione, diversi parlamentari di Forza Italia hanno assicurato, nei giorni scorsi, che non faranno drammi se la separazione delle carriere finirà in freezer. C’è da assicurare una corsia preferenziale immediata all’altra riforma costituzionale in programma: il premierato. In astratto tutto sembra filare. In realtà, siamo al paradosso. Prima di tutto, i propositi di mettere mano ai poteri del premier e al riassetto istituzionale non dovrebbero richiedere alcun pit-stop alle altre riforme: in Italia non c’è il monocameralismo, esistono quindi due commissioni Affari costituzionali - una alla Camera e una al Senato - e sarebbe tranquillamente possibile avviare la separazione delle carriere in un ramo del Parlamento e il “presidenzialismo soft” nell’altro. Ma a parte l’evidente fragilità delle motivazioni con cui si tenta di giustificare il rinvio sulla “separazione”, l’approssimarsi della nuova stagione parlamentare porta con sé ben altro promemoria: siamo nell’anno legislativo che condurrà alle Europee. Vale a dire alla sola tornata elettorale in cui, nell’arco dei prossimi cinque anni, i partiti di maggioranza e quelli di opposizione marceranno ciascuno per proprio conto, e anzi in concorrenza tra alleati. Immaginate cosa provocherà il tentativo salviniano di risucchiare voti di destra a Giorgia Meloni: finiranno sull’altare dei sacrifici al “dio consenso” anche le riforme garantiste di Carlo Nordio. Nel momento in cui si sgomita per arraffare quel che c’è dell’elettorato di destra-destra disposto a cambiare partito, si può mai credere a un via libera al pacchetto del guardasigilli? Davvero ci illudiamo che l’abuso d’ufficio sarà abrogato, che l’uso dei trojan per reati a bassa offensività qual è la corruzione sarà finalmente soppresso (lo ha introdotto Alfonso Bonafede con la spazza-corrotti), che le norme sulle misure cautelari saranno irrigidite a tutela dell’indagato o che si limiterà l’appello del pm sulle assoluzioni? Certo, l’estate che volge al termine non è stata priva di sussulti incoraggianti, sul diritto penale, anche grazie alle provocazioni politiche dell’Anm, e in particolare dei magistrati in congedo, che hanno spinto almeno i forzisti a reagire. Ma adesso che la corsa a destra vede persino un affollamento, col ritorno di Alemanno, il rischio che nessuno voglia sporcarsi le mani con un serio “spazza-Bonafede” è fortissimo. Finiremo per tenerci pure il pasticcio dell’improcedibilità e della prescrizione sostanziale abolita dopo il primo grado, almeno fino a dopo le Europee. Ah, poi su come Nordio riuscirà a farsi scivolare addosso un anno del genere, non osiamo esercitare l’immaginazione. Meloni frena, la riforma Nordio adesso rischia di arenarsi di Paolo Pandolfini Il Riformista, 2 settembre 2023 Cresce il malcontento in Forza Italia per il piano di Nordio frenato da Meloni “Ci sono stati tanti annunci ma pochi fatti”. “Guardi, era stato il ministro della Giustizia Carlo Nordio ad annunciare che avrebbe intrapreso un profondo percorso riformatore di stampo “liberale” e “garantista”, musica per le nostre orecchie dopo anni di oscurantismo manettaro e giustizialista. Fin dall’inizio Nordio aveva avuto il nostro appoggio incondizionato. Stupisce, quindi, questo rallentamento”, afferma al Riformista un importante parlamentare di Forza Italia che non ha però voglia di essere citato per evitare di alimentare polemiche in un momento molto delicato per il governo. A distanza di quasi un anno dall’arrivo di Nordio a via Arenula, il bilancio riformatore del Guardasigilli non è certamente esaltante. “Ci sono stati tanti annunci ma pochi fatti. Ad esempio, prima dell’estate Nordio aveva dichiarato che avrebbe depositato un testo di riforma sulla separazione delle carriere, che è uno dei cavalli di battaglia da sempre di Forza Italia. Purtroppo, ad oggi il testo non è stato presentato e ciò non può non lasciarci indifferenti”, prosegue il parlamentare azzurro. Il timore, in altre parole, è che il ministro voglia `rallentare’ sulla riforma della giustizia, forse condizionato dalla premier che non ha intenzione di andare allo scontro con le toghe e quindi di mettersi contro l’Associazione nazionale magistrati che è contrarissima alla riforma della separazione delle carriere. Il problema è il referendum costituzione. Anche se la riforma fosse votata dal Parlamento, difficilmente il voto raggiungerebbe i due terzi sia alla Camera che al Senato. Numeri che il governo Meloni non ha, dovendo così ricorrere al referendum costituzionale dove non è previsto il quorum. Dal momento che anche riforma del premierato prevedrà, per gli stessi motivi, un referendum costituzionale, i vertici di Fratelli d’Italia, prima della ripresa dei lavori parlamentari, avrebbero convinto la premier di non insistere sulla riforma della giustizia, suggerendo a Nordio di frenare e di dedicarsi ad interventi meno divisivi. “La scelta politica è chiara: se Nordio ha cambiato idea dovrebbe dirlo chiaramente, anche per rispetto nei confronti di chi lo ha sempre sostenuto”, conclude il parlamentare forzista. Che qualcosa non torni lo ha capito anche il presidente delle Camere penali, l’avvocato Gian Domenico Caiazza. “I segnali nell’ultimo periodo sono evidenti. Ci viene ripetuto che è un percorso lungo, ed è vero. Però bisognerebbe cominciarlo subito e non rinviarlo costantemente perché per approvare un testo di riforma costituzionale servono due anni”, ha affermato ieri Caiazza in una intervista al Foglio. Eppure, l’iniziativa dei magistrati in pensione di firmare un appello a Nordio contro la riforma delle carriere si era rivelata un flop. Dopo il clamore inziale, l’appello delle 500 toghe è sparito dai radar, non essendo seguito dai colleghi in servizio che si esprimeranno sull’iniziativa governativa il prossimo fine settimana in una assemblea a Roma. Martedì, comunque, alla riapertura del Parlamento inizieranno le audizioni sul ddl Nordio sull’abuso d’ufficio e sulle intercettazioni. I primi ad essere ascoltati in Commissione giustizia al Senato saranno il presidente dell’Anac Giuseppe Busia, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, il presidente dell’Anci Antonio Decaro, ed il presidente dei penalisti Caiazza. Così Nordio vuole mettere i pm sotto controllo politico di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 2 settembre 2023 Circa 500 magistrati a riposo hanno sottoscritto un appello, indirizzato al ministro della Giustizia Carlo Nordio, contro la riforma della separazione delle carriere, denunziando come essa “stravolgerebbe l’attuale architettura costituzionale che prevede non solo l’appartenenza di giudici e pm a un unico ordine giudiziario, indipendente da ogni altro potere, ma anche un unico Csm”. I firmatari richiamano l’”essenziale” principio della “comune cultura della giurisdizione” ed esprimono il timore che lo scopo della riforma sia quello di sottoporre il pm al controllo dell’esecutivo. L’appello ha suscitato le vibrate reazioni di politici appartenenti a partiti di governo, tra i quali si è distinto more solito l’onorevole Maurizio Gasparri (FI) che si è spinto fino a parlare di “un pericoloso atto di grave intimidazione nei confronti del Parlamento”. A sua volta, l’on. Tommaso Calderone (FI), firmatario della proposta sulla separazione, l’ha definita “una riforma fondamentale per avere finalmente una giustizia efficiente, giusta e trasparente”. Tralasciando le farneticanti accuse di Gasparri e premesso che la separazione delle carriere non è per nulla idonea a rendere la Giustizia più “efficiente e giusta” (ben altre sono le riforme necessarie a tal fine), va rilevato che non ha più senso richiamare nell’appello “la comune cultura della giurisdizione”, per il semplice motivo che la separazione, sia pure delle funzioni, tra magistrati inquirenti e giudicanti, esiste già da tempo: infatti oltre il 90% dei magistrati che assumono le funzioni di pm continuano, nel corso della carriera, a esercitare le medesime funzioni, sia perché l’incarico di pm è più appetibile e prestigioso, sia per le restrizioni imposte al cambio di funzioni dal decreto legislativo del 2006 e dalla legge 111/2007 (mai, in realtà, veramente osteggiata dall’Anm). Tant’è che nel 2021 i cambiamenti di funzioni sono stati solo 21 su 9mila magistrati. Ciò ha portato, nel corso degli anni, di fatto, alla separazione delle funzioni, all’abbandono della cultura della giurisdizione e a un progressivo appiattimento delle funzioni di pm su logiche prossime a quelle di polizia. Tale situazione è destinata ad aggravarsi con la sciagurata “riforma” Cartabia del 2022, che ha irresponsabilmente limitato i passaggi da una funzione all’altra a uno solo nel corso della carriera (e nei primi 10 anni). E ha già spianato alla politica la strada, ormai irreversibile, per compiere l’ulteriore passo, quello decisivo: cioè la separazione delle carriere. Ciò che nell’appello non viene evidenziato è che, nelle pieghe del disegno di legge Nordio (quasi di soppiatto), si rinviene il vero pericolo per l’indipendenza della magistratura (sia inquirente che giudicante): la previsione di mutare la composizione del Csm aumentando il numero degli eletti dal Parlamento, per renderlo eguale a quello dei togati (oggi i “laici” sono 1/3 e e i magistrati 2/3). Questa modifica aumenterà a dismisura il tasso di politicizzazione del Csm, se è vero che i membri laici vengono scelti non tanto per la loro competenza e autorevolezza delle rispettive professioni, quanto essenzialmente (se non esclusivamente) per la loro appartenenza (e fedeltà) al partito che li propone (il più delle volte tra i parlamentari, addirittura tra i sottosegretari), di cui essi sono espressione e di cui seguono le indicazioni. La modifica della composizione del Csm - di cui non si avverte alcuna necessità - è quindi finalizzata a un evidente controllo politico della magistratura e del pm in particolare, tant’è che il disegno di legge prevede anche la modifica dell’articolo 112 della Costituzione, stabilendo che il pm ha l’obbligo di esercitare l’azione penale “nei casi e nei modi previsti dalla legge”. Orbene, affidare al Parlamento “i casi e le modalità” di esercizio dell’azione penale significa rimettere alla maggioranza politica di turno la scelta dei reati da perseguire e da tralasciare, il che comporta pericolose scelte di “opportunità” sicuramente estranee all’attuale dettato costituzionale, secondo cui l’obbligatorietà dell’azione penale concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del pm nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. Come più volte ha ribadito la Consulta. In conclusione, è anche e soprattutto mediante l’aumento del numero dei componenti laici e l’introduzione della discrezionalità dell’azione penale, che si gettano le basi per l’assoggettamento dell’ordine giudiziario al potere politico. Istituire il reato di omicidio sul lavoro: il Pd spinge, l’Usb raccoglie le firme di Mario Di Vito Il Manifesto, 2 settembre 2023 La dem Braga: “Un incentivo a considerare la vita dei lavoratori un bene da difendere”. Sull’onda della strage di Brandizzo si torna a parlare della possibile istituzione del reato di omicidio sul lavoro. Il tema non è nuovo e, per la verità, nel codice penale, all’articolo 589 (omicidio colposo) è già previsto che “se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sette anni”. Quello a cui si aspira adesso, però, è l’istituzione di un reato specifico e così, nelle ore immediatamente successive alla morte dei cinque operai in Piemonte, l’idea è stata nuovamente tirata fuori dalla capogruppo dem alla Camera Chiara Braga. “La prevenzione rimane l’arma più potente - ha detto - ma il riconoscimento di una fattispecie sanzionatoria diventa un incentivo a considerare la vita dei lavoratori un bene da difendere prima di tutto e con ogni mezzo. Perché il dramma di Brandizzo non si ripeta mai più”. La nuova formulazione, secondo la proposta avanzata dal Pd, sarebbe autonoma e prevedrebbe una pena uguale a quella dell’articolo 589 (da due a sette anni), con la possibilità di passare a una più alta (da cinque a dieci anni) se la morte avviene “nell’esecuzione di un rapporto di lavoro irregolare sul piano contrattuale o contributivo”. In caso di più vittime, poi, “si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma non può superare gli anni diciotto”. Nel giugno del 2021, poi, M5s e Uil rilanciarono la proposta di Bruno Giordano, magistrato di Cassazione e in seguito capo dell’Ispettorato nazionale del lavoro fino allo scorso dicembre, per l’istituzione di una procura nazionale esclusivamente dedicata alla sicurezza e all’ambiente. I pentastellati ne ricavarono una proposta di legge, mentre dalla Uil il segretario Pier Paolo Bombardieri si disse pronto a sostenere la proposta nelle piazze, magari accompagnata anche da una sorta di “patente a punti” per le aziende, “in modo da premiare quelle virtuose e penalizzare le inadempienti nell’ambito della salute e sicurezza sul lavoro”. Qualche mese dopo, a novembre, in coda a un decreto del governo Draghi che andava a rafforzare l’Ispettorato nazionale del lavoro e ad ampliare le sanzioni per le aziende, arrivò una nuova proposta da Pd, Leu e M5s: una procura nazionale del lavoro con poteri simili a quella antimafia sul modello di quanto già fatto in Francia e in Germania. Dal punto di vista giudiziario, il problema maggiore per i morti e gli infortuni sul lavoro è quello dei tempi: la prescrizione del reato (nel caso della morte) è fissata a quindici anni, ma accade spesso che in questo lasso di tempo non si riesca ad arrivare a una sentenza definitiva. Quando, ormai due anni fa, Giordano venne ascoltato in Parlamento sul disegno di legge per l’istituzione della procura, parlò di 15mila morti in 14 anni e circa 10 milioni di infortuni, con una media di circa 700mila ogni anno. “Avremmo dovuto avere 15mila sentenze di responsabilità amministrativa a carico delle aziende - disse -, perché ne abbiamo solo alcune centinaia?”. Adesso, forse per ragioni di efficacia comunicativa, l’idea della procura sembra avere meno successo dell’istituzione di un nuovo reato. Il sindacato Usb, ad ogni modo, da luglio raccoglie firme per una legge di iniziativa popolare sul tema e, giusto due giorni fa, l’iniziativa è stata rilanciata anche dalla madre di Luana D’Orazio, l’operaia morta il 3 maggio del 2021 in un’azienda tessile di Montemurlo, in Toscana. La settimana prossima l’Usb ha annunciato sette giorni di mobilitazione nei luoghi di lavoro per promuovere la raccolta (di firme ne servono 50mila, ma si può aderire anche online con Spid e firma elettronica certificata). “Troppe prescrizioni, la giustizia penale ormai non fa più paura” di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 2 settembre 2023 “Non mi stupisco che accadano ancora infortuni sul lavoro di tale gravità. Non mi stupisco affatto, perché basta leggere le sentenze della Cassazione per capire che c’è qualcosa che non va e che per la sicurezza nel mondo del lavoro non si sta facendo abbastanza”. È un’amara considerazione quella che offre l’ex procuratore di Torino Raffaele Guariniello. Si spieghi meglio... “Io leggo tutte le sentenze della Suprema Corte e forse dovrebbero farlo anche i nostri politici. Se lo facessero, si renderebbero conto che la giustizia penale non fa più paura. La maggior parte dei procedimenti terminano con verdetti di prescrizione. E questo crea un senso di impunità”. Allora, qual è la strada da seguire? “I processi devono essere veloci, ma prima ancora lo devono essere le indagini. Quando avvenne la tragedia della Thyssen, svolgemmo tutti gli accertamenti in due mesi e mezzo: il giorno dopo il rogo, gli uomini della guardia di finanza perquisivano la società. Vennero sequestrati i computer e i documenti, questo ci ha permesso di sostenere un processo che ha avuto 5 gradi di giudizio e ottenere un verdetto di condanna. Ogni anno accadono decine di infortuni sul lavoro, alcuni anche molto gravi. Poi però assistiamo a indagini eterne, in cui ci si limita ad affidare agli esperti delle consulenze”. Ma come si affronta il problema? “La verità è che 120 Procure sono troppe. O meglio, sono troppe 120 Procure che si occupano di infortuni. In Italia ci sono tanti magistrati, la maggior parte dei quali bravi. Ma quanti sono veramente specializzati negli infortuni? Lo ripeto da anni, va istituita una Procura nazionale per la sicurezza sul lavoro. Ho avanzato la proposta a questo governo e anche a quelli precedenti. Ma la risposta è sempre stata il silenzio”. Quali sono i vantaggi della Procura nazionale? “Innumerevoli. Esattamente come nel caso della Procura Antimafia, sarebbe composta da magistrati specializzati che conoscono la materia e gli strumenti legislativi che hanno a disposizione. Non solo, quando facevo il magistrato spesso mi veniva rimproverato di non rispettare la competenza territoriale: una Procura nazionale supererebbe questa impasse”. Perché la competenza territoriale è un limite? “Se crolla un ponte bisogna capire i motivi del dissesto, ma la domanda è: quali altri ponti sono a rischio? Ecco il punto. Molti anni fa a Torino cadde una gru a Porta Palazzo e io diedi indicazione di sottoporre ai controlli tutte le gru che c’erano in città. Emersero delle problematiche e alle società venne imposto di mettersi in regola. Questo per me significa fare prevenzione. Le morti sul lavoro si combattano con la prevenzione”. Bisogna cambiare le leggi? “Le leggi ci sono, si possono sicuramente migliorare. Ma il primo passo è consentire all’autorità giudiziaria di fare bene il proprio lavoro. E questo vale anche per gli organi ispettivi, che soffrono di una costante carenza di organico”. “Contro le morti bianche non serve fare il tifo per le procure” di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 settembre 2023 Parla Francesco Paolo Sisto. “Contro gli incidenti sul posto di lavoro bisogna investire sulla prevenzione, ecco quattro possibili direzioni”, ci dice il viceministro della Giustizia dopo la tragedia di Brandizzo. “Dobbiamo evitare che lo sdegno, il dolore e il rammarico per questo gravissimo incidente sul lavoro terminino dopo due giorni e che tutto resti com’è. Questo è il governo giusto per affrontare, e vincere, il tema degli incidenti e delle morti sul lavoro. Il punto di partenza è responsabilizzare le imprese, investire sulla prevenzione, oltre che attivare maggiori controlli, evitando la solita corsa a nuove dosi di sanzioni. Bisogna ripartire dalle imprese, non dalle procure, che naturalmente arrivano sempre dopo, quando è drammaticamente tardi”. Così, intervistato dal Foglio, il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, commenta la tragedia di Brandizzo, dove giovedì notte hanno perso la vita cinque operai. “Le inchieste giudiziarie servono ad accertare le responsabilità - aggiunge Sisto - e quando ci sono cinque persone che perdono la vita la richiesta di accertamento della responsabilità è perfettamente giustificata e doverosa. Ma nella sicurezza sul lavoro la pena rappresenta una sanzione che arriva sempre troppo tardi, quando l’evento tragico è già accaduto. Non credo infatti che spendersi perché la procura individui il prima possibile i responsabili servirà a evitare altri incidenti sul posto di lavoro. Per questo è necessario assolutamente intervenire prima, ragionare sulla risoluzione a monte del problema: bisogna investire sulla prevenzione”. Sisto, penalista di lungo corso e dal 1994 docente in Sicurezza e salute del lavoro presso il Politecnico di Bari, prosegue il suo ragionamento: “Gli infortuni sul lavoro nascono fisiologicamente da eventi contro l’intenzione, colposi. Nessuno vuole che l’operaio muoia o che si faccia male. Allora bisogna operare una scelta netta: investire nella prevenzione. E’ necessario mettere le imprese e i lavoratori nelle condizioni per fare di tutto perché gli eventi avversi non accadano”. Il vice del ministro Carlo Nordio individua almeno quattro possibili direzioni: “Si dovrebbe partire da una defiscalizzazione totale dei costi per la sicurezza, per evitare che sia percepita come un aggravio”. “La prevenzione - spiega - deve essere intelligente, puntuale, mirata, ma anche conveniente, perché in un paese con le imprese così in difficoltà è necessario dare alla sicurezza sul lavoro anche il carattere della non afflittività”. “Una seconda, concorrente, soluzione potrebbe essere rendere obbligatorio il ricorso ai modelli organizzativi e gestionali previsti dal decreto legislativo 231/2001, che devono anche comprendere il tema dei rischi in materia di sicurezza e le scelte organizzative per esorcizzarli”, prosegue. “I modelli 231 costituiscono un passaggio fondamentale - spiega il viceministro - perché rappresentano una sorta di ‘scatola nera’ delle imprese, cioè un luogo privilegiato dove andare a verificare se è stato fatto tutto quello che si doveva fare in materia di prevenzione e di adempimenti”. In terzo luogo, si potrebbe prevedere l’obbligo per le imprese di comunicare agli ispettorati del lavoro le attestazioni degli acquisti in materia di dispositivi di protezione individuale: “Questo significherebbe garantire che ogni impresa ‘carte alla mano’ sarà in condizione, con la corretta provvista dei dispositivi antinfortunistici, di proteggere i suoi lavoratori. E perché, a questo punto, non dovrebbe realizzarlo?”, dice Sisto. “Infine, si dovrebbero introdurre dei meccanismi di formazione obbligatoria per coloro che si propongono come componenti degli organismi di vigilanza, per evitare improvvisatori, in una materia tanto delicata e rilevante”. “Una volta che l’impresa è diventata virtuosa, ferma restando la responsabilità civile al 100 per cento, si potrebbe pensare anche a meccanismi di riduzione progressiva dell’area di rilevanza penale, sul modello già sperimentato della colpa medica”, dichiara Sisto: “Ciò che conta è la verifica che l’impresa ha fatto ottima prevenzione, ha fatto tutto quello che doveva e poteva fare per proteggere i suoi dipendenti”. Insomma, l’obiettivo è chiaro: responsabilizzare le imprese. “Su questo tema ho suggerito al ministro Nordio di istituire in tempi brevi una commissione che nel giro di 60-90 giorni possa ipotizzare delle soluzioni di intervento sul piano normativo”, annuncia Sisto. “E’ chiaro poi che queste proposte andranno coordinate con i ministeri del Lavoro, della Salute e con il Mef. Però sarebbe un importante punto di partenza per dare impulso alla soluzione di un problema di enorme gravità”. “Precarietà e contratti al ribasso a discapito della sicurezza” di Mauro Ravarino Il Manifesto, 2 settembre 2023 Intervista al senatore operaio, Tino Magni: “Dobbiamo coinvolgere le parti sociali, per ridurre le sacche di precarietà e combattere il lavoro nero, investendo sulla prevenzione. Dobbiamo partire dai dati Inail”. Ha appena lasciato il luogo della strage di Brandizzo e ciò che pensa è che un cambio di mentalità non sia più rimandabile. “Dobbiamo rimettere al centro la persona, non il profitto”. Lo dice Tino Magni, senatore di Alleanza Verdi e Sinistra, nonché da giugno presidente della commissione di indagine sulle condizioni di lavoro, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro del Senato. È stato alla stazione del piccolo comune torinese, 48 ore dopo la tragedia. Qui, ha portato solidarietà ai familiari delle vittime e ha incontrato, tra gli altri, i sindaci di Brandizzo e Chivasso, Paolo Bodoni e Claudio Castello. Senatore, di fronte all’ennesima strage sul lavoro, che idea si è fatto su quello che è successo? Non sono un magistrato, ma ritengo che sia incomprensibile morire in questo modo, ancor più se c’è stato un errore di comunicazione. Da troppi anni il lavoro è diventato una merce, per di più mal pagata, e la logica degli appalti e dei subappalti mette ingiustamente la sicurezza tra i costi. Dobbiamo invece mettere al centro le persone. L’errore umano può sempre avvenire ma non per questo uno deve morire, ci vogliono più accorgimenti, tecnologia e segnalazioni in questi cantieri. Siamo davanti a un bilancio drammatico. Muoiono tre lavoratori al giorno e c’è un infortunio al minuto. La precarietà e i contratti al ribasso sono a discapito della tutela della sicurezza dei lavoratori. Le leggi ci sarebbero ma non vengono applicate? La legge 81 del 2008 è avanzata, ma ha 15 anni e andrebbe fatto un check-up, laddove ha dato migliori frutti e dove ne ha dati meno. Agiamo in concretezza. Servono norme che impediscano appalti al massimo ribasso perché chi ne paga il prezzo sono sempre e solo i lavoratori. Si perde in sicurezza e in formazione, su cui gioca un ruolo l’estrema precarietà. Gli operai delle ditte esterne sono, infatti, spesso precari e in pochi mesi di impiego che formazione possono avere? Bisogna cominciare a farla nelle scuole. Da giugno è presidente della commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro, quali gli obiettivi ancor più urgenti dopo una tragedia come quella di Brandizzo? Operare per far sì che la sicurezza non sia un costo ma una risorsa. Lo dobbiamo fare coinvolgendo le parti sociali, per ridurre le sacche di precarietà e combattere il lavoro nero, investendo sulla prevenzione. La settimana prossima nella riunione dell’ufficio di presidenza voglio porre la necessità di un programma di intervento e ispezioni sui luoghi del lavoro. Dobbiamo partire dai dati Inail. Essendo questa commissione una scelta dell’intero arco parlamentare voglio che siano coinvolte in pieno le varie parti politiche. A proposito, arriviamo da anni di tagli sulla sicurezza e anche questo governo non sembra esente alla consolidata prassi. Come si sta comportando? C’è stato un taglio al fondo per i risarcimenti delle famiglie, poi ripristinato. Il governo Meloni in tema di sicurezza sta facendo né più né meno di quello che hanno fatto altri in precedenza. Non sanno come investire le risorse del Pnrr, che dicono esserci, ma non badano alla sicurezza sul lavoro e alla lotta alla precarietà. E non si interviene sul continuo ricorso ad appalti e subappalti. Come mai? Quando le Ferrovie venivano intese come un servizio rivolto ai cittadini erano un corpo unico, c’erano ferrovieri specializzati in ogni ambito e anche la produzione delle rotaie veniva fatta da aziende altrettanto specializzate. Ora si lavora in appalti, la privatizzazione ha portato un peggioramento delle condizioni di chi opera e di chi si serve del servizio. Per non parlare della manutenzione, che vive un continuo decadimento. Per il mercato, la logica è che ogni aspetto determini profitto, tutto il resto è in subordine. Un servizio ai cittadini deve essere, invece, fatto da imprese sane e dalle tasse che i cittadini pagano per la qualità di questo servizio. In commissione vorrei contribuire a un cambio di mentalità, cioè invertire la strada presa: quella del profitto a discapito della sicurezza. Corruzione vera o percepita? Ora l’Italia chiede all’Onu di cambiare metodi di inchiesta di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 2 settembre 2023 Vera o percepita? A Vienna la prima Conferenza globale dell’Onu sui fenomeni legati al malaffare: per la Farnesina è intervenuto Giovanni Tartaglia Polcini, che ha spiegato come gli attuali indici di misurazione producano “risultati distorti”. La prima conferenza globale dell’Onu sulla misurazione della corruzione, svoltasi a Vienna ieri e giovedì, ha consentito di fare il punto su un fenomeno comune a tutti gli Stati ma che nel corso del tempo ha portato alla creazione di non pochi luoghi comuni, spuntando le armi di un effettivo contrasto. Nella capitale austriaca è stato indicato un obiettivo molto chiaro: sviluppare indicatori e dati affidabili e comparabili per migliorare la trasparenza, la responsabilità e l’elaborazione di politiche basate su dati concreti nella lotta alla corruzione. Senza trascurare il superamento degli indici percettivi che tanto hanno penalizzato l’Italia negli anni sul piano reputazionale e che sono stati messi discussione sul piano globale. La conferenza è stata organizzata dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC), dall’Accademia internazionale anticorruzione (IACA) e dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico. A Vienna anche una delegazione italiana con Giovanni Tartaglia Polcini (magistrato e consigliere giuridico presso il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale), Giuseppe Busia (presidente dell’Anac), Giuseppe Abbatino (relazioni internazionali Anac) e Maria Giuseppina Muratore (Istat). Tartaglia Polcini è uno dei massimi esperti mondiali della materia. Nel suo intervento si è soffermato sugli approcci percettivi dei fenomeni legati alla corruzione. Punto di partenza dell’analisi del magistrato il cosiddetto “paradosso del Trocadero”, secondo il quale “più si combatte la corruzione, più viene percepita”. Una teoria messa al centro anche delle indagini dell’Eurispes. “Gli indici di misurazione - ha spiegato Tartaglia Polcini -, basati sulla percezione del livello di corruzione, hanno progressivamente mostrato alcuni limiti intrinseci dovuti a un’analisi soggettiva del fenomeno, che può portare a risultati distorti e parziali. Un’altra questione relativa agli indici di percezione è legata al loro uso improprio, come evidenziato durante la Conferenza di Vienna, con potenziali conseguenze negative in termini di fiducia nei mercati e nelle imprese, e in termini di investimenti esteri”. Il consigliere giuridico della Farnesina ha presentato una proposta. “La creazione - ha detto - di nuovi strumenti di misurazione basati su dati oggettivi, trasparenti e affidabili è un prerequisito essenziale per lo Stato di diritto e per il principio di legalità. Una migliore conoscenza del fenomeno della corruzione e una misurazione oggettiva consentono di meglio orientare le politiche adottate dai paesi per prevenire la corruzione e per l’emanazione di efficaci politiche pubbliche. La misurazione oggettiva e multidimensionale permette anche una migliore comprensione dell’impatto delle politiche, strategie e azioni di lotta alla corruzione e dei risultati raggiunti in termini di integrità”. È stato inoltre sottolineato il contributo italiano su scala internazionale. “Noi italiani - ha aggiunto -Tartaglia Polcini - abbiamo, per unanime riconoscimento sul piano globale, impresso al tema della conoscenza del fenomeno corruttivo un’accelerazione decisiva, culminata nella nostra presidenza del G20 nel 2021. Anche a difesa dell’interesse nazionale abbiamo denunciato che la misurazione della corruzione, rispetto alle origini, ha erroneamente mutato la propria natura”. Da qui l’esigenza di mutare approccio e metodo di indagine. “L’indice percettivo più famoso - ha commentato Tartaglia Polcini - il Corruption Perception Index di Transparency International, è divenuto, infatti, uno strumento di ranking posto alla base di un sistema di comparazione tra Paesi. Esso, più che finalizzato a conoscere la corruzione, si è sempre più manifestato come funzionale all’attribuzione di rating e punteggi di affidabilità ai sistemi nazionali. Ritengo che questo sia uno dei principali problemi collegati agli indici meramente percettivi, per l’uso che si può fare degli stessi e per gli effetti distorsivi che ne possono derivare. Attribuire, invero, un punteggio sulla base di un indice percettivo, che poi viene usato come parametro di affidabilità di un sistema nazionale, può infatti prestarsi, in astratto, a vere e proprie operazioni di ingegneria reputazionale”. La Conferenza della Nazioni Unite di Vienna ha aperto un nuovo corso e fatto emergere il carattere fondamentale della misurazione dei fenomeni corruttivi che dovrà avere nella ricerca un punto di riferimento imprescindibile. “Occorre guardare - ha concluso Giovanni Tartaglia Polcini - alla vera essenza delle nuove forme di corruzione dove esse si manifestano: quella liquida-infiltrativa, quella strategica-aziendale, quella simbiotica, quella geopolitica ed infine la grand corruption e ogni forma di legame tra corruzione e criminalità organizzata, tra corruzione e crimini economici, tra corruzione e riciclaggio di capitali illeciti. Lo scopo della ricerca è creare strumenti, non classifiche. Strumenti per ricostruire e conoscere, non solo per nominare e sminuire, declassare o migliorare. Il multilateralismo anticorruzione è efficace ed efficiente, e sempre più necessario. Abbiamo bisogno di esperienza, di strumenti, non di classifiche tecnicamente e scientificamente non verificabili, con rischio di grande ed immeritato impatto reputazionale. Dobbiamo investire su strumenti e metodologie realmente utili e efficaci per misurare, conoscere e quindi meglio combattere la corruzione. Il multilateralismo e l’apprendimento mutuo sono certo che continueranno a illuminare il nostro cammino”. Amato: “Ustica, il Dc9 fu abbattuto da un missile francese. Macron chieda scusa” di Simonetta Fiori La Stampa, 2 settembre 2023 L’ex premier: “Era scattato un piano per colpire l’aereo sul quale volava Gheddafi, ma il leader libico sfuggì alla trappola perché avvertito da Craxi”. “Adesso l’Eliseo può lavare l’onta che pesa su Parigi”. Dopo quarant’anni le vittime innocenti di Ustica non hanno avuto giustizia. Perché continuare a nascondere la verità? È arrivato il momento di gettare luce su un terribile segreto di Stato- o meglio - un segreto di Stati. Potrebbe farlo il presidente francese Macron, anche anagraficamente molto lontano da quella tragedia. E potrebbe farlo la Nato, che in tutti questi anni ha tenacemente occultato ciò che accadde nei cieli italiani. Chi sa ora parli: avrebbe grandi meriti verso le famiglie delle vittime e verso la Storia”. In una lunga vicenda segnata da opacità, depistaggi e silenzi omertosi, Giuliano Amato ha rappresentato quella parte dello Stato che più s’è adoperata per arrivare a una verità giudiziaria e storica sull’abbattimento del Dc9 dell’Itavia il 27 giugno del 1980. Un traguardo ora lumeggiato dall’inchiesta bis della Procura di Roma, con nuove prove a carico dell’aeronautica francese. Protagonista della politica nazionale nel ventennio delle indagini su Ustica, testimone di passaggi delicati, ora Amato ci affida la sua ricostruzione di quel tragico incidente, dei tentativi di depistaggio, delle omissioni di politici e militari, nella speranza che possa favorire un nuovo esame di coscienza, in Italia e nel mondo. Presidente Amato, qual è la sua ricostruzione dei fatti? “La versione più credibile è quella della responsabilità dell’aeronautica francese, con la complicità degli americani e di chi partecipò alla guerra aerea nei nostri cieli la sera di quel 27 giugno. Si voleva fare la pelle a Gheddafi, in volo su un Mig della sua aviazione. E il piano prevedeva di simulare una esercitazione della Nato, con molti aerei in azione, nel corso della quale sarebbe dovuto partire un missile contro il leader libico: l’esercitazione era una messa in scena che avrebbe permesso di spacciare l’attentato come incidente involontario”. Ma le cose andarono molto diversamente... “Gheddafi fu avvertito del pericolo e non salì sul suo aereo. E il missile sganciato contro il Mig libico finì per colpire il Dc9 dell’Itavia che si inabissò con dentro ottantuno innocenti. L’ipotesi più accreditata è che quel missile sia stato lanciato da un caccia francese partito da una portaerei al largo della costa meridionale della Corsica o dalla base militare di Solenzara, quella sera molto trafficata. La Francia su questo non ha mai fatto luce”. In qualità di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, sei anni dopo la tragedia del Dc9, ebbe mai informazioni dirette dai comandi militari italiani? “Da principio i militari si erano chiusi in un silenzio blindato, ostacolando le indagini. E quando da sottosegretario alla Presidenza ebbi un ruolo in questa vicenda, nel 1986, cominciai a ricevere a Palazzo Chigi le visite dei generali che mi volevano convincere della tesi della bomba esplosa dentro l’aeromobile. Era da tempo crollata la menzogna del “cedimento strutturale” dell’aeromobile e bisognava sostituirla con la tesi altrettanto falsa del “cedimento interno a causa dell’ordigno”. Erano in azione i depistatori per nascondere la guerra aerea della Nato... “Ovviamente mi chiedevo perché venissero a dirmi queste falsità. Capivo che c’era una verità che andava schermata. E la nostra aeronautica era schierata in difesa della menzogna. C’era qualcosa di molto inquietante in tutto questo. Se tanti militari, tutti con incarichi ufficiali molto importanti, dicevano la stessa cosa palesemente falsa dietro doveva esserci un segreto molto più grande di loro. Un segreto che riguardava la Nato”. Perché lei fu investito della questione di Ustica? “Fu il presidente del Consiglio Bettino Craxi a chiedermi di occuparmene nell’agosto del 1986. La sollecitazione era arrivata dal presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, su pressione di parlamentari e intellettuali. A quell’epoca navigavamo ancora nel buio”. Si dice che Craxi fu infastidito dalla richiesta di Cossiga: ma come, eri tu presidente del Consiglio nel 1980, quando fu abbattuto l’areo, e ora vieni a chiederne conto a me? “Io ricordo che Craxi era insofferente alle mie perplessità sulle tesi dei generali. Andavo da lui per avere sostegno sui fatti che secondo me le smentivano e lui mi diceva senza mezzi termini che dovevo evitare di rompere le scatole ai militari. Poi mi faceva fare, perché questo era il nostro rapporto. Ma non era contento”. S’è fatta una idea del perché fosse insofferente? “Avrei saputo più tardi - ma senza averne prova - che era stato Bettino ad avvertire Gheddafi del pericolo nei cieli italiani. Non aveva certo interesse che venisse fuori una tale verità: sarebbe stato incolpato di infedeltà alla Nato e di spionaggio a favore dell’avversario. In fondo è sempre stata questa la sua parte. Amico di Gheddafi, amico di Arafat e dei palestinesi: uno statista trasgressivo in politica estera”. Ma questo vuol dire che Craxi nel 1980 era stato informato del piano Nato? “Non direi. Forse aveva ricevuto qualche soffiata e ha avvertito Gheddafi. Ma non credo ne sapesse più degli altri. Ho sempre avuto l’impressione che la politica avesse meno informazioni rispetto agli alti comandi militari. C’è una cosa che pensai allora ma non dissi perché facevo parte del ceto politico e poteva sembrare una giustificazione autoassolutoria”. Cosa pensava? “Non era del tutto irragionevole che i generali, per tenere al sicuro il segreto, si guardassero bene dal condividerlo con i politici. Per il ceto politico le occasioni per parlare sono molto più numerose rispetto al mondo militare. Così i politici vennero tenuti rigorosamente fuori dal perimetro della verità”. La politica non ebbe la forza morale per imporsi sugli apparati che occultavano i fatti. E forse non aveva interesse ad approfondire... “Questo è certo: non aveva convenienza a sapere fino in fondo. Che cosa avrebbe potuto significare chiarire subito questa faccenda? O che i politici erano stati complici di un delitto orrendo. O che l’apparato della Nato poteva decidere un atto di guerra in tempo di pace senza prendersi la briga di avvertire il ministro della Difesa, violando palesemente la nostra sovranità nazionale. Quindi per la politica significava ammettere di non contare niente. In ogni modo la verità risultava scomoda. Ed era meglio lasciarla sepolta”. Lei perché non fu convinto dalla tesi della bomba? “Mi ero andato a studiare gli atti della prima commissione ministeriale guidata da Carlo Luzzatti. Le relazioni tecniche avevano escluso fin dal primo momento l’ipotesi di una bomba esplosa all’interno. Tutto, dagli squarci nell’aereo ai brandelli dei sedili, accreditava al contrario la tesi di un impatto esterno con materiale esplosivo. E poi rimasi molto colpito da un altro elemento. Lessi la perizia medica sul corpo dell’aviere libico ritrovato sui monti della Sila il 18 luglio del 1980, tre settimane dopo la tragedia del Dc 9: parlava espressamente di avanzato stato di putrefazione. Non poteva essere morto il giorno prima. Perché ce lo volevano far credere le ricostruzioni ufficiali? “. Quindi quello era il Mig libico contro cui mirava l’areo francese la sera del 27 giugno? “Avendo intuito il pericolo di tutto quel movimento in cielo, il pilota del Mig s’era nascosto vicino al Dc 9 per non essere colpito. Ma tutte le evoluzioni aeree impreviste provocarono l’esaurimento del carburante, per cui il velivolo cadde sulla Sila per mancanza di cherosene. Esiste un’altra versione secondo cui il Mig sarebbe stato colpito dal missile francese e la deflagrazione avrebbe travolto il Dc9, ma questa tesi mi convince di meno”. Lei rese pubbliche le sue opinioni sull’abbattimento del Dc9 a causa di un missile? E sulla coincidenza con la caduta del Mig libico sulla Sila? “Sì, nel settembre del 1986 andai in Parlamento per rispondere a un’interrogazione fatta al presidente del Consiglio. E fu proprio da quel momento che attirai l’interesse di due mondi contrapposti: da una parte dei generali che venivano a trovarmi a Palazzo Chigi per parlarmi della bomba, dall’altra di un giornalista bravo e ostinato come Andrea Purgatori con il quale sarebbe cominciata una bellissima collaborazione”. Lei prima ha usato l’espressione impersonale: “Si voleva fare la pelle a Gheddafi”. Ma chi? E perché? “Sul “chi” le ho già detto della presumibile mano francese, che però non può non essere stata autorizzata dagli americani: è impensabile che una sporca azione come questa sia stata progettata mentre i generali americani erano impegnati a giocare a boccette. Sul perché la domanda resta aperta: a distanza di anni non sono riuscito a trovare una risposta”. La Francia era in guerra con la Libia nel Ciad. E gli americani guardavano con sospetto a Gheddafi per le sue relazioni con il terrorismo internazionale. Sono ragioni sufficienti? “Nella prassi delle nostre relazioni internazionali, nella stessa prassi delle vicende oscure, contrasti e conflitti di questo genere non portavano ad azioni così dirette e clamorose”. Lei ebbe un ruolo anche nel recupero del relitto, finanziando nell’87 l’impresa. Ma questo lavoro venne affidato a una ditta di Marsiglia legata ai servizi segreti francesi, la Ifremer. Una decisione che oggi appare improvvida. Perché questa scelta? “La scelta della ditta non dipese da me, essendo di competenza del giudice che allora faceva l’indagine, il dottor Vittorio Bucarelli. Con quel magistrato ebbi un rapporto piuttosto burrascoso. Qualche anno dopo sarebbe arrivato a querelarmi. Davanti alla commissione stragi, nel 1990, dissi che esistevano delle fotografie del relitto scattate dagli americani prima del recupero, circostanza di cui ero stato messo al corrente proprio dal giudice Bucarelli. Ma questi negò di avermelo detto. E davanti alla mia insistenza decise querelarmi, lasciando il suo incarico”. Diciamo che a dieci anni dalla tragedia, anche a causa dei numerosi depistaggi e delle resistenze dei militari, l’inchiesta giudiziaria non aveva fatto passi da gigante... “Dopo sarebbe arrivato Rosario Priore, un bravissimo giudice istruttore con cui ebbi una forte intesa. Ma anche Priore dovette fermarsi sulla porta della Nato. Insieme maturammo la convinzione che bisognava rivolgersi ai governi dei paesi coinvolti nella guerra aerea. Così, tornato nel Duemila a Palazzo Chigi in veste di presidente del Consiglio, su richiesta di Priore scrissi ai presidenti Clinton e Chirac sollecitandoli a fare luce sulla tragedia area. Ne ebbi risposte gentilissime che mi rimettevano agli organi competenti. Ma più tardi non avrei saputo nulla. Silenzio totale”. Anche Priore propendeva per la tesi della responsabilità francese? “Sì, andava in questa direzione. Non a caso concordai con lui la formulazione delle lettere a Clinton e Chirac”. La tesi della mano francese ebbe nuova linfa da Francesco Cossiga. Nel 2008, dopo quasi trent’anni di silenzio, disse di aver saputo della guerra aerea e del missile francese dall’ammiraglio Martini, capo del Sismi, i servizi segreti militari. In quella circostanza la coinvolse, raccontando che all’epoca - seconda metà degli Ottanta - Martini aveva informato anche lei, in veste sottosegretario alla presidenza... “No, accadde esattamente il contrario. Fulvio Martini era uno di quei generali che venivano a trovarmi con assiduità per convincermi della bomba a bordo. Fu però lui a mettermi in guardia sull’opportunità di affidare alla ditta di Marsiglia il recupero del delitto: forse proprio perché sapeva della responsabilità dei francesi. Ma a me non lo disse”. Perché allora Cossiga scelse di coinvolgerla? “È difficile trovare una risposta. Aveva disturbi bipolari, era un uomo di forti sofferenze e grandi intuizioni. Sono stato a lungo testimone e riequilibratore delle sue intemperanze: cercando di proteggerlo da sé stesso ho anche visto le sue bizzarrie. Devo dire che con quella deposizione nel 2008 diede un grande contributo al raggiungimento della verità. E invece nulla poi è accaduto”. Tra fedeltà alla Costituzione e fedeltà alla Nato in tutti questi anni è prevalsa la seconda? “Purtroppo sì. E questo non dovrebbe accadere perché la Nato sta dentro l’articolo 11 della Carta, quindi dovrebbe operare in modo da realizzare pace e giustizia fra le Nazioni. Qui invece cosa è successo? Un apparato costituito da esponenti militari di più paesi ha negato ripetutamente la verità pensando che il danno sarebbe stato irrimediabile per l’alleanza atlantica e per la stessa sicurezza degli Stati. E quindi tutte queste persone hanno coperto il delitto per “una ragion di Stato”, anzi dovremmo dire per “una ragion di Stati” o per “una ragion di Nato”. In base alle regole della ragion di Stato, il crimine forse sarebbe stato meno grave se fosse stato soppresso il leader libico, che era l’obiettivo dell’azione militare. Ma invece sono stati uccisi ottantuno innocenti passati lì per caso. E quindi resta un delitto gravissimo”. Ha senso continuare a coprirlo? “È questo il punto. Non giustifico e tuttavia comprendo le spinte che allora portarono all’occultamento della verità, ma quarant’anni dopo è difficile da capire. Ci guadagna la Nato ad apparire ancor più disumana, nascondendo ancora una tragedia del genere? “. C’è ancora chi sostiene la tesi della bomba... “Sì, tra loro Carlo Giovanardi, sempre impavido. Ma se allora non ci credevo, oggi mi cadono le braccia. Sono patetici”. Quella del Dc 9 è una tragedia costellata da morti oscure, suicidi, forse omicidi travestiti da incidenti. Alcuni testimoni sono scomparsi in circostanze misteriose. E - sempre secondo il racconto di Cossiga - anche il pilota francese che ha sganciato il missile si sarebbe suicidato perché schiacciato dai sensi di colpa... “Tanto più è fitto un mistero, quanto più l’enigma inghiotte episodi che magari nulla hanno a che vedere con la vicenda ma inevitabilmente acquistano una connotazione sinistra. Per dipanare la matassa bisognerebbe fare luce su ciò che realmente è accaduto”. Che cosa si aspetta dalla Francia? “Mi chiedo perché un giovane presidente come Macron, anche anagraficamente estraneo alla tragedia di Ustica, non voglia togliere l’onta che pesa sulla Francia. E può toglierla solo in due modi: o dimostrando che questa tesi è infondata oppure, una volta verificata la sua fondatezza, porgendo le scuse più profonde all’Italia e alle famiglie delle vittime in nome del suo governo. Il protratto silenzio non mi pare una soluzione”. Anarchici di Bezmotivny: cade l’accusa di terrorismo, ma restano le misure cautelari di Mario Di Vito Il Manifesto, 2 settembre 2023 La decisione del tribunale di Genova. Non erano terroristi i nove anarchici arrestati lo scorso 8 agosto tra Genova, La Spezia, Massa e Carrara. Il tribunale del riesame di Genova, infatti, ha cancellato l’accusa di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo per i redattori della rivista Bezmotivny - Senza Motivo, finiti al centro dell’inchiesta “Scripta Scelera” proprio a causa della realizzazione di un periodico diffuso in poche centinaia di copie e già chiuso al momento degli arresti. Annullati per difetto di motivazione anche i sequestri effettuati durante il blitz. Restano in piedi, comunque, le accuse di stampa clandestina e di offesa all’onore del presidente della Repubblica. Di conseguenza le misure cautelari sono state confermate: in quattro restano agli arresti domiciliari, mentre per gli altri cinque c’è l’obbligo di dimora. Le motivazioni del riesame verranno depositate nel giro di un mese e mezzo, poi gli avvocati valuteranno se impugnarle. L’inchiesta, comunque, sembra essersi già sgonfiata: il reato più grave tra quelli ipotizzati è venuto meno, nonostante nell’ordinanza di arresto si leggesse che “è praticamente certo che l’attività apologetica e istigatoria proseguirà sostenuta dal vincolo associativo che, in quasi tre anni di vita, si è consolidato ed è il motore della vita del periodico. Tutti sono assiduamente dediti alla formazione della rivista, ciascuno col proprio ruolo principale, che spesso si accompagna ad attività diverse”. Davanti al giudice, però, a prevalere sono state le argomentazioni dei difensori, che hanno parlato di sproporzione e abnormità delle accuse. Bezmotivny - che ha cessato le pubblicazioni a metà luglio perché, parole loro scritte nell’editoriale dell’ultimo numero uscito, ad occuparsene erano rimaste solo “tre o quattro” persone - era un quindicinale nato in seno al circolo Gogliardo Fiaschi di Carrara, attivo ormai da decenni e parte della storia culturale e politica della cittadina toscana. Nella rivista si potevano trovare riflessioni abbastanza canoniche per l’ambiente anarchico italiano, oltre a prese di posizione su temi locali e cronache delle varie iniziative e comunicati di gruppi da ogni parte del mondo (altra prassi abbastanza in voga tra le pubblicazioni anarchiche). Questi ultimi sono stati interpretati dagli investigatori come fondamento di un’ipotetica associazione a delinquere. Per esempio, segnalando i comunicati e le azioni di solidarietà verso Alfredo Cospito, Bezmotivny è stata tacciata di aver dato “risalto in termini positivi alle relative rivendicazioni”, cosa che sarebbe servita a “perseguire un innalzamento del livello dello scontro con le istituzioni”. E però ai nove anarchici arrestati non è stata attribuita alcuna azione diretta, l’unica colpa individuata dalla procura di Genova è di aver realizzato clandestinamente un quindicinale distribuito in pochi spazi occupati e via abbonamento postale. Troppo poco per ipotizzare l’esistenza di un’associazione sovversiva, abbastanza però per confermare le misure cautelari nei confronti degli indagati. Umbria. Carceri: “La situazione più critica è quella della casa circondariale di Terni” ternitoday.it, 2 settembre 2023 Il procuratore generale Sergio Sottani in visita agli istituti penitenziari della regione, la situazione in città: ci sono cento detenuti in più e 45 agenti di polizia penitenziaria in meno. I “nodi”: droga, autolesionismo e ritardi del tribunale di sorveglianza. “Dai dati forniti in occasione degli incontri emerge che la situazione più critica dal punto di vista del numero dei reclusi è quella della casa circondariale di Terni, che a fronte di una capienza regolamentare di 416 posti letto ospita 510 detenuti, di cui 111 cittadini stranieri”. È questo uno dei passaggi della nota diffusa dalla procura generale dell’Umbria al termine del giro di visite che hanno portato il procuratore generale, Sergio Sottani, nelle carceri della regione. Terni, Orvieto, Spoleto e ieri Perugia: “Nell’incontro con le direzioni degli istituti e con rappresentanze della popolazione detenuta - spiega una nota diffusa dalla procura generale - si sono affrontate le tematiche della carenza di organico della polizia penitenziaria, del sovraffollamento dei ristretti e delle loro condizioni di detenzione oltre che delle attività rieducative e dei tempi di decisione del tribunale di sorveglianza”. Dai dati forniti in occasione degli incontri emerge che la situazione più critica dal punto di vista del numero dei reclusi è quella della casa circondariale di Terni, che a fronte di una capienza regolamentare di 416 posti letto ospita 510 detenuti, di cui 111 cittadini stranieri. La casa di reclusione di Spoleto prevede 456 posti letto e ospita attualmente 458 ristretti (51 stranieri). La situazione della casa di reclusione di Orvieto è di 116 detenuti a fronte di 97 posti previsti (41 stranieri). La casa circondariale di Perugia ha una capienza regolamentare di 328 posti letto a fronte di 339 presenti (193 stranieri). Solo qui è presente la sezione femminile, con 51 donne detenute di cui 23 cittadine straniere. “Nel corso degli incontri, il procuratore generale, richiamando l’articolo 27 della Costituzione che sottolinea la funzione rieducativa della pena - sottolinea la nota - ha evidenziato che per garantire questo e il rispetto della dignità del detenuto, anche attraverso attività finalizzate al reinserimento nella società, è indispensabile avere all’interno degli istituti penitenziari un numero di organico adeguato. Attualmente la situazione delle carceri umbre presenta invece una grave carenza di personale di polizia penitenziaria: la casa circondariale di Terni, dove sono previsti 241 agenti, ne ha attualmente effettivi 196. A Spoleto sono previsti 281 agenti, sono in servizio 237. Il carcere di Orvieto prevede 61 agenti, effettivi 48. Infine, nella casa circondariale di Perugia, sono previsti 248 poliziotti, sono in servizio solo 208. La grave carenza di personale rende quindi molto difficile garantire i servizi rieducativi e l’attività di vigilanza dei reclusi. Gli incontri infatti sono serviti anche ad affrontare i problemi della circolazione della droga all’interno degli istituti penitenziari, oltre che di cellulari e dei casi aggressione al personale, di autolesionismo, suicidi o tentato suicidio, i cui numeri anche in Umbria sono purtroppo preoccupanti”. Fra i dati diffusi, anche quelli relativi allo “stato” detentivo della popolazione carceraria. A Terni, nel corso del 2023, si sono verificati 7 tentati suicidi e due suicidi, con 28 casi di autolesionismo e 5 aggressioni, sia fisiche che verbali, al personale di polizia penitenziaria. Nel carcere di Spoleto si sono avuti 8 tentati suicidi, 76 casi di autolesionismo e 13 aggressioni agli agenti. La situazione di Orvieto è di nessun tentato suicidio o suicidio, 3 casi di autolesionismo, nessuna aggressione alla polizia. Perugia nel corso di quest’anno ha avuto 9 tentati suicidi, 84 casi di autolesionismo e 28 aggressioni ai poliziotti. Secondo la nota della procura, i detenuti hanno “sollevato con particolare vigore la criticità rappresentata dei ritardi nelle decisioni giudiziali del tribunale di sorveglianza. Il procuratore generale ha ricordato le iniziative adottate, anche dal presidente del tribunale di sorveglianza, per ridurre il problema e ha e ricordato le gravi carenze nell’organico del personale amministrativo dell’ufficio stesso”. Infine, altro tema emerso dagli incontri, affrontato soprattutto da parte dei detenuti in regime di alta sicurezza, è quello del “mancato riconoscimento dei benefici chiesti a seguito della riforma dell’ergastolo ostativo e più in generale dei benefici introdotti con la riforma Cartabia. Il procuratore generale ha evidenziato come gli istituti di giustizia riparativa, sicuramente condivisibili nell’ispirazione di fondo e la riforma dell’ergastolo ostativo richiedono tuttavia un investimento da parte del ministero in termini di risorse e personale, in quanto le stesse novità hanno, per un verso, ulteriormente dilatato i tempi di decisione per l’aggravio della procedure amministrative e per l’aumento esponenziale di richieste di benefici e, dall’altro, non hanno comportato un’automatica concessione dei benefici in favore dei detenuti per gravi reati, in quanto l’attuale normativa impone una rigorosa valutazione della sussistenza dei presupposti necessari per ottenere i benefici richiesti”. Il procuratore generale si è infine congratulato per le numerose attività portate avanti dai quattro istituti penitenziari della nostra regione, di cui l’attività teatrale con la messa in scena di alcune opere anche in occasione del Festival dei Due Mondi di Spoleto, oltre che al Teatro Morlacchi di Perugia e in alcuni teatri dell’orvietano è solo una, anche se la più emblematica, delle iniziative intraprese. Detenuto suicida a Frosinone, la sorella: “Perché è stato lasciato solo?” di Giovanni Del Giaccio Il Messaggero, 2 settembre 2023 A dare l’allarme un vicino di cella che gli faceva domande e che non riceveva risposte. Si attende l’esito dell’autopsia prima di fissare il funerale dell’uomo di 35 anni che si è suicidato in carcere a Frosinone. Il detenuto - che sembra avesse problemi di depressione - era ancora vivo quando è stato soccorso, ma purtroppo per lui non c’è stato nulla da fare ed è deceduto in ospedale. A dare l’allarme un vicino di cella che gli faceva domande e che non riceveva risposte. La sorella della vittima ha affidato all’avvocato Marco Maietta la diffusione di una nota e preannuncia un esposto in Procura che sarà inviato anche al ministro della giustizia Nordio, al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e al garante dei detenuti “affinché sia fatta piena luce sulle ultime ore di vita di mio fratello e siano valutate le condotte di tutti. Nessuno me lo restituirà, ma forse nessun altro farà questa morte così triste”. La donna sottolinea come il fratello sia “morto solo e questo per me è inaccettabile, non riesco a darmi pace e non riesco a spiegarmi perché sia stato collocato in cella da solo nonostante le sue problematiche psichiatriche. In carcere tutti sapevano delle sue condizioni e tutti sapevano che negli ultimi giorni aveva già posto in essere atti di autolesionismo: perché lasciarlo solo? Perché non inserirlo in cella con altri detenuti. Perché non predisporre una sorveglianza adeguata h24?”. A questo ha risposto indirettamente, nelle ore successive al suicidio, il “Sappe”, sindacato di polizia penitenziaria, che lamenta l’assenza di agenti e quindi controlli difficili da attuare. La donna si dice “sconvolta e indignata, mio fratello è deceduto alle 22.25 all’ospedale Spaziani e nessuno mi ha avvisato. Sono ancora in attesa che dal carcere mi diano una comunicazione. Dalla sera del 30 agosto nessuno mi ha informato, né dal carcere né dall’ospedale”. Telefonate sono state fatte, ma a quanto pare non c’è stata risposta, mentre la sorella della vittima afferma di aver saputo del decesso “oltre dodici ore dopo, quando i familiari di altri detenuti hanno avvisato telefonicamente mio marito”. Ancora: Mi chiedo: sono stati tempestivi i soccorsi? Poteva salvarsi? Certamente non avrebbe mai potuto uccidersi se non fosse stato in cella da solo. Non meritava di morire così”. “Invito le autorità istituzionali e regionali ad attivare, da subito, un tavolo permanente regionale sulle criticità delle carceri, che vedono ogni giorno la Polizia Penitenziaria farsi carico di problematiche che vanno per oltre i propri compiti istituzionali, spesso abbandonata a sé stessa dal suo stesso ruolo apicale. È solo grazie ai poliziotti penitenziari di Frosinone che non abbiamo contato un altro morto tra le sbarre”. È quanto dichiarato da Donato Capece, segretario generale del Sappe. La stessa sera, infatti, un altro detenuto avrebbe tentato il suicidio. Vicenza. I detenuti dell’Alta Sicurezza: “Condizioni degradanti e disumane” Corriere del Veneto, 2 settembre 2023 Rinchiusi tra le mura di un carcere per scontare una pena, ma non disposti a sottostare a delle condizioni “disumane e degradanti”. Così hanno definito la situazione nella casa circondariale di Vicenza i detenuti che con una lettera datata 30 agosto si sono appellati al mondo oltre le sbarre che sperano possa aiutarli. È da martedì che i detenuti del reparto di alta sicurezza hanno cominciato una protesta pacifica, con quattro “battiture” al giorno (sbattendo pentole o altri utensili sulle finestre per richiamare l’attenzione) e rinunciando al vitto della cucina del carcere. Ma quali esattamente i motivi della protesta? “I detenuti lamentano un caro prezzo dei prodotti di prima necessità forniti dall’impresa aggiudicataria, la scarsa qualità degli stessi. Inoltre, il cibo somministrato dalle cucine dell’Istituto risulta di scarsa qualità e non corrisponde alla quantità prevista”. La lettera poi ricorda come la maggior parte dei detenuti non ha risorse economiche e la mancanza del lavoro li limita anche nell’alimentazione. A tale questione si aggiungerebbe anche quella riguardante l’opera rieducativa e il rinserimento socio-familiare e lavorativo. “La carenza di organico degli educatori e la scarsa attenzione degli stessi nei confronti delle esigenze dei detenuti, - continua la lettera - in primis quella formativa e trattamentale, tradisce la funzione della pena e condiziona negativamente il quotidiano carcerario”. Nella missiva i detenuti descrivono la distribuzione dei carcerati nell’istituto di Vicenza, che pone i “detenuti di media sicurezza nello stesso padiglione dove sono allocati detenuti di alta sicurezza”. Cosa che, secondo le norme, non dovrebbe essere permessa nelle carceri italiane. Viene definita una “mera tortura” la vita di chi deve condividere gli spazi con persone con problemi psichiatrici o tossicodipendenti, che secondo i prigionieri dovrebbero essere “affidati a delle strutture alternative”. Viene in seguito presa in considerazione sia la situazione dell’assenza di un direttore, perché “a scavalco” da più di cinque anni. L’ultimo direttore fisso se ne è andato nel 2017. Ciò significa che non esiste una persona stabile di riferimento, ma un direttore che gestisce più istituti e che cambia, spesso. “La sua assenza condiziona tutto il sistema intramurario, rendendo la carcerazione disumana e degradante per l’inefficienza dello stesso”, spiegano i detenuti. Che aggiungono: “Pochi medici, troppo giovani inesperti, ritardi sulle visite specialistiche e interventi chirurgici. La gestione da parte del coordinatore sanitario Stefano Tolio, mantenuto comunque dall’Usl 8 a fronte dei numerosi reclami avversi al suo operato, risulta fallimentare”. Ora i detenuti attendono una risposta. Bologna. Il Pratello è troppo affollato, l’allarme del Garante dei detenuti Corriere di Bologna, 2 settembre 2023 La situazione del carcere minorile del Pratello preoccupa il Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna Antonio Ianniello. Dopo un sopralluogo effettuato all’interno dell’istituto due giorni fa, spiega in una nota che l’Ipm ha subito “un impatto assai negativo” per “l’apertura del secondo piano detentivo, iniziata a far data dall’ottobre 2021, che ha di fatto raddoppiato la capienza regolamentare dell’istituto”, passata da 22 a 40 ragazzi. A oggi, sono presenti 45 ragazzi, a fronte di una capienza regolamentare di 40. Sono 26 i ragazzi maggiorenni fino ai 25 anni e 19 i minorenni e “fra questi - è l’allarme di Ianniello - colpisce il dato degli stranieri minori non accompagnati che risultano 12”. Proprio quei Misna (minori stranieri non accompagnati) la cui accoglienza tanto sta preoccupando il Comune di Bologna. Le medesime preoccupazioni erano già state riportate a luglio ai vertici del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. Secondo il Garante proprio dall’apertura del secondo piano detentivo sono cominciate anche le attuali difficoltà: l’apertura è avvenuta in un contesto strutturale “inadeguato”, in quanto gli spazi sono ricavati da un edificio storico riadattato. In più, all’aumento della capienza, non è corrisposto alcun incremento dei professionisti che, a tempo pieno, curano gli interventi educativi dedicati ai ragazzi, “né alcuna traccia, nei fatti, di ampliamento della pianta organica degli operatori della polizia penitenziaria”. “Raddoppiando il numero dei ragazzi - spiega ancora Ianniello - sono così anche nei fatti raddoppiate le varie ed eventuali essenziali attività che possono comportare il loro accompagnamento/traduzione all’esterno in condizioni di sicurezza (visite mediche, udienze, trasferimenti), ma il dato numerico del personale dedicato, come detto, è rimasto invariato”. Così durante l’estate proprio l’attuale carenza di organico dei poliziotti “ha comportato la saltuaria riduzione delle attività educativo-trattamentali in favore dei ragazzi, nella misura in cui la mancanza del personale che deve garantire le condizioni di sicurezza può non consentire il regolare svolgimento delle attività”. Il Garante ricorda che “la vocazione educativo-trattamentale dell’istituto rimane ampia e solida, attraverso il quotidiano impegno della direzione e dello staff tutto”. Ma da sola non può bastare per un recupero vero e proprio di giovanissimi che hanno commesso reati anche molto gravi: “Risulta evidente il deterioramento delle condizioni necessarie per mantenere un’accettabile qualità dell’esperienza detentiva per i ragazzi”. Tale “deriva”, nell’assenza di interventi che vadano a incidere sulla qualità delle condizioni di vita dei ragazzi e delle condizioni di lavoro degli operatori, “potrebbe anche portare verso una inaccettabile assimilazione della detenzione minorile alla detenzione degli adulti, aumentando e proliferando il tempo vuoto e privo di qualità che i ragazzi devono trascorrere nelle celle e i contenuti di mera detenzione o contenimento nei loro confronti”. Benevento. Carenza di medici nelle carceri sannite: Ciambriello scrive all’Asl Il Mattino, 2 settembre 2023 Il Garante regionale dei detenuti scrive al dg dell’Asl di Benevento per la carenza medici nelle carceri del capoluogo e di Airola. In questi giorni il garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello, “tenendo presente la carenza di organico che affligge le carceri beneventane, la mancanza di medici, psicologi, psichiatri, anche nel carcere di Airola dove ci sono detenuti con doppia diagnosi, e addirittura dell’assenza di medici di continuità assistenziale nel carcere di Benevento”, ha scritto una lettera al direttore generale dell’Asl di Benevento Gennaro Volpe. “Questa lettera - scrive il garante - per affrontare nuovamente il tema della carenza di medici generici e in particolar modo di quelli specialisti nelle carceri beneventane. Purtroppo, siamo tutti consapevoli della carenza di organico che affligge la sanità, ciò inevitabilmente si riflette nel mondo penitenziario in modo negativo, sostengo ancora che l’unica strada possibile per superare anche gli ostacoli più insormontabili sia una collaborazione proficua. Questa volta Le scrivo perché, nel dettaglio, mancano medici di continuità assistenziale nel carcere di Benevento e in quello di Airola”. E incalza: “Bisogna aumentare il numero di infermieri che sono stati trasferiti senza cambio. Senza alcun dubbio bisogna occuparsi della presenza in carcere di specialisti, soprattutto di medici specializzati in cardiologia e psichiatria. Nell’Istituto penitenziario minorile di Airola ci sono ragazzi con doppia diagnosi, pertanto, risulta urgente la presenza continua di uno psichiatra e di uno psicologo in più in struttura. È fondamentale evadere le richieste di beni materiali necessari come arredi, stampanti, bilancia pesapersone, lettini per laser-terapia, la cui mancanza sta generando malumori tra gli utenti della casa circondariale di Benevento. Mi appello alla sua professionalità e buonsenso affinché, possa prendere in considerazione quanto detto e attivarsi nel più breve tempo possibile”, conclude Ciambriello nella sua lettera. Ferrara. Giustizia Riparativa, protocollo per uno sportello di consulenza e un tavolo territoriale cronacacomune.it, 2 settembre 2023 Portare al coinvolgimento attivo della vittima e del reo, con la mediazione di un terzo soggetto, in azioni atte al superamento dei conflitti scaturiti a seguito di un reato. È questo lo scopo della giustizia riparativa, disciplina giuridica sulla quale il Comune di Ferrara ha aumentato l’impegno - anche a facendo seguito alla legge Cartabia che ne ha rafforzato l’ordinamento - con la creazione di uno sportello di “Giustizia Riparativa e Mediazione Penale” per l’erogazione dei servizi in tale ambito in relazione ai fatti avvenuti sul territorio, e con l’istituzione di un apposito tavolo in sinergia con gli altri soggetti territoriali implicati. L’apertura di un centro fortifica l’intento dell’assessorato alle Politiche Sociali di realizzare, in maniera sempre più efficace, progetti volti alla mediazione dei conflitti finalizzati allo sviluppo della comunità, attraverso un costante lavoro di rete con i cittadini, associazioni ed enti pubblici. Proprio per questo lo scorso 1 giugno, al Comitato Locale per l’area dell’esecuzione penale adulti (Clepa) presieduto dall’assessore alle Politiche sociali del Comune di Ferrara Cristina Coletti, è stata condivisa l’idea di sottoscrivere un protocollo di intesa per dare corpo, oltre allo sportello, anche al Tavolo per la Giustizia Riparativa sul territorio ferrarese. “I percorsi di giustizia riparativa - spiega l’assessore Cristina Coletti - sono istituiti per offrire al reo la possibilità di ‘risarcire’ la vittima del danno subito, e al tempo stesso per permettere a chi ha subito conseguenze di ritrovare la piena dignità. Questo metodo dà modo alle parti di riavvicinarsi, in un contesto in cui, oltre alla componente economica e al danno arrecato, si tiene conto della dimensione emozionale dell’offesa che può essere causa di insicurezza collettiva e può indurre i cittadini a cambiare le abitudini comportamentali. Oltre alla risoluzione dei conflitti, la giustizia riparativa può quindi diventare la soluzione per costruire e rafforzare la coesione sociale. Si tratta di un impegno che rientra in un progetto che l’Amministrazione sta portando avanti da mesi, riconosciuto anche dalla Regione che per questo ci ha assegnato un contributo da 23.600 euro, cofinanziato insieme a Cassa Ammende”. L’iter è stato avviato con l’approvazione dello schema di protocollo, proposto in giunta dall’assessore Coletti, che riunirà l’Amministrazione Comunale e i partner di progetto, ovvero l’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna per l’Emilia Romagna e le Marche (UIEPE di Bologna); il Centro di Giustizia Minorile per l’Emilia-Romagna e Marche; il Provveditorato Amministrazione Penitenziaria per l’Emilia-Romagna e Marche; la Casa Circondariale “Costantino Satta” di Ferrara; la cooperativa Cidas a cui è stata data in capo la gestione dello sportello fino al 17 febbraio 2024 con un affidamento da 22.500 euro. La sede individuata per il Centro di Giustizia Riparativa è via Chiodare 1, in un locale messo a disposizione del Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti di Ferrara, e coinvolge diverse professionalità: un coordinatore, un referente per la comunicazione, un’operatrice di sportello, una referente amministrativa, due mediatori penali formati secondo le circolari europee e riforma Cartabia, un facilitatore penale altamente qualificato e mediatori linguistico-culturali per garantire l’eventuale attività di traduzione. Lo sportello di via Chiodare è accessibile di persona -sempre previo appuntamento- il lunedì dalle 15 alle 18 e il giovedì dalle 9 alle 12. Reperibilità telefonica al 348 9139635 garantita dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13. È possibile scrivere anche a sportellogiustiziariparativa@comune.fe.it Fra le iniziative del centro, vi sarà la presentazione delle attività a tutta la comunità; l’organizzazione di almeno due momenti di informazione sul tema e l’attivazione di almeno due laboratori rivolti ai servizi socio-sanitari e ai detenuti; l’organizzazione di un seminario volto alla promozione dei servizi offerti dal centro. Le attività, che si protrarranno fino a febbraio 2024, saranno realizzate in sinergia con: l’Amministrazione Penitenziaria, nello specifico Uipe (Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna) e corrispondente UEPE (Ufficio di Esecuzione Penale Esterna) territorialmente competente; Centro di Giustizia Minorile; Prap (Provveditorato Amministrazione Penitenziaria per l’Emilia-Romagna e Marche) e relativo rappresentante dell’Istituto Penitenziario di Ferrara; Cam (Centro Ascolto Uomini Maltrattanti); Fondazione Emiliano-Romagnola per le vittime dei reati; Rete DAFNE Onlus; Associazioni di promozione sociale; Centro di mediazione e formazione alla mediazione (CIMFMF); Centro Donna Giustizia. Milano. “Il Mercante di Venezia”: teatro oltre il carcere, in scena giovedì 7 settembre di Paola Ghirardelli* Ristretti Orizzonti, 2 settembre 2023 Nella ferma convinzione che la conoscenza delle proprie potenzialità, capacità, abilità e attitudini, possa contribuire inequivocabilmente a ottenere quei cambiamenti e quelle trasformazioni utili, sia alla realizzazione personale che al confronto con le problematiche e le sfide della vita, e che nulla più del teatro, attraverso una più approfondita conoscenza e comprensione di sé e la scoperta delle proprie risorse e fragilità, possa contribuirvi, l’Ordine degli Avvocati di Milano (Commissione Diritto Arte e Letteratura), unitamente all’Amministrazione Penitenziaria e la Cooperativa sociale Le Crisalidi, grazie alla collaborazione e sostegno dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano, Anteo Spazio Cinema e Bper Banca, presenterà il 7 settembre 2023 alle h.19.00, alla Loggia dei Mercanti di Milano, lo spettacolo teatrale tratto da W. Shakespeare “Il Mercante di Venezia”. Da sempre attento alle problematiche carcerarie e fortemente orientato al recupero dei detenuti, l’Ordine degli Avvocati di Milano, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 27 O.P., sulla necessità da parte degli operatori di utilizzare le attività culturali e ricreative (musica, teatro, danza) per il recupero sociale di chi ha commesso un reato, ha ritenuto, mediante l’uso di uno spazio pubblico cittadino, da un lato di promuovere e sostenere l’impegno al cambiamento degli ex detenuti e quello dei volontari che li assistono, dall’altro di avvicinare la cittadinanza ad una realtà, quella carceraria, poco conosciuta e spesso temuta, in via pregiudiziale; dimostrando che, anche e soprattutto attraverso la cultura, un recupero ed un reinserimento sociale sono sempre possibili. Lo spettacolo sarà preceduto dai saluti istituzionali del Comune di Milano, della Dott.ssa Cosima Buccoliero (direttrice penitenziaria dalla lunga esperienza che proprio da Bollate ha creato e sostenuto progetti di recupero per i detenuti con esemplari successi), del Presidente dell’Ordine Avvocati di Milano, Avv. Antonino La Lumia, dell’Avv. Paola Ghirardelli della Commissione Diritto Arte e Letteratura (che ha ispirato e organizzato il progetto) e della regista e socia della Cooperativa Le Crisalidi, Serena Andreani (che da anni tiene volontariamente corsi e organizza spettacoli teatrali all’interno degli istituti di pena). Qui la locandina: https://www.ordineavvocatimilano.it/media/news/agosto2023/ilmercantedivenezia.jpg *Commissione Diritto Arte e Letteratura dell’Ordine degli Avvocati di Milano Milano. Presentazione del progetto “Mabul” nella Casa di Reclusione di Opera Ristretti Orizzonti, 2 settembre 2023 La presentazione del progetto Mabul - il periodico che nasce grazie a un’idea del detenuto Claudio Lamponi dentro le mura della Casa di Reclusione di Milano-Opera - si terrà il prossimo 28 settembre, presso il teatro del carcere. Mabul è un “giornale costruttivo” pensato, creato e gestito dai detenuti di Opera per raccontare storie e proporre iniziative culturali legate a tutte quelle associazioni già attive dentro le mura carcerarie, ma anche agli enti del terzo settore interessati ad affacciarsi al mondo penitenziario. Con Mabul vogliamo creare una rete di collaborazione e amicizia che migliori la divulgazione dei vari progetti di utilità sociale e penitenziaria ad un pubblico che diventi il più vasto possibile. Abbiamo quindi il piacere di invitarvi il prossimo 28 settembre alle ore 19.00 presso il teatro della Casa di Reclusione di Opera, in via Camporgnago 40 ad Opera (MI). In contemporanea alla presentazione del progetto ci sarà una mostra dei quadri dell’artista romano Mauro Pallotta, in arte MAUPAL. A seguire, lo spettacolo teatrale dei detenuti del reparto di alta sicurezza “Il dramma della caverna”. Per poter partecipare è necessario compilare il seguente modulo google: https://bit.ly/3qW1QrT entro e non oltre il 10 settembre, che trovate sul nostro sito www.mabul.it. In allegato la locandina dell’evento con tutte le informazioni utili e il modulo di iscrizione per eventuali minori. Vi invitiamo a recarvi presso la Casa di Reclusione con un’ora di anticipo rispetto all’inizio dell’evento. Venezia. Progetto teatrale “Passi Sospesi”, Matteo Garrone alla Casa di Reclusione Femminile Ristretti Orizzonti, 2 settembre 2023 Prosegue la proficua collaborazione tra gli Istituti Penitenziari di Venezia e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, con le attività coordinate da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro e responsabile del progetto teatrale “Passi Sospesi”, attivo dal 2006 negli Istituti Penitenziari veneziani. Avviate nel 2008, le iniziative si svolgono dentro e fuori gli Istituti Penitenziari durante il periodo della Biennale Cinema (Casa di Reclusione Femminile - Giudecca, Casa Circondariale Maschile Santa Maria Maggiore - Venezia). In questi anni, sono stati organizzati incontri, conferenze, proiezioni di documentari sul progetto teatrale “Passi Sospesi” nell’ambito della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, ma anche all’interno degli Istituti Penitenziari. Nelle ultime edizioni Michalis Traitsis invita registi e attori ospiti della Mostra per un incontro con la popolazione detenuta, preceduto dalla presentazione dei film più rappresentativi degli artisti ospitati. Negli anni passati hanno visitato le carceri veneziane Abdellatif Kechiche, Fatih Akin, Mira Nair, Gianni Amelio, Antonio Albanese, Gabriele Salvatores, Ascanio Celestini, Fabio Cavalli, Emir Kusturica, Concita De Gregorio, David Cronenberg, Paolo Virzì, Daniele Luchetti, Leonardo Di Costanzo, Silvio Orlando, Susanna Nicchiarelli. Grazie alla Biennale di Venezia e alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, nell’ambito della 80. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, Martedì 5 Settembre 2023, alle ore 16.00, presso la Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, si svolgerà un incontro tra le donne detenute e il regista cinematografico Matteo Garrone, che con il film “Io capitano” parteciperà alla Mostra del Cinema di Venezia 2023. L’incontro è riservato agli autorizzati e si svolgerà presso la sala teatro della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca. E’ prevista inoltre la presenza di un uomo detenuto presso la Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia in permesso, alla presentazione del film di Matteo Garrone “Io capitano” alla 80. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Mercoledì 6 Settembre 2023, alle ore 16.45. La collaborazione di Balamòs Teatro con gli Istituti Penitenziari di Venezia e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia ha come obiettivo quello di ampliare, intensificare e diffondere la cultura dentro e fuori gli Istituti Penitenziari ed è inserita all’interno di una rete di relazioni che comprende come partner il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, il Teatro Stabile del Veneto, l’Università Ca’ Foscari di Venezia, il Centro Teatro Universitario di Ferrara e la Regione del Veneto. Manicomi, carceri, barconi non contengono esseri umani, soltanto corpi di Roberto Saviano Corriere della Sera, 2 settembre 2023 “Il mondo sarà finito, per l’homo sapiens/demens, non quando la specie si estinguerà sul piano biologico, ma quando tutti distoglieranno lo sguardo” scrive Silvia Mazzucchelli, nella postfazione al libro di Carla Cerati “La classe è morta. Storia di un’evidenza negata”, edito dalla preziosa Mimesis. Ho preso tra le mani questo libro e ho iniziato a leggerlo. Le riflessioni che stimolano prefazione e postfazione sono davvero importanti, servono a contestualizzare le fotografie di Carla Cerati e a spiegarne la missione. Sì, la missione, perché sono fotografie militanti, sono fotografie specchio: nei soggetti ritratti, donne e uomini in stato di contenzione, a fine anni Sessanta, nei manicomi di Colorno (vicino a Parma) Gorizia e Firenze, ci siamo noi e la nostra capacità di dare attenzione a ciò che siamo e che ci circonda. In quei manicomi, e in generale nei luoghi in cui ci sono persone private della libertà, c’è il grado di democrazia della società in cui viviamo. E “(...) la democrazia non è solo qualcosa che riguarda la macropolitica, i manicomi e le odierne contenzioni sono veri e propri esperimenti di micro-politica totalitaria. La democrazia si vede nei dettagli, non nei proclami”. La democrazia, o più precisamente la sua negazione, si vede, ad esempio, nella impossibilità di rendere in Italia le carceri dei luoghi in cui non sia costantemente praticata la tortura. Dei luoghi in cui chi è privato della libertà non debba anche subire quotidianamente altre mortificazioni che lo trasformano da essere umano a mero corpo. Ma La classe è morta ci racconta anche una storia di emarginazione e di fragilità. Ci racconta come a essere privati della libertà siano soprattutto i poveri, i diseredati, gli ultimi, gli individui più deboli della società, spesso donne, in difesa dei quali e delle quali difficilmente si leveranno voci. “Io sono convinta - disse Carla Cerati - che le nostre fotografie sono servite ad aiutare Franco Basaglia per realizzare una legge per far chiudere gli ospedali psichiatrici, così come erano intesi allora, vuol dire che la forza di un’immagine è ben diversa dai testi scritti. Le parole si possono smentire! Le immagini no!”. Questo era vero quando dell’immagine non dubitavamo. Quando non eravamo sommersi da immagini abusate e strumentalizzate. Quando esisteva una coscienza di classe, quando era meno complicato afferrare, anche se per poco tempo, anche se fugacemente, la consapevolezza che il confine tra “noi” e “loro” era labile. Quando le fragilità che avevamo accanto riuscivamo a vederle. Quando eravamo capaci di ammettere che la differenza sta nel censo, nel denaro a disposizione, nella possibilità di acquistare quotidianamente la libertà. Sì, perché la libertà ha un prezzo, e non tutti possono permettersela. Oggi, invece, si dubita persino dell’evidenza. La foto di un barcone di disperati nel Mediterraneo la si mostra per far comprendere lo stato di emergenza, la crisi umanitaria, ma anche, dalla parte opposta, per raccontare una inesistente invasione di uomini africani in salute, palestrati, pronti a sostituire la “razza bianca autoctona”. Oggi non crediamo più nemmeno a ciò che vediamo. E questo accade perché non agiamo più spinti da interessi/istanze di classe (La classe è morta, quindi, nella doppia accezione di classe che deve vigilare sul buon funzionamento della democrazia e di classe subalterna, di cui si può disporre senza farsi troppi scrupoli), ma ci muoviamo come una massa alla ricerca di un potere da seguire. Lo aveva teorizzato Elias Canetti in Massa e potere: la massa aderisce sempre all’ideologia del potere, quindi nessuno stupore se oggi questo governo, e tanti altri prima di lui, possono impunemente trasformare gli esseri umani in meri corpi. È un passaggio fondamentale, il mero corpo si può oltraggiare, l’essere umano no. Capire cosa siano stati i manicomi prima della legge Basaglia significa entrare nel mondo concentrazionale, ovvero nel mondo della restrizione personale nelle sue varie manifestazioni. Significa capire cosa il potere ci chiede di accettare, e cioè che intere categorie di persone - da chi sconta una pena, a chi viene emarginato dalla società per la propria eccentricità, a chi tenta di raggiungere l’Europa a causa di discriminazioni, guerre e fame - siano private della loro umanità e ridotte a mero corpo. E del mero corpo, incredibile ma vero, nessuno sembra aver mai avuto pietà. Guardare oltre le sbarre. Quattro artisti, sei detenuti di Lucio Luca La Repubblica, 2 settembre 2023 Il mondo visto dal carcere è il focus della manifestazione che si tiene a Savignano sul Rubicone. Un gruppo di fotografi professionisti e sei detenuti del carcere di Forlì. Insieme per un progetto culturale lungo il quale si snoda Si Fest 2023,1a trentaduesima edizione del festival di fotografia di Savignano sul Rubicone, in programma dall’8 al 10 settembre e poi ancora nei weekend del 16-17 e 23-24 settembre. “Testimone oculare” è il titolo che la direzione artistica affidata ancora una volta ad Alex Majoli ha dato alla rassegna. Perché con Si Fest la fotografia oltrepassa i muri del carcere, simbolici confini dei tanti luoghi ai margini del mondo contemporaneo, dove esclusione e allontanamento sociale annebbiano il desiderio di vita. È lì, in quello spazio tra il dentro e il fuori, che il festival romagnolo ha voluto indagare. Quattro fotografi - Arianna Arcara, Cristina De Middel, Lorenzo Vitturi, Marco Zanella - hanno collaborato con sei persone detenute documentando ciò che ciascuna di loro desidera vedere, o rivedere, del mondo esterno. Accanto a questo focus, ospitato al Consorzio di Bonifica, il percorso espositivo prosegue come lo scorso anno nelle scuole elementari e medie di Savignano, per avvicinare il più possibile alla cultura fotografica allievi e insegnanti. Ogni mostra è associata a una materia diversa per consentire ai visitatori del festival di ragionare con gli schemi mentali degli studenti. Il weekend inaugurale prevede anche letture portfolio e premiazioni. “La fotografia e tutte le arti in generale devono interessarsi della società - spiega il direttore artistico Alex Majoli. Le immagini non possono solo essere reliquie e intrattenimento nei musei o nei festival, devono partecipare alla aletheia della nostra collettività”. E così la scuola primaria “Dante Alighieri” presenta il futuro immaginato da Jacky Connolly, a metà fra videogame e romanzo distopico, e da Jim Naughten, un mondo di animali solitari ispirato alle teorie del sociobiologo Edward Osborne Wilson. Nelle aule della stessa scuola, Olivia Arthur guida una bambina alla comprensione della scomparsa della madre, mentre Karolina Wojtas e Angelo Vignali sembrano dialogare con la geometria e la fisica, la prima con un’irriverente parodia del rigido sistema scolastico polacco e il secondo con le evoluzioni di una camicia che sfida la forza di gravità. A rappresentare le scienze è invece un vero e proprio classico della fotografia, Evidente di Larry Sultan e Mike Mandel, rivoluzionario libro d’artista costruito attingendo dagli archivi di istituzioni scientifiche, gruppi industriali ed enti governativi. L’Istituto comprensivo “Giulio Cesare” ospita invece reportage dal fiume Mississippi (Alec Soth, Sleeping by the Mississippi), dal Libano in crisi d’identità (Myriam Boulos, What’s Ours) e il diario con cui Marvel Harris racconta la sua transizione di genere, l’autismo e la lotta per la salute mentale (Inner Journey). “Vogliamo sostenere il lavoro dei fotografi emergenti, non solo celebrare quello dei maestri già affermati - sottolinea Mario Beltrambini, vice presidente di Savignano Immagini - Il nostro festival ha registrato i cambiamenti del modo in cui la fotografia è stata percepita dalla società italiana negli anni. Ha documentato come, da mezzo per la documentazione e la registrazione di eventi, sia giunta ad essere riconosciuta come forma d’arte”. Per i concorsi di quest’anno, la data più attesa è domenica 10 settembre. In serata sarà infatti assegnato il nuovo Premio “Marco Pesaresi”, dedicato ai fotoreportage. Si Fest, infine, ospiterà anche gli esiti delle attività formative rivolte ai più giovani, a partire dai lavori di Si Fest Kids, le passeggiate di dodici aspiranti fotografi dai 10 ai 13 anni in compagnia di Alessandra Dragoni. Migranti. Enti locali e governatori all’attacco. Zaia: “Siamo al limite”. Il Viminale tenta il dialogo di Eleonora Camilli La Stampa, 2 settembre 2023 Bonaccini chiede un tavolo permanente Stato-Regioni su arrivi e accoglienza. Schlein: “Il governo scarica sue responsabilità sui sindaci”. Dopo settimane di polemiche e accuse il Viminale prova la strada del dialogo con gli amministratori locali, a cominciare dai sindaci. Il primo passo verso è un incontro tra il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi e l’Associazione dei comuni (Anci) fissato già per la prossima settimana, che si terrà probabilmente il 7 settembre. Sul tavolo il tentativo di superare l’impasse sull’accoglienza dei migranti dopo che i sindaci delle città italiane, di diverso schieramento politico, hanno lamentato un’assenza di pianificazione da parte del governo. Non vogliono più strutture improvvisate sui territori né tantomeno le tendopoli. E poi c’è da risolvere la questione dei minori stranieri non accompagnati, cioè dei ragazzi minorenni che arrivano da soli e per i quali è necessario predisporre un’accoglienza adeguata, secondo quanto previsto dalla legge. I posti nelle strutture non ci sono e il rischio è che i minori finiscano in centri di accoglienza insieme agli adulti, in situazione di promiscuità. Questa mattina proprio su questo tema Piantedosi ha incontrato la direttrice regionale dell’Unicef per l’Europa e l’Asia Centrale, Regina De Dominicis. Per far fronte alla situazione verrà aumentato l’impegno dell’organizzazione nei punti di frontiera, come Lampedusa e Pozzallo. Ma il problema resta la mancanza di posti dedicati, sia nella prima che nella seconda accoglienza. Per questo il Viminale sta cercando di reperire fondi europei aggiuntivi per coprire le spese. Anche i governatori reclamano, però, un incontro con il ministro. Il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini chiede di Istituire un tavolo permanente Stato-Regioni, che diventi operativo su arrivi e accoglienza. “Ho già anticipato al ministro Piantedosi la nostra richiesta d’incontro e le questioni per noi essenziali per poter dare una mano a definire insieme misure che rappresentino una soluzione concreta e condivisa al tema dell’accoglienza dei migranti”, spiega Bonaccini. Anche la segretaria del Partito democratico Elly Schlein, dal palco alla Festa dell’Unità, a Carovigno, in provincia di Brindisi critica il governo reo di “scaricare le responsabilità dell’accoglienza. Il provvedimento della Meloni sull’immigrazione, rende più difficile salvare vite in mare e tenta di smantellare l’accoglienza diffusa che può garantire che non ci siano grandi concentrazioni in un unico comune” ha detto. Intanto nella mattinata il ministro ha incontrato un presidente di Regione, Vito Bardi, governatore della Basilicata, che nelle scorse settimane aveva criticato l’invio sul suo territorio di un numero troppo alto di migranti, per effetto del cambiamento dei criteri di redistribuzione. In una nota Piantedosi sottolinea “l’importante contributo” fornito dalla Regione Basilicata sul tema dell’accoglienza. Bardi, fa sapere il ministero, “ha ribadito la piena collaborazione, sinora svoltasi in particolare sul tema dei minori non accompagnati, nel quadro delle particolari esigenze di una regione composta da tanti piccoli comuni e che è tra le prime per accoglienza ed integrazione, a dimostrazione della grande solidarietà del popolo lucano”. Ancora critico sulla gestione del dossier immigrazione è invece il presidente del Veneto, Luca Zaia. “I sindaci hanno ragione - dice - vivono questa difficoltà. Si pensi solo che i sindaci del Veneto hanno dato e stanno dando disponibilità e hanno garantito un progetto di vita ad almeno, mediamente, il 12-13% della popolazione di ogni Comune. Le amministrazioni comunali hanno fatto la loro parte, non possiamo continuare a chiamarle all’appello perché ospitino all’infinito migranti”. Per il governatore leghista l’Europa è “latitante, è il convitato di pietra”. E ribadisce che la sua regione “sta tuttora ospitando 15mila profughi ucraini, scappati da morte e genocidio” e che si è raggiunto “il limite di sostenibilità”. Migranti. La Corte europea accoglie il ricorso di una minorenne del Ghana e condanna l’Italia di Paolo Foschini Corriere della Sera, 2 settembre 2023 lasciata sola nonostante le violenze. La ragazza aveva sedici anni e nonostante fosse arrivata sola, abusata, è stata lasciata senza protezione prima a Reggio Calabria poi a Como nella “prolungata inerzia delle autorità nazionali”. Fino all’intervento di Asgi e Intersos. La brutta notizia per l’Italia è che il nostro Paese è stato condannato dalla Corte europea dei diritti umani per non avere accolto adeguatamente una ragazza del Ghana, minorenne, già vittima di accertate violenze in Libia, lasciandola per mesi in centri di accoglienza tra persone adulte, senza alcuna protezione, in violazione della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, complice anche una “prolungata inerzia delle autorità nazionali riguardo alla sua situazione e ai suoi bisogni di minore”. La buona notizia, se non altro, è appunto quella per cui la Corte ha riconosciuto da una parte i fatti dall’altra il diritto della ragazza a ottenere un risarcimento: come è stato segnalato dalla Associazione studi giuridici italiani (Asgi) e l’organizzazione umanitaria Intersos, che hanno supportato il ricorso della ragazza. La giovane, M.A., era giunta sulle coste italiane nell’ottobre 2016. Pur essendo stata fin da subito identificata come minore straniera non accompagnata, venne ospitata inizialmente presso il Centro “Capitaneria” a Reggio Calabria priva della necessaria assistenza e tutela e in condizioni materiali degradate, in una struttura definita dalla Procura come un luogo non idoneo al suo sviluppo psicofisico, per il sovraffollamento e le pessime condizioni sanitarie. In questo centro di accoglienza i minori ospitati non beneficiavano di alcun servizio, non percepivano alcun tipo di aiuto né economico né materiale ed erano lasciati privi di tutore. Trasferita successivamente presso un altro centro per minori, ma visto il permanere della sua condizione di incertezza sia suol fronte giuridico sia su tutto il resto, la ragazza se ne anò e raggiunse il Nord. Giunta a Como, fu accolta per otto mesi nel centro di accoglienza prefettizio di Via Teodolinda vivendo in un container in una situazione di promiscuità con persone adulte di nazionalità diversa senza nessuna effettiva presenza di educatori né operatori durante la notte. Fin da subito la ragazza dichiarò di essere stata vittima di violenze sessuali. Una psicologa di Medici senza Frontiere certificò che la ragazza “era stata esposta a molteplici esperienze traumatiche nel corso della sua vita quali abusi, molestie e violenze sessuali” e che “la permanenza nel Centro, dove i minori non accompagnati venivano accolti insieme agli adulti e dove non esistevano servizi adeguati ai bisogni delle vittime di violenza sessuale, rischiava di aggravare la sua fragile condizione psicologica”. Tanto la procedura di protezione internazionale quanto la richiesta di collocamento in strutture idonee alle vulnerabilità subirono numerosi ritardi a causa della sostanziale inazione dei tutori nominati dai giudici su richiesta di Asgi e Intersos. Per tre volte Asgi sollecitò anche in seguito un trasferimento in una struttura più idonea. Senza risultato. A quel punto, supportata dalle due organizzazioni, M.A. si rivolgeva alla Corte europea. Ventiquattr’ore dopo il ricevimento dell’istanza la Corte stessa ordinò il trasferimento immediato della ragazza. Ora è ancora Asgi a ricordare che “nel periodo 2016-2017 la situazione a Como si caratterizzava per un’alta presenza di migranti che tentavano di attraversare il confine italo-svizzero subendo molteplici riammissioni e, per un breve periodo, trasferimenti all’hotspot di Taranto”, aggiungendo che “dal settembre 2016 al dicembre 2018 i migranti vennero ospitati presso il centro di istituzione prefettizia di Via Teodolinda”, dove “minori, donne e persone vulnerabili convivevano, in condizioni di promiscuità, in uno spazio caratterizzato dall’inadeguatezza dei servizi, in condizioni di disagio alleviate dall’intervento delle organizzazioni umanitarie”. La sentenza ora pubblicata dalla Corte europea conclude: “La permanenza della ricorrente nel centro Osvaldo Cappelletti, che apparentemente non era attrezzato per fornirle un’adeguata assistenza psicologica, insieme alla prolungata inerzia delle autorità nazionali riguardo alla sua situazione e ai suoi bisogni di minore particolarmente vulnerabile, ha costituito una violazione del suo diritto a non essere sottoposta a trattamenti inumani, come tutelato dall’articolo 3 della Convenzione”. I giudici di Strasburgo hanno così condannato l’Italia a un risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla giovane in violazione dell’art. 3 della Corte europea (divieto di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti). “Questa sentenza che riguarda un caso del 2017 - sottolinea Asgi in una nota - evidenzia come la situazione dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati presenti da tempo serie criticità che impediscono di affrontare adeguatamente la tutela di chi arriva in Italia già vittima di abusi e sofferenze causate anche da pericolosi percorsi migratori dove sono stati costretti a vivere in situazioni di vulnerabilità per la mancanza di vie legali. Risulta inaccettabile che minori e persone vulnerabili debbano subire ulteriori sofferenze in un sistema di accoglienza che non mette al centro la protezione della dignità umana e il superiore interesse dei minori, nonostante vi siano delle normative che da tempo l’Italia ha adottato ed è tenuta ad applicare”. “Risse, omicidi, scarafaggi”. L’italiano in carcere a Panama: “ecco il mio inferno” di Alessandro Dell’Orto Libero, 2 settembre 2023 Stefano Giampaolo Conti ha 38 anni ed è rinchiuso da dodici mesi, in attesa di un processo, nel carcere di massima sicurezza La Joya di Panama, uno dei più duri e infernali del mondo. Sporcizia, scarafaggi, topi, violenza, armi, acqua solo per un’ora al giorno e zero privacy in un’unica cella condivisa con altri 25 detenuti. È accusato di tratta di persone con fini sessuali e rischia dai 20 ai 30 anni, si proclama innocente e anzi incolpa la procura panamense di cospirazione. È stato arrestato la scorsa estate, mentre era su un aereo pronto al decollo per il Costa Rica, e la sua vita da sogno è improvvisamente diventata un incubo: da trader di successo - viaggi, feste, lusso, dollari facili e belle donne - a presunto criminale. Stefano, brianzolo che prima di stabilirsi a Panama cinque anni fa ha girato il mondo, ci racconta la sua storia dal carcere - al telefono, con una connessione internet improvvisata e traballante -, denunciando condizioni inaccettabili e chiedendo di essere trasferito in una prigione più umana. In attesa del processo. Stefano, che ore sono lì a Panama? “Le quattro di notte, siamo indietro sette ore rispetto all’Italia. Approfitto di questo momento in cui gli altri sono tutti fermi per sperare di avere una connessione internet più stabile e riuscire a parlare”. Scusi, ma come è possibile avere un telefono e la rete in carcere? “Le guardie si fanno corrompere e, a pagamento, portano di tutto, anche pistole per 1.000 dollari e kalashnikov per 1.500. Con 600 dollari invece si riescono a recuperare vecchi smartphone. Io ne ho due: uno lo utilizzo come router, con l’altro parlo. Si tratta solo di trovare il posto in cui c’è più segnale, perché siamo isolati e il penitenziario utilizza antenne disturbatrici per impedirci di comunicare. E perché spesso i detenuti fanno arrivare da fuori armi e droga con i droni connessi a internet”. Lei dove è ora? “Nello spazio del mio vicino, lì c’è il punto migliore per connettersi. Gli ho dato 2 dollari per ospitarmi questa notte e lasciarmi parlare”. Come è la cella? “Uno stanzone unico, sarà 60 metri quadrati o più. Siamo in 26 e ognuno separa la propria area, che noi chiamiamo bunker, con un lenzuolo per avere più privacy. Io no, preferisco lasciare tutto aperto. Con altri teli appesi al soffitto, invece, facciamo piccole mensole per gli oggetti”. Il carcere è quello de La Joya, uno dei più duri al mondo... “È fuori città, sul cucuzzolo di una collina abbandonata, e ospita 25mila detenuti. Sono tre edifici: il “gioiellino”, il “gioiello” e il “grande gioiello”, l’ultimo costruito 9 anni fa e riservato solo agli stranieri. È quello in cui sono rinchiuso io: sono cinque settori in blocchi di cemento, in ogni settore una piccola finestra, due docce, due soli vecchi water per 26 persone e sporco ovunque. Non vedo il sole da mesi. E convivo con scarafaggi, topi, insetti, sanguisughe”. C’è l’aria condizionata? “Scherza? Qui fa un caldo infernale: a Panama la temperatura media è di 32 gradi con un’umidità del 90%. Per fortuna sono riuscito a comprarmi un ventilatore”. La giornata tipo? “Io passo il tempo al telefono e riesco a lavorare a distanza come trader, ho due ragazzi in città che mi aiutano a gestire l’attività. Il cellulare mi ha salvato dal suicidio: senza contatti col mondo esterno non ce l’avrei fatta ad andare avanti. Gli altri detenuti giocano a carte, a dadi, bevono e si ubriacano con un distillato che producono qui a base di arance”. Ci sono altri italiani? “Sono l’unico. Tutti mi chiamano Italia, è il mio soprannome”. Con il cibo come fa? “Portano un riso non setacciato pieno di sassi, un pollo che noi chiamiamo “esploso” perché in pezzi minuscoli e un pollo fritto. Quest’ultimo è stranamente buono e mi ricorda quello che mangiavo a casa: pago sempre un cuoco per averne di più. Il resto lo si compra di nascosto. Il vero problema è che c’è pochissima acqua per bere e lavarsi. È disponibile solo per un’ora al giorno e facciamo rifornimenti con i secchi. Quando finisce, usiamo bustine di thé diluite con la pioggia. Meglio di niente”. Quali sono l’odore e il rumore che contraddistinguono questo inferno? “La puzza delle ciotole di cibo quando vengono lavate e la musica colombiana”. Stefano, sta raccontando di condizioni igienico-sanitarie allucinanti. Difficile non ammalarsi... “Ho la scabbia da settimane e tanti altri problemi della pelle, ma qui non esistono né un medico né un’infermeria. Se hai dei disturbi ti devi arrangiare. Io sono riuscito a recuperare qualche pomata, ma è dura”. E le guardie non dicono niente? “Quali guardie? Ci sono, ma sono fuori dall’edificio. Entrano e fanno incursioni solo in caso di disordini. Vuole sapere cosa è successo dopo poco che ero qui?”. Dica... “Vicino a me, durante la notte, è stato sgozzato un detenuto per un regolamento di conti. L’hanno portato via solo la mattina successiva su una carriola - la loro ambulanza - con la testa tranciata quasi completamente a penzoloni. Una volta invece una guardia è stata uccisa a colpi di kalashnikov. Ogni venti giorni arriva l’esercito: 500, 1000 soldati che ci fanno distendere o inginocchiare nel cortile uno sopra l’altro, poi entrano e devastano tutto con il flessibile in cerca di droga, armi, telefoni. Una volta mi sono attardato a uscire e mi hanno stordito col gas al peperoncino. E sa cosa è successo pochi giorni fa?”. Cosa? “È morto un detenuto perché gli hanno sparato troppo gas. Il motivo? Era semplicemente ubriaco”. Lei è stato arrestato il 15 agosto 2022 e dopo più di un anno è in carcere in attesa di giudizio. L’accusa è pesante: tratta delle persone con fini sessuali... “Sono ancora sotto indagine, rischio tra i 20 e 30 anni. Ora sto preparando una denuncia di cospirazione nei confronti della Fiscalia, la procura di Panama: hanno inquinato le prove processuali, occultato documenti che smentivano le accuse, prodotto falsi testimoni, manipolato persone vulnerabili per ottenere false accuse”. Ma lei è innocente? “Assolutamente sì. Sono venuto a Panama cinque anni fa dopo aver girato il mondo due volte senza aver mai avuto problemi. Ma qui è tutto diverso, è un posto particolare che va conosciuto e capito: non c’è turismo per famiglie, ma sessuale. Mi sono stabilito a Panama perché il dollaro agevolava la mia attività di trader e perché attratto dall’apparente libertà del posto. Arrivavo da un divorzio complicato e qui ho trovato la bella vita, soldi e donne. Fermarmi a Panama è stato l’unico mio errore”. Perdoni la domanda secca. Cosa intende con belle donne? “Non mi vergogno a dirlo: escort. Qui la prostituzione è legale, ci sono bordelli ovunque, addirittura due nella piazza più turistica del centro. Io avevo disponibilità economiche e mi accompagnavo con ragazze a pagamento ogni giorno, anche due volte al giorno”. E da cosa nasce l’accusa? “Ho prestato soldi a una ragazza che poi si è dichiarata escort e ho aiutato due tizi colombiani ad affittare appartamenti pensando che sub-affittassero le camere solo per guadagnarsi da vivere. Non sapevo che ospitavano prostitute e ci facevano un business, peraltro legale a Panama. Loro sono vittime come me, ma hanno accettato tutto passivamente, non hanno avuto la voglia e la forza di difendersi. Ce l’ho con loro due perché non mi sono stati di aiuto nella difesa, anzi. Mi hanno fatto dipingere come il boss”. Sono in carcere anche loro? “Macché. Hanno ottenuto i domiciliari: quei due, senza documenti e senza soldi per mantenersi, sono fuori e io sono l’unico dentro”. A lei non hanno mai permesso di andare a casa? “La mia richiesta è stata accolta il 24 febbraio scorso dal giudice, che ha disposto i domiciliari”. E poi cosa è successo? “Che hanno immediatamente fatto ricorso e così dopo soli otto giorni c’è stata una nuova udienza, questa volta con tre giudici che mi hanno tolto i domiciliari all’unanimità. E sa chi è venuto personalmente ad accusarmi?”. Chi? “Emeldo Marquez, un pubblico ministero qui molto famoso, uno che va sempre in televisione (si occupa del caso Ricardo Martinelli, l’ex presidente di Panama accusato di riciclaggio di denaro n.d.r.). Si è scomodato per me...”. Sì, questo effettivamente è un po’ strano. “Ma qui a Panama funziona tutto in modo strano, hanno un concetto tutto loro della legge e della giustizia. Le faccio un esempio: negli uffici del carcere c’è esposto un grande cartello che dice: “Non è compito del carcere riabilitare i detenuti”. Capisce?”. Stefano, in attesa del processo ora cosa chiede? “Che intervenga l’Ambasciata italiana, almeno per essere spostato in un’altra prigione più umana, in cui si possa vivere in condizioni accettabili”. Ecuador. Rivolta nelle carceri, sessanta agenti in mano ai narcos di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 2 settembre 2023 Spettacolare rappresaglia delle gang in risposta alle perquisizioni e ai trasferimenti Nella capitale Quito un’autobomba esplode davanti la sede dell’autorità penitenziaria. Uccisioni di massa nelle carceri, rivolte dirette dalle bande di narcotrafficanti, autobombe e candidati presidenziali assassinati. Questa è la realtà dell’Ecuador dove un’ondata di violenza sta mettendo a dura prova il tessuto sociale e politico del paese. E ora anche uno spettacolare sequestro di agenti carcerari in diversi penitenziari. Sarebbero infatti una cinquantina, ma i numeri potrebbero essere contati per difetto, le guardie più sette agenti di polizia, finiti nelle mani dei detenuti. Probabilmente si tratta di una rappresaglia nei confronti dell’operazione messa in atto mercoledì scorso quando centinaia di agenti di polizia e soldati hanno effettuato una ricerca di armi ed esplosivi nel carcere di Cotopaxi nella città meridionale di Latacunga. Le bande che controllano la struttura dunque non avrebbero tollerato che potesse essere mezzo in discussione il proprio arsenale e sono passate all’attacco rivelando come gli sforzi per prevenire ulteriori violenze nelle carceri, al momento siano risultati vani. Poche ore prima che scattasse il sequestro di massa due autobombe erano scoppiate nel cuore della capitale Quito. Nel mirino degli attentatori ancora una volta l’autorità carceraria (SNAI) e le sue sedi. Il ministro dell’Interno dell’Ecuador, Juan Zapata, ha detto che le autorità stanno prendendo provvedimenti, ma non ha fornito ulteriori dettagli. Il sindaco di Quito, Pabel Munoz, ha invece affermato che nella notte si sarebbero udite anche esplosioni di granate. L’unica cosa trapelata, insieme al fatto che non si sono registrate vittime, e che per l’attentato dinamitardo sono state arrestate sei persone tra cui un cittadino colombiano, a diversi chilometri dal luogo dell’esplosione, ore dopo. I sospetti hanno precedenti per estorsione, rapina e omicidio, Il responsabile della polizia che conduce le indagini, Pablo Ramirez, ha spiegato che almeno uno dei due veicoli è esploso a causa dell’accensione di due bombole di gas con carburante, una miccia lenta e apparentemente candelotti di dinamite, una tecnica che denota una certa abilità nella sua confezione e anche un’agibilità nel manovrare esplodenti. L’Ecuador dunque sta affrontando mesi di crescente disordine e le prigioni sono il campo di battaglia principale delle bande che si contendono le redditizie rotte del traffico di droga. Organizzazioni molto potenti, capaci anche di minacciare e ricattare le stesse istituzioni come successo nel caso dell’assassinio del candidato presidenziale Fernando Villavicencio, ferito a morte durante una tappa della campagna elettorale a Quito il 9 agosto. Un evento che ha scosso il paese anche perché il politico ucciso rappresentava la lotta alla corruzione, della quale proprio i capi dei cartelli dei narcos sono i protagonisti. Sulla vicenda pesa anche il sospetto che la sua morte sia stata agevolata da qualche complicità visto che il candidato cinquantanovenne aveva già rivelato pubblicamente le minacce ricevute. Il presidente uscente Guillermo Lasso ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale in risposta all’omicidio, ha mostrato il volto determinato e l’atteggiamento law and order, lo stesso che sta replicando, sembra senza successo, anche nel caso degli agenti presi in ostaggio. “Le misure che abbiamo adottato, soprattutto nel sistema carcerario, hanno generato reazioni violente da parte delle organizzazioni criminali che cercano di intimidire lo Stato” ha detto Lasso, il quale ha continuato: “Ma siamo fermi e non torneremo indietro sull’obiettivo di catturare pericolosi criminali, smantellare bande criminali e pacificare le prigioni del paese”. Per ora l’obiettivo dichiarato appare lontanissimo come testimoniano le statistiche. Il tasso di omicidi in Ecuador dal 2018 è quadruplicato, i rapimenti sono diffusi e una serie di scontri tra bande di narcotrafficanti rivali ha ucciso almeno 430 persone nelle carceri ecuadoriane dal 2021. L’anno scorso, il paese ha raggiunto un record di 26 assassinii ogni 100mila abitanti, superiore ai tassi di Colombia, Messico e Brasile. Iran. Muore in carcere Javad Rouhi, arrestato perché ballava durante le proteste per Mahsa di Pegah Moshir Pour La Repubblica, 2 settembre 2023 Il 35enne era stato condannato a morte, ma la Corte suprema aveva annullato la sentenza. Chi ha condiviso la prigione con lui racconta di terribili torture. A quasi un anno dalla scomparsa di Mahsa Amini, la 22enne curda morta dopo essere stata arrestata perché non indossava nel modo corretto l’hijab, un’altra morte in detenzione riaccende l’attenzione internazionale sulle violazioni dei diritti umani in Iran. A morire mentre era in custodia della polizia iraniana stavolta è stato il 35enne Javad Rouhi, in carcere dal settembre 2022 proprio per aver preso parte pacificamente alle proteste organizzate dal movimento Donna Vita Libertà, nato dopo l’uccisione di Mahsa. Era stato condannato a morte per tre capi di accusa: “corruzione sulla terra”, “guerra contro Dio” e “apostasia”. La morte di Javed Rouhi - Javed è morto all’ospedale Shahid Beheshti dopo essere stato trasferito dalla prigione di Nowshahr. Si sospetta che sia stato avvelenato con farmaci o droghe, oltre a soffrire di una già precaria condizione fisica e mentale dovuta alla prigionia. A darne notizia è stato il suo avvocato Majid Kaveh. Poco dopo l’agenzia di stampa Isna ha diffuso la versione del regime secondo la quale il ragazzo era stato trasferito per un “attacco epilettico” ed è morto dopo il trasporto in clinica. Il suo arresto è diventato un caso da quando il 26 dicembre scorso i genitori avevano denunciato a Radio Farda di non aver ottenuto il permesso di visitarlo in carcere, consapevoli delle torture che stava subendo. Il padre, chiedendo giustizia per il ragazzo, aveva ricordato che Javad è affetto da problemi mentali, aspetto che rendeva la sua detenzione ancora più difficile. A fine gennaio Amnesty International aveva chiesto la sua scarcerazione, insieme a quella di altri “due giovani manifestanti, Arshia Takdastan e Mehdi Mohammadifard, sottoposti dopo l’arresto a frustate, scariche elettriche, sospensioni con la testa in giù e a ulteriori forme di tortura”. A inizio giugno le tre condanne erano state annullate dalla Corte suprema, ma l’avvocato di Javad aveva chiarito che la decisione sul suo assistito non era ancora definitiva. Il suo caso aveva raggiunto l’attenzione internazionale arrivando fino in Svizzera, dove il parlamentare Marc Jost lo aveva indicato come prigioniero politico. Chi era Javad Rouhi - Laureato in giurisprudenza, originario di Amol, tre giorni prima del suo arresto si era recato a Nowshahr per incontrare l’ex moglie. Per ironia della sorte, quella sera è coincisa con la prima notte di proteste per la morte di Mahsa. Nei primi giorni di detenzione non gli è stato concesso di avere un avvocato ed è stato sottoposto a torture fisiche e mentali, così dure da non permettergli di parlare o di recarsi in bagno. Lo dicono le testimonianze degli altri carcerati. “Era stato sottoposto a prolungata detenzione in isolamento con percosse e fustigazioni”. Che poi aggiungono dettagli: Javad legato a un palo, frustato sulle piante dei piedi, minacciato con una pistola puntata alla testa, vittima di violenze sessuali. “Per ore gli avevano messo sui testicoli del ghiaccio”, aggiungono. Le uniche prove utilizzate dalla magistratura nel suo caso sono state le confessioni ottenute sotto tortura, un video in cui si vede ballare per strada e un altro video in cui si vede una persona irriconoscibile che brucia il Corano. Da qui anche la denuncia per apostasia. Le minacce alla famiglia - La morte di Javad ricorda da vicino quella di Mahsa. E anche stavolta la famiglia del ragazzo è stata perseguitata e minacciata affinché resti in silenzio, privata della possibilità di piangere in pace e di dare l’ultimo saluto al proprio figlio. La scomparsa di Javad è un nuovo avvertimento a tutti coloro che osano dissentire dal regime iraniano. Per questo la comunità internazionale deve chiedere conto all’Iran dei suoi gravi abusi dei diritti umani. La speranza è che sul caso di Javad vengano chiarite le condizioni della morte, che venga emessa una condanna pubblica e che sia aperta un’indagine indipendente. Stati Uniti. Ohio, il video choc: polizia spara e uccide una ragazza afroamericana incinta Il Dubbio, 2 settembre 2023 Venticinque secondi di orrore: il filmato, ripreso dalle bodycam degli agenti, è stato diffuso dall’autorità giudiziaria a distanza di due settimane dai fatti. Ennesimo episodio di violenza da parte delle forze dell’ordine negli Stati Uniti. In Ohio l’autorità giudiziaria ha rilasciato il video (qui il filmato completo) in cui un poliziotto spara e uccide una giovane donna afroamericana, madre di due bambini e incinta di sei mesi, ferma in auto nel parcheggio di uno store, a Blendon Township. L’episodio è avvenuto due settimane fa. Le immagini, registrate dalla body-cam in dotazione all’agente, mostrano un poliziotto avvicinarsi al finestrino di una macchina e chiedere più volte alla ragazza di uscire. “Fuori dall’auto, fuori dall’auto”, le urla, ma la ragazza, Ta’Kiya Young, 21 anni, di Columbus, protesta, si rifiuta di obbedire. La polizia era intervenuta dopo che il dipendente di un supermarket aveva segnalato il furto di prodotti da parte di alcune persone, che poi si erano allontanate. Tra i sospettati è finita anche Young. A un certo punto la ragazza ha acceso la macchina e provato ad allontanarsi. Un secondo poliziotto, che si trovava di fronte all’auto, ha puntato la pistola e sparato un colpo che ha centrato il vetro anteriore della macchina. L’auto ha continuato ad andare avanti per una quindicina di metri fino a fermare la corsa sul marciapiede. La scena è durata venticinque secondi. Dopo aver rotto il vetro del finestrino, aperto il veicolo e estratto il corpo della ragazza, sono stati chiamati i soccorsi. Un medico era di passaggio ed è subito intervenuto, ma non c’è stato niente da fare: Young è morta poco dopo in ospedale, la bambina che sarebbe dovuta nascere a novembre non è sopravvissuta. “Era incinta e madre di altri due bimbi, disarmata, questo va oltre l’ingiustificabile”, ha detto l’avvocato della famiglia, Sean Walton. Che ora chiede giustizia. I due poliziotti sono stati messi a riposo forzato, ma senza sospensione dello stipendio. Un’indagine interna è stata avviata per accertare se sia stata usata una forza eccessiva e non motivata. Secondo il regolamento della polizia dell’Ohio, gli agenti sono autorizzati a sparare solo quando hanno chiara la sensazione che sia l’unico modo per fermare una persona e se si sentono davvero a rischio. Le immagini mostrano che la donna voleva allontanarsi, ma chi ha sparato non è sembrato in grave pericolo, seppure si trovasse davanti all’auto, che si era appena mossa dal parcheggio. Tra l’alto si vede la ragazza sterzare leggermente il volante proprio per uscire quasi lateralmente, forse per evitare l’impatto con il poliziotto.