“Prepotente urgenza”. Le carceri, l’amnistia: il Napolitano dimenticato di Franco Corleone e Andrea Pugiotto L’Unità, 29 settembre 2023 C’è un passaggio della sua presidenza rimasto in ombra in questi giorni di celebrazioni. È la denuncia dello stato delle nostre prigioni, lontano anni luce dalla Costituzione. Culminata nel messaggio alle Camere (il solo del suo mandato) sul dovere di porre fine anche con provvedimenti di clemenza a una situazione non più sostenibile costata all’Italia la condanna della Cedu. Inizia tutto con un convegno del Partito radicale e un’intuizione di Pannella. 1. Della lunga presidenza di Giorgio Napolitano c’è un significativo passaggio che - in queste giornate commemorative - non è stato adeguatamente ricordato. Proviamo a farlo noi che ne siamo stati testimoni e compartecipi. Cronologicamente, si colloca tra la coda del suo primo settennato e uno degli atti istituzionali più rilevanti del suo successivo mandato: il messaggio inviato alle Camere - l’unico della sua presidenza - dedicato alla questione carceraria. 2. Tutto prende avvio dal convegno per la riforma della giustizia, promosso in Senato dal Partito Radicale. È il 28 luglio 2011. A inaugurarlo è il Capo dello Stato con un intervento tutt’altro che rituale. Soppesate con cura, pronuncia parole fiammeggianti per denunciare al Paese la condizione carceraria: è “una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile” che ha raggiunto un “punto critico insostenibile”, “una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell’estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibili in qualsiasi paese appena appena civile”. “Evidente in generale - proseguiva il Presidente Napolitano - l’abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona. È una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita”. Non è un’opinione, né un retroscena. È un fatto, attestato dalla più Alta carica dello Stato: quella detentiva è una condizione di conclamata, flagrante illegalità. 3. Denunciando l’orrore della vita quotidiana nei manicomi giudiziari, il presidente Napolitano aveva ancora negli occhi le atroci immagini riprese durante ispezioni parlamentari svolte, senza preavviso, nei sei OPG esistenti in Italia: “Strutture pseudo ospedaliere che solo coraggiose iniziative bipartisan di una Commissione parlamentare [d’inchiesta sul servizio sanitario, guidata dal senatore Marino] stanno finalmente mettendo in mora”. Il regista Francesco Cordio ne trarrà un docufilm esemplare (Lo Stato della follia, 2013). Quelle parole del presidente Napolitano saranno il miglior viatico per la loro chiusura definitiva, stabilita con legge (n. 81 del 2014) e concretamente realizzata grazie al tenace lavoro del Commissario ad acta nominato dal Governo. Il superamento dell’ultimo residuo manicomiale ha così restituito anche ai folli-rei diritti e umanità. 4. Tutto in salita, invece, sarà il seguito della denunciata illegalità di corpi reclusi in celle stipate fino all’inverosimile. Con intelligenza politica, Marco Pannella coglie immediatamente l’eccezionale rilevanza delle parole di Napolitano (“prepotente urgenza”) e rilancia: vuole che il Quirinale investa il Parlamento del problema, usando la prerogativa presidenziale del messaggio alle Camere. Pannella aveva ragione. Una questione è urgente quando richiede interventi immediati e rapidi; è l’opposto del “puoi farlo quando credi”. Se quell’urgenza è anche prepotente, vuol dire che s’impone come priorità assoluta da affrontare senza indugi. Il Capo dello Stato onori allora le proprie parole, perché anche per lui deve valere la regola del “dico quel che penso e faccio quel che dico”. Per centrare l’obiettivo, il leader radicale sollecita la dottrina costituzionalistica a prendere un’iniziativa. Ne nasce una lettera-aperta, rivolta al presidente Napolitano, che raccoglie numerosissime e autorevoli adesioni tra i giuristi e i garanti dei detenuti (la si può leggere in appendice a un nostro volume: “Il delitto della pena”, Ediesse, 2012). Il suo testo suffraga la denuncia del Quirinale con preoccupate argomentazioni giuridiche ed eloquenti dati numerici. E rivolge al Capo dello Stato la richiesta di un suo messaggio (ai sensi dell’art. 87, comma 2, Cost.) che chiami il Parlamento a sciogliere l’intreccio tra i tempi biblici della giustizia penale e il sovraffollamento carcerario, anche attraverso il ricorso a strumenti di clemenza generale: i soli idonei a interrompere, subito, una persistente situazione d’illegalità interna e internazionale. A quell’interlocuzione (cui lavorò con passione e competenza il consigliere Loris D’Ambrosio) il presidente Napolitano non si sottrae. Risponde pubblicamente, il 25 luglio 2012, sulle pagine del Corriere della Sera. E invita al Quirinale una delegazione dei firmatari della lettera-aperta. 5. L’incontro si svolge il 27 settembre 2012. Entrambi facevamo parte di quella delegazione (con Francesco Di Donato, Fulco Lanchester, Renzo Orlandi, Tullio Padovani, Marco Ruotolo, Vladimiro Zagrebelsky). Ricordiamo bene la lunga conversazione con il presidente Napolitano che, con franchezza, ci illustra le ragioni per cui non intendeva rivolgere un formale messaggio alle Camere. È una facoltà - ci dice - non un obbligo, rivendicando così la scelta di non esercitare tale prerogativa, come già altri suoi predecessori. È un’arma scarica - ci ricorda - che mai ha innescato un processo deliberativo parlamentare, anzi: talvolta il messaggio è stato ignorato, incrinando così l’autorevolezza presidenziale. Nell’era della comunicazione di massa - aggiunge - il messaggio formale cede il posto all’esternazione, al discorso pubblico, alla nota ufficiale diffusa in rete. Terminato l’incontro, però, detta un comunicato stampa in cui segnala alle Camere “sia le questioni di un possibile, speciale ricorso a misure di clemenza, sia della necessaria riflessione sull’attuale formulazione dell’art. 79 Cost. che a ciò oppone così rilevanti ostacoli”. Gli avvenimenti successivi dimostreranno che aveva ragione lui, a temere un messaggio inascoltato, ma che noi non avevamo torto, nell’avvertire il Capo dello Stato che il Paese andava incontro a una condanna esemplare davanti alla Corte europea dei diritti umani. 6. A mutare lo scenario sarà proprio la sentenza-pilota della Corte di Strasburgo (Torreggiani, 8 gennaio 2013): con voto unanime, condanna l’Italia per un sovraffollamento carcerario “strutturale e sistemico” che trasforma la detenzione in una pena inumana e degradante, chiamando tutti i poteri statali ad agire “senza indugio”. Rieletto al Quirinale da pochi mesi, Napolitano svolge egregiamente la sua parte indirizzando il messaggio alle Camere. È l’8 ottobre 2013. Quel testo, ancora oggi, rivela una struttura sapiente. Prospetta una strategia complessiva che prevede “congiuntamente” una serie di interventi capaci di fermare la catastrofe (i rimedi straordinari dell’amnistia e dell’indulto), di limitare i danni (l’aumento della capienza complessiva degli istituti penitenziari) e di risalire la china (attraverso mirate riforme dell’ordinamento penitenziario). E lo fa con i giusti toni: la condanna dell’Italia è definita un “fatto di eccezionale rilievo”; “imperativo”, “dovere”, “obbligo”, sono parole che nel suo messaggio ricorrono dieci volte, spesso insieme all’aggettivo “costituzionale”. Eppure, Camera e Senato non lo discuteranno mai. Per la clemenza necessaria - si disse - non esistevano le condizioni politiche. Quasi che potessero d’incanto materializzarsi da sole. Quasi che la politica non consistesse proprio nell’agire trasformando. La saldatura tra posizioni securitarie, giustizialiste e populiste impedì finanche la calendarizzazione del dibattito. Fu un silenzio imbarazzante: per chi lo mise in atto, non certo per chi l’ha subito. Ancora oggi paghiamo, con il record di suicidi dietro le sbarre, quell’occasione sprecata. Allora, Giorgio Napolitano rivelò una cultura politica consapevole che la bulimia di reati e pene non serve alla sicurezza “che ne viene più insidiata che garantita”. Basta sfogliare settimanalmente la Gazzetta Ufficiale per capire che quella cultura, da tempo, non abita nelle stanze del Governo e nelle aule parlamentari. “Pannella ispirò il messaggio alle Camere di Napolitano sulle carceri. Non fu una vittoria ma la conquista di uno spiraglio di verità” di Andrea Aversa L’Unità, 29 settembre 2023 Intervista a Maurizio Turco, Partito Radicale. Deputato, eurodeputato, Tesoriere e poi Segretario del Partito Radicale. Una vita impegnata in politica e per le battaglie sui diritti umani e civili. Soprattutto, un’esistenza vissuta al fianco di Marco Pannella. Maurizio Turco ci ha rivelato alcuni aneddoti legati al rapporto tra lo storico leader radicale e il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Ha parlato di questo governo e dell’attuale scenario globale, spiegando quali sono le iniziative ‘radicali’ in corso, “Le democrazie liberali più che in affanno sono in ritirata come in Afghanistan, o come l’ignobile abbandono delle giovani iraniane. Purtroppo i regimi autoritari riescono ad esercitare un certo fascino e un’egemonia economica. C’è un’emergenza mondiale legata al rispetto dei diritti umani e al governare le emergenze e le innovazioni globali. Soltanto un’unione federale degli stati democratici e liberali potrà risolverla” e poi, “In Italia c’è un sistema elettorale da regime, gestito da piccoli personaggi con le loro corti di amici”. A dirlo al l’Unità è stato Maurizio Turco, Segretario del Partito Radicale Nonviolento Transpartito e Transnazionale. In occasione di questa intervista esclusiva, l’ex deputato ed europarlamentare ha ricordato come è nato il famoso discorso di Napolitano sulle carceri e rivolto al Parlamento. Con lui abbiamo parlato dell’attuale situazione politica, nazionale e globale, individuandone i punti critici ma anche le loro possibili soluzioni. La prospettiva e l’obiettivo sono sempre gli stessi, quelli che hanno motivato le battaglie di una vita: l’affermazione delle democrazie liberali e soprattutto il rispetto dei diritti umani. In queste ore si sta celebrando Giorgio Napolitano qual è il tuo giudizio sull’uomo politico? “È stato un comunista che nel corso della sua vita, personale e politica, ha riconosciuto in tempo che la democrazia è meglio. Ma non si è adeguato ed ha cercato di dare un contributo alle istituzioni italiane ed europee che non era scontato prevedere”. Napolitano ha parlato alle camere una sola volta e lo ha fatto sul tema carceri. Che ricordo hai di quel periodo? “Ho il ricordo di Marco Pannella che per quel messaggio alle Camere ha dovuto molto digiunare e dialogare. Alla fine non ha vinto Marco, vincere non è mai stato il suo obiettivo tattico, ma ha conquistato un segmento di verità di fronte all’ignavia di un parlamento che ignorava e continua ad ignorare la persistente violazione della Costituzione nelle carceri e la dignità degli esseri umani ristretti. Credo che il rispetto dei diritti dei detenuti sia innanzitutto il rispetto dei principi capitali condivisi: Stato di diritto, democrazia, laicità dello stato, diritti umani. Quando restano parole si calpestano questi principi, e inevitabilmente i principi sono altri e non li si rivendica perché giustamente se ne ha vergogna”. Si dice che quel discorso fu praticamente scritto da Pannella che amava pungolarlo chiamandolo ‘Re Giorgio’ dai microfoni di Radio Radicale… “Marco lo ha sicuramente ispirato e voluto fino a ottenerlo. Napolitano con quel messaggio alle Camere ha difeso la Costituzione, che è stata offesa da chi non lo ha ascoltato, da chi non ha dato seguito a questi suggerimenti di buongoverno, a partire da amnistia e indulto, praticamente la totalità del Parlamento con le solite eccezioni”. Prima il Covid, poi la guerra in Ucraina ed oggi la palese la sfida tra potenze autoritarie (che sono in crescita) e potenze democratiche e liberali (che appaiono sempre più in affanno). Rispetto al tema dei diritti umani così caro al Partito Radicale che scenario stai vedendo? “Le democrazie liberali sopravvivono a sé stesse e più che in affanno sono in ritirata come in Afghanistan, o come l’ignobile abbandono delle giovani iraniane. Più in generale, lasciare uomini e donne nelle mani violente di autocrati è un tradimento del principio dei diritti umani fondamentali ed universali, che si invocano per tutti e ovunque. Ma se chi li invoca poi non fa nulla, li tradisce. Sarebbe già qualcosa se le democrazie occidentali, liberali, atlantiche si unissero per far prevalere il rispetto dei diritti umani rispetto alla loro violazione, a cominciare dal riconoscere le violazioni che essi stessi compiono e fare di tutto per rimuoverle. Diciamo anche che le potenze democratiche e liberali rispetto al passato hanno molto meno appeal perché hanno molto di cui vergognarsi. E non basta dire che in Cina è peggio, in molte parti dell’Africa è peggio, la democrazia è il meglio per tutti non il meno peggio. Di fronte a questo quadro è indubbio che l’”ordine” cinese abbia un suo fascino, e tanti denari per rendersi fascinoso. Ma anche il Qatar, come abbiamo visto con lo scandalo scoppiato al Parlamento europeo. I grandi problemi del nostro tempo non si fermano davanti alle frontiere nazionali, i paesi democratici dovrebbero fare un passo avanti verso il federalismo non solo continentale. Pannella suggeriva un organismo politico, l’organizzazione mondiale della e delle democrazie per elaborare risposte comuni. E quindi partiti che avessero il connotato transnazionale e transpartitico. Ma la realpolitik chiama al potere non al rispetto dei principi fondamentali. All’inizio del ‘900 in diversi paesi europei, il fallimento dei governi di ispirazione democratico liberale - cioè la mancata realizzazione delle premesse e delle promesse - ebbe come conseguenza l’affermarsi di governi autoritari. Ci risiamo? Se non ci risiamo, siamo molto vicini. Quando l’Unione europea non ha la forza di espellere un paese membro il cui capo del Governo rivendica di aver fatto del suo paese una democrazia illiberale evidentemente la forma intergovernativa è fallimentare. E il federalismo ci appare l’unica via di tenere insieme diritto e diritti, cioè affermazione della libertà individuale”. Dopo anni di governi tecnici, a causa di un sistema elettorale imbarazzante, è arrivato Draghi. Poi il centrodestra ha vinto le elezioni e sta governando la Meloni: come sta il ‘sistema - Italia’? “In Italia, il sistema elettorale, a partire dalle condizioni di accesso alla vita politica, sia essa nazionale che europea, non è imbarazzante ma da regime. E se un tempo c’erano i grandi partiti a tenere le fila oggi ci sono i piccoli personaggi con le loro corti amicali o parentali a occupare il potere. Sono rare le personalità in grado di concepire politica, in genere si attardano a consumare l’esistente. Quel che fa specie è che chi ha dovuto vivere una vita di discriminazione politica, quando va al potere anziché dire ‘creiamo le condizioni affinché non accada più’ riproducono i peggiori comportamenti di chi li ha discriminati”. In generale, che prospettive ci sono all’orizzonte sia in ambito nazionale che globale? “Essendo ormai un mondo interconnesso è difficile distinguere il nazionale dal globale, proprio perché i grandi problemi da affrontare non si risolvono a livello nazionale, dai cambiamenti climatici all’immigrazione, alla povertà, a quello che accadrà con l’intelligenza artificiale, la robotica, la tecnologia che ha sempre meno bisogno dell’uomo per produrre. Non essendo in grado di governare questi problemi, mi sembra come se la democrazia liberale fosse finita nelle sabbie mobili inseguita da orde di famelici autocrati. La prospettiva non può che essere quella di unire politicamente i paesi che vogliono e sono liberali per affermare i diritti umani per tutti e ovunque. Soprattutto per coloro che non sanno nemmeno di avere dei diritti inalienabili”. Come sta il Partito Radicale, quali sono le iniziative politiche che avete messo in gioco? “Qualcuno si era illuso che con la scomparsa di Marco Pannella sarebbe finita la conventio ad excludendum nei confronti del Partito Radicale. È evidente ed è sotto gli occhi di tutti che così non è stato. Credo che questo accada perché il regime ha paura che il solo nominare il Partito Radicale, aldilà del perché lo si nomina, possa far ricordare quello che poteva essere e non è stato questo paese. Vorrei solo ricordare che le uniche riforme sociali fatte in questo paese sono opera di convincimento del paese e della classe politica da parte di Marco Pannella nel e con il Partito Radicale. Con il divorzio abbiamo non solo sconfitto una classe politico clerico-fascista ma abbiamo soprattutto fatto emergere che esisteva una società, dei cittadini che non ne potevano più dell’ipocrisia democristiana e della lingua biforcuta comunista. Non c’è più la DC e il PCI, però c’è ancora il Vaticano, c’è ancora una burocrazia improntata ad un passato che non passa. E c’è una classe politica senza spina dorsale. Vorrei ricordare che dal nostro piccolo perché sconosciuto avamposto siamo riusciti a condurre insieme alla Lega un referendum sulla giustizia e a portare al voto 7 milioni di italiani e che chi ha votato sì lo ha fatto su tutti i quesiti, con scorno di chi affermava con sicurezza che due non ce l’avrebbero fatta ad avere la maggioranza dei votanti. C’è un paese che loro non conoscono, dobbiamo trovare tempo, forma e denari per farlo emergere. Sarà una sorpresa, come per il divorzio. Per questo, dal 3 al 5 novembre a Roma, presso l’Hotel Palatino in Via Cavour, terremo il nostro congresso, al quale possono partecipare tutti gli iscritti, cioè tutti coloro che hanno deciso di iscriversi, perché al Partito Radicale si può iscrivere chiunque e nessuno può essere espulso. E ci si iscrive per un anno. Con questo metodo abbiamo evitato incrostazioni burocratiche e fatto vivere la libertà di ciascuno. E infine si vota e si costruisce l’alternativa. Questa è la nostra alterità rispetto agli altri. Tutti, ma proprio tutti”. Lo stigma dei detenuti e le difficoltà di trovare un lavoro fuori dal carcere morningfuture.com, 29 settembre 2023 Nonostante gli sgravi fiscali, solo cinquemila su 57mila lavorano all’esterno del carcere. In più, anche chi trova posto in organizzazioni esterne al penitenziario mentre sconta la pena, raramente riesce a conservare l’impiego anche quando termina il periodo di reclusione. “Il carcere, essendo deputato a far scontare una pena, costruisce volutamente una forma di stigmatizzazione: la persona viene etichettata come qualcuno che deve espiare una colpa. Lo stigma non è quindi un aspetto aggiuntivo, ma costitutivo del sistema penale”. A parlare così è Francesca Vianello, professoressa associata di Sociologia del Diritto, della Devianza e del Mutamento sociale all’Università di Padova e parte del consiglio direttivo di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. “Sarebbe auspicabile, tuttavia, che, durante questo trattenimento, il soggetto fosse spinto a ricostruirsi un’identità diversa”, continua la professoressa, “e che, una volta uscita dal carcere, la persona potesse essere libera da questa forma di stigmatizzazione. Ovviamente non va così e un grande problema di chi viene rilasciato è riuscire a liberarsi dall’etichetta che gli è stata imposta”. Lo stigma costituisce un’identità sociale che non è più intatta: verso chi ne è oggetto non abbiamo più un atteggiamento e delle aspettative neutri, come quelli che riserviamo a chiunque altro. “Si tratta di qualcosa che subito rimanda a degli stereotipi e la detenzione, anche se finita, è un’etichetta che rimane nel tempo, oltre che nella memoria del singolo, anche nella società”, dice l’esperta, “tanto più che adesso chiunque può navigare su internet e vedere cosa ha fatto una persona anche dieci, venti o trent’anni prima. Per questo ci sono state campagne per il diritto all’oblio, a non confrontarsi continuamente con il proprio passato”. Il lavoro: un elemento chiave per abbattere lo stigma - Un tema estremamente rilevante, quando si parla di lotta allo stigma, è quello del lavoro, che in Italia continua - secondo gli esperti - a essere poco indagato. Chi viene rilasciato ha l’urgenza di mantenersi: spesso esce dal carcere portando con sé solo con un biglietto del bus e un sacco di plastica con i propri averi. “Le percentuali di recidiva, in Italia, sono altissime, dal 70 al 75%”, dice Vianello. “Il lavoro raggiunge circa un quarto dei detenuti e spesso si tratta di un lavoro molto dequalificato. La maggior parte di chi ha un impiego ce l’ha alle dipendenze della struttura in cui è recluso: nonostante gli sgravi fiscali per le cooperative e le imprese che impiegano chi è in carcere, solo 5mila detenuti su 57mila lavorano all’esterno”. In più, anche chi trova posto in organizzazioni esterne al penitenziario mentre sconta la pena, raramente riesce a conservare l’impiego anche quando termina il periodo di reclusione. Questo sarebbe, però, un passo importantissimo per uscire da una logica stigmatizzante, che rischia di fomentare dei pregiudizi che spingono le persone alla recidiva. Secondo Andrea Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, la disuguaglianza è qualcosa che comincia ancora prima della carcerazione. “Tante tra le persone nei penitenziari vengono da storie complicatissime, sono un gruppo di persone particolari in termini di fragilità sociali, problemi di salute, anche mentale, con un rapporto quasi inesistente col sistema sanitario nazionale. In parte, si trovano in carcere proprio perché si trovano in queste condizioni: se avessero una situazione diversa, con più possibilità, probabilmente avrebbero accesso a una misura alternativa. E il carcere nella maggior parte dei casi fa ben poco per queste persone”. Se è vero, come ammette l’esperto, che anche questa visione può essere in sé stessa una sorta di stigma - perché appiattisce delle individualità singole e differenti su un pregiudizio comune - è altrettanto vero che bisognerebbe puntare di più sulla formazione professionale, perché le persone detenute escano con maggiori conoscenze e competenze rispetto a quelle con cui sono entrate e riescano a liberarsi in questo modo della pensante etichetta che portano addosso. In Italia esistono istituti penitenziari che garantiscono a chi è rinchiuso al loro interno progetti virtuosi di avviamento all’impiego, ma non sono la regola, anzi. La situazione è fortemente diseguale tra diverse strutture della penisola. Un esempio particolarmente significativo è quello del carcere di Bollate, dove vengono attuati molti progetti, tra cui “Riparto da me”, iniziativa ideata da Fondazione Adecco, e le attività di inclusione dell’impresa sociale Bee4 (progetti che abbiamo raccontato in un precedente articolo). Importante è anche la scuola: le secondarie di primo e secondo grado hanno delle succursali all’interno degli istituti, mentre l’università deve compiere ancora passi avanti in questo senso. “Dal 2018 ci sono più di 40 atenei che garantiscono il diritto allo studio alle persone detenute”, racconta la professoressa, “e, anche se si tratta di una realtà di nicchia - stiamo parlando di mille persone circa su 57mila - ci sono state anche delle grandi soddisfazioni, persone che si sono laureate con bei voti e sono state reinserite in società in maniera più che dignitosa”. L’arma più potente contro stereotipi e pregiudizi è la conoscenza, quindi l’apertura. Vianello, per esempio, porta decine di studenti all’interno delle carceri. “Bisognerebbe che le persone detenute ed ex detenute avessero più occasioni per raccontarsi nella loro totalità”, dice. Secondo l’esperta, poi, il percorso di reinserimento dovrebbe iniziare prima del termine della pena, con un accompagnamento all’esterno che consenta di costruire una situazione dignitosa e una capacità di vivere all’esterno. “Così si aumenta anche la sicurezza, diminuendo le recidive”, conclude la sociologa. “Sembra che il carcere abbia però un valore più simbolico che reale, pare che pochi siano interessati a dare un futuro a queste persone”. Carceri, il sottosegretario Ostellari: “Detenuti violenti subito da trasferire” padovaoggi.it, 29 settembre 2023 Il leghista ha incontrato i provveditori regionali dell’amministrazione penitenziaria e durante il colloquio è stata illustrata la nuova circolare sul trasferimento dei detenuti riottosi. Nella mattinata di ieri, 28 settembre, il Sottosegretario e Senatore padovano Andrea Ostellari, ha incontrato i Provveditori regionali dell’Amministrazione Penitenziaria, insieme al Capo del Dipartimento, Giovanni Russo, e al Direttore Generale dei Detenuti, Gianfranco De Gesu. Durante il colloquio è stata illustrata la nuova circolare sul trasferimento dei detenuti riottosi. Le parole del sottosegretario della Lega - “Chi compie azioni violente a danno di altri detenuti, degli agenti in servizio e del personale sarà trasferito, anche fuori Regione, con celerità ed efficacia - ha dichiarato il Sottosegretario Ostellari, a proposito del nuovo strumento messo a disposizione di direttori e provveditori regionali - La circolare sarà emanata oggi e si inserisce all’interno di un pacchetto di dispositivi su cui stiamo lavorando insieme ai tecnici del Dap e all’ufficio legislativo del Ministero. Fra questi ricordo la norma, in via di definizione, sull’estensione del numero di telefonate concesse ai detenuti, che potranno essere anche illimitate, a discrezione dei direttori e per fini trattamentali. Ho chiesto ai provveditori, che ringrazio per lo spirito di collaborazione, di vigilare sull’applicazione della circolare che prevede la permanenza in cella dei detenuti, quando non siano impegnati in attività trattamentali. L’obiettivo è garantire maggiore sicurezza nelle sezioni, a vantaggio di detenuti e agenti. Le regole esistono e vanno applicate, ne va della credibilità di tutto il sistema”. Decreto giustizia approvato dalla Camera: riforma delle intercettazioni e stretta sui piromani di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2023 L’utilizzo delle intercettazioni viene esplicitamente esteso alle indagini per reati, tentati o consumati, legati al traffico illecito di rifiuti, alle fattispecie aggravate dal metodo mafioso, ai sequestri di persona con finalità estorsive e al terrorismo. Vengono però limitate le trascrizioni delle intercettazioni irrilevanti. Il Pm poi dovrà indicare per iscritto quanto ha speso per ogni intercettazione. Via libera della Camera (con 201 voti a favore, 125 contrari e cinque astenuti) alla fiducia al decreto legge che contiene disposizioni urgenti in materia di processo penale, di processo civile, di contrasto agli incendi boschivi, di recupero dalle tossicodipendenze, di salute e di cultura, nonchè in materia di personale della magistratura e della pubblica amministrazione. Si tratta del dl omnibus che contiene anche le norme sulle intercettazioni. Come stabilito in Capigruppo, al voto finale si arriverà questa sera: le dichiarazioni di voto avranno inizio alle 18.30. Una volta approvato, il decreto passerà al Senato dove i tempi per la conversione sono strettissimi Dalle intercettazioni agli incendiari - Con questo decreto il governo guidato da Giorgia Meloni ha messo mano al terreno sempre delicato delle intercettazioni estendendo il loro utilizzo e creando un archivio centralizzato dove conservarle. Nel provvedimento sono previste anche - per la “recente recrudescenza” di “episodi gravi e allarmanti” - pene più dure per gli incendiari, fondi dall’8 per mille per il recupero dei tossicodipendenti, e misure che eliminano le ultime disposizioni precauzionali di contrasto al Covid, ancora in vigore dal periodo dell’emergenza. Uso intercettazioni esteso a reati aggravati dal metodo mafioso - In particolare, l’utilizzo delle intercettazioni viene esplicitamente esteso alle indagini per reati, tentati o consumati, legati al traffico illecito di rifiuti, alle fattispecie aggravate dal metodo mafioso, ai sequestri di persona con finalità estorsive e al terrorismo. In questo modo l’esecutivo è corso ai ripari dopo che la sentenza 34895 della Cassazione nel 2022 aveva rischiato “effetti dirompenti su processi in corso per reati gravissimi”, aveva sottolineato la premier Giorgia Meloni. Senza l’interpretazione autentica messa in campo adesso dall’esecutivo si rischiava l’inutilizzabilità delle intercettazioni disposte sulla base della giurisprudenza antecedente il verdetto 34895, la quale consentiva l’utilizzo degli strumenti previsti per la lotta alla criminalità organizzata anche in assenza della contestazione del reato associativo. Ora tutto è stato sanato, nero su bianco. Trascrizioni limitate e faro sulle spese dei Pm - Nel verbale di trascrizione delle intercettazioni, che solitamente viene redatto dalla polizia giudiziaria, non potranno essere riportate quelle considerate ‘irrilevanti’ ai fini dell’indagine. Inoltre, le intercettazioni cosiddette ‘a strascico’ saranno limitate ai reati più gravi come mafia e terrorismo. Il Pm poi dovrà indicare per iscritto quanto ha speso per ogni intercettazione. (queste norme sono state introdotte grazie a emendamenti presentati da FI e Azione al decreto omnibus). Archivio centralizzato delle captazioni - Nasce anche una sorta di archivio centralizzato delle captazioni: si tratta di “infrastrutture digitali interdistrettuali” dove verranno custoditi gli ascolti disposti dai singoli pubblici ministeri. Così si è data risposta anche alle criticità, lamentate da molti uffici giudiziari, nella gestione dei dati e dovute alla scarsità degli strumenti tecnologici. L’organizzazione e sorveglianza sull’attività di ascolto resterà nelle mani dei procuratori capo - “fermi il segreto investigativo e le garanzie di riservatezza e sicurezza dei dati” - mentre il Ministero della giustizia assicura l’allestimento e la manutenzione delle infrastrutture, “con esclusione dell’accesso ai dati in chiaro”. Per realizzare l’archivio ci sono 43 milioni di euro per il 2023 e 50 milioni per il biennio 2024-2025. Dalla data di entrata in vigore del decreto, viene autorizzata “la migrazione dei dati dalle singole procure”, tempi e modi saranno definiti con successivo decreto del ministro della Giustizia Giro di vite sugli incendiari - Aumenta da quattro a sei anni di carcere la pena base minima per chi mette a fuoco boschi o vivai forestali destinati al rimboschimento. Per i roghi dovuti a colpa e non a dolo, la pena minima sale da uno a due anni. Aumento di un terzo della pena e fino alla metà, quando il piromane ha agito per trarne profitto per sè o per altri, o con abuso dei poteri o con negligenza nell’esecuzione di incarichi o servizi nell’ambito della prevenzione e della lotta attiva contro gli incendi boschivi. Otto per mille al recupero delle tossicodipendenze - Dentro al ‘pacchetto’ anche la destinazione dell’8 per mille al “recupero delle tossicodipendenze e delle altre dipendenze patologiche”. Dal prossimo anno (sui redditi 2023) si potrà indicare la voce specifica, mentre per quest’anno la quota destinata allo Stato senza scelta di una delle 5 attuali tipologie di intervento andrà “prioritariamente” a finanziare “interventi straordinari” contro le tossicodipendenze. Sul versante Covid, cade l’obbligo di isolamento per i positivi e sarà possibile uscire di casa e andare al lavoro con la malattia in corso, nessun obbligo di mascherina Ffp2 al chiuso o in presenza di assembramenti. Via anche l’obbligo quotidiano per Regioni e province autonome di comunicare i dati sui contagi al ministero della salute e all’Iss: una nuova periodicità verrà stabilita da ministero guidato da Orazio Schillaci. Prescrizione breve, si torna all’ex legge Cirielli: così la maggioranza anticipa Nordio di Francesco Grignetti La Stampa, 29 settembre 2023 Il centrodestra modifica le regole, dopo il 27 ottobre il voto della Camera. Il Terzo polo è a favore, contrari M5S e Pd. Prescrizione, si ricomincia. La Camera sta modificando di nuovo le regole sulla prescrizione dei reati. Ieri si è espressa a larga maggioranza la commissione Giustizia della Camera, dopo il 27 ottobre ci sarà il voto dell’Aula. Il senso però è chiaro: si archivia anche l’ultimissima versione, che risaliva a solo due anni fa, quando Marta Cartabia era la ministra. La maggioranza, con in più i voti di quello che fu il Terzo Polo, si appresta a tornare alla situazione che precede la riforma di Alfonso Bonafede. In buona sostanza, si torna alla prescrizione sostanziale e si abbandona quella processuale. Per i non addetti ai lavori, significa che ogni reato avrà i suoi tempi di prescrizione. C’è da perderci la testa. Nel 2005, ai tempi del Pdl, arrivò la riforma ex Cirielli che accelerò drasticamente i tempi della prescrizione. Il risultato fu una montagna di processi che finivano al macero. Nel 2017, l’allora ministro Andrea Orlando provò ad allungare i tempi dando un bonus di 2 anni all’Appello e 1 anno alla Cassazione. Non entrò mai in vigore perché nel 2019 il nuovo ministro Alfonso Bonafede, di fede grillino, si inventò che la prescrizione non si calcolava più dopo una sentenza di primo grado: l’obiettivo era salvare i processi ad ogni costo, anche se con tempi biblici. Nel 2021, Marta Cartabia, che deve gestire una maggioranza eterogenea, trova un compromesso: nessun limite di tempo in primo grado, ma il processo d’appello non può durare più di due anni e un anno quello in Cassazione; per i dibattimenti più complessi è possibile arrivare a tre anni in Appello e 18 mesi in Cassazione. Poi il processo muore. Ora si cambia di nuovo. E visto che la riforma Cartabia era stata concordata con la Commissione Europea, ed è un pezzo del Pnrr, se riformata, sarà obbligatorio discuterne anche con Bruxelles. La nuova formulazione è ancora generica sui tempi, ma indica una via. “Come relatore delle proposte di legge - dice il deputato di Azione e relatore del provvedimento Enrico Costa - ho proposto il testo presentato dal collega Pittalis (di Forza Italia, ndr) che prevede il ritorno alla disciplina sostanziale dell’ex Cirielli, abrogando l’improcedibilità in Appello e Cassazione”. Ieri un voto a larga maggioranza segnala che questa sarà la decisione finale. Anche se lo stesso Pietro Pittalis spiega che “sull’articolazione dei tempi c’è tutto da concordare”. Dietro la decisione c’è un messaggio politico: il ministro Carlo Nordio aveva appena annunciato che a novembre avrebbe presentato lui una proposta di modifica della prescrizione. Nel solco di quanto deciso dalla Camera, peraltro, ovvero di un ritorno alla prescrizione sostanziale e non processuale, cioé legata ai tempi per arrivare a sentenza. Ma la maggioranza ha deciso di non aspettare la proposta del ministro. Il centrodestra, più Terzo Polo, è andato avanti veloce. E se ci sarà il voto della Camera a fine ottobre, la proposta di Nordio arriverà a tempo scaduto. “Che sovranità può rivendicare lo Stato italiano quando forze di maggioranza, supportate da forze dell’opposizione invece non vuole celebrare i processi? Noi ci opporremo”, afferma Giuseppe Conte, M5S. E Debora Serracchiani, Pd: “È un errore intervenire per l’ennesima volta in materia di prescrizione, dopo tutte le riforme che ci sono state negli ultimi anni”. Cambia la prescrizione. Iv e Azione con la destra di Mario Di Vito Il Manifesto, 29 settembre 2023 Verso la nuova riforma. C’è l’accordo in maggioranza - con il non imprevedibile sostegno di Italia Viva e Azione - sulla riforma delle intercettazioni. La Commissione giustizia della Camera ha votato come testo base la proposta di Pietro Pittalis di Forza Italia, che, come detto sia dallo stesso autore sia dal relatore di maggioranza Andrea Pellicini (FdI), porterebbe a un ritorno alla ex Cirielli. In buona sostanza il tempo di estinzione dei reati correrebbe in tutti i gradi di giudizio, cancellando l’improcedibilità della riforma Cartabia, il blocco dopo la sentenza di primo grado della riforma Bonafede e impedendo la dichiarazione della prescrizione in fase di impugnazione come previsto dalla riforma Orlado. Si tratta, ad ogni buon conto, di un testo base che potrà essere soggetto a modifiche ed emendamenti prima di finire in aula, il 27 ottobre. Fonti interne alla maggioranza, a questo proposito, si dimostrano molto prudenti nelle loro previsioni: “Si parte da qui per superare la riforma Bonafede e quella Cartabia, giungendo, attraverso una fase emendativa condivisa, a una legge che non sarà né un ritorno alla riforma Orlando né alla ex Cirielli. L’impegno del centrodestra è quello di trovare, tramite gli emendamenti in commissione, una formula che difenda la giusta durata dei processi come prevede la Costituzione”. A giocare un ruolo fondamentale nella partita giocata in commissione è stato il deputato di Azione Enrico Costa, che sarà anche relatore del provvedimento. Anche lui, insieme a Pittalis e a Maschio (FdI) aveva presentato una proposta, ma alla fine ha deciso di convergere su quella di Forza Italia. “Come relatore delle proposte di legge sulla prescrizione - ha detto Costa - ho proposto alla commissione Giustizia della Camera il testo base presentato dal collega Pittalis che prevede il ritorno alla disciplina sostanziale della Cirielli, abrogando altresì l’improcedibilità in Appello e Cassazione”. Fortemente critiche le opposizioni. “Continuare a ritoccare il regime della prescrizione provoca caos e il caos è l’antitesi del garantismo sventolato da Nordio”, ha commentato Devis Dori di Avs, mentre dal Pd Debora Serracchiani ci va giù in maniera ancora più dura: “Sulla prescrizione finalmente la destra ha fatto chiarezza: non siamo di fronte al ritorno della legge Orlando, ma al ripristino della Cirielli. E senza neppure aver valutato l’impatto della riforma Cartabia. Non c’è nessun interesse a ridurre la durata dei processi ma anzi il contrario. Ancora una volta si torna indietro sulle riforme della giustizia che ci hanno consentito di avere le risorse del Pnrr, che così mettiamo a rischio”. Il M5s pure annuncia battaglia e grida allo scandalo: “Da mesi smantellano pezzetto dopo pezzetto le nostre riforme che contrastano seriamente la corruzione”. C’è del vero: qualsiasi forma prenderà questa riforma delle intercettazioni, l’unica cosa certa è che la riforma Bonafede verrà spazzata via. Prescrizione e intercettazioni, ecco la maggioranza garantista di Errico Novi Il Dubbio, 29 settembre 2023 Archiviato due volte Bonafede: addio al “fine processo mai” e all’uso della “pesca a strascico” per i reati di corruzione. In rivolta 5 Stelle e Pd. Verrebbe da dire: il gran giorno dei garantisti. Alla Camera, non in un convegno affollato ma velleitario. Nel giro di poche ore a Montecitorio va a segno un doppio colpo, condito da ulteriori chicche, impensabile solo fino a qualche giorno fa. A mezzogiorno la fiducia (seguita in prima serata dal voto finale) sul decreto Intercettazioni-omnibus che, come riferito ieri sul Dubbio, passa dal lavoro delle commissioni al sigillo definitivo (in prima lettura) dell’Aula senza che venga torto un capello all’impertinente incursione garantista di Forza Italia. Poco dopo, il via libera in commissione Giustizia al testo base per la riforma della prescrizione. Individuato nella proposta abrogativa targata sempre FI, a prima firma Pietro Pittalis, che riporta il quadro normativo alla “ex Cirielli”. Di fatto, un triplo colpo di spugna: sulla legge Orlando del 2017, sulla Bonafede del 2019 e sull’improcedibilità introdotta due anni fa da Cartabia. Si aggiunga che sulla prescrizione, com’era avvenuto già in commissione per gli “ascolti”, il centrodestra si ritrova ancora una volta a convergere con Azione, rappresentata dal responsabile Giustizia Enrico Costa. Sempre Costa otterrà in Aula, a margine del voto sul Dl Intercettazioni, il sì della maggioranza a un ordine del giorno che impegna il governo a intervenire contro possibili manipolazioni del materiale captato compiute con l’intelligenza artificiale. “Si chiama deep fake l’ultima pericolosa frontiera nell’acquisizione di file audio”, spiega il deputato del partito di Calenda. È un quadro con risvolti clamorosi, e in cui non manca la reazione tra l’indignato e lo scomposto delle opposizioni. Dalla delegazione Giustizia dei 5 Stelle che, a proposito della mossa a sorpresa sulla prescrizione, accusa il centrodestra di “lavorare per l’impunità”, al Pd che con Debora Serracchiani parla di “furia ideologica”, ad Avs che con il deputato Devis Dori contesta almeno da un punto vi vista diverso: “Ritoccare la prescrizione di continuo provoca caos, l’antitesi del garantismo sventolato da Nordio”. In realtà dalla maggioranza spiegano che sui termini di estinzione dei reati si è scelto un testo che semplicemente resettasse il quadro: “Il testo base a firma Pittalis (di FI, ndr) riporta l’istituto alla sua natura sostanziale: si parte dunque da qui”, segnalano all’Agi fonti del centrodestra, “per superare la riforma Bonafede e quella Cartabia”, in modo da giungere, con gli emendamenti, “a una legge che non sarà né un ritorno alla Orlando né alla ex Cirielli”. Si vuol difendere “la giusta durata dei processi come prevede la Costituzione”. Ma certo, sul piano politico e simbolico, la scelta di partire, seppur per comodità tecnica, dalla riforma berlusconiana delle intercettazioni non è priva di coraggio, e descrive un centrodestra che forse, sulla giustizia, non si era mai visto. Costa spiega che il suo partito, cioè lui, che è anche relatore delle proposte sulla prescrizione, ha avuto un ruolo di “stimolo e di sintesi”. E in effetti la soluzione tecnica trovata ha il pregio di semplificare il quadro. Ma forse anche la forza strategica di mettere ancora più in difficoltà il Pd, nel momento in cui si dovesse pervenire a un’ulteriore mediazione, con il recupero almeno parziale della riforma firmata da Orlando, cioè dall’ultimo ministro della Giustizia espresso dai dem. Di sicuro si conferma l’abilità di Forza Itaia nel correggere, col supporto del calendiano Costa, l’inclinazione assai meno “aperta” che FdI e Lega potrebbero altrimenti imporre sul penale. È un merito degli azzurri, certo. Ma è anche il segno che nello stresso partito della premier, ad esempio, esiste la capacità di guardare oltre una giustizia fatta solo di pene inasprite. Lo attesta il meloniano Ciro Maschio, che della commissione Giustizia di Montecitorio è presidente e che, non a caso, è avvocato come Costa e Pittalis: sulle intercettazioni, osserva in particolare, si è arrivati a una “sintesi positiva: abbiamo esteso l’ambito di applicazione a reati gravi connessi alla criminalità organizzata”, ma “dall’altra parte abbiamo intensificato le cautele nella tutela dei diritti dei cittadini indagati e intercettati”. Rivendicato dal partito di maggioranza relativa, non è poco. E a individuare con efficacia il nuovo spazio conquistato dai berlusconiani con le loro spinte garantiste è Paolo Emilio Russo, che interviene prima della fiducia sul decreto Intercettazioni-omnibus: “Il diritto alla legalità e alla sicurezza deve essere garantito senza consentire la violazione sistematica e ingiustificata delle leggi che proteggono”, oltre alla “riservatezza”, anche la “presunzione di innocenza”. E sì, perché diffondere indebitamente parole captate a chi è solo indagato e non ha mai subito una condanna è semplicemente un modo per sbatterlo alla gogna senza passare per le sentenze. Sempre Russo parla del “garantismo” come “principio” in grado di riaffermare “il ruolo che Forza Italia ha nel Paese da trent’anni”. E a poche settimane dalla scomparsa di Berlusconi, è un’idea che dà agli azzurri una prospettiva altrimenti indecifrabile. Sugli “ascolti”, la fiducia arriva con 201 sì, 125 no e 5 astenuti, mentre il voto finale, che sancisce l’invio della pratica al Senato (dove la conversione dovrà arrivare entro il 9 ottobre, dunque senza modifiche), fa registrare 164 favorevoli e 68 contrari. Il dem Marco Lacarra se la prende con l’incerta retroattività a suo giudizio insinuata dal decreto sull’estensione delle norme antimafia, e ancora una volta tradisce la distrazione del Pd sui principi di diritto: quella misura è casomai in odore d’incostituzionalità per motivi esattamente opposti. Sulla prescrizione, Giuseppe Conte invece lamenta una scelta che ostacolerebbe la “verità processuale”, e il suo è un dissenso chiaramente legato alla soppressione della norma Bonafede. Sempre dell’ex guardasigilli 5 Stelle era la paternità di una delle norme sulle intercettazioni corrette con gli emendamenti forzisti: l’estensione ai reati contro la Pa della cosiddetta “pesca a strascico”. E certo, il fatto di aver “archiviato” Bonafede due volte in poche ore dà il senso di una giornata davvero particolare, per la giustizia di centrodestra. Santalucia: “Processi a rischio con la stretta sulle intercettazioni e il ritorno alla prescrizione” di Liana Milella La Repubblica, 29 settembre 2023 Intervista al presidente dell’associazione nazionale magistrati: “Il vero garantismo è quello che attua la Costituzione”. “La stretta sulle intercettazioni e il ritorno alla prescrizione del 2005 mettono in pericolo l’esigenza di tutelare i diritti della persona e assicurare l’effettività dell’accertamento penale”. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia racconta a Repubblica tutti i suoi dubbi e le sue perplessità sugli ultimi interventi legislativi della maggioranza. Giornata campale per la giustizia, passa alla Camera il decreto sulle intercettazioni che toglie potere ai pm e in più ecco il testo base sulla prescrizione che torna alla legge Cirielli. Vede a rischio il potere d’indagine della magistratura? “Certamente la capacità investigativa e di accertamento dei reati viene indebolita. L’ho detto più volte, la cosa in sé è un male e lo è ancor di più in un momento come questo in cui i controlli di legalità dovrebbero essere accresciuti a tutela degli investimenti pubblici delle ingenti risorse finanziarie del Pnrr”. Invece prevale in ogni legge uno presunto spirito super garantista... “Metterei da parte la parola garantismo, che è altra cosa rispetto a leggi che tengono a freno solo lo svolgimento dei processi penali. Il garantismo a cui io penso è quello che attua fino in fondo i principi della Costituzione”. E lei invece già li vede violati? “Vedo in pericolo quel difficile equilibrio tra l’esigenza di tutelare i diritti della persona e quella di assicurare l’effettività dell’accertamento penale. E tutto muove da un malinteso in premessa, e cioè che il processo penale non sia esso stesso uno strumento per realizzare i valori della persona”. Guardi, il clima che si può cogliere nella maggioranza e nel gruppo di Azione che la sostiene sulla giustizia è che i pm non badino affatto alle garanzie degli imputati e degli indagati... “È una petizione di principio tanto ingiustificata quanto indimostrata. Tengo sempre a precisare che possono anche esserci dei casi di discutibile esercizio del potere giudiziario, con errori o comportamenti non corretti dei singoli. Ma non è accettabile che sulla base di asserite cattive gestioni di alcuni processi si alteri il sistema normativo nelle parti in cui ha raggiunto un accettabile equilibrio”. Il testo base per riscrivere la prescrizione prevede il ritorno alla Cirielli e la cancellazione delle leggi Orlando, Bonafede e Cartabia. Un passo del genere a cosa può rispondere? “Solo ad accrescere lo stato di inefficienza dei processi. La politica sembra non comprendere che la continua modifica della legge penale a distanza di poco tempo dalla riforma precedente è solo un fattore di rallentamento dell’attività giudiziaria e crea disorganizzazione, incertezze interpretative, difformità applicative”. Scusi, ma tornare alla legge di Berlusconi sulla prescrizione non significa solo far cadere i processi e mandare liberi gli imputati? “Non si può legiferare dimenticando le leggi già fatte, alcune delle quali, in particolare la legge Orlando, si faceva carico di assicurare tempi adeguati dei processi, evitando che la prescrizione li mandasse al macero. Proprio in base a questo principio noi dell’Anm abbiamo criticato la riforma Cartabia sull’improcedibilità. Ma adesso tornare al 2005, senza considerare tutto ciò che le leggi successive si sono sforzate di garantire, sembra proprio del tutto irragionevole”. Ma qui sta prevalendo un presunto garantismo che, da un lato farà cadere i processi per avvenuta prescrizione, e dall’altro rischia di far condannare una persona perché un’intercettazione ritenuta irrilevante non potrà più essere trascritta... “Proprio dal punto di vista del garantismo penale lo ritengo un grave errore. Ciò che può apparire irrilevante all’inizio di un’indagine può rivelarsi rilevante nel prosieguo del processo, soprattutto in chiave difensiva. La mancata annotazione renderà estremamente difficile, se non impossibile, il recupero postumo di conversazioni che possono rivelarsi anche prove a favore. Ma poi, chi decide l’irrilevanza? La polizia giudiziaria che sente gli ascolti? Questo significa ignorare le garanzie del codice del 1988, quello di Vassalli citato sempre dal Guardasigilli Nordio, codice che ha affidato le intercettazioni al pm togliendole alla polizia”. Da presidente dell’Anm lei domani partecipa a Palermo al congresso di Area, la corrente delle toghe che rappresenta i magistrati progressisti, dove viene anche Nordio. Gli porrete questi interrogativi sulle decisioni della sua maggioranza? “Quest’appuntamento sarà un’occasione importante per discutere delle riforme, e con la presenza del ministro consentirà un confronto chiaro e rispettoso, sui nodi che, a mio giudizio, le sue riforme non sciolgono ma aggrovigliano ancora di più”. Processo per la morte di Giulio Regeni, una corsa a ostacoli con tempi lunghi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 29 settembre 2023 I genitori: “Roma cambi atteggiamento con l’Egitto”. L’udienza preliminare tra novembre e dicembre, in primavera al via il dibattimento. Quello rimosso dalla Corte costituzionale era l’insormontabile impedimento che teneva bloccato il processo ai quattro militari egiziani imputati del sequestro, le torture e la morte di Giulio Regeni. Dunque la sentenza della Consulta farà ripartire - appena sarà pubblicata, entro qualche settimana - l’udienza preliminare sospesa dal giudice Roberto Ranazzi il 31 maggio scorso. Ma tolto quel macigno, restano molti ostacoli sulla strada del processo a carico del generale Sabir Tariq, i colonnelli Mohamed Athar Kamel e Helmy Uhsam, il maggiore Magdi Ibrahim Sharif. La Procura di Roma li ritiene responsabili del rapimento di Giulio al Cairo, la sera del 25 gennaio 2016, e uno di loro - il maggiore Sharif - anche delle violenze subite dal ricercatore italiano durante i giorni della prigionia fino all’uccisione, il 3 febbraio. A tenerli al riparo dalla giustizia italiana ci sono anzitutto le autorità egiziane, politiche e giudiziarie. La Procura generale della Repubblica araba, a dicembre 2020 ha dichiarato una sorta di “non doversi procedere” nei confronti degli imputati perché “è da escludere ciò che è stato loro attribuito”. Paola e Claudio Regeni, insieme all’avvocata Alessandra Ballerini, ribadiscono via Facebook che “l’autorità dittatoriale per la quale lavorano e per conto della quale hanno agito li protegge e ha tentato in ogni modo di impedire il processo”. Di qui l’ausipicio dei genitori di Giulio - “nuovamente fiduciosi per il ripristino del diritto alla verità” - che “chi in questi anni è andato a omaggiare il dittatore al-Sisi e i suoi ministri, giustificandosi davanti a un’indignata opinione pubblica millantando una collaborazione egiziana inesistente, oggi prenda atto delle menzogne e cambi drasticamente atteggiamento”. Quando riprenderà l’udienza davanti al giudice Ranazzi (verosimilmente tra novembre e dicembre), comincerà una nuova corsa a ostacoli. I difensori d’ufficio dei quattro imputati riproporranno le eccezioni preliminari già avanzate davanti al precedente gup, quello che ordinò il rinvio a giudizio poi annullato dalla corte d’assise fermatasi perché non c’era certezza che le persone alla sbarra fossero a conoscenza dell’inizio del dibattimento. Ora questa questione è stata risolta dalla Corte costituzionale, dunque si potrà procedere anche in assenza degli accusati, però si dovrà ricominciare daccapo. E la prima eccezione sarà quella dell’identificazione certa degli imputati. I nomi finiti sui registri della Procura di Roma furono forniti all’epoca dagli stessi egiziani, quando il pubblico ministero Sergio Colaiocco chiese a chi si potessero attribuire i telefoni cellulari identificati dalla polizia italiana sui luoghi della sparizione di Giulio. Insieme alle identità arrivarono anche i verbali d’interrogatorio condotti dai magistrati del Cairo, nei quali i militari negarono ogni coinvolgimento nel caso Regeni, ma agli atti mancano luoghi e date di nascita, oltre naturalmente agli indirizzi di residenza. Ci sono solo numeri di documenti d’identità che la giustizia italiana ha ritenuto finora sufficienti, ma gli avvocati devono ripresentare in ogni grado le loro istanze, nell’ipotesi che prima o poi qualcuno possa accoglierle. In ogni caso un nuovo rinvio a giudizio davanti a una corte d’assise (la stessa del 2021 o un’altra) a questo punto sembra scontato. Il dibattimento potrebbe iniziare nella primavera del 2024, ma pure quello non sarà un percorso semplice né breve. Oltre alla ripetizione delle questioni preliminari (fatta salva la contumacia risolta definitivamente dalla Consulta), la raccolta delle prove davanti ai giudici prevista dal codice sarà molto accidentata. Per dirne una, forse la più rilevante e complicata: bisognerà rintracciare e convocare i testimoni d’accusa che la Procura ha interrogato (a volte a distanza) tra il 2o17 e il 2020, affinché ripetano quello che hanno detto. Ci si riuscirà? La loro identità è stata coperta dai codici Alfa, Beta, Gamma e via di seguito, nel processo non sarà più possibile. Meno difficile dovrebbe essere ascoltare i testimoni “scoperti”, dal sindacalista Abdallah ai coinquilini di Giulio o altri che hanno fornito indizi a carico degli imputati. Ma anche su di loro non ci sono certezze. La cooperazione giudiziaria tra Stati, finora pressoché inesistente a parte la fase iniziale delle indagini, sarà di nuovo necessaria. A parte le deposizioni degli investigatori e dei periti italiani, insomma, sarà un processo tutto in salita. Lasciatemi esprimere qualche dubbio su quella “sentenza Regeni” di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 29 settembre 2023 La pronuncia della Consulta sul giovane ricercatore torturato e ucciso in Egitto si muove sul filo delle garanzie e del diritto. Una sentenza della Corte Costituzionale ad personam, ritagliata su misura perché si possa celebrare in Italia il processo nei confronti dei torturatori egiziani che sette anni fa assassinarono Giulio Regeni. Un provvedimento che l’ex ministra Marta Cartabia, che della Consulta fu anche Presidente, definisce sentenza “additiva”, un modo tecnico ma anche elegante per dire che si è creata un’eccezione alla norma generale per cui nessuno può essere processato se non informato del fatto che si sta procedendo nei suoi confronti. In italiano questa eccezione, che vale per un solo caso, si chiama anche “deroga” o “violazione” della regola che dovrebbe tutelare il cittadino rispetto alla forza dello Stato e anche della magistratura. Non ti posso portare in giudizio senza dirtelo, senza avvertirti del fatto che sto per processarti, dicono il codice di procedura e la Costituzione. Un principio che sembrerebbe inviolabile. Tanto che nessun Parlamento in questi anni, pur con la commozione per la sorte tragica di questo ragazzo italiano assassinato e lo sdegno per il comportamento del regime egiziano di Al Sisi, che ha di fatto sottratto alla giustizia italiana i quattro agenti di servizi segreti ritenuti responsabili del sequestro, delle torture e dell’uccisione di Giulio Regeni, ha mai osato metter mano a un principio garantistico del nostro codice. E alla sacralità dell’articolo 111 della Costituzione sul giusto processo. Dodici righe, piuttosto esplicite, pur in attesa delle motivazioni, con cui la Corte “aggredisce” l’articolo 420 bis comma 3 del codice di procedura penale e stabilisce che, in questo caso, sia possibile derogare al principio europeo e internazionale per cui il processo penale può essere celebrato solo nei confronti di un imputato che sia stato informato del fatto che si sta procedendo nei suoi confronti. Anche se decide di non parteciparvi. Esistono infatti i processi celebrati in contumacia, cioè in assenza dell’imputato. Nel caso di Giulio Regeni, dice l’Alta Corte, siamo però in presenza di un caso di tortura, previsto e definito dell’articolo 1 comma 1 della Convenzione di New York. Inoltre, del “caso Regeni” si è scritto e parlato molto in Egitto in questi anni. Come a dire che ai quattro agenti dei servizi segreti ritenuti responsabili da parte dell’autorità giudiziaria italiana dovrebbero come minimo esser fischiate le orecchie. Qualcosa avranno ben sentito dire. Ma non tutto è così rigoroso, in questa decisione. E qualcuno non ha potuto non notarlo, e lo dice con un’intervista a Repubblica. Il professor Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale alla Statale di Milano, che fu consigliere giuridico della ministra Cartabia, definisce la sentenza addirittura “ad regenim”, cioè una regola ad hoc costruita appositamente per consentire al processo, che era stato bloccato dalla Corte d’appello di Roma e dalla Cassazione che aveva annullato il rinvio a giudizio degli imputati disposto dal gup, di essere celebrato. Il professore non lo dice esplicitamente, ma è chiaro che la Consulta si è sostituita al governo e al parlamento con una sentenza “politica”, finalizzata a un atto più sostanziale che formale, quale il processo dovrebbe essere. Un altro giurista cui l’anomalia non è sfuggita è l’avvocato Davide Steccanella, uno che i processi in contumacia li ha sulla punta delle dita, anche perché è il difensore del terrorista Cesare Battisti, a lungo latitante in Francia e poi in Brasile, che ha potuto estradarlo solo dopo un cambio di regime. “È un principio barbaro, una vera stortura - dice al Dubbio - pensare di processare una persona senza averlo potuto avvertire. Mi rendo conto della tragedia della famiglia Regeni, ma se l’imputato è assente al processo, deve esserlo solo per scelta, non perché disinformato”. Del resto anche lo stesso concetto di “contumacia” è messo in discussione da ordinamenti come quello della Francia e degli Stati Uniti, dove non si celebrano processi in assenza dell’imputato. In Italia non è così, lo stesso caso di Battisti lo dimostra, però la scelta della lunga latitanza è stata solo sua. Ora, questi quattro agenti egiziani che la magistratura italiana considera torturatori e assassini, hanno o no diritto di sapere che tra qualche mese saranno processati in Italia? Sappiamo bene che se sono riusciti a rendersi irrintracciabili, tanto che non se ne conoscono gli indirizzi, è perché godono di evidenti coperture politiche. Il che apre un problema di relazioni tra il governo Meloni e il regime di Al Sisi. Il ministro degli esteri Antonio Tajani ha finora mantenuto un atteggiamento cauto. Del resto il premier egiziano aveva di recente avanzato un gesto distensivo con la concessione della grazia a Patrick Zaki, studente “adottivo” dell’università di Bologna. Si cammina su un sottile strato di ghiaccio. Secondo il professor Gatta l’Egitto potrebbe anche contestare all’Italia il principio del ne bis in idem (non puoi essere processato due volte per lo stesso fatto) dal momento che, a quanto pare, una qualche forma di giudizio ci sarebbe già stata in Egitto. Quello che comunque qui da noi stupisce, ma forse non più di tanto, è l’entusiasmo non solo (e giustamente) da parte della famiglia Regeni e della loro legale Alessandra Ballerini, ma di tutto quel mondo “democratico” che strillava indignato a ogni presunta proposta di legge ad personam in favore di Silvio Berlusconi. Dimenticando che le leggi non sono mai per un solo soggetto ma, una volta emanate, si indirizzano al “signor chiunque”. Questa sentenza della Corte Costituzionale invece, è proprio l’omaggio a una sola persona, a un solo caso, a un solo processo. Come dice la presidente emerita dell’Alta Corte, Marta Cartabia, cui lasciamo l’ultima parola: “Mi pare che la Corte abbia fatto una sentenza ‘additiva’, creando una regola ad hoc, di eccezione alla norma generale, che rimane intatta, per consentire ai giudici di andare avanti in questo caso eccezionale. Spero sia di sollievo ai genitori”. Ci associamo. Caso Regeni? No, non si sostituisce la diplomazia con la giustizia penale di Francesco Compagna Il Foglio, 29 settembre 2023 Il giovane ucciso in Egitto ha pagato con la vita il generoso desiderio di vedere affermati i diritti al cospetto di un’oppressione autoritaria: negare oggi, in suo nome, un fondamentale principio di garanzia della libertà individuale appare come un inutile sacrilegio. Il procedimento penale attualmente pendente a Roma per la tragica morte di Giulio Regeni potrà andare avanti in assenza degli imputati, sebbene gli stessi non abbiano ricevuto alcuna notifica in conseguenza della mancata collaborazione dello stato egiziano. Ieri pomeriggio, l’Ufficio Comunicazione e Stampa della Corte costituzionale ha infatti dato notizia dell’avvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art.420 bis del codice di procedura penale, in forza del quale deve essere assicurata all’imputato la formale conoscenza del procedimento instaurato a suo carico. Non serve essere esperti di procedura penale per comprendere l’importanza di una simile norma: la precisa conoscenza dell’accusa formulata, dei suoi presupposti e del luogo di svolgimento del processo costituisce, all’evidenza, il presupposto essenziale affinché la persona citata in giudizio possa effettivamente difendersi. Per estremo paradosso, la nostra Corte costituzionale ha invece ritenuto che una norma destinata a dare attuazione a uno dei principi fondamentali del processo penale risulterebbe addirittura contraria alla Costituzione in quanto violerebbe la Convenzione di New York contro la tortura: quando uno stato estero non collabora, e non consente quindi all’imputato ivi residente di venire a conoscenza degli atti, il processo a suo carico potrà quindi andare avanti lo stesso anche in assenza di qualsiasi contraddittorio. Nei prossimi anni, a meno di ulteriori colpi di scena, i giudici romani saranno pertanto chiamati a “validare” l’esito delle indagini che sono state effettuate a distanza dalla procura di Roma, senza alcuna reale possibilità di addivenire a un attendibile accertamento dei fatti e di dare quindi risposta a quell’ansia di verità che viene spesso sbandierata nel dibattito pubblico come se si trattasse di uno slogan pubblicitario. Del resto, anche a prescindere dal problema delle notifiche, è evidente che gli imputati egiziani non saranno certo in condizione di partecipare liberamente a un simile processo, né tantomeno di esporre al Tribunale di Roma la loro versione dei fatti. Considerato il clamore mediatico assunto dalla vicenda, la sentenza della Consulta - la cui formale pubblicazione è prevista per le prossime settimane - sembra purtroppo destinata a trovare ampia condivisione in ambito politico, e ancor prima nell’intero panorama giornalistico, ormai da tempo permeato da un populismo assolutamente trasversale che vede nel processo penale uno degli strumenti più efficaci per diffondere efficacemente istanze sociali o prese di posizione ideologica. Ma come è possibile che i custodi dei principi costituzionali arrivino al punto di interpolare le norme esistenti per dare il via libera a un processo privo di qualsiasi contraddittorio? Conoscendo l’autorevolezza dei giudici della Corte, è probabile che nemmeno loro - faticosamente impegnati sul piano tecnico nel tentativo di individuare un qualche percorso logico che potesse suffragare una “deroga” ai principi fondamentali - si siano resi conto della profondità della frattura in tal modo arrecata al nostro ordinamento giuridico. Con quale convinzione si potranno continuare a invocare nelle nostre aule giudiziarie le garanzie in questione, più volte richiamate anche dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, se noi stessi siamo stati i primi a violarle per ragioni di natura politica? E soprattutto: come possiamo accettare che il processo penale si stia trasformando in uno strumento destinato ad appagare le aspettative delle vittime, e dell’opinione pubblica in genere, invece che a ricostruire con precisione le responsabilità individuali, se possibile in tempi ragionevoli, in vista di una successiva eventuale sanzione? Da oggi, sarà purtroppo chiaro a tutti che la giustizia penale può essere addirittura utilizzata per affrontare questioni che riguardano semplicemente i rapporti con altri stati e che il nostro sistema giudiziario si sta progressivamente allontanando dalla funzione che gli è propria per dirigersi verso lidi sconosciuti, sotto la spinta di vorticose istanze mediatiche e di un desolante conformismo politico-giudiziario che finisce per banalizzare anche le vicende più toccanti. Proprio Giulio Regeni ha pagato con la sua vita il generoso desiderio di veder affermati dei diritti al cospetto di un’oppressione autoritaria: negare oggi, in suo nome, un fondamentale principio di garanzia della libertà individuale appare davvero come un inutile sacrilegio. Roberto Fico: “Su Regeni in gioco la dignità. L’Italia adesso si faccia valere” di Niccolò Carratelli La Stampa, 29 settembre 2023 L’ex presidente della Camera: “La decisione della Consulta ci rende felici. Lo Stato ha il dovere di pretendere giustizia, a costo di scontentare Al-Sisi”. Quando Roberto Fico ha saputo della sentenza della Corte costituzionale, che ha sbloccato il processo Regeni, ha provato “una sensazione di vera felicità, mi sono emozionato, perché c’era bisogno di una decisione profondamente giusta”. Da presidente della Camera, l’esponente del Movimento 5 stelle è sempre stato in prima linea a fianco dei genitori di Giulio per chiedere verità e giustizia: “Se si è arrivati a questo risultato è grazie a loro e all’avvocato Ballerini, che non hanno mai mollato, nemmeno per un secondo - dice Fico - il fatto che il processo agli agenti egiziani vada avanti è un qualcosa che ridà dignità al nostro Paese”. C’è questo in gioco? Forse non tutti se ne sono resi conto fino in fondo… “È una questione di Stato. Tutta l’Italia deve pretendere giustizia per un proprio cittadino, un giovane ricercatore, torturato e ucciso in Egitto. Questo desiderio di giustizia deve essere avvertito da tutte le istituzioni, che devono lavorare in modo importante e serio per raggiungere l’obiettivo”. Così non è stato? In questi anni la politica non ha fatto abbastanza? “È un discorso complesso. La politica ha anche dato il via, nella scorsa legislatura, a una commissione parlamentare d’inchiesta, che credo abbia fatto un lavoro proficuo. D’altra parte, i governi hanno sempre affrontato questa vicenda con grande difficoltà, guardando alle strategie geopolitiche, alle relazioni economiche con l’Egitto, in particolare nel settore dell’energia. Il tema di fondo è porre a ogni tavolo, con tutti i Paesi con cui si hanno relazioni, la questione del rispetto dei diritti umani e delle libertà personali”. La decisione di andare avanti con il processo ora potrebbe rendere più complicate le relazioni con le autorità del Cairo, non crede? “Sono convinto che gli egiziani le proveranno tutte per ostacolare il procedimento e impedire che si arrivi a una sentenza. Mi aspetto che il nostro governo supporti con forza l’azione dei magistrati, affinché il processo si svolga regolarmente e in tempi ragionevoli. Anche se questo significherà intrattenere rapporti meno cordiali con il regime di al-Sisi”. Cosa vorrebbe dire arrivare a una sentenza di condanna, anche se gli assassini di Regeni non sconteranno mai la pena? “Facciamo un passo alla volta, celebriamo questo processo, diamo un segnale forte all’Egitto. Arrivare a una condanna avrebbe un significato enorme e, a quel punto, vedremo come questa peserà nelle relazioni bilaterali. Cosa succederà nel momento in cui le autorità egiziane continueranno a proteggere i loro agenti condannati da un tribunale italiano. Anche per questo la decisione della Corte costituzionale, a mio avviso, ha una portata davvero storica”. Perché ha aperto una crepa nel muro di omertà eretto dal governo egiziano? “Perché ha permesso di superare un paradosso: le corrette garanzie previste per gli imputati non potevano prevalere sul diritto dei familiari di un ragazzo torturato e ucciso ad avere giustizia. È una questione di democrazia, non potevamo permettere che l’ostruzionismo di un Paese straniero impedisse alla giustizia italiana di fare il suo corso”. Qualcuno, anche ai piani alti della politica, forse sperava che il processo si fermasse del tutto, in nome della realpolitik… “Mi auguro di no. Verità e giustizia per Giulio non devono essere solo parole, ma un impegno concreto. Io continuo a pensare che non si possano avere relazioni normali con l’Egitto, con un regime che non ha mai collaborato, anzi ha ostacolato in ogni modo l’accertamento della verità sulla morte di Regeni. E che reprime le opposizioni e non rispetta lo stato di diritto. Guardi, questa non è una storia di famiglia e nemmeno una storia solo italiana”. Pensa ai silenzi a livello europeo? “Se l’Italia non è stata abbastanza forte, è anche perché in questi anni è stata lasciata sola, perché altri Paesi europei hanno preferito curare i propri interessi in Nord Africa, dove l’Egitto ha un ruolo strategico. L’Unione europea non può girarsi dall’altra parte di fronte alle violazioni dei diritti umani. Non può non far sentire la sua voce davanti all’uccisione di un giovane cittadino europeo, che purtroppo è solo una delle tante vittime di quel regime. Questa è una battaglia che riguarda tutti, perché ha a che fare con la sicurezza di tutti noi”. Verona. Carcere di Montorio, Bisinella: “Struttura da supportare. Situazione insostenibile” veronasera.it, 29 settembre 2023 La consigliera comunale chiede che il Comune si attivi con le altre istituzioni del territorio per creare dei percorsi formativi o lavorativi che favoriscano il reinserimento dei detenuti. Attivarsi insieme alle altre istituzioni locali per creare progetti in grado di occupare proficuamente il tempo dei detenuti nel carcere di Montorio, disinnescando così le crescenti criticità presenti nella struttura detentiva. Questa è la sostanza della mozione presentata dalla consigliera comunale di Fare! Patrizia Bisinella, la quale vorrebbe per la sua proposta una condivisione totale da parte dei colleghi consiglieri, vista la delicatezza del tema. La mozione, infatti, nasce dai problemi interni al carcere veronese, riportati più volte dalla direttrice, dal garante dei detenuti e dai rappresentanti della polizia penitenziaria. Il provvedimento è stato presentato dalla stessa Bisinella ieri, 27 settembre, insieme al deputato di Forza Italia Flavio Tosi, dal coordinatore cittadino di Fare! Simone Meneghelli, dai consiglieri comunali Antonio Lella e Anna Bertaia e dal responsabile sicurezza di Fare! Claudio Longega. “Ci segnalano da più parti situazioni insostenibili di gestione dei detenuti all’interno della struttura carceraria, situazioni peraltro che la polizia penitenziaria denuncia, inascoltata, da troppo tempo - ha spiegato Bisinella - Dopo la visita del consiglio comunale dello scorso giugno, oggi non vediamo alcun gesto da parte del Comune. Il nostro obiettivo è invitarlo ad avviare un serio tavolo di lavoro con le altre istituzioni del territorio e le associazioni di categoria perché si individuino strade e strumenti a supporto della struttura, al fine di avviare percorsi di formazione e progetti di lavoro volti al reinserimento dei detenuti. Oggi, infatti, molti detenuti tossicodipendenti o con un passato da dipendenze, addirittura malati psichici gravi, sono lasciati in cella senza fare nulla tutto il giorno, con gravi ripercussioni per il loro stato depressivo e per la sicurezza del luogo”. Con questa mozione, Bisinella chiede dunque al Comune di condividere percorsi con le categorie economico-produttive, con le aziende municipalizzate, come ad esempio Amia, o con altri portatori di interesse in città, per coinvolgere i detenuti di Montorio in attività formative o lavorative per favorirne il reinserimento in società una volta scontata la pena. “In agosto mi sono recato personalmente a Montorio su richiesta degli agenti penitenziari - ha concluso Tosi - Una volta era maggiore il numero di aziende disponibili a coinvolgere i detenuti. È il Comune che deve fare da mediatore tra le aziende, le categorie e il carcere. L’obiettivo è duplice: evitare che i detenuti trascorrano le giornate senza nulla da fare e quindi vittime di crisi depressive e violente e soprattutto formare in modo costruttivo le persone che, a fine pena, si reinseriranno nella società. Esiste poi il tema della somministrazione di metadone ai detenuti. Il tema non è tanto la mancata somministrazione, bensì la somministrazione che talvolta viene effettuata senza il dovuto controllo per mancanza di personale medico o di sorveglianza. In pratica il detenuto lo riceve in mano, ma non lo assume. Questo comportamento è molto rischioso perché talvolta il detenuto lo rivende agli altri carcerati, alimentando il mercato nero e mettendo a rischio la salute sua e degli altri. Inoltre i malati psichiatrici, anche con problemi delinquenziali, non possono restare in carcere, ma vanno gestiti diversamente. Il sindaco, i parlamentari, la città devono fare quadrato perché ogni giorno di attesa è un giorno in cui suicidi, risse, proteste sono all’ordine del giorno”. Palermo. Dopo il forno anche il bistrò: il carcere minorile rigenera chi ha sbagliato di Ilaria Solaini Avvenire, 29 settembre 2023 A chi mi chiede: “Ce la posso fare?” rispondo sempre, ma lo vedi Giuseppe? Era un ragazzo dello Zen destinato al niente e oggi vedi cosa è stato capace di diventare?”. Così una delle ambasciatrici dell’Economia civile, Lucia Lauro, ha raccontato delle possibilità degli ex ragazzi del carcere minorile Malaspina che, da anni, sono stati capaci di crearsi un loro futuro. Dopo essere diventati cuochi e direttori di sala, tra qualche anno saranno i futuri manager del bistrò Al fresco, nato dal progetto sociale “Cotti in fragranza”. “Questo è il nostro grande sogno” ha aggiunto Lucia Lauro, che assieme a Nadia Lodato, nel 2015 ha avviato quello che inizialmente doveva essere solo un biscottificio dentro al carcere minorile palermitano, sulla spinta dell’allora direttore Michelangelo Capitano. E oggi si è trasformato in una vera e propria impresa sociale con 17 dipendenti che lavorano al bistrò “Al fresco” aperto nel cortile di un ex convento cappuccino, rimesso a nuovo, che riesce a fare 120 coperti a sera, rallegrando le serate di tantissimi palermitani e turisti di passaggio nell’isola. L’impulso iniziale nel 2015 fu dell’allora direttore regionale dell’Istituto Don Calabria, Giuseppe Mattina, che sul “modello di “Buoni dentro’,’ allora l’unico laboratorio di panificazione presente all’interno di un carcere minorile”, il Beccaria a Milano, desiderava offrire anche ai ragazzi dell’Istituto minorile Malaspina di Palermo un’occasione importante per imparare un mestiere, per crescere e rendersi indipendenti. Come ha raccontato Lucia, assistente sociale di formazione, e tra gli ospiti del Festival dell’Economia Civile, l’avvio è stato per tutti un grande esperimento: “Abbiamo avuto una stanza a disposizione al Malaspina dove abbiamo creato il nostro laboratorio di panificazione, l’associazione dei magistrati ci ha regalato un forno”. A fare la differenza sicuramente l’approccio: “Non abbiamo mai trattato i ragazzi come fossero i destinatari del progetto, ma sempre come nostri colleghi. Nei mesi precedenti all’avvio molti esperti di pasticceria e prodotti da forno, di packaging, marketing e comunicazione sono venuti a trovarci in carcere e ci hanno messo a disposizione tutte le loro conoscenze”. Guidati dallo chef Francesco Gambino i ragazzi del Malaspina, quindi, sono cresciuti e hanno allontanato sempre di più da se stessi quella definizione ingiusta di “mala carne” con cui troppo spesso venivano additati una volta finiti nell’istituto penale minorile. “Abbiamo lavorato tutti assieme per capovolgere quella sentenza definitiva”, quello stigma sociale che di fatto toglieva ai ragazzi la possibilità di riscattarsi, di ripensarsi in un altro modo. Nel 2016 è stato fatto un altro passo in avanti ed è stata fondata la Cooperativa Ri-generazioni, un’impresa sociale di giustizia rigenerativa per portare fuori dal carcere i prodotti da forno e in un certo senso per capitalizzare il loro valore. “Nel 2018 abbiamo iniziato con i primi catering e ci siamo accorti che ci sarebbe servito uno spazio esterno al carcere per poter vendere con regolarità” ha raccontato ancora Lucia. Nel 2019 è stato trovato un luogo adatto da affittare, semi abbandonato: si trattava di un ex convento con un grande cortile che lasciava spazio alla fantasia e ai sogni imprenditoriali di Cotti in fragranza. Il lavoro per risistemare tutto è stato immane: durante i primi mesi del 2020 con l’arrivo del Covid-19 tutto si è fermato. “Durante la pandemia Caritas che ci conosceva già bene ci ha permesso, però, di continuare a lavorare, chiedendoci di confezionare oltre 500 pasti al giorno per persone e famiglie che in quel periodo contante attività temporaneamente chiuse, faticavano a sostenersi” ha spiegato ancora la nostra ambasciatrice dell’Economia civile. Ma il bello doveva ancora arrivare: nell’estate del 2020 quando tutti cercavano spazi all’aperto dove poter finalmente tornare a stare insieme, lasciandosi alle spalle la paura del virus, finalmente era pronto il grande giardino di Casa San Francesco. “Il giardino dentro l’ex convento seicentesco è la nostra oasi nel quartiere: una volta ripulito, abbiamo ripiantato la siepe com’era un tempo e nell’estate del 2020 abbiamo aperto proponendo dei semplici aperitivi, nel 2021 abbiamo introdotto le pizze nel nostro menù e nel 2022 siamo riusciti a diventare quello che siamo oggi: un bistrò con i nostri piatti”. Oggi “Al fresco” è un luogo magico, vicino alla Cattedrale di Palermo, dove passano migliaia di persone per assaporare cibo di qualità, anche se forse non tutte sanno che scegliendo di cenare in quel vecchio convento stanno assistendo e contribuendo a un processo di rigenerazione. Pisa. Sono tornato nel carcere Don Bosco con Massimo Mapelli di Adriano Sofri Il Foglio, 29 settembre 2023 Il giornalista ha raccontato la sua personale storia di inviato, conduttore, e insieme una storia del giornalismo italiano, in un libro intitolato “Ad alta voce”. Con lui ho potuto partecipare a una visita al carcere Don Bosco e a una donazione di libri. Un’esperienza degna di nota. Massimo Mapelli è nato a Bari nel 1967 e oggi lavora nella redazione del tg della 7. Ha raccontato la sua personale storia di aspirante giornalista, inviato, conduttore, e insieme una storia del giornalismo italiano della sua generazione, in un libro intitolato “Ad alta voce” (Baldini e Castoldi). Un suo capitolo riguarda anche me, per il tempo in cui, dal carcere pisano, ebbi con lui molte occasioni di conversazione e perfino una inusuale collaborazione periodica al suo tg. L’altroieri ha presentato il suo libro a Pisa, e sono stato fra i partecipanti. Ieri mattina, con lui, con cittadini pisani che hanno avuto a che fare con la cura del carcere, con le responsabili della fondazione Nuove proposte culturali di Martina Franca, con la signora assessore pisana alla cultura, ho potuto partecipare anche a una visita al carcere Don Bosco e a una donazione di libri alla sua biblioteca. Il carcere è, sia pur castigato, un piccolo universo: di detenuti cosmopoliti, di agenti, insegnanti, assistenti, direttore, cappellano, sanitari, volontari, donne e uomini. Un luogo affollato fino a togliere il respiro che in certe occasioni rende preziose le sue distanze ravvicinate. E trasforma gli spintoni in abbracci. Come quando si dice: Scambiatevi un segno di pace. Come quando si dice: Salam aleikum. Tornare nella prigione in cui si sono trascorsi nove anni della propria vita, tanto tempo dopo, è un’esperienza degna di nota. Non ne dirò altro, per non impedirvi di immaginarla. Roma. A Rebibbia incontro su situazione nelle carceri e reinserimento rainews.it, 29 settembre 2023 Nel carcere romano si è tenuto un workshop sulla giusta pena e il rientro nella società, ma solo quest’anno ci sono stati già 53 suicidi in cella. A Rebibbia un workshop sulla drammatica situazione delle carceri nel Lazio e in tutta Italia. I numeri sono drammatici: ottantacinque suicidi in Italia nel 2022. Cinquantatré al 19 settembre di quest’anno. Poi il sovraffollamento nelle carceri: al 31 dicembre 2022, il numero complessivo di detenuti in Italia era di 56.196, a fronte di una capienza regolamentare di 51.328 posti, con un tasso di affollamento pari al 109% che sale al 141% in strutture come quella romana di Rebibbia. Qui è stato ospitato l’incontro su “Articolo 27 della Costituzione: giusta pena e giusto reinserimento” organizzato da ASI, Associazioni Sportive e Sociali Italiane e dalla rivista “Dietro il cancello” (il periodico edito dal Gruppo Idee che viene realizzato direttamente dai detenuti del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso e che accoglie anche articoli provenienti da altri Istituti Penitenziari) con anche la collaborazione della Casa Circondariale di Rebibbia, Nuovo complesso. Tante le proposte emerse e discusse alla presenza di oltre 100 detenuti che hanno portato le proprie esperienze. Presenti al workshop Rosella Santoro, Direttore CC di Rebibbia Nuovo Complesso, Sandro Compagnoni, Ufficio del Garante Diritti dei detenuti del Lazio, Rossana Scotucci, Capo area educativa Rebibbia NC, Claudio Ronci, Comandante della polizia penitenziaria Rebibbia NC, Antonio Cacchio, Direttore UOC Salute penitenziaria, Vincenzo Saulino, psicologo SerD, Gaetano Scalise, Presidente della Camera penale di Roma, Germana De Angelis, Presidente Gruppo Idee, Annunziata Passannante dell’UEPE di Roma, Silvana Sergi, Direttore dell’Ufficio personale e formazione del Provveditorato regionale Lazio-Abruzzo e Molise, Vittoria Stefanelli, Presidente f.f. Tribunale di Sorveglianza di Roma e l’On. Tommaso Antonino Calderone, Capogruppo Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, Emilio Minunzio, componente del Consiglio Nazionale del Terzo Settore e rappresentante sempre del Terzo Settore presso il CNEL. Hanno coordinato i lavori i giornalisti Stefano Liburdi de Il Tempo e Giuseppe Malara del Tg2. Parma. Alla Comunità Betania incontro sul tema “Le carceri italiane: l’attualità del problema” parmadaily.it Le carceri italiane: l’attualità del problema è il titolo dell’incontro in programma per lunedì 2 ottobre alle 17.30 nel Salone della Comunità Betania (strada Lazzaretto 26, Marore - Parma). Nel corso dell’appuntamento, organizzato dall’Osservatorio Permanente Legalità dell’Università di Parma in collaborazione con il Circolo culturale Il Borgo di Parma, saranno presentati il Rapporto Antigone e il Rapporto Rete Carcere. L’incontro sarà introdotto da Monica Cocconi, Responsabile scientifica dell’Osservatorio. A seguire gli interventi di Mauro Palma, Presidente dell’organismo Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Roberto Cavalieri, Garante regionale, Veronica Valenti, Garante comunale di Parma, Clizia Cantarelli, in rappresentanza del Polo Universitario Penitenziario, Barbara Cusi per Rete Carcere e Giuseppe La Pietra, Coordinatore delle attività formative e professionali di CEFAL Emilia-Romagna. A conclusione dell’evento, l’intervento di Giorgio Pagliari, docente a contratto di Diritto dei servizi e dei contratti pubblici all’Università di Parma. L’incontro intende occuparsi della situazione dei detenuti e delle detenute nelle carceri italiane, esaminando diversi aspetti che riguardano le condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari come l’inserimento nel tessuto lavorativo. Il dibattito sarà influenzato dalla recente approvazione del “Decreto Caivano” (misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile), in particolare dalle politiche poste in essere nei confronti della criminalità minorile e dalle ricadute che potrebbero generare nel sistema penitenziario italiano. Sotto i riflettori anche il tasso di suicidi avvenuti nelle carceri, che ha toccato il suo massimo lo scorso anno. Roma. “Liberare il carcere”: il 6 e 7 ottobre a Roma l’evento organizzato da Arci nazionale arci.it, 29 settembre 2023 “Liberare il carcere. Per affermare dignità e diritti per le persone che vivono e lavorano negli istituti di pena” è l’evento organizzato da Arci nazionale, in collaborazione con Arci Pietralata e Arci Roma, in programma il 6 e 7 ottobre a Roma. La situazione nelle carceri del nostro Paese sta peggiorando di giorno in giorno. Strutture fatiscenti, sovraffollamento, pochissimi educatori, assistenti sociali e psicologi, condizioni disumane dei più fragili, pochi esempi virtuosi di progetti di reinserimento sociale e lavorativo. La condizione delle persone detenute è spesso drammatica. Le persone malate, che soffrono di disturbi mentali, che sono tossicodipendenti, spesso non hanno nessun supporto continuativo e rischiano di peggiorare la loro condizione di vita durante la detenzione. Il sovraffollamento è il risultato di leggi che privilegiano la carcerazione preventiva per nascondere il malfunzionamento della giustizia e dell’amministrazione pubblica o che puniscono reati minori senza prevedere pene alternative alla detenzione. Per non parlare della condizione delle persone straniere detenute e lo scandalo dei CPR (Centri di permanenza per i rimpatri), luoghi terribili di detenzione camuffata. Il diritto alla salute, all’affettività, alla socialità delle persone private della libertà sono calpestati ogni giorno. La condizione delle donne, che siano madri o meno, è sempre più difficile in virtù di condizioni che impediscono, concretamente, di avere relazioni stabili con gli affetti esterni. Ma nessuno vuole vedere, nessuno vuole sapere. È come se il carcere fosse una discarica della società, dove non c’è nessuna speranza per persone che hanno rotto il patto sociale attraverso la commissione di un reato, molto spesso strumentale ad una condizione di vita, di fare un percorso di riflessione ed elaborazione dei propri errori per costruirsi un nuovo futuro. L’Arci difende, da sempre, i diritti umani di tutti. Ci impegniamo in progetti dentro e fuori dal carcere per costruire condizioni rispettose dei diritti delle persone detenute attraverso dispositivi culturali ed artistici. Per questo il 6 e 7 ottobre a Roma abbiamo invitato esperti, parlamentari ed organizzazioni che si occupano dei diritti delle persone private della libertà e delle principali problematiche sociali odierne, per discutere di come migliorare la condizione detentiva e chiedere al governo più investimenti, cambiamenti legislativi, un nuovo approccio al tema della pena e della sua esecuzione. Tra gli altri ricordiamo l’intervento di Walter Massa, Presidente nazionale Arci, Stefano Anastasia, Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio e Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Sofia Cioffoletti, Conferenza Nazionale dei Garanti delle persone private delle libertà, Patrizio Gonnella, Presidente Antigone onlus, Stefano Vecchio, Presidente Forum Droghe, Marco Costantini, Sbarre di Zucchero, Sonia Caronni, CNCA - Coordinamento Nazionale Comunità d’Accoglienza, Franco Corleone, Società della Ragione. Tra i parlamentari hanno già confermato la loro presenza Riccardo Magi (+Europa) e Ilaria Cucchi (Alleanza Verdi e Sinistra). L’incontro si svolgerà presso il circolo Arci Pietralata, già casa del popolo di uno dei quartieri simbolo delle lotte di riscatto delle borgate romane e oggi uno dei pochi centri di aggregazione e attivazione civica del territorio. Gorizia. L’ombra del caporalato sulla provincia, “teniamo alta la guardia” di Eliana Mogorovich ilgoriziano.it, 29 settembre 2023 Domani mattina il convegno promosso dalla Consigliera regionale di parità, coinvolto l’Osservatorio regionale antimafia: “Serve prevenzione”. Il caporalato come piaga che si inserisce nelle problematiche di competenza delle Consigliere di parità, poiché spesso si tratta di un problema che viene ad aggiungersi alle discriminazioni subite dalle donne nei luoghi di lavoro. Questa la premessa che ha portato all’organizzazione della tavola rotonda “Caporalato: il caso provinciale goriziano” in programma domani, venerdì 29 settembre, dalle 10 alle 13 nella sala riunioni al piano terra del municipio di Gorizia. Come ha spiegato in sede di conferenza stampa la Consigliera di Parità regionale Anna Limpido, promotrice dell’evento, la consapevolezza delle connessioni fra caporalato e le quotidiane vessazioni che possono subire le donne hanno portato già nel 2019 a tenere sotto controllo entrambi i fenomeni attraverso l’istituzione di un tavolo nazionale comprendente le Consigliere di Parità di tutte le regioni già nel 2019. Fondamentale risulta dunque non solo sorvegliare ma anche partecipare alla costruzione di azioni virtuose nel mondo del lavoro, un tema verso il quale l’amministrazione comunale, rappresentata dalla vicesindaco Chiara Gatta, è sempre molto sensibile. La decisione di tenere questo appuntamento nella provincia di Gorizia nasce non solo dalla scoperta e dal pronto arresto dei responsabili, negli scorsi mesi, di un giro di racket del lavoro, ma anche dalla consapevolezza della multiforme natura dei contratti che possono regolare i vari settori. Il coinvolgimento dell’Osservatorio regionale antimafia nell’appuntamento di domani va appunto in questa direzione: come ha spiegato il presidente Enrico Sbriglia bisogna prendere consapevolezza a tutti i livelli che il caporalato è ormai parte della nostra realtà. Realtà, questa, che si manifesta tanto con l’andamento distorsivo del mercato quanto nella reiterazione o a volte l’anticipazione di strutture che possono avere vincoli con la criminalità organizzata. Determinante a questo punto un’azione condivisa che veda la collaborazione fra forze dell’ordine, organizzazioni sindacali e di volontariato che si occupano di persone in difficoltà ma anche degli enti locali, utili a individuare situazioni che, se al momento sono sporadiche, possono facilmente radicalizzarsi e diventare stanziali. Spiega Sbriglia: “Alcuni dicono che ci sia già una coerenza fra fenomeni dell’immigrazione e ciò che attiene il caporalato, altri dicono che esistano anche delle piattaforme che favoriscono l’uscita dal Paese di origine di persone che vengono fatte arrivare in Italia per poi essere impiegate in nero all’interno di determinate aziende. La provincia di Gorizia sembra un territorio felice ma vi insiste la realtà della cantieristica, fra le più importanti a livello mondiale. Oltre a ciò, vi è una molteplicità di comunità che non sono problematiche di per sé, possono però diventarlo se vengono proposte delle forme di padronaggio o sudditanza al loro interno”. Situazioni “per cui, per lavorare o anche per trovare un’abitazione, è necessario rivolgersi a qualcuno della propria comunità. Quindi - ha proseguito il direttore dell’Osservatorio - è come se avessimo già superato lo stadio del caporalato tradizionale e più conosciuto in Italia ed è per questo ancor più urgente disegnare una sensibilità sul tema. Occorre puntare sulla prevenzione, rendendo i cittadini persone attive nella tutela dei diritti proprio e degli altri”. La tavola rotonda di domani, focalizzata soprattutto sul lavoro agricolo, verrà moderata e introdotta dalla stessa Limpido cui seguiranno i saluti istituzionali del sindaco Rodolfo Ziberna. Interverranno quindi Enrico Sbriglia, Pierpaolo Guaglione (Capo dell’Ispettorato territoriale del lavoro di Trieste e Gorizia), Umberto Daneluzzi (direttore Confagricoltura Fvg), Teresa Dennetta (Coordinatrice dei Punti di ascolto di Udine e Gorizia), Alberto Monticco (segretario regionale Cisl Fvg) e Matteo Zorn (segretario regionale Uil Fvg). Elogio degli avvocati da uno scrittore. Brevi appunti su “V13” di Emmanuel Carrère da Nicola Galati extremaratioassociazione.it, 29 settembre 2023 L’ultima opera di Emmanuele Carrère, “V13”, edita da Adelphi, racconta il processo sugli attentati terroristici di matrice islamica a Parigi del 13 novembre 2015. In mano ad un lettore avvocato, il libro ha suscitato una serie di considerazioni, qui esposte per punti, sull’inevitabile confronto tra il nostro sistema penale (sostanziale e processuale) e quello francese, e non solo. Vittime e vendetta - La parte più toccante e straziante del libro è indubbiamente quella dedicata alle testimonianze delle vittime sopravvissute e dei familiari delle vittime delle stragi. Ampio spazio viene loro dedicato nel corso del dibattimento, con il rischio di una deriva vittimocentrica del processo penale. Carrère è attento a non esprimere giudizi, soprattutto dinanzi alle diverse reazioni rispetto a quanto subìto. Nessuno può farlo. Il padre di una vittima può provare amore per il malvagio, per l’uomo, ma non per la sua malignità; un altro può odiarlo e desiderare vendetta. La vendetta è un furore arcaico, umano, che però dobbiamo superare in nome della civiltà, che è tale proprio perché sostituisce la vendetta con il diritto. Sentenza - Carrère non risparmia critiche alla sentenza, in particolare sotto due profili: la sorte dei tre imputati con posizioni minori (Oulkadi, Chiuaa e Attou) e l’ergastolo ostativo inflitto ad Abdeslam, l’imputato principale. Oulkadi è stato condannato per associazione a delinquere con finalità di terrorismo e favoreggiamento di un’organizzazione terroristica, ma la pena è stata molto contenuta, e inferiore alle richieste dell’Accusa, così che resterà a piede libero. La previsione, nell’ordinamento francese, della possibilità di reformatio in peius in appello scoraggia gli imputati dal proporre impugnazione avverso la sentenza. Accettare una condanna ingiusta, nel merito o comunque nella qualificazione giuridica del fatto, pur di non correre il rischio di subire una condanna a pena maggiormente afflittiva. Secondo Carrère i giudici, resisi conto che la condotta dell’imputato non era grave, anziché assolverlo o condannarlo per favoreggiamento semplice, hanno preferito “fare giurisprudenza”, riconducendo anche le condotte marginali all’interno dell’organizzazione terroristica. La condanna all’ergastolo ostativo per Abdeslam, invece, tranquillizza l’opinione pubblica, confermando l’inflessibilità nei confronti dei terroristi. È la tanto acclamata pena esemplare che, però, come ci ricorda Carrère, non rispetta il principio della proporzionalità della pena. “Carcere duro” - Le condizioni di detenzione di Salah Abdeslam, principale imputato del processo, sono state durissime, sei anni in isolamento. Carrère riporta un episodio particolare ed esemplificativo. Il precedente avvocato di Abdeslam aveva denunciato la videosorveglianza h24 a cui era sottoposto l’imputato. Il padre di una vittima aveva inviato una mail al difensore in cui ricordava che la nuora era in coma profondo e il figlio era morto in seguito agli attentati terroristici, concludendo che rispettava il lavoro dell’avvocato, ma che vi erano dei limiti di fronte alle persone che soffrono. Quali sarebbero questi limiti? Quale legame ha la sofferenza impagabile delle vittime e dei loro parenti con i diritti inviolabili dell’imputato e del condannato? Alla sofferenza provocata dal colpevole bisogna rispondere con altra sofferenza? Sarebbe legittimo, allora, reintrodurre la tortura e la pena di morte? No, la pena non può mai consistere in trattamenti disumani, l’unico limite è il rispetto invalicabile della dignità umana. Ergastolo ostativo - L’ergastolo senza speranza, la pena fino alla morte: Carrère denuncia senza infingimenti l’assurdità dell’ergastolo ostativo. Su questo punto, così come sul “carcere duro”, il confronto è più desolante per l’osservatore italiano. Quale scrittore italiano di grande fama oserebbe minare dalle fondamenta la legittimità del 41-bis o dell’ergastolo ostativo, correndo il rischio di essere tacciato di collusione con la mafia o con il terrorismo? Giustizia riparativa - Interessanti sono anche le pagine dedicate alla giustizia riparativa, volta a “permettere il dialogo tra vittime e carnefici, se le due parti lo desiderano: dopo il processo, senza implicazioni penali, senza pubblicità, senza nessun altro testimone se non le guardie carcerarie, poiché l’unico obiettivo è che ciascuno possa dire la sua verità e fare un passo avanti nella propria ricostruzione, se questa è possibile”. Salta agli occhi la differenza con gli istituti di giustizia riparativa recentemente introdotti dal legislatore nostrano, che possono essere attivati già nel corso del procedimento, anche in fase di indagini preliminari, e che hanno suscitato dubbi in dottrina. Avvocati della difesa - Un aspetto del libro su cui è interessante soffermarsi è il ritratto degli avvocati degli imputati (avvocati della difesa, formula che lo stesso autore ritiene pleonastica). Non è facile trovare in letteratura pagine del genere, in cui gli avvocati dipinti in chiave positiva. Carrère riesce a tratteggiare con precisione la figura del difensore, a descriverne la funzione insostituibile in uno stato di diritto. Una lettura consigliata ad ogni avvocato, soprattutto ai più giovani, ma anche ai tanti che ci considerano complici amorali dei criminali. In queste pagine si trova la risposta alla solita domanda “ma come si fa a difendere un criminale?”. Se è vero che anche in Francia vi è la tentazione d’identificare gli avvocati con gli assistiti, così non è avvenuto nel processo raccontato dall’autore. Anzi, la maggior parte delle vittime stimava gli avvocati degli imputati e rispettava la funzione che ricoprivano. Per concludere, non si possono non riportare le parole dell’avvocato Nogueras, a cui l’autore chiede se ci sono cause che rifiuterebbe di difendere: “se me lo chiedi, allora non hai capito cosa significa fare l’avvocato. Io non difendo nessuna causa, ma non rifiuto nessun imputato. […] Noi, per fare l’esempio dei reati più odiosi, naturalmente non difendiamo la pedofilia o il terrorismo, ma siamo disposti a difendere un pedofilo o un terrorista. Devono essere difesi, è la legge. […] Fare l’avvocato è proprio questo: fare tutto il possibile perché l’imputato sia processato sulla base del diritto e non delle passioni. E poi, quando tutti gli hanno voltato le spalle, essere l’ultimo a tendere ancora la mano”. Resta un’amara constatazione: quando leggeremo in Italia una cronaca processuale come quella di Carrère? Quando saranno raccontati i processi, anche quelli per i reati più gravi, con equilibrio e distacco, senza farsi portavoce di una parte processuale e senza sventolare il cappio della forca? I ragazzi africani di Garrone: senza paura, con un sogno. E i nostri: impauriti, spaventati da noi di Antonio Polito Corriere della Sera, 29 settembre 2023 Quei 16enni vogliono lo stile di vita europeo. Perché i 16enni italiani sono invece così negativi? Non sarà colpa degli adulti? Seydou e Moussa, i due sedicenni protagonisti dell’ultimo, magnifico film di Matteo Garrone, non hanno paura del futuro. Né le minacce della madre di Seydou, “morirete lungo il viaggio”, né l’esperienza di un anziano che quel viaggio l’ha fatto, “soffrirete in Europa”, possono spaventarli. Non sono disperati, non fuggono dalla fame o dalla guerra; la loro vita a Dakar, in Senegal, è povera sì ma felice, come può esserlo quella di un qualsiasi adolescente che ha voglia di gioire e divertirsi, circondato dal calore della sua famiglia. Vogliono partire proprio perché non hanno paura del futuro, e dunque hanno invece un sogno: vivere in Europa e all’europea. Per loro il nostro continente è uno stile di vita: è il calcio, che guardano in tv e che portano letteralmente sulla pelle (tutti i migranti maschi di questo film indossano t-shirt delle squadre di calcio europee); ed è la musica giovanile, che ascoltano la sera su YouTube saltellando tra il rap napoletano e le ballate scozzesi, e di cui immaginano di diventare grandi star. È perché non hanno paura del futuro che ce la faranno, tra mille pericoli e insidie, crudeltà e torture, oltrepassando i limiti delle proprie forze fisiche e morali. Sono come gli esploratori di un tempo, come i conquistatori di nuovi mondi. È un film di avventura, innanzitutto, Io capitano, un moderno Pinocchio. Hanno invece paura del futuro i nostri figli. Paura della “policrisi”, neologismo che abbiamo inventato sui giornali per sommare crisi economica e geopolitica, militare e alimentare, sanitaria e ambientale, come se fossero i mostri dei videogiochi (copyright Giulio Tremonti). Tutto per loro è destinato ad andar male. Non è neanche detto che sopravvivranno al riscaldamento globale, e infatti la giovane che ha fatto piangere il ministro dell’Ambiente con la sua “eco-ansia” diceva: “Non so se ho voglia di mettere al mondo un figlio”. Hanno paura quanto i loro genitori: più della metà degli intervistati in un mega-sondaggio globale della Open Society ritiene che le leggi del proprio Paese non li facciano sentire al sicuro, il 41% teme esplosioni di violenza nell’arco di un anno a causa di disordini politici, il 15% degli italiani pensa che il problema maggiore sia l’immigrazione. Oltre un terzo dei giovani di età compresa tra i 18 e i 35 anni, nei trenta Paesi della ricerca, rinuncerebbe volentieri alla democrazia per un leader forte che abolisca Parlamento ed elezioni. Perché succede questo? Perché i ragazzi africani, che avrebbero ben più ragione dei nostri ad aver paura di povertà, disuguaglianza, crisi alimentare e climatica, mostrano invece una fiducia al limite della temerarietà in sé stessi e nel futuro che sognano? Non sarà colpa nostra? Di noi adulti occidentali, che annunciamo ogni giorno l’imminente fine della Terra, del lavoro, del welfare, delle pensioni, a una generazione di ragazzi che è la più benestante della storia e la più fortunata del pianeta? “I diritti dei minori non siano ostaggio della lotta politica” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 settembre 2023 “Lo scontro politico non favorisce affatto i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Inoltre, le decisioni riguardanti i ragazzi devono coinvolgerli direttamente”, questo è il messaggio chiave consegnato all’Italia dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, Carla Garlatti, in occasione della presentazione della Relazione al Parlamento sulle attività svolte nel 2022. Prosegue la Garante, sottolineando che l’Italia deve porre i diritti dei bambini e dei ragazzi al centro delle politiche pubbliche in modo strutturale e con una programmazione adeguata. Questo impegno deve avvenire senza che si debbano affrontare solo emergenze e senza trasformare i diritti dei più giovani in terreno di contrapposizione tra diversi schieramenti politici. Al momento, i minorenni spesso si sentono inascoltati: è necessaria una legge che preveda la loro partecipazione in ogni fase di elaborazione dei provvedimenti che li riguardano. Infine, è indispensabile introdurre sistemi di valutazione dell’impatto e di verifica degli effetti delle politiche sull’infanzia. La salute mentale dei minori - All’interno di questa lunga relazione presentata in parlamento, si trova un capitolo di particolare interesse dedicato al benessere psicofisico dei bambini e dei ragazzi. Nel corso del 2022, l’Autorità Garante per l’Infanzia ha continuato a studiare l’impatto che la pandemia ha avuto sulla salute mentale dei minori. Questa indagine è stata condotta in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e mira a fornire ai decisori politici le informazioni e le prove necessarie per adottare interventi adeguati a sostegno dei più giovani e delle categorie più vulnerabili. Un comitato scientifico composto da esperti di diverse discipline supervisiona questo progetto di ricerca triennale per garantire la validità degli strumenti e dei risultati. La ricerca è coordinata dall’Autorità Garante per l’Infanzia, dall’Istituto Superiore di Sanità e da vari centri clinici. La prima fase di questa ricerca, completata a maggio 2022, ha coinvolto più di 90 professionisti, tra cui neuropsichiatri infantili, pediatri, psicologi, assistenti sociali e docenti, che hanno lavorato con bambini e adolescenti durante la pandemia. I risultati ottenuti hanno confermato che la pandemia e le relative misure hanno avuto un impatto significativo sulla vita dei minori e delle loro famiglie. Si è registrato un aumento delle richieste di supporto, soprattutto tra i preadolescenti e gli adolescenti, in particolare quelli in transizione scolastica. Inoltre, i minori con disabilità, quelli in situazioni di svantaggio socio- economico e quelli provenienti da percorsi migratori hanno manifestato disagi più gravi. Questo evidenzia che la povertà educativa e la precarietà economica e lavorativa possono aumentare i fattori di rischio per la salute mentale. In risposta a questi risultati, l’Autorità Garante per l’Infanzia ha formulato raccomandazioni sia per il governo che per le regioni. Queste raccomandazioni suggeriscono di potenziare i finanziamenti e le competenze specializzate nella salute mentale dei minori. È essenziale creare sinergie tra servizi terapeutici, scuole, terzo settore e altri attori locali per garantire percorsi di cura e supporto continuativi. In sintesi, l’Autorità Garante per l’Infanzia sta affrontando con determinazione la questione della salute mentale dei minori, cercando di comprenderne le problematiche e promuovendo interventi adeguati per garantire il loro benessere mentale. L’obiettivo principale è proteggere i diritti dei bambini e dei ragazzi, indipendentemente dalla loro situazione personale, familiare o sociale. I Figli dei Detenuti e i Bambini Dietro le Sbarre Sempre all’interno della relazione, c’è un capitolo dedicato all’affettività dei minori che hanno genitori detenuti. Un passo importante è stato compiuto in questa direzione il 16 dicembre 2021, quando è stato rinnovato per la terza volta il protocollo d’intesa relativo alla ‘ Carta dei Diritti dei Figli di Genitori Detenuti’. Questo accordo è stato sottoscritto dalla Garante per l’Infanzia, dal Ministero della Giustizia e dall’associazione Bambinisenzasbarre onlus, un’organizzazione impegnata nel sostegno psico- pedagogico per i genitori detenuti e i minori con uno o entrambi i genitori in stato di detenzione. Questo documento rappresenta un importante passo avanti nel panorama italiano ed europeo, poiché è destinato a garantire la massima attenzione ai minori che vivono l’esperienza difficile dell’incontro periodico con un genitore detenuto. La ‘ Carta dei Diritti dei Figli di Genitori Detenuti’ affronta anche la complessa situazione dei bambini che vivono all’interno degli istituti penitenziari insieme alle loro madri, in attesa dell’auspicato superamento di questa pratica. Alla fine del 2022, c’erano 17 minori che si trovavano in carcere con le proprie madri. La Carta riconosce ufficialmente il diritto dei minori a mantenere un legame affettivo con il genitore detenuto, anche se limitato agli incontri periodici. Un elemento chiave di questa iniziativa è la creazione di un tavolo permanente, come previsto all’articolo 8 della Carta, composto dai rappresentanti delle parti firmatarie e da un membro del Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale. Questo tavolo ha il compito di monitorare regolarmente l’attuazione dei principi e delle azioni previste dal protocollo, promuovere la cooperazione tra gli attori coinvolti e favorire lo scambio di buone pratiche a livello nazionale e internazionale. La dispersione scolastica - L’educazione rappresenta il fondamento su cui si costruisce il futuro di un Paese. Tuttavia, l’indagine promossa dall’Autorità Garante ha rivelato dati allarmanti sulla dispersione scolastica in Italia, mettendo in luce un significativo impatto della pandemia sull’accesso all’istruzione. Il documento conclusivo di questa ricerca, elaborato da una commissione presieduta dal Professor Arduino Salatin e composta da esperti accademici, rappresentanti del mondo scolastico e funzionari dell’Autorità Garante, offre uno sguardo approfondito sulla situazione attuale. I dati emersi dallo studio sono significativi. Gli studenti provenienti da contesti familiari, culturali e sociali svantaggiati sono quelli che risentono maggiormente degli effetti negativi della pandemia sulla loro formazione. Il 22,7% dei figli di genitori con al massimo una licenza media non riesce ad ottenere il diploma, mentre il 22% di coloro che abbandona la scuola ha genitori con professioni non qualificate o disoccupati. La situazione è ulteriormente complicata per gli studenti stranieri, con un tasso di abbandono che è tre volte superiore rispetto agli studenti italiani (9,1% contro 2,9%). Inoltre, si sono rilevati significativi divari tra le regioni del Nord e del Sud del Paese. L’Autorità Garante ha proposto sette raccomandazioni rivolte a istituzioni, imprese, parti sociali, ordini professionali e terzo settore per affrontare la dispersione scolastica. In particolare, è stata avanzata l’idea di istituire ‘ aree di educazione prioritaria’ nelle regioni a più alto rischio di esclusione sociale. Queste aree dovrebbero concentrare risorse per migliorare la qualità delle scuole e dei servizi frequentati dai bambini vulnerabili. La mappatura delle zone caratterizzate da difficoltà sociali, economiche, culturali o migratorie è un passo fondamentale per destinare risorse educative aggiuntive a queste comunità. La dispersione scolastica è un allarme da non ignorare, e l’azione congiunta di tutte le parti interessate è essenziale per garantire un futuro più luminoso per le nuove generazioni. Migranti. Gli emendamenti e le sette navi in mare: così a Bruxelles è saltata l’intesa di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 29 settembre 2023 Bloccato il varo del Patto Ue su migrazione e asilo. L’Italia propone adesso che le Ong portino i profughi salvati nei porti dei Paesi della loro bandiera. Sette navi delle Ong impegnate nel Mediterraneo a soccorrere i migranti. È stato proprio questo, mentre era in corso la riunione a Bruxelles, a convincere il governo italiano sulla necessità di fermare la trattativa sul regolamento sulla gestione delle crisi. Perché - questo viene spiegato sull’asse palazzo Chigi, Farnesina, Viminale - se fosse passato il testo così come era stato modificato nelle ultime ore, nessuno avrebbe più potuto fermare gli sbarchi e soprattutto “i tentativi di mettere sotto pressione gli Stati, in particolare noi”. Per comprendere che cosa sia davvero accaduto bisogna dunque riavvolgere il nastro e tornare a luglio quando si discute proprio della volontà di varare l’ultimo atto del “patto sulle migrazioni e l’asilo”, che contiene appunto la modifica di alcune regole europee. Per l’Italia è un accordo fondamentale visto che per la prima volta riconosce e rende concreto l’obbligo di solidarietà cui sono tenuti gli Stati membri nei confronti dei Paesi di primo arrivo dei migranti. In estate era stata la Germania, appoggiata da altri Paesi dell’Ue, a decidere di bloccare l’approvazione. Ecco perché negli ultimi giorni - dopo mesi di sbarchi e la comunicazione di Berlino di finanziare alcune Ong impegnate a soccorrere i migranti per portarli in Italia - il Parlamento europeo decide di bloccare temporaneamente la discussione su altri due regolamenti del patto migratorio e chiede alla Germania e agli altri di arrivare alla firma dell’accordo. Mercoledì qualcosa si muove. Canali diplomatici informano Roma che i partiti della coalizione al governo in Germania avevano trovato un accordo per sbloccare il regolamento, ma che avrebbero chiesto alcune modifiche. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi arriva a Bruxelles per la riunione del Consiglio e cominciano a circolare emendamenti, ma viene soprattutto comunicato che durante il vertice bisognerà approvare il nuovo testo. Il titolare del Viminale chiede gli emendamenti tedeschi. E scopre che le modifiche riguardano soprattutto le associazioni e le Ong, e chiedono che “nell’articolo 1 del regolamento si deve inserire un paragrafo per legittimare l’attività degli attori non statali, comprese le Ong”, senza che ci sia però alcun obbligo sulle modalità di azione. È un passaggio ritenuto inaccettabile. Anche perché la scelta della Germania di stanziare fondi dal bilancio federale “affinché effettuino attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale, a ridosso delle acque territoriali libiche o tunisine e trasportino poi sempre e solo in Italia i migranti raccolti” pesa ancora nelle relazioni tra i due Paesi nonostante la missione di ieri del titolare degli Esteri Antonio Tajani. Piantedosi è atteso a Palermo per un incontro già fissato da tempo con il collega libico Emad Trabelsi e quello tunisino Kamel Fekih. Chiede quindi più tempo per una mediazione che porti comunque alla sigla dell’accordo. Ma proprio in quei momenti arriva la notizia delle sette navi impegnate nel Mediterraneo che il governo interpreta come “una provocazione”. Piantedosi lascia il Consiglio e intanto la protesta del governo diventa formale nei confronti dei partner per un atteggiamento che viene ritenuto “inaccettabile”. La contromossa italiana è la presentazione di un emendamento per imporre che “i migranti trasportati su navi Ong devono automaticamente essere accolti dal Paese di bandiera della nave”. L’obiettivo del governo è chiaro e dichiarato: se la Germania vuole sostenere le Ong va benissimo, purché accolga anche i migranti trasportati. La proposta non passa e la riunione viene aggiornata. Migranti. Roma frena il patto Ue ma c’è “un’ampia maggioranza” di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 29 settembre 2023 Il voto italiano non è indispensabile. Entro febbraio 2024 l’approvazione dell’accordo. Serve il Sì di almeno 15 paesi che rappresentano il 65% della popolazione. C’è una maggioranza tra i paesi Ue per un accordo sulla gestione delle regolazioni dei migranti in caso di crisi, ma l’Italia impone di perdere ancora un po’ di tempo. È scontenta del capitolo che garantisce una protezione alle Ong che “non possono essere accusate di strumentalizzazione”. Anche per questo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi non è intervenuto al Consiglio di Bruxelles, dirigendosi poi a Palermo per incontrare gli omologhi di Libia e Tunisia. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha provato a smorzare le tensioni dicendo che l’Italia non ha detto No ma solo preso tempo “per un esame giuridico più approfondito”. Ha però ribadito che con la Germania esistono posizioni diverse sul finanziamento alle Ong. In serata “fonti di Palazzo Chigi” hanno fatto trapelare “sorpresa” per le sette navi umanitarie con bandiera tedesca in missione durante il vertice Ue. In realtà solo cinque erano in navigazione - due velieri e due imbarcazioni piccole - e non è un numero inusuale. Di immigrazione discuteranno oggi i paesi del sud della Ue al decimo summit Med9 in Spagna (Cipro, Croazia, Spagna, Francia, Grecia, Italia, Malta, Portogallo, Slovenia, assieme ai presidenti di Commissione e Consiglio). Dopo mesi di negoziati, bisognerà aspettare ancora un po’ per un accordo europeo, anche se a sbloccare la situazione è stato il cambio di posizione della Germania, lacerata nel governo di coalizione tra la difesa dei diritti e i timori di dare argomenti all’estrema destra a pochi giorni da un voto locale. “C’è un’ampia maggioranza sull’orientamento generale - afferma il ministro deli Interni spagnolo, Fernando Grande-Marlaska, presidente semestrale del Consiglio che ha preparato l’ultimo compromesso - Siamo molto vicini a raggiungere il consenso necessario”, ma “mancano alcuni dettagli”. Il Belgio spiega che ormai ci vorranno 40-50 giorni per arrivare a un testo di legge definitivo, cioè nei tempi previsti dalla Commissione. Il tempo massimo per lasciare in eredità un nuovo sistema alla prossima configurazione del Parlamento europeo e di tutte le alte cariche della Ue è febbraio 2024. La Crisis Management Regulation, per la gestione in caso di crisi, ha bisogno della maggioranza qualificata per passare, cioè almeno 15 paesi che rappresentano il 65% della popolazione della Ue. Il voto italiano non è indispensabile. Per l’Ungheria “il Patto apre nuove porte a più immigrazione”, commenta Bence Retvari. La Polonia terrà un referendum sull’immigrazione il 15 ottobre, stesso giorno delle legislative. Per Margaritis Schinas (Ppe), il commissario europeo che ha proposto il Patto, “alla fine toglieremo argomenti a demagoghi e populisti che dicono che non possiamo risolvere la situazione”. Nell’aprile scorso, il Parlamento Ue aveva raggiunto un accordo sulla posizione da difendere nel negoziato in corso con il Consiglio: solidarietà tra paesi in caso di crisi acuta attraverso ricollocamenti volontari, filtraggi alle frontiere con il rafforzamento di Eurodac (dai biometrici, impronte ecc.), gestione dell’immigrazione illegale con i rimpatri. Nel giugno scorso una posizione negoziale era passata anche al Consiglio europeo, a maggioranza qualificata di 21 paesi (l’Italia aveva votato a favore), con quattro astensioni (Bulgaria, Malta, Lituania, Slovacchia) e due voti contrari (Polonia, Ungheria). L’Italia - con Austria, Olanda e Grecia - vorrebbe inserire la possibilità di rinviare i migranti respinti dal diritto all’asilo non solo nel paese d’origine, ma anche verso paesi terzi, considerati “sicuri” dalla Ue. Il compromesso della Commissione esorta comunque i 27 a concludere accordi con paesi di origine. L’immigrazione sarà argomento elettorale scottante alle europee di giugno e il Patto è una pittura di facciata. Nei fatti, oggi, gli europei stanno distruggendo poco alla volta l’accordo di Schengen di libera circolazione, raggiunto nel 1995 e ora in via di revisione. C’è un generale ritorno dei controlli alle frontiere interne che ormai colpisce il 50% dei cittadini dell’area Schengen, malgrado le sentenze della Corte di giustizia (contro Austria e Francia). Una cauzione da 5mila euro non può fermare la disperazione dei migranti di Rosario Russo Il Dubbio, 29 settembre 2023 Il diavolo, ma anche la ragione politica, si nascondono nei dettagli. Salvato in mare dalle autorità italiane, il naufrago Sempronio, appena sbarcato con moglie e figli in Italia provenendo dalla Tunisia, ha invocato la protezione, cercando di dimostrare fatti che denotano una situazione di specifica gravità della sua situazione, come previsto dalla legge. Per evitare di essere trattenuto negli appositi centri in attesa della decisione, egli intende prestare fideiussione bancaria o polizza assicurativa, a garanzia dell’obbligo di non allontanarsi indebitamente. Lo prevede espressamente il D.M. interministeriale 14.9.2023, che quantifica in euro 4.928,00 l’entità della cauzione. Tuttavia il D.M. si discosta da tale disposizione nella parte in cui aggiunge che “La garanzia finanziaria è prestata in unica soluzione mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa ed è individuale e non può essere versata da terzi” (art. 3). Pertanto queste clausole sono vistosamente illegittime. Alla stregua del D.M., pur avendone la concreta possibilità economica (!), Sempronio non potrebbe legittimamente prestare la cauzione per la moglie e i figli. Ugualmente, Papa Francesco o la Comunità di Sant’Egidio non potrebbero legittimamente anticipare o donare o prestare a Sempronio la provvista necessaria per stipulare in prima persona la garanzia finanziaria. E tutto ciò sebbene, come prevede proprio l’art. 2, 1° del D.lgs. n. 286 del 1998, “Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana”, ivi compreso innanzi tutto il diritto (previo versamento della cauzione) di attendere fuori dagli appositi centri l’esito di una domanda legittimamente proposta. D’altronde, se l’ordinamento italiano ha monetizzato nella misura indicata il danno che gli proviene dall’allontanamento di Sempronio, rimane del tutto irrilevante l’individuazione del soggetto che se ne faccia in concreto carico. È spiegabile così eclatante violazione di legge? La prima già ventilata “giustificazione” non fa onore a chi la propone: se Sempronio ha potuto pagare il trafficante che si è occupato del trasporto via mare, potrà e dovrà allo stesso modo apprestare, anche nei modi illegittimi previsti dal D. M., la provvista per la cauzione che gli assicura la libertà! La seconda motivazione (non giustificazione) è più verosimile, ma anche politicamente più grave: rendere praticamente impossibile il pagamento della cauzione, in modo che Sempronio non osi partire e approdare in Italia. La miopia del decreto governativo tocca qui il suo apice: davvero si crede che Sempronio, disposto a morire con la sua famiglia nel tragitto per raggiungere la costa italiana, se ne astenga sol perché corre il rischio di restare quasi in vinculis per qualche mese negli appositi centri? V’è di più. La direttiva 2013/33/UE prevede all’art. 8, 4° che “Gli Stati membri provvedono affinché il diritto nazionale contempli le disposizioni alternative al trattenimento, come l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria o l’obbligo di dimorare in un luogo assegnato”. Siccome incondizionata e precisa, tale disposizione, per un verso, rende inadempiente lo stato italiano se non preveda - e prospetti a Sempronio - le operative facoltà (in alternativa al trattenimento e alla stessa garanzia finanziaria) di presentarsi periodicamente alle autorità ovvero di assumere l’obbligo di dimorare nel luogo assegnato. In estrema sintesi, il Governo ha preso atto che gli italiani, cioè molti di essi, non vogliono gli immigrati, ma non vogliono neppure lasciarli morire nel Mare Nostrum. In vista delle prossime elezioni europee vuole però dimostrare al proprio specifico elettorato che, lungi dall’accoglierli, continua a sostanzialmente respingerli in tutti i modi, legittimi e perfino illegittimi. Resta il fatto che anche il Governo deve rispettare le leggi approvate dal popolo sovrano e dagli organi comunitari. È in gioco la Costituzione formale e materiale. Migranti, l’inutile supplizio dei Cpr di Marina Lomunno vocetempo.it, 29 settembre 2023 Intervista a Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Torino: spiega il fallimento dei “Centri di permanenza” per i migranti in attesa di rimpatrio. “Mare nostrum, da culla della civiltà a tomba della civiltà”. “Non possiamo mandare indietro i migranti come fossero una pallina da ping pong, la soluzione non è respingere”. Sono alcune delle parole-denuncia che il Papa ha lanciato da Marsiglia, chiudendo le Rencontres Méditerranéennes (Incontri del Mediterraneo) e che risuonano forti in Italia e a Torino dove in questi giorni, al Festival dell’Accoglienza sul tema “Liberi di emigrare”, promosso dalla Pastorale Migranti della diocesi, si discute anche sul Decreto approvato nei giorni scorsi dal Consiglio dei ministri sui Cpr. La norma prevede che ogni Regione si doti di un Centro di permanenza per i rimpatri (attualmente 9 in Italia), strutture dedicate ad accogliere le persone giunte nella nostra Penisola senza permesso di soggiorno o destinate a un provvedimento di espulsione e a ospitarle in attesa del rimpatrio. Inoltre dispone l’allungamento del periodo di permanenza nei Centri da 12 a 18 mesi. Anche l’Arcivescovo Repole presentando il Festival ha invitato ad interrogarci sull’emergenza che sta vivendo il nostro Continente: “Oggi ci troviamo ad accogliere in Italia e in Occidente molte persone che non sono affatto libere di emigrare ma migrano per necessità: dobbiamo riflettere su cosa significa accogliere”. Su questi temi e in particolare sui Cpr abbiamo parlato con Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Torino. Qual è la situazione del Cpr di corso Brunelleschi che lei ha visitato più volte denunciandone lo stato di degrado? Il Cpr di Torino è chiuso dallo scorso 5 marzo, dopo una serie di rivolte iniziate dalla fine di gennaio che hanno causato ingenti danni al Centro, tanto che fino ad oggi non hanno consentito di avviare una ristrutturazione. Una questione complessa, che si inserisce nelle riflessioni politiche di questi giorni che va in altre direzioni: costruire Centri più grandi, non all’interno nelle città ma nelle periferie, lontani dagli sguardi, e prolungare il trattenimento dei migranti. Perché secondo lei i Cpr non sono efficaci? I numeri parlano chiaro: nel 2022, delle 879 persone transitate al Cpr di Torino - di cui 199 provenivano dal carcere e 680 entrati liberi - solo 279, vale a dire una su quattro, sono state rimpatriate. Pertanto la percentuale a Torino è molto più bassa in riferimento al 50% dei rimpatri negli altri Cpr in Italia. I restanti migranti sono stati rilasciati sul territorio per diversi motivi, dalla scadenza dei termini di trattenimento a ragioni sanitarie o per la mancata convalida da parte del giudice. Persone che vengono liberate con un decreto di espulsione con cui in teoria dovrebbero lasciare il nostro Paese entro 7 giorni. Ma se una persona trattenuta per 90 giorni in mano dello Stato che non è riuscito a indentificarlo e rimpatriarlo ma solo trattenerlo, come può organizzare il suo volo verso il Paese di origine, in autonomia? Come è possibile anche solo immaginare che possegga risorse economiche per procedere in maniera volontaria al rimpatrio? I trattenuti che vengono reclusi all’interno dei Cpr spesso provengono da contesti di marginalità, senza più alcun legame nel loro Paese d’origine. E cosa che succede di queste persone? Che rimangono sul territorio. Quest’anno fino al 5 marzo, cioè fino a quando è rimasta aperta la struttura, si sono registrati 235 transiti (solo 28 provenienti dal carcere): di questi 46 sono stati rimpatriati e gli altri sono stati messi in libertà. Il dato interessante è che dal 5 marzo - quando è stato chiuso il Cpr - al 30 agosto, in 5 mesi i rimpatri a Torino sono stati 36… Un dato non molto diverso da quando transitavano dal Cpr. Un altro dato che dovrebbe farci riflettere ancora di più è il numero complessivo in Italia dei rimpatri che dal 1° gennaio al 30 agosto è pari 2.239 persone a fronte di 133.393 persone sbarcate nella Penisola. Il Cpr è uno strumento inefficace in termini di costi economici ed umani: in questo momento a Torino non si registra neppure la presenza dei cosiddetti luoghi idonei previsti dalla normativa nazionale. Come si vive nei Cpr? Il Cpr è un luogo che sottrae tempo alla vita, un limbo dove ogni giorno è uguale, un luogo di dolore, un luogo che costringe le persone ad usare il proprio corpo come terreno di azione per dimostrare la sofferenza. Frequenti sono gli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio. Un dato indicatore del malessere della struttura di corso Brunelleschi è che nel 2012 gli interventi del 118 che parte dall’Ospedale Martini furono 5, mentre nel 2022 sono stati 201 e nel 2021 con più di 100 tentativi di suicidio. Sono luoghi gestiti da organizzazioni private, dai costi elevati, dove anche l’ultimo segmento di vita del migrante, cioè il rimpatrio, è un intervento stimato dalla Corte dei Conti che costa 2.400 euro a persona. Ci si chiede: perché non usare questi fondi per l’accoglienza e per progetti di integrazione? A prescindere che un certo numero di persone devono rientrare nel loro Paese d’origine, per il resto i Centri non adempiono alla funzione per cui sono stati istituiti sia in termini di costi economici che di dignità. E se vogliamo leggere questa situazione dal punto di vista della sicurezza, come ci hanno segnalato più volte le forze di Polizia, possiamo affermare che chi è rimesso in libertà senza un progetto di reinserimento è a rischio di ingresso in ambienti delinquenziali. Lei in questi anni ha incontrato molti migranti nel Cpr… Molti trattenuti facevano parte del circuito dei senza fissa dimora prelevati anche in altre città, non solo a Torino: abbiamo seguito migranti che venivano da Roma, Padova, Trento, persone allontanate dai loro punti di riferimento nella città di origine, come il dormitorio, la mensa o i centri diurni. Una doppia sofferenza: dopo una detenzione, talvolta a loro incomprensibile, un’uscita che li rendeva completamente spaesati, in una città, Torino, a loro assolutamente sconosciuta. Cosa ci dicono i dati e le storie di chi emigra nel nostro Paese? Sono la dimostrazione di come le istituzioni e in particolare l’Ufficio immigrazione della Questura di Torino, qualora i cittadini stranieri siano nella condizione giuridica di irregolari e non possano restare nel nostro territorio, siano in grado di organizzare, attraverso voli commerciali o altre modalità, rimpatri senza passare dalla permanenza nel Cpr. In questo modo si riducono i non solo i costi, ma anche situazioni di estrema sofferenza per i migranti. I Cpr sono parcheggi, non è prevista nessuna attività, le giornate scorrono nel vuoto più assoluto: non si ha la possibilità di telefonare liberamente perché i telefoni vengono sequestrati all’ingresso e gli operatori di supporto e sostegno sono pochissimi. Le giornate sono vuote e senza attività risocializzanti, alcuni migranti che provenivano dal carcere mi hanno riferito che almeno la detenzione offriva corsi e percorsi in grado di affrontare il tempo con scopi e obiettivi di istruzione, formazione o lavoro… Quindi il prolungamento della permanenza non fa che aumentare i disagi… La Direttiva europea sui Cpr prevede che il tempo massimo del trattenimento sia 6 mesi e così affermano pure le linee guida del Consiglio d’Europa. I 18 mesi sono giustificati per casi singoli particolarmente gravi, per gli altri il massimo è 6 mesi. Inoltre occorre sottolineare che gli accordi bilaterali fra l’Italia e i Paesi di provenienza dei migranti sono pochi: Marocco, Tunisia, Nigeria, Egitto, Albania e Georgia. Il resto è da costruire ad ogni rimpatrio e non sempre si raggiunge l’obiettivo. Giustamente il Presidente Mattarella in questi giorni, parlando dell’emergenza degli sbarchi, ha evidenziato che l’accoglienza non può essere disgiunta dall’azione europea e che occorre “cambiare le regole di Dublino, ormai preistoria”. Sono convinta che, come diceva Piero Calamandrei, riferendosi alle carceri, “bisogna aver visto”. Sarebbe opportuno estendere questa affermazione anche ai Cpr: bisogna entrarci, conoscere le storie delle persone recluse, non valutare i loro comportamenti ma le ragioni che portano a certi comportamenti. Rinchiudere, vuol dire nascondere, non far vedere, eppure la politica della “paura” pare continui a portare sempre maggiori consensi.