La prima vittima del carcere è la ragione umana di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 28 settembre 2023 A settembre in Calabria lo Jonio è di un azzurro accecante e la brezza ti porta un’aria frizzante sin nei polmoni. I colori sono così forti che penetrano nel cervello e predispongono all’allegria mentre un tiepido sole autunnale ti accarezza e senti una forte voglia di vivere. Poi basta un attimo: si varca la soglia del carcere di Locri ed il sole scompare, il mare non si vede, l’angoscia ti afferra alla gola. La prima cosa di cui sono privati i carcerati è la luce del sole, un bene che. costa nulla e potrebbe dare tanto a coloro che vi sono rinchiusi dentro. Invece niente luce solare e dopo qualche giorno tutti hanno bisogno del sedativo. La prima vittima del carcere è la ragione umana. Va in crisi nei detenuti ma non lascia indenne molti magistrati, uomini d’ordine, perbenisti, insomma coloro che invocano e utilizzano il carcere come fosse acqua santa. Si potrebbe legittimamente pensare che entrando nel carcere di Locri, la prima cosa che incontri sono gli uomini della ndrangheta. Non è così e, per quanto incredibile possa sembrare, la sezione più affollata è piena di poveri diavoli dallo sguardo perso e dagli occhi tristi. Sono gli ‘scafisti’ cioè autentici disgraziati che per fuggire dalle dittature, delle guerre e dalla fame hanno accettato di tenere il timone nell’ultimo tratto del loro viaggio. Se la carretta del mare dovesse affondare andrebbero a fondo come tutti gli altri. Anche un bambino potrebbe comprendere come il ‘reato’ contestato a questi profughi è finalizzato a trasformarli in ‘trafficanti di uomini’ ed è stato fabbricato in vitro in laboratori dii assoluta avanguardia dove lavorano insieme il meglio della politica e della stampa. Insieme operano una fredda e studiata manomissione della lingua parlata per mettere alla gogna gli indifesi ed assolvere i responsabili della immane tragedia che si consuma sotto i nostri occhi. Non è un caso se nel lugubre braccio del carcere riservato agli ‘scafisti’ ti senti addosso mille occhi che ti domandano ‘perché mi trovo qua?’. ‘Perché ci fate questo?’. Li guardo e abbasso gli occhi perché sono perfettamente consapevole che tra me e loro il colpevole sono io. Colpevole in linea storica per le guerre e le rapine di cui siamo responsabili come italiani e come europei; colpevoli di una responsabilità collettiva che per pigrizia e per ‘quieto vivere’ consente a coloro che, in nostro nome, ci governano di trasformare gli ultimi della terra in delinquenti e mettere alla sbarra chi, come a Riace, ha cercato di aiutarli. Il carcere è pieno degli scarti del mondo. Le altre sezioni non fanno eccezione. Se nella sezione stranieri, gli esuli sono chiamati delinquenti nelle altre sezioni ci sono tanti detenuti che potrebbero essere innocenti ma il carcere preventivo infligge loro un acconto di pena. Nelle celle vi sono i figli dell’ignoranza, del degrado, delle abitazioni in cui non entra mai il sole La dimostrazione è nel filmato che vediamo nel pomeriggio e che viene introdotto e commentato dal Presidente del tribunale di Locri che ha incluso quattro detenuti in un bel progetto per riordinare gli archivi. È bastato un po’ di fiducia, magari di affetto e di dialogo per trasformare i quattro ‘delinquenti’ in ‘persone’ a cui potreste tranquillamente affidare le chiavi delle proprie case’. (parole del presidente del tribunale). Quindi si può? Si può immaginare un carcere in linea con l’art. 27 della Costituzione? Si può pensare ad un carcere che debelli e disarmi i delinquenti piuttosto che spingerli verso la perdizione? Allora perché questa stupida istituzione medioevale chiamata carcere continua a macinare vite che potrebbero essere salvate o a formare delinquenti invece che recuperarli alla società? C’è chi gode, perché ammalato, a mandare in carcere le persone quando invece lo si potrebbe limitare ai pochissimi casi in cui è strettamente necessario, rendendolo sicuro, rieducativo ed umano così come prevede la Costituzione. Non lo si vuole fare. Perché il carcere, questo tipo di carcere, oggi come mille anni fa, è uno strumento di governo. Una minaccia verso i cittadini. Un potere di casta e di caste. Una pistola alla tempia degli innocenti. Soprattutto, una risposta sbagliata al bisogno di rivolta lungamente represso. E non a caso i calabresi che storicamente avvertono con forza il bisogno di Rivolta rappresentano il numero più numeroso tra i detenuti. Danno una risposta sbagliata a problemi veri. Siamo già nel pomeriggio quando con una delegazione di ‘Nessuno Tocchi Caino’ e della Camera penale di Locri usciamo dal carcere. La brezza è caduta, il sole ci appare malaticcio, le televisioni sono sincronizzate sul pensiero unico. Comprendi quanto è difficile la lotta per ribaltare le convinzioni di un ‘opinione pubblica’ gabbata e incattivita contro gli innocenti. Una lotta impari a cui però non ti puoi sottrarre. È la nuova frontiera della Resistenza. Il Dl giustizia va in aula ed è subito caos sul nodo intercettazioni di Felice Manti Il Giornale, 28 settembre 2023 Il voto di fiducia sul decreto giustizia deciso dal governo oggi alla Camera fa infuriare le opposizioni e riapre la ferita sul caos intercettazioni. Nel provvedimento omnibus in cui sono confluite anche misure su incendi boschivi, tossicodipendenze e pubblica amministrazione, su cui Montecitorio voterà intorno alle 20, lo scontro più feroce riguarda la norma decisa a sorpresa a metà agosto che, secondo l’esecutivo, serve a disinnescare il rischio che una recente sentenza della Cassazione intralci una raffica di processi per mafia. Si tratta dell’applicazione dello speciale regime delle intercettazioni previsto per i reati di criminalità organizzata, che la norma estende anche ai commessi con metodo mafioso o terroristico. Un blitz che qualche mal di pancia nel centrodestra lo aveva fatto registrare, per come era stata pensata la norma “interpretativa”, caldeggiata soprattutto dal procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo, secondo cui la modifica scritta nel decreto “corrisponde alle esigenze profondamente avvertite dai procuratori antimafia e antiterrorismo”. Secondo il Csm invece - come scrive il Fatto quotidiano di ieri - la riformulazione non solo non proteggerebbe i procedimenti in corso ma li danneggerebbe. Lo sostiene il parere approvato dal Csm, relatore Marcello Basilico, togato di Area (la corrente progressista) secondo cui il passaggio del decreto in cui si scrive “la norma si applica anche ai processi in corso” rischierebbe di vanificare la necessità di tutelare le intercettazioni autorizzate prima della sua entrata in vigore. Un busillis per addetti ai lavori? Non solo. Basti pensare alla vicenda del sindaco di Santa Marinella, Pietro Tidei, che si è viste alcune intercettazioni sui suoi appuntamenti hot in Comune, del tutto irrilevanti ai fini dell’inchiesta, confluire in un fascicolo finito agli avversari politici e alla stampa. “Chiedo al ministro Carlo Nordio di attivare tutti gli strumenti utili a individuare le responsabilità di una vergognosa fuga di notizie”, sbraita l’azzurro Pierantonio Zanettin, vicepresidente della commissione Giustizia del Senato che da mesi denuncia i rischi della violazione della privacy sulle intercettazioni, tanto da aver convinto la maggioranza a una serie di maggiori tutele rispetto al passato per chi finisce spiato e sputtanato sui giornali. Ma il vero rischio sulle intercettazioni lo lancia Enrico Costa, deputato di Azione, che raccoglie le denunce lanciate da Gioacchino Genchi sul Giornale e ribadite in commissione sulla possibile manipolazione delle prove raccolte grazie ai trojan. “Il governo istituisca una specifica procedura per garantire un’immediata perizia in caso di sospetti sull’alterazione di file audio o video per mezzo di sistemi di intelligenza artificiale”, si chiede Costa, convinto che serva una riforma per garantire la genuinità delle intercettazioni telefoniche e ambientali. L’accusa di Borsellino tuona in antimafia: “Saranno i miei colleghi a volere la mia morte” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 settembre 2023 Le parole choc di Fabio Trizzino, avvocato della famiglia del magistrato ucciso nel luglio del ‘92 a via D’Amelio, sentito in commissione Antimafia: “Definì il suo ufficio un “nido di vipere”. “Chiediamo che le componenti statuali facciano piena luce su particolari dettagli della vita di mio padre in quei 57 giorni” tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. Lo ha detto Lucia Borsellino nel corso di un’audizione in Commissione parlamentare Antimafia, presieduta dall’onorevole Chiara Colosimo, la quale proprio in una intervista al Dubbio disse “Ho le stesse domande che si fanno i figli di Borsellino e l’avvocato Trizzino e vorrei provare a trovare risposte, sui verbali del Csm e su quei famosi 57 giorni, perché se qualcuno in quel “nido di vipere” ha tradito si sappia”. “Siamo convinti - ha proseguito Lucia - dopo aver assistito a piste investigative di questi anni che altre piste non hanno considerato atti, documenti e prove testimoniali che potessero fornire elementi indispensabili a capire il contesto in cui Paolo Borsellino operava negli ultimi giorni della sua vita”. Dopo Lucia, è intervenuto suo marito e avvocato dei figli di Paolo Borsellino, Fabio Trizzino: “Denuncio il fatto gravissimo che il procuratore Pietro Giammanco non è mai stato sentito nell’ambito dei procedimenti per strage. E ora non possiamo sapere se lavorasse per qualcuno perché è morto”. Trizzino ha ricordato una frase di Paolo Borsellino: “Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia: saranno mafiosi coloro che mi uccideranno ma quelli che hanno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri”, disse il magistrato morto nella strage di via D’Amelio. “Se confrontiamo questa testimonianza di Borsellino, che definisce il suo ufficio un “nido di vipere” bisogna cercare nella procura di Palermo” il luogo “di delegittimazione e di isolamento di Paolo Borsellino”. L’audizione si è concentrata in parte sul famoso dossier mafia appalti: era il 14 luglio del 1992, cinque giorni prima dell’attentato che gli costò la vita, quando Borsellino in una riunione in Procura chiese di approfondire il dossier. “Nel 1991 Falcone già disse che bisognava affinare le tecniche di indagine perché esisteva una centrale unica degli appalti dove sono tutti coinvolti. Il chiodo fisso di Falcone era mafia appalti e su questa linea si porrà Paolo Borsellino. È un falso storico che Borsellino non conoscesse il dossier Mafia-appalti”. Aggiunge Trizzino: dopo tangentopoli e la crisi della partitocrazia “Riina si accorge che il sistema dei partiti sta crollando, allora decide che attraverso i grandi imprenditori deve raggiungere i sistemi di potere politico a Roma, come disse anche Giovanni Brusca. La strage di via D’Amelio non ha senso guardando ai soli interessi di Riina. Non si poteva ammazzare Borsellino sperando che lo Stato non reagisse. Ci deve essere stato qualcosa di talmente importante per cui Riina è andato oltre gli interessi dell’organizzazione”. L’avvocato ha ricordato poi cosa disse Antonio Di Pietro nel processo Borsellino ter: “Io e Paolo parlammo e ci dicemmo: “dobbiamo trovare il sistema per far parlare gli imprenditori”. E non dimentichiamo che anche Di Pietro doveva morire”. Trizzino sul circolo mafia, imprenditori, politici ha sostenuto che “tutto è delineato nel rapporto del Ros del 1991” redatto da Giuseppe De Donno e Mario Mori. Poi il j’accuse: “La magistratura in tutti questi anni non ha guardato mai al suo interno, a come ha cannibalizzato i suoi figli migliori. Nel giugno 1992 il Csm decretò che Borsellino non aveva i titoli per divenire Procuratore nazionale e non riaprì i termini per le candidature”. “Il 29 giugno Borsellino andò da Giammanco per chiarire una cosa importante che rappresenta l’ostracismo e delegittimazione professionale verso Borsellino: mentre Borsellino era a Giovinazzo arriva un fax dal procuratore di Firenze, dal dottor Vigna, in cui si dice che Gaspare Mutolo ha parlato con lui e aveva deciso di saltare il fosso con l’unica condizione che a parlare con lui fosse Borsellino. Borsellino era credibile, chi lo doveva seguire Giammanco? In realtà il Procuratore vuole impedire che Borsellino gestisca quel collaboratore e l’ostacolo per la titolarità del fascicolo viene individuata pretestuosamente nel fatto che il collaboratore avrebbe parlato del comparto palermitano mentre lui era coordinatore delle dinamiche di Trapani e Agrigento”. Inoltre discussero della informativa omessa di Subranni sull’arrivo del tritolo per uccidere Borsellino. “Grazie alla dottoressa Lorenza Sabatino riusciamo finalmente ad avere il racconto di come Borsellino visse quell’incontro. Così racconta quella giornata: “la mattina non era nella stanza e chiesi dove fosse e il commesso mi disse che era dal Procuratore. Mi chiamò la sera: il tono di voce era molto abbattuto e mi chiese quasi scusa per non avermi chiamata e mi disse che il giorno dopo doveva partire per Roma”. Effettivamente il 30 giugno era a Roma per interrogare Mutolo, nonostante il fascicolo era affidato ad altri tre magistrati. “Poi gli feci una battuta: ho saputo che oggi sei stato in buona compagnia! E lui con lo stesso tono: è stata una cosa brutta e mi è sembrato di essere tornato ai vecchi tempi”. Trizzino conclude: “Qui c’è un uomo puro che ha condotto una via crucis, fino al sacrificio più grande. È giunto il momento che intorno a lui non ci siano più divisioni”. Ci sarà una prossima audizione, forse già la prossima settimana per terminare la discussione di Trizzino. In tutto questo parla ai giornalisti di Radio Campus il fratello di Borsellino, Salvatore: “Io escluso dalla convocazione dell’Antimafia? Non è andata così. Io - ha spiegato - ero stato invitato dalla Colosimo in persona a partecipare a una convocazione alla commissione antimafia, ma ho problemi di salute. Ho detto che non mi potevo spostare e quindi avevo rinunciato. Poi però è arrivata da parte del mio avvocato una sollecitazione ad accettare un’eventuale convocazione e allora l’ho comunicato alla stessa Colosimo che mi ha assicurato che a breve sarò convocato anche io insieme al mio avvocato. Ho letto ieri che ci sono state un po’ di maretta perchè è stato detto che non ero stato convocato. Le cose stanno come le sto dicendo”. Caso Regeni, la Consulta accoglie la richiesta del gip di Roma e sblocca il processo di Valentina Stella Il Dubbio, 28 settembre 2023 Gli 007 egiziani potranno essere processati: i giudici dichiarano illegittimo l’articolo del codice di procedura penale laddove non prevede la possibilità di procedere in assenza degli imputati in caso di tortura. Pochi ci credevano, molti ci speravano, soprattutto la famiglia di Giulio Regeni, il ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso in Egitto nel 2016: la Corte costituzionale, riunita in camera di consiglio, ha esaminato la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma in relazione alla celebrazione del processo per il sequestro e l’omicidio del ragazzo e “ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa”. Dunque il processo sul sequestro, le torture e la morte di Giulio Regeni si dovrà tenere. Imputati sono quattro 007 egiziani: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. I militari non hanno mai comunicato i loro indirizzi, necessari a inviare la notifica del procedimento in corso. Contro questa situazione, e nell’incapacità della politica di farsi valere sull’Egitto, si sono battuti i genitori di Giulio, Paola e Claudio Regeni, con il loro avvocato Alessandra Ballerini trovando la sponda della Procura e del tribunale. Come aveva scritto il gup di Roma nell’ordinanza di invio degli atti alla Consulta, quanto agli obblighi internazionali ed alla Convenzione sulla tortura, “Tale ultima disposizione della Convenzione non solo è stata ignorata dalle Autorità di Governo e dalle Autorità giudiziarie egiziane, ma è stata “osteggiata” in modo palese. La violazione della Convenzione internazionale sulla tortura da parte dello Stato egiziano (che ha ratificato il trattato), impedisce allo Stato italiano, a sua volta, di osservare la medesima Convenzione, e cioè di processare i presunti autori del delitto di tortura commesso nei confronti di Giulio Regeni”. Ora, in attesa del deposito della sentenza, i primi commenti politici. Serracchiani (Pd): “Uno Stato di diritto difende i suoi cittadini secondo le leggi e non li abbandona all’arbitrio di poteri oscuri”; Calenda (Azione): “La decisione della Corte costituzionale restituisce fiducia e speranza. Per Giulio Regeni, per la sua famiglia e per tutto il Paese ora finalmente si cerchi verità e giustizia”. Bonelli (Avs): “Presenteremo un ordine del giorno alla Camera per chiedere formalmente che l’Italia si costituisca parte civile contro gli assassini e il governo egiziano, assicurando così che la nostra nazione prenda una posizione ferma e decisa in questo grave fatto di cronaca internazionale”. Il verdetto della Consulta su Regeni è una vittoria frutto della tenacia, battuta l’apatia dei governi italiani di Luigi Manconi La Stampa, 28 settembre 2023 Il regime di Al-Sisi non ha mai collaborato, ben sei esecutivi di seguito non l’hanno pressato. Se questo crimine non finisce nell’oblio è merito della famiglia e del procuratore Colaiocco. Infine si apre uno spiraglio, sottile ma determinante, nella tormentatissima vicenda dell’accertamento della verità sull’assassinio di Giulio Regeni. Grazie a una sentenza della Corte Costituzionale ora è possibile che la magistratura italiana processi gli imputati per il sequestro, la tortura e l’omicidio del nostro connazionale. La Consulta ha dichiarato infatti “l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice proceda in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura”. E ciò perché i quattro imputati, tutti appartenenti alla National security agency (Nsa), non hanno ricevuto la citazione e la convocazione a processo - è quanto prevede il nostro codice di procedura penale - a causa della mancata collaborazione dello Stato egiziano, pur essendo a conoscenza del procedimento a loro carico. Si dovranno leggere le motivazioni della sentenza, ma si intuisce che essa si debba alla eccezionale gravità dei capi di accusa, ovvero quegli “atti di tortura” che hanno martoriato il corpo del giovane ricercatore e ne hanno determinato la morte. Ora si può andare a processo secondo le procedure del nostro sistema di giustizia. È un risultato importantissimo dovuto in particolare a due soggetti: la famiglia di Regeni e il procuratore aggiunto di Roma Sergio Colaiocco. La prima, con intelligenza e tenacia e con una straordinaria misura di equilibrio, si batte fin da quei giorni d’inverno del 2016 per tenere viva l’attenzione su quella tragedia, per interpellare tutti gli attori in qualche modo coinvolti e per accedere a tutte le sedi istituzionali dove sia possibile sollecitare una iniziativa politica e mobilitare energie e risorse pubbliche. Troppo spesso in piena solitudine. Una grande solidarietà popolare, ma l’assenza pressoché totale delle istituzioni di governo. L’ultimo atto di vera pressione nei confronti delle autorità egiziane consistette nel richiamo in Italia del nostro ambasciatore al Cairo l’8 aprile del 2016, ma anche quella si rivelò una procedura solo formale e il debole segno di una controversia sostanzialmente innocua. Così che, alla vigilia del Ferragosto dell’anno successivo, il provvedimento fu revocato e si ripristinò l’ordinaria normalità diplomatica tra Italia ed Egitto. Dal giorno del rapimento di Regeni a oggi si sono succeduti sei Governi. E al di là delle petizioni di principio hanno prevalso in genere le dichiarazioni di “amicizia” verso l’Egitto; e una sequenza turbinosa di incontri di presidenti del Consiglio e ministri con il despota egiziano, tale da far immaginare una inquietante promiscuità. Un esempio: nel corso del solo agosto del 2018, furono ben quattro gli incontri tra i più importanti rappresentanti del Governo italiano e Abdel Fattah al-Sisi. La spiegazione che in genere si dà è tutt’altro che immotivata e tuttavia troppo semplice per risultare esauriente. Che il ruolo dell’Eni nella politica estera e italiana sia particolarmente rilevante è indubbio: ma nemmeno questo è sufficiente a spiegare la pusillanimità dei nostri esecutivi. Il perseguimento degli interessi economico-finanziari dell’Italia in quella regione del mondo non è sufficiente a dare conto di tanta subalternità. La politica e la diplomazia italiane hanno rivelato un disastroso complesso di inferiorità nei confronti di un regime autocratico e una scarsissima considerazione del proprio ruolo di nazione sovrana e indipendente. In sette anni e mezzo sono stato testimone diretto dell’indisponibilità delle autorità italiane a incidere sulle relazioni bilaterali con l’Egitto, a esercitare un efficace pressione, a coinvolgere l’Europa in una interlocuzione decisa e incalzante con quel regime, a far sentire il peso della propria funzione nell’area del Mediterraneo. È come se l’Italia avesse archiviato il “dossier Regeni” già il 3 febbraio del 2016, giorno del ritrovamento del suo cadavere, e avesse atteso che scivolasse nell’oblio e nell’oscurità della smemoratezza collettiva. Se così non è stato si deve, come si è detto, alla saggezza e alla pervicacia dei genitori di Giulio e all’attività del procuratore Colaiocco, e della collaborazione di polizia e carabinieri, in una indagine che ha portato a risultati assai significativi, nonostante riguardasse reati commessi in un Paese straniero. E nonostante il vero e proprio ostruzionismo messo in atto dal regime egiziano. Ora il processo può andare avanti secondo le regole del nostro Stato di diritto, che conferma così la sua superiorità rispetto ai regimi dittatoriali, perché come ha scritto il Giudice dell’udienza preliminare Roberto Ranazzi “non esiste processo più ingiusto di quello che non si può instaurare per volontà di un’autorità di governo”. E questo rappresenta un motivo di sollievo, anche perché la decisione della Consulta - va ribadito - parte dalla considerazione dell’assoluta irreparabilità dei reati contestati. La pratica della tortura costituisce il più efferato oltraggio alla dignità umana, vi si ritrova “tutto il male del mondo” (come disse Paola Deffendi Regeni) ed esige la massima intransigenza. Dal momento che il ricorso a essa non è un retaggio dei secoli bui né un prodotto esotico: accade che anche le cronache italiane ne possano riportare gli orrori. Sardegna. Situazione grave nelle carceri: la denuncia della Garante dei detenuti cagliaripad.it, 28 settembre 2023 Irene Testa in audizione nella seconda commissione del Consiglio regionale: organici insufficienti e reclusi con patologie psichiatriche. È grave la situazione delle carceri della Sardegna. Lo ha testimoniato la Garante delle persone private della libertà personale, Irene Testa in audizione nella seconda commissione del Consiglio regionale guidata da Sara Canu (Fdi). “Il sistema carcerario regionale - ha riferito Testa che dalla sua nomina ha cominciato un tour per gli istituti sardi - presenta in parte problemi comuni a quello nazionale e in parte alcune specificità purtroppo molto negative, a cominciare dall’insufficienza degli organici”. Ancora, “negli istituti di pena sardi sono ospitate persone (tossicodipendenti e non) con delicate patologie psichiatriche, che in alcuni casi non appaiono compatibili con la permanenza in carcere”. Situazione altrettanto complessa per quanto riguarda la sanità in generale, ha poi aggiunto la Garante, “perché molti pazienti-detenuti vengono inseriti in lunghe liste d’attesa senza alcuna certezza di poter effettuare interventi chirurgici programmati”. Viterbo. Visite in carceri e Rems, tra rischio suicidario e salute dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 settembre 2023 La recente visita del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, a Viterbo, ha messo in luce questioni cruciali legate alla salute nelle carceri, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) e i reparti di servizi psichiatrici. Il garante ha affrontato vari aspetti, dall’approvazione di misure preventive per il rischio suicidario, alle sfide e le iniziative intraprese per migliorare il sistema sanitario nelle istituzioni penitenziarie e ospedaliere. La visita in ospedale - La giornata di Anastasìa è iniziata con una visita al reparto di medicina protetta e al Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) presso l’ospedale Belcolle di Viterbo. In queste strutture, il Garante ha avuto l’opportunità di incontrare direttamente le persone internate, due individui, un uomo e una donna, in attesa di essere trasferiti nelle Rems, ovvero le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Mentre la situazione dell’uomo sembra essere in via di risoluzione con un trasferimento imminente nelle Rems nei prossimi giorni, si sono riscontrate difficoltà significative per la donna ancora piantonata nell’ambiente Spdc. Quest’ultima dovrebbe essere trasferita nella Rems di Pontecorvo, ma le tempistiche rimangono indefinite. Anastasìa ha espresso preoccupazione riguardo a questa situazione, evidenziando il disagio sia per la donna coinvolta che per il reparto stesso, poiché i pazienti dovrebbero rimanere in questa struttura solo per il periodo necessario al trattamento delle condizioni acute, non per mesi come è avvenuto in questo caso. Promozione della salute carceraria - Un altro aspetto importante affrontato durante la visita è stato l’approccio educativo alla salute carceraria. Anastasìa ha sottolineato l’importanza della diffusione della “Guida per i nuovi giunti negli istituti penitenziari” ai detenuti del carcere di Mammagialla insieme alla carta dei servizi sanitari della Asl di Viterbo. Questo sforzo mira a migliorare la consapevolezza dei detenuti sui servizi sanitari disponibili, sui loro diritti e sulle opportunità di cura. La giornata è proseguita con la partecipazione di Anastasìa al tavolo paritetico dedicato alla tutela della salute delle persone detenute. Questo tavolo si focalizza sull’erogazione di prestazioni sanitarie nel contesto carcerario e coinvolge tutte le istituzioni del territorio che operano in tale ambito. La responsabilità di coordinamento è stata affidata alla Asl di Viterbo e alla direzione della Casa circondariale Mammagialla. Alla riunione hanno partecipato importanti figure istituzionali, tra cui la direttrice della casa circondariale di Viterbo, Anna Maria Dello Preite, la direttrice sanitaria della Asl di Viterbo, Antonella Proietti, il direttore dell’Unità operativa complessa (Uoc) di medicina protetta- malattie infettive, Giulio Starnini, e il responsabile della Uos medicina penitenziaria territoriale, Fabrizio Ferri. Durante la riunione, è stato approvato un nuovo piano di prevenzione del rischio suicidario, un aggiornamento del piano del 2018. Inoltre, è stata raggiunta un’intesa per la carta dei servizi sanitari della Asl di Viterbo, che sarà distribuita insieme alla “Guida per i nuovi giunti negli istituti penitenziari”, un’iniziativa promossa dalla struttura del Garante delle persone detenute della Regione Lazio. In questa occasione sono stati discussi diversi problemi, tra cui la digitalizzazione dei servizi sanitari, le carenze di personale e le difficili condizioni di lavoro del personale sanitario. Il sovraffollamento carcerario - La giornata di Anastasìa si è conclusa con una visita al carcere di Mammagialla di Viterbo, dove ha avuto colloqui con i detenuti. Un problema significativo evidenziato durante questa visita è stato il tasso di affollamento, che ha superato il 141%. Questo significa che il numero di detenuti presenti supera ampiamente la capacità prevista. In particolare, sono presenti 623 detenuti in un carcere progettato per ospitarne 440. Se si considerano i posti effettivamente disponibili (405), la percentuale di affollamento sale addirittura al 154%. Questo affollamento mette sotto pressione il sistema carcerario e influisce negativamente sulla qualità della vita dei detenuti. Un altro aspetto critico è la carenza di personale educativo e della Polizia penitenziaria. La pianta organica prevede 343 unità di personale, ma attualmente sono presenti solo 256, mentre gli effettivi in carcere sono 216, che rappresentano circa i due terzi di quelli previsti dalla pianta organica. La visita del garante regionale Stefano Anastasìa ha quindi messo in evidenza una serie di sfide e iniziative volte a migliorare il sistema sanitario nelle carceri e nei reparti psichiatrici della Regione Lazio. Il suo impegno nel promuovere la consapevolezza dei detenuti, l’approvazione di misure preventive e il riconoscimento delle difficoltà che affliggono il sistema penitenziario costituiscono passi significativi verso una migliore salute e benessere nelle istituzioni detentive. Tuttavia, se non si intraprende una riforma radicale del sistema, i problemi permangono nonostante l’impegno locale. Reggio Calabria. Rita Bernardini: “Istituti penitenziari in sofferenza, tra lavoro carente e criticità sanitarie” di Anna Foti ilreggino.it, 28 settembre 2023 La presidente di Nessuno Tocchi Caino fa tappa anche nella città dello Stretto nell’ambito del viaggio della speranza nei luoghi di pena avviato anche nella nostra regione in collaborazione con le Camere penali. “Percorsi trattamentali carenti e poco lavoro. C’è poi il dato del sovraffollamento e della carenza di personale ma soprattutto registriamo il serio problema sanitario. I detenuti denunciano difficoltà nell’essere seguiti nelle loro patologie”. È un quadro segnato da numerose e serie criticità quello tracciato di Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. Nei luoghi della pena - La lega internazionale impegnata nell’abolizione universale della pena di morte e nella promozione di una detenzione volta all’effettiva rieducazione, sta facendo tappa anche in Calabria. La delegazione ha già incontrato la popolazione detenuta a Castrovillari, Rossano, Catanzaro. In questi giorni, in collaborazione con la Camera Penale reggina, sta proseguendo il suo Viaggio della speranza nei luoghi di pena anche in riva allo Stretto. A seguito delle visite a Locri, Laureana e Palmi, in questi giorni le tappe presso gli istituti Giuseppe Panzera e Arghillà di Reggio Calabria. Il salone dei lampadari Italo Falcomatà di palazzo San Giorgio ha fatto da cornice alla conferenza dal titolo “Carcere e misure alternative: reinserire conviene”, moderata da Pasquale Foti, presidente della Camera Penale di Reggio Calabria. La conferenza è stata promossa anche con la partecipazione dell’ordine degli avvocati, del movimento forense e dell’ufficio del Garante delle Persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria. I saluti sono stati affidati a Rosario Maria Infantino, presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati di Reggio Calabria, e a Daniela Tortorella, presidente del tribunale di Sorveglianza reggino. Con Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, sono intervenuti, tra gli altri, Luca Muglia, garante dei detenuti regione Calabria, e Giovanna Russo, garante dei detenuti del comune di Reggio Calabra. Il nodo della sanità penitenziaria - “Il titolo “Carcere e misure alternative: reinserire conviene” scelto per questa conferenza si propone di focalizzare l’attenzione sulla centralità dei percorsi rieducativi. Essi costituiscono il viatico per garantire che la pena risponda ai dettami costituzionali. La riflessione - ha spiegato Pasquale Foti, presidente della camera penale Gaetano Sardiello di Reggio Calabria - si inquadra nell’ambito della visita svolta da Rita Bernardini e della delegazione di Nessuno Tocchi Caino. In questi giorni hanno avuto modo di incontrare e ascoltare la popolazione detenuta di Reggio e di Arghillà. C’è un sovraffollamento, con 200 detenuti Reggio e 350 ad Arghillà. Il nodo principale, tuttavia, è rappresentato dalle carenze sanitarie, in termini di strutture, di risorse e di disponibilità orarie. C’è poi la questione strutturale del carcere Panzera, costruito nel 1930, dunque senza la previsione di spazi per le attività trattamentali e rieducative. Un esempio su tutti è quello della biblioteca, allestita in un corridoio, senza una postazione adeguata alla lettura”. Lo ha evidenziato Pasquale Foti, presidente della Camera Penale di Reggio Calabria. Troppe ore in cella e poche attività rieducative - Le carenze dal punto di vista trattamentale, con le ricadute dirette sulla dimensione effettivamente rieducativa della detenzione, sono state rilevate anche da Rita Bernardini. “Nel carcere Panzera, nonostante il buon rapporto tra detenuti e personale carcerario, abbiamo registrato una condizione di isolamento rappresentata da giornate trascorse in celle con pochissime attività. C’è anche l’aggravante di essere anche lontani dalla famiglia. Si tratta di detenuti di alta sicurezza, la maggior parte dei quali, almeno tra quelli da noi incontrati, proviene da Campania, Puglia, Sicilia. Dunque le visite dei familiari non sono frequenti. Nella sezione femminile, anch’essa sovraffollata, mi sembra che solo 7 donne su 38 lavorino, riuscendo non solo a guardare oltre la condizione carceraria, che è quello che deve avvenire, ma anche ad aiutare la famiglia fuori. Almeno per loro esiste questa possibilità. L’offerta scolastica rispecchia queste carenze, con detenuti fermi al biennio e che non sono posti nelle condizioni di conseguire il diploma. Stesso dicasi nel carcere di Arghillà, per raggiungere il quale abbiamo dovuto attraversare un quartiere che è un enorme discarica a cielo aperto”, ha evidenziato ancora Rita Bernardini. L’eccellenza di Laureana di Borrello - “Le opportunità di lavoro dovrebbero essere potenziate come quelle rieducative. Solo un carcere da 10 e lode: quello di Laureana di Borrello con una cinquantina di detenuti che lavorano tutti e dunque tutti immersi in una prospettiva di futuro e di riscatto”, ha proseguito la presidente di Nessuno Tocchi Caino che si è poi soffermata su un altro aspetto essenziale. “Come nel resto del paese esistono anche difficoltà nell’accesso alle misure alternative al carcere. Sono dovute anche alle carenze di personale nella magistratura di sorveglianza. In Italia a fronte di una popolazione carceraria di 58600 persone, vi sono soltanto 240 magistrati di sorveglianza. Ennesima mancanza che certamente non favorisce l’attuazione di quel percorso rieducativo che per altro dovrebbe essere individualizzato”, ha sottolineato ancora Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino. Problemi strutturali tra vetustà e inadeguatezza Le carenze emerse su Reggio in parte discendono anche, dunque, dalla vetustà dell’istituto Giuseppe Panzera. Fu costruito negli anni Trenta, secondo una concezione non polarizzata, come poi con l’avvento della Costituzione lo sarebbe stata, sulla funzione rieducativa della pena. “Queste visite nelle carceri calabresi di Nessuno Tocchi Caino - ha sottolineato il garante regionale dei diritti delle persone detenute, Luca Muglia - sono dal punto di vista del mio Ufficio importanti. La carenza di organici di polizia penitenziaria è una costante anche in Calabria. Poi ci sono le particolarità che nel reggino sono strutturali e quindi anche sanitarie e trattamentali con la carenza di spazi per la socialità. La funzione rieducativa richiede, infatti, spazi adeguati che di fatto nel carcere Panzera non sono presenti per la vetustà della costruzione e che nel carcere di Arghillà mancano, nonostante la costruzione sia più recente. Ad Arghillà, per esempio, è difficile applicare la circolare del dipartimento di Applicazione della pena che dispone il regime differenziato a seconda della provenienza dei detenuti di media sicurezza. Nel carcere Panzera, si sta pensando di mutare la destinazione dei locali risultati inidonei al reparto di osservazione psichiatrica, che verrà trasferito altrove, ad attività ricreative. Ma si tratta sempre di misure non risolutive. Gli spazi dovrebbero essere di più e adeguati. La questione si pone anche per le attività scolastiche e anche per il polo universitario di recente attivazione”. Lo ha evidenziato il garante regionale dei diritti delle persone detenute, Luca Muglia. Pochi spazi per la socialità - Sulla carenza di spazi si sofferma anche la garante comunale dei diritti delle persone detenute, Giovanna Russo. “Un solo campo da calcio per ogni sezione, le palestre allocate nell’area passeggio, riferendoci solo dello sport che può essere deflattivo di umori e tensioni oltre che aggregativo e rieducativo. Si deve fare di più sul fronte trattamentale e lavorativo. Ci sono poi il sovraffollamento, l’inadeguatezza del numero degli agenti di polizia penitenziaria e la necessità di trovare soluzione per il reparto di osservazione psichiatrica ancora chiuso. Ne ho dato conto in occasione della presentazione della relazione annuale lo scorso luglio. Sul fronte sanitario, presso l’istituto Giuseppe Panzera sono stati segnalati ritardi nelle visite e criticità nell’ambito specialistico. Valuteremo la situazione anche alla luce di alcune problematiche strutturali per affrontare le quali già si sta lavorando con la direttrice generale dell’asp reggina, Lucia Di Furia. Negli ultimi due mesi sembrano essere emerse delle criticità sanitarie anche ad Arghillà dove si erano raggiunti dei risultati importanti. Siamo impegnati a capire cosa sia accaduto. Durante l’estate, inoltre, la copertura h24 è stata sospesa per carenza dei medici. Intervenire nel delicato settore sanitario nelle carceri comporta un’azione e un’attenzione costanti e pronte a doversi misurare con molteplici difficoltà”. Così ha concluso la garante dei diritti delle persone detenute del comune di Reggio Calabria, Giovanna Russo. Viterbo. Detenuto pestato, dieci agenti della Polizia penitenziaria a processo: “Gli hanno fatto perdere l’udito” viterbotoday.it, 28 settembre 2023 Dieci agenti della polizia penitenziaria a processo con l’accusa di aver pestato di botte un detenuto nel carcere di Mammagialla. Ieri pomeriggio la prima udienza, quella di ammissioni prove, davanti al tribunale di Viterbo per lesioni personali aggravate e, per tre di loro, anche per calunnia e falso. La vittima è Giuseppe De Felice, 35enne romano, che il 5 dicembre 2018, da poco trasferito da Rebibbia, sarebbe stato picchiato fino a perdere l’udito dall’orecchio destro. Secondo l’accusa i dieci imputati, “abusando della qualità di agente del corpo di polizia penitenziaria, approfittando di circostanze tali da ostacolare la privata difesa, quali lo stato di detenzione della vittima e l’assenza di videocamere nei luoghi in cui si sono svolti i fatti, hanno percosso De Felice cagionando lesioni personali e segnatamente, tra l’altro, edema al condotto uditivo destro, trauma costale e contusione toracica destra”. La vicenda è emersa dopo le segnalazioni di Rita Bernardini, esponente del Partito radicale a cui si era rivolta la moglie di De Felice. La coniuge era rimasta scioccata dalle condizioni in cui avrebbe trovato il marito durante un colloquio. Secondo l’accusa i dieci agenti della penitenziaria ora a processo, dopo un’irruenta perquisizione della cella, avrebbero portato il detenuto sulle scale di Mammagialla, dove non ci sono telecamere, e lo avrebbero riempito di botte. Viterbo. “Non si può leggere l’Unità in cella”, no alla richiesta di un detenuto L’Unità, 28 settembre 2023 “Trattasi di quotidiano non contemplato dal modello 72 della lettera circolare (...). Quanto sopra per le opportune valutazioni e determinazioni”. La richiesta è stata respinta. Nel carcere di Viterbo un detenuto chiede compilando l’apposito modulo: “Abbonamento del giornale l’Unità per tre mesi. Grazie”. Nella scheda di risposta della direzione del carcere compare una nota nella casella Informazioni: “Trattasi di quotidiano non contemplato dal modello 72 della lettera circolare (…). Quanto sopra per le opportune valutazioni e determinazioni”. La richiesta è stata respinta. Nella stessa prigione un detenuto in regime 41 bis aveva due anni fa chiesto di poter leggere scritto da Marta Cartabia, ex presidente della Corte costituzionale. La richiesta, formulata pochi giorni prima che la Cartabia diventasse ministro della Giustizia, fu respinta. Motivazione: “Il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio”. Il detenuto a cui è stato negato di leggere l’Unità in cella si chiama Giuseppe Mallardo, sta scontando la pena dell’ergastolo condannato come mandante di un duplice omicidio avvenuto a Casal di Principe nel 1994. Dice il suo avvocato: “La condanna è stata inflitta nel 2010 a seguito della collaborazione postuma di due collaboratori. Sulla questione del diniego opposto alla richiesta di abbonamento a L’Unità interesseremo il magistrato di sorveglianza e solleciteremo una interrogazione parlamentare al Ministro Nordio”. Turi (Ba). “Sindaco e direttrice del carcere denuncino le irregolarità” L’Unità, 28 settembre 2023 L’avvocato civilista Luigi Paccione viene dalla vittoria recente di una causa in Cassazione contro il ministero dell’interno da lui denunciato per aver offeso i cittadini di Bari attraverso il maltrattamento di persone nel Centro di permanenza temporanea di Bari. Nella sala consiliare del Comune di Turi, la sindaca Tina Resta, appena terminata la visita ai detenuti nel carcere della sua città, dice a un’assemblea pubblica organizzata da “Nessuno tocchi Caino” insieme alla visita alla prigione: “Noi non siamo distratti verso la struttura”. Annuisce quando Rita Bernardini mette in fila: “i bagni senza bidet e senza soffitto, le bocche di lupo (impediscono l’ingresso della luce e dell’aria) il magistrato di sorveglianza (che deve andare a vedere e vigilare sulla legalità della detenzione e non va mai), l’area verde inaccessibile perché mancano “arredi” (che poi sarebbero due sedie e un tavolino) la palestra chiusa, il nessun corso professionale né lavoro edificante, il regolamento dei detenuti che i detenuti sono tenuti a rispettare ma non possono leggere non accessibile per loro da nessuna parte”. Valeria Piré, direttrice del carcere di Bari dice che il carcere da lei diretto “è completamente al di fuori delle regole da tutti i punti di vista. Non soltanto va chiuso, dovrebbe essere già stato chiuso da tempo. Non rispetta nessun parametro, Completamente non conforme alla legge. Questa barbarie, da gestire tutti i giorni, non rispetta nemmeno la dignità dei lavoratori non solo quella dei detenuti”. Si alza l’avvocato civilista Luigi Paccione: “Ma perché non denunciate?”. Viene dalla vittoria recente di una causa in Cassazione contro il ministero dell’interno da lui denunciato per aver offeso i cittadini di Bari attraverso il maltrattamento di persone nel Centro di permanenza temporanea di Bari. “La sindaca di Turi ha appena visto nel carcere di Turi erogare da parte dello stato un trattamento illegale ai detenuti? Il Comune di Turi può agire in giudizio davanti a un tribunale. per far verificare se siano o meno rispettati i diritti umani lì dentro. Invito espressamente il sindaco di Turi, se ha rilevato condizioni di illegalità, a denunciare il ministero della Giustizia, nella persona del ministro Nordio. Il Comune di Turi agisca in giudizio perché nel suo territorio lo Stato non violi i diritti inviolabili”. Stesso invito alla direttrice del carcere di Bari, Valeria Piré: “Se la struttura da lei diretta ha delle conclamate illegalità, agisca lei con atti formali per denunciare questa situazione. Esistono delle norme, usiamole. Perché non denunciate?”. Torino. Garanti riuniti per l’evento sul ruolo delle Regioni nell’esecuzione penale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 settembre 2023 Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, Bruno Mellano, sta promuovendo un evento di rilievo nazionale in collaborazione con la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali e con il sostegno del Consiglio regionale del Piemonte. Questo appuntamento, che si terrà a Torino il 2 ottobre 2023, presso la Sala Musica del Circolo dei Lettori, presso Palazzo Graneri della Roccia, via Bogino 9, affronterà un tema cruciale: “Carcere: il ruolo delle Regioni”. Questa conferenza si svolgerà in coincidenza con il Secondo Festival delle Regioni, organizzato dalla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, un evento che radunerà figure chiave dell’istituzione in Italia. L’obiettivo principale di questa conferenza è mettere in luce il ruolo significativo che le Regioni svolgono nell’ambito dell’esecuzione penale, un aspetto spesso misconosciuto e poco discusso. La conferenza “Carcere: il ruolo delle Regioni” è un evento di grande rilevanza. La scelta di Torino come sede è particolarmente significativa poiché questa città rappresenta il cuore della Regione Piemonte ed è stata selezionata per la sua prestigiosa Sala Musica del Circolo dei Lettori, situata in Palazzo Graneri della Roccia, via Bogino 9, nel centro città. Questo evento è concepito in concomitanza con il Secondo Festival delle Regioni, che avrà luogo tra il 30 settembre e il 3 ottobre. Durante il Festival delle Regioni, si riuniranno tutti i presidenti di Regione, gran parte dei ministri del governo, la presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica. Il pomeriggio del 2 ottobre sarà dedicato a cinque sessioni di lavoro in tavoli tematici. L’obiettivo principale della conferenza è quello di mettere in evidenza il ruolo cruciale svolto dalle Regioni nel contesto dell’esecuzione penale. Questo ruolo, spesso trascurato, è definito dai compiti che il quadro normativo assegna alle Regioni, che vanno dalla gestione della salute, alla formazione professionale, dal lavoro alle politiche sociali, dall’istruzione all’università. La conferenza intende richiamare l’attenzione dei rappresentanti istituzionali e dell’opinione pubblica su questi compiti esclusivi delle Regioni e sulla loro importanza nella gestione del carcere contemporaneo. La conferenza prevede la partecipazione di figure autorevoli, tra cui il Garante Regione Lazio e Portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, Stefano Anastasìa, la Vice Rettrice dell’Università di Torino, Laura Scomparin, Emilia Rossi, componente del Collegio del Garante nazionale, e Rita Monica Russo, Provveditore Amministrazione Penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. Messina. “C’è una vera emergenza carceri”, operatori della giustizia e avvocati a confronto di Rita Serra Gazzetta del Sud, 28 settembre 2023 Il rischio di ritornare in cella per chi ha scontato la pena in carcere sarebbe dell’ottanta per cento. Un dato allarmante che stride con il sovraffollamento delle carceri italiane, pari al 119 per cento, facendo convergere sulla necessità di potenziare il ricorso alle pene alternative (detenzione domiciliare, braccialetto elettronico, servizi sociali), se la tipologia del reato lo permette. Il tema è stato al centro della conferenza “In carcere: la condizione dei detenuti tra sofferenza e oblio”, tenutasi nell’aula magna della Corte d’Appello del Tribunale di Messina, promossa dall’Ordine degli avvocati, con la partecipazione dell’ex deputata al Parlamento ed ex segretaria del Partito Radicale, Rita Bernardini, oggi presidente della Ong “Nessuno tocchi Caino” contro la tortura. Un focus per esplorare il pianeta carcere, al quale hanno preso parte addetti ai lavori ma anche gli studenti di tre Istituti superiori della città, Jaci, Maurolico e Bisazza e numerosi avvocati praticanti. “L’espiazione della pena - ha affermato Paolo Vermiglio, presidente dell’Ordine degli avvocati - non può prescindere dalla dignità della persona e dal rispetto dei diritti umani fondamentali. L’avvocatura è garante di diritti e il soggetto condannato è soggetto di diritti con alle spalle una storia di vita che va rispettata senza atteggiamenti di semplificazione e supponenza”. Rendere più umano il carcere è un dovere Costituzionale e il contrario ne rappresenta una violazione, espressa anche con frasi del gergo comune “Buttate via la chiave”, “Deve marcire in galera”. Un punto fermo per Rita Bernardini, personalità nota per il suo continuo peregrinare nelle carceri italiane al fine di constatare le condizioni di vita dei detenuti, come ha ricordato Nuccio Anselmo, giornalista della Gazzetta del Sud, che ha moderato i lavori. “Nel nostro Paese - ha detto l’ex deputata - ci sono 58 mila 600 detenuti su 48 mila luoghi di pena. Si registra un surplus di diecimila presenze in più, di contro agli organici carenti della polizia penitenziaria. Una guardia giurata ogni 1,8 detenuti, insufficienza di risorse e strutture, che si traduce nel degrado e quindi nella violazione dei diritti umani fondamentali. Prima di venire qui, con i due dirigenti Sergio D’Elia e Elisabetta Zampuritti di “Nessuno tocchi Caino”, siamo andati a visitare la Casa circondariale di Arghillà, uno dei due istituti di pena di Reggio Calabria. Per arrivarci abbiamo attraversato una discarica di rifiuti che già ci faceva immaginare cosa avremmo trovato. Del Carcere di Messina, visitato più di dieci anni fa ricordo invece lo squallore dell’area che era definita la sosta. Un nome che mi ha fatto pensare a uno spazio verde magari con alberi invece di un enorme stanzone con letti a castello fino a sei, sette piani dove venivano temporaneamente portati i detenuti. Uno su due ha una pena da scontare inferiore ai due anni e non dovrebbero andare in cella, perché il carcere non è l’unico luogo per l’espiazione della pena. L’anno scorso abbiamo avuto 84 suicidi, un numero. record, quest’anno siamo già a 53. Gesti estremi avvenuti nelle sezioni di isolamento e nei primi giorni di prigionia. Altro dato che ci invita a riflettere sulle condizioni di degrado dei penitenziari che dobbiamo rimuovere, facendo rete attorno al detenuto e al rispetto dei suoi diritti di essere umano”. Il lavoro complesso fatto di tante criticità ma pure di progressi, di chi tra sfide e difficoltà ogni giorno deve far funzionare la macchina che ruota intorno al detenuto, è stato ampiamente discusso da Francesca Arrigo, da due anni presidente del Tribunale di sorveglianza di Messina: “La condizione della detenzione è certamente migliorata negli ultimi dieci anni, ma non i problemi di risorse e strutture che rimangono pochi. Il carcere è un mondo dalla gestione non facile. La realtà del nostro distretto è alquanto complessa, ci sono le Case circondariali di Messina e Barcellona Pozzo di Gotto e poi ci sono le Rems che andrebbero potenziate. Non tutti i detenuti, infatti, transitano direttamente dal carcere. Prima di decidere la modalità di espiazione delle pene, devi conoscere attraverso i colloqui degli specialisti, assistente sociale, educatore, psicologo, medico. C’è un principio imprescindibile, però, l’esecuzione delle pene deve avvenire sempre nel rispetto del diritto alla rieducazione del condannato che deve acquisire consapevolezza del reato che ha commesso”. Angela Sciavicco, dirigente dal 2019 della Casa di Gazzi afferma: “Non esiste solo il carcere che non è detto debba esistere per sempre. Ci sono le pene alternative che costano. Ma anche la detenzione ha un costo. Il distretto di Messina è uno dei più complessi del Sud per la notevole varietà di detenuti che vi confluiscono anche per la diversità delle pene da scontare. In questo momento il carcere di Gazzi ospita duecento detenuti circa, prima erano in quattrocento. Non tutti i detenuti transitano dal carcere. La situazione è migliorata come sono nettamente migliorate le condizioni di chi sta in prigione. Non ci sono più gli stanzoni con i bagni e la cucina divisi solo da un muretto, le docce in comune, l’acqua fredda. Lavoriamo per rendere il carcere più umano nel rispetto dei diritti primari della persona. Ricordiamoci - ha concluso - che lo stato di salute del carcere è una questione che riguarda tutti, perché non è così lontano da nessuno di noi. Chiunque per motivi o situazioni imprevedibili potrebbe averne a che fare”. L’avvocato Nunzio Rosso del Foro di Messina: “Discutiamo da decenni della necessità di costruire nuovi carceri, ammodernare quelli esistenti, potenziare le Rems, mentre prosegue l’emergenza. Capita dunque che un detenuto incensurato rimanga venti giorni nell’impossibilità di mangiare, perché ha un problema con la protesi ai denti e poi si prende anche la tubercolosi. Di cosa continuiamo a parlare quindi?”. Sulla mancanza di una volontà politica a risolvere la questione è intervenuta anche l’avvocata Letizia Valentina Lo Giudice: “Per svuotare i penitenziari basterebbe semplicemente fare ordine, distinguendo su ciò che è oppure non è una pena. Ribellatevi sempre contro le gravi violazioni dei diritti fondamentali e lottate le ingiustizie”, ha detto ai numerosi studenti presenti in sala. Castrovillari (Cs). Forni e legalità, Gratteri insieme ai detenuti per la “Festa del pane di Altomonte” di Rita Rizzuti ecodellojonio.it, 28 settembre 2023 Il neo Procuratore Capo di Napoli Nicola Gratteri ed il Vescovo della Diocesi di Cassano Jonio Monsignor Francesco Savino faranno il pane insieme ai detenuti della casa circondariale di Castrovillari. “Sarà questo - si legge nella nota - uno dei momenti principali della Gran festa del pane in programma nella Città d’Arte di Altomonte da venerdì 29 a domenica 1 ottobre. “Dignità del lavoro, formazione, recupero, riscatto, reinserimento nella società e progettazione - sottolinea il Sindaco Gianpietro Coppola - rappresentano gli ingredienti di questa iniziativa che vede l’impasto come una metafora”“. “L’edizione 2023 della Gran Festa del Pane sarà inaugurata alle ore 10 di venerdì 29 alla presenza di sindaci, autorità e scuole. Dal taglio del nastro in poi, al quale presenzierà anche l’agrichef Enzo Barbieri e per tutti i tre giorni sarà possibile visitare gli stand ed i forni accesi per la degustazione dei prodotti panari; la mostra nel Chiostro dei Domenicani dal titolo I bambini colorano e raccontano il pane; visitare i forni accesi e acquistare Paniscanatu, Pupi di Pane Siciliano ed Pane tipico di Altomonte; assistere alle esibizioni itineranti dei Giganti I Sabatino e partecipare ai banchi di assaggio di pane e visitare la mostra mercato dei prodotti agroalimentari tipici altomontesi. Il nostro Pane quotidiano, un viaggio nelle tradizioni alimentari tra gusto e benessere. È, questo, il tema dell’incontro a cura del presidente dell’Associazione Italiana nutrizionisti in cucina (Ainic) Domenico Antonio Galatà che alle ore 11,30 vedrà la partecipazione di Walter Cricrì, Agronomo e Direttore dell’Istituto Nazionale Assaggiatori di Pane (Inap) e delle nutrizioniste Rossella Castelli e Maria Teresa Sparano. In cucina senza glutine. Se ne parlerà alle ore 13,30 nell’ambito della performance culinaria dello Chef Andrea Palmieri. Pane nostrano e pesce azzurro è la proposta per il buffet lunch a cura degli studenti dell’Istituto d’Istruzione Superiore IIS E. Majorana di Corigliano-Rossano. “I Pani della legalità: liberi di scegliere. È, questo, il titolo dell’evento con la simbolica produzione del Pane realizzata, alle ore 11, in un forno del centro storico a cura di un gruppo di ristretti della Casa Circondariale di Castrovillari in collaborazione con gli allievi dell’Istituto Superiore Filangieri di Trebisacce e che si terrà alla presenza di Gratteri e Monsignor Savino. Questi ultimi due, coordinati dal comunicatore strategico Lenin Montesanto, saranno protagonisti insieme a Don Francesco Faillace (Responsabile Cappellani Case circondariali della Calabria) dell’incontro sul tema Pani e legalità che sarà ospitato alle ore 12 nel Salone Razetti del Convento Domenicano. Il Buffet nel Chiostro delle ore 13 sarà a cura dell’IIS Mancini - Tommasi di Cosenza - Istituto Alberghiero in collaborazione con il FLAG - I Borghi Marinari dello Ionio. Alle ore 20 si terrà il Symposio Il miracolo dei sapori - Pani e Pesci, Cena di degustazione, abbinamento e recupero delle tradizioni, su invito, nel Chiostro dei Domenicani, a cura degli Chef Andrea Palmieri, Enzo Barbieri, Ercole Villirillo, Pierluigi Vacca. Sarà presentato alle ore 11,30 il progetto Le rotte del Pane, a cura di Koor Società Benefit, da sviluppare in coordinamento con la Marina Militare nell’ambito della campagna “tour mondiale” di Nave Vespucci. Alle ore 16 si terrà il convegno/dibattito - Il Gal incontra la comunità locale con gli interventi di Rosaria A. Capparelli, Presidente Gal Valle Crati; del Primo Cittadino Coppola, di Silvia Sivini, docente Unical, di Pierfranco Costa, responsabile Gal Valle Crati. Seguirà la proiezione del filmato Pane e Tradizioni a cura dei giovani del Servizio Civile di Altomonte, nell’ambito del Progetto Scambio Intergenerazionale. Alle ore 19,30, invece, il Monumento a Tommaso Campanella si illuminerà di rosa, in segno di adesione alla campagna Mese della Prevenzione dell’Airc. La Festa del Pane si chiuderà alle ore 21 con il concerto dei Taranta Nova in Piazza San Francesco”. La Consulta in classe: perché la Carta Costituzionale va studiata a scuola di Francesco Grignetti La Stampa, 28 settembre 2023 Il viaggio della Corte Costituzionale negli istituti riparte da Roma con dialoghi tra giudici e alunni. La presidente Silvana Sciarra: “La Carta va studiata nelle aule è un essenziale strumento didattico”. La Corte costituzionale riparte per il suo Viaggio in Italia dopo la pausa obbligata per Covid, che la porterà a parlare di Costituzione e di diritti costituzionali nelle scuole. Prima tappa, l’istituto tecnico “Galileo Galilei”, da oltre un secolo un’eccellenza nel panorama dell’istruzione a Roma. In questo imponente istituto che sorge all’Esquilino, e che può vantare Guglielmo Marconi tra i suoi padri e l’architetto Marcello Piacentini come progettista, simbolo di tutte le scuole secondarie dove si insegnano materie tecnico-scientifiche (al “Galilei” si formano tecnici industriali per elettronica, meccanica, informatica, robotica), arriva dunque una folta rappresentanza di giudici costituzionali con la presidente Silvana Sciarra e il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara. Ed è evidente che si pone un problema: come appassionare dei ragazzi tra i 17 e i 18 anni a questi temi? La presidente Sciarra supera brillantemente il problema. L’ambiente è uno dei temi che appassiona sempre i giovani. Le preme poi parlare di parità tra uomo e donna. E della dignità del lavoro. Scommessa vinta, a giudicare dal silenzio attento dell’aula magna gremita di studenti. “Non è più tollerabile - scandisce la presidente - la disparità salariale a parità di lavoro”. Lo dice, Silvana Sciarra, ricordando nell’aula magna la carta costituzionale, all’articolo 37, laddove è scritto che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Uguali principi sono anche nel Trattato di Roma del 1957, che è il primo passo istitutivo dell’Unione europea. Epperò, dice Sciarra, “questo obiettivo non è pienamente raggiunto”. La presidente Sciarra in origine è una giuslavorista. Studia da sempre il diritto del lavoro, che è stato il suo pane quotidiano. Lo rivendica con commozione. Ma le trema la voce quando deve riconoscere che la “uguaglianza tra uomo e donna”, sancita da principi e trattati, dopo tanti anni è ancora teoria e non pratica. “Sembra quasi paradossale”, aggiunge. C’è una proposta di direttiva europea, in merito, che vorrebbe imporre ai datori di lavoro “un dovere di trasparenza circa le politiche salariali”. L’idea è di pubblicare tutti gli stipendi, in modo che ognuno possa controllare lo stipendio del vicino o della vicina. E così salterebbe agli occhi se ci sono, e di quale entità, una disparità salariale di genere. A Sciarra, la direttiva in questione non dispiacerebbe affatto. “Questa trasparenza aiuterebbe a prevenire le disparità”. La scuola avrebbe un ruolo storico, dice Sciarra, e il ministro Valditara annuisce vigorosamente, nell’insegnare alle giovani studentesse “a non tirarsi indietro, rafforzando le occasioni per esplorare terreni lavorativi che solo cattive consuetudini inducono a ritenere preclusi alle donne”. In questo senso la Corte ha fatto la sua parte, tessendo “il filo di una parità sostanziale, che apre alle donne pari opportunità di scelta”. Ora, questi problemi potrebbero sembrare lontani a una platea di studenti che si preparano con impegno a gestire un quadro elettrico, un software, un metaverso, ma magari sentono che il lavoro è ancora distante. E invece i giovani del “Galileo Galilei” la seguono rapiti. Così come era accaduto qualche minuto prima, quando ha raccontato loro dei giovani portoghesi che si sono rivolti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo per vedersi riconosciuto il diritto a un ambiente salubre (“vi invito a seguire il processo sui giornali”), della Corte costituzionale della Bolivia che ha bloccato la deforestazione dell’Amazzonia, o della Corte costituzionale tedesca che ha bocciato una legge sulle emissioni perché troppo generica, o della nostra Corte costituzionale che con una famosa sentenza ha salvaguardato il paesaggio italiano. Già, perché il diritto costituzionale a prima vista può apparire lontano, invece è vicinissimo alla quotidianità dei cittadini. E forse è anche il più facile da comprendere, anche perché la Costituzione è stata scritta meravigliosamente. “Dovrebbe essere letta e riletta nelle scuole. Si presta bene a essere uno strumento didattico”. E anche perché, quando si avvicinano al tema dei diritti, nei giudici vibrano corde interiori che i giovani percepiscono molto bene. “Credo - dice ad esempio la presidente, rispondendo alla domanda di uno studente su quella volta che affrontarono il fine vita - che le nostre coscienze siano state fortemente sollecitate in quella decisione al punto da non farci dormire, da farci riflettere sul senso del nostro lavoro, e forse una risposta positiva l’abbiamo data, forse non del tutto completa ma quella che la Corte poteva dare in quel momento”. Misure più snelle per identificare i migranti minori, ok del Cdm di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 28 settembre 2023 Precisazione di palazzo Chigi dopo la fuga di notizie sull’abrogazione della presunzione di minore età nei casi di dubbio. “Procedura invariata, solo più veloce”, dice il governo. Il decreto legge in materia di immigrazione e protezione internazionale è stato preceduto, prima dell’approvazione in Consiglio dei ministri, da alcune polemiche che hanno costretto palazzo Chigi a fare alcune precisazioni e a smentire alcune notizie nel frattempo diffuse. Nella gestione del fenomeno migratorio viene dedicata una parte ai minori stranieri non accompagnati che raggiungono l’Italia. Si tratta di un tema caro alla Lega. Il partito del vicepremier Matteo Salvini ritiene che gli interventi sui flussi migratori - e un loro ridimensionamento - debbano riguardare pure chi ha un’età inferiore ai diciotto anni. Le modifiche approvate in Cdm, in materia di minori stranieri non accompagnati, intervengono sul decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Si attribuisce, prima di tutto, ai prefetti, in mancanza di posti nelle strutture ricettive temporanee, la possibilità di disporre “la provvisoria accoglienza del minore di età non inferiore a sedici anni” in una sezione apposita dei centri e delle strutture per adulti per non più di tre mesi. Su questo punto è intervenuta la Garante per l’Infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti, qualche ora prima del passaggio in Consiglio dei ministri, quando lo schema del decreto ha iniziato a circolare. Secondo Garlatti, “i minori stranieri che arrivano in Italia devono essere tenuti assolutamente separati dagli adulti, nemmeno temporaneamente devono essere mescolati agli adulti altrimenti c’è una contaminazione che per i minori è dannosa”. Nell’incertezza, quindi, “vanno comunque considerati minori d’età”. La Garante ha aggiunto che far convivere i minorenni con gli adulti espone i primi ad “un rischio molto forte, perché vengono ad acquisire un modus operandi che non va bene”, poiché si tratta di “persone in formazione che devono avere dei centri educativi che siano dedicati esclusivamente a loro”. La questione della presunzione della minore età ha indotto l’ufficio stampa di Palazzo Chigi ad intervenire nella mattinata di ieri, smentendo la notizia riportata dal quotidiano Repubblica in “merito alla quale è stata pubblicata anche un’intervista del Garante per l’infanzia, secondo cui nel nuovo decreto all’attenzione del Consiglio dei ministri verrebbe abrogata la presunzione di minore età nei casi di dubbio”. Tale presunzione, dunque, resta invariata, senza nessuna inversione dell’onere della prova. “Viene soltanto eccezionalmente accelerata in presenza di flussi particolarmente ingenti, la procedura di accertamento, effettuata sotto controllo di garanzia dell’autorità giudiziaria competente”, ha precisato l’ufficio stampa di Palazzo Chigi . Uno snodo significativo, in quanto nel decreto immigrazione è previsto che in determinati casi, più precisamente “arrivi consistenti, multipli e ravvicinati, a seguito di attività di ricerca e soccorso in mare, di rintraccio alla frontiera o nelle zone di transito, di rintraccio sul territorio nazionale a seguito di ingresso avvenuto eludendo i controlli di frontiera”, è possibile effettuare nell’immediatezza specifici rilievi disposti dall’autorità di pubblica sicurezza che si raccorda direttamente con l’autorità giudiziaria. Nello specifico si tratta di “rilievi antropometrici o di altri accertamenti sanitari, anche radiografici, volti all’individuazione dell’età, dandone immediata comunicazione alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, che ne autorizza l’esecuzione in forma scritta”. Sulla tempistica, se si presenta una situazione di urgenza, l’autorizzazione ai rilievi “può essere data oralmente e successivamente confermata per iscritto”. Quali garanzie per lo straniero? È sempre la stessa norma a chiarire che “il verbale delle attività compiute, contenente anche l’esito delle operazioni e l’indicazione del margine di errore, è notificato allo straniero e, contestualmente, all’esercente i poteri tutelari, ove nominato, ed è trasmesso alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie nelle quarantotto ore successive”. È prevista la possibilità di impugnare il verbale “davanti al Tribunale per la persona, la famiglia ed i minorenni entro cinque giorni dalla notifica, ai sensi degli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile” e “quando è proposta istanza di sospensione, il giudice, in composizione monocratica, decide in via d’urgenza entro 5 giorni”. Infine, “ogni procedimento amministrativo e penale conseguente all’identificazione come maggiorenne è sospeso fino alla decisione su tale istanza”. L’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo, già docente di diritto di asilo all’Università di Palermo, è molto scettico sulla procedura prevista dal dl in merito all’autorizzazione relativa ai rilievi per individuare l’età dello straniero giunto in Italia. “La conferma giudiziaria scritta - evidenzia Vassallo Paleologo - può arrivare successivamente, ma non si precisa in che termini. Si ricorda che i casi di verifica dell’età sono affidati alla polizia nei casi di “particolare urgenza”, frutto di una valutazione discrezionale della stessa autorità, e che l’accertamento dell’età maggiore dopo la dichiarazione, ritenuta mendace, di minore età può comportare una espulsione immediata di ragazzi tra i sedici e i diciassette anni, in violazione del divieto di respingimento, stabilito dalle leggi nazionali e dal diritto dell’Unione Europea. Secondo la Direttiva europea “rimpatri” 2008/115/CE, che pure ammette casi singoli di rimpatrio quando sono rintracciate le famiglie di provenienza nei Paesi di origine, sono “persone vulnerabili” i minori, i minori non accompagnati, i disabili, gli anziani, le donne in gravidanza, le famiglie monoparentali con figli minori e le persone che hanno subìto tortura, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale”. Migranti. Minori nei centri con gli adulti, nuova stretta sui richiedenti asilo di Giansandro Merli Il Manifesto, 28 settembre 2023 Il ministro dell’Interno Piantedosi: “In caso di arrivi consistenti per stabilire l’età dei presunti minorenni saranno utilizzati anche esami radiografici”. I Centri d’accoglienza saranno riempiti fino al doppio della capienza, rischiando di creare tensioni. Il Consiglio dei ministri di ieri ha approvato le nuove “disposizioni urgenti” su immigrazione e protezione internazionale. I punti principali restano quelli delle bozze circolate martedì: meno garanzie per richiedenti asilo e minori stranieri non accompagnati, maggiori fondi alle forze di sicurezza. Salta il punto sul potenziamento tecnico-logistico del sistema di prima accoglienza con l’utilizzo di personale della guardia costiera. Sull’espulsione dei titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo sarà competente il Viminale nei casi di “gravi motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato” e il prefetto per “gravi motivi di pubblica sicurezza”. Le decisioni saranno appellabili, rispettivamente, a Tar e giudice ordinario. È potenziato, anche grazie a nuovi fondi e personale, il controllo sulle domande di visto di ingresso in Italia. Stretta su chi manifesta la volontà di chiedere asilo ma non formalizza la domanda o salta alcuni dei passaggi previsti. Per chi “si allontana ingiustificatamente da centri d’accoglienza o Cpr”, dice Piantedosi in conferenza stampa, la sospensione dell’iter è ridotta da 12 a 9 mesi. Sulle domande reiterate in fase di espulsione ci saranno “procedure più semplificate, senza derogare il diritto previsto, attraverso l’attivazione in via speditiva del presidente della commissione territoriale da parte del questore”, ha spiegato Piantedosi. Il governo fa dunque un passo indietro rispetto alle bozze del provvedimento che attribuivano questo potere direttamente al questore. In caso contrario la norma - che si applica nei casi dei richiedenti asilo che hanno ricevuto un diniego, poi un decreto di espulsione e dopo avanzano una nuova richiesta la cui legittimità risiede nella presenza di eventuali nuovi elementi - avrebbe violato l’articolo 4 della direttiva “procedure”, la 2013/32/Ue, che assegna la responsabilità dell’esame delle domande alle autorità designate a livello nazionale. In Italia sono appunto le commissioni territoriali e non il questore. In tema di accoglienza resta la possibilità di “derogare ai parametri di capienza previsti per centri e strutture” fino al doppio dei posti. In pratica, invece di costruire nuovi luoghi in cui ospitare degnamente chi sbarca, si dà la possibilità di stipare sempre più persone all’interno di quelli esistenti: inevitabilmente si andranno a creare situazioni di tensione dentro e intorno ai centri e si ridurranno i servizi offerti, spesso carenti anche in condizioni normali. Sono estese le tutele previste per le persone vulnerabili a tutte le donne e non solo a quelle in stato di gravidanza, garantendo l’accesso al sistema di accoglienza ordinaria Sai. 400 militari si aggiungono all’operazione strade sicure, per compensare il personale che sarà dispiegato nei centri di trattenimento. Avranno una “funzione dinamica nel controllo delle stazioni”. Da qui al 2024 polizia e pompieri riceveranno 25 milioni in più. Capitolo a parte quello dei minori stranieri non accompagnati. Diventa possibile mutare in espulsione la condanna per falsa attestazione di chi bluffa sulla data di nascita e sono previsti maggiori controlli nella conversione del permesso di soggiorno in quello per lavoro al compimento dei 18 anni. Restano anche le due misure trapelate dalle bozze che avevano sollevato maggiori critiche. La possibilità di accogliere, in mancanza di posti dedicati, i minori con più di 16 anni in strutture per adulti per un periodo fino a tre mesi. Un deciso passo indietro nella protezione dei ragazzi che arrivano in Italia dopo un viaggio lungo e difficile, senza genitori. Il 31 agosto scorso la Corte europea dei diritti umani (Cedu) aveva condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti ai danni di una 17enne ghanese rimasta per otto mesi in un centro d’accoglienza per adulti del comasco. Tra le ragioni anche la promiscuità con i maggiorenni. “La collocazione di tutti i minori in strutture a loro riservate è un principio che non si può derogare. L’ho ribadito una settimana fa, a prescindere dalle vicende d’attualità”, dice al manifesto Carla Garlatti, garante per l’infanzia e l’adolescenza. Il secondo punto contestato è la possibilità di non rispettare il protocollo multidisciplinare per l’accertamento dell’età recepito nel 2017 dalla legge Zampa. In caso di “arrivi consistenti, multipli e ravvicinati” - circostanza per nulla rara - sarà possibile realizzare altri tipi di esami, anche radiografici. Questo nonostante ci sia consenso scientifico sul fatto che l’RX del polso non sia idoneo, da solo, a fornire risultati certi. Anche su questo l’Italia è stata recentemente condannata dalla Cedu, nel luglio 2022, per il caso di un ragazzo mandato nel centro di accoglienza di Cona (Venezia) in base all’esame radiografico che lo aveva erroneamente ritenuto maggiorenne. “Il Governo ha varato ben nove decreti sull’immigrazione spostando ulteriormente il tema in ambito repressivo e poliziesco - commenta l’avvocata Nazzarena Zorzella, dell’Asgi - Questo non solo rispetto ai migranti ma anche ai richiedenti asilo, le cui garanzie sono state ridotte in vari ambiti. Un potente strumento propagandistico che vorrebbe suggerire come queste persone siano di per sé pericolose”. Migranti. Come se principi e diritti non fossero mai stati scritti di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 28 settembre 2023 È contro la storia pensare di contrastare il diritto all’esodo. Le moltitudini non possono essere fermate, fossero anche solo sospinte dall’illusione di raggiungere una presunta terra promessa. Dice bene la presidente del Consiglio: l’attuale governo sta provando a mutare “il paradigma” in materia di migrazioni. Proponendosi di abbandonare quello costituzionale, che si fonda sul principio di dignità delle persone, per adottare quello securitario, che si preoccupa di difendere i confini da invasioni di persone senza volto che attentano all’identità del paese. Non v’è dubbio che tutte le misure dell’attuale maggioranza di destra vanno in una medesima, coerente direzione. Impedire le partenze, trattenere chi riesce comunque ad arrivare. Peccato che sia una strategia votata al fallimento. È contro la storia, infatti, pensare di contrastare il diritto all’esodo. Le moltitudini non possono essere fermate, fossero anche solo sospinte dall’illusione di raggiungere una presunta terra promessa. Straordinaria la testimonianza del film di Garrone per comprendere come non è neppure la carestia o la guerra a muovere i popoli, ma è la volontà di riscatto della propria condizione che porta i migranti a confrontarsi con gli orrori del modo. Una volta in marcia non sarà il deserto a fermare i migranti, figuriamoci se possono farsi impressionare da qualche mese in più in strutture dal nome esoterico come i “Centri di Permanenza e Rimpatrio”. D’altronde il paradigma securitario era già stato sperimentato in Italia con la strategia della “chiusura dei porti”. Una prova di forza che ha portato solo a violare pressoché tutte le norme di diritto internazionale e quelle costituzionali. Per fortuna lo Stato di diritto e gli obblighi di conformazione al diritto internazionale stanno facendo il loro corso e l’arroganza del potere è ora sotto processo. Assolvendo chi ha difeso i naufraghi e rispettato il diritto del mare (Carola Rackete); sottoponendo a giudizio chi ha ritenuto di potere operare calpestando i diritti umani abusando della sua posizione di potere (Matteo Salvini). Ma quel che più impressiona nelle politiche migratorie poste in essere dall’attuale Governo è l’assenza di ogni considerazione d’ordine costituzionale e internazionale. Sembra quasi che dignità sociale, diritti inviolabili, doveri di solidarietà, libertà personale non fossero mai stati scritti tra i principi fondamentali della Repubblica, ovvero che non possano essere riferiti agli stranieri. Se solo si riflettesse su questi sacri principi ci si renderebbe conto della necessità di chiudere i Cpr, altro che estendere il tempo di trattenimento. Quando la Consulta ha ritenuto legittimo il “trattenimento”, la cui durata massima era allora di soli venti giorni, prorogabili dal giudice per ulteriori dieci, ha confermato che esso rappresenta pur sempre una misura assoggettata alle garanzie di cui all’articolo 13 della Costituzione, che prevede sia punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà. Analogamente la Corte di Strasburgo impone l’osservanza di quegli standard minimi fissati dalla Cedu, specificando che non sono ammessi trattamenti disumani e degradanti, che deve assicurarsi la libertà e sicurezza delle persone “trattenute”, nonché il rispetto della loro vita privata e familiare. Nessuno di questi presupposti di civiltà sono assicurati nei centri. Per questo dovrebbero essere chiusi e sostituiti eventualmente da altre strutture di accoglienze e altre forme di controllo. L’assenza di ogni conoscenza della realtà delle migrazioni, che coinvolge persone fragili, nonché l’improvvisazione delle misure che vengono adottate, sono emerse da ultimo nella sconsiderata decisione di prevedere che i migranti in attesa della domanda d’asilo possano evitare il trattenimento versando una cauzione pari a 4.938 euro tramite fideiussione bancaria. Ma con chi pensano di avere a che fare? Piuttosto, visto che la giustificazione è stata quella di una (evidentemente affrettata) letture della direttiva europea che individua le misure alternative al trattenimento, si dovrebbero considerare le altre ipotesi indicate: quelle che prevedono, in modo meno costrittivo, l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità ovvero quello di dimora in un luogo assegnato. Riflettano sul fatto che - come viene espressamente affermato in quella stessa direttiva - la regola generale è che i richiedenti asilo possono liberamente circolare nel territorio dello Stato o nel luogo loro assegnato. Con l’ultimo decreto si prevede di raccogliere chiunque - compresi i minori - nelle strutture di assistenza che potranno trattenere il doppio delle persone rispetto alla capienza prevista, sottraendo altri diritti e peggiorando le condizioni di vita. Una polveriera, che produrrà le sue violenze e sarà la ragione di ulteriori inasprimenti. In un regresso all’infinito, sino all’esplosione finale. La strada da intraprendere è un’altra se si vuole affrontare con serietà e senso di umanità la questione non facile, ma che non può essere semplicemente repressa o rimossa, delle migrazioni al tempo delle moltitudini in marcia. Un cambio di “paradigma” che coinvolga il governo del mondo per accogliere, per redistribuire e per regolare i flussi. In questo conteso all’Italia - Paese di primo approdo - spetterebbe il ruolo di farsi promotore ed interprete di un così ambizioso cambiamento, operando essenzialmente sul piano delle politiche europeo e internazionali. Un lungo percorso, per nulla facile da intraprendere, ma se si va in direzione opposta si finirà per trovarsi da soli contro i popoli migranti a difesa di confini porosi e con il fucile spianato. Un ben triste destino. Migranti. Nel Centro per minori stranieri soli, tra urla nel sonno per le violenze subite e voglia di uscire di Eleonora Camilli La Stampa, 28 settembre 2023 Casa Giona a Roma: John si rinchiude nella sua cameretta e mette ossessivamente a posto tutti gli oggetti, Khaled, egiziano, non vuole parlare dei giorni in Libia: “Botte, botte, solo botte”. Di notte John fatica ancora a dormire. Appena chiude gli occhi, i giorni passati nei centri di detenzione in Libia tornano prepotentemente in forma di incubi. Le sue urla strazianti svegliano gli altri ragazzini, ospitati come lui nel centro per minori stranieri soli, Casa Giona, a via Tiburtina, periferia di Roma. Le violenze subite e quelle viste hanno lasciato un segno indelebile, un dolore difficile da raccontare anche alla psicologa. Così John (nome di fantasia) si rinchiude nella sua cameretta e comincia a pulire e a mettere ossessivamente a posto tutti gli oggetti. Poi, per sfogarsi, va a correre per almeno due ore. È partito poco più che bambino dalla Costa D’Avorio per sfuggire a una situazione di grave povertà. Dopo aver perso entrambi i genitori, è stato affidato al fratello più grande, ma in casa una bocca in più da sfamare pesava e sono iniziati i primi dissidi con la cognata. Fin quando il ragazzo ha deciso di partire e tentare il viaggio. Il deserto prima, l’inferno della Libia poi e infine la rotta del mare. Oggi che di anni ne ha sedici, qui in Italia sta provando a rimettere insieme i pezzi della sua vita. “È arrivato da noi quattro mesi fa - racconta Simona Bosi, l’assistente sociale che segue diversi progetti dedicati ai minori non accompagnati nella Capitale -. Subito lo abbiamo inserito in un percorso di sostegno psicologico che chiamiamo Ferite invisibili. Gli incubi sono ancora ricorrenti, ma piano piano, grazie all’aiuto degli specialisti, sta migliorando. Lo aiuta lo sport a lenire quello che ha dentro ma la strada è ancora lunga”. I ragazzi ospitati in questo centro gestito da Caritas Italiana sono dieci, hanno tra i 14 e 17 anni. La mattina vanno a scuola, all’istituto don Bosco, nel pomeriggio si dedicano a varie attività, dallo sport alle uscite con gli amici. La maggior parte sono egiziani, ma ci sono anche maliani, gambiani e ivoriani. In tutto, sono 11.650 i minori arrivati soli in Italia dall’inizio dell’anno. In gergo burocratico li chiamano “misna”: minori stranieri non accompagnati. Sono tra i più vulnerabili tra i migranti: ragazzini, cresciuti troppo in fretta e arrivati in Italia da soli, dopo viaggi durissimi, dove hanno subito e visto di tutto. E per questo hanno diritto a tutele e protezioni adeguate. Che ora il nuovo provvedimento del governo vuole rivedere, prevedendo modalità più stringenti di accertamento dell’età e la possibilità di ospitarli in centri insieme agli adulti. “È ovvio che tutto questo ci preoccupa - aggiunge Bosi -. Cosa sarebbe successo a John se fosse capitato in un centro con cento persone, tra minori e adulti? Chi avrebbe compreso la sua vulnerabilità?”. Intanto, nel campetto di fronte alla struttura alcuni dei minori improvvisano una partita a pallone. Khaled, 16 anni, originario dell’Egitto si mette in porta, gli altri tirano i calci di rigore. Ama il calcio, dice, e tifa Roma perché lì ha giocato il suo idolo indiscusso, il calciatore egiziano Mohamed Salah. Ma a differenza di tanti suoi coetanei, non ha sogni di gloria, non gli interessa provare a fare il calciatore, quello che vorrebbe è iniziare presto a lavorare in un ristorante, come cuoco o meglio come pizzaiolo. Oltre alla scuola dell’obbligo, frequenta un corso di formazione, per ora sta studiando le mansioni di sala, ma il suo sogno è stare ai fornelli. Ha lasciato la sua città un anno fa per aiutare la famiglia. Già piccolissimo aveva abbandonato la scuola per iniziare a fare dei lavoretti. Il padre ha una forma grave di diabete e ha dovuto smettere di lavorare così è toccato a lui, unico figlio maschio, sostenere la famiglia. “Ho lavorato in una lavanderia, poi in una gelateria e infine in un posto dove si organizzavano matrimoni, ma i soldi erano sempre troppo pochi. Così d’accordo con i miei genitori sono andato a Tobruk, in Libia, per provare a venire in Europa”. Di quei dodici giorni passati lì preferisce non parlare, scuotendo la testa ripete solo “Libia, botte, botte”. Racconta che anche il viaggio non è stato facile: “Eravamo in 700 su un peschereccio, avevo paura. Allora ho chiamato mio padre, piangeva anche lui. Ma ora ce l’ho fatta”. Nel cortile, colorato di murales, Tareq ascolta la musica dal telefono. Con Khaled si conoscono da bambini, provengono entrambi dalla zona di Gharbiyya e hanno fatto lo stesso percorso. Una volta in Sicilia, Tareq è stato ospitato in un centro per “misna” a Catania. Ma dopo pochi giorni, è scappato per raggiungere Roma, dove abita suo zio, convinto di poter stare con lui. Due settimane dopo, però, l’uomo l’ha accompagnato in auto davanti alla questura e gli ha detto di chiedere lì un posto dove stare. Da allora non si sono più sentiti né visti. Anche Tareq vuole iniziare a lavorare presto, come meccanico di automobili. “Spesso sono le famiglie che li incentivano a partire per motivi economici - spiega Maria Franca Posa, responsabile dei servizi per minori di Caritas -. Fatichiamo a spiegargli che sono piccoli per lavorare. Ma sentono forte la responsabilità di dover mandare i soldi a casa. Hanno un’età, però, per cui vanno protetti, sono vulnerabili, il rischio è che possano finire in giri strani”. Migranti. “Lampedusa non può diventare Ellis Island. Ora servono canali legali d’ingresso” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 28 settembre 2023 Intervista al sindaco Filippo Mannino: “In questi anni l’isola è stata utilizzata come la foglia di fico dietro la quale sia l’Italia che l’Europa hanno nascosto tutti i fallimenti delle politiche sull’immigrazione”. “In questi anni Lampedusa è stata utilizzata come la foglia di fico dietro la quale sia l’Italia che l’Europa hanno nascosto tutti i fallimenti delle politiche sull’immigrazione”. Il sindaco di Lampedusa, Filippo Mannino, poco più di una settimana fa è volato fino a New York per esporre al vertice Onu sugli obiettivi di sviluppo sostenibile il caso unico della sua piccola isola dispersa nel cuore del Mediterraneo. E adesso ci siamo un po’ stancati. Sindaco, dopo settimane di sbarchi intensi, ora, complice il meteo avverso, l’Hotspot di Lampedusa è vuoto. Cosa vi aspettate per i prossimi giorni? Ci aspettiamo che riaccada ciò che accade da 30 anni. Ma un conto è gestire numeri relativamente contenuti, un altro è gestire numeri che negli ultimi mesi stanno diventando fuori controllo, come accaduto la scorsa settimana: in 36 ore sono arrivate più di 7 mila persone che si sono aggiunte alle 3 mila già ospitate sull’isola. Un conto è soccorrere una barca con 100 o 200 persone, un altro è riuscire a gestire la Storia da una piccola isola di 20 km quadrati. Cosa dovrebbe fare il governo per sostenere da Lampedusa? Da mesi chiediamo semplicemente al governo di farsi trovare impreparato. Cosa significa? Significa che bisogna provare a bypassare direttamente gli sbarchi sulla nostra isola, attraverso il soccorso in mare aperto con navi militari e civili predisposte ad hoc, come accadeva con l’operazione Mare Nostrum. Oppure bisogna disporre sul territorio di Lampedusa la presenza di navi che consentano trasferimenti veloci e continuativi di tutta queste persone. Abbiamo una difficoltà oggettiva a gestire servizi logistici e sanitari concepiti per una popolazione di 7 mila abitanti. L’isola non ce la fa materialmente. Il governo però sembra essere più interessato a bloccare le partenze, che a redistribuire le persone in arrivo... Il punto è che si è fermi. Non si fanno passi in avanti in nessuna direzione sulle politiche dell’emigrazione. Se un giorno riusciranno a bloccare le partenze, bene, ma nel momento in cui queste persone partono non si possono lasciar morire in mare. Eppure la riforma del trattato di Dublino sembra essere calato il disinteresse generale... La verità è che dell’Europa unita ci sono rimaste solo le stelline sulla bandiera, poi ognuno fa quello che vuole, si naviga a vista. Il risultato è che si resta inermi. Però ricordo che qualche mese fa abbiamo avuto fenomeni migratori importanti dall’Ucraina e non mi pare ci sia stata la stessa reazione. Anzi, l’Europa si è mossa compatta. Allora dobbiamo decidere se chi scappa è meritevole d’accoglienza solo in base al colore della pelle o no. Di cosa ha parlato all’Onu? Ho parlato della mobilità globale, di persone in fuga di cui bisogna occuparsi. Non c’è legge o norma che tenga davanti a gente che scappa da una guerra, da una persecuzione o dalla violenza. Si deve trovare una soluzione alternativa, in Europa come negli Stati Uniti. Ho raccontato l’esperienza di comunità piccole come la nostra che non possono essere lasciate da sole ad affrontare veri e propri drammi umanitari. Non è pensabile trasformare Lampedusa in Ellis Island, i territori vanno rispettati non possono essere trasformati in carceri a cielo aperto. Qual è la soluzione per evitare questo scenario? Canali di ingresso legali con partenze gestite dalle coste di imbarco. Ovviamente non può essere l’Italia a governare da sola questo processo, serve un coordinamento europeo, quantomeno di tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, e serve programmare i flussi per sapere in anticipo dove redistribuire queste persone. Come reagiscono i lampedusani davanti all’emergenza? Lampedusa ha bisogno di tranquillità. Noi facciamo accoglienza dal 1988, quando arrivò il primo barchino sull’isola, ma quando il lampedusano vede messa in pericolo la sua principale fonte di reddito, è il turismo, comincia a preoccuparsi e si arrabbia. Non con i migranti ma con la descrizione apocalittica che i mass media fanno del fenomeno. Gli sbarchi invece vengono gestiti in base a un protocollo rodato che rende inesistente la percezione del problema sull’isola. L’immigrazione ha davvero limitato il turismo verso Lampedusa in questi anni? Quando l’apertura di un telegiornale è “emergenza sanitaria a Lampedusa, caso di scabbia” passa il messaggio che un territorio è insicuro da un punto di vista sanitario. E il turista che voleva trascorrere le vacanze a Lampedusa ci pensa due volte prima di farlo e molto spesso decide di non venire. Quello è un danno per lo sviluppo dell’isola. Noi andiamo avanti grazie al passaparola, grazie alle persone che sono state qui e raccontano di un problema quasi impercettibile. Ma sono tutti italiani, per i turisti europei noi siamo solo l’isola dei migranti. Due settimane fa questa paura si è trasformata in protesta quando si vociferava che a Lampedusa sarebbe stato costruito un Cpr. Lei stesso è sceso in piazza al fianco dei cittadini... Perché, come dicevo prima a proposito dell’Hotspot, non abbiamo i servizi adeguati a ospitare questo tipo di strutture. E poi la storia ci insegna che se abbiamo un centro per 400 persone poi ne mettiamo 4 mila. Se il clima malato finisce in tribunale di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 28 settembre 2023 Quando nel 2015 venne in pompa magna presentato l’Accordo di Parigi sul clima, per il contrasto all’aumento del riscaldamento globale mediante la riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra, poteva credersi che gli oltre 170 Paesi sottoscrittori avessero preso un impegno capace di avere concreti e condivisi impegni; che cioè si assistesse ad una svolta irreversibile, coinvolgente il mondo intero. Pur non mancando ora alcuni provvedimenti ed effetti concreti, le difficoltà, i contrasti e le marce indietro sono importanti. Sono di questi giorni i rallentamenti annunciati dal governo britannico rispetto agli obiettivi di raggiungimento del traguardo di zero emissioni. E i rigorosi programmi dell’Unione europea sulle scadenze dell’obbligatorio passaggio alla produzione di sole automobili elettriche e a zero emissioni di Co2 ed altri gas, dopo le vivaci reazioni da parte di diversi governi sono stati seguiti da significative retromarce. Intanto i progetti di sfruttamento dei giacimenti di litio in Portogallo, utili per la produzione in Europa delle batterie elettriche, hanno dato luogo a vivaci proteste dei contadini per il danno ambientale che ne deriverebbe, con la distruzione di aree agricole anche di pregio ambientale. Movimenti anti-transizione ecologica crescono in potenza, come quello degli agricoltori olandesi, importante in vista delle imminenti elezioni politiche. Esempi sparsi, tratti dalla sola cronaca recentissima. Essi rivelano la difficoltà che accompagna una linea politica che sembrava soddisfare esigenze gravi e urgenti. Il fatto è che gli sviluppi pratici della transizione ecologica hanno contrastata natura politica. I costi della transizione sono a carico di specifiche fasce di popolazione. Mentre vengono a ridursi occasioni di lavoro e di reddito, è certo possibile che se ne creino altre (come avviene per l’intervento della robotica e della Intelligenza Artificiale), ma a distanza di tempo e a vantaggio di altro personale, diverso da quello che perde il lavoro. La transizione cioè avvantaggia taluni e danneggia altri. Essa ha quindi un ovvio impatto elettorale, il quale sollecita la competizione dei partiti, fisiologica in democrazia, purché non sia sostenuta dalla falsificazione della realtà e dall’allarmismo strumentale. La lungimiranza dei politici responsabili governativi dovrebbe compensare lo sguardo corto degli elettori, ma alla fine sono gli interessi di questi ultimi a determinare gli orientamenti delle forze politiche e governative in sede nazionale e internazionale. Così, come è avvenuto recentemente in Italia, è facile limitarsi ad aggiungere all’articolo 9 della Costituzione, che la Repubblica “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”, facendone un manifesto che soddisfa tutti. Come se per provvedere vi fosse bisogno della nuova norma costituzionale. Succede ora che emerga una reazione alle resistenze politiche rispetto alle necessarie iniziative di transizione ecologica. Al freno che si verifica in sede governativa e parlamentare (si può supporre con l’appoggio di una maggioranza di cittadini) è ora visibile una reazione su un piano diverso. L’Unep, il Programma dell’Onu sul clima, l’ambiente e lo sviluppo sostenibile, ha recensito più di duemila procedimenti giudiziari, attivati nel mondo davanti a tribunali nazionali o internazionali, per danni derivanti dalla crisi climatica. Essi sono molto diversi tra loro, fondati come sono prevalentemente sul presupposto della violazione delle varie leggi nazionali in materia ambientale. Ma ve ne sono anche che si svolgono davanti a giudici internazionali. Così, ad esempio, davanti al Tribunale internazionale del diritto del mare è stata introdotta una procedura per sentire dichiarare che il riscaldamento dei mari è una forma di inquinamento, che, come tale, deve essere combattuto dai governi. Ed è di questi giorni l’udienza che la Corte europea dei diritti umani ha tenuto per discutere il ricorso di alcuni ragazzi portoghesi contro 33 Paesi membri del Consiglio d’Europa (Italia compresa). Essi fanno valere che il riscaldamento globale, per le distruzioni provocate dalle tempeste e dagli incendi che da anni ormai ne derivano, mette a rischio la loro vita, produce ansie, allergie e disturbi respiratori per loro e, per la loro generazione, una vita inumana e degradante. Le conseguenze sulle loro prospettive di vita privata e di famiglia saranno discriminatorie: danneggiata sarà la loro generazione, mentre quelle odierne se ne tengono esenti. La base giuridica del ricorso è nella Convenzione europea dei diritti umani e nella giurisprudenza che ha sviluppato la Corte, nel corso degli anni. Ma cosa può fare un giudice come la Corte europea? L’applicabilità della Convenzione è già stata più volte affermata: anche nei confronti dell’Italia (ad esempio per le omissioni governative nella vicenda della c.d. terra dei fuochi o dell’Ilva). Ma la questione sollevata dai ricorrenti in questo caso riguarda grandi disegni politici, costi economici e sociali elevanti, scelte politiche di tempi e scadenze, in una vicenda di transizione che riguarda diversamente i vari settori di popolazione. È il tipico caso in cui i governi chiedono che la Corte europea ammetta i limiti che sono propri della giurisdizione e riconosca agli Stati un “margine di apprezzamento nazionale” nell’affrontare il problema che le è sottoposto. Ne verrà allora forse una sentenza che sarà un altro documento di elevato tenore, che sottolineerà la gravità e l’urgenza della situazione. Non inutilmente esso si aggiungerà alle tante voci allarmate che pretendono iniziative concrete. Esse sono forti e ben fondate, ma alla fine, quando si arriva al dunque, minoritarie: una nuova voce, questa di carattere giudiziario, con i limiti che sono propri delle decisioni dei giudici. Rivelatrice della sfiducia nella politica, che è espressa dal ricorso dei giovani portoghesi. Qualcosa di terribile sta accadendo nel “giardino nero” del Caucaso di Sabato Angieri Il Manifesto, 28 settembre 2023 I racconti degli abusi e delle violenze subite dai civili armeni del Nagorno-Karabakh. Tra le migliaia di persone in fuga dall’enclave indipendentista dell’Artsakh. Gli azeri sostengono di aver colpito solo obiettivi militari. Le testimonianze dei profughi dicono altro: “A Martakert una donna ha salvato i suoi 4 bambini, li ha lasciati nel camion ma non è riuscita a scappare e l’hanno uccisa. La madre di quattro bambini!”. Alcune parole sono come fantasmi pronti a riapparire nei momenti più bui. Per gli armeni costretti a fuggire dal Nagorno-Karabakh queste parole sono “genocidio”, “pulizia etnica” e “diaspora”. Ieri il numero ufficiale degli sfollati ha superato i 50 mila individui, a questa velocità entro la fine della settimana tutti i 120 mila armeni residenti in Artsakh prima dell’”operazione anti-terrorismo” azera di giovedì scorso entreranno nella lista dei profughi. “È la prima volta in 3500 anni che non ci saranno armeni in Nagorno-Karabakh” dice sconsolata Ani, osservando il serpente metallico che si inerpica sulla collina di Kornidzor dalla dogana. Ognuno qui può raccontarti di un antenato morto tra il 1915 e il 1919, gli anni del genocidio perpetrato dai turchi, di una casa persa, di una vita ricostruita lontano. Si consideri solo che si stima che vivano più armeni o loro discendenti all’estero che in patria, dove a malapena sfiorano i 2,8 milioni. Ma fino alla settimana scorsa si trattava di ricordi del passato che, per quanto dolorosi e ancora vividi in tutta la società e tra l’intellighenzia armena, rimandavano a più di un secolo fa. Oggi, in questo stesso momento, migliaia di armeni in fuga dall’enclave indipendentista dell’Artsakh sono in coda al confine, a poca distanza dalla tristemente famosa Lachin, che dà il nome alla strada chiusa da mesi dall’embargo azero. Hanno abbandonato le proprie case, gli averi, i campi, i progetti e hanno messo tutto il possibile in una macchina. Il che, va da sé, è niente; ma almeno sono vivi. Quelli che sono riusciti a entrare, ospiti degli hotel di Goris o in attesa di carburante a Kornidzor, sono già stanchi dei giornalisti, parlano malvolentieri. Quando lo fanno però le loro storie sono terribili. I racconti che seguono sono un primo tentativo di raccogliere le testimonianze degli abusi e delle violenze subite dai civili armeni del Nagorno-Karabakh, così come me li hanno riferiti. In attesa che un’istituzione indipendente o un tribunale internazionale faccia luce su quanto sta avvenendo a Stepanakert e negli altri centri della regione. “È una bugia che gli azeri stavano solo sparando ai soldati… hanno ammazzato una donna, come possono dire che sparavano solo ai militari”. Ci racconta Margarit Sahakyan, una maestra elementare di Martakert, all’Hotel Goris. “Questa donna ha salvato i suoi quattro bambini, li ha lasciati nel camion, ma non è riuscita a scappare e l’hanno uccisa. Teneva in mano una pistola? Sparava a qualcuno? La madre di quattro bambini!”. Margarit continua: “Quando abbiamo passato l’ultimo check-point azero i militari sono saliti sull’autobus e hanno terrorizzato i bambini, alcuni non la smettevano di tremare, dicevano “non voglio morire”. Però l’immagine più tragica che ho ancora di fronte agli occhi è quella di un bambino di 14 anni che mi chiede ‘zia margot (questo il nome che le davano nel villaggio per il suo ruolo di maestra), “questa nel video è mia mamma?” Le stavano facendo di tutto e poi l’hanno uccisa. Il fatto che qualcuno ha avuto il coraggio di girare un video mentre tutto ciò accadeva, come se fosse uno spettacolo, è disgustoso. Forse pensavano fosse divertente”. Il video non l’abbiamo visto e non sappiamo ancora il cognome della donna, ma stiamo lavorando per ritrovare entrambi. Nei mesi dell’embargo sono circolati online diversi video di violenze ingiustificate ai danni degli armeni. Lo scorso settembre, per citare un solo caso, in seguito a un attacco delle forze azere sul territorio armeno (non nel Karabakh, ma entro i confini di Erevan) i soldati azeri entrarono in un avamposto armeno e tra i militari trovarono una donna soldato, il video delle sevizie e della successiva decapitazione della donna è ancora disponibile in rete, quindi non è affatto strano che esista un filmato come quello che racconta Margarit. Durante il racconto, un’anziana di nome Seda Lazaryan che era stata in piedi in silenzio ad ascoltare, interviene: “Al villaggio abbiamo avuto nove soldati morti e una donna (la stessa del precedente racconto, ndr) catturata, seviziata e poi uccisa. Oltre al video, ci sono 12 uomini del villaggio che erano rimasti per permetterci di fuggire, l’hanno vista morta dopo che i soldati azeri si sono allontanati”. Com’è stata catturata? “Stavamo scappando con i camion, io ero dentro, e quella donna ha portato i suoi quattro bambini da noi e poi è tornata indietro, non so perché. So solo che non è mai tornata da noi. E poi i bambini hanno visto su internet cosa avevano fatto alla madre. Ai bambini raccontavamo che la madre sarebbe tornata, ma poi il maggiore ha visto il video, ha iniziato a piangere e tutti gli altri si sono uniti nel pianto. Ora sono con la nonna”. “Ci hanno bombardato la casa - racconta Anna - la nostra bella casa, ci avevamo messo 7 anni per costruirla”. Anna viene da un villaggio vicino Goris, 10 anni fa si è sposata con un uomo del Nagorno-Karabakh e si sono trasferiti lì, hanno due bambini che le restano attaccati mentre parla. “Vicino a casa mia non c’è niente, solo alberi… dicono che hanno bombardato solo strutture militari ma allora la mia casa?”. Il marito armeggia nervoso con il motore della vecchia Lada Zigulì blu, “non parte?” gli chiedo perché sembra che sia infastidito dalla nostra presenza. “Manca solo la benzina” e si volta. Quando Anna ci mostra una foto della casa appena finita, però, si avvicina: “Guarda il tetto, nuovo, l’avevo costruito io” dice fiero. “Volevano che ce ne andassimo, che non avessimo posti per restare, questa è la verità” conclude Anna quasi piangendo. Quando un giornalista di Politico ha detto all’inviata degli Stati Uniti Samantha Power “ma tutto ciò che dice dipinge esattamente il quadro di una pulizia etnica”, la funzionaria ha mosso leggermente il capo, sembrava che volesse dire “è ciò che intendevo”, ma poi si è profusa nelle classiche perifrasi dei diplomatici. Ieri Francia e Germania hanno chiesto ufficialmente alle autorità azere di lasciare entrare gli osservatori internazionali. Sembra che l’Occidente abbia effettivamente paura che qualcosa di terribile stia accadendo nel “giardino nero” del Caucaso e quelle stesse parole che tra gli armeni si passano di bocca in bocca siano i segni di una realtà in divenire più che un ricordo sepolto nel passato.