Celle sovraffollate: in netto aumento i detenuti risarciti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 settembre 2023 Ennesima sentenza della Cassazione che conferma il risarcimento di 7mila euro per mancanza di spazi vitali. E il sovraffollamento nel frattempo è in crescita. La Cassazione ha recentemente emesso una sentenza importante riguardante un caso di detenzione in condizioni inumane e degradanti a causa della mancanza di spazio vitale nella cella. I giudici supremi, i quali hanno respinto il ricorso presentato dal Ministero della Giustizia, hanno riconosciuto un risarcimento significativo al detenuto Wilfredo Luis Tiredo. L’uomo era stato detenuto presso la Casa circondariale di Bergamo, dove aveva vissuto in una cella con uno spazio vitale di appena 2,6 metri quadrati. Queste condizioni sono state giudicate inumane e degradanti. Il Tribunale di sorveglianza di Brescia ha emesso un’ordinanza riconoscendo a Tiredo un risarcimento di 7.024 euro per i 878 giorni di detenzione vissuti in queste condizioni. Il Ministero della Giustizia, tramite l’Avvocatura dello Stato, ha presentato un ricorso contro questa decisione, affermando che non era stata data adeguata considerazione ai ‘fattori compensativi’. Il Ministero ha sostenuto che nonostante le condizioni nella cella di detenzione fossero anguste, vi erano altre condizioni migliori nell’istituto penitenziario di Bergamo. Ad esempio, le camere di detenzione erano dotate di finestre, i servizi igienici erano forniti di finestre e accessibili in modo riservato, e le docce avevano acqua calda. Inoltre, erano disponibili spazi comuni, l’assistenza sanitaria era garantita e c’era un’offerta formativa e di attività per i detenuti. La Cassazione ha esaminato il ricorso del Ministero della Giustizia e ha respinto le sue argomentazioni. Il Tribunale di sorveglianza aveva giustamente riconosciuto che la durata prolungata della detenzione senza adeguati spazi vitali costituiva una violazione dei diritti umani. Secondo la Corte suprema, la mancanza di spazi adeguati nella cella dove il detenuto aveva trascorso 878 giorni non poteva essere compensata da altri fattori positivi presenti nell’istituto penitenziario. La sentenza si basa sui principi stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la presunzione di trattamento carcerario inumano e degradante può essere superata solo se vi sono effetti cumulativi positivi che compensano la ristrettezza degli spazi in cella. La brevità della durata della detenzione, condizioni carcerarie dignitose e la possibilità di movimento al di fuori della cella attraverso attività adeguate possono permettere di superare questa presunzione, ma nel caso in cui la violazione sia protratta per un lungo periodo, come in questo caso, non è possibile compensarla con altri fattori. La confusione sul parametro di nove metri quadri. L’ennesima decisione che conferma i risarcimenti ai detenuti per “condizioni disumani e degradanti” riporta in luce la questione grave del sovraffollamento. Purtroppo, come è accaduto nel passato, qualcuno tenta a far passare l’idea che il sovraffollamento è virtuale, perché la capienza regolamentare citata nei rapporti del Dap si basa sui posti calcolati sulla base del criterio di 9 mq per il primo detenuto più 5 mq per gli altri. Vista così sembra che effettivamente il sovraffollamento sia dovuto dal fatto che i detenuti stanno troppo larghi in cella. Ma allora perché invece risulta tutt’altro e le sentenze della cassazione confermano la mancanza di spazio vitale? Qualcosa non torna, quindi cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Il parametro dei 9 mq è solo sulla carta. Non si può fare un discorso puramente geometrico, perché in questo modo astrattamente potremmo mettere diversi detenuti in una unica cella e ciò non è possibile farlo concretamente, a meno che non si abbattano le mura per fare un enorme camerone. Per capire meglio, bisogna comprendere che lo spazio disponibile di tre metri quadrati per ogni persona è la soglia minima al di sotto della quale scatta la violazione del diritto umano (è accaduto con la sentenza Torreggiani) e non la si può considerare uno standard. In Italia, il parametro di riferimento è di 9 metri quadrati che vale per il primo arrivato in una cella, più 5 metri per ogni nuovo detenuto e in celle che prevedono al massimo 4 posti. Questo parametro, che per altro è quello di abitabilità delle abitazioni civili, è chiaramente eccessivo. Basterebbe applicare il parametro della Commissione Europea per la prevenzione della tortura: 7 metri quadrati, più 4 per ogni nuovo detenuto in una cella. Anzi, ultimamente si calcola che 6 metri quadrati, più 4 quindi, e quindi in 14 metri quadrati ci possono vivere 4 persone. Ma bisogna appunto essere molto rigidi e controllare lo standard: non si può dire che abbiamo un parametro così alto di 9 mq, ma poi non lo si rispetta. Senza contare che anche dentro uno stesso carcere convivono tipologie di sezioni che presentano punte maggiori di sovraffollamento tra di loro. Secondo i dati aggiornati dal ministero della Giustizia al 31 agosto, la situazione è allarmante. La capienza regolamentare delle carceri è di 51.206 detenuti, ma al momento ce ne sono ben 58.428. Questo rappresenta un aumento di 679 reclusi rispetto al mese precedente e addirittura 2.791 in più rispetto al mese dell’anno scorso. La detenzione è già di per sé una condizione difficile e drammatica sia per i detenuti, che possono subire violenze sia mentali che fisiche, sia per le gravi difficoltà di reinserimento nella società una volta Il sovraffollamento aggrava ulteriormente la qualità della vita dei detenuti, costringendoli a condividere spazi ristretti. Tuttavia, alla luce dell’argomentazione precedente, è importante ribadire che non possiamo valutare il problema solo in termini numerici assoluti. Ogni carcere ha la sua situazione di sovraffollamento che riguarda ciascuna sezione, e costruire nuove sezioni non è una soluzione efficace. Prendiamo il caso del carcere di Monza, dove il sovraffollamento è diventato insostenibile con 707 detenuti in un’istituzione progettata per ospitarne 411. Questi numeri straordinariamente elevati stanno mettendo a dura prova sia il personale di custodia che i detenuti stessi. Mentre il ministero della Giustizia sta ancora valutando un decreto legge per dare la possibilità di far usufruire ai detenuti solamente due telefonate in più, non si sta facendo abbastanza per garantire misure alternative per coloro che non hanno strumenti o possibilità di dimora, né per garantire un vero supporto all’affettività attraverso una liberalizzazione delle chiamate. Inoltre il Parlamento si rifiuta tuttora di calendarizzare la legge sulla liberazione anticipata speciale presentata da Roberto Giachetti di Italia Viva, su proposta di Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino. Prevede due opzioni. Una che si passi dai 45 giorni (già previsti ogni semestre di pena) a 60 giorni di liberazione anticipata per tutti i detenuti che hanno avuto un buon comportamento in carcere. Prevede inoltre che sia direttamente l’istituto a concederla e non il magistrato di sorveglianza già oberato da molte incombenze. L’altra proposta, di liberazione anticipata “speciale”, è di 75 giorni ogni semestre, soprattutto per compensare i due anni terribili che i detenuti hanno vissuto con il Covid. Ma nulla da fare, il sovraffollamento cresce e, di pari passo, anche i risarcimenti ai detenuti. L’odissea di quei minori trasferiti da un carcere all’altro come pacchi di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 27 settembre 2023 A causa della mancanza di posti negli istituti penali i minori arrestati sono costretti a lunghi spostamenti, da Nord a Sud, in attesa di una collocazione più o meno stabile con difficoltà di vario genere che si ripercuotono sull’attività dei difensori. È il caso anche di un minore difeso da Federica Liparoti del Foro di Milano. “Al mio assistito - spiega al Dubbio l’avvocata - arrestato a Milano e trasferito prima in Sicilia e poi in Campania, è stato negato il diritto di partecipare all’udienza poiché non vi sono mezzi e uomini della polizia penitenziaria che possano portarlo nel capoluogo lombardo. Il processo penale minorile dovrebbe avere una finalità educativa. Inoltre, non è possibile garantire il diritto di difesa attraverso un collegamento video”. Già, perché il minore accusato di rapina, ora recluso in Campania, non potrà essere presente di persona all’udienza in programma domani a Milano. Sarà quindi costretto a partecipare da remoto. Una modalità che lascia perplessa l’avvocata Liparoti. “Tutto ciò - riflette la legale - non è compatibile con ben precise esigenze difensive. Il mio assistito potrebbe, all’interno del rito abbreviato, avanzare anche la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. Al fine di accedere alla messa alla prova il giudice fa alcune domande al minore con le quali cerca di capire se ha effettuato un percorso di rielaborazione critica della condotta. Tutto però diventa problematico con la modalità del video-collegamento. Il processo penale minorile dovrebbe avere una finalità rieducativa, è fortemente indicata la partecipazione in udienza del minore e la messa in prova deve essere chiesta personalmente dall’imputato”. Il caso specifico affrontato da Liparoti si inserisce in un discorso più ampio che riguarda altri aspetti, a partire dalle condizioni in cui versano gli istituti penali per i minorenni. “Queste strutture - commenta l’avvocata - sono al collasso. Più di un mio cliente ha dovuto attendere diversi giorni a San Vittore, prima che il Dap individuasse un istituto con un posto. I minori che vengono arrestati a Milano spesso non possono essere ospitati nel Beccaria e vengono quindi trasferiti nelle carceri del Sud Italia, in modo particolare in Sicilia o in Campania. Ciò rende la detenzione dei minori dolorosa, poiché vengono sradicati dagli affetti famigliari e dal tessuto sociale di origine. Senza dimenticare le ricadute sul diritto di difesa, a partire dai colloqui tra avvocato e assistito che diventano molto difficili da organizzare”. In questo contesto si aggiunge un’altra carenza negli Ipm: quella dei mediatori culturali. “Una grande fetta di popolazione carceraria minorile - aggiunge Liparoti - è straniera. Al fine di far partecipare i minorenni alle attività culturali ed educative, è necessaria la presenza di mediatori culturali e di interpreti che possano consentire ai giovani di comunicare con chi lavora negli istituti penitenziari e con i difensori. Io molte volte ho difficoltà a fare i colloqui. Non mancano altre contraddizioni. Si aumenta il ricorso al carcere, ma le carceri non sono pronte ad accogliere sempre più minori”. Da avvocata che si occupa di imputati minorenni, Federica Liparoti riflette pure sulle norme introdotte dal recente “Decreto Caivano”, che interviene sul processo penale minorile: “Vi sono alcuni aspetti positivi, che hanno trovato tuttavia poco spazio nella narrazione pubblica, e molte criticità. Ritengo di particolare interesse la previsione di una norma secondo la quale viene resa possibile l’applicazione della messa alla prova sin dalla fase delle indagini. Il pubblico ministero, in caso di reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione ovvero la pena pecuniaria, notifica al minore e all’esercente la responsabilità genitoriale l’istanza di definizione anticipata del procedimento, subordinata alla condizione che il minore acceda a un percorso di reinserimento e rieducazione civica e sociale sulla base di un programma rieducativo. Il mancato accesso al percorso o la sua interruzione ingiustificata preclude l’eventuale successivo accesso all’istituto della sospensione del processo e messa alla prova. Qualora, al termine del percorso di rieducazione, il giudice valuti positivamente l’esito del programma, pronuncia sentenza di non luogo a procedere dichiarando l’estinzione del reato. Questa norma, a mio avviso, potrebbe comportare una importante deflazione dei procedimenti davanti ai Tribunali per i Minorenni, che ad oggi dispongono di un numero limitato di magistrati e cancellieri”. La normativa derivante dall’onda emotiva dei fatti di Caivano presenta alcune criticità. “Prima fra tutte - conclude Liparoti - la riduzione del limite da nove a sei anni di reclusione dei delitti non colposi per i quali il giudice può disporre nei confronti dei minorenni la misura cautelare della custodia in carcere. È prevista altresì la possibilità di applicare la misura di massimo rigore, indipendentemente dal limite edittale, per alcuni specifici reati tra cui il furto aggravato, il furto in abitazione, il furto con strappo. Inoltre, il dl modifica la disciplina dei termini di durata massima delle misure cautelari, ridotta rispetto a quella dei maggiorenni. I termini, per effetto del decreto, risultano ora infatti ridotti solo di un terzo per i reati commessi da minori degli anni diciotto e solo della metà per quelli commessi da minori degli anni sedici”. “Tortura” di Stato nel carcere di San Gimignano di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 27 settembre 2023 Uno spaccato della vita in carcere nelle motivazioni della condanna emessa dal Tribunale di Siena per 5 agenti penitenziari. “Ripugnante e disinvolto esercizio di violenta disumanità” per “esibire manifestazioni di dominio” a “guisa di aberrante e perversa forma di pedagogia carceraria”. “Quanto emerso corrisponde ad un ripugnante e disinvolto esercizio di violenta disumanità e di ostentato disprezzo nei confronti di una persona detenuta, praticato per giunta in assenza del benché minimo indice o cenno di atteggiamento violento o aggressivo da parte di quella persona”. La sentenza che ha portato il Tribunale di Siena a condannare per tortura cinque agenti penitenziari del carcere di San Gimignano, infliggendo pene dai cinque anni e dieci mesi sino ai sei anni e sei mesi di reclusione è di quelle che andrebbero lette nelle scuole, nelle università e nei luoghi di formazione delle forze dell’ordine, sia per la sua lucidità, chiarezza e puntualità che per costituire un vero e proprio manuale di scienza giuridica e antropologia carceraria. I fatti risalivano all’11 ottobre 2018 quando, utilizzando le stesse parole dei giudici senesi, “è stata posta in essere, da parte di una squadra composta da quindici agenti, assistenti e ispettori del Corpo di polizia penitenziaria in servizio presso la Casa di reclusione di San Gimignano, una spedizione punitiva ai danni di un detenuto straniero” al “solo scopo” di “esibire manifestazioni di dominio e in funzione di supposta deterrenza rispetto a comportamenti scorretti e mal tollerati, a guisa di aberrante e perversa forma di pedagogia carceraria”. La forza e unicità della sentenza, che nelle sue argomentazioni di stretto diritto costituirà un precedente significativo da cui sarà difficile scostarsi, risiede tanto nella descrizione di dinamiche distorte e violente di vita carceraria quanto nella chiarificazione ermeneutica di tutti gli elementi costitutivi del delitto di tortura, così come definito dal Parlamento nel 2017 quando si arrivò finalmente alla sua codificazione dopo decenni di inadempienza normativa. Nella sentenza, infatti, si ricorda (e spero ne facciano tesoro tutti coloro che a destra vorrebbero cancellare il delitto di tortura dopo avere invece criminalizzato i rave) come esistano obblighi di natura internazionale e costituzionale. Le parole hanno sempre un senso nella linguistica costituzionale. All’articolo 13 della Costituzione, a proposito della violenza verso persone private della libertà, il verbo punire è utilizzato, scrivono i giudici, “con una perentorietà del tutto ignota ad altre parti della Carta fondamentale, ossia nella tipica forma modale espressiva dell’obbligo”. Dunque, nel definire i confini del delitto di tortura i giudici devono tenere conto sia della normativa internazionale (che prende forza in base agli articoli 10 e 117 della Costituzione) che di quella costituzionale. Punire i torturatori di Stato non è mai facile. Nella sentenza si descrivono episodi di “gratuita violenza fisica e di abuso della forza, di brutale sopraffazione e di inumano sopruso”. La ricostruzione dei fatti in questo caso è avvenuta grazie a una serie di circostanze favorevoli di tipo probatorio. C’è stata la concorrente disponibilità di lettere di denuncia da parte di detenuti, di immagini video riprese dalle telecamere di sezione, di denunce coraggiose e circostanziate di alcuni operatori dell’area educativa, della messa a disposizione di informazioni importanti da parte del Garante Nazionale, della serietà nel condurre le indagini da parte dei nuclei investigativi della stessa Polizia Penitenziaria, della trascrizione di intercettazioni degli imputati dal contenuto inequivocabile (imputato che si riferisce così alla moglie: “A me mi dispiace solo di una cosa: che a quello non l’ho scassato sano sano”). A San Gimignano, come spesso accade, non si è trattato dell’eccesso di un singolo agente. “Alle ore 15.20 circa sono venuti nella cella di isolamento dove sono ubicato due ispettori e una ventina di agenti di polizia penitenziaria inveendomi contro dicendomi infame, pezzo di merda, pedofilo, venduto ecc. Inoltre sono stato colpito da un capoposto che puzzava di alcol attraverso lo spioncino con un pugno in fronte, dopo sono entrati in cella e mi hanno preso a calci e pugni e molti di loro facevano puzza di alcol”. I giudici ricordano come “in tutte le lettere, poi, come teatro delle riferite violenze, aggressioni e minacce viene sempre indicato il medesimo luogo, ossia il reparto isolamento della Casa di reclusione di San Gimignano”. Le sezioni di isolamento penitenziario - usate in tal caso, ricordano i giudici, oltre i limiti prescritti dalla legge - costituiscono il luogo privilegiato delle violenze. Anche per questo Antigone, insieme a Physicians for Human Rights Israel, si sta battendo per la sua abolizione su scala globale. La sentenza senese spiega quali sono le condizioni strutturali entro cui può prendere forma la tortura. Tra queste c’è il regime di isolamento, di fatto e di diritto. I detenuti non devono mai essere sottratti agli sguardi di una sana vita comunitaria. * Presidente dell’Associazione Antigone Un anno di governo: luci e ombre per Nordio, stretto tra sogni e realpolitik di Valentina Stella Il Dubbio, 27 settembre 2023 Col primo ddl ha avviato una riforma penale liberale, ma sui decreti si è dovuto contraddire. Il 31 ottobre 2022, nella prima conferenza stampa del nuovo governo, sono serviti solo due minuti al ministro della Giustizia Carlo Nordio per illustrare la parte del decreto legge relativo all’ergastolo ostativo - proprio lui che si era detto contro l’ergastolo qualche giorno prima sul Corsera - sei invece per motivare il rinvio dell’entrata in vigore della riforma del processo penale firmata Cartabia. Questo primo atto ha segnato tutto l’anno appena trascorso: un guardasigilli con idee liberali e garantiste spesso costretto a rinnegare le proprie convinzioni, stretto all’interno di una maggioranza, soprattutto da Lega e Fratelli d’Italia, che tende a deviarlo sul binario securitario e giustizialista. Un altro esempio? Il decreto Cutro presentato il 9 marzo: “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina” è la nuova fattispecie penale introdotta e illustrata da Nordio in conferenza stampa: “Un intervento nell’ambito del diritto penale estremamente severo nei confronti di chi organizza, promuove e finanzia in qualsiasi modo questa tratta di persone”. Non è di certo lo stesso Nordio che qualche tempo prima, nelle vesti di libero pensatore, diceva: “L’errore, l’equivoco della destra, è quello di pensare di garantire la sicurezza attraverso l’inasprimento delle pene, la creazione di nuovi reati e magari con un sistema carcerario come quello che abbiamo, che diventa criminogeno”. Il guardasigilli è stato poi travolto dalla burrascosa vicenda di Alfredo Cospito, con il lunghissimo sciopero della fame adottato dal detenuto, il rischio di una sua morte e con gli anarchici in mobilitazione continua. Lui, Nordio, ha tenuto la mano ferma confermando il 41 bis, ma la grana più grossa gli è arrivata dal deputato di FdI Donzelli, che in Aula ha riferito dei colloqui tra Cospito e alcuni mafiosi, e soprattutto dell’incontro con una delegazione del Pd, di cui lo stesso Donzelli aveva saputo, in circostanze divenute oggetto d’indagine alla Procura di Roma, dal sottosegretario Delmastro. Con molta fatica, il guardasigilli ha dovuto difendere i suoi, con le opposizioni accanite più che mai. Poi ha dovuto mettere una pezza alla questione del reato di tortura: i meloniani pronti ad abrogarlo, lui che va in Parlamento ad assicurare che ci si limiterà ad interventi tecnici. Arriviamo al 15 giugno, quando il Consiglio dei ministri approva il disegno di legge Nordio che punta all’abrogazione dell’abuso d’ufficio, a una maggior tipizzazione del traffico di influenze, e che contiene modifiche in materia di intercettazioni - per tutelare i terzi estranei alle indagini - di informazione di garanzia, di misure cautelari in carcere, con l’introduzione del contraddittorio preventivo. Come ha commentato su questo giornale il professor Spangher, “c’è un rafforzamento del ruolo difensivo mediante la modifica della disciplina dell’informazione di garanzia e, in tema di intercettazioni, della tutela della riservatezza del terzo estraneo al procedimento. In prospettiva e in filigrana si coglie un senso di maggiore tutela della persona. Naturalmente bisognerà vedere come verrà declinato”. E a questo ci sta pensando la commissione Giustizia del Senato. Intanto il 7 agosto arriva in Consiglio dei ministri un decreto legge (che sarà oggi in aula alla Camera) con il quale le norme antimafia sulle intercettazioni anche ambientali sono estese a una serie di reati “non associativi”. Tutto per “rimediare”, come disse la premier, addirittura a una sentenza della Cassazione, ritenuta troppo garantista dai capi delle Dda e dal vertice della Procura nazionale. E qui è da rilevare l’ennesima contraddizione del ministro Nordio, che da sempre ha detto di voler limitare l’uso delle intercettazioni, ma ha dovuto probabilmente subire questa decisione, nata anche per far dimenticare il suo intento di rivedere il concorso esterno a pochi giorni dalla commemorazione di via D’Amelio. Poi il 7 settembre è la volta del Dl Caivano che, tra l’altro, amplia in modo significativo la custodia cautelare e la facoltà di adottare misure pre- cautelari attraverso l’abbassamento dei parametri edittali di riferimento e l’aggiunta di specifiche ipotesi di reato. Eppure Nordio, nelle sue linee programmatiche, il 6 dicembre aveva chiaramente detto: “Assistiamo all’uso, e all’abuso, della custodia cautelare, come surrogato temporaneo dell’incapacità dell’ordinamento di mantenere i suoi propositi”. E la separazione delle carriere? Sempre nelle sue linee programmatiche, il guardasigilli evidenziava la necessità di attuare assolutamente la riforma, insieme a quella dell’obbligatorietà dell’azione penale “convertita in un intollerabile arbitrio”, disse. Nella conferenza stampa di fine anno con i giornalisti, persino la premier Meloni assicurò che la si sarebbe attuata entro sei mesi; ma ad oggi non si vede nulla, se non un accidentato percorso in commissione Affari costituzionali alla Camera, dove oggi riprenderanno le audizioni e si teme arrivi un testo governativo a depotenziare gli obiettivi indicati nelle proposte di legge attualmente in discussione. Sul carcere poi Nordio aveva sempre appoggiato la linea dell’extrema ratio: ora si è convertito all’idea della destra di usare le caserme dismesse per accogliere i detenuti, anziché mettere in atto una seria politica di depenalizzazione. Inoltre, voci di palazzo dicevano che volesse Rita Bernardini nel collegio del Garante dei detenuti, ma non sarebbe riuscito a imporsi al Quirinale, da dove sarebbe arrivato lo stop. Insomma, quello appena trascorso è stato un anno più di ombre che di luci per Nordio, entrato in collisione sia con la magistratura, che si è sentita attaccata, a partire dal caso Uss, nella propria autonomia, sia con l’avvocatura, che verifica gli affanni nell’attuare una vera riforma liberale della giustizia. Comunque ci sono altri quattro anni in cui Nordio potrà dimostrare di saper invertire la rotta. Il dl intercettazioni alla Camera. Il governo metterà la fiducia di Mario Di Vito Il Manifesto, 27 settembre 2023 Il voto previsto per domani. Resta in sospeso il discorso sui trojan, Nordio prepara una proposta. Arriva oggi in aula alla Camera il decreto intercettazioni che la settimana scorsa ha fatto non poco penare la maggioranza, con uno scontro quasi frontale tra Forza Italia e FdI a colpi di emendamenti e trattative per farli ritirare. Per oggi è prevista solo la discussione generale in mattinata, al termine della quale il governo metterà la fiducia sul provvedimento. Domani, infine, si procederà con le dichiarazioni di voto e poi la chiama nominale per l’approvazione definitiva. Il punto più rilevante del decreto riguarda l’estensione dell’uso delle intercettazioni oltre i reati di mafia: il tema, nato dopo che lo scorso agosto il governo si era interessato a una sentenza di Cassazione del marzo 2022, ha portato alla decisione di consentire l’uso di questo strumento investigativo anche ai reati semplicemente aggravati dal metodo mafioso. Il vero punto del contendere, dal quale è disceso lo scontro sia interno alla maggioranza sia tra la maggioranza e le opposizioni, è però il divieto di trascrizione delle intercettazioni non rilevanti ai fini delle indagini. Per il Pd questo dettaglio sarebbe addirittura di dubbia costituzionalità perché andrebbe a ledere il diritto alla difesa. Forza Italia, dal canto suo, aveva dato battaglia su vari punti, ottenendo infine l’accordo su due emendamenti: uno sulla non trascrizione delle conversazioni irrilevanti e un altro sulla necessità da parte dei pm di motivare in maniera specifica i motivi per i quali si chiede di intercettare un indagato. Enrico Costa, di Azione, dal canto suo ha portato a casa un emendamento che imporrà alle procure di indicare il costo totale delle intercettazioni al termine del provvedimento. Sospeso, almeno per il momento, il discorso sui trojan, i malware che consentono il controllo a distanza dei dispositivi mobili: il ministero della Giustizia formulerà una proposta in materia nei prossimi mesi. Limiti all’uso dei trojan, il caso Tidei aiuta la sfida di Forza Italia e Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 27 settembre 2023 Oggi alla Camera il Dl 105, primo atto della battaglia garantista sugli “ascolti”. Non sappiamo com’è andata a Santa Marinella. Non sappiamo come abbia fatto il difensore di uno degli indagati, Roberto Angeletti, a scovare, tra migliaia di file, le scene hot del sindaco Pietro Tidei. Di certo però il caso dei video a luci rosse finiti, con una discutibile carambola procedurale, negli atti dell’indagine per corruzione avviati dai pm di Civitavecchia suggerisce due cose. Primo: stamattina alle 9 il deputato di Forza Italia Pietro Pittalis, quando interverrà nell’aula di Montecitorio come relatore del decreto Intercettazioni- Omnibus, avrà la strada spianata. Non dovrà neppure affannarsi a spiegare perché, nel testo inizialmente concepito per estendere ad alcuni reati le norme antimafia sugli “ascolti”, il suo partito, FI appunto, ha chiesto e ottenuto di inserire alcune modifiche garantiste. Non dovrà sperticarsi in analisi sul bilanciamento tra azione penale e privacy, considerato che uno degli emendamenti azzurri approvati all’unanimità dal centrodestra in commissione prevede che la polizia giudiziaria non possa specificare, nei “brogliacci”, il contenuto delle intercettazioni chiaramente irrilevanti, e dovrà annotarle solo come “garbage”, roba inutile. Nel caso di Santa Marinella, tanto per intenderci, se pure i carabinieri avessero voluto essere infedeli alla loro funzione, non avrebbero potuto, in virtù dell’emendamento di FI, scrivere nel brogliaccio “video in cui il sindaco Tidei fa l’amore con una donna”. Non lo hanno comunque fatto, intendiamoci: quei video sono stati lecitamente e casualmente (certo, che fortuna) individuati dalla difesa dell’indagato Angeletti, acquisiti dunque agli atti dell’inchiesta e poi da altri illegalmente trasferiti sui telefonini di vari soggetti. È andata così. Ma di certo in future analoghe vicende non potrebbe eventualmente esserci alcuna “segnalazione maliziosa” infilata della polizia giudiziaria per favorire l’individuazione di materiale così distruttivo della privacy altrui. Non potrà in ogni caso accadere perché l’emendamento voluto dai berlusconiani, una volta in Gazzetta ufficiale, lo vieterà. E qui siamo al primo punto: oggi, nel dibattito in Aula sul decreto 105, che si concluderà domani con le votazioni, Pittalis e gli altri deputati di FI potranno dire “abbiamo avuto un’ottima idea, a insistere, con successo, su quegli emendamenti”. Il caso Tidei, dunque, è carburante per la battaglia forzista sulle intercettazioni. Non solo: può aiutare anche il guardasigilli Carlo Nordio. Perché l’altra deduzione facile facile che si può ricavare dall’ignobile gogna di Santa Marinella è la seguente: non ha tutti i torti chi da anni sostiene, a cominciare da Forza Italia, che Alfonso Bonafede ha stravolto gli equilibri del diritto, nell’estendere, con la “spazzacorrotti”, l’uso dei trojan ai reati contro la Pa. Sempre il caso di Santa Marinella infatti dimostra quali danni possano derivare già dalle intercettazioni tradizionali, condotte, come nel caso specifico, non con i trojan ma con le “care vecchie” telecamere nascoste e microspie ambientali; figurarsi cosa si può mai scoprire col malefico virus spia inserito nel cellulare dell’indagato, uno strumento che non ti filma solo in luoghi tutto sommato neutrali (come gli uffici del Comune) ma nella tua privatissima camera da letto. Perché il trojan ti segue, e ti spia, ovunque. Dopo una vicenda dolorosa ed esemplare qual è quella di Tidei, insomma, Forza Italia innanzitutto avrà un ulteriore, valido argomento nel battersi per eliminare i virus spia dalle indagini di corruzione. I fatti delle ultime ore mostrano quale sproporzione vi sia fra strumenti tanto intrusivi e il tipo di illeciti per i quali li si utilizza. Nello specifico, parliamo di un ristoratore che avrebbe corrotto politici per ottenere facilitazioni nella propria attività: davvero sarebbe stato il caso di rovinare due o tre famiglie, pur di facilitare un’inchiesta del genere col ricorso ai virus spia? Sul punto, gli azzurri dovrebbero tornare alla carica quando arriverà in Parlamento il più ampio intervento in materia di “ascolti” che dovrebbe essere presentato da Nordio nelle prossime settimane. In realtà il ministro potrebbe anticipare FI (il senatore berlusconiano Pierantonio Zanettin ha fatto inserire, nel testo dell’indagine conoscitiva di Buongiorno, la necessità di una “riflessione” sui trojan) e inserire lui stesso limitazioni sui virus spia nel secondo pacchetto della riforma penale. Il provvedimento allo studio di via Arenula avrà proprio le intercettazioni quale piatto forte, con due punti d’attacco: i costi dello strumento investigativo (regolati almeno in parte dall’emendamento di Enrico Costa al decreto 105) e appunto i trojan. Anche Nordio potrà citare il caso Tidei per dire che l’estensione dei “malware” alle indagini sulla corruzione è un’abnormità da cancellare. Vedremo. Certo è che da stamattina, per i garantisti della maggioranza, si apre un nuovo percorso certamente meno in salita dei precedenti. “Il ministero della Giustizia è occupato dalle toghe, ora basta” di Ermes Antonucci Il Foglio, 27 settembre 2023 La proposta del presidente del Consiglio nazionale forense Francesco Greco: “All’ufficio legislativo di Via Arenula sia destinato un numero adeguato di avvocati, siamo disponibili a farci carico dei loro compensi”. “Nel nostro paese esiste un grande corto-circuito costituzionale. I magistrati, chiamati ad applicare le leggi, siedono nell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia, cioè nel posto dove le leggi vengono fatte. Siamo di fronte a una violazione del principio di separazione dei poteri. Per questo motivo, il Consiglio nazionale forense chiede al ministro della Giustizia Carlo Nordio che all’interno dell’ufficio legislativo ci sia un numero adeguato di avvocati ed è disponibile a farsi carico dei compensi da destinare a quest’ultimi che, a differenza dei magistrati, non potrebbero altrimenti contare su una retribuzione propria”. A lanciare la proposta, intervistato dal Foglio, è Francesco Greco, presidente del Consiglio nazionale forense (Cnf), l’organismo di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura italiana. Una proposta destinata a far discutere il mondo politico e soprattutto quello togato. Greco ha fatto parte della commissione nominata da Nordio per l’elaborazione del decreto legislativo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, approvata ai tempi della ministra Cartabia. La commissione, composta da 26 membri, di cui diciotto magistrati, ha però annacquato gran parte delle novità previste dalla riforma, prima fra tutte proprio la riduzione del numero dei magistrati collocati fuori ruolo. A dispetto dei principi stabiliti dalla legge delega, la commissione ministeriale ha stabilito la riduzione del limite massimo di magistrati collocati fuori ruolo da 200 a 180. Un taglio risibile. “In commissione - afferma Greco - ho fatto notare che se l’intento fosse stato quello di ridurre i magistrati fuori ruolo soltanto di venti unità non ci sarebbe stato bisogno di una legge del Parlamento. Sarebbe bastata un’indicazione del ministro. Per questa ragione in quella sede ho proposto di ridurre il numero dei magistrati fuori ruolo da 200 a 100, per poi scendere progressivamente fino a 50. In questo modo 150 magistrati sarebbero tornati a lavorare nelle aule di giustizia. La mia proposta, però, è stata bocciata. Sarà forse perché in commissione eravamo soltanto tre avvocati. È così passata la riduzione di sole venti unità”. Greco non si è dato per vinto e agli inizi dello scorso giugno ha incontrato il ministro Nordio, al quale ha proposto l’introduzione di rappresentanti dell’avvocatura all’interno dell’ufficio legislativo del ministero “per rimuovere il cortocircuito costituzionale che c’è in questo momento, ma soprattutto per far sì che le leggi vengano scritte da chi va in udienza, da chi vive ogni giorno le disfunzioni della giustizia”. “Il ministro - spiega il presidente del Cnf - ha osservato che c’era un problema di bilancio perché, mentre i magistrati che vengono inseriti nell’ufficio legislativo continuano a percepire lo stipendio come magistrati, agli avvocati andrebbe garantita una retribuzione, visto che non potrebbero esercitare la professione. Fondi che il ministero non ha a disposizione. Se il problema è questo, ho spiegato che il Cnf è disposto a partecipare alle spese per dare un compenso agli avvocati collocati all’ufficio legislativo”. Non solo. “Siamo pronti a selezionare avvocati di altissimo livello culturale, scientifico e forense”, aggiunge Greco, che nei giorni scorsi ha ribadito la proposta inviando una nota a Nordio. Ha ricevuto risposta? “No - rivela Greco - ma incontrerò di nuovo il ministro venerdì prossimo e mi riservo di chiedergli se ha avuto modo di esaminare la nostra idea”. “Il contributo degli avvocati è fondamentale - afferma il numero uno del Cnf - Le riforme non possono essere scritte senza tener conto di ciò che accade nelle aule di tribunale. La riforma Cartabia, fatta con la promessa all’Europa di ridurre del 25 per cento la durata media dei processi penali entro il 2026, in realtà ha soltanto aggravato la situazione. Personalmente ho dei ricorsi presentati a marzo per i quali non è ancora stata fissata neanche la prima udienza”. Insomma, la sfida degli avvocati è lanciata. Chissà se Nordio, favorevolissimo alla riduzione dei magistrati fuori ruolo prima di diventare ministro, sarà pronto a coglierla. Turi (Ba). Visita nel carcere dove quasi nulla è secondo legge di Angela Nocioni L’Unità, 27 settembre 2023 153 detenuti in 113 posti. Gabinetto minuscolo in cella, senza bidet, acqua solo fredda e senza soffitto. “Noi nel lavandino dobbiamo fare tutto: anche lavare i piatti”. Il grigio asfissiante della stanza. Il dente che pulsa. L’antidolorifico che non arriva. La rabbia che monta dentro. Di là dal tavolino la voce chirurgica, distante, dell’agente di guardia: “La pasticca te l’andiamo a prendere dopo”. La reazione: il tavolino che vola, uno strattone alla divisa. Le urla. Braccia che immobilizzano. Parole sottovoce. L’allarme che corre su per le scale: aggressione, aggressione. *** Ormai è successo, era otto giorni fa. Adesso c’è solo il rumore del respiro. Da otto giorni soltanto il rumore del respiro. La punizione dell’isolamento. Una porta si apre, passi nell’acustica gelida del corridoio. La funzionaria del carcere in un sussurro: “È un borderline, è arrivato da poco. È in isolamento disciplinare”. Esita. “Un peccato, stava trovando un equilibrio qua dentro. Viene da abusi di alcool e cocaina. Non ha famiglia, non ha nessuno”. Due parenti in realtà ce l’ha. Un fratello, in carcere a Bari. E uno zio. È lo zio che l’ha denunciato. Lui è in fondo al piano terra, curvo, seduto su un lettino da infermeria sotto una finestrella piccola piccola vicino al soffitto. Si tira su, poggia i piedi a terra con prudenza. Cammina verso le sbarre: “No, non mi hanno menato, no. Sto meglio, grazie”. Tra i suoi occhi e la stanza vuota sembra esserci una nube di ovatta. “Non faccio niente qui dentro. Vorrei fare la scuola, non so se posso ora che ho combinato questo problema”. “Il dente fa male”. Un dentista? “Non mi ha visto, è venuto ma non mi hanno chiamato”. Faccia stupita della funzionaria. Minuta, gentile, parla sempre a bassa voce: “Il dentista non ti ha visitato?” Lui la guarda, sorride: “No, non mi hanno chiamato”. Farmaci? “Mi danno il Rivotril”. Rivotril: benzodiazepine. Il Rivotril sì, il dentista no. *** Il carcere è un edificio ottocentesco in pietra al centro di Turi, paese di case bianche a due piani a trenta chilometri al sud di Bari. Doveva essere un convento per clarisse, ma le suore qui non sono mai entrate. Requisito dal demanio, è carcere dal 1880. Detenuti quasi tutti italiani, tutti poveri. Molti sono dentro per rapina. 8 tentati suicidi, l’ultimo ad agosto. “Non aveva dato segni”, la voce incerta della direttrice (reggente, sta qui a mezzo servizio, è titolare al carcere di Brindisi). Un vecchio agente, preso da parte: “Ci provano ad uccidersi, certo che ci provano e non gli si può togliere tutto, provano a impiccarsi o a soffocarsi con le buste”. Altro agente: “Non gli danno niente da fare ai detenuti, con il fatto che la prigione è vecchia un posto per lavorare non lo creano, la scuola di ragioneria c’è sì: ma sono solo due ore”. Questa è una casa di reclusione con condannati a più di 5 anni, per legge dovrebbero poter lavorare. Meno del 15% di loro lavora. Per non più di tre mesi all’anno. *** Odore di candeggina. Scala stretta chiusa da un cancello di sbarre nere. L’agente di polizia penitenziaria, alto, magro e infastidito, ha un mazzo di incredibili grandi chiavi color oro. Altro cancello. Altra chiave. Un lungo corridoio grigio. Mani maschili si allacciano alle sbarre. I vecchi restano seduti, guardano a terra. I giovani si affacciano, cercano. Misurano tutto con gli occhi socchiusi come i gatti. Alcuni chiamano con un cenno della mano. Gli sguardi si coprono di una sottomissione assoluta, di una totale riverenza. La necessità di affidarsi agli sconosciuti entrati in carcere, chiunque siano. Una voce dal fondo: “Le noccioline non ce le tirate?” *** È molto giovane, non conosce nessuno ed è nero: tre cose pericolosissime in un carcere. È arrivato in Italia in barcone. È del sud del Ghana. Ha gli occhi spaventati di un bambino che non sa dov’è e non vuole piangere. A gesti simula di avere un timone in mano. “Detto che io guidavo barca, io capitano, prima chiuso a Bari, poi portato qui”. Fa il gesto del fucile sulla testa di un compagno di cella, congolese. “In Libia detto me: tu devi guidare o tu muori”. Quanti eravate? “86”. Chi vi ha trovato? Si illumina un istante: “Open arms, salvati, loro buoni”. (Sono 1.124 le persone detenute in Italia come scafisti - dati aggiornati al 23 marzo 2023 - quelli a cui “dare la caccia per tutto l’orbe terracqueo”. A loro si è aggrappata Giorgia Meloni anche al Palazzo di vetro per non affogare. Di solito sono i più poveri del gommone, mai i trafficanti). *** Due ritagli di Arsenio Lupin, due poster identici della stessa donna nuda, un Vangelo stropicciato, La storia di Elsa Morante e Il Sistema di Sallusti e Palamara, adesivi di piccoli alieni verdi, bottiglie di plastica tagliate come posacenere. Un cartello a penna in corridoio: “Vietato radersi sotto la doccia”. Fuori c’è sole. Il sole pieno, giallo, radioso di un mezzogiorno di settembre. Dentro cola un filo di luce grigia, sporca. La metà delle celle non vede fuori, la finestra oltre le due file di sbarre è chiusa da una rete fitta e dalle “gelosie”: vetri smerigliati pesanti, non lasciano passare nemmeno le ombre. Vietati per legge. Una frase in un soffio: “Sono due anni e mezzo che non vedo le stelle”. *** Quasi niente nel carcere di Turi è secondo la legge. Il massimo dei detenuti consentito è di 113 persone. Ce ne sono 153. Anche sei in una cella. Letti a castello. Un gabinetto minuscolo senza bidet, acqua solo fredda e aperto in alto: senza soffitto. “Noi nel lavandino dobbiamo fare tutto: anche lavare i piatti”. L’agente sta sempre a meno di un metro e ascolta. Mi scusi, non potete mettere un soffitto di fortuna sui cessi? “Quello che lei chiama volgarmente cesso è un bagno e loro sanno di essere fortunati perché in altri posti non c’è. Chi deve provvedere semmai è il dipartimento…” accarezza le chiavi alla cintola come fossero il suo levriero al guinzaglio. *** Un uomo alto, con gli occhi enormi e le stampelle: “Io non posso sedermi mai, mangio in piedi, faccio tutto in piedi, anche in bagno la faccio in piedi, chiedo scusa, ma come spiego, mi fa tutto lui, il mio piantone, mi accompagna in bagno, mi aiuta, mi rifà il letto. Noi non siamo bestie, perché vivere come bestie? Ho sbagliato e pago, ma il giudice mi ha condannato alla prigione, non a vivere così. Mi vede, io dove vado con queste gambe?”. Nel gergo carcerario il piantone non è il secondino - la “guardia” - ma un compagno di cella che, in cambio di pochi soldi, assiste o fa le pulizie per un altro detenuto. Dice il piantone: “Lui sta male. Deve camminare, per la sua malattia lui dovrebbe muoversi e come fa in tre metri?”. *** Chi ha figli minori deve vederli in un’area verde, la norma vige in Italia dal 2000. La direttrice ha detto che questo carcere ha un’area verde. Nel cortile tra due grossi muri c’è una fila di aiuole di cespugli separati da reti. Ma non c’è mai entrato nessun detenuto. Un ragazzo sulla trentina, senza figli: “Gli incontri li fanno in una stanza colloqui, tutti insieme, non si muovono là dentro, bambini, adulti, un gran casino, non c’è nemmeno posto per sedersi”. Il magistrato di sorveglianza? “Mai visto”. Un funzionario del penitenziario a occhi bassi conferma: “Non vengono”. *** C’è una sola cella vuota in tutto il carcere. È nella prima sezione. Primo piano, lungo il corridoio, a destra. Un letto e un tavolino dove Antonio Gramsci scrisse i suoi Quaderni . È stato qui 5 anni e 4 mesi, dall’agosto del ‘28 al ‘33, matricola 7047. In fondo al corridoio, la cella che fu di Sandro Pertini. Ora ci stanno in cinque. La chiave d’oro apre la sala della palestra, c’è anche quella. Cyclette, quadro svedese, macchinari per i pesi. Tutti con tre dita di polvere dentro una stanza chiusa a più mandate. “Non viene il medico per le visite”, dice un accompagnatore. “Stiamo mettendo le telecamere”, dice la guardia. “Dicono che non possiamo usare la palestra perché non c’è il trainer” racconta un detenuto. “Io sono qui dal 2019 e non l’ho mai vista aperta” spiega un altro. Un maghrebino in canottiera: “Io faccio i pesi da solo con le bottiglie d’acqua. Stavo al Cpt di Brindisi, tante botte, mi portavano in una stanza senza telecamere e mi menavano con i caschi, una volta con i caschi e il martello, allora ho sfasciato cose e m’hanno messo in carcere, meglio”. La sua figlia più piccola aveva 5 mesi, ora ha 9 anni. Vive con la madre a Bolzano, non lo vede mai. *** Un detenuto pugliese si vanta di non esser qui per droga: “Spaccio no eh, io solo rapina”. Appesa a una parete di una cella dove sono in quattro, il più grande è di Bari, c’è un modellino perfetto di un veliero. “L’ha fatto lui, con pezzetti di carta e cartone”. “Gli ho insegnato io, ho fatto qua dentro una barca lunga due metri. Era bellissima. L’abbiamo fatta uscire, lei”. Bologna. Carcere minorile del Pratello: “Anche materassi di fortuna sul pavimento” di Noemi di Leonardo bolognatoday.it, 27 settembre 2023 Mancanza di un comandante titolare, cronico sovraffollamento, minori con problematiche psichiche e penuria di personale. È quanto ha riscontrato la delegazione di Fp Cgil che nei giorni scorsi ha condotto una visita sui luoghi di lavoro dell’Istituto Penale per Minorenni di via del Pratello: “Tale carenza ha costretto la Direzione dell’Istituto a dover sospendere alcune tra le attività trattamentali destinate ai minori”, spiegano i sindacalisti Salvatore Bianco e Antonino Soletta. Durante il giro, la delegazione sindacale avrebbe riscontrato anche gravi carenze strutturali, come mancanza di letti, di materassi e, non da ultimo, scarsa pulizia, e ancora camere senza finestre, cancelli mancanti o rotti: “Ad alcuni minori il posto letto è attualmente garantito con un materasso di fortuna posto sul pavimento” dichiara Fp Cgil “due minori erano rimasti bloccati all’interno della loro camera dalla sera precedente, per la rottura della serratura della porta blindata e, proprio durante la visita, era in atto l’intervento della ditta di ripristino”. “Personale provato e scoraggiato” - Non mancano i disagi per il personale di polizia penitenziaria: “Telefoni e radio in dotazione sono mal funzionanti e diversi posti di servizio non adeguatamente coperti per la mancanza di personale” mentre quello presente “ci è apparso provato, scoraggiato ed esasperato dalle attuali proibitive condizioni di lavoro, per le quali sono costretti ad effettuare un numero spropositato di ore di lavoro straordinario, doppi turni ed in qualche caso a proseguire il servizio dopo il turno di notte”. “Le circa 30 unità di personale devono giornalmente assicurare la sorveglianza nelle sezioni e nei vari posti di servizio dell’Istituto, servizi di scorta dei detenuti in udienza presso il Tribunale, eventuali scorte presso gli ospedali cittadini, la vigilanza sui minori che fruiscono delle ore d’aria all’aperto che, soprattutto nell’ultimo periodo, viene assicurata da una sola unità di personale, e la vigilanza sulle varie attività trattamentali che si svolgono all’interno dell’Istituto, ma allocate in spazi spesso distanti tra loro” osserva il sindacato. Nel pomeriggio di martedì 19 settembre, infatti, un minore detenuto avrebbe saltato in un cortile della struttura per poi darsi alla fuga, salvo poi essere riacciuffato dalla Polizia penitenziaria. Qualche giorno prima, si era verificato un tentativo di suicidio, un ragazzo aveva tentato di togliersi la vita impiccandosi ed è stato salvato da alcuni detenuti, anche loro minorenni. Fp Cgil osserva che “l’Istituto è ripiombato in una realtà peggiore rispetto a quella vissuta circa 30 anni fa, soprattutto per l’enorme carenza di personale che sta vivendo in questo periodo rispetto ai posti di servizio che andrebbero ricoperti per garantire la sicurezza interna e l’incolumità degli ospiti; abbiamo anche registrato la presenza di posti di servizio strategici quali la sala regia dotata di telecamere più o meno funzionanti, ma non sorvegliate. Il rapporto numerico tra operatori e minori che era un tempo di 2:1, per effetto dell’apertura del secondo piano detentivo senza un adeguato rafforzamento numerico del personale, è oramai quasi di 1:1” quindi chiede “DI prendere in mano una situazione che rischia seriamente di non poter garantire i diritti più elementari ed una giusta e dignitosa detenzione per i minori, tantomeno adeguate e dignitose condizioni di lavoro per tutto il personale che presta servizio nella struttura”. Quindi incremento dell’organico di polizia penitenziaria e attenzione per le figure carenti di educatori ed assistenti sociali: “È quanto mai necessaria l’assegnazione di un Comandante titolare o, in subordine, per non meno di 6 giorni alla settimana dell’attuale, per dare al personale un indispensabile punto di riferimento. Non si può non rappresentare la necessità di diminuire drasticamente il numero dei minori ristretti, con l’allontanamento di quelli più problematici, viste anche le contenute dimensioni della struttura che non consentono di poter garantire una qualità del servizio senza una misura. Non appaia irriguardoso, perché davvero non lo è, concludere girando la preghiera che ci è stata rivolta dal medico in servizio nella struttura che ha lamentato l’assenza di una poltrona odontoiatrica per poter condurre gli interventi quotidiani più urgenti e indifferibili”, concludono. Busto Arsizio. La prevenzione oncologica entra nel carcere: “Nessuno deve sentirsi trascurato” varesenoi.it, 27 settembre 2023 La Lilt ha avviato le visite specialistiche: i primi screening hanno già interessato il personale amministrativo e gli agenti di Polizia penitenziaria. A ottobre si terranno i controlli per i primi venti detenuti che si sono prenotati, a cui se ne potranno aggiungere altri. “La casa circondariale è parte integrante del territorio”, ricorda la direttrice Pitaniello. La prevenzione entra nella casa circondariale di Busto Arsizio. La sezione provinciale di Varese della Lilt (Lega italiana per la lotta contro i tumori) ha infatti avviato delle visite specialistiche gratuite rivolte ai detenuti e ai dipendenti che operano all’interno dell’istituto. I primi screening hanno già interessato il personale amministrativo e gli agenti di Polizia penitenziaria. A ottobre si terranno le visite dei primi venti detenuti che si sono prenotati, a cui ne seguiranno altre nel caso di nuove richieste. Nel frattempo, sono già stati realizzati due momenti di formazione, uno rivolto al personale, l’altro a un’ampia rappresentanza della popolazione carceraria di Busto. “Una bellissima iniziativa - osserva la direttrice della casa circondariale Maria Pitaniello -. Un progetto all’insegna dell’interazione e dell’integrazione col mondo dell’associazionismo, che in questo territorio è vivace. Vi è un duplice valore sociale: il valore della cura del sé attraverso la prevenzione sanitaria e quello dell’attenzione a tutto il nostro contesto, detenuti e personale. A maggior ragione in una fase storica complessa, caratterizzata da sovraffollamento ed eventi critici. Il diritto alla salute è costituzionalmente garantito”. Ivanoe Pellerin, presidente della Lilt provinciale, presentando il progetto nella sala meeting della struttura di via per Cassano ha ricordato come la pandemia abbia rallentato i controlli. In Italia quest’anno i nuovi casi di tumore stimati sono 390.700. Ma, a fronte di cifre che creano allarme, incoraggia sapere che cresce il numero dei guariti, che nel 2020 sono stati 3,6 milioni. “Ci auguriamo che le previsioni siano sbagliate - ha aggiunto Pellerin. Ma dobbiamo in ogni caso rafforzare le azioni per contrastare il ritardo diagnostico”. Anche all’interno del carcere, affinché “nessuno possa sentirsi trascurato o “lasciato indietro”. Eugenio Porfidio, direttore generale dell’Asst Valle Olona, ha rimarcato che “la salute non ha confini o restrizioni. È individuale ma anche collettiva. Tutti devono partecipare alla prevenzione, nessuno escluso”. Tanto che la dottoressa Pitaniello ha invitato i detenuti presenti alla conferenza stampa a farsi portavoce di quanto ascoltato con i compagni di reclusione o nelle occasioni di dialogo con i familiari: “Date l’esempio e stimolate chi vi è vicino”, il messaggio. Questa campagna, come detto, non è rivolta solo alle persone recluse: tutto il personale femminile dell’istituto ha risposto alla chiamata; una cinquantina gli agenti di Polizia penitenziaria che hanno aderito, per un totale di 116 visite richieste. “Una buona partecipazione - sottolinea la comandante Rossella Panaro -. E un bel gesto di attenzione: sapere che qualcuno all’esterno si prende cura di noi è una grande cosa. La salute produce sicurezza. A volte noi agenti riteniamo che la divisa ci possa preservare da qualsiasi male. Purtroppo non è così, in passato colleghi ci hanno lasciato a causa di tumori”. Ora tocca ai detenuti: “Abbiamo organizzato due ambulatori che inizieranno il 5 e 6 ottobre con le valutazioni dei venti pazienti prenotati - spiega Ezia Iorio, coordinatore sanitario -. Man mano che arriveranno nuove richieste, andremo avanti per tutto il mese”. L’iniziativa, ha ribadito la direttrice Pitaniello, testimonia che l’istituto di Busto è parte integrante del territorio. Lo ha evidenziato anche l’assessore all’Inclusione sociale Paola Reguzzoni, anticipando critiche fin troppo prevedibili: “La Lilt fa prevenzione costantemente, per tutti - ha ricordato -. Questa iniziativa non toglie nulla a nessuno. La salute non è un privilegio che va conteso, è un diritto di tutti”. E questo progetto ha anche una funzione educativa: “Chi abita queste mura non sempre in passato ha avuto rispetto della propria vita. La prevenzione è proprio un modo per tornare a rispettare se stessi”, ha detto l’assessore. Da ciò l’invito ai detenuti che l’ascoltavano: “Vincete la paura e fatevi visitare”. Ferrara. All’Università una Giornata dedicata ai grandi temi della giustizia penale unife.it, 27 settembre 2023 Giornata dedicata ai grandi temi della giustizia penale, organizzata dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara. Alle ore 10 sarà presentato il libro “Giacomo Matteotti fra diritto e politica” curato da Daniele Negri, Professore ordinario di Diritto processuale penale del Dipartimento di Giurisprudenza di Unife. L’iniziativa si colloca nell’ambito del centenario dell’omicidio del parlamentare socialista, che cadrà nel 2024, ed è patrocinata dal Comitato del Polesine istituito per la ricorrenza nonché dalla casa-museo di Fratta, con la quale il Dipartimento di Giurisprudenza, anche grazie alla propria sede di Rovigo, svolge una intensa attività a carattere storico-culturale. Viene ricordata la figura di Giacomo Matteotti quale studioso del diritto e della procedura penale, attraverso l’intervento di Gian Paolo Romanato, storico e presidente della casa-museo, che collocherà il Matteotti giurista nel quadro delle drammatiche vicende politiche dell’epoca. Il convegno proseguirà con la relazione di Francesco Viganò, giudice costituzionale, che attualizzerà il pensiero di Matteotti riguardo alla recidiva, cui il martire polesano consacrò la sua opera maggiore, sulla scorta delle più recenti pronunce in materia della Corte costituzionale. Sarà quindi Giovanni Canzio, Primo Presidente emerito della Corte di cassazione, a soffermarsi sulle pagine del libro in cui sono riscoperti i saggi di Matteotti concernenti i poteri della Suprema Corte, pubblicati in vista di un trattato che purtroppo non vide mai la luce. La Professoressa Francesca Ruggieri, Ordinaria di Procedura penale nell’Università dell’Insubria, chiuderà l’incontro attraverso la rilettura aggiornata dello scritto in cui Matteotti espresse il proprio pensiero attorno al ruolo, tuttora controverso, del magistrato del Pubblico ministero nel processo penale. Nel pomeriggio, dalle ore 15, si terrà la presentazione dei risultati della ricerca “Uni4Justice”, di cui Daniele Negri è responsabile scientifico per l’Ateneo. Il progetto, finanziato dal Ministero della Giustizia e coordinato dall’Università di Bologna, riunisce le Università che operano nei distretti giudiziari di Trento, Bologna, Padova, Venezia e Ancona. Si discute dell’Ufficio per il processo penale, articolazione organizzativa recentemente introdotta, con il relativo personale amministrativo, in funzione di ausilio al lavoro dei magistrati nell’ottica di ridurre i tempi di durata delle cause e il carico degli affari giudiziari che grava sui tribunali. Il gruppo di ricerca, composto da giovani assegniste/i e borsiste/i, nel corso di un anno e mezzo ha raccolto i dati rilevanti e sviluppato un modello di Ufficio per il processo (definito come “ben temperato” dal titolo del convegno) che viene ora sottoposto al confronto con i principali attori del contesto giudiziario territoriale: il Presidente del Tribunale di Ferrara, Stefano Scati, Ombretta Volta, Sostituto Procuratore della Repubblica, ed Eugenio Gallerani, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Ferrara. Il Viceministro della Giustizia, senatore Francesco Paolo Sisto, concluderà i lavori facendo il punto sulla sperimentazione dell’Ufficio per il processo penale a livello nazionale e tracciandone le linee future. La serata vedrà animarsi, nel giardino di Palazzo Giordani, la discussione intorno al processo penale che ci attende nei prossimi mesi. La recente riforma “Cartabia” sta mettendo alla prova gli operatori della giustizia con una serie di innovazioni controverse e di non agevole applicazione pratica. Sarà di spunto al dibattito la nuova edizione, appena uscita, del manuale “Fondamenti di procedura penale”, opera concepita per la preparazione di studenti, avvocati e magistrati. Insieme al Viceministro della Giustizia, la conversazione delle 18.30 avrà per protagonisti accademici di rango (i Professori Luca Marafioti dell’Università di Roma Tre e Francesco Morelli dell’Università di Bergamo), magistrati di grande personalità (Carlo Negri, Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ferrara), principi del foro (l’avvocato Marco Linguerri, Presidente della Fondazione Forense Ferrarese), giovani praticanti avvocati che frequentano la Scuola forense (Simona Calabria e Michele Martinucci) e studentesse laureande del corso di laurea magistrale in Giurisprudenza (Giulia Boldrini e Sara Tosi). Tutte e tre le iniziative ruotano attorno all’attività didattica e scientifica dal Professor Daniele Negri, di recente nominato tra i componenti della Commissione per la riforma del processo penale istituita presso il Ministero della Giustizia, di cui il docente ferrarese presiede la prima sottocommissione in materia di soggetti, atti e misure cautelari. Follonica (Gr). “I mostri ci somigliano”, un documentario che parla di abusi nelle carceri ilgiunco.net, 27 settembre 2023 Giovedì 28 settembre la sala Allegri del Teatro Fonderia Leopolda ospita il documentario “I Mostri ci somigliano”, di Chiara Migliorini. La proiezione sarà preceduta da un incontro pomeridiano sul tema della violenza nelle carceri. L’incontro si terrà a partire dalle 17.30, con proiezione continua del documentario a partire dalle 21. Nato grazie all’esperienza positiva del teatro in carcere sull’isola di Gorgona, il documentario (Ita 2022, 13’, regia di Mattia Mura) tratta il tema degli abusi nelle carceri, tra disagio sociale, abuso e violenza. Vincitore del primo premio al Cmcs MCS Wall Of Fame Film Festival di Lisbona. L’appuntamento fa parte della rassegna “Parade!” curata dal Cantiere Culturale e dall’Amministrazione comunale di Follonica. Dalle 17.30 interverranno Giuseppe Renna, direttore della casa circondariale “Le Sughere” di Livorno e sezione distaccata Gorgona, Barbara Radice, funzionaria giuridica pedagogica nella casa di reclusione di Gorgona. Marco Solimano, garante dei detenuti del Comune di Livorno e Gianfranco Pedullà, regista e direttore artistico del Teatro delle Arti di Lastra a Signa. Moderano Chiara Migliorini e Salvatore Acquilino. Alle 19 “Bastiano”, dialogo con Sergio Sgrilli e Valentina Santini sul personaggio tratto da “I Cariolanti” di Sacha Naspini. Alle 20.30 apericena in teatro. Proiezione del documentario dalle 21. Alle 21.30 interverranno il regista Mattia Mura, l’attrice e regista Chiara Migliorini e gli attori dello spettacolo. Per prenotazioni: Iat Follonica, via Roma 49, 0566-52012, touristinfo@comune.follonica.gr.it. Lettere dal carcere. Quel difficile dialogo tra detenuti e non di Giancarlo Visitilli Corriere del Mezzogiorno, 27 settembre 2023 Il dentro e il fuori, il qui e l’altrove. Senza distinzioni fra reclusione e libertà, nella consapevolezza che si può essere più liberi dentro, molte volte. E tale libertà ha utilizzato Marilù Ardillo in “Parlami dentro. Oltre il carcere: lettere di ®esistenza” (Edizioni La Meridiana). Una pubblicazione che ha messo in relazione cittadine e cittadini “liberi” e detenuti, condividendo attraverso la scrittura le proprie catene e prigioni. È un progetto della Fondazione Vincenzo Casillo, impegnata da anni in diverse azioni socio-culturali a sostegno dell’istruzione. A giusta ragione, anche lo scrittore Paolo Di Paolo, che cura la prefazione al libro, utilizza termini come “delicatezza, pudore rispettoso” a riguardo di scritti che rendono “visibile l’invisibile”. Perché le lettere raccolte da Ardillo si rivolgono a un destinatario sconosciuto ma tutte fungono come anelli di una catena umana che, di lettera in lettera, contribuisce a ricostruire l’identità di persone che hanno perso tanto, soprattutto in termini di dignità, private della libertà personale. Dall’autore radiofonico che avverte l’esigenza di “sfondare la porta”, sentendosi protetto “dal suo essere ristretto in carcere”, premunendosi di non “essere giudicato troppo per quello che sto per scriverle”, a Rosalba, che ammette di “curarmi con le parole per guarire”, nella consapevolezza che le parole “salvano”. Tutte le lettere sono un’alternanza di emozioni profonde che trasfondono vita, coraggio, interesse per il vissuto di chi legge e di chi scrive. Una vera e propria corrispondenza d’amorosi sensi, che passa in rassegna anche le esperienze di chi, da recluso fuori, in occasione dell’emergenza Covid, comunque fa la differenza, rispetto a chi è sempre in una condizione di mancanza di libertà. In tante lettere si avverte un senso di pudore da parte di chi scrive, quando si ammette di “non voler dare consigli”: a chi, perché, rispetto a cosa, se la vita di chi è recluso non ha nulla da spartire con il respiro di chi guarda il cielo? La descrizione dei tempi e degli spazi diventano ora claustrofobia e perdizione, per poi rivelarsi, almeno nell’immaginazione fra chi legge e chi scrive, desiderio di volo, respiro pieno. È in questo districarsi del concetto di libertà che Parlami dentro è un libro prezioso. Un libro di parole resistenti, capaci di scrivere sulla pelle di chi legge e di chi scrive quel sentimento che comincia con il volersi avvertire dentro, perché le parole possano andare dove è giusto che aprano e scardinino porte, cancelli e catene. Scuotendo gli umani. Carceri e migranti, il messaggio di Napolitano di Luigi Manconi La Repubblica, 27 settembre 2023 Due piccole note a margine di una vita ricca e complessa, controversa e piena, quale quella di Giorgio Napolitano. 1) L’8 ottobre del 2013 l’allora Presidente della Repubblica inviò un messaggio alle Camere. Un eccezionale documento, senza precedenti nella storia dei discorsi dei capi di Stato italiani, interamente dedicato alle condizioni del sistema penitenziario del nostro Paese. Napolitano richiamava, faceva propria e commentava la sentenza della Corte europea dei diritti umani (Cedu) dell’8 gennaio del 2013, che aveva accertato la violazione, a opera dello Stato italiano e dei suoi apparati, dell’art. 3 della Convenzione europea. Articolo che “pone il divieto di pene e di trattamenti disumani o degradanti” a danno dei detenuti. Il testo del messaggio è potente e preciso, circostanziato e approfondito. Sulla scorta della sentenza della Cedu si fa un’analisi puntuale dei mali delle carceri italiane e si affronta il tema delle possibili soluzioni: provvedimenti congiunturali e strategie di lungo periodo. Tra le seconde, citando anche una raccomandazione del Consiglio d’Europa, Napolitano parla della necessità di ricorrere “il più possibile” alle misure alternative alla detenzione e di riorientare la politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione. Ma il Capo dello Stato si spinge oltre e scrive della possibilità di emanare provvedimenti di indulto e amnistia. Napolitano è pienamente consapevole delle critiche, se non della diffusa ostilità, nei confronti di misure di clemenza, ma “di fronte a precisi obblighi di natura costituzionale e all’imperativo morale e giuridico di assicurare un civile stato di governo della realtà carceraria”, ritiene giunto il momento di riconsiderare la questione. E di valutare l’opportunità di adottare “atti di clemenza generale”. Questo, in estrema e brutale sintesi, il senso del messaggio alle Camere. Nell’introduzione dello stesso, il Presidente della Repubblica parlava della “non felice esperienza di formali “messaggi” inviati al Parlamento senza che a essi seguissero, testimoniandone l’efficacia, dibattiti e iniziative, anche legislative, di adeguato e incisivo impegno”. La previsione di Napolitano si rivelò giusta: al suo messaggio non fece seguito alcuna iniziativa legislativa, ma nemmeno lo straccio di un dibattito in aula. 2. Nel 1998 Giorgio Napolitano, allora ministro dell’Interno, unitamente alla ministra della Solidarietà sociale, Livia Turco, elaborò un importante provvedimento di politica per l’immigrazione. Con esso, tra l’altro, venivano istituiti i Centri di identificazione ed espulsione (Cie) per migranti irregolari, che - attraverso vari cambiamenti e nomi diversi - corrispondono agli attuali Centri per il rimpatrio (Cpr). Fui tra coloro che si opposero votando contro quella parte della normativa. Ne nacque un aspro dissidio con Napolitano che durò alcuni anni. Quasi due decenni dopo, Napolitano, nell’ultimo scorcio della sua Presidenza, mi affidò un messaggio - letto da Ricky Tognazzi nell’emozione generale - destinato alle persone trattenute nel Cie di Ponte Galeria. Le parole del Capo dello Stato, nel giorno di Capodanno del 2015, in un nonluogo della desolazione contemporanea. I giovani, pochi e marginali: i nuovi nemici perfetti di Ivan Severi* Il Manifesto, 27 settembre 2023 Si riuniscono in gruppi rumorosi, ricorrono di frequente a insulti e blasfemità, usano termini offensivi, razzisti e sessisti, il loro atteggiamento è provocatorio e può capitare che risultino maneschi, al limite della violenza. Li vediamo all’opera, in città, nei piccoli centri urbani e anche in zone rurali dalla densità abitativa rarefatta. Sono le bande di anziani, un fenomeno in costante crescita, in un paese come l’Italia, dove l’età media è di 48 anni e oltre un quarto della popolazione è ultrasessantacinquenne. Una silente rivoluzione: mai nella storia dell’umanità si erano date le condizioni non solo per un tale allungamento dell’età di vita, ma anche perché si creasse una così forte sproporzione tra anziani e nuovi nati. Una forza tale da incidere de facto sulla nostra percezione della normalità. Nonostante il loro numero sempre più esiguo i giovani costituiscono un polo d’attrazione irresistibile per i media italiani, tanto che si è ritenuto necessario trovare una categoria più specifica della generalista e già discriminatoria youth gang utilizzata in tutti gli stati occidentali. In Italia si è coniata la dicitura “baby gang”, forse con l’intenzione di suscitare maggiore scandalo richiamando l’accostamento tra innocenza e devianza. Sono esseri rari i giovani, forse per questo fa uno strano effetto vederli raggruppati, a ostentare atteggiamenti così lontani da quanto ci aspetteremmo: insolenti, insoddisfatti, provocatori. La criminalizzazione della “gioventù” accompagna la categoria fin da quando è stata forgiata, in quella fase specifica della modernità tratteggiata da Jon Savage: inurbamento, progressivo ampliamento dell’accesso alla scolarizzazione (e della lunghezza del tempo dedicato alla formazione) unite a modalità di consumo inedite che, oltre a essere identitarie, rappresentano l’unico livello di presenza pubblica e quindi di eventuale manifestazione del dissenso per chi non partecipa del tessuto produttivo. Sono stato parte del gruppo di ricerca che si interrogava sul fenomeno dei comportamenti a rischio di ritiro sociale nell’ambito di un progetto del Gruppo Abele che ha dotato di un set di quesiti appositi l’indagine ESPAD® condotta in Italia dal CNR. Diverso tempo è stato speso nel riflettere sui pregiudizi che caratterizzavano un gruppo di adulti cresciuti tra gli anni ‘80 e ‘90 che cercavano di comprendere forme e modalità di socialità di nativi digitali per i quali la suddivisione concettuale tra ambiente online e ambiente offline non ha alcun significato. Pregiudizi che emergono regolarmente nei focus group territoriali che precedono l’attivazione dei progetti di educativa di prossimità che, come Università della Strada, promuoviamo in vari territori. Adulti che tracciano i confini di ciò che è lecito e ciò che non lo è, proiettando aspettative nei confronti dei giovani frutto di un mix tra nostalgia adolescenziale e giudizio morale. Ai giovani è lasciata la possibilità di accesso allo spazio pubblico ma secondo modalità precise, che li vogliono soggetti docili e passivi, né troppo assenti, né troppo presenti. È sotto gli occhi di tutti come la normalizzazione del comportamento giovanile abbia subito un’impennata dal punto di vista normativo: dall’introduzione del reato di “Rave Party” alle recenti negazioni di accesso sia allo spazio, inteso in senso concreto tramite il daspo urbano, che allo spazio-tempo della gioventù, con la progressiva estensione ai minori di misure pensate per gli adulti. Se ancora non sono scomparsi dal punto di vista anagrafico, a minacciare la sopravvivenza dei giovani contribuiscono una retorica e una politica sempre più pervasive che rischiano di farli scomparire come entità, rendendoli semplici proiezioni di ciò che una società di ultracinquantenni ha immaginato per loro. *Antropologo, Università della Strada del Gruppo Abele Migranti. Cambiano i nomi, rimane sempre la detenzione amministrativa di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 27 settembre 2023 L’ennesimo decreto. I nuovi “Centri” sono luoghi di confinamento non sottratti alla giurisdizione italiana e internazionale. E dietro tante definizioni ci sono persone, non merce illegale da smaltire. Dalla istituzione dei Centri di permanenza temporanea ed assistenza (CPTA) introdotti nel 1998 dalla legge 40 (Turco-Napolitano), abbiamo assistito ad una continua modifica dei termini usati dal legislatore per definire quelli che erano, e rimangono ancora oggi, centri di detenzione amministrativa, strutture nelle quali gli stranieri privi di un titolo di soggiorno vengono trattenuti in attesa di un rimpatrio con accompagnamento forzato, dunque senza avere commesso reati, ma solo per la mancanza di un visto di ingresso o di un permesso di soggiorno. Nei centri di detenzione possono essere trattenuti anche richiedenti asilo, mentre è espressamente vietato l’internamento di minori non accompagnati. Adesso il governo si prepara ad imporre con un nuovo decreto sicurezza il trattenimento amministrativo dei minori che siano ritenuti, ad un sommario accertamento di sedici anni. Una previsione che risulta in violazione di principi affermati nella legislazione italiana e nelle Convenzioni internazionali che garantiscono “il superiore interesse del minore”. Le convenzioni internazionali, come la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, e le Direttive europee vietano il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo solo in virtù del loro ingresso irregolare e della presentazione di una istanza di protezione, ma a partire dal 2015, con l’avvio dei centri Hotspot e con il ricorso alle categorie di “migranti economici” e di “paesi di origine sicuri”, i centri di detenzione sono diventati luoghi di negazione del diritto di asilo, e snodo centrale del sistema di contrasto dell’immigrazione “illegale”, che riproduce clandestinità attraverso misure repressive adottate sotto la spinta dei sondaggi elettorali. Le prassi di polizia si sono così orientate al prolungamento della detenzione amministrativa, poi sancito periodicamente dai decreti sicurezza dei governi di destra, anche quando era evidente che non si sarebbe mai effettuato un rimpatrio forzato. In questo caso la Direttiva rimpatri 2008/115/CE prevede la liberazione immediata. Il meccanismo delle convalide giurisdizionali si è andato svuotando nel tempo per il ricorso alle procedure in videoconferenza, con le difficoltà di accesso per le associazioni, con tempi sempre più brevi per partecipare alle udienze e depositare documenti. Fino alla introduzione delle procedure accelerate in frontiera (e del trattenimento amministrativo generalizzato) per i richiedenti asilo provenienti da paesi terzi sicuri. Norme approvate dal Parlamento in assenza di una copertura da parte delle corrispondenti normative dell’Unione Europea. Come rileva adesso la Commisione europea a proposito della garanzia finanziaria richiesta in alcuni casi per evitare la detenzione. A tutti i richiedenti asilo vanno comunque garantiti diritti di informazione ed accesso alle procedure ordinarie, e quindi nel sistema di centri aperti di accoglienza (CAS, SAI, CPSA) per coloro che adducano a gravi motivi di carattere personale, pure se provengono da paesi di origine ritenuti sicuri. L’ACNUR-ONU che pure riconosce le procedure accelerate in frontiera, in una Nota tecnica inviata al governo italiano durante l’iter di conversione del “Decreto Cutro”,”Raccomanda(va), tuttavia, di incanalare in procedura di frontiera (con trattenimento) solo le domande di protezione internazionale che, in una fase iniziale di raccolta delle informazioni e registrazione, appaiano manifestamente infondate. In particolare, la domanda proposta dal richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro non deve essere incanalata in tale iter quando lo stesso abbia invocato gravi motivi per ritenere che, nelle sue specifiche circostanze, il Paese non sia sicuro. Si sottolinea, a tal fine, la centralità di una fase iniziale di screening, volta a far emergere elementi utili alla categorizzazione delle domande (triaging) e alla conseguente individuazione della procedura più appropriata per ciascun caso”. Al di là delle tante definizioni adottate nel tempo per nascondere la sostanza della detenzione amministrativa che si pratica in strutture nelle quali vengono sistematicamente negati i diritti fondamentali delle persone, la limitazione della libertà personale non può diventare uno strumento generalizzato per ridurre il numero delle persone che hanno diritto a fare ingresso in Italia per ragioni di protezione. Si tratta di luoghi di confinamento che non possono sottrarsi alla giurisdizione italiana e internazionale, dove i diritti e le garanzie non possono essere riconosciuti solo sul piano formale per venire poi negati nelle prassi applicate dalle autorità di polizia. Dunque è il tempo delle denunce e dei ricorsi, e della mobilitazione, mentre l’opinione pubblica sembra ancora rimanere ostaggio delle politiche della paura e dell’odio. Risulta fondamentale garantire l’informazione e l’assistenza legale, l’accesso civico agli atti e la possibilità di ingresso di giornalisti ed operatori umanitari indipendenti, se occorre con gruppi di parlamentari, in tutti i centri in cui si pratica la detenzione amministrativa. Dietro tante definizioni diverse ci sono persone che non possono essere trattate come merce illegale da smaltire. Migranti. Pronto il nuovo decreto: giro di vite sui minori, espulso chi mente sull’età di Francesco Grignetti La Stampa, 27 settembre 2023 Sottoposti a esami, i minorenni saranno espulsi se dichiarano una falsa età. Era un indubbio problema, l’arrivo in massa di minori stranieri non accompagnati, 11.650 quelli registrati quest’anno dal ministero dell’Interno. E i centri dedicati sono andati in tilt. Quindi ecco l’idea del governo di rovesciare il tavolo: basta non classificarli più come minori, o quantomeno prevedere controlli medici per tutti quelli che non sono palesemente adolescenti, e il gioco è fatto. Oggi il governo varerà un decreto che riscrive pesantemente la legge Zampa a tutela dei minori stranieri. La stragrande maggioranza di quelli che finora erano considerate figure fragili, da domani diventeranno particolarmente esposti. Anche perché se verrà dimostrato che l’età dichiarata è un falso, ciò sarà sufficiente per un’espulsione. Che questo significhi che poi un eventuale diciottenne africano colto sul fatto sia davvero rimpatriato, sarà da vedere. Nel frattempo però troverà sbarrate le porte dell’accoglienza di Stato. E non graverà, come è oggi, per 100 euro al giorno sul bilancio del Viminale. Il decreto che dà un’ulteriore stretta ai migranti, in particolare quelli minori, era atteso da settimane. A leggere i testi, si rivela di una durezza inusitata. Dei minori che prima erano presi in carico con sollecitudine, e in pratica bastava un’autodichiarazione, per essere inseriti nel corridoio protetto dei minorenni, s’è detto. In ogni caso cade un muro: in caso di momentanea indisponibilità di strutture speciali per i minori, un prefetto potrà “disporre la provvisoria accoglienza del minore di età non inferiore a sedici anni in una sezione dedicata nei centri e strutture ordinarie”. Unico limite, questa mescolanza tra minori e adulti non dovrà superare i novanta giorni”. S’indigna la senatrice dem Sandra Zampa, che fu ispiratrice della legge: “Decidere, come annunciato dal governo, che possono essere accolti in promiscuità con gli adulti significa ripartire dal via, dalla disastrosa situazione che ha preceduto l’approvazione della legge, quando nel caos generale, i minori non accompagnati scomparivano, venivano reclutati da organizzazioni malavitose, sfruttati sessualmente, reclutati per il lavoro nero”. Le donne incinte, poi, vengono eliminate dalle categorie di persone ritenute vulnerabili e perciò meritevoli di un’accoglienza particolare. All’articolo 17, tra le persone portatrici di esigenze particolari, le parole “in stato di gravidanza” vengono soppresse. Insorgono le opposizioni. Commenta Angelo Bonelli, Avs: “Un’altra schifezza. Le donne incinte non verrano considerate persone vulnerabili e andranno nei centri di detenzione. È il governo della vergogna”. Palazzo Chigi interviene però con una nota ufficiale per dire che il senso della norma è l’opposto di quello che si è capito: vulnerabili da ora in poi saranno considerate tutte le donne, non soltanto quelle in stato di gravidanza. “Si tratta di un forte rafforzamento, quindi, della tutela delle donne migranti”. Il decreto prevede anche la cancellazione delle richieste di asilo internazionale quando lo straniero non si presenta presso l’ufficio di polizia per la verifica dell’identità e per la formalizzazione della domanda di protezione. Non basterà la prima indicazione al momento dello sbarco. “La manifestazione di volontà precedentemente espressa non costituisce domanda secondo le procedure previste e il procedimento non è instaurato”. Per gli stranieri sottoposti a misure di sicurezza, infine, ossia quelli che abbiano avuto comportamenti violenti, “l’espulsione è disposta dal prefetto” per gravi motivi di pubblica sicurezza, in analogia con quell’espulsione speciale che può essere disposta “per gravi motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato dal ministro dell’Interno”. Una misura straordinaria che per anni è stata utilizzata con il contagocce e solo per i sospetti di terrorismo internazionale ora potrebbe diventare una prassi. L’espulsione potrà essere disposta anche nei confronti dei richiedenti asilo o chi gode di un permesso di soggiorno di lunga durata e anche se soggetti a misure di prevenzione e persino quelli con procedimenti penali in corso. Basterà essere considerati socialmente pericolosi per essere espulsi. Alla Corte europea dei diritti dell’uomo debutta la giustizia climatica di Federica Rossi Il Manifesto, 27 settembre 2023 Oggi a Strasburgo il caso di sei giovani portoghesi contro 32 nazioni “inadempienti”. Per la prima volta l’accento viene posto sul diritto alla vita e contro le discriminazioni. Oggi si scrive una pagina importante per la giustizia climatica. Sei giovani portoghesi, di età compresa tra gli 11 e i 24 anni, portano 32 stati di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per inadempienza agli obblighi climatici comunitari. In una cornice politica in cui le cosiddette climate litigations si moltiplicano: memorabile la vittoria di 17mila cittadini olandesi contro il colosso petrolifero Shell nel 2021 o la recente causa contro Eni mossa da Greenpeace, Re:Common e 12 cittadini. Nella speranza che la giurisprudenza si riveli tra i più solidi alleati dell’ambiente. Quando le fiamme del 2017 nella regione di Beira, al confine tra Portogallo e Spagna, sono costate la vita di 66 persone e 20mila ettari di foresta, i sei giovani hanno deciso di affidarsi al gruppo di avvocati Global legal action network (Glan) per cercare giustizia alla corte di Strasburgo. “I nostri esperti dicono che a 3 gradi ci saranno ondate di caldo ancora più estreme, che dureranno un mese o più. I governi di tutto il mondo hanno il potere di fermare tutto ciò ma hanno scelto di non fare la loro parte. Non possiamo restare a guardare” commenta Catarina Mota, una partecipante (23 anni). L’accusa rivolta ai 32 Stati - i 27 membri dell’Ue più Norvegia, Regno Unito, Svizzera, Turchia e Russia (in principio c’era anche l’Ucraina) - non riguarda solo l’inadempienza agli obblighi climatici, ma anche la violazione di diritti umani: in particolare gli articoli a cui si fa riferimento sono il diritto alla vita, alla vita privata, alla non discriminazione. Un dettaglio da non sottovalutare, in quanto sottolinea che i diritti fondamentali dell’uomo passano anche attraverso la lotta alla crisi climatica. Una pronuncia positiva della Corte, interpellata per la prima volta in merito al clima, potrebbe infatti costituire un precedente storico e legislativo. Ma per la decisione potrebbero volerci mesi. Finora l’ambiente ha incontrato la giustizia solo nei singoli paesi. In Italia tra le climate litigations si ricorda anche la campagna di Giudizio Universale, del 2021, primo caso in cui 200 ricorrenti, tra cui 17 minori e 24 associazioni, hanno denunciato al Tribunale di Roma contro il Belpaese per inadempienza climatica sulla riduzione di emissioni clima-alteranti per rientrare negli obiettivi dell’Accordo di Parigi, i celebri 1,5/2 gradi. Oggi dunque anche l’Italia si dovrà difendere di fronte ai 22 giudici della Cedu. Il caso, classificato come “prioritario”, sarà discusso anche davanti all’organo più solenne della Corte, la Grande Camera. Prima di pronunciarsi sul merito la Corte esaminerà innanzitutto la ricevibilità del ricorso, che implica il rispetto di criteri rigorosi su cui molti casi si sono arenati in passato, anche in materia ambientale. I sei giovani ricordano che la crisi climatica in corso non distribuisce equamente i suoi effetti tra gli stati più o meno pronti ad adattarsi, o più o meno vulnerabili e che tutti i paesi coinvolti sono responsabili. Gli avvocati di Glen insisteranno anche sulla violazione del diritto alla salute dei giovani, per esempio impossibilitati dalle temperature che quest’estate hanno raggiunto oltre i 40 gradi in molte zone, a condurre attività all’aperto. “Tutta l’Europa sta vivendo tremendi impatti climatici: in Portogallo quest’estate abbiamo sperimentato ondate di caldo sempre peggiori che stanno limitando la nostra capacità di poter decidere della nostra vita in maniera libera” ha dichiarato il portavoce della campagna André dos Santos Oliveira, 15 anni. Glan afferma che alcuni Paesi hanno già inviato alla Cedu i loro pareri: “Non può essere stabilita una relazione di causa-effetto assoluta tra i cambiamenti climatici e problemi sulla salute umana: c’è grande incertezza sul bilancio finale della mortalità: se sia positivo o negativo”, avrebbe comunicato la Grecia. Israele. Detenuto da un mese senza un’accusa: “Liberate l’italiano Khaled” di Luigi Manconi La Stampa, 27 settembre 2023 El-Qaisi, 29 anni, ricercatore alla Sapienza, sposato con un figlio di 4 anni, è anche cittadino palestinese. Lo hanno arrestato il 31 agosto dopo una vacanza a Betlemme ma contro di lui non ci sono imputazioni. Ormai da quasi un mese un nostro connazionale, Khaled El-Qaisi, si trova detenuto nel carcere di Petah Tiqwa, a est di Tel Aviv. El-Qaisi è studente presso l’università La Sapienza di Roma e ricercatore di storia della Palestina; ha 29 anni, è sposato con una donna italiana, ha un figlio di 4 anni ed è titolare della cittadinanza italiana e di quella palestinese. Il 31 agosto scorso è stato arrestato dalle autorità israeliane mentre si accingeva a tornare a Roma, dove vive, dopo essere stato in vacanza a Betlemme. La famiglia, una volta giunta al valico di frontiera Allenby, al confine fra Giordania e Israele, viene fermata ed El-Qaisi ammanettato. La polizia fa domande sui loro spostamenti e sugli orientamenti politici dell’uomo. Le richieste di spiegazioni da parte della moglie non ottengono risposta e, dopo aver trattenuto il marito, le autorità rilasciano la donna e il bambino, sequestrando loro documenti, denaro ed effetti personali. A oggi le motivazioni dell’arresto non sono state rese note né ai familiari né al legale Flavio Rossi Albertini; e si sono susseguite più udienze, tutte finalizzate alla proroga della misura della custodia cautelare in carcere. Il 21 settembre il tribunale di Rishon Le Tzion ha predisposto l’ulteriore proroga fino al primo ottobre, data oltre la quale - è stato comunicato - “le investigazioni dovranno presentare delle accuse, poiché in caso contrario il termine per questa forma di detenzione cautelare decadrebbe”. El-Qaisi, da quando è detenuto, non è stato destinatario di alcuna ordinanza di custodia cautelare e dunque non è stato informato dei capi di accusa, né tantomeno delle ragioni dell’arresto. L’avvocato ha potuto incontrare l’assistito solo dopo 15 giorni, ma non ha avuto accesso ad alcun atto che gli permettesse di verificare la rilevanza di indizi e prove e la legittimità dell’arresto. Gli interrogatori a cui è sottoposto quotidianamente El-Qaisi si svolgono senza alcuna assistenza legale e vengono condotti non da un giudice, bensì - presumibilmente - da membri della polizia giudiziaria o da appartenenti ai servizi di sicurezza. Infine, da quando è in prigione, El-Qaisi non ha potuto né ricevere visite da parte dei familiari, né comunicare con loro telefonicamente; e continua a non conoscere gli atti e dunque il merito delle accuse. Come si è detto, dopo il primo ottobre la detenzione penale nei confronti di El-Qaisi non potrebbe più essere prorogata e la preoccupazione è che - in attesa di raccogliere prove contro di lui - essa venga tramutata in detenzione amministrativa. In tale caso, anche in assenza di processo, la reclusione sarebbe della durata di sei mesi, prorogabile senza limiti di tempo. Si pone, dunque, una grande questione giuridica e politico-diplomatica: è possibile che un cittadino italiano, protetto nel proprio Paese da un sistema di garanzie, proprie dello Stato di diritto, si trovi completamente indifeso e privo di tutele quando viene sottoposto a procedimento giudiziario in un Paese terzo? Tanto più che questo Paese - Israele, nel caso - è legato all’Italia da antichi e solidi rapporti politici? Sono interrogativi ineludibili per due ragioni: intanto perché nella situazione di El-Qaisi risultano violate tutte, ma proprio tutte, le prerogative di un procedimento giudiziario che voglia essere equo e rispettoso del diritto moderno, del quale il diritto alla difesa è condizione essenziale. In secondo luogo perché i dati più recenti dicono che i detenuti italiani all’estero sono oltre 2 mila; e una parte consistente tra loro ha conosciuto, sin dal momento del primo arresto, la violazione sistematica di tutti i diritti fondamentali della persona e le condizioni processuali e detentive che offendono la civiltà giuridica. Il ministero degli Esteri italiano ha provveduto a far incontrare la nostra rappresentanza diplomatica con il detenuto e ha dichiarato che avrebbe continuato a “sensibilizzare le autorità israeliane sui diritti del nostro connazionale”. Ma che, dopo quattro settimane di reclusione, le istituzioni e l’opinione pubblica in Italia non abbiano ricevuto la più elementare informazione, e che un nostro connazionale resti recluso senza che vengano resi noti i capi di accusa, appare comunque scandaloso. Ne converranno, mi auguro, i sinceri amici di Israele. Anche perché emerge una singolare coincidenza. Israele non è l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, ma ancora una volta un giovane ricercatore, come già Giulio Regeni e Patrick Zacki, risulta il bersaglio di una pesante attività di repressione. Certo, restano incomparabili le differenze, ma colpisce il dato comune rappresentato dalla personalità delle vittime: giovani intellettuali colti e cosmopoliti, già ricchi di esperienze, a cavallo tra mondi diversi, impegnati in uno studio e in un lavoro proiettati oltre i confini tradizionali. Nagorno-Karabakh, in corso un genocidio davanti al mondo di Antonia Arslan La Stampa, 27 settembre 2023 Gli Usa sono complici di un negoziato impossibile. L’obiettivo azero è cancellare gli armeni dalla Storia. Moltissimi sono i proverbi che la saggezza popolare ha inventato per descrivere situazioni estreme (e terribili) come quella in cui si trova oggi la popolazione del piccolo ma importantissimo territorio di montagna chiamato Nagorno-Karabakh (Artsakh per gli abitanti, montanari armeni del Caucaso, essendo l’altro nome per loro una memoria costante di dominazioni straniere). Ma quello che più trovo adatto al momento attuale, nella sua essenzialità atmosferica, è molto semplice: “Tanto tuonò che piovve”. Dopo la guerra perduta dell’autunno 2020, con un territorio ridotto e minacciato da ogni parte, ci sono stati i tuoni delle ripetute e sempre più accentuate minacce da parte azera: sia verbali, grondanti odio e volontà di annientamento, che fisiche, con progressivi sconfinamenti, rosicchiamenti di chilometri e chilometri di territorio (ora in un punto ora nell’altro del contestato confine), qualche bomba e qualche vittima, contadini a cui è impedito coltivare i loro poveri campi, di vendemmiare le loro uve prelibate, esercitando una pressione psicologica e fisica sempre crescente. Ma dopo i tuoni, ecco la pioggia: il blocco dal dicembre 2022 del purtroppo famoso corridoio di Lachin (l’unica strada che collega oggi l’Artsakh all’Armenia e al resto del mondo) che nello stillicidio di ben otto mesi di durata ha prostrato le forze dei circa 120.000 montanari armeni che ancora vi abitano, attaccati alla loro antica patria come l’ostrica allo scoglio. Ma non è bastato: ecco la grandinata finale, che distrugge ogni cosa. Con una mossa largamente prevedibile, che solo la volontaria cecità dell’intero Occidente può chiamare sorprendente, qualche giorno fa è stato scatenato l’attacco definitivo, con l’impiego di una potenza bellica tale da travolgere ogni resistenza. Sono bastate 24 ore: il governo autonomo dell’Artsakh si è piegato e sta “trattando” la resa. Di quale trattativa possa trattarsi, e sotto quale manto di ipocrisia possa essere coperta questa parola (a me sembra il discorso dell’agnello col lupo prima di essere mangiato...), lo ha descritto perfettamente - nel suo appassionato e lucido intervento di qualche giorno fa alla Commissione per i Diritti Umani “Tom Lantos” del Congresso degli Stati Uniti - Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte Criminale Internazionale dal 2003 al 2012: “Gli Stati Uniti stanno favorendo negoziati fra un genocida e le sue vittime...non si può assistere da spettatori a un negoziato fra Hitler e i deportati di Auschwitz!”. In queste ore, si sta verificando proprio questo. Mentre i cosiddetti negoziati sono in corso, la gente dell’Artsakh ha gettato la spugna e ha cominciato a scappare. Nella piccola capitale Stepanakert, una cittadina linda e piacevole al centro di una conca verdeggiante, arrivano con tutti i mezzi e con le loro povere cose i contadini dei villaggi. Hanno distrutto quello che potevano, ma sanno - per triste esperienza - che le loro chiese saranno dissacrate e vandalizzate, le loro tombe aperte e le ossa dei loro cari sparse al vento, come è già successo nei territori perduti dopo la guerra del 2020. Sanno che l’intento preciso dei conquistatori è quello di fare terra bruciata di migliaia di anni di civiltà armena in quei luoghi e di riscrivere la storia, come è puntualmente e totalmente avvenuto nell’altro territorio - armeno da millenni - che era stato attribuito da Stalin alla sovranità azera, il Nakhicevan. E questo è propriamente genocidio, come da definizione dell’Onu del dicembre 1948: dopo l’eliminazione fisica, estirpare anche ogni traccia della cultura del popolo annientato. E non a caso, mi è arrivata anche la dichiarazione molto esplicita in proposito di 123 intellettuali turchi, tutte persone coraggiose che ben conoscono il rifiuto ancora totale da parte di tutti i loro governi di riconoscere il genocidio compiuto dai Giovani Turchi più di cent’anni fa: e che - fra l’altro! - stanno rischiando di persona. Mettono in guardia contro la politica genocida portata avanti dall’Azerbaigian (stretto alleato della Turchia) nel Nagorno-Karabakh, e chiedono alla comunità internazionale di agire per prevenire nuove tragedie, invece di restare a guardare. Il regime azero, del tutto incurante delle sollecitazioni ricevute da organizzazioni internazionali e da molti Paesi per interrompere il blocco del corridoio di Lachin, ha lanciato operazioni militari durante l’assemblea generale delle Nazioni Unite, scrivono, “mentre il mondo intero osservava in silenzio. Esiste un chiaro pericolo di pulizia etnica e di genocidio. Loro cercano di prendere il controllo completo dell’Artsakh e di eliminare gli armeni dai territori dove hanno vissuto per secoli, e in caso di resistenza semplicemente di ucciderli”. Chiaro e partecipe, ma non basta. Nel silenzio colpevole dell’Ue, forse però qualcosa si muove al Congresso americano. Sono state presentate ben tre proposte di legge per un intervento umanitario diretto e chiedendo sorveglianza per le popolazioni in pericolo. L’autorevole Congressman Chris Smith, co-capo della Commissione per i diritti umani del congresso, e un gruppo bipartisan hanno fatto audizioni, compresa la situazione e appena depositata una proposta di legge chiamata Preventing Ethnic Cleansing and Atrocities in Nagorno-Karabakh Act of 2023 (H.R.5686), che esige che “il Dipartimento di Stato crei una strategia dettagliata per promuovere la sicurezza a lungo termine e il benessere degli armeni del Nagorno-Karabakh, attraverso importanti misure di sicurezza”. Questo piccolo popolo cristiano, con le sue chiese di cristallo, i monasteri antichissimi, i preziosi manoscritti miniati e le celebri croci di pietra è immagine forte per noi occidentali, immersi in un’inerzia distratta e malata; e non può non far venire in mente le gabbiette dei poveri canarini che i minatori portavano con sé come segnale di pericolo, perché morivano prima degli esseri umani in caso di perdite di gas...