Garante dei detenuti: via libera in Cdm al meloniano D’Ettore di Liana Milella La Repubblica, 26 settembre 2023 L’ex deputato di FI scelto dall’esecutivo dovrà dimettersi dall’incarico di professore a Firenze. Lavoreranno con lui anche l’avvocata Irma Conti (in quota Lega) e il civilista palermitano Mario Serio (indicato dall’ex pm Scarpinato oggi senatore M5S). Benservito del governo Meloni e del Guardasigilli Carlo Nordio all’attuale Garante delle persone private della libertà Mauro Palma. Per mettere al suo posto, anche se a forte rischio incompatibilità perché è un dipendente pubblico, un uomo di partito, l’ex deputato di Forza Italia Felice Maurizio D’Ettore, anche se è passato l’anno scorso con FdI, dopo una breve stagione con Coraggio Italia, solo dieci giorni prima del voto. Troppo garantista, troppo scrupoloso, decisamente troppo a sinistra era il matematico e giurista Mauro Palma, in carica dal 2016, per un governo che lottizza anche l’aria. Ed ecco che, come anticipato da Repubblica, il consiglio dei ministri, ovviamente su proposta del ministro della Giustizia che già all’inizio di agosto aveva portato al Colle la terna dei nomi, sceglie D’Ettore come Garante. Accanto a lui, su indicazione della Lega, ci sarà l’avvocata romana Irma Conti, un’onorificenza a Cavaliere del lavoro per le sue battaglie a favore delle donne. E, in quota M5S, il civilista palermitano Mario Serio, docente di diritto comparato, ex membro laico del Csm nel quadriennio 1998-2002, allora proposto da Forza Italia, ma oggi sponsorizzato dal senatore di M5S, ed ex pm e procuratore generale di Palermo e Caltanissetta, Roberto Scarpinato. Di Serio va ricordata la recente e durissima difesa proprio al Csm per la pm palermitana Alessia Sinatra, vittima delle avance dell’ex procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, finita sotto processo disciplinare solo per essersi augurata, in chat con Luca Palamara, che Creazzo non fosse scelto come capo della procura di Roma. Una chattata tra amici che le è costata la punizione del Csm. Ma la cronaca della scelta di D’Ettore, tutta politica, deve necessariamente partire dalla certa incompatibilità, allo stato degli atti, del neo Garante rispetto alle regole d’ingaggio stabilite dalla stessa legge istitutiva dell’ufficio. Perché questa regola dice che non può essere nominato Garante chi abbia già un lavoro nella Pubblica amministrazione. E D’Ettore, a Firenze, insegna all’università diritto privato. Quindi un’incompatibilità palese e piena. Già denunciata dalla responsabile Giustizia dei Dem Debora Serracchiani non appena Repubblica aveva annunciato la possibile terna alla fine di luglio. Un’unica variazione rispetto ad allora, la presenza dell’avvocatessa Irma Conti, non solo per “garantire” nel vertice del Garante anche una donna (oggi ce ne sono due, la vice Daniela de Robert ed Emilia Rossi), ma soprattutto per non affidare a un ottantenne, Carmine Antonio Esposito, ex presidente del tribunale di sorveglianza di Perugia e poi di Napoli, e consigliere comunale a Brusciano giusto nelle file dei meloniani, un incarico che necessita anche di verve fisica per i settimanali sopralluoghi previsti. Nonostante il nome di D’Ettore fosse stato scelto da Nordio per il vertice dell’ufficio, nonché comunicato di persona al presidente Mattarella nel corso di un colloquio, allo stato non si ha notizia che il “professore” abbia fatto il passo indietro. Forse temendo un ostacolo alla sua nomina sta aspettando l’ultimo momento. Al sottosegretario meloniano alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, che ha seguito le ultime fasi della trattativa sui nomi, D’Ettore avrebbe assicurato che è disponibile non solo a mettersi in aspettativa per cinque anni, come chiede la legge, ma anche a lasciare definitivamente l’incarico. Del resto essere nominativo Garante rappresenta una bella “presa”, un incarico della durata di ben cinque anni, rinnovabili per altri due. E a D’Ettore, nato a Napoli il 22 luglio 1960, non resta granché per essere pensionato. Quindi il “sacrificio” per ottenere un ruolo strategico come quello del Garante non è certo in perdita. Sarà lui l’uomo che, proprio in questo momento, non solo si occuperà delle carceri e della tuttora consistente catena di suicidi, ma anche dei Cpr e dei migranti. E proprio qui sta la fretta di sostituire Palma con D’Ettore. Meglio avere un proprio uomo laddove bisogna applicare una legge inumana come quella sui rimpatri e sulla detenzione nei “campi” fino a 18 mesi. Carcere di San Gimignano, con la tortura di Stato minata l’immagine delle istituzioni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2023 Depositate le motivazioni con le quali il 9 marzo scorso il Tribunale di Siena ha confermato la condanna di cinque agenti per la violenza nei confronti di un detenuto tunisino e affermato la natura autonoma del reato. La tortura di Stato è un reato autonomo e non un’aggravante. La norma è, infatti, destinata a prevenire e ad arginare atti di violenza come quelli commessi a San Gimignano da agenti che hanno tradito il loro mandato e minato la dignità e l’immagine delle istituzioni pubbliche. Il Tribunale di Siena affida ad oltre 250 pagine, le motivazioni con le quali il 9 marzo scorso ha condannato cinque agenti penitenziari del carcere toscano, con pene da 5 anni e 10 mesi fino a 6 anni e 6 mesi per torture, falso e minaccia aggravata. L’accusa riguardava la responsabilità nel pestaggio di un detenuto tunisino nell’ottobre 2018. Altri 10 agenti per gli stessi fatti furono in passato condannati con rito abbreviato. Certosino l’impegno dei giudici che hanno corredato con foto il loro lavoro per dimostrare la dinamica di quella che è stata definita una vera propria spedizione punitiva in assenza, nel momento in cui è avvenuta, di una situazione agitata all’interno del carcere. I fatti alla base della condanna - L’11 ottobre 2018, secondo la ricostruzione del Tribunale un gruppo di quindici agenti penitenziari aveva prelevato a forza dalla camera detentiva, nel reparto isolamento, un ragazzo nordafricano condannato per reati di droga, mentre stava uscendo per fare la doccia. L’uomo era stato sottoposto ad un pestaggio e poi lasciato senza abiti fino alla mattina successiva. Nel corso dell’aggressione un ispettore che, pesava circa 120 kg, gli era montato sulla vita e sulle gambe con le ginocchia e un altro lo aveva preso per il collo. Il tutto in assenza “di qualsivoglia necessità di prevenire o impedire atti di violenza, tentativi di evasione ovvero di vincere una resistenza” del giovane magrebino. Un quadro che porta ad escludere l’uso legittimo della forza pubblica per affermarne l’abuso. Per il Tribunale il fine reale della spedizione punitiva era lanciare un monito ai detenuti del reparto sicurezza, per lo più appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso o alla camorra, come risposta al clima di tensione che si era creato in mattinata. Iniziativa bollata come “aberrante opera di “pedagogia carceraria”“, per mettere in chiaro i rapporti di forza. L’uso della forza con le persone private della libertà - Nel confermare le condanne il Tribunale cita la giurisprudenza sovranazionale della Corte europea dei diritti dell’Uomo. I giudici di Strasburgo considerano, infatti, l’uso della forza nei confronti delle persone private della libertà personale una violazione del divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti e lo prevedono, come extrema ratio, nei limiti imposti dalla stretta necessità. A bandire dalle carceri l’uso della forza, sottolinea il Collegio, è anche l’articolo 13 della nostra Carta, secondo il quale “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”. Il reato di tortura di Stato, che ha conosciuto dunque una delle sue primissime applicazioni, è posto a difesa di valori fondamentali. E deve garantire un rapporto regolare tra Stato e cittadino, tra autorità pubblica e persona, nel momento più critico e delicato: quello in cui i cittadini e le persone sono affidate alla cura e alla vigilanza delle autorità pubbliche. “L’omicida di Carol Maltesi è pronto per un percorso riparativo”. Ira dei familiari di Valentina Stella Il Dubbio, 26 settembre 2023 Secondo i giudici, l’uomo condannato a 30 anni per l’assassinio della 26enne, è sinceramente pentito: è la prima volta che l’istituto introdotto con la Riforma Cartabia viene applicato. Non si placano le polemiche dopo che a Davide Fontana - il bancario di 44 anni condannato in primo grado a trent’anni per l’omicidio, lo smembramento e l’occultamento del corpo di Carol Maltesi - è stata concessa dalla Corte di Assise di Busto Arsizio, con la contrarietà del pm e delle parti civili, l’ammissione all’istituto della giustizia riparativa, primo caso in Italia, almeno per il reato di omicidio, dell’istituto entrato in vigore il 30 giugno scorso a seguito della riforma Cartabia. Alle parole della madre della vittima - “il sì dei giudici al reinserimento dell’assassino di mia figlia? Non è possibile, questa è un’ingiustizia... Adesso temo davvero che un giorno il mostro che ha massacrato e fatto a pezzi Carol possa tornare libero” - si è aggiunto un comunicato della Rete Dafne, Rete Nazionale dei servizi per l’Assistenza alle Vittime di reato, presieduta dall’ex magistrato Marco Bouchard: “La decisione della Corte d’Assise di Busto Arsizio, favorevole alla richiesta di programma riparativo per Davide Fontana, ci ha profondamente turbato. La Corte d’Assise viola il sentimento d’ingiustizia che a distanza di un anno e mezzo dai terribili fatti provano ancora le vittime alla sola idea di incontrare l’imputato e non riesce a cogliere nella loro indisponibilità il rischio di una clamorosa vittimizzazione secondaria che in questo caso - lo dice la Direttiva europea 2012 che sul punto ha effetto diretto - dovrebbe essere addirittura presunta poiché una di esse ha appena compiuto sette anni ed è figlio dell’uccisa. La Corte d’Assise lede lo stesso ruolo di mediatori perché li scavalca stabilendo in loro vece la fattibilità del programma riparativo mediante ricorso a vittime sostitutive (quante? Di quale età?): e che fardello dovrà portare la vittima sostituiva nel mettersi nei panni di chi si è rifiutato di entrare nella stanza del mediatore?”. A distanza replica l’avvocato di Fontana, Stefano Paloschi, che lo difende insieme a Giulia Ruggeri: “Comprendo i sentimenti dei familiari di Carol Maltesi, ma al contempo ritengo che chi lotta contro la violenza di genere dovrebbe guardare con interesse a questo istituto che in altre circostanze ha dato ottimi risultati, e magari fare richiesta di partecipare al programma”. Leggiamo ora le carte. Nell’istanza presentata alla Corte, Fontana scrive: “È interesse primario del sottoscritto poter partecipare a tale tipo di programma al fine di riparare, per quanto possibile, ai danni e al dolore provocati ai genitori di Carol Maltesi e soprattutto al figlio Carlos, impiegando fruttuosamente il tempo della reclusione per intraprendere fin da subito un percorso carcerario riabilitativo e rieducativo”. I giudici hanno accolto la richiesta adducendo i seguenti motivi: “Considerato che l’imputato ha manifestato, sin dalla fase delle indagini preliminari, la seria, spontanea ed effettiva volontà di riparare alle conseguenze del reato, ribadita anche all’odierna udienza (19 settembre, ndr), tanto da aver chiesto scusa ai familiari della vittima sin dalla prima udienza dibattimentale, utilizzando quindi uno degli strumenti di giustizia riparativa; ricordato che l’avvio di un percorso di giustizia riparativa prescinde dal consenso di tutte le parti interessate”, “ritenuto, esaminati gli atti, che nel caso concreto lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa - laddove ritenuto esperibile dai mediatori anche con “vittima aspecifica” - possa comunque essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede, giacché la ratio dell’istituto è quella di ricomporre la frattura che il fatto illecito crea non solo tra autore e vittima del reato, ma anche all’interno del contesto sociale di riferimento e che l’istituto di cui è stata chiesta l’applicazione ha anche, se non soprattutto, natura pubblicistica ed ha lo scopo ulteriore di far maturare un clima di sicurezza sociale (cfr. Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione), sicché la volontà del legislatore è indubbiamente di incentivare il ricorso a detto strumento”. “Rilevato che lo svolgimento di giustizia riparativa da parte del Fontana non comporta alcun pericolo concreto per l’accertamento dei fatti, già giudicati in primo grado, come del resto riconosciuto da tutte le parti”, “considerato che non sussista neppure un pericolo concreto per gli interessati, pur tenuto conto della presenza di un minore di circa sette anni”, “dispone l’invio del caso al Centro per la Giustizia riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano perché verifichi la fattibilità di un programma di giustizia riparativa”. Spieghiamo bene la questione della vittima aspecifica perché qualcuno potrebbe chiedersi che senso abbia avviare il percorso se davanti a sé non c’è la vittima del proprio reato. Come ha spiegato l’Ufficio del Massimario della Cassazione, riportato nella memoria dei legali di Fontana, “la norma, per un verso, chiarisce la natura pubblica della giustizia riparativa, che mai si risolve in una “questione privata fra vittima e autore del reato” e, per altro verso, dà concretezza a modi e interventi atti “a far maturare un clima di sicurezza sociale al fine di costruire una società del rispetto, capace di contemplare e accogliere le vulnerabilità individuali e collettive”“. Dunque, “in assenza del consenso della vittima “specifica”, saranno i Centri di Giustizia Riparativa ed i mediatori incaricati ad essere tenuti ad individuare il programma che ritengono più adeguato alle circostanze del caso concreto, tenendo in considerazione questo aspetto”. Imputato e vittima: incontro che può aiutare a ricucire le ferite del processo penale, dentro e fuori dalle aule di Mitja Gialuz* e Michele Passione** Il Dubbio, 26 settembre 2023 Due articoli in tre giorni: bisogna dare atto a Oliviero Mazza di aver preso sul serio l’impegno ad animare il dibattito attorno alla giustizia riparativa, salutata sin dalla scorsa estate dalle pagine di questo giornale con giudizi lapidari, che le vacanze non hanno mutato. L’oggetto della riflessione viene suggestivamente alterato dall’Autore in modo che i suoi pre- giudizi critici fondati su una rappresentazione ideologica possano risultare retoricamente efficaci e persuasivi. Viene in mente un libro (Eager, Magia… che Mania) che racconta come, nella letteratura streghesca, un magico rituale finirebbe per sprigionare da un pozzo una forza misteriosa che fa apparire cose invisibili, scomparire quelle visibili, rendendo le persone irriconoscibili. Ecco, partiamo da qui: la giustizia riparativa non c’entra nulla con quel mostruoso dispositivo autoritario affidato a un “mediatore metà parroco e metà psicologo”. Si tratta di un paradigma complementare e non certo alternativo al diritto penale e alle sue garanzie, che è sorto come un fatto sociale per rispondere alle insufficienze e alla crisi profonda della giustizia tradizionale. Nel nostro sistema è evidente che tanto il processo, quanto la pena non riescono a mantenere le promesse costituzionali degli artt. 2, 3 e 27 della Costituzione. Il d.lgs. 150/2022 ha codificato questo paradigma proprio con l’obiettivo di assicurare un rapporto di complementarità e di distinguere nettamente i due mondi, in ottica garantistica. Il programma di giustizia riparativa non viene assolutamente configurato come “un accertamento parallelo privo di qualsivoglia garanzia, a partire dall’inaccettabile esclusione del difensore”, né si richiede una “confessione” all’imputato; tanto meno si configura come un “sistema vittimocentrico”. L’invio da parte dell’autorità giudiziaria rappresenta una semplice autorizzazione a iniziare un programma; nessuna forzatura verso “una riparazione etica”. È diverso l’oggetto del programma di giustizia riparativa rispetto al processo; diverso è lo scopo; diversi sono gli attori. Si tratta di un percorso dialogico condotto da un mediatore che prende le mosse non dalla responsabilità penale ma da un fatto nudo, a prescindere dalla sua corrispondenza rispetto alla condotta di reato; si muove e si concentra sul conflitto e non si applica alcun trattamento sanzionatorio; lo scopo è mettere i protagonisti della vicenda nelle condizioni di guardarsi negli occhi per entrare in relazione e ricucire lo strappo, restituendo dignità all’altro. Nella conca della mediazione il difensore non ha alcun ruolo semplicemente perché non si parla il linguaggio tecnico del diritto penale (e non si accerta un reato), ma quello delle emozioni sprigionate dal conflitto. Quello che le persone si dicono non deve confluire nel procedimento ordinario e vi sono diverse paratie per assicurare l’impermeabilità. Questo il sistema delineato dal legislatore (e non dai protocolli). La proposta di gettarlo nel cestino prima ancora che si parta appare nulla più che una provocazione. Occorre invece completare la più ambiziosa riforma realizzata nell’ambito penale: mettendo all’opera la Conferenza nazionale per la giustizia riparativa (nella quale il ministro Nordio ha nominato due insigni professori e avvocati, Vittorio Manes e Nicola Mazzacuva) e accelerando sull’istituzione dei centri per la giustizia riparativa e sulla formazione dei mediatori esperti. Tanti avvocati, infatti, si stanno rendendo conto delle potenzialità di questo paradigma per superare le storture quotidiane (dentro e fuori dall’aula), secondo le quali un reato è per sempre, 30 anni non bastano, buttiamo la chiave. Per superare la leva incapacitante del diritto penale, delle ostatività, delle preclusioni, la scommessa della giustizia riparativa andrebbe sostenuta con forza. Come dimostra la recentissima vicenda di Busto Arsizio, sulla quale per rispetto delle parti coinvolte non intendiamo formulare alcun giudizio, ma che consegna il dato di un’istanza (un bisogno) avanzata da un imputato, condannato, raccolta da un giudice, per un percorso che forse (forse) potrà aiutare qualcuno (l’istante, un’altra vittima, la comunità). *Ordinario dir. Proc. Penale **Avvocato “Ci sono casi complessi ma la riconciliazione è la svolta del sistema” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 26 settembre 2023 Giustizia riparativa, parla Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale alla Statale di Milano: “È importante non alimentare allarmismi, non c’è stato alcuno sconto di pena”. Nel dibattito aperto nei giorni scorsi sulle colonne del Dubbio in tema di giustizia riparativa, si inserisce il professor Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale alla Statale di Milano e vicepresidente della Scuola superiore della magistratura. Professor Gatta, la vicenda dell’omicidio di Carol Maltesi ha amplificato l’attenzione sulla giustizia riparativa con il programma previsto per Davide Fontana, il bancario che ha ucciso la giovane. Cosa ci deve aspettare da questo modello da poco introdotto? Mi complimento, prima di tutto, con il Dubbio per aver avviato un dibattito su un tema nuovo e rilevante come la giustizia riparativa, introdotta dalla riforma Cartabia. Occorre ricordare che la disciplina si ispira a principi enunciati in diverse fonti sovranazionali. Penso ai principi-base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa nel penale elaborati nell’ambito delle Nazioni Unite, alla direttiva Ue sulle vittime di reato, alle raccomandazioni del Consiglio d’Europa e, da ultimo alla Dichiarazione di Venezia sul ruolo della giustizia riparativa in materia penale adottata dai ministri della Giustizia degli Stati membri del Consiglio d’Europa nel 2021, all’esito di una sessione di lavori presieduta dall’allora ministra Cartabia. Non è affatto un modello che calpesta diritti e garanzie, che anzi considera e fortifica. È un modello di giustizia che non è alternativa alla tradizionale giustizia penale e al processo: è complementare ed è incentrata sull’incontro tra autore e vittima, sotto la guida di un mediatore esperto. La giustizia riparativa persegue la riparazione del male inferto col reato attraverso la ricomposizione del conflitto, superando la logica vendicativa e dello scontro che permea da sempre la giustizia penale. Sa cosa le dico? Dica pure… Per comprendere la giustizia riparativa bisogna non solo e non tanto leggere il testo del d.lgs. 150/2022 e soffermarsi su articoli e commi: bisogna anzitutto ascoltare le esperienze di quanti, autori e vittime, hanno partecipato a incontri e programmi di giustizia riparativa. Le testimonianze sono tante e illuminanti, sia in sede internazionale sia in ambito nazionale. Pionieristico, in Italia, è il noto esperimento di incontro e confronto tra vittime e responsabili del terrorismo degli anni Settanta, raccontato nel “Libro dell’incontro” curato da Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato. Molto toccante e al tempo stesso istruttiva è ad esempio la visione del film irlandese The meeting, che racconta l’incontro tra la vittima di una brutale violenza sessuale, attrice nel film, e l’autore del reato, dopo la sua scarcerazione. Si deve insomma provare ad allargare gli orizzonti... Alziamo lo sguardo da codici e norme, per un attimo, e cerchiamo di capire qual è la realtà e quali sono i bisogni, dell’autore del reato, della vittima e della società, che la restorative justice cerca di intercettare. La notizia del primo invio a un centro per la giustizia riparativa di un imputato, su sua richiesta, per verificare la fattibilità del programma è per me molto positiva: testimonia un avvio nella prassi di quanto prefigurato dalla legge. È un inizio, che apre scenari interessanti. Certo, il caso ha voluto che si iniziasse quest’esperienza nella prassi con l’hard case da lei menzionato: l’omicidio di una giovane donna, con sezionamento del cadavere, e con il rifiuto dei familiari di partecipare al programma di giustizia riparativa che, pertanto, potrebbe essere svolto solo con vittima cosiddetta aspecifica. Si tratta di un inizio con strada in salita, che non a caso ha avuto larga eco mediatica. Nel dibattito sul Dubbio è stato rilevato un rischio: il ruolo del difensore potrebbe essere sminuito... Non credo, anzi. Se ci pensiamo bene, il caso di Busto Arsizio ci dice il contrario. La richiesta di accesso alla giustizia riparativa è partita dall’imputato e quindi, verosimilmente, su suggerimento del suo difensore. La giustizia riparativa è una strada ulteriore e complementare che i difensori di vittime e imputati o condannati possono intraprendere nell’interesse dei loro assistiti. Il processo e la pena non sono sempre sufficienti a soddisfare i bisogni di vittime e autori: c’è talora un bisogno di comprensione, di dialogo, di incontro, di ricomposizione della frattura e, se possibile, di riconciliazione, che la giustizia riparativa, con i suoi mediatori esperti, può soddisfare. L’imputato e il condannato possono giovarsene sul lato della pena e dei benefici penitenziari, senza automatismi e su valutazione del giudice. ll padre di Carol, Fabio Maltesi, ha detto di essere “sconvolto e schifato da una giustizia che ammette un assassino reo confesso, che ha ucciso, fatto a pezzi ed eviscerato una ragazza, di accedere a un percorso simile”. La fiducia nella giustizia è a rischio? È una reazione comprensibile che va rispettata. Tanto più il reato è grave, quanto più serve tempo per creare le condizioni che, a volte, possono portare le vittime a cercare e ad accettare la giustizia riparativa. L’esperienza degli anni di piombo lo insegna. Quel che è importante è non alimentare allarmismi e dare una corretta informazione: non vi è stato alcuno sconto di pena ma solo l’invio a un centro di giustizia riparativa per valutare la fattibilità di un programma con vittima aspecifica. In caso di esito positivo, il giudice potrà valutare se riconoscere una riduzione della pena o concedere qualche beneficio penitenziario. Qual è esattamente la logica di tale meccanismo? La pena va commisurata oltre che alla gravità del fatto al bisogno di rieducazione, e il positivo svolgimento di un programma di giustizia riparativa, anche con vittima aspecifica, può dire qualcosa in proposito. Dall’altro versante si definisce “vittimocentrica” la giustizia riparativa: è esagerato? Direi di sì. Il caso di cui discutiamo mette al centro l’autore, reo confesso, non la vittima. E, comunque, se la vittima è messa ai margini del processo penale, la giustizia riparativa, che sta fuori dal processo penale e vi si innesta solo, può colmare una lacuna. Sulla giustizia riparativa sono possibili correttivi? Tutto si può correggere e migliorare, certo. Ma più che di correttivi vi è bisogno di continuare a dare attuazione alla legge formando i mediatori esperti e costituendo i servizi e i centri per la giustizia riparativa. Da quest’anno nel “Manuale di diritto penale” di cui sono autore, con Emilio Dolcini, è presente un capitolo sulla giustizia riparativa, che sarà studiata dai ventenni a Giurisprudenza, ma anche dai futuri avvocati e magistrati. A ottobre a Scandicci la Scuola superiore della magistratura organizzerà un corso sul tema. Il futuro insomma è già cominciato e va accompagnato. Ecco cosa fare contro i femminicidi di Dacia Maraini Corriere della Sera, 26 settembre 2023 Cosa fare per prevenire questi eccidi? È una domanda che si fanno in molti. Il racconto purtroppo è sempre lo stesso: un uomo e una donna si incontrano, si amano, si sposano o convivono facendo spesso dei figli. Dopo qualche anno, se lei non mostra una totale passività, lui comincia a smaniare. Vorrei non dovere intervenire ogni minuto per esprimere l’indignazione di tante donne che si sentono trattate come fossero una etnia minoritaria, prese di mira da uomini rabbiosi e fatte fuori come nemiche da cancellare. Il silenzio diventa complicità ed è giusto parlarne, anche se suona ripetitivo. Ma ripetitivi sono i fatti. In gennaio le donne uccise dai loro mariti e amanti sono: Giulia Donato, Martina Scialdone, Oriana Brunelli, Teresa Di tondo, Alina Cristina Cozac. In febbraio: Yana Malayko, Melina Marino, Santa Castorina. In marzo: Julia Astafieva, Maria Buttò, Zenepe Uruci. In aprile: Sara Ruschi, Brunetta Ridolfi. In maggio: Daniela Neza, Jessica Malaj. In giugno: Giulia Tramontano, Pierpaola Romano, Maria Brigida Pesacane, Floriana Floris, Svetlana Ghenciu, Margherita Ceschin, Maria Causo. In luglio: Mariella Marino, Angela Gioiello; Sofia Castelli. In agosto: Celina Frei Matzohl, Anna Scala, Vera Schiopu. In settembre: Rossella Nappini, Marisa Leo, Maria Rosa Troisi. Cosa fare per prevenire questi eccidi? È una domanda che si fanno in molti. Il racconto purtroppo è sempre lo stesso: un uomo e una donna si incontrano, si amano, si sposano o convivono facendo spesso dei figli. Dopo qualche anno, se lei non mostra una totale passività, lui comincia a smaniare. La gelosia diventa invadente, oppressiva, e spesso sfocia violenze psicologiche e fisiche. La donna, soprattutto se ha figli e non lavora, alla ennesima violenza va a denunciare. Atto coraggioso che non tutte riescono a fare perché isolate e impaurite. Ma pure, anche quando l’uomo viene condannato a stare lontano, trova un modo per stanarla con l’inganno e ammazzarla. Compiuto il delitto, in genere scappa, spesso si suicida. Quando un uomo identifica la sua virilità col possesso di una donna che considera roba sua, ogni moto di indipendenza di lei diventa un attentato alla sua virilità, ovvero alla sua esistenza maschile. E questo lo stravolge a tal punto da sentire il bisogno di ucciderla per mostrare a se stesso che la sua virilità è viva e vincente, anche a costo di darsi poi la morte. Che fare? Intanto ampliare e finanziare le case rifugio che da ultimo sono state private di mezzi. Poi cominciare una campagna di responsabilizzazione dei media che smettano di mostrare le donne come corpi in offerta, quindi agire sulle scuole per insegnare il rispetto dell’altro. Messina Denaro, gli orfani della Trattativa già cercano il successore. Ma quella Mafia ha perso di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 26 settembre 2023 Cosa Nostra è Stata sconfitta dalla forza dello Stato. Giornalisti, magistrati e politici si rassegnino. Anche l’ultimo dei “figli cattivi” dello Stato non c’è più. Dopo Bernardo Provenzano e Totò Riina, e poi anche Raffaele Cutolo, ex capo della Nuova Camorra organizzata, anche Matteo Messina Denaro se ne è andato. Anche lui per morte “naturale”, per quanto normale possa essere sopravvivere per anni nel regime speciale previsto dall’articolo 41-bis dell’Ordinamento penitenziario. Vite vissute pericolosamente con gravi responsabilità di omicidi e stragi. Poi morti con le manette al polso, sia pure in reparti ospedalieri, protetti e isolati. A Messina Denaro è stato consentito di morire con dignità, di stendere un testamento biologico, di chiedere e ottenere che non si infierisse sul suo corpo con accanimento terapeutico e di poter passare dalla vita alla morte con una sedazione e cure palliative che lo accompagnassero. Ha avuto vicina la figlia, cui non ha voluto mostrarsi nel degrado fisico delle ultime settimane, e anche altri familiari. Ha avuto maggior fortuna dei suoi “colleghi” e dei loro parenti, costretti a vedere corpi ormai in stato vegetativo trattati come fossero ancora pericolosi e quindi trattenuti in isolamento totale da una sorveglianza assurda e crudele. Ma, se lo Stato e la sanità hanno avuto un comportamento misericordioso nei confronti di chi non lo fu con le proprie vittime, l’accanimento dell’antimafia militante non dorme mai. E pare ora riversarsi sul contorno, sulle vere o presunte complicità che avrebbero consentito al capo (ammesso che lo fosse davvero) di Cosa Nostra di sfuggire alla giustizia per trent’anni. Lui stesso ha contribuito con un po’ di vanteria alla costruzione del mito della primula rossa. Se non mi fossi ammalato, ha detto ai magistrati, non mi avreste preso mai. Così dando l’occasione di una sorta di gogna collettiva di paese, quella che in queste ore sta calando sulla città di Castelvetrano quasi fosse abitata solo da mafiosi con le porte aperte ad accogliere il boss. Capofila si mostra una volta di più il quotidiano La Repubblica che, nella sua edizione di Palermo, mette “tra i complici anche l’ex senatore D’Alì”. Ma complice di che cosa? Delle stragi? Alla vergogna non c’è mai limite. L’ex parlamentare di Forza Italia Tonino D’Alì sta scontando da quasi un anno con molta dignità nel carcere di Opera una pena ingiusta per l’evanescenza di un “concorso esterno” radicato solo dal suo luogo di nascita e dalle proprietà terriere della sua famiglia. Così, con la logica dell’arrendersi mai, gli orfani del processo “trattativa Stato-mafia”, ovunque siano oggi collocati, nelle redazioni, nei tribunali o in Parlamento, paiono aver bisogno della sopravvivenza di qualche mafia per poter continuare a militare nel partito dell’antimafia. Non si rassegnano al fatto che lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. E si stanno già arrovellando a capire chi sarà il “successore” di Messina Denaro, che prenderà il suo posto a capo di Cosa Nostra. Peccato però che quella Cosa Nostra, quella di Riina e Provenzano non esista più. E lo stesso Messina Denaro probabilmente non ne era più associato da tempo. Ma c’è un altro elemento, per quanto esile, che pare tenere ancora insieme quella che Sciascia chiamava “la mafia dell’antimafia”. Ed è l’angosciosa domanda: quali segreti ha portato con sé nella tomba l’ex capo dei corleonesi? Come se, in tutti questi anni, non ci fossero stati inchieste e processi, e schiere di “pentiti” pronti a sciorinare le loro verità, non sempre credibili, ma spesso utili a ricostruire i fatti più tremendi come le stragi. O vogliamo riaprire il processo “trattativa” sotto le mentite spoglie dei “segreti” di Matteo Messina Denaro? Certo, l’aggancio giudiziario c’è, anche se ultimamente pare essere in sonno il traffico di veline e spifferi ai cronisti di riferimento. Parliamo dell’inchiesta-fisarmonica della procura di Firenze, quel fascicolo che si apre e chiude come se non avesse termini di scadenza. Quello che con molta fantasia ancora tiene inchiodato Marcello Dell’Utri, ma anche Silvio Berlusconi, almeno nelle citazioni giornalistiche, anche dopo che non c’è più. Quello che abbiamo lasciato con la procura che chiedeva di arrestare il gelataio giocoliere Salvatore Baiardo e i giudici che si opponevano e i pm che insistevano fino alla cassazione. Non dimentichiamo che questo personaggio aveva esordito nella trasmissione di Massimo Giletti “Non è l’arena” proprio indovinando, con due mesi di anticipo, che Messina Denaro, di cui da un po’ di tempo si diceva fosse malato, sarebbe stato arrestato. O meglio, che avesse interesse a lasciarsi prendere. Intuizione? O più probabilmente millanteria di un millantatore di professione? Ora non ci resta che attendere i segugi di Repubblica, del Fatto e di Domani. E di tutti quelli che hanno bisogno che ci sia la mafia perché possa sopravvivere una certa antimafia. E che non vogliono seppellire Matteo Messina Denaro, tenendolo in vita artificialmente con i suoi “segreti”. Il boss è morto, ora chi scrive il romanzo dell’antimafia? di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 26 settembre 2023 Adesso che l’ultimo grande boss di Cosa Nostra non è più in vita chi prenderà il suo posto nell’immaginario giornalistico? Ne va di un filone letterario che ignora scientemente i fatti per inseguire vecchi fantasmi. L’uscita di scena di Matteo Messina Denaro è stata provocata “solo dalla malattia”, si rammarica La Repubblica, non si sa in base a quale verosimile alternativa: la fucilazione? L’iniezione letale? La pasticca di cianuro come i gerarchi del Terzo Reich? O magari una spettacolare sparatoria con la polizia come accadde al colombiano Pablo Escobar. In genere non c’è nessuna epica nella scomparsa dei grandi capi di Cosa Nostra: Riina, Provenzano, e ora Messina Denaro sono tutti morti per malattia, mestamente, tutti in regime di 41 bis, irrimediabilmente sconfitti dallo Stato. Gli ultimi due poi, costretti, di covo in covo, a una vita da fuggiaschi, lontani anni luce dalle stagioni sanguinose delle stragi e delle faide in cui tenevano in pugno il Paese e il potere gli colava letteralmente dalle mani. Ma il diavolo, si sa, si annida nei dettagli, e per l’antimafia delle chiacchiere raccontare la perversa grandezza dei padrini è soprattutto una questione di stile, un po’ come per i villain dei film di Hollywood. Peccato che si tratta di un romanzo vintage, che ci racconta le gesta di una Mafia vecchia di trent’anni i cui protagonisti sono stati tutti arrestati e che oggi non hanno più alcuna influenza concreta sull’organizzazione. Adesso che l’ultimo grande boss di Cosa Nostra non è più in vita chi prenderà dunque il suo posto nell’immaginario giornalistico, quale sarà l’erede? Il dramma è che, anche esagerando, quella figura è impossibile da tratteggiare, forse perché non esiste. Come spiega lo storico Salvatore Lupo in un’intervista al Foglio, “non si vede perché la Mafia debba avere necessariamente un superboss”. Un vero problema, anche perché Cosa Nostra da decenni tiene un profilo bassissimo praticamente senza commettere fatti di sangue o reati penalmente rilevanti, costringendo così i nostri romanzieri a virtuose iperboli sul suo subdolo mimetismo, sulle sue inquietanti strategie attendiste, sulle sue ramificazioni globali e sulla sua abilità nel nascondersi nelle pieghe del sistema, una Mafia “dormiente” e per questo descritta come ancora più insidiosa e difficile da individuare. La paradossale conclusione è che meno Cosa Nostra commette reati più diventerebbe pericolosa. Quasi che rimpiangano le migliaia di morti ammazzati degli anni Ottanta e Novanta quando Palermo era una città in stato d’assedio come Beirut. Lo chiamano giornalismo di inchiesta ma in realtà è un filone letterario, un genere di intrattenimento popolare che ignora scientemente i fatti per inseguire vecchi fantasmi. Viterbo. “Mio marito ha trovato il compagno di cella impiccato” di Samuele Sansonetti tusciaweb.eu, 26 settembre 2023 Parla la moglie di un detenuto che nei giorni scorsi ha salvato la vita a un ragazzo: “Fortunatamente è riuscito a tirarlo giù, nel carcere la situazione è sempre più tragica”. Un detenuto morto, altri due che hanno tentato il suicidio e altri ancora che hanno appiccato un incendio in cui alcuni agenti di polizia penitenziaria sono finiti intossicati. È il tragico bilancio degli ultimi giorni al carcere di Mammagialla, dove la situazione è sempre più pesante a causa del personale che scarseggia e del numero troppo alto di detenuti presenti. I posti disponibili sarebbero 400 ma attualmente le persone recluse all’interno della struttura sono circa 630. Per quanto riguarda il personale, secondo le stime dei sindacalisti Maffettone (Sinappe), Carrano (Uilpa), Bernabucci (Uspp), Orlandi (Fns Cisl) e Vinciguerra (Fp Cgil), si parla di 100 unità in meno rispetto all’organico previsto. La situazione è difficile per chi ci lavora ma anche per chi nel carcere ci vive. Senza dimenticare chi il carcere è costretto a viverlo per via di un famigliare che si trova all’interno con una pena da scontare. Tra queste persone c’è Francesca (nome di fantasia), moglie di un detenuto che nei giorni scorsi ha salvato la vita al compagno di cella che ha tentato il suicidio. Francesca, com’è la situazione all’interno del carcere? “Più si va avanti e più diventa tragica. Il personale è poco, i detenuti sono tantissimi e la situazione è insostenibile”. Suo marito ha sventato un tentativo di suicidio. Com’è andata? “Nei giorni scorsi è morto un uomo e ci sono stati addirittura due tentativi di suicidio. Uno dei due è un ragazzo che divide la cella con mio marito. Il giovane è andato in bagno e poco dopo mio marito ha sentito qualcosa cadere. È corso nell’altra stanza e lo ha trovato impiccato con un lenzuolo intorno al collo. Fortunatamente è riuscito a tirarlo giù e lo ha salvato”. Come è finita? “Mio marito ha chiamato la direzione. Per lui è stato un duro colpo ma è felice di aver salvato una vita. Nei prossimi giorni gli verrà riconosciuto un encomio”. Nel carcere ci sono altre cose che non funzionano? “I citofoni sono rotti e i detenuti nei casi di emergenza non riescono a contattare la direzione in maniera rapida. C’è poi la questione relativa alla tempistica delle domande che per essere accolte hanno bisogno di mesi. La cosa principale, però, è la mancanza di personale”. Il rapporto tra detenuti e personale è buono? “Sì. La maggior parte dei dipendenti sono brave persone e il rapporto non è affatto male”. Quanto influisce la mancanza di personale nell’andamento della struttura? “Purtroppo influisce tanto e in maniera negativa. Le risorse lavorative sono poche e molto spesso non sono sufficienti per tenere a bada il gran numero di detenuti”. La situazione è difficile anche per i famigliari... “È vero. Anche viverla da fuori non è facile. Ci sono solamente sei ore al mese di colloqui che in rapporto sono poco più di un’ora a settimana. Le chiamate sono una al giorno e durano dieci minuti esatti”. Viterbo. Il Garante dei detenuti: “Preoccupante tasso di affollamento e carenza di personale” viterbotoday.it, 26 settembre 2023 Il garante dei detenuti Stefano Anastasia ha visitato il carcere di Mammagialla. La giornata è iniziata dal reparto di medicina protetta e dal Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) del nosocomio viterbese. Qui il garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio ha incontrato un uomo e una donna internati, in attesa di essere trasferite in Rems. “La situazione dell’uomo - riporta Anastasia - è in via di soluzione, in quanto dovrebbe essere trasferito in Rems nei prossimi giorni. Difficoltà ci sono ancora per la donna che si trova nello Spdc, piantonata da diversi mesi e che invece dovrebbe essere trasferita nella Rems di Pontecorvo. È una situazione di disagio sia per la donna sia per il reparto, nel quale i pazienti dovrebbero restare per il tempo strettamente necessario al trattamento delle acuzie e non per mesi come in questo caso”. Il garante sì è poi recato alla Asl. In direzione generale ha partecipato al tavolo per la tutela della salute dei detenuti, dedicato al sistema di erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, a garanzia dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel piano sanitario nazionale e in quelli regionali e locali. Del tavolo ne fanno parte, sotto il coordinamento della Asl e della direzione di Mammagialla, tutte le istituzioni del territorio che operano in ambito carcerario. Durante la riunione è stato approvato il nuovo piano per contrastare il rischio di suicidio, che aggiorna quello del 2018, ed è stata raggiunta un’intesa per la carta dei servizi sanitari della Asl che sarà distribuita assieme alla “Guida per i nuovi giunti negli istituti penitenziari” realizzata dalla struttura del garante delle persone detenute della Regione Lazio. Sono stati affrontati anche i problemi riguardanti la digitalizzazione dei servizi sanitari, le carenze e le condizioni di lavoro del personale sanitario. Alla riunione hanno partecipato la direttrice del carcere di Mammagialla, Anna Maria Dello Preite, la direttrice sanitaria della Asl, Antonella Proietti, il direttore di medicina protetta e malattie infettive di Belcolle, Giulio Starnini, e il responsabile della medicina penitenziaria territoriale, Fabrizio Ferri. Anastasia, infine, si è recato a Mammagialla dove ha incontrato e parlato con alcuni detenuti. “Preoccupante - afferma il garante - il tasso di affollamento sulla capienza regolamentare che ha superato il 141%. A fronte di 440 posti previsti, sono presenti 623 detenuti. La percentuale sale al 154% se si considerano i posti effettivamente disponibili, che sono 405”. Altro tema caldo, che si ripercuote sull’intero funzionamento del carcere, è la carenza di personale educativo e della polizia penitenziaria. La pianta organica prevede 343 unità di personale ma i presenti sono 256 e gli effettivi 216, vale a dire circa i due terzi di quelli previsti dalla pianta organica. Sassari. In carcere anche se incompatibile con la detenzione di Emanuele Floris L’Unione Sarda, 26 settembre 2023 L’avvocato di un ventiseienne sassarese: “Vorrei capire come è possibile che sia dichiarato incapace di intendere e di volere a Cagliari e Nuoro, ma qui no”. Costretto in carcere senza poterci stare. È il singolare caso di un ventiseienne sassarese, ieri condannato dal tribunale di Sassari a sei mesi per il danneggiamento di un tavolino e di una porta blindata a Bancali. “Vorrei capire”, si domanda nel corso della discussione il suo avvocato Marco Palmieri, “come questa persona sia dichiarata incapace di intendere e di volere per i tribunali di Cagliari e Nuoro e a Sassari no”. Sono undici i processi pendenti contro il giovane, al momento ricoverato in un reparto psichiatrico di un carcere della penisola, di cui è stata accertata la “doppia diagnosi”, ovvero l’essere affetto sia da un disturbo mentale che da quello di un uso di sostanze. Il legale sostiene da tempo una lotta per tirare fuori il 26enne dalla prigione: “È del tutto incompatibile con una struttura carceraria”. Una battaglia arrivata fino alla corte europea dei diritti dell’uomo per impedire che finisca di nuovo dietro le sbarre e che lo stesso Palmieri paga di tasca sua. “Dovrebbe stare in un luogo”, afferma, “in cui si cura chi ha una doppia diagnosi. Ma quando mando le Pec a queste comunità per farlo ospitare, non mi rispondono”. Come se il giovane, visti i suoi problemi, non fosse gradito. “Così però si trascura un’emergenza sociale. Le persone con doppia diagnosi aumenteranno in modo esponenziale”. E affollano già adesso tribunali e carceri creando una miscela esplosiva, per se stessi e per gli altri. Torino. Detenuti coinvolti in lavori di pubblica utilità per la raccolta rifiuti di Massimiliano Quirico comune.torino.it, 26 settembre 2023 La Città di Torino stringerà un accordo di collaborazione con la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” e con Amiat, per un progetto che coinvolga i detenuti in lavori di pubblica utilità nel contesto della raccolta rifiuti sul territorio cittadino. Lo prevede una mozione (primo firmatario: Simone Fissolo - Moderati), approvata il 25 settembre 2023 dal Consiglio Comunale di Torino all’unanimità (34 voti favorevoli su 34 consigliere e consiglieri presenti). Ho proposto il documento - ha spiegato in aula Simone Fissolo - Moderati) con la consapevolezza che il lavoro possa essere uno strumento rieducativo e in grado di favorire il re-inserimento sociale. È un modo per evitare il sovraffollamento del carcere e, allo stesso tempo, diminuire il rischio della “recidiva”, che a Torino raggiunge il 70%. È un’ottima occasione per provare a ridurre la recidiva dei detenuti - ha sostenuto nel dibattito in Sala Rossa il consigliere Pierlucio Firrao (Torino Bellissima) - e favorire il loro rientro nella società. Le pene devono tendere sempre alla rieducazione, ma spesso ciò non accade - ha spiegato Ivana Garione (Moderati) - e la proposta servirà a dare un’opportunità di vita sociale e di relazione ai carcerati. Il carcere non è una struttura avulsa dalla città e non deve essere solo punitivo - ha ribadito Claudio Cerrato (PD) - ma deve favorire la rieducazione, come prevede la mozione, che vuole riattivare un percorso già sperimentato in passato. Torino. Convegno sul ruolo delle Regioni nel sistema penitenziario garantedetenutilazio.it, 26 settembre 2023 Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, Bruno Mellano, in collaborazione con la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, e con il sostegno del Consiglio regionale del Piemonte, ha organizzato a Torino una conferenza nazionale dal titolo “Carcere: il ruolo delle Regioni”. L’evento è previsto per lunedì 2 ottobre 2023 dalle ore 15,00 alle ore 18,00 presso la Sala Musica del Circolo dei Lettori, a Palazzo Graneri della Roccia, via Bogino 9: si tratta di una location particolarmente prestigiosa della Regione Piemonte, in centro città. “L’iniziativa - spiega Mellano - nasce e si sviluppa in concomitanza con Secondo Festival delle Regioni organizzato proprio a Torino dalla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome. L’appuntamento, pensato con il portavoce della nostra Conferenza, ha l’obiettivo di enucleare ed evidenziare il ruolo delle Regioni in tema di esecuzione penale, richiamando l’attenzione dei rappresentanti istituzionali e dell’opinione pubblica sui compiti che il quadro normativo mette in capo, spesso in modo esclusivo, alle Regioni nella gestione del carcere contemporaneo, dalla sanità alla formazione professionale, dal lavoro alle politiche sociali, dall’istruzione all’università”. Per il Festival delle Regioni, fra il 30 settembre e il 3 ottobre., saranno presenti a Torino tutti i presidenti di Regione, gran parte dei ministri del Governo, la presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica: proprio nel pomeriggio di lunedì 2 ottobre il programma del Festival prevede cinque sessioni di lavoro in tavoli tematici. “In concomitanza con questa fase - prosegue Mellano - si è pensato di sviluppare in chiave propositiva una riflessione e un approfondimento sul ruolo misconosciuto delle Regioni in campo di esecuzione penale”. Dopo i saluti istituzionali del Consiglio regionale, sono previsti gli interventi di Stefano Anastasìa (Garante Regione Lazio, Portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali), Laura Scomparin (Vice Rettrice dell’Università di Torino), Emilia Rossi (componente del Collegio del Garante nazionale) e Rita Monica Russo (Provveditore Amministrazione Penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta). Ferrara. La Notte europea dei ricercatori “entra in carcere” unife.it, 26 settembre 2023 La Notte europea dei ricercatori “entra in carcere”: Lo fa tramite l’evento nazionale “L’empowerment femminile dentro e fuori le mura”, organizzato dalla Conferenza nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli universitari penitenziari (Cnupp). All’iniziativa, inserita nel cartellone Aspettano la Notte, aderiscono 16 Università e 9 istituti penitenziari, tra i quali l’Università di Ferrara con la Casa circondariale, che si collegheranno all’evento nazionale. Un momento di riflessione che già nella prima edizione, lo scorso anno, è stato seguito da centinaia di persone detenute in istituti penitenziari diversi, grazie all’impegno comune di molte Università aderenti alla Cnupp, del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e delle direzioni degli stabilimenti penitenziari coinvolti. Le persone interessate potranno seguire il collegamento con l’evento nazionale, nel carcere di Pozzuoli, in diretta streaming dall’Aula 7 del Dipartimento di Giurisprudenza (corso Ercole I d’Este 37), dove Niccolò Tronchin e Stella Dal Zotto, operatori dello Sportello di orientamento legale extragiudiziale per le persone detenute nella Casa circondariale di Ferrara, saranno presenti per introdurre l’iniziativa e rispondere alle domande dei presenti. A questa parte iniziale nazionale in streaming, seguiranno, nella seconda parte della mattina, iniziative locali in presenza per consentire a ricercatrici e ricercatori di esporre le loro ricerche alle persone detenute presenti. Negli istituti solo maschili, come quello di Ferrara, l’evento locale sarà dedicato al diritto all’affettività e genitorialità delle persone detenute. Ne discuteranno nella sala teatro della Casa circondariale di Ferrara la Professoressa Stefania Carnevale, Delegata della Rettrice ai rapporti con l’Amministrazione penitenziaria, e la Dottoressa Camilla Caselli, dottoranda di ricerca in Studi sulla criminalità organizzata. Con questo doppio evento l’Università di Ferrara è tra gli Atenei che si sono maggiormente impegnati nella comune giornata di sensibilizzazione su alcune delicate questioni che riguardano il mondo detentivo, coinvolgendo nella Notte europea dei ricercatori anche le persone detenute. Monza. La voce di chi sta dietro le sbarre: carcere e arte a Palazzo Borromeo di Valentina Vergani Gavoni Il Giorno, 26 settembre 2023 Fino a domenica 1 ottobre è possibile visitare la rassegna “Rinascita” Obiettivo: promuovere il reinserimento dei detenuti nell’ambito del grande patrimonio culturale italiano. Palazzo Arese Borromeo apre le porte agli artisti delle quattro carceri milanesi fino al 1° ottobre. I detenuti degli Istituti di pena Beccaria, Bollate, Opera e San Vittore, attraverso i loro quadri, ci fanno entrare nel loro mondo. Raccontano, a chi sta fuori, la loro vita dentro una cella. E i simboli della detenzione carceraria si alternano agli affreschi evangelici del palazzo nobiliare. Un contrasto romantico che rappresenta in pieno il significato della mostra. “Rinascita” è il titolo che l’associazione DentroFUoriars ha scelto per promuovere il reinserimento sociale dei detenuti nell’ambito del grande patrimonio culturale italiano. “Ho fatto del male…Ora la luce nei miei occhi è cambiata…Io sono cambiato. Il futuro è ancora tutto da scrivere”. Queste sono le parole di un artista, racchiuse in un libro disegnato in bianco e nero. “Freedom”, libertà, si legge invece sulla schiena di un detenuto dipinto dietro le sbarre. Davanti il cielo azzurro e le nuvole bianche. “Il carcere che dà frutti è quello che si trasforma in un luogo in cui non esiste il bisogno di esercitare un potere che è già presente con il muro di cinta che ben delinea il senso della libertà repressa - si legge nella descrizione all’ingresso della mostra - Chi vuole il carcere del ‘buttate la chiave’ vuole un carcere punitivo dove il detenuto ritornerà a delinquere: dove passerà il tempo in cella ad abbruttirsi, a guardare la tv o a guardare il soffitto facendo aumentare rancore e odio dentro se stesso nei confronti della società”. L’arte diventa così un ponte che unisce mondi diversi: “Perché è la cultura che aiuta a comprendere e capire”. Ville Aperte in Brianza offre la possibilità di entrare in contatto con realtà sconosciute o dimenticate. “Vent’anni di una grande storia” è il titolo della mostra realizzata in occasione della 20° edizione in collaborazione con l’Istituto di Storia dell’Arte Lombarda-Isal, aperta al pubblico fino al 1° ottobre sempre a Palazzo Arese Borromeo. Un evento importante che permette di scoprire tutte le ville che nel corso dei vent’anni hanno aderito all’iniziativa. Partita nel 2003 con poche migliaia di partecipanti, nel periodo pandemico del 2020-2021 ha coinvolto quasi 45mila visitatori. Le testimonianze storiche, di grande valore artistico, rendono ancora oggi questo territorio unico. La nobiltà lombarda scelse proprio la Brianza come luogo di villeggiatura. E queste dimore rappresentavano il potere e il prestigio raggiunto dalla propria casata. Passato e presente si alternano. Artisti di ieri e artisti di oggi comunicano tra di loro. Un modo per dare continuità a una storia che non finisce mai. Quando la Rsa diventa una prigione garantedetenutilazio.it, 26 settembre 2023 Daniela De Robert, componente del collegio del Garante nazionale, al convegno Agorà Alzheimer: “La sfida è sempre quella: il sostegno all’autonomia e all’autodeterminazione della persona”. Il ruolo dei Garanti delle persone private della libertà nel monitoraggio delle possibili criticità nelle residenze socioassistenziali (Rsa) è stato portato all’attenzione dei partecipanti al convegno “Agorà Alzheimer” da Daniela De Robert, membro del Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Al convegno, che si è svolto mercoledì 20 settembre a Roma, alla vigilia della trentesima giornata mondiale dell’Alzheimer, sono intervenuti anche l’assessore ai Servizi sociali, disabilità, Terzo settore, servizi alla persona della Regione Lazio, Massimiliano Maselli, il quale ha annunciato l’imminente presentazione di una proposta di legge regionale a sostegno dei caregiver, e l’assessora alle Politiche sociali e alla salute di Roma Capitale, Barbara Funari. La presidente dell’associazione Sos Alzheimer che ha organizzato il convegno, Maria Grazia Giordano, ha ricordato che l’autorità nazionale di garanzia, composta da Daniela De Robert, Emila Rossi e da Mauro Palma che la presiede, è intervenuta nel caso Carlo Gilardi, noto al grande pubblico soprattutto per i diversi servizi del programma di Italia1 Le iene, vale a dire il caso di un professore ultranovantenne rinchiuso contro la sua volontà in una Rsa del Nord Italia. De Robert ha subito puntualizzato che il monitoraggio delle strutture residenziali rivolte alle persone anziane e alle persone con disabilità rientra pienamente nel mandato di un’autorità garante che si occupa di privazione della libertà personale. “L’emergenza pandemica - ha spiegato De Robert - ha messo in evidenza come talvolta queste strutture residenziali racchiudano quella caratteristica falsamente rassicurante del concetto di totalità, un concetto tipico delle istituzioni chiuse, per cui l’istituzione attraverso i suoi operatori provvede alla gestione totale del tempo, dello spazio, dei movimenti, della quotidianità intera. E’ in questa prospettiva che il Garante ha quindi rivolto la sua attenzione, all’interno di queste strutture dove a volte le persone anziane e le persone con disabilità rimangono per periodi indefiniti che vanno anche oltre le previsioni iniziali e oltre la volontà espressa all’inizio o espressa in seguito”. “In questo - ha proseguito De Robert - il Garante è chiamato a monitorare: la sfida è sempre quella del sostegno all’autonomia, cioè a valorizzare sempre quel margine anche limitato, anche apparentemente residuale, di autodeterminazione che però costituisce il germe del riconoscimento del diritto di ogni persona. L’area della residenzialità protetta a volte sconfina e assume di fatto una dimensione privativa della libertà personale, soprattutto per quelle persone che non hanno figure di accudimento da loro riconoscibili. Allora può accadere che una figura di sostegno agisca non a sostegno ma in sostituzione della persona da tutelare, prendendo decisioni che non tengono conto in nessun modo della volontà della persona stessa”. Il caso del professor Carlo Gilardi - De Robert ha poi parlato del ruolo svolto dal Garante nazionale nel noto caso Gilardi, costato all’Italia una censura da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. “Il caso del professor Carlo Gilardi - ha riferito De Robert - è veramente un caso di scuola per noi che abbiamo seguito con molta attenzione. Purtroppo, continuiamo a seguire casi di altre persone in quella stessa situazione. La sua vicenda contiene un po’ tutte le variabili di privazione della libertà di fatto di una persona anziana con degli elementi di vulnerabilità, ma ancora capace di decidere e tuttavia privato della possibilità di decidere della propria vita e della propria quotidianità. A novant’anni quest’uomo è stato ricoverato contro la sua volontà in una Rsa, privato della possibilità di avere contatti con l’esterno, di ricevere visite. È stato portato via con la forza dalla propria abitazione, per evitare, secondo l’amministratore di sostegno, che le persone che frequentavano la sua casa potessero aggredire il suo patrimonio. Con questa motivazione è stato allontanato dalla sua casa, ricoverato coattivamente in una residenza assistenziale, isolato dai suoi affetti e dalla sua quotidianità. Dall’ottobre 2020 per oltre due anni le uniche visite che ha potuto ricevere il signor Gilardi sono state quelle del Garante nazionale, perché al Garante nazionale non può essere impedito l’accesso ai luoghi di privazione della libertà. Abbiamo parlato con tutti gli interlocutori, abbiamo scritto alcuni rapporti”. La Corte europea dei diritti dell’uomo censura l’Italia - Nel luglio 2023, l’Italia è stata censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con una sentenza che ha riconosciuto la violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che tutela il diritto al rispetto della vita privata e che ha affermato che l’ingerenza finalizzata a tutelare il benessere della persona in questo caso non era né proporzionata né commisurata alla situazione individuale. “È una sentenza importante - ha rimarcato De Robert - che in gran parte si basa anche sui rapporti e sul lavoro fatto dal Garante nazionale. Parliamo quindi di una persona capace di badare a se stessa, in teoria capace di autodeterminarsi”. I Garanti per la tutela dei diritti delle persone affette da demenza - “Per la persona affetta da demenza - ha evidenziato De Robert - l’esposizione al rischio di un’ingerenza sbilanciata è maggiore. È una situazione complessa che richiede una pluralità di sguardi: quello medico, quello assistenziale, quello giuridico, quello degli affetti e quello rivolto alla tutela dei diritti delle persone affette da demenza, perché la tutela della vita non può mai essere esclusivamente il diritto alla tutela della mera vita biologica. Il ministero della Salute ha riconosciuto l’impegno, l’azione e la necessità che anche il Garante nazionale fosse parte del tavolo permanente sulle demenze. Il Garante ha un’unità salute che si occupa anche delle questioni che riguardano le strutture residenziali per persone fragili per persone anziane, per persone con disabilità che lavora molto. Purtroppo - ha concluso De Robert -, sono molte anche le segnalazioni che arrivano al Garante. Continueremo con il nostro lavoro di visita, con il nostro lavoro di raccomandazione, con le istituzioni, in questo caso anche con il tavolo permanente sulle demenze”. Anche il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio ha competenza sulle Rsa, limitata alle persone in stato di interdizione legale, a seguito delle modifiche alla legge istitutiva (legge regionale 31/2003, “Istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale”) introdotte con la legge 19/2022. Quei Cpr ridiventati camere di punizione di Mario Deaglio La Stampa, 26 settembre 2023 I migranti non solo sbarcano sulle nostre coste: da qualche giorno irrompono nella politica europea. Il primo ministro ungherese, Viktor Orban, condanna il patto su migrazione e asilo proposto dalla Commissione europea tre anni fa e accusa i migranti clandestini che vogliono entrare nel suo paese di essere armati e aggressivi. Il primo ministro italiano, Giorgia Meloni, critica, con toni più pacati, il suo collega tedesco Olaf Scholz per i rilevanti finanziamenti alle Ong tedesche che salvano i migranti in mare, ritenendo che questi salvataggi siano un incentivo a maggiori partenze irregolari; Papa Francesco invita ad aprire le porte, qualche politico italiano vorrebbe chiudere i porti. In questa grande confusione, la risposta italiana si chiama Cpr, ovvero Centro di permanenza per il rimpatrio in cui accogliere (o meglio, tenere rinchiusi) i migranti senza permesso di soggiorno, in attesa che il loro caso venga esaminato e l’espulsione, se necessaria, venga effettuata. La sigla Cpr ha però un altro significato per chi non è più giovane: significa Camera di punizione di rigore, una pena che poteva essere comminata, per mancanze gravi, da un ufficiale a un militare alle sue dipendenze. La Cpr era una cella in cui il militare colpevole di gravi trasgressioni poteva essere rinchiuso - normalmente fino a dieci giorni - per mancanze gravi: senza cintura e con le scarpe senza stringhe, un’ora d’aria al mattino e una al pomeriggio, sotto la sorveglianza di un collega armato. Un vero e proprio carcere duro, insomma, forse anche per questo, abolito nel 1978. I migranti, in quanto tali, non sono colpevoli di nulla, e non ha senso chiuderli in campi di detenzione addirittura per più di un anno; d’altra parte non si possono neppure lasciare liberi sulle nostre strade, facendo finta di niente. Per uscire da questa difficile situazione potremmo imparare qualcosa dall’esperienza tedesca del 2015-16: la cancelliera Angela Merkel decise di aprire le porte a tutti i profughi provenienti dalla Siria, dove infuriava una sanguinosa guerra civile. Tutti? Qualche lettore sarà incredulo, eppure è proprio così; nel giro di circa diciotto mesi ne arrivarono oltre un milione. Naturalmente i punti d’arrivo erano dei centri d’accoglienza, con molti punti di apparente somiglianza con quelli italiani. Mentre, però, in Italia ci si preoccupa soprattutto di tenere dentro i profughi, nei centri tedeschi ci si preoccupava di mandarli fuori appena possibile. In Italia non si è ancora di fatto affrontato, in termini generali, il problema di che cosa debbono o possono fare i reclusi in questi centri durante il giorno, tra un pasto e il successivo. In Germania questo era uno dei punti centrali dell’azione di governo: innanzitutto, i profughi dovevano imparare le basi di una lingua non facile come il tedesco, e poi gli usi e costumi tedeschi, a cominciare dalle regole del traffico; molte volte si insegnavano loro i fondamenti di qualche mestiere per il quale c’era scarsità di manodopera e ci si preoccupava che il cibo fosse coerente con le loro abitudini alimentari. I risultati sono largamente soddisfacenti: solo un profugo su quattro vive ancora nei campi, gli altri in normali case d’abitazione. La grande maggioranza delle famiglie può contare su almeno un lavoro regolare, i giovani frequentano le scuole tedesche: non sono “diventati tedeschi” ma sono dei buoni cittadini. In Italia i Cpr sono concepiti come l’anticamera del respingimento, in Germania come l’anticamera di un’integrazione non completa ma civile. E forse, prima di dare il via al provvedimento Cpr, membri del governo e parlamentari dovrebbero trascorrere almeno mezza giornata in un Cpr, parlare e mangiare con chi vi è detenuto. Sarebbe forse l’unica via per un provvedimento davvero efficace. Richiedenti asilo, cauzione impossibile: la norma non ha vie d’uscita di Giansandro Merli Il Manifesto, 26 settembre 2023 Per stipulare una fideiussione serve il passaporto, ma l’obbligo si rivolge solo a chi non ce l’ha. Per i richiedenti dei Paesi considerati sicuri resta solo la detenzione. Il governo dà la colpa all’Ue, ma la Commissione critica la misura: “La valuteremo”. La cauzione di 5mila euro che i richiedenti asilo dovrebbero garantire per evitare il trattenimento è stata pensata dal governo italiano come una trappola senza vie d’uscita. Anche per questo rischia di essere bocciata dall’Europa, nonostante l’esecutivo sostenga che sia il recepimento di una direttiva Ue. Il decreto interministeriale Interno-Giustizia-Economia pubblicato venerdì scorso, che dà attuazione alla “legge Cutro”, stabilisce che: “La garanzia finanziaria è prestata in un’unica soluzione mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa ed è individuale e non può essere versata in conto terzi”. Non basta dunque avere 5mila euro, è necessaria una fideiussione “che deve essere prestata entro il termine in cui sono effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico”. Al momento non si ha notizia dell’apertura di sportelli bancari o filiali assicurative negli hotspot. Non solo, se anche ci fossero il richiedente asilo in possesso del denaro o persino di un conto-deposito valido nel circuito internazionale dovrebbe comunque avere un documento di identità valido per stipulare la fideiussione. Se avesse quel documento, però, la fideiussione sarebbe inutile. Infatti il trattenimento “può essere disposto qualora il richiedente non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, ovvero non presti idonea garanzia finanziaria”. Lo stabilisce l’articolo 6 bis del decreto legislativo 142/2015, cui quello interministeriale dello scorso fine settimana si rifà, che disciplina la detenzione dei richiedenti asilo provenienti dai paesi che l’Italia considera sicuri o di quelli che hanno tentato di eludere i controlli in frontiera. Cioè i due casi in cui si applica la nuova misura del governo Meloni. Riassumendo: se hai il passaporto non serve la garanzia finanziaria, ma se non ce l’hai non puoi stipulare la fideiussione richiesta. Anche perché il governo ha esplicitamente escluso che questa possa essere versata da terzi. Appena 24 ore dopo la pubblicazione del decreto interministeriale e l’esplosione del caso la destra ha scaricato tutta la colpa sull’Ue. “È il recepimento di una direttiva europea”, ha dichiarato sabato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Lo stesso giorno il presidente del gruppo Fratelli d’Italia al Senato Lucio Malan, rispondendo alle opposizioni, ha scritto su X: “È l’applicazione della direttiva Ue 2013/33/UE articolo 8 comma 4”. Proprio lì bisogna andare a guardare per capire perché l’unica responsabilità di questa misura è del governo. In quel punto la norma tratta le “disposizioni alternative al trattenimento”, ma ne prevede tre: “l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria o l’obbligo di dimorare in un luogo assegnato”. Sono stati i ministri italiani, dunque, a scegliere di prevedere solo la possibilità più restrittiva e lontana dagli ordinamenti giuridici diversi da quelli anglosassoni di Common Law (dove esiste la cauzione, ma può anche essere pagata da terzi). La norma del governo, poi, è estremamente generica e tradisce lo spirito della direttiva europea secondo cui la privazione della libertà personale del richiedente asilo deve essere l’extrema ratio. Infatti ieri la portavoce della Commissione Anita Hipper ha comunicato che la misura del governo Meloni sarà valutata a livello comunitario. Perché se è vero che il diritto Ue prevede la garanzia finanziaria questa possibilità, ha detto Hipper, deve valere “sulla base di una valutazione individuale” e “superare la verifica di proporzionalità” “Mi meraviglio che non abbiano neanche il coraggio delle loro scelte e scarichino la responsabilità sulla Commissione - afferma il senatore Pd Antonio Nicita - Il senso della direttiva è stato capovolto perché il governo italiano ha previsto il trattenimento in modo estremamente ampio, mentre la norma Ue stabilisce che si può applicare solo nei casi estremi”. Questa vicenda, in ogni caso, va separata da quella dei Cpr: il contemporaneo aumento del periodo massimo di detenzione a 18 mesi e l’appalto alla Difesa per la costruzione di nuovi centri ha confuso le acque, ma si tratta di questioni distinte. La cauzione, infatti, riguarda le cosiddette “procedure d’asilo accelerate in frontiera”. Queste erano già previste dall’ordinamento italiano, ma il dl Cutro ha introdotto una grossa novità che prima non era contemplata: “la possibilità di trattenere i richiedenti asilo durante questo tipo di iter”, spiega Loredana Leo, avvocata dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Obiettivo del governo è rinchiudere i richiedenti asilo provenienti dai paesi che l’Italia ritiene sicuri e con cui ha accordi bilaterali di rimpatrio per rispedirli a casa a tempo di record. Migranti. Il Garante dei detenuti: “Manette e botte prima dei rimpatri”. Le violenze nei Cpr di Giuliano Foschini La Repubblica, 26 settembre 2023 “Se pisci là, ti diamo legnate”. E ancora: fascette per legare mani e piedi, segni di violenze sul corpo certificate da medici stranieri. Condizioni di salute durante i trasferimenti spesso precarie, mancanza di procedure e regolamentazioni chiare a tutela dei migranti ma anche degli operatori di sicurezza. Come si vive nei Cpr, i Centri di permanenza per i rimpatri attorno ai quali il governo Meloni ha deciso di far girare la politica dell’immigrazione, è da tempo denunciato dalle associazioni e da quei pochi che riescono a visitarli: sporcizia, degrado, mancato riconoscimento dei diritti. Quello che si conosce di meno sono però le procedure con le quali gli ospiti dei Cpr vengono poi rimpatriati. Procedure che come ha documentato Mauro Palma, il garante nazionale per i detenuti, sono spesso lontane da uno Stato civile. I numeri, innanzitutto. Dal primo gennaio a oggi sono state rimpatriate forzatamente 2.770 persone. La maggior parte dei voli è stata verso la Tunisia (46 operazioni) che stacca Egitto (7), Gambia (5), Georgia (4) e Nigeria (3). Sono numeri piccolissimi se si pensa che nello stesso periodo sono sbarcate in Italia 133mila migranti a conferma che la strategia del rimpatrio forzato, come denunciano da tempo le associazioni e gli operatori del settore, non può essere la strada da percorrere. Anche perché i numeri dei rimpatri sono addirittura in calo: lo scorso anno sono state 3.916 le persone rimesse su un aereo dall’Italia, mentre nel 2020 si girava su una media di seimila persone all’anno. Dunque aumentano gli sbarchi, i rimpatri restano pochissimi. A godere sono le multinazionali e le cooperative che si occupano della gestione dei Cpr. Che - ha documentato il Cild - usando la leva del massimo ribasso, offrono troppo spesso servizi assolutamente non adeguati. Palma (e il fatto che a occuparsi della vicenda debba essere il garante dei detenuti dice tutto sull’istituto del Cpr, una centro di detenzione per chi non ha commesso alcun reato) ha però acceso la luce su come avvengono i rimpatri. Spesso i migranti non conoscono i propri diritti. E questo, perché, il personale non parla l’inglese. “La questione - scrive Palma - non è di natura secondaria, ma incide sui diritti soggettivi della persona, poiché è bene ricordare che il diritto a comprendere è cardine dell’esercizio effettivo di tutti gli altri diritti”. Emblematica la storia di due cittadini egiziani. “Nel corso dei colloqui con i mediatori culturali - si legge nel report - esprimevano forti timori di fare ritorno in Egitto manifestando, quindi, molto chiaramente la volontà di accedere alla procedura di protezione internazionale. Uno dei due, proveniente dal Cpr di Caltanissetta, che aveva espresso opposizione al rimpatrio e nel trasferimento era stato pertanto immobilizzato, dichiarava di avere provato, senza esito, a far registrare la propria domanda di asilo qualche giorno prima del rimpatrio. Un altro con una vistosa croce cristiana al collo piangeva. Il ragazzo risultava essere arrivato da poco in Italia, parlava solo arabo: diceva di essere un egiziano copto e di avere per questo motivo paura di tornare al suo Paese ed essere ucciso”. Soltanto l’intervento dello staff del Garante ha interrotto il rimpatrio illegittimo, che altrimenti sarebbe avvenuto. Nel report vengono documentati anche episodi di uso della forza. C’è l’egiziano costretto a fare flessioni nudo. La nigeriana spogliata prima dell’imbarco. “All’aeroporto di Palermo si sentiva un poliziotto dire a uno straniero: “Se pisci là, ti diamo legnate”“. Frequentemente i migranti vengono “scherniti”. E spesso sono stati legati con “fascette di plastica, con il sollevamento e l’imbarco di peso in aereo, l’immobilizzazione della persona al sedile dell’aeromobile, sempre tramite le fasce in velcro”. In alcuni casi, è lo stesso Palma ad ammetterlo, può essere necessario, “ma soltanto come ultima istanza”. Cosa che invece sembra non avvenire: i migranti sono stati ammanettati anche in caso di “rimpatri volontari”. Mentre in un paio di occasioni sono stati documentati segni di violenza all’arrivo nei paesi stranieri. Servono regole, dice Palma. A garanzia anche della Polizia. “I rimpatriandi - si legge nel report - subiscono un consistente uso della forza da parte degli operatori e una contenzione meccanica che può avere riflessi sulla stessa incolumità fisica e psichica della persona. D’altra parte, l’operatore di Polizia a cui è richiesta l’adozione di misure per riportare a compimento il rimpatrio, ha diritto ad avere elementi certi che indichino il perimetro dell’operazione e la legittimità dei mezzi necessari a tal fine. Per tale motivo, anche a tutela degli operatori medesimi, è fondamentale che la materia sia disciplinata e accompagnata da effettive garanzie”. Italia-Germania, scontro sui migranti. E l’Europa alza bandiera bianca di Paolo Delgado Il Dubbio, 26 settembre 2023 Meloni attacca ancora Berlino per i finanziamenti a chi salva vite nel Mediterraneo e punta sull’asse con Macron. Mentre l’Ue si guarda bene dal diventare soggetto unitario. Sull’immigrazione Italia e Germania sono ai ferri corti. La polemica innescata da ministro Crosetto domenica in seguito alla decisione della Germania di finanziare alcune Ong invece di placarsi arriva ai massimi livelli con la lettera della premier a Olof Scholz, cancelliere tedesco. Dietro una sottile mano di vernice diplomatica i toni sono molto duri: “Ho appreso con stupore che il tuo governo, in modo non coordinato con il governo italiano, avrebbe deciso di sostenere con fondi rilevanti organizzazioni non governative impegnate nell’accoglienza ai migranti irregolari sul territorio italiano e in salvataggi nel Mare Mediterraneo”. Meloni protesta ripetendo la sua nota teoria, quella secondo la quale i salvataggi delle Ong incoraggiano le partenze, e non si capisce bene perché. Più interessante è però l’altro attacco rivolto alla Germania, sul fronte della assistenza a terra: “È lecito domandarsi se essa non meriti di essere facilitata in particolare sul territorio tedesco piuttosto che in Italia”. La Germania ha risposto con una nota secca, con la quale si limita ad affermare che l’Italia era già al corrente della decisione della Germania, in realtà assunta già da tempo anche se operativa solo adesso. Il ministro degli Esteri Tajani affronterà la spinosissima questione giovedì prossimo, a Berlino, con l’omologa tedesca Baerbock, e ieri sera a Parigi, per l’incontro con la ministra Colonna, in un clima molto meno teso dopo la dichiarazione domenicale di Macron sull’obbligo di non lasciare sola l’Italia e di proporre un aumento dei fondi destinati ai Paesi di transito: “Voglio lavorare con la presidente del Consiglio italiano, perché lei ha fatto una scelta, forte, che non era quella di qualche mese fa”. Parole accolte “con grande attenzione” da Meloni. Sembra di assistere a un gioco delle parti rispetto al novembre scorso, quando le frizioni tra Italia e Francia sui migranti avevano raggiunto livelli allarmanti mentre non si registravano scontri con Berlino. Ma in realtà il gioco delle parti è tale anche con la stessa Germania, che a propria volta insiste sulla “soluzione europea” e non si dichiara sfavorevole alla strategia italiana, e quasi ormai italo-francese, sulla linea: “Non servono i ricollocamenti: bisogna evitare che gli irregolari arrivino”. Ma proprio questa serie di piroette, di dichiarazioni altisonanti subito smentite dai fatti, dimostra che l’Europa, ancora una volta, non c’è e che la scommessa della premier sulla costruzione di una Fortezza Europa è ad altissimo rischio, non perché ci sia chi è davvero contrario ai bastioni o alla “difesa dei confini esterni” ma perché è l’Europa a non esserci come vero soggetto unitario. Non c’è sulla missione navale vagheggiata dalla presidente italiana come non c’è mai stata e non c’è sui ricollocamenti. Anche il versante italiano della strategia meloniana segna il passo. Nonostante gli annunci della settimana scorsa, il Cdm di ieri non ha varato le nuove ennesime norme contro l’immigrazione clandestina. Dal punto di vista costituzionale la materia è delicata, il rischio che il Quirinale obietti è inevitabile e dunque le due misure sui rimpatri facili alle quali Piantedosi lavora già da un paio di settimane devono slittare. Quella sui minori permetterà, quando l’età è in dubbio, di considerare gli incerti maggiorenni, capovolgendo la prassi attuale che è opposta. Quella sulla possibilità di rimpatriare gli immigrati accusati di qualche crimine, azzerando le garanzie costituzionali. Va da sé che, soprattutto per quanto riguarda la seconda norma, i dubbi di incostituzionalità proliferino. Sulla costruzione dei nuovi Cpr in tutte le Regioni, il primo dei quali dovrebbe essere all’interno dell’hotspot già esistente a Pozzallo, oltre alle già note difficoltà, si aggiunge l’ennesimo contenzioso con l’Europa. La cauzione di 4.938 euro è stata decisa proprio per adeguarsi alla direttiva europea che impone di lasciare aperte soluzioni alternative alla detenzione. La cifra stabilita, per gli standard africani molto alta, doveva servire proprio ad aggirare l’ostacolo. Ma la Commissione europea non è affatto convinta: “Le alternative alla detenzione devono rispettare il principio di proporzionalità”, sottolinea la portavoce della Commissione Hipper. Significa che la cauzione andrebbe quantificata “sulla base di una valutazione individuale”. Tra i venti di guerra, attualità e urgenza del disarmo nucleare di Lisa Clark Il Manifesto, 26 settembre 2023 Oggi è la Giornata dell’Onu per l’eliminazione di tutte le armi nucleari: ricorda la notte in cui il colonnello sovietico Stanislav Petrov, 40 anni fa nel 1983, disobbedì ai “protocolli”. In questi giorni abbiamo consegnato ai militari della Base di Aviano la lettera che avevamo scritto loro il 9 agosto, nell’anniversario del bombardamento su Nagasaki: lo abbiamo condiviso con i partecipanti quella mattina, sul prato di fronte a uno dei cancelli di ingresso alla base. Sottolineando il motivo della manifestazione - il sostegno alla campagna “Italia, ripensaci” che chiede al governo italiano di avvicinarsi al Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari - auspicavamo di poter aprire uno scambio con il personale della base, un dialogo tra esseri umani che hanno a cuore il futuro di figli e nipoti, dell’umanità intera, di Madre Terra. Come nel famoso appello del 1955 di Bertrand Russell e Albert Einstein, prima di tutto dobbiamo ricordarci di essere membri di questa umanità planetaria e non rimanere prigionieri delle alleanze militari, delle appartenenze nazionali, professionali o politiche. Tanto più che proprio in questo anno e mezzo di guerra in Ucraina la minaccia dell’uso delle armi nucleari è tornata incredibilmente d’attualità. Da molto tempo, nell’attività internazionale per la messa al bando delle armi nucleari, ci sono stati fecondi rapporti con militari di varie nazionalità, principalmente dei due paesi con gli arsenali maggiori. E abbiamo imparato da loro che quegli strumenti dalle conseguenze catastrofiche infrangono tutti i fondamentali principi etici che guidano il comportamento dei militari, per gli stessi motivi per cui il loro uso costituisce un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità: non vengono usati contro altre forze armate sul campo di battaglia, uccidono i non combattenti, avvelenano l’ambiente per anni rendendo impossibile la vita normale delle comunità, e così via. Il generale Usa Omar Bradley arrivò a Hiroshima pochi giorni dopo il bombardamento del 6 agosto 1945. Scrisse nel suo diario: “In tecnologia militare siamo dei giganti, ma sul piano dell’etica siamo analfabeti. Abbiamo svelato i segreti dell’atomo, ma abbiamo dimenticato la lezione delle Beatitudini. Abbiamo sviluppato un potere privo di coscienza, una scienza priva di saggezza. Sappiamo infinitamente più sulla guerra che sulla pace, abbiamo imparato a uccidere molto meglio di quanto non abbiamo imparato a vivere”. Oggi, 26 settembre, è la Giornata internazionale Onu per l’eliminazione di tutte le armi nucleari: ricorda la notte in cui il colonnello sovietico Stanislav Petrov, nel 1983, esattamente 40 anni fa, scelse di disobbedire ai protocolli e NON ordinò l’attacco nucleare massiccio contro le principali città statunitensi e dell’Europa occidentale in risposta ai segnali del monitoraggio satellitare che indicavano il lancio da parte degli Usa di 5 missili intercontinentali. Petrov intuì che poteva trattarsi di un’errata interpretazione del sistema di monitoraggio satellitare. Non fece niente. E così non lanciò la prima azione di quella che sarebbe diventata una escalation nucleare capace, forse, di portare alla guerra totale … Se oggi abbiamo un Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari (TPNW), che ne vieta l’uso, la produzione e lo stoccaggio, lo dobbiamo a una straordinaria coalizione globale, cresciuta nei decenni con il contributo di centinaia di associazioni di società civile, ma anche di enti locali (le città sono l’obiettivo delle armi nucleari!), di parlamentari, di giuristi, medici e infermieri, coordinati a partire dal 2007 da ICAN (la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, Premio Nobel per la Pace 2017). Due terzi degli Stati membri delle Nazioni unite hanno approvato il testo del TPNW nel 2017, che è entrato in vigore il 22 gennaio 2021 con la ratifica da parte dei primi 50 Stati. Le ratifiche continuano (siamo a 69) e l’anno scorso si è tenuta la prima conferenza degli Stati che sono parti contraenti del trattato. Vi hanno partecipato anche 34 Stati non aderenti, in qualità di osservatori. Ma in tutto questo movimento verso il disarmo nucleare l’Italia governativa è rimasta assente. A novembre si terrà la seconda conferenza degli Stati Parti al Palazzo di Vetro a New York. Come l’anno scorso per la prima conferenza, anche nel luglio scorso la Camera dei Deputati ha approvato una mozione che chiede al Governo di valutare la possibilità di partecipare come osservatore alla conferenza a New York. Per noi, Rete Italiana Pace e Disarmo e Senzatomica, promotori della Campagna “Italia, ripensaci”, arrivare ad un avvicinamento del Governo italiano al TPNW è l’obiettivo! Per raggiungere, anche in un secondo momento, la ratifica dell’Italia e la rimozione delle armi nucleari da Ghedi e Aviano. Il primo passo potrebbe senz’altro essere quello di “osservare” la conferenza di novembre a New York. E il secondo di inserire nel programma della Presidenza italiana del G7 del 2024 il tema del disarmo e della non proliferazione nucleare. Che l’Italia ci ripensi, e torni a svolgere un ruolo importante nel consesso internazionale che si impegna per creare strumenti di disarmo e di pace. Fuga dal Nagorno Karabakh, l’ennesimo esodo degli armeni di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 26 settembre 2023 Centocinquantamila persone lasciano l’area dopo la resa alle truppe azere. La Russia, storica protettrice degli armeni, è impegnata altrove. Sembra una storia che si ripete: gli armeni in fuga dalle terre ancestrali, lasciando i loro abitati con le tipiche chiese dalle cupole coniche. Sta avvenendo nel Nagorno Karabakh, enclave armena di meno di 150.000 abitanti nel territorio dell’Azerbaigian, proclamatasi nel 1991, con la fine dell’Urss, Repubblica autonoma, appoggiata dall’Armenia. Le truppe azere ora hanno ottenuto la resa di quelle locali e si apprestano ad integrare la regione nell’Azerbaigian, dopo una grave crisi umanitaria che ha investito gli armeni isolati. È una storia quasi dimenticata, minore di fronte alla guerra in Ucraina. Ma legata a questa crisi. La Russia, storica protettrice degli armeni, è impegnata altrove. Nuove relazioni occidentali del governo di Erevan non colmano il vuoto della ex potenza “imperiale”, che ha 2.000 soldati in Karabakh e una base in Armenia. Ora gli armeni del Karabakh stanno partendo (attraverso l’unica via aperta pur con difficoltà), temendo per la sopravvivenza sotto il controllo azero. Nella coscienza armena, pesa la memoria di una storia lunga e dolorosa di esodi e stragi: quella che ha portato alla fine degli armeni in Anatolia nella prima guerra mondiale, frutto della pulizia etnica. Oggi, in Turchia, restano 50.000 armeni a Istanbul, oltre gli immigrati dall’Armenia e i discendenti di armeni convertiti all’islam o i cripto-armeni. L’ombra di Metz Yeghern, il grande male della strage, agita la coscienza armena, come una storia che si ripete o un destino cui ribellarsi. Gli armeni hanno convissuto per secoli con altri popoli in territori misti nel Caucaso o nelle terre ottomane. Oggi la Repubblica armena, con tre milioni di abitanti, è la sola terra armena (al 94%). Qui sono arrivati profughi da altre regioni (pure dalla Siria) e arriveranno dal Karabakh. La configurazione geografica dell’Armenia è particolare: nel Sud un ampio corridoio armeno divide l’Azerbaigian dal Nachi?evan, regione appartenente all’Azerbaigian. Un altro motivo di tensione tra Armenia e Azerbaigian. Queste particolarità geografiche mostrano come il Caucaso fosse un intreccio tra genti diverse, musulmani e cristiani. I nazionalismi hanno sconvolto la convivenza. Nel 1905 gravi scontri avvennero a Baku, tra armeni (ancora vivevano là, spesso benestanti) e azeri. Poco dopo, nell’impero ottomano, maturò il disegno di eliminare gli armeni. Nel 1936, Stalin creò Georgia, Armenia e Azerbaigian. La popolazione era piuttosto mista. Azeri vivevano in Armenia e armeni in Azerbaigian. A quest’ultima Repubblica fu assegnato il Karabach con uno statuto di autonomia. Sulla regione vigilava il Cremlino, finché non si dissolse l’Urss. Così cominciarono le guerre. La prima nel 1994 con 30.000 morti: l’Armenia vinse occupando territori azeri che creavano continuità territoriale con il Karabakh. Ovunque le popolazioni si spostavano e i segni della presenza dell’altro venivano violati o cancellati. Il Karabakh divenne un simbolo per il nazionalismo armeno. In Azerbaigian era grande la frustrazione per la sconfitta. Venticinque anni hanno cambiato l’Azerbaigian, ricco di giacimenti di gas e petrolio, sostenuto dalla Turchia, divenuto militarmente forte. Oggi gli idrocarburi azeri sono decisi per l’indipendenza energetica dell’Europa dalla Russia. E dell’Italia. Nel 2020, nella seconda guerra azero-armena, il governo di Baku si è ripreso il territorio perso e solo il Karabakh è rimasto controllo armeno, un’”isola” in territorio azero, collegata con un corridoio stradale con l’Armenia (mentre gli azeri ottenevano facilità di passaggio attraverso il territorio armeno con il Nachi?evan). L’accordo avvenne con la mediazione di Putin. Era prevedibile che ci sarebbe stato un terzo atto di guerra da parte di un Azerbaigian rafforzato economicamente e internazionalmente. L’avvicinamento agli Stati Uniti da parte del primo ministro armeno Pashinyan, oggi sotto accusa in Armenia per aver confidato nella Russia, non ha cambiato il quadro geopolitico. Ora, non solo l’Armenia ha perso il controllo su un territorio storico, ma si sente isolata e fragile di fronte ai più di dieci milioni di azeri, alleati con la Turchia, temendo per se stessa. Anche perché ormai, purtroppo, nel quadro internazionale, i contenziosi si risolvono troppo spesso con le armi. Lo spettro della pulizia etnica degli armeni nel silenzio dell’occidente di Vittorio Da Rold Il Domani, 26 settembre 2023 120mila armeni sono in fuga dal Nagorno-Karabakh per timori di pulizia etnica, spettro che torna a terrorizzare un popolo segnato dal genocidio. Tutto questo perché Vladimir Putin ha deciso di punire l’Armenia che si è spostata verso la Nato e nel silenzio dell’occidente che difende la partnership energetica con l’Azerbaigian. Martedì le parti si siedono al tavolo a Bruxelles. Sarebbero 120mila gli armeni in fuga per timori di pulizia etnica, spettro tremendo che torna a terrorizzare il popolo armeno, segnato, secondo la maggioranza degli storici, dal primo genocidio della storia moderna per opera dell’impero ottomano prima e dai Giovani turchi poi, iniziato il 24 aprile 1915 e che costò 1,5 milioni di morti armeni. Di certo secondo Erevan in queste ore drammatiche quasi 5.000 armeni dell’enclave del Nagorno-Karabakh sono entrati in Armenia in seguito all’offensiva militare azera della scorsa settimana nella regione contesa, che ha causato centinaia di morti e feriti. Diverse centinaia di rifugiati hanno iniziato domenica ad attraversare il confine dal Nagorno-Karabakh, diventando i primi civili a raggiungere l’Armenia in quasi un anno e riunendo le famiglie dopo un blocco di 10 mesi da parte dell’Azerbaigian che ha portato a una drammatica carenza di cibo, carburante e acqua a Stepanakert e nelle aree limitrofe. Gli abitanti dell’enclave armena temono la pulizia etnica e sembrano decisi ad abbandonare la terra degli avi dopo 35 anni di guerra secessionista, oggi perduta dopo la consegna delle armi e migliaia di morti. Dirigenti del governo armeno secessionista della regione hanno detto che intendono evacuare migliaia di sfollati dalla regione in Armenia, un paese povero e che farà fatica ad accogliere le migliaia di profughi in arrivo. Il governo locale, che ha offerto rifornimenti di carburante gratuiti lungo il tragitto ha affermato che gli sfollati saranno accompagnati oltre il confine dalla regione contesa dalle forze di pace russe, garanti dell’operazione di esodo della popolazione armena del Nagorno-Karabakh. La posizione di Mosca - Tutto questo avviene perché Vladimir Putin ha deciso di punire l’Armenia considerata troppo vicina all’occidente dopo che Erevan ha aderito agli inizi di settembre a manovre militari congiunte con la Nato. Così Mosca ha deciso di non intervenire nel conflitto tra indipendentisti armeni e l’Azerbaigian e in questo modo ha condannato gli armeni dell’enclave del Nagorno-Karabakh alla nuova diaspora, con l’occidente che tacitamente accetta l’iniziativa azera (appoggiata dal presidente turco Erdogan). Certo, il Consiglio europeo oggi ospiterà i negoziati tra i rappresentanti dei governi di Armenia, Azerbaigian, Francia e Germania a Bruxelles ma gli europei non sembrano voler contrastare le rivendicazioni di Baku, importante partner energetico europeo, per annettere il Nagorno-Karabakh, che considera parte del territorio azero come deciso da Stalin nel 1921. Gli Stati Uniti, che hanno riconosciuto come la Francia per legge il genocidio degli armeni sotto la presidenza Biden, sono rimasti defilati e si sono limitati a inviare a Erevan Samantha Power, capo dell’Agenzia degli Stati Uniti per la cooperazione internazionale (Usaid), che in un tweet ha affermato: “Sono qui per ribadire il forte sostegno degli Stati Uniti e la sua partnership con l’Armenia”. Il vero obiettivo - Ma la partita nel Caucaso non è ancora finita. Secondo Thomas de Waal, membro della Carnegie Europe, massimo esperto della regione del Caucaso, “Turchia e Azerbaigian potrebbero presentare un ultimatum all’Armenia per aprire il cosiddetto corridoio Zangezur. Giorni dopo la presa del controllo militare del Karabakh da parte dell’Azerbaigian, i presidenti Aliyev ed Erdogan si sono incontrati ieri a Nakhchivan e molto probabilmente daranno un ultimatum al governo armeno per aprire il corridoio Zangezur. Con l’accordo della Russia visto che le sue truppe sono schierate proprio lì”, ha concluso l’analista che spera che la situazione non torni “al 1918-21 quando le grandi potenze cercarono di usare la forza per disegnare e ridisegnare la mappa del Caucaso”. Il corridoio Zangezur per collegare via terra l’Azerbagian e il Nakhichevan di fatto creerebbe una rotta via terra tra la Turchia e l’Azerbaigian. Ma il corridoio deve passare per territorio armeno. Quindi o Baku ottiene il corridoio negoziando o dovrebbe scatenare un’altra guerra. Ma in questo caso si tratta di territorio armeno, non conteso, e si parlerebbe dunque di invasione. Il tutto per aprire un corridoio lungo il fiume Arasse, che fa da confine tra l’Iran, il Nakhichevan e l’Armenia. Altro che la soluzione Alto-Adige prospettata forse troppo prematuramente dalla Farnesina.