Giorgio Napolitano: dedicato alle carceri il suo unico messaggio alle Camere di Andrea Aversa L’Unità, 24 settembre 2023 Era l’8 ottobre del 2013. Sono passati quasi 10 anni da quella storica giornata. “Re Giorgio”, così come lo chiamava quotidianamente Marco Pannella pungolandolo dai microfoni di Radio Radicale, si rivolse per la prima volta al Parlamento. L’ultimo messaggio alle Camere lo pronunciò Carlo Azeglio Ciampi otto anni prima. Napolitano lo fece parlando di amnistia, indulto, pene alternative e depenalizzazione. Un appello che la politica ignorò allora e continua ad ignorare ancora oggi Tutti i media nazionali stanno ricordando il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Ne stanno raccontando la storia, gli aneddoti, i primati. Abbiamo letto e sentito delle sue scelte e decisioni più difficili e sofferte. E anche di qualche errore politico. Qual è l’essere umano che non ne commette. Eppure quasi nessuno ha posto l’accento sopra un episodio di portata storica. Forse il gesto che più ha contraddistinto entrambi i mandati di Napolitano al Quirinale. Era l’8 ottobre del 2013 e l’ex Presidente della Repubblica rivolse il suo unico messaggio alle Camere. Il solo dedicato al tema delle carceri e pronunciato otto anni dopo quello di Carlo Azeglio Ciampi. Giorgio Napolitano la giustizia e le carceri. Ma è necessario fare un piccolo salto indietro. Il 28 settembre 2013, Napolitano andò a fare visita ai detenuti reclusi nel carcere di Poggioreale. “È giustizia - disse Napolitano all’intera comunità penitenziaria - pretendere e ottenere pene severe per chi commette reati. È giustizia reprimere i reati. Ma non è giustizia condannare tutti voi a una reclusione che non sia dignitosa. È una prassi che contrasta con la Costituzione”. Continuò l’ex Presidente: “Per questo annuncio che sul tema delle carceri ho pronto un messaggio da rivolgere al Parlamento, affinché si possa fare di tutto per risolvere i problemi che vi affliggono”. È stata questa la premessa che ha poi portato a quell’8 ottobre. Napolitano parlò di pene alternative, di giustizia riparativa, di depenalizzazione e addirittura pronunciò due parole invise alla maggior parte dei partiti (tranne al Partito Radicale di Marco Pannella che avendo fatto della giustizia una delle sue battaglie politiche principali, si ‘divertiva’ a chiamare il futuro Senatore a vita - dai microfoni di Radio Radicale - “Re Giorgio”): amnistia e indulto. Di seguito il discorso integrale che Giorgio Napolitano ha rivolto al Parlamento: “Onorevoli Parlamentari, nel corso del mandato conferitomi con l’elezione a Presidente il 10 maggio 2006 e conclusosi con la rielezione il 20 aprile 2013, ho colto numerose occasioni per rivolgermi direttamente al Parlamento al fine di richiamarne l’attenzione su questioni generali relative allo stato del paese e delle istituzioni repubblicane, al profilo storico e ideale della nazione. Ricordo, soprattutto, i discorsi dinanzi alle Camere riunite per il 60° anniversario della Costituzione e per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. E potrei citare anche altre occasioni, meno solenni, in cui mi sono rivolto al Parlamento. Non l’ho fatto, però, ricorrendo alla forma del messaggio di cui la Costituzione attribuisce la facoltà al Presidente. E ciò si spiega con la considerazione, già da tempo presente in dottrina, della non felice esperienza di formali “messaggi” inviati al Parlamento dal Presidente della Repubblica senza che ad essi seguissero, testimoniandone l’efficacia, dibattiti e iniziative, anche legislative, di adeguato e incisivo impegno. Se mi sono risolto a ricorrere ora alla facoltà di cui al secondo comma dell’articolo 87 della Carta, è per porre a voi con la massima determinazione e concretezza una questione scottante, da affrontare in tempi stretti nei suoi termini specifici e nella sua più complessiva valenza. Parlo della drammatica questione carceraria e parto dal fatto di eccezionale rilievo costituito dal pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima, con la sentenza - approvata l’8 gennaio 2013 secondo la procedura della sentenza pilota - (Torreggiani e altri sei ricorrenti contro l’Italia), ha accertato, nei casi esaminati, la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea che, sotto la rubrica “proibizione della tortura”, pone il divieto di pene e di trattamenti disumani o degradanti a causa della situazione di sovraffollamento carcerario in cui i ricorrenti si sono trovati. La Corte ha affermato, in particolare, che “la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone” e che “la situazione constatata nel caso di specie è costitutiva di una prassi incompatibile con la Convenzione”. Per quanto riguarda i rimedi al “carattere strutturale e sistemico del sovraffollamento carcerario” in Italia, la Corte ha richiamato la raccomandazione del Consiglio d’Europa “a ricorrere il più possibile alle misure alternative alla detenzione e a riorientare la loro politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione, allo scopo, tra l’altro, di risolvere il problema della crescita della popolazione carceraria”. In ordine all’applicazione della Convenzione, la Corte ha rammentato che, in materia di condizioni detentive, i rimedi ‘preventivi’ e quelli di natura ‘compensativa’ devono considerarsi complementari e vanno quindi apprestati congiuntamente. Fermo restando che la migliore riparazione possibile è la rapida cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti. La stessa decisione adottata, con voto unanime, dalla Corte di Strasburgo ha fissato il termine di un anno perché l’Italia si conformi alla sentenza ed ha stabilito di sospendere, in pendenza di detto termine, le procedure relative alle “diverse centinaia di ricorsi proposti contro l’Italia”; ricorsi che, in assenza di effettiva, sostanziale modifica della situazione carceraria, appaiono destinati a sicuro accoglimento stante la natura di sentenza pilota. Il termine annuale decorre dalla data in cui la sentenza è divenuta definitiva, ossia dal giorno 28 maggio 2013, in cui è stata respinta l’istanza di rinvio alla Grande Chambre della Corte, presentata dall’Italia al fine di ottenere un riesame della sentenza. Pertanto, il termine concesso dalla Corte allo Stato italiano verrà a scadere il 28 maggio del 2014. Vale la pena di ricordare che la sentenza del gennaio scorso segue la pronunzia con cui quattro anni fa la stessa Corte europea aveva già giudicato le condizioni carcerarie del nostro Paese incompatibili con l’art. 3 della Convenzione (Sulejmanovic contro Italia, 16 luglio 2009), ma non aveva ritenuto di fissare un termine per l’introduzione di idonei rimedi interni. Anche perciò ho dovuto mettere in evidenza - all’atto della pronuncia della recente sentenza “Torreggiani” - come la decisione rappresenti “una mortificante conferma della perdurante incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena e nello stesso tempo una sollecitazione pressante da parte della Corte a imboccare una strada efficace per il superamento di tale ingiustificabile stato di cose”. L’art. 46 della Convenzione europea stabilisce, invero, che gli Stati aderenti “si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”. Tale impegno, secondo l’interpretazione costante della Corte costituzionale (a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007), rientra nell’ambito dell’art. 117 della Costituzione, secondo cui la potestà legislativa è esercitata dallo Stato “nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. In particolare, la Corte costituzionale ha, recentemente, stabilito che, in caso di pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo che accertano la violazione da parte di uno Stato delle norme della Convenzione, “è fatto obbligo per i poteri dello Stato, ciascuno nel rigoroso rispetto delle proprie attribuzioni, di adoperarsi affinché gli effetti normativi lesivi della Convenzione cessino”. La cessazione degli effetti lesivi si ha, innanzitutto, con il porre termine alla lesione del diritto e, soltanto in via sussidiaria, con la riparazione delle conseguenze della violazione già verificatasi. Da qui deriva il dovere urgente di fare cessare il sovraffollamento carcerario rilevato dalla Corte di Strasburgo, più ancora che di procedere a un ricorso interno idoneo ad offrire un ristoro per le condizioni di sovraffollamento già patite dal detenuto. Questo ultimo rimedio, analogo a quello che la legge 24 marzo 2001 n.89 ha introdotto per la riparazione nei casi di violazione del diritto alla durata ragionevole del processo, lascerebbe sussistere i casi di violazione dell’art. 3 della Convenzione, limitandosi a riconoscere all’interessato una equa soddisfazione pecuniaria, inidonea a tutelare il diritto umano del detenuto oltre che irragionevolmente dispendiosa per le finanze pubbliche. Da una diversa prospettiva, la gravità del problema è stata da ultimo denunciata dalla Corte dei Conti, pronunciatasi - in sede di controllo sulla gestione del Ministero della Giustizia nell’anno 2012 - sugli esiti dell’indagine condotta su “l’assistenza e la rieducazione dei detenuti”. Essa ha evidenziato che il sovraffollamento carcerario - unitamente alla scarsità delle risorse disponibili - incide in modo assai negativo sulla possibilità di assicurare effettivi percorsi individualizzati volti al reinserimento sociale dei detenuti. Viene così ad essere frustrato il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, stante l’abisso che separa una parte - peraltro di intollerabile ampiezza - della realtà carceraria di oggi dai principi dettati dall’art. 27 della Costituzione. Il richiamo ai principi posti dall’art. 27 e dall’art. 117 della nostra Carta fondamentale qualifica come costituzionale il dovere di tutti i poteri dello Stato di far cessare la situazione di sovraffollamento carcerario entro il termine posto dalla Corte europea, imponendo interventi che riconducano comunque al rispetto della Convenzione sulla salvaguardia dei diritti umani. La violazione di tale dovere comporta tra l’altro ingenti spese derivanti dalle condanne dello Stato italiano al pagamento degli equi indennizzi previsti dall’art. 41 della Convenzione: condanne che saranno prevedibilmente numerose, in relazione al rilevante numero di ricorsi ora sospesi ed a quelli che potranno essere proposti a Strasburgo. Ma l’Italia viene, soprattutto, a porsi in una condizione che ho già definito umiliante sul piano internazionale per le tantissime violazioni di quel divieto di trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti che la Convenzione europea colloca accanto allo stesso diritto alla vita. E tale violazione dei diritti umani va ad aggiungersi, nella sua estrema gravità, a quelle, anche esse numerose, concernenti la durata non ragionevole dei processi. Ma l’inerzia di fronte al dovere derivante dalla citata sentenza pilota della Corte di Strasburgo potrebbe avere altri effetti negativi oltre quelli già indicati. Proprio in ragione dei citati profili di costituzionalità, alcuni Tribunali di sorveglianza hanno, recentemente, sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale (norma che stabilisce i casi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena), per la parte in cui non prevede che si possa ordinare il differimento della pena carceraria anche nel caso di un prevedibile svolgimento della pena (in relazione alla situazione del singolo istituto penitenziario) in condizioni contrarie al senso di umanità. Il possibile accoglimento della questione da parte della Corte costituzionale avrebbe consistenti effetti sulla esecuzione delle condanne definitive a pene detentive. Sottopongo dunque all’attenzione del Parlamento l’inderogabile necessità di porre fine, senza indugio, a uno stato di cose che ci rende tutti corresponsabili delle violazioni contestate all’Italia dalla Corte di Strasburgo: esse si configurano, non possiamo ignorarlo, come inammissibile allontanamento dai principi e dall’ordinamento su cui si fonda quell’integrazione europea cui il nostro paese ha legato i suoi destini. Ma si deve aggiungere che la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale. Le istituzioni e la nostra opinione pubblica non possono e non devono scivolare nell’insensibilità e nell’indifferenza, convivendo - senza impegnarsi e riuscire a modificarla - con una realtà di degrado civile e di sofferenza umana come quella che subiscono decine di migliaia di uomini e donne reclusi negli istituti penitenziari. Il principio che ho poc’anzi qualificato come “dovere costituzionale”, non può che trarre forza da una drammatica motivazione umana e morale ispirata anche a fondamentali principi cristiani. Com’è noto, ho già evidenziato in più occasioni la intollerabilità della situazione di sovraffollamento carcerario degli istituti penitenziari. Nel 2011, in occasione di un convegno tenutosi in Senato, avevo sottolineato che la realtà carceraria rappresenta “un’emergenza assillante, dalle imprevedibili e al limite ingovernabili ricadute, che va affrontata senza trascurare i rimedi già prospettati e in parte messi in atto, ma esaminando ancora con la massima attenzione ogni altro possibile intervento e non escludendo pregiudizialmente nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria”. Orbene, dagli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) del Ministero della Giustizia - aggiornati al 30 settembre 2013 - risulta che il numero di persone detenute è pari a 64.758, mentre la “capienza regolamentare” è di 47.615. Secondo i dati statistici relativi alla percentuale dei detenuti sul totale della popolazione dei diversi Paesi, pubblicati dal Consiglio d’Europa, nell’anno 2011 in Italia vi erano 110,7 detenuti ogni 100.000 abitanti. Nel confronto con gli altri Paesi europei tale dato è sostanzialmente pari a quello della Grecia e Francia (rispettivamente, 110,3 e 111,3) e viene superato da Inghilterra e Spagna (entrambe oltre quota 150). Peraltro, l’Italia - nello stesso anno 2011 - si posizionava, tra i Paesi dell’Unione Europea, ai livelli più alti nell’indice percentuale tra detenuti presenti e posti disponibili negli istituti penitenziari (ossia l’indice del “sovraffollamento carcerario”), con una percentuale pari al 147%. Solo la Grecia ci superava con il 151,7%. Per il 2012 non sono ancora disponibili i dati del Consiglio d’Europa; da una ricerca di un’organizzazione indipendente (International Center for prison studies), risulta comunque confermato l’intollerabile livello di congestione del sistema carcerario italiano che, nonostante una riduzione percentuale rispetto all’anno precedente, ha guadagnato il - non encomiabile - primato del sovraffollamento tra gli Stati dell’Unione Europea, con la percentuale del 140,1%, mentre la Grecia ci seguiva con un indice pari al 136,5%. E vengo ai rimedi prospettati o già in atto. Per risolvere la questione del sovraffollamento, si possono ipotizzare diverse strade, da percorrere congiuntamente. A) Ridurre il numero complessivo dei detenuti, attraverso innovazioni di carattere strutturale quali: 1) l’introduzione di meccanismi di probation. A tale riguardo, il disegno di legge delega approvato dalla Camera e ora all’esame del Senato, prevede, per taluni reati e in caso di assenza di pericolosità sociale, la possibilità per il giudice di applicare direttamente la “messa alla prova” come pena principale. In tal modo il condannato eviterà l’ingresso in carcere venendo, da subito, assegnato a un percorso di reinserimento; 2) la previsione di pene limitative della libertà personale, ma “non carcerarie”. Anche su questo profilo incide il disegno di legge ora citato, che intende introdurre la pena - irrogabile direttamente dal giudice con la sentenza di condanna - della “reclusione presso il domicilio”; 3) la riduzione dell’area applicativa della custodia cautelare in carcere. A tale proposito, dai dati del DAP risulta che, sul totale dei detenuti, quelli “in attesa di primo giudizio” sono circa il 19%; quelli condannati in primo e secondo grado complessivamente anch’essi circa il 19%; il restante 62% sono “definitivi” cioè raggiunti da una condanna irrevocabile. Nella condivisibile ottica di ridurre l’ambito applicativo della custodia carceraria è già intervenuta la legge n. 94 del 2013, di conversione del decreto legge n. 78 del 2013, che ha modificato l’articolo 280 del codice di procedura penale, elevando da quattro a cinque anni di reclusione il limite di pena che può giustificare l’applicazione della custodia in carcere; 4) l’accrescimento dello sforzo diretto a far sì che i detenuti stranieri possano espiare la pena inflitta in Italia nei loro Paesi di origine. In base ai dati del DAP, la percentuale dei cittadini stranieri sul totale dei detenuti è circa il 35%. Il Ministro Cancellieri, parlando recentemente alla Camera dei Deputati, ha concordato sulla necessità di promuovere e attuare specifici accordi con i Paesi di origine dei detenuti stranieri (l’Italia ha aderito alla Convenzione europea sul trasferimento delle persone condannate e ha già stipulato nove accordi bilaterali in tal senso). Ella ha tuttavia dato notizia degli scarsi (purtroppo) risultati concreti conseguiti sinora. Nel corso del 2012 solo 131 detenuti stranieri sono stati trasferiti nei propri Paesi (mentre nei primi sei mesi del 2013 il numero è di 82 trasferimenti). Ciò, secondo il Ministro, dipende, in via principale, dalla complessità delle procedure di omologazione delle condanne emesse in Italia da parte delle autorità straniere. Il Ministro si è impegnato per rivedere il contenuto degli accordi al fine di rendere più rapidi e agevoli i trasferimenti e per stipulare nuove convenzioni con i Paesi (principalmente dell’area del Maghreb) da cui proviene la maggior parte dei detenuti stranieri. Tra i fattori di criticità del meccanismo di trasferimento dei detenuti stranieri, va annoverata anche la difficoltà, sul piano giuridico, di disporre tale misura nei confronti degli stranieri non ancora condannati in via definitiva, che rappresentano circa il 45% del totale dei detenuti stranieri; 5) l’attenuazione degli effetti della recidiva quale presupposto ostativo per l’ammissione dei condannati alle misure alternative alla detenzione carceraria; in tal senso un primo passo è stato compiuto a seguito dell’approvazione della citata legge n. 94 del 2013, che ha anche introdotto modifiche all’istituto della liberazione anticipata. Esse consentono di detrarre dalla pena da espiare i periodi di “buona condotta” riferibili al tempo trascorso in “custodia cautelare”, aumentando così le possibilità di accesso ai benefici penitenziari; 6) infine, una incisiva depenalizzazione dei reati, per i quali la previsione di una sanzione diversa da quella penale può avere una efficacia di prevenzione generale non minore. B) Aumentare la capienza complessiva degli istituti penitenziari In tale ottica è recentemente intervenuto il già richiamato (e convertito in legge) decreto-legge n. 78 del 2013, che ha inteso dare un nuovo impulso al “Piano Carceri” (i cui interventi si dovrebbero concludere, prevedibilmente, entro la fine del 2015). Il Ministro della Giustizia, Cancellieri, ha dichiarato, intervenendo alla Camera, che “entro il mese di maggio 2014 saranno disponibili altri 4 mila nuovi posti detentivi mentre al completamento del Piano Carceri i nuovi posti saranno circa 10 mila”. In una successiva dichiarazione, il Ministro, nel confermare che al completamento del Piano Carceri la capienza complessiva aumenterà di 10.000 unità, ha precisato che “entro la fine del corrente anno saranno disponibili 2.500 nuovi posti detentivi” e che “è in progetto il recupero di edifici oggi destinati ad ospedale psichiatrico giudiziario e la riapertura di spazi detentivi nell’isola di Pianosa”. Ma, in conclusione, l’incremento ipotizzato della ricettività carceraria - certamente apprezzabile - appare, in relazione alla “tempistica” prevista per l’incremento complessivo, insufficiente rispetto all’obbiettivo di ottemperare tempestivamente e in modo completo alla sentenza della Corte di Strasburgo. Tutti i citati interventi - certamente condivisibili e di cui ritengo auspicabile la rapida definizione - appaiono parziali, in quanto inciderebbero verosimilmente pro futuro e non consentirebbero di raggiungere nei tempi dovuti il traguardo tassativamente prescritto dalla Corte europea. Ritengo perciò necessario intervenire nell’immediato (il termine fissato dalla sentenza “Torreggiani” scadrà, come già sottolineato, il 28 maggio 2014) con il ricorso a “rimedi straordinari”. C) considerare l’esigenza di rimedi straordinari La prima misura su cui intendo richiamare l’attenzione del Parlamento è l’indulto, che - non incidendo sul reato, ma comportando solo l’estinzione di una parte della pena detentiva - può applicarsi ad un ambito esteso di fattispecie penali (fatta eccezione per alcuni reati particolarmente odiosi). Ritengo necessario che - onde evitare il pericolo di una rilevante percentuale di ricaduta nel delitto da parte di condannati scarcerati per l’indulto, come risulta essere avvenuto in occasione della legge n. 241 del 2006 - il provvedimento di clemenza sia accompagnato da idonee misure, soprattutto amministrative, finalizzate all’effettivo reinserimento delle persone scarcerate, che dovrebbero essere concretamente accompagnate nel percorso di risocializzazione. Al provvedimento di indulto, potrebbe aggiungersi una amnistia. Rilevo che dal 1953 al 1990 sono intervenuti tredici provvedimenti con i quali è stata concessa l’amnistia (sola o unitamente all’indulto). In media, dunque, per quasi quaranta anni sono state varate amnistie con cadenza inferiore a tre anni. Dopo l’ultimo provvedimento di amnistia (d.P.R. n. 75 del 1990) - risalente a ventitré anni fa - è stata, approvata dal Parlamento soltanto una legge di clemenza, relativa al solo indulto (legge n. 241 del 2006). Le ragioni dell’assenza di provvedimenti di amnistia dopo il 1990 e l’intervento, ben sedici anni dopo tale data, del solo indulto di cui alla legge n. 241 del 2006, sono da individuare, oltre che nella modifica costituzionale che ha previsto per le leggi di clemenza un quorum rafforzato (maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna Camera), anche in una “ostilità agli atti di clemenza” diffusasi nell’opinione pubblica; ostilità cui si sono aggiunti, anche in anni recenti, numerosi provvedimenti che hanno penalizzato - o sanzionato con maggior rigore - condotte la cui reale offensività è stata invece posta in dubbio da parte della dottrina penalistica (o per le quali è stata posta in dubbio l’efficacia della minaccia di una sanzione penale). Ritengo che ora, di fronte a precisi obblighi di natura costituzionale e all’imperativo - morale e giuridico - di assicurare un “civile stato di governo della realtà carceraria”, sia giunto il momento di riconsiderare le perplessità relative all’adozione di atti di clemenza generale.Per quanto riguarda l’ambito applicativo dell’amnistia, ferma restando la necessità di evitare che essa incida su reati di rilevante gravità e allarme sociale (basti pensare ai reati di violenza contro le donne), non ritengo che il Presidente della Repubblica debba - o possa - indicare i limiti di pena massimi o le singole fattispecie escluse. La “perimetrazione” della legge di clemenza rientra infatti tra le esclusive competenze del Parlamento e di chi eventualmente prenderà l’iniziativa di una proposta di legge in materia. L’opportunità di adottare congiuntamente amnistia e indulto (come storicamente è sempre avvenuto sino alla legge n. 241 del 2006, di sola concessione dell’indulto) deriva dalle diverse caratteristiche dei due strumenti di clemenza. L’indulto, a differenza dell’amnistia, impone di celebrare comunque il processo per accertare la colpevolezza o meno dell’imputato e, se del caso, applicare il condono, totale o parziale, della pena irrogata (e quindi - al contrario dell’amnistia che estingue il reato - non elimina la necessità del processo, ma annulla, o riduce, la pena inflitta). L’effetto combinato dei due provvedimenti (un indulto di sufficiente ampiezza, ad esempio pari a tre anni di reclusione, e una amnistia avente ad oggetto fattispecie di non rilevante gravità) potrebbe conseguire rapidamente i seguenti risultati positivi: a) l’indulto avrebbe l’immediato effetto di ridurre considerevolmente la popolazione carceraria. Dai dati del DAP risulta che al 30 giugno 2013 circa 24.000 condannati in via definitiva si trovavano ad espiare una pena detentiva residua non superiore a tre anni; essi quindi per la maggior parte sarebbero scarcerati a seguito di indulto, riportando il numero dei detenuti verso la capienza regolamentare; b) l’amnistia consentirebbe di definire immediatamente numerosi procedimenti per fatti “bagatellari” (destinati di frequente alla prescrizione se non in primo grado, nei gradi successivi del giudizio), permettendo ai giudici di dedicarsi ai procedimenti per reati più gravi e con detenuti in carcerazione preventiva. Ciò avrebbe l’effetto - oltre che di accelerare in via generale i tempi della giustizia - di ridurre il periodo sofferto in custodia cautelare prima dell’intervento della sentenza definitiva (o comunque prima di una pronuncia di condanna, ancorché non irrevocabile). c) inoltre, un provvedimento generale di clemenza - con il conseguente rilevante decremento del carico di lavoro degli uffici - potrebbe sicuramente facilitare l’attuazione della riforma della geografia giudiziaria, recentemente divenuta operativa. La rilevante riduzione complessiva del numero dei detenuti (sia di quelli in espiazione di una condanna definitiva che di quelli in custodia cautelare), derivante dai provvedimenti di amnistia e di indulto, consentirebbe di ottenere il risultato di adempiere tempestivamente alle prescrizioni della Corte europea, e insieme, soprattutto, di rispettare i principi costituzionali in tema di esecuzione della pena. Appare, infatti, indispensabile avviare una decisa inversione di tendenza sui modelli che caratterizzano la detenzione, modificando radicalmente le condizioni di vita dei ristretti, offrendo loro reali opportunità di recupero. La rieducazione dei condannati - cui deve, per espressa previsione costituzionale, tendere l’esecuzione della pena - necessita di alcune precondizioni (quali la non lontananza tra il luogo di espiazione e la residenza dei familiari; la distinzione tra persone in attesa di giudizio e condannati; la adeguata tutela del diritto alla salute; dignitose condizioni di detenzione; differenziazione dei modelli di intervento) che possono realizzarsi solo se si eliminerà il sovraffollamento carcerario. A ciò dovrebbe accompagnarsi l’impegno del Parlamento e del Governo a perseguire vere e proprie riforme strutturali - oltre le innovazioni urgenti già indicate sotto la lettera A) di questo messaggio - al fine di evitare che si rinnovi il fenomeno del “sovraffollamento carcerario”. Il che mette in luce la connessione profonda tra il considerare e affrontare tale fenomeno e il mettere mano a un’opera, da lungo tempo matura e attesa, di rinnovamento dell’Amministrazione della giustizia. La connessione più evidente è quella tra irragionevole lunghezza dei tempi dei processi ed effetti di congestione e ingovernabilità delle carceri. Ma anche rimedi qui prima indicati, come “un’incisiva depenalizzazione”, rimandano a una riflessione d’insieme sulle riforme di cui ha bisogno la giustizia: e per giungere a individuare e proporre formalmente obbiettivi di questa natura, potrebbe essere concretamente di stimolo il capitolo V della relazione finale presentata il 12 aprile 2013 dal Gruppo di lavoro da me istituito il 31 marzo che affiancò ai temi delle riforme istituzionali quelli, appunto, dell’Amministrazione della giustizia. Auspico che il presente messaggio possa valere anche a richiamare l’attenzione sugli orientamenti di quel Gruppo di lavoro, condivisi da esponenti di diverse forze politiche. Onorevoli parlamentari, confido che vorrete intendere le ragioni per cui mi sono rivolto a voi attraverso un formale messaggio al Parlamento e la natura delle questioni che l’Italia ha l’obbligo di affrontare per imperativi pronunciamenti europei. Si tratta di questioni e ragioni che attengono a quei livelli di civiltà e dignità che il nostro paese non può lasciar compromettere da ingiustificabili distorsioni e omissioni della politica carceraria e della politica per la giustizia”. Delmastro: “La sinistra svuota le carceri, noi le costruiamo” di Alessandra Parisi Il Secolo d’Italia, 24 settembre 2023 “Anche in questi giorni c’è stato un po’ di scossone con gli alleati sul fronte della giustizia, trojan sì o trojan no. Con un centrodestra a trazione meloniana noi daremo tutte e più ampie garanzie a indagati e imputati. Perché le garanzie sono la carta d’identità di un popolo civile”. Così Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, da Palermo durante un evento di Fratelli d’Italia. Delmastro: ampie garanzie a indagati e imputati - “Non toglieremo un solo strumento a magistratura per contrastare crimine, corruzione e quello che flagella la nostra nazione”. La lotta alle mafie è una priorità dell’esecutivo. “La sinistra, invece, ha scambiato Cospito per novello influencer. Era la Mecca della sinistra, luogo di pellegrinaggio di una sinistra che per mal-metabolizzati principi garantistici andava da Cospito a chiedere perché avremmo dovuto revocare il carcere duro. La destra sul contrasto al terrorismo nazionale e internazionale e alle mafie non farà mai sconti a nessuno”. Nei Cpr andranno le persone pericolose - Sul terreno infuocato dell’immigrazione, poi, Delmastro spiega le novità del decreto del governo. “Nei Cpr andranno le persone pericolose socialmente, già raggiunte da un provvedimento di espulsione. Persone che non hanno diritto a restare in Italia. Nel nostro Dna c’è la politica della sicurezza urbana”. Anche sulle carceri la rotta del governo è chiara. “Quando si parla di carceri per la sinistra l’unico problema è il detenuto”, spiega il sottosegretario di FdI. “Mentre gli agenti della Polizia penitenziaria, cioé gli uomini e le donne in divisa che rappresentano lo Stato, sono quasi qualcosa di fastidioso, di cui non parlare. Noi, invece, abbiamo lavorato sul potenziamento degli organici, ridotti al lumicino dalla riforma Madia, sulle dotazioni e sui protocolli operativi”. La sinistra svuota le carceri, noi le costruiamo - Il sovraffollamento è innegabile. “Ma la risposta è diametralmente opposta - aggiunge Delmastro - la sinistra svuota le carceri, noi abbiamo postato 84 milioni di euro per otto nuovi padiglioni detentivi. Vogliamo lavorare con i Paesi dell’Africa per eseguire le sentenze penali italiane nel Paese di provenienza. I detenuti stranieri ci costano quasi una finanziaria”. Detenuti tossicodipendenti, il governo al lavoro - Il sottosegretario alla Giustizia infine ha ricordato il provvedimento a cui lavora il governo per quanto riguarda la popolazione carceraria tossicodipendente. “È un terzo di quella complessiva - ha detto - Noi immaginiamo un grande provvedimento d’intesa con le comunità di recupero per consentire a cui volontariamente vuole aderire a un programma di disintossicazione, di espiare la pena dentro le comunità di recupero”. Sulla giustizia bulimia di reati. Garantisti solo con i forti di Carlo Bonini La Repubblica, 24 settembre 2023 Incapace di risolvere la contraddizione insanabile tra l’ossessione della vendetta sulla magistratura coltivata dai soci di minoranza del suo governo (Lega e Forza Italia) in nome dell’eredità berlusconiana con le radici giustizialiste della sua formazione politica e le parole d’ordine del suo partito, Meloni ha trasformato le politiche della giustizia e gli interventi sulle norme penali in un incedere sgangherato. Che combina un garantismo amorale a vantaggio dei forti (colletti bianchi e politica) con una feroce e classista intransigenza punitiva nei confronti dei marginali. È accaduto così che il governo abbia messo mano a un’ennesima riforma del processo (i cui esiti parlamentari sono tutt’altro che scontati) che rende l’azione penale delle Procure una cervellotica corsa a ostacoli in cui viene depotenziato l’uso delle intercettazioni e sterilizzato il ricorso alla custodia cautelare. Immaginando nel contempo una definitiva separazione delle carriere dei magistrati e cancellando di fatto un reato spia per la corruzione della pubblica amministrazione come l’abuso di ufficio. Ed è accaduto che, contemporaneamente, il governo abbia risposto a ogni possibile sollecitazione legata a episodi di devianza in grado di colpire l’emozione dell’opinione pubblica con un bulimico ricorso a nuove figure di reato. Dall’organizzazione di rave (pena fino a sei anni) al traffico di migranti (innalzamento della pena fino a trent’anni). Dalla dichiarazione di reato universale della organizzazione della gestazione eterologa (aumento delle pene fino a due anni) al reato di omicidio nautico (in prima lettura, innalzamento della pena fino a dieci anni). Dal reato di istigazione all’anoressia aggravata dalla minore età (proposta reclusione fino a quattro anni) alla responsabilità dei genitori per la dispersione scolastica (aumento della pena fino a due anni). Dagli incendi boschivi (aumento della pena fino a due anni) all’occupazione abusiva di immobili (innalzamento della pena fino a due anni). Per non dire del pugno di ferro sulla criminalità minorile (pene più severe fino a cinque anni per spaccio e la conseguente possibilità di custodia cautelare in carcere) e della promessa di castrazione chimica per i responsabili di reati sessuali annunciata dal palco di Pontida. Difficile prevedere oggi quale sarà il punto di caduta finale di questa traiettoria. Ma ne sono nitide le intenzioni, il cinismo politico che le ispira, la sciagurata approssimazione con cui si continua a maneggiare un tema - la giustizia - che dovrebbe essere sottratto alla logica strumentale di chi confonde il garantismo con l’impunità e il codice penale con la soluzione all’incapacità della politica di prevenire prima ancora che curare. Sicurezza, la maggioranza del pugno duro di Nadia Urbinati* Il Domani, 24 settembre 2023 Un anno di governo: dai rave party ai migranti passando dagli adolescenti di Caivano, ecco i nemici contro cui mobilitare le truppe di mare e terra. Il primo decreto e l’ultimo dell’anno I dell’èra M si assomigliano come due gocce d’acqua: pugno duro contro chi disturba e contro chi imbastardisce. I rave party e gli sbarcati dall’Africa passando per gli adolescenti di Caivano: eccoli i nemici contro i quali il primo governo di estrema destra della storia repubblicana mobilita le truppe di mare e di terra. Con parate in abiti da lavoro. Tra gli alluvionati romagnoli, col prete di Caivano, a Lampedusa con Ursula von der Leyen, l’angelo custode del sovranismo nostrano. E siccome gli obiettivi presi di mira sono minoranze (numeriche oltre che etniche) tutto sembra facile, anzi normale perché, vivvaddio, la maggioranza ha il potere! Della democrazia l’estrema destra conosce il comando della maggioranza e crede che la bastonata sia cosa buona e giusta se avvallata dall’opinione della maggioranza. La faccia dell’anno I dell’èra M. ha un tratto autoritario. E di dominio si tratta vista la logica securitaria adottata anche con le emittenti radiotelevisive di stato: fuori le opposizioni, comanda chi vince. La democrazia del “prima una maggioranza poi l’altra” con in mezzo solo la voce di chi governa: questa è l’anima massimalista del governo Meloni. Aspirare al massimo possibile di dominio. E siccome gli antichi governi sono stati così imbelli da non riuscire a mettere l’opinione nazionale al riparo dal dominio di chi vince, oggi tutti ne paghiamo le conseguenze. Prima fra tutte la Repubblica democratica. Si sbaglierebbe chi sottovalutasse il securitarismo, che potrebbe avere successo anche in Europa, dove miete solidi consensi a est, dove i governi disdegnano la democrazia liberale. Dai rave a Lampedusa via Caivano: un anno di massimalismo del pugno duro con chi è bersaglio facile. L’opposizione ha mostrato che si possono mettere i bastoni tra le ruote alle politiche del governo. Il problema è che alcune sue parti sentono l’attrazione del securitarismo mentre l’opinione, invece di monitorare il potere, si mostra “senza infamia e senza lode”. Non causarono il male ma non perseguirono nemmeno il bene. Lasciando che chi governa domini. *Politologa Cos’è la giustizia riparativa di Luca Sofri ilpost.it, 24 settembre 2023 È stata concessa a Davide Fontana, condannato per il femminicidio di Carol Maltesi: in Italia esiste da anni ma solo da poco è prevista dalla legge. Sabato il tribunale di Busto Arsizio, in provincia di Varese, ha deciso di accogliere la richiesta di Davide Fontana, il 44enne milanese condannato a 30 anni di carcere per l’omicidio di Carol Maltesi, una donna italo-olandese di 26 anni, di accedere alla “giustizia riparativa”. Con questa espressione ci si riferisce a un percorso complementare alla pena in carcere, che prevede l’incontro e la mediazione tra la vittima, il colpevole e spesso anche la comunità all’interno della quale è avvenuto il reato. Lo scopo è che la pena non abbia più solo un valore “afflittivo”, cioè che porta limitazioni alla libertà personale, ma appunto “riparativo”, in cui il colpevole si impegni a rimediare attivamente al reato commesso. Sui giornali è stato dato spazio ai commenti indignati della madre e del padre di Maltesi, che “si è detto sconvolto e schifato da una giustizia che ammette un assassino reo confesso, che ha ucciso, fatto a pezzi ed eviscerato una ragazza, di accedere ad un percorso simile”. In realtà la giustizia riparativa può essere applicata a qualsiasi tipo di reato, e può essere avviata anche senza la partecipazione delle vittime. È un approccio alla giustizia che esiste da tempo e in Italia è stato a lungo praticato senza essere normato. Con la recente entrata in vigore della riforma della giustizia, la cosiddetta riforma Cartabia, ora invece l’opportunità e le modalità di un percorso di questo tipo sono state introdotte anche nel codice di procedura penale. La giustizia riparativa si basa su due presupposti: che ogni reato causi una frattura di tipo relazionale e sociale - tra due persone o tra più persone, o tra una persona e una comunità - e che quasi mai la pena inflitta al colpevole sia di sollievo per le vittime coinvolte, che spesso continuano a soffrire dell’ingiustizia subìta anche dopo la sentenza di condanna. Le testimonianze delle vittime di violenze sessuali, per esempio, mostrano spesso che la condanna dell’aggressore non porta alcuna consolazione alla rabbia e alla sofferenza che si provano. Il criminologo americano Howard Zehr, considerato tra i primi promotori della giustizia riparativa, spiegò una volta in un’intervista che “siamo molto preoccupati del fatto che le vittime non siano solo escluse dal processo giudiziario, ma che questo diventi per loro un secondo trauma”. La giustizia riparativa sposta l’attenzione dalla punizione del colpevole e dal risarcimento puramente economico alla “riparazione”, attraverso un lavoro di incontro e soprattutto di assunzione di responsabilità. La filosofia che sta dietro questo approccio è molto antica, ma quello che viene considerato il primo esperimento di giustizia riparativa moderna avvenne a Kitchener, una cittadina dell’Ontario, in Canada. Due ragazzini furono giudicati colpevoli di aver rovinato alcune case nella via centrale del paese ma, anziché condannarli alle consuete attività previste per questi reati, l’educatore Mark Yantzi propose al giudice un programma di mediazione tra i ragazzi e le famiglie danneggiate, e un piano di lavoro per rimediare ai danni provocati. Nell’ambito della giustizia minorile la mediazione tra vittima e colpevole - che è una possibile applicazione della giustizia riparativa ma non è l’unica - si affermò anche in altri paesi ed è tuttora molto diffusa anche in Europa. In Italia era spesso raccomandata dai servizi sociali e dai tribunali minorili già da prima dell’introduzione della riforma Cartabia, anche se raramente ci sono le risorse per metterla in atto. Il più noto esperimento di giustizia riparativa avvenuto in Italia è quello iniziato nel 2007 e durato 8 anni, che coinvolse alcuni parenti delle vittime del terrorismo degli anni Settanta ed ex partecipanti alla violenza armata attivi in quegli anni. L’idea fu del gesuita Guido Bertagna e dei docenti dell’Università Cattolica di Milano Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, che fecero da mediatori per tutto il percorso e raccontarono poi la loro esperienza in un resoconto di oltre 400 pagine pubblicato nel 2015 dalla casa editrice Il Saggiatore: Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto. Nel prologo, gli autori spiegano: “Il nostro proposito era, ed è tuttora, quello di compiere un tragitto insieme, noi mediatori nel “mezzo”, tra persone che avevano subito un male terribile e chi quel male l’aveva causato, tutti uniti da qualcosa di tanto misterioso, e per molti versi inspiegabile, quanto forte, ineludibile, decisivo: la domanda, o la ricerca, di giustizia”. Può capitare, come nel caso di Fontana, che le vittime (in questo caso le parti civili del processo: i genitori e l’ex marito di Maltesi) decidano di non partecipare al percorso di giustizia riparativa con il colpevole: in questo caso è possibile procedere comunque con quella che viene detta “vittima aspecifica”, cioè una o più persone che hanno subito lo stesso tipo di reato e che sentono il bisogno di partecipare a questo tipo di percorso. È quello che ha raccontato di aver fatto Benedetta Tobagi, figlia del giornalista Walter Tobagi, ucciso nel 1980 da un gruppo terroristico di estrema sinistra, che ha sempre rifiutato la mediazione diretta con i responsabili della morte del padre, ma ha preso parte con soddisfazione a un percorso di giustizia riparativa diverso, con detenuti non direttamente coinvolti nella sua storia. L’obiettivo è ridare alle vittime un senso di sicurezza, di integrità psicologica e di giustizia. Il processo di giustizia riparativa non è un ritorno all’idea di giustizia privata e neanche un’applicazione del concetto di perdono cristiano. Il requisito di partenza è che chi ha commesso i crimini si assuma la responsabilità delle proprie azioni e ne affronti le conseguenze, anche rispondendo onestamente a una persona danneggiata che gli chiede perché ha fatto quel che ha fatto. Messina Denaro ormai in fin di vita. Al capezzale anche la madre ultraottantenne di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 24 settembre 2023 Il boss stragista in coma irreversibile. A Castelvetrano, in provincia di Trapani, preparano la tomba. “La mamma è voluta andare a salutarlo per l’ultima volta, ora anche lei si troverebbe a L’Aquila al capezzale di suo figlio”. L’indiscrezione arriva direttamente dalla Sicilia, da Castelvetrano, il paese natale dell’ultimo boss stragista di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, 61 anni, da due giorni in coma irreversibile all’ospedale San Salvatore del capoluogo abruzzese. È il sindaco di Castelvetrano, Enzo Alfano (M5S), ad averla raccolta ieri parlando con alcuni suoi concittadini: “Mi hanno detto che è partita con la figlia Giovanna”. Lorenza Santangelo, vecchia e malata, la moglie di “Don Ciccio” Messina Denaro, capomafia della provincia di Trapani alla fine degli anni 80, qui però nessuno l’ha vista. Impossibile avere conferme. Fuori dalla stanza dov’è ricoverato Matteo Messina Denaro, nell’edificio L4, a metà di un lungo corridoio tra il Centro vaccinazioni e la Neuropsichiatria infantile, ci sono cinque poliziotti, tra loro una donna. È il Reparto detenuti, al primo piano. Molto cortesi ma inflessibili. La porta è chiusa, difesa anche da due paraventi e loro non fanno avvicinare nessuno. In strada, poi, ci sono uomini dell’Esercito dentro a una camionetta, proprio accanto all’ingresso e ancora agenti di polizia, carabinieri, guardia di finanza e polizia penitenziaria a presidiare lo slargo, davanti a questa palazzina alta due piani e con i mattoni gialli a vista. Nessuna traccia neppure della figlia del boss, Lorenza, 27 anni, riconosciuta in extremis da suo padre. E della nipote avvocata, Lorenza Guttadauro, tutore legale del boss. Entrambe portano il nome della nonna. “Il paziente è stabilmente grave e in esclusivo trattamento palliativo”, è l’ultimo bollettino filtrato ieri sera. Il professor Luciano Mutti, oncologo che ha preso Messina Denaro sotto la sua responsabilità clinica dal giorno successivo all’arresto, il 17 gennaio, dice che adesso è in carico ai colleghi delle terapie di supporto. Il primario, qui, è Franco Marinangeli. Nei giorni scorsi i medici avevano già interrotto la chemio perché il fisico di Messina Denaro, minato da un tumore al colon scoperto nel 2020, era troppo debilitato. Così l’hanno prima sottoposto alla terapia del dolore poi alla sedazione, secondo le sue ultime volontà indicate in un testamento biologico. Nessun accanimento terapeutico. I sanitari sono obbligati ancora a idratarlo, ma non a rianimarlo e ad alimentarlo. Espletate alla presenza del tutore legale le ultime procedure, poi sarà questione di tempo. Ore, giorni, impossibile prevederlo. A Castelvetrano, intanto, è arrivato già l’ordine di sistemare la tomba al cimitero: “U Siccu” riposerà vicino a suo padre Francesco, Don Ciccio Messina Denaro, per lungo tempo latitante anche lui e fatto ritrovare alla sua morte, colpito da infarto, in aperta campagna, già vestito e pronto per il funerale. Forlì. “Progettare il volontariato”: il Garante regionale dei detenuti visiterà il carcere forlitoday.it, 24 settembre 2023 La visita-lezione si terrà il 24 ottobre prossimo. La partecipazione è riservata a un gruppo di 35 persone residenti in Emilia-Romagna attive nel volontariato penitenziario e interessate ad approfondirne le prospettive di intervento a favore dei detenuti. Visita alla Casa circondariale di Forlì per il Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna Roberto Cavalieri e per i partecipanti al progetto “Conoscere il carcere per progettare il volontariato” organizzato in collaborazione con il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e Marche. L’appuntamento è per il 24 ottobre prossimo e la partecipazione è riservata a un gruppo di 35 persone residenti in Emilia-Romagna attive nel volontariato penitenziario e interessate ad approfondirne le prospettive di intervento a favore dei detenuti. La visita avrà inizio alle 13.30 con la registrazione degli accessi e il punto di ritrovo sarà nel piazzale antistante alla Casa Circondariale di Forlì. La visita sarà così strutturata: presentazione della Casa circondariale e del progetto di istituto a cura della Direzione, del Comandante e della responsabile dell’Area trattamentale del carcere; visita all’istituto: spazi dedicati al trattamento dei detenuti, laboratori, ambiti detentivi. Nel corso della visita gli operatori del carcere accompagneranno il gruppo; incontro di chiusura con le realtà del volontariato e del terzo settore che operano in carcere. La partecipazione è soggetta alla valutazione da parte delle autorità competenti circa la compatibilità con l’ambiente penitenziario del partecipante, pertanto l’iscrizione e la partecipazione sarà confermata solo al momento del nulla osta da parte della direzione dell’Istituto. Chi desidera partecipare all’evento deve iscriversi entro il 30 settembre prossimo contattando l’Ufficio del Garante regionale dell’Emilia-Romagna: 051-5275999 / 051-5278631, garantedetenuti@regione.emilia-romagna.it. Bergamo. In cella spazio vitale di 2,6 metri quadrati, ex detenuto vince la causa in Cassazione di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 24 settembre 2023 Recluso nel carcere di via Gleno per 878 giorni, sarà risarcito con poco più di 7mila euro: “Condizioni inumane”. Respinto ricorso del ministero. “Detenzione attuata in condizioni inumane e degradanti”. Può succedere anche nel carcere di Bergamo, dove un detenuto è rimasto per quasi due anni e mezzo in una cella con uno “spazio minimo vitale” di 2,6 metri quadri. Che quella situazione fosse appunto così aspra da essere definitiva inumana e degradante, ora lo ha detto anche la Cassazione, confermando il risarcimento (pari a circa 7mila euro) in favore di un uomo passato da via Gleno. È l’esito giudiziario di una vicenda particolare che conferma la generale precarietà dei penitenziari italiani. Alla base c’è l’azione avviata da W.L.T., cittadino di origini straniere detenuto negli anni scorsi in via Gleno per 878 giorni, in pratica due anni e 5 mesi, usufruendo “di uno spazio minimo vitale all’interno delle camere di pernottamento di appena 2,6 mq senza la sussistenza di fattori compensativi” (il calcolo si basa sulla superficie della cella divisa per il numero degli occupanti). L’uomo aveva così fatto ricorso al Tribunale di sorveglianza di Brescia, che gli aveva dato ragione stabilendo una “misura indennitaria” di 7.024 euro: esattamente 8 euro al giorno. Il ministero della Giustizia aveva impugnato la decisione dei giudici bresciani, portando la partita in Cassazione: gli “ermellini”, con sentenza del 6 giugno pubblicata nei giorni scorsi, hanno rigettato il ricorso del ministero confermando la legittimità del risarcimento. Il ministero ha spiegato che “le camere di detenzione ove fu ristretto l’interessato erano dotate di finestre, i servizi igieni erano dotati di finestra e fruibili in maniera riservata, le docce dotate di acqua calda, nelle sezioni 3a, 6a e 9a erano fruibili quotidianamente locali di uso comune. Il detenuto poteva fruire della “custodia aperta”, potendo permanere fuori della camera di pernottamento dalle ore 8,30 alle ore 20,30, poteva permanere nei cortili di passeggio per quattro ore al giorno e poteva fruire dello spazio allestito nella sezione allo scopo di favorire le relazioni interpersonali. L’assistenza sanitaria era garantita per l’intero arco della giornata. L’istituto proponeva un’adeguata offerta formativa e di attività, il detenuto ha poi svolto attività lavorativa in qualità di inserviente di cucina”. E dunque, secondo il ministero, la carenza di spazio in cella è stata “adeguatamente compensata e non può da sola far ritenere che il detenuto sia stato ristretto in regime inumano e degradante”. Tesi contestata dallo stesso procuratore generale della Cassazione, che ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso, oltre che dal difensore di W.L.T. E la Cassazione - presidente Giacomo Rocchi, relatore Giuseppe Santalucia - ha infatti respinto le rimostranze del ministero. Il Tribunale di sorveglianza di Brescia, spiega la Cassazione, “dopo aver rilevato che il detenuto fu ristretto in una cella con spazio individuale inferiore a tre metri quadrati (i 3 metri quadrati sono un parametro di riferimento per la giurisprudenza italiana ed europea, ndr), ha correttamente osservato che nel caso in esame manca il fattore compensativo della durata contenuta della detenzione, che deve concorrere con gli altri per poter appunto compensare il sacrificio imposto dalla ristrettezza degli spazi in cella. Il periodo interessato dalla assenza di adeguati spazi all’interno della cella è stato infatti, particolarmente ampio, essendosi protratto per ben 878 giorni”. In sostanza, se è vero che - giurisprudenza alla mano - la detenzione in spazi così angusti poteva beneficiare di alcuni dei “fattori compensativi” citati dal ministero, nel caso in esame è mancata “la brevità del periodo nel quale si è protratta la condizione di uno spazio personale al di sotto della soglia di tre metri quadrati”. Ciascuno di quegli 878 giorni, in realtà, è valso un risarcimento di appena 8 euro. Reggio Calabria. “Detenuto preso a botte”: 8 agenti di penitenziaria rinviati a giudizio di Lucio Musolino Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2023 Inizierà il 20 novembre in aula bunker, a Reggio Calabria, il processo ai poliziotti della penitenziaria accusati di tortura e lesioni aggravate ai danni di un detenuto di origine campana, Antonio Peluso, considerato un esponente di spicco della camorra. Davanti al Gup Vincenzo Quaranta si è conclusa l’udienza preliminare per i 14 indagati: 8 rinvii a giudizio e 6 proscioglimenti per i fatti avvenuti all’interno del carcere di San Pietro il 22 gennaio 2022 quando Peluso, ripreso dalle telecamere interne dell’istituto di pena, aveva messo in atto una protesta, rifiutandosi di rientrare in cella dopo avere beneficiato dell’ora d’aria. La reazione, stando alle indagini della Squadra mobile, è stata brutale. Dai filmati sequestrati, si vede che il giovane detenuto è stato colpito ripetutamente con i manganelli in dotazione di reparto, ma anche con dei pugni. Gli agenti coinvolti, inoltre, lo hanno fatto spogliare lasciandolo semi nudo, in pieno inverno, per oltre due ore nella cella. A denunciare le violenze subite, a distanza di alcuni giorni, era stato lo stesso Peluso togliendosi la maglietta nel corso di un collegamento in videoconferenza col Tribunale di Napoli e mostrando i segni delle percosse ai giudici, che hanno poi segnalato i fatti alla Procura di Reggio Calabria. Da qui l’apertura dell’inchiesta, coordinata dal procuratore Giovanni Bombardieri, dall’aggiunto Giuseppe Lombardo e dal sostituto Sara Perazzan. Lo scorso novembre, erano finiti ai domiciliari sei indagati tra cui il comandante della penitenziaria Stefano La Cava, il principale imputato del processo che inizierà tra qualche settimana. Assieme a La Cava, sono stati rinviati a giudizio gli agenti Fabio Morale, Domenico Angelo Cuzzola, Pietro Luigi Giordano, Placido Giordano ed Alessandro Sgrò, il medico Sandro Parisi e l’infermiere Carlo Paga. Questi ultimi due sono accusati di “depistaggio” perché secondo gli inquirenti avrebbero affermato il falso “ostacolando e sviando le indagini”. Venezia. “Liberi di lavorare”, seminario dedicato alle carceri di Marco Belli gnewsonline.it, 24 settembre 2023 Di lavoro in carcere non si parla mai abbastanza. E quando accade, non sempre si ascoltano le voci di tutti i soggetti coinvolti, così che il quadro che ne esce offre spesso una visione solo parziale del tema. Ma non sempre va così. A Venezia, nella Chiesa conventuale Santa Maria Maddalena interna alla Casa di reclusione femminile della Giudecca, si è svolto ieri, 22 settembre, l’incontro “Liberi di lavorare”. E a parlare di opportunità lavorative e formazione professionale della popolazione detenuta, ma anche di difficoltà e nodi da risolvere stavolta c’erano tutti: rappresentanti del Governo, del Ministero della Giustizia, dell’imprenditoria, delle cooperative sociali, giornalisti, dirigenti dell’Amministrazione Penitenziaria, direttori di istituto, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria e una rappresentanza di detenute lavoranti. L’incontro nasce dall’interesse manifestato dalla testata giornalistica della Rai del Veneto di raccontare le esperienze dei detenuti impiegati in attività formative e lavorative nelle carceri della regione. Vengono realizzati diversi servizi giornalistici negli istituti di Verona, Vicenza, Belluno e Venezia, con approfondimenti dedicati anche alla situazione detentiva femminile. Si parla di lavoro e formazione professionalizzante, si affrontano i temi del riscatto e della recidiva, vengono mostrati i laboratori e le officine dove si svolgono le attività trattamentali e raccolte le voci di detenuti, direttori, educatori, poliziotti penitenziari e rappresentanti delle cooperative e delle aziende coinvolte. I servizi vanno in onda nei tg regionali tra febbraio e marzo scorso, suscitando grande interesse sul territorio e vengono successivamente rielaborati dalla Tgr Veneto in versione podcast. Ma c’è interesse ad approfondire ancora l’argomento del lavoro in carcere, così il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria competente per il territorio del Triveneto, su indicazione del Capo del Dap, organizza il confronto odierno ospitando tutti i soggetti coinvolti nell’istituto femminile della Giudecca. L’incontro si è aperto con i saluti del direttore della Casa di reclusione Maria Grazia Bregoli e del Provveditore regionale del Triveneto Maria Milano Franco D’aragona. Successivamente i giornalisti della Tgr Veneto autori dei servizi, Federica Riva e Paolo Colombatti, hanno presentato alla platea la genesi, i contenuti e le finalità dei video realizzati negli istituti veneti - che via via venivano mostrati ai presenti - e dei quattro podcast da questi estratti. Ampio spazio è stato dedicato alle testimonianze dirette. Quelle di due donne appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, entrambe a fine carriera, che hanno raccontato del lavoro quotidiano nelle sezioni detentive. Quelle, a tratti toccanti, di due detenute lavoranti e di un ex detenuto che hanno spiegato l’importanza di poter beneficiare di un lavoro remunerato durante la detenzione. E infine le testimonianze di due imprenditori che operano da tempo nelle carceri del territorio: Andrea Marcolin, titolare di una attività gastronomica, che opera nel carcere di Vicenza ed ha assunto alcuni detenuti anche nell’impresa esterna all’istituto; e Daniele Minotto, vice direttore dell’Associazione Veneziana Albergatori, con la quale presto saranno ampliate le commesse della lavanderia operante all’interno dell’istituto femminile di Venezia. Diversi i punti di vista da cui è stato affrontato l’argomento del lavoro in carcere. Certamente come opportunità di reinserimento sociale per i detenuti, che aspirano a svolgere un impiego retribuito durante la detenzione o a una formazione finalizzata allo svolgimento di una professione da spendersi una volta usciti dal carcere. D’altra parte ampliare la platea dei destinatari di tali opportunità costituisce un impegno primario per l’Amministrazione Penitenziaria, oltre che una specifica mission in ossequio a quanto previsto dal terzo comma dell’art. 27 della Costituzione. Un altro aspetto toccato nel corso del confronto è stato quello dei benefici fiscali e previdenziali, previsti dal 2000 dalla Legge Smuraglia, riservati alle aziende che investono nel lavoro intra ed extracarcerario, nonché i ritorni in termini di impatto sociale. “Quello che abbiamo visto oggi è solo una piccola parte di quello che possiamo fare tutti insieme. E che ci consentirà di realizzare un vero capolavoro” ha detto il Sottosegretario Andrea Ostellari. “Il lavoro è quello strumento capace di incidere fortemente sul tema della legalità, dentro e fuori dal carcere. È lo strumento che ci consentirà di abbattere l’indice di illegalità all’interno degli istituti e ci consentirà di investire sul futuro delle nostre comunità. Il 98% di chi partecipa ad attività formative e lavorative quando esce dal carcere esce anche dal circuito criminale. E questo - ha concluso Ostellari - è il vero investimento per il Paese”. “Il lavoro dà dignità ed è correlato all’essenza dell’essere umano. L’obiettivo che ci siamo dati è quello di portare entro un anno almeno il 50% dei detenuti a poter conseguire un lavoro all’interno dei penitenziari o al termine della detenzione”. Lo ha annunciato il Capo del Dap Giovanni Russo nel corso del suo intervento, sottolineando: “I detenuti che lavorano lo fanno indossando guanti, mascherine protettive, sono assunti secondo le norme del contratto collettivo nazionale del settore. Noi insegniamo ai nostri detenuti attraverso il lavoro a rispettare la legalità. Insegniamo loro che il lavoro legale è un lavoro che rende migliori e rende un servizio anche alla società. Sono veramente grato - ha concluso Russo - allo sforzo che fanno ogni giorno questa miriade di associazioni, cooperative e imprese che si mettono in gioco superando mura non solo fisiche ma spesso anche concettuali”. In platea, e in parte collegati da remoto, erano presenti all’incontro i direttori e i comandanti dei reparti di Polizia Penitenziaria degli istituti del Veneto, del Trentino Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia. Al termine, un’ultima gustosa e molto apprezzata dimostrazione di altre importanti lavorazioni presenti negli istituti del Veneto è stata offerta dalle cooperative M25, Work Crossing e Il Cerchio, operanti rispettivamente a Vicenza, Padova e Venezia, che hanno deliziato tutti gli intervenuti con le prelibatezze delle loro produzioni gastronomiche dolci e salate. Premio Estense a Gaia Tortora: “Il caso di mio padre non ha cambiato la giustizia” di Francesco Franchella Il Resto del Carlino, 24 settembre 2023 La figlia di Enzo sul podio con il libro scritto a 40 anni dall’arresto del padre. “Carceri ancora in stato vergognoso”. Gaia Tortora ha appena vinto il Premio Estense, con il suo libro autobiografico Testa alta, e avanti (Mondadori), racconto personale e doloroso a quarant’anni dall’arresto di suo padre Enzo (1928-1988), vittima di un clamoroso caso di “malagiustizia”. Il verdetto, dopo un vivace confronto fra la giuria tecnica, presideuta da Alberto Faustini, e la giuria popolare, è arrivato alla quinta votazione con 22 preferenze, al termine di un testa a testa con Paolo Borrometi e il suo Traditori. Come fango e depistaggio hanno segnato la storia italiana (Solferino). Gli altri finalisti erano Ezio Mauro con Cronache della Marcia su Roma (Feltrinelli) e Marcello Sorgi con Mura (Marsilio). Gaia Tortora, possiamo dedicare questa vittoria alla Gaia quattordicenne, pronta a sostenere l’esame di terza media e che invece si è trovata ad affrontare ben altro? “Sì, anche più piccola: è un modo per dirle che è stato difficile, ma che condividere la sua vita con gli altri è un mezzo per ripagarla di tutte le sofferenze che ha dovuto subire. Condividere con gli altri e con chi non ha modo di dire quello che posso dire io: attraverso di me, ho il dovere di restituire qualcosa anche a loro”. A un certo punto del testa a testa con Borrometi avete addirittura fatto “irruzione” in sala, per chiedere l’ex aequo... “Sì, il fotofinish con l’amico Paolo Borrometi, a cui voglio molto bene, è stato emozionante. La sua è un’opera preziosa. Sono due libri paralleli: anche se in modi diversi, raccontano storie che hanno segnato l’Italia e su cui bisognerebbe ancora dire molto. Per me, il risultato è ancora un ex aequo”. Che traccia ha lasciato questa storia nel suo percorso di donna e di giornalista? “Una traccia indelebile su tutto. Ha condizionato ogni cosa: la crescita, le relazioni, anche affettive. Ultimamente, mi capita di fermarmi e di chiedermi come sarebbe stata la mia vita senza questo orrore. Ha presente il film Sliding Doors? Sono uscita di casa in un modo, sono tornata dopo due ore e la mia vita era completamente cambiata”. È cambiata la giustizia italiana dai tempi dell’arresto di suo padre? “Per niente. Non è cambiato lo stato delle carceri, che è vergognoso. In questo momento, c’è un uomo in carcere da 33 anni, Beniamino Zuncheddu: è innocente e il suo rischia di essere il caso più lungo in assoluto per detenzione ingiustificata. La giustizia non è cambiata perché è lenta, perché c’è troppa capacità di mettere le persone in galera sulla carcerazione preventiva. Quando una persona è innocente, deve essere riconosciuto l’errore velocemente, per riconsegnarle la sua vita”. I ragazzi di oggi che possono ricavare dal suo libro? “In realtà, tengo molto a due segmenti di lettori: i ragazzi delle scuole e le carceri. Continuo ad andare spesso nelle carceri, soprattutto nelle carceri minorili, dove molto c’è da recuperare. Vorrei che i ragazzi comprendessero attraverso questa storia che giudicare subito è sbagliato: vorrei che utilizzassero sempre e comunque la loro testa, per farsi una propria idea”. Jas Gawronski, che faceva parte della giuria tecnica, le ha chiesto scusa per aver dubitato di suo padre, il giorno dell’arresto. Cosa risponde? “Fa piacere. Le scuse sono sempre ben accette, ovviamente quando vengono da persone per bene, come lo è Jas Gawronski. Quando provengono da altre parti, ovvero da personaggi che hanno fatto parte del massacro di mio padre, quando provengono da alcuni di quei ‘cialtroni’, come io li definisco, le scuse non sono accettate, perché in questi casi c’era dolo. Il dubbio, invece, fa parte della vita: c’è sempre tempo per tornare indietro”. Lei parla di “malagiustizia”, ma anche di “mala-informazione”. La stampa italiana ha imparato dalla storia di suo padre? “Qualcuno sì, qualcuno no. Soprattutto nella stampa, mi duole ribadire che a volte è più semplice dividere l’opinione pubblica e la fetta da contendersi. Forcaioli, giustizialisti, garantisti: come se fosse una categoria da indossare. Non è così: quando parliamo di giustizia e della vita delle persone, più che la certezza della pena, sembra un paese in cui c’è soltanto la certezza della colpevolezza”. Il rap dietro le “barre” di Ivana Marrone ed Emiliano Sbaraglia collettiva.it, 24 settembre 2023 Francesco “Kento” Carlo, rapper con oltre mille concerti alle spalle, da anni svolge laboratori di scrittura nelle carceri minorili: ecco la sua esperienza. Dal primo all’ultimo dei suoi dischi, dal titolo Kombat Rap (Time 2 Rap, 2023), Francesco “Kento” Carlo si è sempre distinto nell’articolato mondo dell’hip-hop e rap italiano, in particolare quello definito di seconda generazione, affermatosi nel corso degli anni Novanta nel nostro Paese. Dopo oltre dieci album e più di mille concerti, Kento da un decennio si dedica anche a un intenso lavoro laboratoriale all’interno delle carceri minorili. Laboratori che naturalmente hanno a che fare con il rap, con la scrittura di versi, di “barre”, come titola il suo libro edito nel 2021 da Minimum fax, e che raccontano un mondo pressoché sconosciuto, malgrado se ne parli molto, di certo spesso a sproposito, dato che “dietro ai numeri ci sono delle persone, da una parte e dall’altra”. In questa videointervista Kento ribadisce ancora una volta l’esigenza di incontrare questi ragazzi in forma diversa, tentando di comprendere e valutare la componente umana di chi ha sbagliato, ma che spesso è costretto a sbagliare dalle circostanze della vita. Una vita vissuta ancora troppo poco per potersi assumere ogni responsabilità, ogni colpa, laddove responsabilità e colpe andrebbero cercate nelle scelte e nella gestione di tali scelte da parte di un mondo, quello degli adulti, la cui risposta al momento sembra essere soltanto il rafforzamento della repressione, senza pensare al “lavoro sul sociale”, lasciando da parte la possibilità di un recupero, di misure alternative, di una “ri” o “neo” educazione. “Un approccio disastroso”, ci dice Kento, forse perché per un progetto virtuoso a favore dei minori in carcere servirebbero troppi soldi, o forse troppa fatica. Il lavoro senza padrini con l’agricoltura sociale della Sella Rossa di Alcamo di Enea Conti Corriere della Sera, 24 settembre 2023 La cooperativa in provincia di Trapani offre percorsi formativi e valorizza tradizioni, solidarietà e trasparenza. “Abbiamo reso produttivi campi non adeguatamente coltivati”. “Non guardiamo ai nostri padrini. A loro preferiamo i nostri padri”. Delfina Bambina è la presidente della cooperativa Rossa Sera, che ha sede ad Alcamo, nel cuore del golfo di Castellamare. È una cooperativa sociale agricola, nata nel 2016, che promuove percorsi di inclusione e riabilitazione per persone disabili e povere ed è una costola dell’associazione Servizio e Promozione sociale di Alcamo (Tp), che in questo angolo di Sicilia orientale a ovest di Palermo, vanta quasi trent’anni di esperienza. Qui i padrini erano quelli che affliggevano l’isola all’inizio del Novecento, nelle campagne, quando il brigantaggio strozzava uno Stato poco presente andando a braccetto con la mafia. I padri sono invece i benefattori, quelli che in Sicilia all’illegalità opponevano e oppongono i valori della cultura del lavoro, della solidarietà, della trasparenza. “La nostra missione - spiega Delfina Bambina- è creare percorsi lavorativi nell’ambito dell’agricoltura sociale, che aprano le porte dell’inclusione”. C’è poca retorica ad ascoltare le parole di chi lavora con le persone più deboli. Perché l’inserimento lavorativo procede di pari passo con la rigenerazione dei terreni lavorati da chi, giorno dopo giorno, diventa sempre più autonomo mettendosi in gioco con un mestiere e vedendo germogliare e crescere ulivi e grano antico. I grani antichi - “Abbiamo reso produttivi campi che non erano adeguatamente coltivati: piantiamo alberi, coltiviamo i grani antichi, come il grano monococco. Sono stati i primi grani lavorati dall’uomo nella mezzaluna fertile, millenni fa, e poi caddero in disuso”. Alcuni dei prodotti lavorati vengono venduti al Meeting di Rimini ogni anno, in uno stand speciale, quello del “Bar Alcamo”. “Il Bar Alcamo esiste solo al Meeting - racconta Delfina - a volte fa sorridere ma c’è chi lo cerca su Google Maps, lo cerca in Sicilia e ovviamente non lo trova. Significa che la nostra attività colpisce in positivo i visitatori”. In Sicilia, però, ci sono i terreni da lavorare. Si trovano a Partinico, a Calatafimi e vicino ad Alcamo. Non sono stati confiscati alle mafie ma un secolo fa erano in balia dei briganti e delle prime cosche. In questa zona il sociologo Danilo Dolci, negli anni Sessanta, scrisse una pagina di storia. I contadini faticavano a trovare acqua, pativano la sete, i loro campi soffrivano la siccità, la mancanza di lavoro rendeva tutti più poveri. Dolci organizzò un sciopero alla rovescia, perché se un lavoratore può scioperare per rivendicare i propri diritti, un disoccupato può lavorare per conquistarsi da solo il diritto di lavorare. E procurarsi l’acqua per fertilizzare i campi assetati della Sicilia di quegli anni. “Ecco Dolci incarna la figura del “padre”. Fu costruita così la diga di Jato. Qui la cooperativa attinge per irrigare i campi”. E come nei campi è lunga l’attesa per vedere maturi i frutti, la cooperativa “Rossa Sera” ha appena gettato le fondamenta di un percorso altrettanto lungo. Le assunzioni - “In questo momento tre persone bisognose di assistenza sono in fase di assunzione e due sono impegnate in progetto formativo. Chi lavora con noi beneficia di una retribuzione e quando possiamo di un contratto di lavoro”. I soci della cooperativa sono dodici e sono aiutati da un agronomo, un contadino, un tecnico e un educatore. “Crediamo che l’agricoltura sia al servizio della persona. Abbiamo costruito spazi in cui in 1500 metri le persone non soffrano lo straniamento: ci sono bancali a bordo inclinato per permettere anche a chi è in carrozzina di coltivare il prezzemolo e le erbe aromatiche senza sentire il peso della frustrazione imposto dai limiti fisici”, racconta Delfina. Il futuro? “La cooperativa è giovane e sogniamo di vedere le persone che lavorano con noi spiccare il volo dopo aver concluso qui il loro percorso”. “Uscire dalla guerra”. Santoro chiama a raccolta il fronte pacifista di Riccardo Chiari Il Manifesto, 24 settembre 2023 Elezioni europee 2024. “Di fronte alla guerra, tutti abbiamo il dovere di scendere in campo”. Alla giornata fiorentina “Il coraggio della pace. Disarma”, il giornalista di Servizio Pubblico chiude in bellezza una iniziativa ricchissima di interventi, tesi ad analizzare da ogni possibile angolazione i motivi e i retroscena della guerra in Ucraina, smontando pezzo per pezzo la narrazione dell’Ue, del governo italiano e di quasi tutti i media. “Stare a riflettere sulla nostra impotenza mi ha stufato. Di fronte alla guerra, tutti abbiamo il dovere di scendere in campo”. È una chiamata a raccolta quella di Michele Santoro. A lui il gruppo organizzatore dell’iniziativa “Il coraggio della pace. Disarma”, ha lasciato l’intervento finale di una giornata ricchissima di interventi, tesi ad analizzare da ogni possibile angolazione i motivi e i retroscena della guerra in Ucraina, smontando pezzo per pezzo quelle che Fabrizio De Andrè chiamava “le verità della televisione”. Un appuntamento che fa segnare il tutto esaurito al teatro fiorentino dell’Affratellamento, e che fa da preludio al nuovo incontro pubblico che sabato prossimo vedrà come principali promotori al teatro Ghione di Roma lo stesso Santoro e Raniero La Valle. L’orizzonte, va da sé, è quello delle elezioni europee del prossimo anno. Di fronte alle quali il giornalista di Servizio Pubblico preconizza che sui media “in campagna elettorale dell’Ucraina non si parlerà, o si parlerà pochissimo”. Unica risposta possibile, un messaggio chiaro: “La mia parola d’ordine non è ‘basta con l’invio delle armi, è ‘uscire dalla guerra’”. Un obiettivo politico, indirizzato a un’opinione pubblica “che in maggioranza è contro la guerra e il riarmo, però non va a votare. Ma se non si risolve il problema della guerra non c’è futuro, né economico né politico, per l’Europa”. Ad Alex Zanotelli, che prima di salire sul palco dell’Affratellamento gli ha chiesto “di fare un grande movimento pacifista, non una semplice lista”, Santoro risponde così: “Noi possiamo pretendere che nella campagna elettorale la pace sia la precondizione. Non chiediamo a nessuno di di rinunciare alle sue idee e ai suoi simboli, quello che dobbiamo fare è metterci insieme per uscire dalla guerra. Raccoglieremo le firme, quella sarà la prima spinta, saremo un pungolo. E allora vedrete che Schlein e il M5s metteranno dei pacifisti nelle loro liste”. Soddisfatto il “promotore dei promotori” Claudio Grassi, portavoce del centinaio di personalità che hanno animato la giornata, tra le quali oltre a Zanotelli e Raniero La Valle sono intervenuti Luisa Morgantini, Moni Ovadia, il giurista Domenico Gallo, la filosofa femminista Maria Luisa Boccia, Pasqualina Napoletano, e ancora Ida Dominijanni, Marco Tarquinio, Roberto Musacchio, Alfio Nicotra, Flavio Lotti, Norberto Julini e, sugli aspetti più strettamente economici Roberto Romano, Alfonso Gianni e Stefano Fassina. Tutti interventi riascoltabili grazie alla trasmissione in diretta su You Tube, e in gran parte incentrati sulla deriva di una Unione europea nata contro le guerre ma oggi guerrafondaia. “I cento che hanno inizialmente firmato l’appello sono già cinquecento - annota Grassi - e domani chiunque vorrà potrà unirsi per dare vita ad una associazione, per dare continuità a questo impegno a partire dall’iniziativa di sabato prossimo di Santoro e La Valle, e proseguire con la grande manifestazione ‘La via maestra’ del 7 ottobre. Un’associazione che possa colmare un vuoto nella sinistra, dove certe istanze vengono rappresentate ma troppo debolmente”. In collegamento da remoto arriva l’intervento di Fausto Bertinotti: “Questa guerra può portare alla catastrofe, per questo oggi pace e rivoluzione stanno insieme. Sono l’annuncio del mondo che diventa l’alternativa al rischio della catastrofe”. Anche quello di Luigi De Magistris, portavoce di Unione popolare: “Ringrazio gli organizzatori di questa giornata, un fronte popolare pacifista ampio è necessario, e sui temi che sono stati delineati si può costruire non soltanto un progetto elettorale ma anche un progetto politico. Non dobbiamo fare calcoli, vedremo se c’è la voglia, per certo il cambiamento dall’alto io non l’ho mai visto, l’unica strada è il cambiamento dal basso. Uniti, anche con storie diverse ma con gli stessi principi, costituzionali, di fondo”. Bergoglio sferza i governi: “I migranti non invadono” di Valentina Porcheddu Il Manifesto, 24 settembre 2023 Il messaggio del papa a Marsiglia è tutto politico: “Bisogna prevenire un naufragio di civiltà”. “La città di Marsiglia è molto antica. Fondata da navigatori greci venuti dall’Asia Minore, il mito la fa risalire alla storia d’amore tra un marinaio emigrato e una principessa nativa”. Anche Papa Francesco non resiste alla tentazione di citare la leggenda delle origini di Massalia, nata dall’accoglienza offerta da Gyptis - figlia del re dei Segobrigi Nannus - a Protis, la “guida” della flotta proveniente da Focea. Lo fa in apertura del suo discorso al Palais du Pharo in occasione della giornata conclusiva degli Incontri Mediterranei, le cui precedenti edizioni si sono svolte a Bari e a Firenze. Ma se l’inizio dell’intervento del pontefice - pronunciato davanti a novecento persone e in presenza del vice-presidente della Commissione Europea Schinas (responsabile dei lavori per un nuovo patto sulla migrazione e l’asilo), del presidente della Repubblica francese Macron e del ministro dell’Interno Darmanin - è ricco di riferimenti al cosmopolitismo della città foceana e agli innumerevoli paesaggi del Mediterraneo tracciati da Braudel, a prendere il sopravvento è poi un messaggio manifestamente politico diretto a coloro che “pur stando bene alzano la voce” mentre è degli ultimi che ci si dovrebbe occupare, dei volti e delle storie di ciascuno, non dei numeri. Facendo riferimento alla porta spalancata sul mare che è Marsiglia, “capitale dell’integrazione dei popoli” Francesco parla dei vari porti mediterranei che vengono invece chiusi al grido di “invasione” ed “emergenza”. “Chi rischia la vita in mare non invade, cerca accoglienza, cerca vita” - dice con fermezza Bergoglio -, aggiungendo che il fenomeno migratorio “non è un’urgenza momentanea, sempre buona per far divampare propagande allarmiste ma un processo che va governato con sapiente lungimiranza: con una responsabilità europea”. Pur ammettendo le difficoltà nell’accogliere, il papa ribadisce la necessità di proteggere, promuovere e integrare i migranti per prevenire un “naufragio di civiltà”. Un concetto risuonato anche venerdì durante la meditazione condotta dal Santo Padre di fronte alla stele dedicata a coloro che hanno perso la vita in mare nel santuario di Notre-dame de la Garde, dove ad accompagnarlo c’erano, fra gli altri, i rappresentanti delle Ong che effettuano i salvataggi. Nel ricordare un altro simbolo di Marsiglia, il faro dell’omonimo palazzo dove questa settimana si sono riuniti settanta vescovi e centinaia di giovani delle cinque rive del Mediterraneo - Nord-Africa, Vicino Oriente, Mar Nero-Egeo, Balcani ed Europa latina - Francesco si rivolge infine agli studenti, in particolare ai 5mila stranieri dei campus marsigliesi, auspicando che l’Università e la scuola rompano le barriere e siano laboratori di dialogo per un futuro di pace scevro di pregiudizi. Il messaggio del pontefice è stato ricevuto con calore ed entusiasmo anche allo stadio Vélodrome, dove si è svolta l’ultima tappa del pellegrinaggio e dove si svolge attualmente il campionato mondiale di rugby. Bergoglio è arrivato verso le quattro del pomeriggio nel “tempio” della squadra locale di calcio, l’amatissima Olympique Marseille, per celebrare la messa dopo un tragitto lungo l’affollata e festosa Avenue du Prado. D’altro canto sono trascorsi cinque secoli dall’ultima volta che un papa è passato da queste parti, un’occasione storica per cittadini e turisti. Come spiegato dal cardinale Aveline, la scelta dello stadio non è stata casuale, in quanto - come dirà al pontefice lo stesso arcivescovo di Marsiglia alla fine della funzione religiosa - “venendo qui è come si fosse recato a casa di ciascun marsigliese”. Ed a officiare il “battesimo” del papa-tifoso sono proprio i supporter dell’Olympique, in particolare il gruppo dei South Winners presieduto da Rachid Zeroual, che lo omaggiano dalla Curva Sud con un’effigie gigante. Nell’omelia di Francesco c’è ancora posto per un appello alle coscienze che contrapponga all’insensibilità nei confronti dello scarto della vita umana un sussulto davanti al prossimo. Nel congedarsi da uno stadio che lo acclama in italiano, il pontefice non dimentica di rivolgere un pensiero a tutti i lavoratori della città, partendo dalla storia di Jacques Loew, il primo prete operaio che prestò servizio al porto di Marsiglia. Nessuno applaude quando il Bergoglio saluta il presidente Macron, la premier Borne e Payan, il giovane sindaco socialista che pure è stato uno dei principali fautori della visita papale. Da domani, sarà soprattutto lui, a dover raccogliere l’impegno per la “cura” del migrante richiesta da Francesco. In questi giorni decine di minori non accompagnati accampati nel centro di Marsiglia reclamano il diritto a un alloggio e all’istruzione. Lampedusa è lontana ma non troppo. Migranti. Piantedosi: “5mila euro per non finire nei Cpr? Un dato marginale” di Adriana Pollice Il Manifesto, 24 settembre 2023 “Abbiamo lavorato tantissimo, i risultati non sono quelli che speravamo” è il bilancio della premier Meloni dopo un anno di governo. La “garanzia finanziaria” di 5mila euro che i migranti dovranno versare? Nessuno scandalo, ieri il ministro dell’Interno Piantedosi ha liquidato il problema: “Non riguarda le persone trattenute nei Cpr ma nelle nuove strutture di trattenimento di richiedenti asilo provenienti da paesi sicuri. La prima sarà aperta domani (oggi ndr) a Pozzallo”. E con questo la questione è liquidata. Come aveva già fatto per i Cpr (“Li chiede l’Europa”) anche nel caso della fideiussione Piantedosi si nasconde dietro Bruxelles: “È Il recepimento di una direttiva europea che ci fa avviare il primo centro di trattenimento di richiedenti asilo provenienti da paesi sicuri, ad esempio la Tunisia, per realizzare procedure di accertamento dello status di rifugiati o dare avvio a procedura di espulsione in un mese e non come avviene ora in tre anni, con aggravio di costi per lo Stato”. Per poi aggiungere: “La direttiva Ue prevede la possibilità di trattenerli con un provvedimento convalidato dall’autorità giudiziaria e che l’alternativa da offrire sia una sorta di garanzia, anche economica, per evitare il trattenimento”. La conclusione è illuminante: “A me sembra una questione marginale rispetto all’obiettivo: risolvere il problema di tenere le persone in un limbo per anni con grave carico sul bilancio dello Stato”. Sul tema della garanzia finanziaria Salvini tira dritto: “A me interessa che si blocchi quella che ha i tratti di un’invasione. Ogni mezzo democraticamente concesso può essere usato”. C’è l’invasione? Il collega di governo Piantedosi smentisce il vicepremier leghista: “Non è il numero complessivo delle persone a preoccupare - ha spiegato ieri - ma il fatto che siamo costretti a gestirlo in modo non sempre prevedibile. Sono orgoglioso di ciò che ha fatto il governo, insieme ai territori e ai sindaci”. Anche qui emerge un po’ di confusione: da mesi i comuni sono sul piede di guerra perché si sono visti scaricare il problema dell’accoglienza denunciando la mancanza di concertazione. “Nel periodo compreso tra luglio, agosto e questo scorcio di settembre, 66mila persone sono arrivate - ha proseguito il titolare del Viminale -. Il sistema sinora ha tenuto. Questo governo ha adottato un decreto flussi e un decreto di programmazione triennale di ingressi regolari. Ma nessun sanatoria per gli immigrati in Italia, solleciteremmo gli irregolari”. Quindi avanti tutta con i centri. Il sottosegretario leghista all’Interno, Molteni, snocciola i numeri: “Il raddoppio dei Cpr richiede un rafforzamento delle forze dell’ordine che vigilano nelle strutture, servirà quindi aumentare le assunzioni. Sarà utile anche riportare a 7mila unità i militari impegnati nelle città per Strade sicure”. Su dieci Cpr esistenti, nove sono in funzione: “Sono 1.300 i posti disponibili - ha proseguito - e 6/700 utilizzati. Siamo riusciti a fare 3.300 espulsioni (1.500 verso la Tunisia), il 30% in più del 2022. Se avessimo il doppio dei Centri raddoppieremmo il numero di espulsi”. Quindi un enorme flusso di denaro per la realizzazione delle strutture, per la gestione della sicurezza e per i bandi di affido ai privati dei servizi. Con l’obiettivo “ambizioso” di circa 6mila rimpatri contro l’invasione invocata da Salvini. Da Torino la garante comunale dei diritti delle persone private della libertà, Monica Cristina Gallo: “I Cpr sono uno strumento inefficace, lo dimostrano i numeri. Nel 2022, delle 879 persone transitate al Cpr di Torino (199 provenienti dal carcere e 680 entrate da libere) solo 279, vale a dire una su 4, sono state rimpatriate. Le restanti sono state rilasciate per diversi motivi, dalla scadenza dei termini a ragioni sanitarie o per la mancata convalida da parte del giudice. Quest’anno, fino al 5 marzo, cioè fino a quando è rimasta aperta la struttura, si sono registrati 235 transiti (solo 28 di persone recluse) e 46 rimpatri; dal 5 marzo al 31 agosto, a Cpr chiuso, mi risulta che i rimpatri siano stati 38. Questi dati dimostrano come le istituzioni sono in grado di organizzare rimpatri senza passare dai Cpr. Inoltre gli accordi bilaterali con i Paesi di provenienza sono pochi”. Il sindaco Pd di Pesaro e presidente di Ali, Matteo Ricci: “5mila euro per non finire nei Cpr: una tangente per la libertà, proprio come fanno gli scafisti”. Migranti. Flick: “Inammissibile ‘cauzione’ per non finire nei Cpr, ha profili di incostituzionalità” di Carlo Bertini La Stampa, 24 settembre 2023 L’ex presidente della Corte: “Il modello americano di Ellis Island può servire per dare una formazione nei Cpr utile a trovare lavoro”. “La cauzione di cinque mila euro chiesta ai migranti per non essere rinchiusi nei Cpr è inaccettabile e ha probabili profili di incostituzionalità”. L’ultima trovata del governo, che anche sul piano formale - un decreto legge che ne integra un altro - sconcerta l’ex presidente della Consulta, Giovanni Maria Flick, dà il segno di dove si sia arrivati: “Piuttosto - propone Flick - offriamo ai migranti un periodo di formazione e l’apprendimento della nostra lingua, chiedendogli in cambio di sottoporsi a misure di restrizione inevitabili, ma certo non di un anno e mezzo. E per favore lasciamo perdere gli esempi delle caserme dismesse”. Che cosa comporterebbe sul piano giuridico una “cauzione” da chiedere in cambio della libertà? “I 5 mila euro di “cauzione” sono inammissibili non solo dal punto di vista giuridico, ma umano, sociale, politico ed etico. Soffriamo in Italia la contrapposizione tra due opposti radicalismi: tra chi chiede blocco alle frontiere o blocco navale e chi sembra tollerare un’accoglienza generalizzata. Si deve riconoscere la necessità di un controllo dei migranti e che la maggiore possibilità di accesso sia compensata da un controllo serio delle loro posizioni singole”. Ma qui si parla di 18 mesi di detenzione… “E ciò significa accantonare il problema in attesa di una sanatoria. Non si può punire come delitto l’entrata nel Paese senza documenti e la Consulta lo ha ripetuto più volte. Questa è la prosecuzione di un’ipocrisia che in passato accettava i migranti di passaggio nella convinzione che se ne sarebbero andati in altri Paesi”. È possibile che la Corte Costituzionale abbia qualcosa da ridire su questo cumulo di norme controverse? “Se qualcuno farà un ricorso al giudice e solleverà il problema della libertà a fronte di una “cauzione”, e se il tribunale riterrà non infondata la questione di una pari dignità che non può dipendere da condizioni sociali, la Corte potrebbe eccepire. Non ho la presunzione di mettermi nella testa dei giudici, né della Consulta, ma non credo che si possa pagare la libertà con un versamento di migliaia di euro chiesto a chi arriva in tali condizioni”. Queste ultime misure saranno inutili? “Se quei 18 mesi sono una forma di minaccia per impedire alla gente di venire, non saranno un deterrente sufficiente per chi sfugge alla morte. Mi chiedo poi cosa sarà di queste persone dopo quei 18 mesi. Si è visto che i rimpatri di massa sono vietati, costosi e impraticabili”. E allora cosa fare? “Mi domando se non si giustifichi un rovesciamento della questione, sperimentando magari il modello degli Usa con Ellis Island: un filtro per far entrare la gente che risponda alle esigenze di lavoro del Paese. Se si vuol porre una negoziazione con lo straniero per permettergli di non entrare nel Centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) con una “cauzione”, ecco un’altra proposta migliore: chiediamogli se sia disposto a entrare in un ambiente sorvegliato, in cui possa studiare la lingua italiana e ricevere una formazione professionale per poi trovare un lavoro da chi in Italia ha bisogno di manodopera. E si potrebbe chiedere che le imprese italiane contribuiscano alla formazione in questi centri”. Ma si può eccepire che anche questa sarebbe una privazione di libertà… “Certo, è una proposta provocatoria, da discutere, anche in questo caso si aprirebbe comunque il problema dei minori e delle famiglie per i ricongiungimenti. Ma io dico: lavoriamo sull’uomo e non sui numeri. Una volta aperto il dialogo con la norma sulla “cauzione”, forse bisognerebbe verificare se non siano più sagge altre alternative. Ovvero se il migrante possa essere disposto ad accettare una limitazione di movimento per una formazione che gli consenta di inserirsi nel Paese e nel lavoro”. Uno stallo eterno e repressione: ecco cosa succede sui migranti di Vitalba Azzollini* Il Domani, 24 settembre 2023 Si stanno susseguendo una serie di rapidi interventi per risolvere il problema migratorio. E mentre a Roma il governo estende l’uso dei Cpr, le riforme europee rischiano il rinvio. Gli interventi in tema di immigrazione si stanno susseguendo in maniera molto rapida, ma quanto sta cambiando la situazione? Per capirlo può essere utile ricapitolare quanto accaduto negli ultimi giorni e spiegarne gli elementi essenziali, per comporre il quadro d’insieme. Stallo in Ue - Il parlamento europeo ha sospeso il negoziato sul testo per il database europeo per le richieste d’asilo e sullo screening. Si tratta di una mossa per indurre il Consiglio Ue a superare lo stallo sul regolamento in tema di crisi migratorie, cioè di situazioni di afflusso massiccio. Il regolamento prevede che spetti alla Commissione il potere di decretare lo stato di crisi, avviando misure obbligatorie di solidarietà come il ricollocamento delle persone o, in alternativa, il versamento di fondi. Ma Polonia e Ungheria - contrarie al conferimento alla Commissione di tale potere - ostacolano il raggiungimento di una posizione comune da parte del Consiglio. Il parlamento europeo aveva adottato il mandato negoziale sul regolamento in questione già lo scorso aprile. Si attendeva l’adozione di quello del Consiglio, per poi iniziare la fase dei triloghi e raggiungere un accordo tra parlamento e Consiglio sull’atto finale. Il rischio ora è che la riforma non sia approvata prima delle elezioni europee di giugno, quando gli equilibri politici potrebbero cambiare. L’accordo con la Tunisia, sottoscritto nel luglio scorso dal presidente tunisino, Kais Saied, e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, è stato contestato da alcuni stati membri, con il blocco dei fondi previsti. La spiegazione si trova nella normativa dell’Ue, che definisce la ripartizione delle competenze fra le istituzioni dell’Unione. L’accordo con un paese terzo necessita della preventiva valutazione di idoneità agli interessi dell’Unione, che il Trattato dell’Ue attribuisce al Consiglio. Quest’ultimo ha, infatti, il compito di elaborare l’azione esterna dell’Unione, mentre alla Commissione spetta l’adozione delle iniziative idonee ad attuare tale azione. Decisioni assunte in violazione di queste regole possono essere annullate. A ciò va aggiunto che l’ombudsman europeo - organismo indipendente di garanzia sul buon funzionamento delle istituzioni dell’Ue - ha chiesto a von der Leyen di fornire risposte su “come l’esecutivo Ue intenda garantire il rispetto dei diritti umani nelle azioni legate alla migrazione” in Tunisia. Alcuni commentatori obiettano che alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan furono dati diversi miliardi per contenere i flussi migratori dalla Siria, mentre per la Tunisia si accampano problemi procedurali per poche centinaia di milioni. Va, tuttavia, ricordato che l’accordo con Erdogan, a differenza di quello con Saied, fu preventivamente approvato dal Consiglio. Ora si tenterà di rimediare. La questione è rimandata al Consiglio Affari interni del prossimo 28 settembre a Bruxelles, ove la Commissione svolgerà un’informativa. La norma sui Cpr - A margine delle nuove norme in materia di Cpr, centri per il rimpatrio, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha affermato che vi sarà trattenuto chiunque arrivi in Italia illegalmente. Non è proprio così. Il trattenimento è previsto per i cittadini stranieri in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione, dando priorità a chi sia considerato una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica o sia stato condannato, anche con sentenza non definitiva, per gravi reati, nonché a chi non abbia diritto a protezione e provenga da paesi con i quali ci siano accordi di rimpatrio. Inoltre, la legge di conversione del decreto Cutro ha esteso il trattenimento nei Cpr a chi fa domanda di asilo alla frontiera, se proviene da un paese di origine sicuro, nei limiti dei posti disponibili. Per giustificare l’ampliamento a 18 mesi del termine di trattenimento nei Cpr, Meloni ha detto che si tratta del limite massimo “consentito dalla normativa europea”. Si tratta di una forzatura. La direttiva sui rimpatri consente il trattenimento in un Cpr per un periodo massimo di 6 mesi, prorogabile fino a un massimo di 18 mesi solo in ipotesi particolari, quindi non sempre, come dice Meloni. Invece, quando risulta che non esiste “alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi (…) il trattenimento non e? più giustificato e la persona interessata e? immediatamente rilasciata”. In questo caso può rientrare, ad esempio, l’impossibilità di accordo di rimpatrio con i paesi d’origine, come accade in molti casi. Va poi citato il decreto del ministero dell’Interno sulla garanzia finanziaria che i richiedenti asilo possono versare per evitare di restare nei Cpr. La disposizione, che merita uno specifico approfondimento, appare in contrasto con la normativa europea, che ipotizza tale garanzia solo in casi particolari, previo esame individuale delle diverse situazioni, e non in maniera generalizzata e senza condizioni come fa invece il recente decreto. Distorcere norme europee per legittimare forzature giuridiche nazionali non dà buoni risultati. La sentenza della Corte Ue - Con una recente sentenza, la Corte di Giustizia dell’Ue ha bocciato i respingimenti dei migranti da parte delle autorità francesi ai confini interni. Per i giudici, quando migranti irregolari eludano la registrazione nello stato membro di primo ingresso, come previsto dal regolamento di Dublino, e attraversino il confine arrivando in un altro stato membro, è illegittimo rimandarli al di là delle frontiere appena attraversate in base a un controllo sommario. Dev’essere, invece, applicata la direttiva Ue sui rimpatri, esaminando la loro situazione e poi semmai dando loro “un certo termine per lasciare volontariamente il territorio. L’allontanamento forzato avviene solo in ultima istanza”. A seguito di questa sentenza gli stati di primo ingresso potrebbero essere indotti a perseverare nella pratica, già in uso, di non esercitare rigorosi controlli e lasciare che i migranti in entrata superino le frontiere per andare altrove. Il “varco” che già esiste, rischia così di ampliarsi, creando ulteriori tensioni in Europa. *Giurista Al confine tra Polonia e Bielorussia, dove i migranti vengono usati come armi di Sabato Angieri L’Espresso, 24 settembre 2023 La Russia e Minsk spingono migliaia di rifugiati verso la frontiera con l’Unione europea. E a decine muoiono nel tentativo di entrare. E il premier polacco Morawiecki ha blindato l’accesso agitando lo spettro della sostituzione etnica. Un uomo riverso, disteso nell’erba nei pressi di un torrente, coperto da strati di vestiti su tutto il corpo tranne che sulla pancia gonfia è il 45° morto accertato tra i migranti nella foresta di Bialowieza, al confine tra Bielorussia e Polonia. Seduta intorno al tavolo a mangiare zuppa di fagioli come gli altri, Karola osserva la foto dallo schermo di uno smartphone. Lo passa in silenzio e così lo vediamo tutti. Nel pomeriggio su Internet viene pubblicata la fotografia di un sentiero con vestiti e scarpe abbandonate ma senza corpi. “Non possiamo, non è giusto”, dice Karola mentre prepara lo zaino da portare nei boschi. A notte fonda quello stesso zaino, pieno di termos con altra zuppa e tè caldo, indumenti, sacchi a pelo e medicinali, sarà sulle spalle di chi si avventura nell’oscurità della foresta alla ricerca di uomini e donne in fuga disperata. Karola è soprannominata Kalashnikov, è abbastanza alta, ha i capelli rasati a zero, pantaloni larghi e braccia finissime sotto la maglietta lunga. Indossa perennemente un cappellino. Il suo look un po’ anarchico un po’ da bullo anni ‘90 è tradito dall’espressione troppo dolce e dalla mancanza totale di animosità. Parla molto lentamente con un tono di voce basso e soporifero difficile da seguire per chi non la conosce. Ma nel folto nero della foresta si trasforma in una pantera silenziosa. Cammina spedita evitando gli ostacoli e non controlla quasi mai la mappa nonostante la luna sia coperta e la notte sia nera come la pece. È in testa al gruppo, e per un secondo viene da chiedersi dove sia finita la ragazza flemmatica di prima. Non impone alcuna autorità eppure sei portato naturalmente a seguirla perché nei suoi gesti non si coglie il minimo dubbio. Con i migranti è attenta, si dà da fare in fretta: distribuisce cibo e bevande calde, cura le ferite lievi e raccoglie informazioni. A un certo punto si volta e mi guarda: “Puoi fumare ora se vuoi”, si ferma, “te lo dico perché anche io volevo” e ride. Durante il tragitto qualsiasi luce è pericolosa, si rischia di venire individuati dai droni di sorveglianza della polizia e di mettere a repentaglio i migranti che sono già in una situazione tremenda. Farshad, ad esempio, un ragazzone di 21 anni siriano, trema senza sosta. È caduto in un ruscello mentre scappava con il suo gruppo, ora ha tutti i vestiti bagnati e la temperatura di notte già sfiora lo zero. Non riesce ad allungare il braccio per prendere la zuppa e, quando la afferra, dal cucchiaio gli cadono in continuazione pezzi di legumi come se avesse il morbo di Parkinson. Mohammed, anche lui siriano, sta provando a passare per la quarta volta e giura che stavolta “qualsiasi cosa succeda” non si farà respingere. “Mi hanno detto che mi ammazzeranno se mi rivedono”, racconta riferendosi ai poliziotti bielorussi. Il più giovane, un ragazzino somalo di 16 anni è l’unico africano del gruppo. Ha degli ematomi sul volto e sulle tempie. “Chi te li ha fatti?”, chiediamo, il rischio che nei gruppi in fuga si creino dinamiche da branco e che il più giovane o chi appartiene a etnie diverse sia maltrattato è reale. Ma non sembra questo il caso. “Sono inciampato mentre scappavo, la polizia ci aveva avvistato”, risponde l’adolescente. In tutto sono 9 persone, tra cui un anziano, in mezzo a un intrico di rovi e alberi spezzati con i vestiti bagnati per aver passato il fiume, le caviglie gonfie, le ginocchia doloranti, i segni sulla schiena e i tagli di chi cammina ininterrottamente da 5 giorni, da 10 giorni, anche da settimane. Chiedo all’anziano se posso riprenderlo. “Perché?”, risponde in francese. “Per documentare”. Ci riflette. “Meglio di no, la polizia può farmi molto male se lo vede”. Suo figlio, che mi indica con un gesto della fronte, è il più irrequieto del gruppo, “si vede che non è mai stato respinto”, dirà ridendo uno degli attivisti il giorno dopo. “La polizia vi ha seguito?”, chiede, quasi ad alta voce. “Sssshh”, gli dicono in coro tutti. “Ah, ok”, dice lui. “Ma la polizia è vicina o no?”. Continua a ripetere “Ah, ok”, qualsiasi cosa gli diciamo. “Grazie…grazie…siete brave persone”, dice prima di salutarci, “ma la polizia? E il fiume lì è alto?”. Il giorno dopo vengo a sapere che i ragazzi sono stati visti di nuovo: dei 9 originari ne sono rimasti 4, padre e figlio separati, ma hanno preso il padre. Pochi minuti, richiudiamo gli zaini e partiamo dietro Karola che riprende a camminare svelta e silenziosa, non si ferma mai non accende la luce e non parla se non ce n’è assolutamente bisogno. Stando a ciò che raccontano i migranti, i trafficanti chiedono tra i 5 e gli 8 mila dollari per il biglietto d’aereo verso Minsk o Mosca e per il passaggio in macchina fino al confine bielorusso. Chi non li ha tutti va come può, anche a piedi. Una volta riusciti a passare la frontiera, c’è qualcuno chi li aspetta con un taxi o una macchina ad almeno 15 chilometri di distanza, che i migranti devono compiere nei boschi. Il rischio evidente è che non ci sia nessuno o che il conducente sia stato arrestato. Secondo alcuni, chi paga di più ha anche dei passaggi privilegiati in alcuni punti del muro. Circolano storie di checkpoint che spariscono magicamente per pochi minuti, di cancelli che si aprono all’improvviso o di guardie che prendono direttamente soldi. Ma sono storie non verificabili. Le guardie di frontiera non sono tutte cowboy con il culto della razza ariana. Ci sono anche agenti anziani che ogni tanto di nascosto distribuiscono acqua o permettono agli attivisti di far passare qualcosa, soprattutto quando ci sono anche donne e bambini, lo raccontano i migranti stessi. Ma sono casi rari, la maggior parte delle guardie si dividono in due categorie: le reclute e gli anziani. Questi ultimi sono quelli che hanno fatto della difesa dei confini la propria missione. Ragionarci è impossibile. Gli altri sono ragazzini freschi di arruolamento che per dimostrarsi all’altezza si comportano da intransigenti e si sforzano di trasmettere più disprezzo possibile da sopra gli scaldacollo verde scuro che coprono il volto fino agli occhi. Durante le ore del giorno il confine tra Polonia e Bielorussia appare come una zona tranquilla: una verde frontiera di boschi di pini stretti e alti, talmente fitti da impedire la vista a pochi metri. Paesini di campagna dall’aspetto anonimo, a tratti qualche piccolo agglomerato di casette di legno decorate (molte delle quali affittate ai turisti) e di nuovo macchie estese di verde che resiste rigoglioso anche al caldo estivo. In ogni fosso e avvallamento uno specchio d’acqua: torrenti, fiumi, paludi, polle e laghetti. Per questo fino al 2021 la regione di Bialowieza era una delle mete predilette di polacchi e nordeuropei che pianificavano qui le loro escursioni in bici a piedi o in canoa tra le centinaia di percorsi persi nei boschi. Da due anni, invece, è il luogo dal quale centinaia di migranti, soprattutto mediorientali, tentano di entrare nel territorio polacco per poi proseguire verso l’Europa occidentale. Fin da subito la Polonia ha accusato la Bielorussia di “mossa premeditata volta a destabilizzare il Paese” e ha provato a bloccare questo flusso umano con il filo spinato e le forze di polizia. “All’inizio era più sorvegliato, perché non c’era il muro”, ci spiega Mark, un attivista locale: “Il governo aveva fatto passare delle leggi d’emergenza che rendevano una striscia di territorio di circa 2 km a partire dalla frontiera una zona ad accesso limitato. Dentro quest’area, dove c’erano pattugliamenti costanti, hanno impedito l’accesso agli attivisti, ai giornalisti e a chiunque volesse andare sul posto a vedere cosa stava succedendo o a dare una mano”. Poi Putin ha invaso l’Ucraina e l’attenzione si è spostata altrove. Come Viktor Orban in Ungheria, anche Mateusz Morawiecki è riuscito a vincere le elezioni in Polonia evocando il rischio della “sostituzione etnica”. Nel luglio 2022 Morawiecki e gli alti funzionari del suo partito, Diritto e Giustizia, hanno inaugurato il “muro” che ora corre per tutti i 186 chilometri che separano la Polonia, e quindi l’Ue e la Nato, dalla Bielorussia, ormai feudo di Mosca. Una linea di grate d’acciaio alte fino a 6 metri che, per la propaganda del governo di Varsavia, avrebbero dovuto fare da argine alla guerra ibrida di Lukashenko. Morawiecki è riuscito anche a far passare il muro al confine con la Bielorussia come uno strumento necessario tanto da costringere quasi tutti i partiti ad adeguarsi. La stessa strategia comunicativa che il premier polacco sta adottando a Bruxelles. Così i migranti sono diventati “l’arma dei regimi di Putin e Lukashenko” e l’Ue, impegnata a sostenere l’Ucraina “fino al raggiungimento di una pace giusta”, si volta dall’altra parte per non vedere che all’interno dei propri confini la giustizia è quotidianamente vessata, impedendo a centinaia di persone (che pure secondo le leggi comunitarie ne avrebbero diritto) di chiedere asilo politico. In seguito alla provocazione dei mercenari della Wagner, che si ritraevano in marcia verso il confine, Varsavia ha deciso l’invio di ulteriori 10 mila soldati e di nuovi mezzi, rendendo questo confine uno dei più sorvegliati d’Europa e, forse, del mondo. Dall’altro lato, il presidente Lukashenko gioca diverse partite contemporaneamente. Si fa ritrarre sorridente alla cerimonia militare in cui ospita Vladimir Putin, ospita i reparti russi in addestramento e inaugura il nuovo campo base per i mercenari della Wagner, ma continua a dichiararsi “contrario all’intervento in Ucraina”, a meno che Kiev non lo obbligherà, si intende. Sui migranti, generalmente, tace. Ma è dal suo Paese che arrivano ed è la sua polizia che (per prima) li terrorizza. “Go west!”, andate verso Ovest, intimano. “E non azzardatevi a tornare indietro, altrimenti ve la faremo pagare” raccontano decine di ragazzi nel buio della foresta. Il problema è che anche se riescono ad arrivare a Ovest, nella Polonia democratica ed europea, la situazione non è molto migliore. Cina. Accademica uigura condannata all’ergastolo di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 24 settembre 2023 Una eminente accademica uigura sarebbe stata incarcerata a vita dalla Cina per “aver messo in pericolo la sicurezza dello Stato”. Lo scrive la Bbc, citando la Fondazione Dui Hua con sede negli Stati Uniti, secondo cui la condanna della docente universitaria, Rahile Dawut, 57 anni, è stata confermata dopo che lei aveva presentato ricorso contro una sentenza del 2018. La professoressa ha perso l’appello questo mese. La Cina è stata accusata di crimini contro l’umanità nei confronti della popolazione uigura e di altri gruppi etnici prevalentemente musulmani nello Xinjiang. Le associazioni per i diritti umani ritengono che negli ultimi anni la Cina abbia detenuto più di un milione di uiguri contro la loro volontà in una vasta rete di quelli che lo Stato chiama “campi di rieducazione”. E che ha condannato centinaia di migliaia di persone a pene detentive. “La condanna della professoressa Rahile Dawut è una tragedia crudele, una grande perdita per il popolo uiguro e per tutti coloro che tengono alla libertà accademica”, ha affermato John Kamm, direttore esecutivo della Fondazione Dui Hua, chiedendo il suo rilascio immediato. La figlia dell’accademica, Akeda Pulati, non riesce a darsi pace: “Il pensiero che mia madre innocente debba trascorrere la sua vita in prigione è un dolore insopportabile” dice. E lancia un appello alla Cina: “Mostra la tua misericordia e libera mia madre innocente”. Dawut era stata arrestata nel 2017 “divisionismo”, un crimine che metterebbe in pericolo la sicurezza dello Stato. L’accademica è un’esperta di folklore e tradizioni uiguri e prima del suo arresto insegnava al College of Humanities dell’Università dello Xinjiang. Ha fondato il Centro di ricerca sulle minoranze etniche presso l’università nel 2007 e ha condotto ricerche sul campo in tutto lo Xinjiang. Aveva tenuto conferenze in università negli Stati Uniti e nel Regno Unito, tra cui Harvard e Cambridge. La studiosa fa parte della “lunga e crescente lista di intellettuali uiguri” che sono stati detenuti, arrestati e incarcerati dal 2016. Gli Stati Uniti e molti altri Paesi accusano la Cina di genocidio nello Xinjiang. Amnesty e Human Rights Watch parlano di crimini contro l’umanità. Ma Pechino nega tutto. Il portavoce del ministero cinese degli Affari esteri, Mao Ning, venerdì ha detto di non avere “nessuna informazione” sul caso della signora Dawut, secondo quanto riporta l’Associated Press. Sono circa 12 milioni gli uiguri, per lo più musulmani, che vivono nello Xinjiang, ufficialmente conosciuto come Regione autonoma uigura dello Xinjiang (Xuar) e situato nel nord-ovest della Cina.