Nessun ragazzo è irrecuperabile: la detenzione è uno stigma, la giustizia riparativa aiuta di Carla Garlatti* Il Domani, 23 settembre 2023 L’obiettivo del sistema penale minorile deve rimanere quello di recuperare i ragazzi che sbagliano. Bisogna avere la capacità di vedere chi c’è dietro al reato e non fermarsi all’idea che il minorenne sia il reato che ha commesso. È certamente un bene che la politica si interessi dei minorenni. Tuttavia, è un peccato che si accorga di loro solo quando si presentano emergenze, come è avvenuto nel caso dei fatti che hanno portato all’adozione del “decreto Caivano”. Fatti che per la loro gravità e complessità richiedono una riflessione attenta, approfondita e non emotiva. Per questo, nei giorni che hanno preceduto il Consiglio dei ministri, anche a seguito di alcune indiscrezioni filtrate dalla stampa, ho ritenuto opportuno inviare una nota al Presidente Giorgia Meloni per indicare quelli che per me rappresentano alcuni punti fermi, assolutamente irrinunciabili, in tema di giustizia minorile. In sostanza ho voluto ricordare che, se da un lato è necessario punire chi sbaglia per fargli comprendere la gravità del fatto commesso e per evitare che ne commetta di altri, dall’altro vanno valorizzati, quali finalità principali del sistema penale, il recupero del minorenne e l’attenzione verso la vittima. In particolare, mi sono premurata di sottolineare che non ha alcuna utilità abbassare l’età imputabile da 14 a 12 anni - come proposto da alcuni - e che il nostro sistema penale minorile già possiede gli strumenti per intervenire nei casi più gravi. Il provvedimento adottato dal Consiglio dei ministri in tema di criminalità minorile presenta luci e ombre: non è infatti esclusivamente repressivo, ma contiene anche interventi educativi e di accompagnamento. Ritengo positivi soprattutto gli investimenti che vanno nella direzione di rendere la scuola più attrattiva e contrastare la dispersione scolastica, anche prevedendo di non concedere sussidi a chi non si preoccupa che i figli non vadano a scuola. È una misura che ho proposto da tempo e che finalmente è stata accolta. Effetti controproducenti - In proposito mi preme però osservare che prevedere la reclusione fino a due anni per i genitori che permettono ai figli di evadere l’obbligo scolastico può avere paradossalmente effetti controproducenti. In particolare, la misura rischia di interessare principalmente i nuclei familiari più fragili e con altre vicende penali alle spalle, aumentando marginalità sociale e stigmatizzazione, soprattutto nei casi in cui la pena debba essere applicata a entrambi i genitori. Dubito che in questo modo si possa favorire il rientro a scuola dei figli. È stata estesa la possibilità di ricorrere all’arresto, che fortunatamente resta facoltativo e che, è bene precisarlo, non significa “carcere”. Nel sistema minorile l’arresto consiste nell’accompagnamento di chi è sorpreso a commettere un reato presso gli uffici della polizia che lo esegue. Da quel momento si attiva un meccanismo che coinvolge il pubblico ministero, i genitori e i servizi sociali per i minorenni e solo in una fase successiva si deciderà se e come procedere. Trovo invece poco utile l’estensione della custodia cautelare in carcere, attraverso l’aumento del numero dei reati per i quali è ammessa e l’inserimento del pericolo di fuga fra le esigenze che la giustificano.Il carcere deve restare una misura residuale, soprattutto in fase cautelare quando ancora non esiste una condanna. Interventi educativi - I ragazzi hanno personalità in formazione e quando sbagliano devono innanzitutto poter essere recuperati attraverso interventi educativi. Va detto inoltre che la detenzione rappresenta uno stigma. Per questo dovrebbero essere valorizzati altri strumenti, da affiancare al procedimento penale: primo tra tutti quello della giustizia riparativa, che finalmente ha trovato il giusto spazio nel nostro ordinamento e che consente di far prendere coscienza a chi ha “inciampato” nella legge di aver provocato un danno a qualcuno e non a qualcosa. Inoltre, anche la vittima trova finalmente un riconoscimento della propria sofferenza. Ritengo importante, inoltre, aumentare e rafforzare le comunità ministeriali e terapeutiche. Gli aspetti positivi - Tra gli aspetti positivi del decreto Caivano c’è anche la previsione dell’anticipazione della messa alla prova alla fase delle indagini. Sul punto però mi preme sottolineare che nelle fasi successive di giudizio deve essere mantenuta la possibilità per i ragazzi di accedere a questo strumento, che già ha dimostrato di poter dare risultati positivi, anche in termini di recidiva. Può avere effetti positivi, se accompagnato da successivi interventi capaci di supportare e seguire il ragazzo, anche l’ammonimento da parte del questore a partire dai dodici anni, così come la responsabilizzazione dell’intero nucleo familiare. Dovranno però diventare effettivi e concreti anche gli interventi di supporto e presa in carico del minorenne e della sua famiglia. Sarebbe bene inoltre che, ove opportuno, si prevedesse per i ragazzi che vivono in ambienti permeati dalla criminalità l’allontanamento dal nucleo familiare, mettendo a frutto l’esperienza positiva del progetto “Liberi di scegliere” promosso dal Ministero della giustizia. Le mie proposte per il sistema penale minorile le ho presentato al Ministro Carlo Nordio a novembre 2022, in occasione della Giornata mondiale dell’infanzia. Le proposte sulle sanzioni penali - Si tratta di cinque punti. Il primo: introdurre sanzioni penali su misura per i minorenni, diverse da quelle degli adulti e parametrate alla gravità del fatto, come per esempio l’obbligo di svolgere servizi per la collettività. Il secondo, come già ho accennato sopra, dare priorità alla giustizia riparativa, anche prevedendo - e questo rappresenta il terzo punto - l’apertura di uno sportello a sostegno delle vittime in ogni tribunale per i minorenni. Infine, ho sollecitato la piena attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario minorile e un investimento significativo in termini di prevenzione, anche attraverso l’educazione alla legalità. Il messaggio di fondo che vorrei fosse colto è che l’obiettivo del sistema penale minorile deve rimanere quello di recuperare i ragazzi che sbagliano. Bisogna avere la capacità di vedere chi c’è dietro al reato e non fermarsi all’idea che il minorenne sia il reato che ha commesso. Nessun ragazzo è irrecuperabile. *Garante per l’infanzia e l’adolescenza La giustizia riparativa vuole un colpevole senza la “seccatura” di un avvocato di Oliverio Mazza Il Dubbio, 23 settembre 2023 L’intervento della Presidente della Camera Penale di Milano ha dato avvio al dibattito, da me auspicato, sulla giustizia riparativa. Il confronto, tuttavia, deve avere ad oggetto quella che è la disciplina di legge vigente e non quella che vorremmo che fosse. Un primo equivoco riguarda i principi generali e le finalità. L’art. 43 co. 2 d. lgs. 150 del 2022 non lascia dubbi sul fatto che i programmi di giustizia riparativa “tendono a promuovere il riconoscimento della vittima” e la “responsabilizzazione” dell’imputato. Nessun infingimento da parte del legislatore, la giustizia riparativa richiede ruoli definiti, vittima e colpevole, che sono ontologicamente incompatibili con la presunzione d’innocenza. Che sia un sistema vittimocentrico è confermato, senza possibilità di dubbio, dalle fonti europee (art. 12 Direttiva 2012/ 29/ UE “solo nell’interesse della vittima”). Al tavolo del mediatore l’imputato verrà “responsabilizzato” senza la presenza del difensore, considerato, quest’ultimo, un elemento di disturbo. Responsabilizzare l’imputato e riconoscere il ruolo della vittima significa ammettere i fatti e le responsabilità, ossia confessare davanti al mediatore, con atto di contrizione, senza alcuna garanzia difensiva. Del resto, il riconoscimento dei fatti del caso è richiesto, quale condizione inderogabile, dall’art. 12 Direttiva 2012/ 29/ UE e dall’art. 30 Raccomandazione 8(2018) Consiglio d’Europa. La giustizia riparativa non è una scelta volontaria compiuta al di fuori del processo, ma è stata impropriamente costruita alla stregua di un procedimento incidentale rispetto a quello di cognizione (art. 129-bis c. p. p.), dando così origine a un accertamento parallelo privo di qualsivoglia garanzia, a partire dall’inaccettabile esclusione del difensore. Non farei troppo affidamento, ad esempio, sulla riservatezza (si badi, non segretezza) in ordine a quanto avverrà al tavolo del mediatore, per di più in assenza di sanzioni. Chi potrà impedire alla persona offesa di testimoniare nel processo, riferendo quanto avvenuto nel corso degli incontri di mediazione? L’art. 50 comma 2 d. lgs. 150 del 2022 prevede a carico dei partecipati un obbligo di non divulgazione (sic!) delle informazioni che è certamente cedevole rispetto al diritto di autodifesa, anche della persona offesa, mentre l’inutilizzabilità riguarda solo gli atti della mediazione, non la testimonianza che verta su di essi. Norme vaghe, fondate su concetti impropri (divulgare è cosa ben diversa dal testimoniare in un processo), non costituiscono alcun argine rispetto all’inevitabile osmosi fra i procedimenti incidentali. Quanto al carattere etico, il dialogo riparativo (art. 53 lett. b d. lgs. 150 del 2022), radicato sul riconoscimento dei ruoli e delle responsabilità (confessione), mi ricorda molto da vicino la concezione medicinale della pena di carneluttiana memoria. Vogliamo rimettere la decisione della quesitone penale a un mediatore metà parroco e metà psicologo, secondo la definizione di Cavallone? È questo il futuro della giustizia penale consacrato anche nei protocolli? Bisogna intervenire al più presto con correttivi di legge che isolino il sistema della giustizia riparativa dal processo penale, rendendolo davvero volontario, separando nettamente la cognizione dalla mediazione e tenendo indenni le categorie penalistiche da concetti quali pentimento e riconciliazione. Oppure ci sono altre ragioni, non dichiarate, che richiedono l’istituzionalizzazione della giustizia riparativa quale surrogato della cognizione garantita dal giusto processo? Giro di vite sulle intercettazioni, trascrizioni limitate e faro sulle spese dei Pm di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2023 Stretta anche sulle intercettazioni cosiddette “a strascico”. Sono alcune delle modifiche al decreto omnibus approvate dalle Commissioni Giustizia e Affari Costituzionali della Camera. Nel verbale di trascrizione delle intercettazioni, che solitamente viene redatto dalla polizia giudiziaria, non potranno essere riportate quelle considerate ‘irrilevanti’ ai fini dell’indagine. Inoltre, le intercettazioni cosiddette ‘a strascico’ saranno limitate ai reati più gravi come mafia e terrorismo. Il Pm poi dovrà indicare per iscritto quanto ha speso per ogni intercettazione. A prevederlo sono le modifiche di FI e Azione al decreto omnibus (Dl 105/2023: Disposizioni urgenti in materia di processo penale, di processo civile, di contrasto agli incendi boschivi, di recupero dalle tossicodipendenze, di salute e di cultura, nonché in materia di personale della magistratura e della pubblica amministrazione) approvate dalle Commissioni Giustizia e Affari Costituzionali della Camera. Il M5s lancia l’allarme: si cancella di fatto la legge Spazzacorrotti di Conte. Il provvedimento è atteso in Aula alla Camera lunedì. Per il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto sulle intercettazioni si è “dato compimento al dettato costituzionale, che sancisce la necessità di mettere in equilibrio la presunzione di non colpevolezza e la tutela della riservatezza”. “Nessuno - ha proseguito Sisto - mette in dubbio la validità delle intercettazioni come metodo di ricerca della prova, ma Forza Italia vuole evitare che si trasformino in un elemento ingiustificatamente invasivo della riservatezza di ciascun cittadino”. In questo senso l’emendamento di Forza Italia che evita la pratica delle intercettazioni a strascico raccoglierebbe la “sensibilità di molti giuristi, ripristinando le regole dettate dalle Sezioni Unite della Cassazione “. “Con questa innovazione normativa - ha spiegato- vi è l’impossibilità che l’intercettazione che viene chiesta per un certo reato possa estendersi indiscriminatamente ad altri reati. Se emerge un altro reato, dunque, deve essere inoltrata una nuova richiesta specifica di intercettazioni. Poi vi è un altro dato, ancora più rilevante: la polizia giudiziaria non potrà innanzitutto trascrivere le intercettazioni irrilevanti ma dovrà inoltre trascrivere, oltre alle conversazioni utili all’accusa, anche quelle favorevoli per il soggetto indagato”. Al contrario secondo il M5S uno degli emendamenti approvati “toglierebbe i reati contro la Pa” dall’elenco di quelli per i quali erano consentite le cosiddette “intercettazioni a strascico”. “Cancellando di fatto - come osserva la deputata Valentina D’Orso - la legge Spazzacorrotti” voluta dal Governo Conte. Nessuna limitazione invece per l’uso dei Trojan, resta solo la previsione secondo la quale il Gip, prima di autorizzare gli ascolti e l’uso di sistemi di captazione come il Trojan, dovrà dare una “vera motivazione” senza limitarsi a firmare la richiesta del Pm. Sul punto, del resto, secondo il presidente dei deputati di FI Paolo Barelli, il Guardasigilli Carlo Nordio avrebbe assicurato che “a breve presenterà una riforma per l’utilizzo del Trojan”. Anche il deputato di Azione, Enrico Costa, ha presentato un emendamento destinato a far discutere. La norma di Costa, approvata in una versione riformulata, prevede che “nel foglio delle notizie” debba essere sempre “specificatamente annotato” da parte del Pm “l’importo delle spese relative alle intercettazioni”. Riguardo poi il divieto di trascrizione delle intercettazioni considerate “irrilevanti” ai fini delle indagini, il M5S ha affermato che in questo modo anche gli avvocati non avranno più “diritto a ottenere copia delle intercettazioni ritenute non rilevanti” con grave danno per i diritti della difesa. Mentre il Pd ha lamentato la retroattività della norma che di fatto ridefinisce i criteri di applicabilità delle disposizioni sulle intercettazioni e osserva come con questa misura il governo abbia “di fatto stabilito che tutte le intercettazioni disposte nei procedimenti in corso prima dell’entrata in vigore del decreto non siano più utilizzabili”. Stop alle intercettazioni a strascico, ma respinta l’abrogazione della retroattività di Angela Stella L’Unità, 23 settembre 2023 Stop a quelle a strascico: sì in commissione all’emendamento di FI. Respinta invece l’abrogazione della retroattività, ma è rischio incostituzionalità. Scontro Pd-Sisto. Alla fine, dopo la tempesta, è tornato un apparente e forse momentaneo sereno nella maggioranza. Dopo la giornata convulsa di mercoledì quando Governo, Lega e Fratelli d’Italia si sono opposti ad alcuni emendamenti troppo garantisti di Forza Italia presentati nelle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera al dl 105/2023 - quello che estende la disciplina dell’uso delle intercettazioni per reati di criminalità organizzata anche ad altri tipi di delitti, come il traffico illecito di rifiuti e sequestro di persona a scopo di estorsione - ieri la partita si è chiusa con Forza Italia che, nonostante tutto, si dice soddisfatta del risultato finale. In una nota il presidente dei deputati di Forza Italia, Paolo Barelli, assieme ai componenti azzurri delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali ha dichiarato: “Le nostre proposte votate sono in linea con il ‘giusto processo’. La prima mette la parola fine alle intercettazioni “a strascico”: il giudice dovrà d’ora in avanti motivare il ricorso alle intercettazioni telefoniche autonomamente e con argomenti concreti. La seconda prevede che la polizia giudiziaria, nel trascrivere le intercettazioni, dovrà limitarsi a quelle rilevanti per le indagini e dovrà riportare anche quelle a favore dell’indagato. La terza introduce il divieto di trascrivere conversazioni personali, che non abbiano alcuna attinenza col processo”. Gli azzurri sono stati invece costretti a soccombere in merito agli emendamenti che abrogavano la retroattività della norma e limitavano l’uso del trojan. Su quest’ultimo punto è stata loro offerta una via di uscita come ha spiegato sempre Barelli: “c’è una presa di posizione precisa del ministro Nordio di presentare, da qui a breve, una proposta che rielabora l’utilizzo delle intercettazioni e dei mezzi di captazione in modo adeguato. Noi su questo abbiamo aderito ed abbiamo accettato di espungere altri emendamenti per essere promotori di una riforma più complessa che il ministro Nordio ha dichiarato di presentare, a breve, in Parlamento”. Passato anche un emendamento di Enrico Costa di Azione per cui il pm dovrà indicare quanto spende per ogni intercettazione. Ma è da rilevare lo scontro tra il Pd e il sottosegretario alla giustizia Sisto. Il capogruppo dem in Commissione Giustizia della Camera Federico Gianassi aveva chiesto al governo di specificare se la retroattività della norma sulle intercettazioni (“La disposizione del comma 1 si applica anche nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto”) riguardava anche quelle assunte nei processi in corso o solo quelle che saranno assunte in futuro sempre nei procedimenti già iniziati. Sisto non risponde e si limita a dire di aver “già dato tutti i pareri necessari”. “È evidente a questo punto - ha osservato Gianassi - che lei è in difficoltà nel rispondere…”. Come riferito dalle agenzie, Sisto ha scosso la testa, ma quando il deputato del M5S Colucci lo ha accusato di essere “omertoso” il vice ministro della Giustizia ha ribattuto con forza: “E no, il termine omertoso non lo accetto. Ritiri subito questa frase”. Al di là degli screzi, la questione è fondamentale perché mette in gioco i diritti di indagati: la retroattività della norma è stata fortemente richiesta dalle procure antimafia per salvare i processi in corso i quali altrimenti sarebbero finiti in un nulla di fatto a causa, o grazie, alla sentenza della Cassazione a cui, come ha detto la premier, “si è rimediato” con questo dl, che avrebbe potuto mettere a rischio alcuni processi di mafia, lasciando impuniti delitti gravi di cui non emerge nettamente il collegamento con la criminalità organizzata. Diversi giuristi, anche magistrati, sostengono non solo che questa previsione è l’ennesima prova che il Governo non è garantista ma ipotizzano anche profili di incostituzionalità. Una risposta chiara del Governo sarebbe stata utile. “Intercettazioni: non vedo danni per i pm, siano loro a rispettare le leggi” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 settembre 2023 Intervista all’ex magistrato Luca Palamara: “Prevedo reazioni dell’Anm sull’obbligo di indicare i costi delle captazioni: ma rischia solo chi tende a usarle oltre il necessario” Sulle intercettazioni si è appena chiusa una partita tesissima... Quello che è accaduto in questa settimana è la dimostrazione plastica di come la sfera politica possa invadere quella tecnico-giuridica fino a rendere difficile un punto di compromesso. Da un lato c’è la volontà di non dare l’idea di abbassare la guardia contro terrorismo e mafia, dall’altro si vuol tenere fede ai principi del garantismo. Lei da che parte sta: con Forza Italia o con gli altri partiti di governo? Da osservatore mi ispiro a un principio garantista perché ritengo che debba essere tutelata la funzione dell’istituto, che non è certo quella di essere utilizzato come una gogna contro l’avversario politico. Si sta ponendo un falso problema: il vero nodo non riguarda le intercettazioni in sé, che devono essere assolutamente preservate, ma il rischio che possano essere utilizzate ad altri fini, soprattutto nei casi della cosiddetta pesca a strascico. E dal punto di vista tecnico come giudica le modifiche introdotte grazie a FI e Azione? Li reputo corretti e condivisibili: dal punto di vista tecnico giuridico consentono di non mettere in discussione ed evitano che possano essere utilizzate per eliminare nemici politici, grazie alla pubblicazione di circostanze del tutto estranee all’indagine. Quanto all’emendamento Costa, ritengo sia giusto responsabilizzare il pm anche dal punto di vista contabile. Non vedo una lesione dell’indipendenza e autonomia del pm perché prima di tutto deve esserci rispetto delle regole. La magistratura come reagirà? Dal 2016 a oggi sul tema delle trascrizioni e degli ascolti ci sono stati orientamenti oscillanti all’interno della stessa magistratura associata e del Consiglio superiore. Basta richiamare le circolari del Csm in cui era particolarmente avvertita la necessità di evitare che tramite la pubblicazione di materiale irrilevante potesse essere in qualche modo pregiudicata la sfera privata di soggetti estranei. Fu la linea di Orlando, il cui capo dell’Ufficio legislativo era l’attuale presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Con l’arrivo di Bonafede e di coloro i quali lo hanno indotto a ispirarsi a un orientamento giustizialista, tutto questo è stato buttato alle ortiche. L’auspicio è che il dibattito possa tornare a quello che a mio avviso era il corretto punto di partenza. Ma sul tema delle spese, penso che la magistratura ragionerà in termini corporativi: sarà contraria, in virtù del timore che venga compromessa l’autonomia del pm. Io invece credo che chi agisce correttamente non ha nulla da temere: il problema sarà di chi farà intercettazioni inutili. È stato fatto un decreto per “rimediare” a una sentenza della Cassazione ritenuta troppo garantista dalle Procure antimafia: lo trova condivisibile? Di per sé si tratta del chiaro segnale che sulla mafia il governo non intende abbassare la guardia e anzi vuol andare oltre i pronunciamenti della magistratura. Separazione delle carriere: alla fine si farà? Penso sia difficile fare previsioni. Servirebbe una grande determinazione da parte della classe politica. Al di là di quello che potrà essere un eventuale esito referendario, penso si stia diffondendo tra i cittadini la volontà di veder maggiormente garantito il diritto di difesa attraverso la terzietà del giudice rispetto alle parti. Questi sono aspetti che ormai si stanno facendo strada nella coscienza civile del paese. Come commenta la nomina di Gratteri a Napoli, anche alla luce di quello che ha detto in audizione? Ognuno su di lui può esprimere il giudizio che vuole. Posso dire che chiunque ha lavorato con Gratteri gli ha sempre riconosciuto di aver valorizzato un metodo di lavoro ispirato alla condivisione tra procuratore e sostituti. Per quanto mi riguarda, è notorio che Gratteri sia inviso a una parte della magistratura, soprattutto a quella benpensante che non si ritrova nei suoi metodi e nelle sue dichiarazioni, e che lo ha sempre osteggiato nel corso della carriera. Per Gratteri a Napoli ci sono pm depressi... Non posso entrare nel Gratteri-pensiero: posso dire che in generale c’è una fascia di pm che tende a burocratizzarsi. Comunque, non mi soffermerei molto sull’audizione di Gratteri, piuttosto mi preoccuperei di alcune recenti decisioni del Csm che paiono limitare l’autonomia del sostituto. A cosa si riferisce? In certi casi si è esaltato il potere del procuratore più che tutelare l’autonomia del singolo sostituto. Basta rileggere quanto ha dichiarato il togato di Area Maurizio Carbone in occasione della nomina di Gratteri. La riforma Cartabia del Csm sarà efficace? In genere si dice che ogni Csm sia migliore di quello che lo ha preceduto. Del mio porterò sempre dietro comunque le parole conclusive del presidente Mattarella, che esaltò l’impegno del Csm presieduto da Giovanni Legnini, autore di più di mille nomine. Poi sono accaduti i noti fatti, soprattutto le cene tra magistratura e politica. Se l’obiettivo era impedire le cene e il rimedio è quello di aumentare il numero dei componenti del Csm, possiamo dire che quell’obiettivo è miseramente fallito. Ben più coraggiosa sarebbe stato prevedere il sorteggio, tanto temuto dai miei colleghi anche quando ero presidente dell’Anm. Si è preferita una soluzione gattopardesca voluta anche dalla stessa magistratura associata. Che giudizio dà fino ad ora di Nordio? Penso si stia scontrando con la dura realtà della politica, soprattutto quando la politica è chiamata a fare riforme sgradite alla magistratura. Nulla di nuovo. Violenza sulle donne, il Consiglio d’Europa accusa l’Italia: “Troppe archiviazioni, poche misure cautelari” di Marco Bresolin La Stampa, 23 settembre 2023 La replica di Roccella: “Il nostro disegno di legge risponde al richiamo”. I dati italiani sui procedimenti giudiziari relativi alla violenza sulle donne vengono definiti “preoccupanti”. Perché c’è “una percentuale persistentemente elevata di procedimenti penali relativi a violenze domestiche e sessuali che vengono interrotti nella fase delle indagini preliminari” e dunque non sfociano in un processo. Non solo: nel nostro Paese c’è “un uso limitato delle ordinanze cautelari e un tasso significativo di violazione delle stesse”. A lanciare l’allarme è il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, l’organizzazione internazionale che rappresenta 46 Stati e che esamina l’attuazione delle sentenze della Corte europea per i diritti dell’uomo. Il comitato dei ministri ha inoltre “invitato le autorità italiane a proseguire gli sforzi per ampliare e diffondere ulteriormente la formazione mirata in materia” all’interno del suo sistema giudiziario riservando “una particolare attenzione alla specializzazione dei giudici preliminari”. Nello specifico, Strasburgo chiede di “avviare attività specifiche per promuovere l’uso di un linguaggio giudiziario sensibile alle differenze di genere”. Roma dovrà fornire informazioni su tutte le questioni sollevate “entro il 30 marzo del 2024”. Il sistema italiano è finito sotto la lente con tre accuse precise. La prima: “Mancato rispetto dell’obbligo positivo di valutare correttamente il rischio di vita nei casi di violenza domestica e di garantire una risposta tempestiva adeguata”. La seconda: “Sessismo nella percezione del fenomeno della violenza contro le donne, anche nelle decisioni giudiziarie, con conseguente vittimizzazione secondaria”. E infine: “Impunità per gli atti di violenza domestica, dovuta a una combinazione di passività giudiziaria e di modifiche al regime di prescrizione”. Il verdetto precisa che “le informazioni fornite dalle autorità non consentono una valutazione completa della situazione”. Oltre alle critiche, però, il Consiglio d’Europa riconosce anche i progressi che sono stati fatti negli ultimi anni in questa materia. Per esempio si “prende atto con soddisfazione delle misure adottate” e in particolare “delle modifiche al Codice di procedura civile, dell’adozione del terzo piano nazionale e del rinnovo del monitoraggio parlamentare del fenomeno”. Al tempo stesso si “sottolinea l’importanza di assicurare che l’impatto delle misure adottate garantisca una risposta rapida ed efficace delle forze dell’ordine e della magistratura”. Il Comitato ha inoltre “accolto con favore” l’adozione della legge 53 del 2022 “che ha istituito un sistema integrato di raccolta dati sulla violenza di genere, rispondendo così alla richiesta” di Strasburgo e ha “invitato le autorità a garantirne l’effettivo funzionamento e la portata”. “Il disegno di legge varato dal governo - ha replicato la ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella - interviene proprio su questi nodi in quanto potenzia le misure di prevenzione e cautelari e soprattutto, per la prima volta, fissa tempi rigorosi e stringenti per la loro applicazione e per la valutazione del rischio da parte della magistratura”. Il Comitato - che non ha nulla a che vedere con l’Unione europea - si è espresso sulla situazione generale in Italia, ma partendo dall’esame di tre casi specifici relativi ad altrettante donne che sono state vittime di violenza domestica e sessuale che poi non sono state adeguatamente protette oppure che sono state oggetto di vittimizzazione secondaria. La decisione resa nota ieri impone all’Italia di trasmettere a Strasburgo le informazioni relative ai processi in questione entro il 15 dicembre, chiede di “concludere rapidamente i procedimenti penali contro gli aggressori” e di effettuare “una valutazione delle autorità competenti sulla possibilità di avviare un’indagine sulle minacce di morte ricevute da una delle donne e sui maltrattamenti subiti dai suoi figli”. Inoltre esprime “preoccupazione per il pignoramento” di un risarcimento per danni morali a una delle vittime che era stato disposto dai giudici di Strasburgo, dopo che la donna aveva vinto la causa alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La madre di Carol Maltesi e il killer ammesso alla giustizia riparativa: “Ora ho paura” di Laura Tedesco Corriere della Sera, 23 settembre 2023 “Il sì dei giudici al reinserimento dell’assassino di mia figlia? Non è possibile, questa è un’ingiustizia. Adesso temo davvero che un giorno il mostro che ha massacrato e fatto a pezzi Carol possa tornare libero. Ora - esplode la rabbia di mamma Giuseppina Maltesi - ho realmente paura per me, per il mio nipotino che ha solo sette anni e anche per altre persone”. Fatta a pezzi a 26 anni congelandone i poveri resti per due mesi e gettandoli poi da un burrone nei sacchi dell’immondizia sperando che nessuno mai li trovasse: l’ammissione - primo caso in Italia - al “programma di giustizia riparativa” accordata dalla Corte d’Assise di Busto Arsizio a Davide Fontana, 44enne assassino reo confesso dell’attrice Carol Maltesi, “è un’altra pugnalata, l’ennesima ferita al cuore di una mamma la cui figlia è stata massacrata dall’omicida e poi uccisa di nuovo, prima evitando l’ergastolo al colpevole e adesso dando addirittura il via libera al suo reinserimento”. La rabbia della madre di Carol Maltesi - Si dice “sconcertato” il legale di parte civile Franco Ettore Zannini dopo il via libera alla giustizia riparativa per l’insospettabile bancario-foodblogger che l’11 gennaio 2022 si è macchiato del brutale femminicidio della vicina di casa che lo stava “abbandonando” per trasferirsi da Rescaldina (nel Legnanese) a Verona, dove il figlioletto di 7 anni di Carol tuttora abita con il papà Marco B., ex compagno della commessa uccisa da Fontana. L’avvocato Zannini assiste la signora Giuseppina, l’inconsolabile madre della vittima, ma le parole di quest’ultima, all’indomani della giustizia riparativa concessa a Fontana, sono ancora più pesanti. Anzi, pesantissime: “Quell’uomo che me l’ha ammazzata in quel modo è un mostro - insorge la mamma di Carol - un vero mostro. Dov’è la giustizia per me che sono la mamma della vittima e per il mio nipotino che ha sette anni e crescerà senza la madre? Dov’è la giustizia, dov’è?”. La giustizia riparativa per Davide Fontana: cosa succederà - In base alla riforma Cartabia che ha introdotto questo nuovo istituto, l’ammissione di Fontana al programma di giustizia riparativa non inciderà sulla vicenda penale e non è alternativa alla detenzione in carcere. Si tratta di un percorso che permetterà all’imputato di lavorare e seguire un percorso di aiuto psicologico per comprendere quanto fatto e “riparare” appunto davanti alla società e alle persone offese oppure i familiari, ad esempio incontrandoli: “Incontrare l’assassino? Io quel mostro non voglio vederlo mai più, mai più - dichiara Giuseppina Maltesi - Adesso mi sento davvero tradita dalla giustizia italiana... dopo tutto il male che mi ha fatto, non ci credo ancora”. Già duramente provata dalla Sla, la mamma dell’ex commessa italo olandese massacrata e fatta a pezzi l’11 gennaio 2021 da Fontana che in un’atroce messinscena ne ha poi tenuto nascosta la morte per quasi tre mesi, era “legatissima alla mia Carol”: era quest’ultima, infatti, ad accompagnarla spesso alle terapie. Il padre della vittima: “Schifato da questa decisione” - Il loro legame era estremamente profondo e la perdita della figlia in circostanze tanto efferate le ha “lacerato il cuore”, creando in lei “una ferita insanabile, uccidere la mia Carol, ucciderla in quel modo fingendo per settimane che fosse ancora viva mi ha destabilizzato tremendamente” sospira la signora Giuseppina. Anche Fabio Maltesi, papà di Carol, usa toni altrettanto veementi definendosi per voce della legale Manuela Scalia “non solo allibito dal sistema giudiziario italiano e sconvolto dalla concessione della giustizia riparativa all’assassino di Carol”, ma addirittura schifato”. Condannato a 30 anni, la sentenza che già creò polemiche - La furia dei genitori della 26enne era già deflagrata per il mancato ergastolo (“solo 30 anni a quel mostro? Scandaloso” protestò papà Fabio) e per le motivazioni della condanna di primo grado (“definire mia figlia “disinibita” è stato come processare lei al posto del killer” insorse mamma Giuseppina), ma adesso per l’avvocato Zannini “ammettere l’assassino alla giustizia riparativa è perfino inspiegabile, al pari di tante altre decisioni da quando è iniziata questa dolorosa vicenda processuale. Ad esempio - osserva l’avvcato della madre di Carol - com’è possibile che all’imputato non siano stati sequestrati i beni come chiedevano dalle parti civili? Per non parlare dei risarcimenti, pari a un quinto di quanto mediamente viene stabiliti a favore dei parenti delle vittime di incidenti stradali. Evidentemente, ci sono imputati di serie A e di serie B”. L’ultima follia forcaiola: il reato di uccisione di orso marsicano di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 settembre 2023 La proposta di Pagano (FI): fino a due anni di reclusione per chi cattura o uccide esemplari di orso marsicano. Il populismo penale è ormai fuori controllo. Sono 161 le specie di animali a rischio estinzione in Italia: la politica vuole introdurre 161 reati autonomi? Un nuovo reato per punire con l’arresto da sei mesi a due anni di reclusione chi cattura o uccide esemplari di orso marsicano. È quanto previsto da un emendamento approvato giovedì sera dalle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera e inserito nel decreto Omnibus che contiene anche norme sulla giustizia. “Un emendamento che ho deciso di presentare anche alla luce della recente morte dell’orsa Amarena, uccisa a fucilate a San Benedetto dei Marsi, in Abruzzo”, ha dichiarato il deputato di Forza Italia Nazario Pagano, coordinatore del partito in Abruzzo e primo firmatario della proposta, rivendicando con orgoglio il suo intervento. Il riferimento all’abbattimento dell’orsa Amarena, avvenuto dieci giorni fa, dimostra quanto l’impazzimento da populismo penale ormai sia fuori controllo. La politica sembra voler affrontare ogni fatto di cronaca con l’inasprimento delle pene o l’introduzione di nuovi reati. Un tic dagli effetti paradossali: secondo l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) sono infatti 161 le specie di animali a rischio estinzione in Italia. Dall’orso bruno al grifone, passando per la trota mediterranea. Se si seguisse a pieno la logica panpenalistica, nell’ordinamento penale bisognerebbe introdurre 161 reati autonomi a tutela di queste specie. Una follia, la cui realizzazione però non è da escludersi. I partiti, di centrodestra come di centrosinistra, sembrano ormai soltanto in grado di formulare proposte punitive in base ai fatti di cronaca. Così quello del governo Meloni rischia di essere ricordato come il periodo più forcaiolo della storia italiana (persino peggiore di quello dei governi a guida grillina). Un breve riepilogo dei fatti principali. A Modena si svolge per giorni un rave party con centinaia di partecipanti da tutta Europa: il governo approva un decreto contro i rave party che prevede l’introduzione di un reato autonomo e pene più severe per chi organizza raduni musicali illegali. Un barcone pieno di migranti naufraga davanti alle coste crotonesi, portando alla morte di 94 persone: il governo adotta il “decreto Cutro”, con l’introduzione di un reato autonomo contro gli scafisti, con pene fino a trent’anni di reclusione, e l’inasprimento generale dei reati connessi all’immigrazione clandestina. Una donna incinta di 29 anni, Giulia Tramontano, viene uccisa dal suo ex compagno: il governo formula un disegno di legge che inasprisce per l’ennesima volta le pene per contrastare il fenomeno dei femminicidi. Giovani attivisti per il clima imbrattano edifici pubblici e opere d’arte a Firenze e in altre città d’Italia: viene presentato un disegno di legge che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni chi deturpa o imbratta edifici pubblici o di culto ed edifici sottoposti a tutela come beni culturali. A Casal Palocco (Roma) uno youtuber travolge con il suo suv un’altra auto uccidendo un bambino di cinque anni: viene avanzata una proposta di legge che prevede il carcere fino a cinque anni per chi esalta condotte illegali sul web. Due ragazze minorenni di Caivano (Napoli) vengono stuprate per mesi da un gruppo di adolescenti: il governo adotta un decreto che inasprisce le sanzioni contro la criminalità giovanile e prevede il carcere fino a due anni per i genitori che non mandano i figli a scuola. La Lega rilancia la proposta di castrazione chimica per gli stupratori. Dopo l’intervento del governo un gruppo di sconosciuti in motocicletta percorre le strade del Parco Verde di Caivano sparando in aria all’impazzata: Fulvio Martusciello, coordinatore regionale di Forza Italia in Campania, propone l’introduzione del reato di “stesa”. Quando non si muove la maggioranza, ci pensa l’opposizione. A Brandizzo, sulla linea ferroviaria che collega Torino e Milano, cinque operai vengono travolti e uccisi da un treno mentre lavorano sui binari: il Partito democratico propone l’introduzione del reato di omicidio sul lavoro, con pene fino a diciotto anni di carcere. Ora siamo arrivati al reato di uccisione di orso marsicano. Quale sarà il prossimo? Messina Denaro in coma irreversibile: l’alimentazione verrà sospesa, ha chiesto di non subire accanimento terapeutico di Salvo Palazzolo La Repubblica, 23 settembre 2023 Il superboss di Cosa nostra è ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale a L’Aquila. Secondo i medici, l’agonia durerà ancora poche ore. Tanti i segreti che l’ultimo padrino delle stragi non ha rivelato. Il giorno in cui i carabinieri del Ros l’arrestarono, il 16 gennaio scorso, disse al procuratore Maurizio de Lucia: “Con voi parlo, ma non collaborerò mai”. Il boss Matteo Messina Denaro è rimasto sempre un irriducibile. Anche nei giorni più terribili del tumore che l’affliggeva, da agosto era ricoverato nell’ospedale dell’Aquila, fra imponenti misure di sicurezza. Da ieri sera alle 20.30, con la figlia Lorenza al capezzale, il silenzio del padrino è diventato irreversibile, come il suo coma. Gli sarà sospesa l’alimentazione, il boss ha chiesto di non subire accanimento terapeutico. Così, la malattia ha sopraffatto l’ultimo padrino delle stragi che era riuscito a restare in latitanza per trent’anni, nonostante dovesse scontare ergastoli per le stragi Falcone, Borsellino, per le bombe di Firenze, Milano e Roma. Era stato condannato anche per il rapimento e l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del collaboratore che svelò i segreti della strage di Capaci. E poi per l’omicidio dell’agente della polizia penitenziaria Giuseppe Montalto. Matteo Messina Denaro non ha mai smesso di custodire davvero tanti segreti sulla lunga stagione di morte e complicità della Cosa nostra corleonese. Nonostante la malattia lo avesse costretto a cambiare i piani della sua latitanza dorata. Ecco come la raccontava lui, sfidando i magistrati che erano andati a interrogarlo un mese dopo l’arresto: “Io, durante la latitanza, non ho mai avuto rapporti con appartenenti alle istituzioni, completamente”. Per allontanare ancora una volta l’idea che abbia beneficiato di complicità scomodò pure un antico proverbio: “Quando scoprii questo tumore e quindi mi restava poco da… però volevo andarmi a curare, dissi: “Vediamo”. E mi sono messo a pensare, ho seguito un vecchio adagio, un proverbio ebraico che dice: “Se vuoi nascondere un albero, piantalo nella foresta”. E l’ho seguito per davvero. Anche perché dicevo: “Ora che ho la malattia, non posso stare più fuori e debbo ritornare”. Qua mi gestivo meglio, nel mio ambiente”. Così, dopo tanti viaggi, in Italia, e probabilmente anche in Europa, e forse pure più lontano, Messina Denaro aveva deciso di tornare nella sua Sicilia, nel 2020 appunto. Abbassando tutte le sue precauzioni. A Campobello di Mazara andava pure al ristorante o a giocare al videopoker. Proprio la malattia è stata il suo punto debole: all’inizio di dicembre dell’anno scorso, i carabinieri del Ros hanno trovato nella casa della sorella un pizzino che conteneva il diario clinico di un malato di tumore, fra interventi e ricoveri. Una veloce indagine al ministero della Salute ha stretto il cerchio su un anonimo geometra di Campobello, Andrea Bonafede, che la mattina del 16 gennaio doveva fare una seduta di chemioterapia nella clinica La Maddalena. Ma si è presentato Messina Denaro e così è finita la latitanza dell’ultimo boss delle stragi. Ora che il suo silenzio è diventato irreversibile, bisognerà continuare a cercare i suoi segreti. Per fermare la riorganizzazione della mafia siciliana. Negli ultimi tempi, l’unico momento di cedimento l’ha avuto davanti alla figlia Lorenza, che non aveva mai visto. In lacrime, l’ha riconosciuta formalmente, dandole il suo cognome. Ma è rimasto un irriducibile il padrino che era il pupillo del capo dei capi, Totò Riina. E non ha mai smesso di lanciare le sue sfide: “Certo che ho dei beni, ma mica vengo a dirlo a voi”, ha detto ai magistrati di Palermo qualche mese fa. E ancora: “Io non faccio parte di niente, io sono me stesso - ha messo a verbale. Mi definisco un criminale onesto”. Nel suo primo interrogatorio, un mese dopo l’arresto, Messina Denaro parlò da capomafia ancora in carica. “Io non sono uomo d’onore - un’altra sfida - mi ci sento”. Negò, per poi rilanciare. “Io non sono un santo - è stata l’unica ammissione - però non c’entro niente con la storia del bambino Di Matteo”, tenne a precisare. Messina Denaro e i suoi segreti. In questi mesi, i pm di Palermo gli hanno chiesto del suo computer e dell’archivio. “Se lo avessi non lo direi, non è nella mia mentalità”, ha risposto senza tentennamenti. Un’altra sfida. Il pentito Antonino Giuffrè ha raccontato che fu consegnato proprio a Messina Denaro l’archivio di Riina. Ma non c’era nell’abitazione di Campobello dove abitava l’ultimo latitante di Cosa nostra. Fra i mille biglietti sequestrati non c’erano neanche i pizzini sugli affari. Nel covo, sono state trovate invece tante chiavi, e da queste è ricominciata l’indagine su Messina Denaro e i suoi segreti. Quelle chiavi aprono forse altri covi, o cassette di sicurezza. Chissà. Da Palermo a Catania, lo strano trasferimento del detenuto attivista di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 settembre 2023 Aveva raccolto firme per il ripristino delle telefonate al carcere Pagliarelli, ma i motivi del suo spostamento in un altro istituto siciliano sono segreti. Accade che il detenuto Ludovico Collo, commercialista palermitano, subisce un trasferimento dal carcere Pagliarelli al carcere di Caltanissetta. Questo repentino spostamento ha scatenato un’ondata di interrogativi da parte del suo avvocato difensore marsalese Vito Daniele Cimiotta, componente dell’osservatorio informazione giuridica delle Camere Penali. Ma quale potrebbe essere il motivo dietro a questa misteriosa decisione? Non è dato sapere, perché - come ha risposto la direzione carceraria all’avvocato che ha chiesto delucidazioni - gli atti interni amministrativi non sono estensibili. Collo, durante il suo periodo di detenzione al Pagliarelli, è diventato noto per il suo impegno nel migliorare la vita dei suoi compagni di detenzione. Tra le sue iniziative più significative, spicca la raccolta di ben 793 firme di detenuti in favore del ripristino delle telefonate giornaliere verso familiari ed avvocati. Questa petizione è stata poi inoltrata alle autorità competenti dal suo avvocato. Inoltre, Collo ha segnalato una presunta violazione del diritto di difesa, in quanto al carcere era stata richiesta la specifica motivazione di ogni chiamata agli avvocati. L’ultima iniziativa di Collo ha fatto scalpore a livello nazionale, tanto da spingere Rita Bernardini, membro dell’associazione “Nessuno Tocchi Caino”, a sollecitare un’interrogazione parlamentare che si è tenuta lo scorso mese di luglio. In aggiunta al suo attivismo, Collo aveva richiesto di avere accesso a una cella studio, considerando la sua iscrizione a giurisprudenza. Il trasferimento di Collo sarebbe avvenuto senza un valido motivo apparente, e sia l’avvocato che i familiari non possono avere spiegazioni ufficiali in merito. Collo stesso ha inviato una lettera ai suoi cari, esprimendo la sua curiosità riguardo ai motivi di questa decisione. La lettera recitava testualmente: “Sono curioso di conoscere i motivi del provvedimento”. L’avvocato Cimiotta, alla ricerca di risposte, ha inviato una richiesta formale tramite posta elettronica certificata alla direzione del Pagliarelli. Tuttavia, la risposta ricevuta è che, in base a un decreto ministeriale del 2016, non possono rendere estensibili gli atti interni. La mancanza di chiarezza su questa situazione ha sollevato domande sul motivo reale del trasferimento. Alcuni suggeriscono che potrebbe essere stato causato dal suo attivismo carcerario, che ha portato alla luce questioni importanti all’interno del sistema carcerario italiano. Tuttavia, il mistero rimarrà irrisolto. Il trasferimento di Ludovico Collo dal Pagliarelli a Caltanissetta rimane avvolto nell’incertezza e nella speculazione. Di certo non sarebbe la prima volta. Accade spesso nelle nostre patrie galere che per ristabilire “l’ordine”, si attuano i trasferimenti dei detenuti. Una pratica che trova giustificazione fino ad un certo punto. Soprattutto se il detenuto trasferito non risulta essere pericoloso o violento. Torino. Cade l’accusa di tortura, furono “abusi” quelli sui detenuti nel carcere di Sarah Martinenghi La Repubblica, 23 settembre 2023 In rito abbreviato l’ex direttore Minervini condannato a 360 euro di multa, assolto il comandante della penitenziaria Alberotanza, condanna a 9 mesi per l’agente Apostolico. È stato condannato a pagare una multa di 360 euro l’ex direttore del carcere Lorusso e Cutugno Domenico Minervini: il giudice non ha riconosciuto il reato di favoreggiamento per le presunte torture commesse nel penitenziario di Torino ma lo ha riqualificato in “omessa denuncia”. È stato assolto da due accuse, sempre di favoreggiamento, l’ex capo della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza, mentre è stato condannato a 9 mesi Alessandro Apostolico, uno degli agenti protagonisti delle aggressioni ai detenuti: nel suo caso il reato è stato riqualificato in “abuso di potere”, mentre è stato assolto per un secondo capo d’imputazione. Si conclude così il processo con rito abbreviato per le botte in carcere che secondo il pm Francesco Pelosi sarebbero state inflitte ai detenuti. Per la giudice dell’udienza preliminare Ersilia Palmieri, Minervini avrebbe quindi dovuto denunciare gli episodi di violenza che gli sarebbero stati segnalati. Riqualificando il reato in abuso di potere (per l’agente di polizia penitenziaria Apostolico che è difeso da Alberto Pantosti Bruni), la Gup ha ritenuto comunque che non siano state commesse torture. I fatti contestati risalgono al periodo tra l’aprile 2017 e il mese di ottobre del 2019 e si sarebbero verificati nel settore C del carcere dove alcuni detenuti avrebbero subito “trattamenti degradanti” e “brutali vessazioni” da parte di una “squadretta” di agenti. Comincerà il 20 ottobre il processo con rito ordinario per loro: 21 gli imputati accusati di aver usato violenza su 12 detenuti. L’abbreviato trattava invece il clima di “omertà” che per l’accusa ci sarebbe stata ai livelli più alti del carcere: in particolare, a Minervini (assistito dall’avvocata Michela Malerba) e Alberotanza (difeso dall’avvocato Antonio Genovese e da Claudio Strata) era contestato di aver ignorato le segnalazioni in cui si denunciava le violenze, tra cui quella del garante dei detenuti Monica Gallo. In entrambi i procedimenti si sono costituiti parte civile i garanti dei detenuti (torinese, regionale e nazionali), e l’associazione Antigone si sono costituiti parte civile. Varese. Una sola telefonata a casa alla settimana per i detenuti dei Miogni di Andrea Camurani varesenews.it, 23 settembre 2023 La denuncia di una lettrice che si fa portavoce di altre otto parenti di reclusi. “È troppo poco”. La direttrice: “Finita l’emergenza Covid, applichiamo il regolamento”. “Vorrei portare la testimonianza di 8 donne (con me 9) e di tante famiglie che come me presenziano ai colloqui in carcere, per quanto riguarda le chiamate che i detenuti possono fare ai parenti”. Comincia così il breve racconto di una lettrice che tratta della situazione vissuta da alcuni dei detenuti dei Miogni di Varese. “Dal primo di settembre”, spiega, “il carcere ha ridotto le telefonate dei detenuti ai parenti, da 5 che erano a dicembre, a due a luglio e poi soltanto ad 1 alla settimana. La situazione è davvero drammatica, dal momento che i detenuti hanno come unico appiglio le proprie famiglie”. La questione a detta della scrivente è già stata sollevata nel corso dei colloqui settimanali che si tengono mercoledì: “Vorremmo che queste chiamate venissero portate almeno a 3 come sono nelle carceri delle vicine province”. Il carcere dei Miogni vive da anni di una carenza strutturale, mura vecchie, in passato già al centro anche di evasioni andate a buon fine e di tentativi e, come per molte altre carceri italiane, soffre di sovraffollamento e di carenza di personale: i posti regolamentari per le carceri del capoluogo sono 53 a fronte di una popolazione carceraria di 99 persone; è prevista la presenza di 67 agenti di polizia penitenziaria a fronte dei 55 in forza attualmente (dati: sito ministero della Giustizia). Una situazione difficile che i responsabili della struttura cercano di attenuare anche con progetti legati all’incontro periodico dei detenuti coi figli in una apposita aerea gioco ricavata in uno spazio al pianterreno dove avvengono i colloqui. Tuttavia la questione delle telefonate rappresenta un punto importante sul quale viene chiesta attenzione da parte dei vertici della struttura. La direttrice della casa circondariale di Varese, la dottoressa Carla Santandrea sostiene che i Miogni “sono tornati ad un regime ordinario, essendo chiuso stato emergenza Covid. Sono comunque garantite telefonate straordinarie e colloqui per i detenuti con figli minori. Sono autorizzate telefonate straordinarie per motivi eccezionali come prevede la norma. Sono confermati i colloqui whatsapp e Skype introdotti dalla pandemia. Siamo ritornati al regime ordinario previsto dall’ordinamento come da disposizioni superiori. Se ne arriveranno di nuove, le applicheremo”. Inoltre “il ritorno al regime ordinario è stato graduale, e i detenuti sono stati informati”. Ma come avvengono i contatti telefonici fra detenuti e il mondo esterno? I colloqui telefonici con i detenuti sono regolati dall’art.18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 e dall’39 del d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230. Le persone detenute possono essere autorizzate a telefonare a congiunti e conviventi e, quando ricorrano ragionevoli e verificati motivi, con persone diverse. Le autorizzazioni per gli imputati le autorizzazioni alla corrispondenza telefonica sono di competenza dell’Autorità Giudiziaria procedente. Dopo la sentenza di primo grado, è competente il magistrato di sorveglianza. I condannati possono essere autorizzati dal direttore dell’istituto. Attualmente, nel sito del Ministero compare anche la prescrizione sul numero di telefonate: “I detenuti possono usufruire di un colloquio telefonico alla settimana, della durata massima di dieci minuti. I detenuti per i reati previsti dal primo periodo del primo comma dell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario (che riguarda il “Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti”) possono usufruire di due colloqui telefonici al mese. Può essere concesso un numero maggiore di colloqui telefonici in occasione del rientro dal permesso, oppure in considerazione di motivi di urgenza o di particolare rilevanza, se la corrispondenza telefonica si volge con prole di età inferiore a dieci anni, nonché in caso di trasferimento del detenuto”. Venezia. Detenuti al lavoro negli hotel, a breve le prime assunzioni di Maria Ducoli La Nuova Venezia, 23 settembre 2023 Incominciati i colloqui con i giovani da inserire nelle strutture alberghiere dell’Ava. Il vicepresidente Minotto: “Una buona opportunità per ricollocarsi nella società”. Inizieranno a lavorare la prossima settimana, negli alberghi del centro storico, i primi ragazzi in carico ai servizi sociali che hanno deciso di aderire al progetto di inserimento lavorativo delle case circondariali e dell’Associazione Veneziana degli Albergatori. “Un investimento importante”, commenta Daniele Minotto, vice direttore di Ava, “perché permette loro di responsabilizzarsi e soprattutto di estinguere quello che può essere stato un errore fatto da giovanissimi”. Minotto sottolinea come il percorso di formazione e inserimento permetterà di evitare la fase processuale, così facendo “potranno quindi entrare nel mondo del lavoro puliti, senza macchie”. Il progetto coinvolgerà anche i detenuti e le detenute delle carceri veneziani e quelli del carcere minorile di Trieste. Sono in corso in questi giorni i colloqui e le valutazioni da parte delle direzioni con gli aspiranti dipendenti delle strutture ricettive. I detenuti che potranno essere ammessi a un beneficio di legge - la Smuraglia, che dà la possibilità alle imprese di fruire di sgravi fiscali assumendo persone in condizione di restrizione di libertà - avranno così l’opportunità di trascorre una parte della giornata all’esterno per svolgere un’attività lavorativa altamente professionalizzante, nell’ottica di avviarsi verso una professione nel momento in cui torneranno liberi. “Non sappiamo ancora quanti saranno”, continua Minotto, “dipenderà da una parte dalle adesioni, ma anche dall’esigenza degli alberghi”, spiega, sottolineando come non si tratti di un percorso costruito attorno alla persona ma di un inserimento lavorativo a tutti gli effetti. Si tratta, però, di due facce della stessa medaglia perché, in base alle adesioni dei detenuti, Ava deciderà quanti alberghi coinvolgere. Per arrivare allo scopo ultimo, però, sarà necessario passare per un periodo di formazione ad hoc che, secondo le stime di Ava, di tre settimane. “Verranno fatti dei corsi di cucina e sala, ma anche legati alle mansioni da svolgere ai piani, nel caso delle cameriere”. Se in carcere una porta blindata costituisce la linea di confine tra dentro e fuori, mondi diversi e spesso in contrapposizione, il lavoro può diventare un ponte per i detenuti. E i progetti di inserimento lavorativo sono tanti anche all’interno delle case circondariali. Per questo, è stato presentato ieri nel carcere della Giudecca, con la presenza del senatore Andrea Ostellari, sottosegretario alla giustizia, il podcast “Liberi di lavorare”, del Tgr Veneto della Rai - a cura di Federica Riva e Paolo Colombatti, con la collaborazione tecnica di Andrea Diprizio - che permette di intraprendere un viaggio nelle carceri di Venezia, Verona, Vicenza e Belluno, per capire come funziona il lavoro dei detenuti e quali siano i progetti imprenditoriali nati “dentro”. Per ascoltare la voce di chi ha scontato la propria pena e, grazie al lavoro, ha trovato un posto all’interno della società, lasciando i margini. Catanzaro. I penalisti e la questione carceraria: focus sulla rieducazione dei detenuti di Alessandro Tarantino Gazzetta del Sud, 23 settembre 2023 La Camera penale “Cantafora” in visita alla Casa circondariale del capoluogo. La Camera penale “Alfredo Cantafora” di Catanzaro è tornata, per la seconda volta in poche settimane, a visitare il carcere del capoluogo di regione. I penalisti del Foro catanzarese, guidati dal presidente della Camera penale, Francesco Iacopino, lo hanno fatto, questa volta, assieme ai rappresentanti dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”. L’iniziativa s’inquadra nel più ampio ambito delle attività poste in essere dai penalisti per accendere i riflettori sui temi della giustizia, del valore rieducativo della pena, della difesa dei diritti dei detenuti, della difesa della presunzione d’innocenza quale valore costituzionalmente riconosciuto e socialmente imprescindibile: “Credo che la questione carceraria vada posta al centro delle iniziative politiche, giudiziarie e forensi - ha spiegato il presidente Iacopino. Abbiamo un carcere con diverse tipologie di utenza, ognuna con i propri problemi. Però, la popolazione carceraria che abita la media sicurezza, i cosiddetti detenuti “comuni” e le ali psichiatriche ci dimostrano che oggi il carcere è diventato un centro di raccolta differenziata degli “scarti sociali”. Dico allora che non possiamo relegare al carcere la capacità di gestire le disuguaglianze sociali e le periferie esistenziali. Questo è un problema serio che va posto al centro del dibattito, bisogna evitare che le logiche del “buttare via la chiave” possano essere la risposta alla domanda di sicurezza sociale: non può essere questa la ricetta, ma bisogna farsi politicamente carico dei problemi e delle disuguaglianze”. Bologna. Così la start up della solidarietà fa dialogare il carcere e la città di Ignazio De Francesco Avvenire, 23 settembre 2023 Nato nell’aprile 2020 il progetto Liberi dentro-Eduradio&tv grazie alle frequenze radio e tv fa entrare ogni giorno il mondo fuori nel carcere del quartiere bolognese del Navile. Un grande evento. Comunicare con la “psiche profonda collettiva”: è questa l’intuizione che ha dato vita a Liberi Dentro-Eduradio&Tv, un servizio quotidiano di dialogo tra carcere e città nato tre anni fa, in piena emergenza Covid. Avviata da un manipolo di volontari e insegnanti carcerari, questa start up della solidarietà unica nel suo genere in Italia sarà protagonista di un grande evento pubblico in programma a Bologna martedì 26 settembre nella sede del quartiere Navile. Associazioni ed enti territoriali, scuole di formazione e compagnie teatrali, artisti del carcere, persino una rappresentanza del coro del carcere milanese di san Vittore. Il Navile ospita nel suo territorio la casa circondariale Rocco D’Amato, “settimo quartiere” della città con i suoi circa mille abitanti (un centinaio le donne). Un quartiere molto particolare, poiché in esso si incrociano drammaticamente i nodi irrisolti della nostra collettività: ad esempio, nella folla dei detenuti per traffico di stupefacenti si legge il bisogno dei giovanissimi (e non) di sostanze proibite per reggere il peso della vita; nella sezione dei sex-offenders, le ferite non sanate delle nostre identità di genere; oltre il cancello dell’Alta Sicurezza ci s’immerge nella dimensione oscura dello “stato nello stato”, il progetto mafioso alternativo alla cittadinanza bella descritta nella Costituzione. È con questo pezzo di psiche profonda, rappresentanza delle circa sessantamila persone detenute in Italia (un terzo delle quali stranieri), che ha iniziato a dialogare Eduradio&Tv, nel momento in cui tutte le attività rieducative venivano paralizzate dall’emergenza pandemica. L’idea è stata quella di scavalcare gli alti muri con le frequenze radio e Tv (Fujiko, Teletricolore, Lepida, Icaro), per portare voci e volti di volontari, educatori, assistenti spirituali, direttamente nelle celle dove i ristretti passano le loro giornate. Un servizio quotidiano, week-end incluso, che raggiunge tutte le case circondariali dell’Emilia-Romagna. Oltre 1.200 puntate messe in onda da aprile 2020 ad oggi, per parlare di salute e benessere in cella, ginnastica inclusa; di cucina al fornelletto e di cura estetica del corpo; di formazione scolastica e professionale, di giustizia e consulenza giuridica, di teatro e di musica. Decine le associazioni coinvolte, in uno sforzo di fare ponte tra città e carcere. Ma anche all’inverso, dal carcere alla città, considerando le persone detenute nella loro identità ben più ampia di persone, quindi soggetti capaci di produrre cultura, attraverso le loro lettere o le registrazioni effettuate durante tante attività entro le mura. Un ruolo fondante è stato quello di Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei che non solo ha sostenuto materialmente il progetto, ma che è entrato regolarmente nelle celle mediante la rubrica “In viaggio con don Matteo”. Accanto a lui e al cappellano padre Marcello Mattè, un altro vescovo con lunghissima esperienza carceraria, Giancarlo Bregantini. La dimensione spirituale in carcere è talmente centrale che si è voluto fare spazio anche per altre esperienze significative, come quella buddhista e quella islamica. Quest’ultima, in particolare, è stata curata con grande attenzione, per l’elevata percentuale di musulmani nelle case circondariali della Regione, coinvolgendo l’imam e mediatore culturale Hamdan al-Zekri. L’appuntamento bolognese del 26 ospiterà anche la testimonianza da Londra di Jules Rowan, autrice del podcast The Life after Prison, messo in onda da National Prison Radio, progetto nato una quindicina d’anni fa con gli stessi scopi di Eduradio&Tv, e che oggi raggiunge tutte le carceri del Regno Unito. Nella sua video-testimonianza dice che questo impegno è stata la svolta della sua vita, decisiva per superare la vergogna del carcere: “Il podcast permette a persone che sono passate attraverso il sistema giudiziario penale di condividere la loro storia e di far sapere al mondo che sono esseri umani e che stanno cercando di migliorare se stessi e costruirsi una vita, e che anche la loro famiglia e i loro amici ne rimangono influenzati. Si cerca di costruire una comunità per le persone, di aiutare a rompere lo stigma”. Bologna. Gli spazi dell’affettività e della cultura in carcere nottedeiricercatori-society.eu, 23 settembre 2023 La Cnupp (Conferenza nazionale dei delegati dei poli universitari penitenziari) organizza il 26 settembre 2023 un evento nell’ambito della European Researcher’s Night che si svolgerà in mattinata presso l’Istituto Penitenziario di Pozzuoli grazie alla regia del PUP dell’Università di Napoli Federico II e potrà essere seguita on line da diversi PUP italiani. In connessione con tale evento dedicato al tema del “Empowerment femminile dentro e fuori le mura e le responsabilità dell’amministrazione, della magistratura e della società civile” il PUP dell’Università di Bologna si è fatto promotore di un’iniziativa che si svolgerà in presenza presso la Casa Circondariale Rocco D’Amato di Bologna, sempre il 26 settembre a partire dalle 9,30. Oltre ad essere così fruibile l’evento nazionale, verranno approfonditi vari aspetti legati a “Gli spazi dell’affettività e della cultura in carcere”. Il dibattito prenderà spunto dal lavoro di ricerca condotto in due ricerche dalle dottoresse Giulia De Rocco e Francesca Pilotto introdotte e commentate dal Prof. Alvise Sbraccia e dalla Prof.ssa Susanna Vezzadini. Monza. L’introspezione è libertà: percorsi di consapevolezza per detenuti monzatoday.it, 23 settembre 2023 Percorsi di consapevolezza in carcere per persone detenute realizzati dall’associazione Liberation Prison Project grazie ai fondi 8xmille dell’Unione Buddhista Italiana. Sono attivi in 15 istituti penitenziari italiani, condotti da operatori formati ad hoc. Nel carcere di Monza percorsi di sviluppo personale e di conoscenza di sé. L’associazione Liberation Prison Project (LPP) Italia offre percorsi di consapevolezza all’interno delle carceri principalmente alle persone detenute, ma anche al personale (come educatori e agenti di polizia penitenziaria), a ex-detenuti e familiari. Un’attività realizzata grazie ai fondi 8xmille dell’Unione Buddhista Italiana e basata sulla convinzione che anche nei luoghi di detenzione è possibile lavorare sul piano dell’introspezione e della trasformazione di sé, sul proprio “essere umano”. LPP nasce nel 1996 negli Stati Uniti per iniziativa di una monaca buddhista e si ispira alla filosofia buddhista quale straordinario mezzo di studio della mente, ma i percorsi - di gruppo e individuali - sono del tutto laici e riguardano l’allenamento alla consapevolezza, ovvero la centratura della mente nel “qui e ora”, l’ascolto di sé stessi, con presenza non giudicante. I percorsi di LPP sono attivi in Italia dal 2009 e oggi sono presenti in 15 istituti penitenziari (Milano-Bollate, Monza, Torino, Pavia, Lodi, Padova, Modena, Pisa, Volterra, Livorno, Velletri, Trani, Alghero, Palermo, Treviso). La diffusione del progetto è in continua crescita anche per l’anno 2023. LPP cura con attenzione il contatto con ogni nuovo carcere per conoscere caratteristiche ed esigenze contingenti, e stabilisce una relazione forte con i funzionari giuridico-pedagogici. Gli operatori che entrano in carcere e conducono i percorsi di consapevolezza devono seguire un iter formativo che favorisce l’acquisizione di elementi teorici e pratici per operare in carcere (in relazione con la direzione penitenziaria, la popolazione detenuta, i funzionari e gli agenti di polizia penitenziaria). Oggi gli operatori attivi sono in tutto 22, e tengono gruppi settimanali composti da 10-15 persone. “Gli operatori devono addestrarsi molto ed essere motivati, perché non è un confronto facile; devono essere prima di tutto ‘autentici’ ed esercitare una forma di comprensione ma senza dimenticare le vittime dei reati. Gli operatori, insomma, sono dei guerrieri di compassione” commenta Lara Gatto, presidente di Liberation Prison Project Italia, che continua spiegando come LPP accolga qualunque persona detenuta mostri interesse per il percorso: “È una proposta adatta a tutti perché fondata su aspetti che caratterizzano ogni essere umano; non importa l’estrazione sociale, la provenienza geografica, culturale o religiosa”. Il percorso va inoltre nella direzione dell’articolo 27 della Costituzione: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” e ha tra gli obiettivi quello di contribuire a generare ambienti più pacifici, dentro e fuori dal carcere. È dal 2016 che l’Unione Buddhista Italiana sostiene progetti umanitari e sociali in Italia e all’estero, grazie ai fondi 8xmille che, attraverso la dichiarazione dei redditi, si può destinare a una confessione religiosa o allo Stato. Nel 2022 sono stati più di 150 i progetti umanitari sostenuti dall’Unione Buddhista e 40mila i beneficiari raggiunti. Ciascun progetto è selezionato in coerenza con l’idea, che sta alla base del pensiero buddhista, dell’interdipendenza e del prendersi cura, perché ogni essere senziente, umano o animale che sia, è interconnesso e quando ci si prende cura di qualcuno si agisce a favore dell’intera collettività. L’Unione Buddhista predilige piccole realtà non profit che sviluppano progetti concreti sul territorio rivolti alle categorie più fragili, con particolare attenzione ai diritti umani, al rispetto dell’ambiente e allo sviluppo di una cultura della sostenibilità umana, sociale ed economica. Si tratta di progetti non confessionali a favore della pluralità e della responsabilità sociale, dove l’Unione Buddhista porta un aiuto concreto supportando le reti territoriali esistenti. Tra gli esempi nel 2023: la produzione di salsa di pomodoro caporalato-free nel leccese; la liberazione dalle reti illegali da pesca che provocano la morte di preziose specie marine nell’arcipelago delle Eolie; i percorsi di meditazione in carcere, da Milano a Palermo, per acquisire consapevolezza e agevolare il reinserimento sociale; gli sportelli di ascolto, cura e cittadinanza attiva presenti in diversi quartieri di Torino; il rifugio in provincia di Rimini dove centinaia di cani, gatti e capre sono accolti e curati; il laboratorio tessile di prodotti artigianali creati dalle donne migranti accolte nel piccolo borgo calabrese di Camini. L’impatto delle attività finanziate con l’8xmille è evidenziato nell’Impact Report 2022, il primo rapporto di sostenibilità realizzato da una confessione religiosa in Italia. Stilato sulla base degli indicatori dell’Agenda 2030 dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, il rapporto è uno strumento di trasparenza nei confronti dei cittadini, utile per pianificare le future azioni di sostegno. È disponibile sul sito: https://unionebuddhistaitaliana.it/news/impact-report-2022/ Napolitano, con te finisce un’epoca di Massimo Cacciari La Stampa, 23 settembre 2023 Ha combattuto contro l’immobilismo italiano e la crisi dei partiti guardava all’Europa a ogni passo senza rinnegare nulla del passato. Giorgio Napolitano è una di quelle figure che portano via con sé un’epoca intera. A lui, per tutti i cinquant’anni in cui ho vissuto la sua amicizia, chiedevo solo di aiutarmi a spiegare che cosa dovesse ancora accadere. Ora sembra calato un muro, ora sembra si possa parlare solo dell’irrevocabile. Se ne va, Giorgio Napolitano, e tutte le sue domande restano lì davanti a noi irrisolte. Anzi, più a nessuno sembrano interessare. Dove va la Repubblica, questa la sua prima domanda. E l’altra faccia di questa: dove vai Europa. Dove hai lottato perché andassero, Giorgio? Contro ideologismi, settarismi di partito, demagogie, dilettantismi, hai cercato prima di rifondare su una prospettiva socialdemocratica europea la sinistra italiana, e poi di pensare in questo senso la nascita del Pd. Hai concepito “alla grande” quest’ultimo atto, come una nuova fase di quell’intesa tra culture cattoliche, liberali e socialiste che aveva permesso il grande “compromesso storico” della Costituzione. “Compromesso” tutt’altro che politico soltanto - esso, anzi, si fondava su quello tra borghesia capitalistica e movimento operaio. Non ci sarebbero stati ricostruzione e sviluppo del dopoguerra in sua assenza. Negli anni Ottanta fallì definitivamente il primo tentativo, e il fallimento del secondo è sotto gli occhi di tutti. Il primo rovinò, almeno, nella tragedia dell’89; il secondo nel misero annaspare degli avanzi e degli scarti indigeribili di quelle grandi tradizioni. Napolitano era del tutto consapevole che l’immobilismo istituzionale che condanna la politica italiana dagli anni Ottanta è superabile soltanto se le forze politiche si liberano dall’idolo della “identità” e dall’illusione di scorciatoie decisionistico-populistiche. Ma viene il tempo in cui perfino quella “identità” è semplicemente perduta, in cui quelle forze si volatilizzano. La crisi dei partiti travolge le stesse istituzioni. Sto parafrasando dalla autobiografia di Napolitano, uscita nei mesi precedenti la sua elezione alla Presidenza e da altri suoi libri immediatamente precedenti. Napolitano avverte: occorre affrontare sul serio il problema della efficacia e della rapidità del processo decisionale, ma rafforzando, non indebolendo, il ruolo del Parlamento. Rafforzando, non indebolendo, il ruolo delle amministrazioni locali. Delegiferando, semplificando, non aggrovigliando ancor più funzioni e competenze. Ben scavato, vecchia talpa - successo tutto esattamente l’opposto. Napolitano scrive dieci anni fa l’introduzione a una nuova edizione del grande saggio di Thomas Mann, Della repubblica tedesca, un discorso del novembre del ‘22. Lo presentammo insieme a Roma. Quel discorso lo commuoveva: era la testimonianza di una fede incrollabile contro ogni fede, della fede che la democrazia fosse più forte di ogni demagogia e di ogni nazionalismo, che la sconfitta delle potenze europee nella Grande Guerra potesse significare l’inizio di una nuova stagione di intesa e di dialogo. E, coltivando questa speranza, anche Napolitano, come Mann, non revocava nulla di ciò che era stato. No, nessuna resa all’idea che la massa degli idioti si è fatta - e continua a - coltivare del comunismo. Le grandi tragedie non sono pappa per gli invertebrati del senso comune. Comunismo è intelligenza e passione politica per scovare quella porta stretta che ci permetta di accedere al superamento di intollerabili disuguaglianze, alla liberazione dalla costrizione al lavoro servile, comandato. Ma è una strada che si compie con metodo, intelligenza, misura. La lotta a estremismo e volontarismo è l’altra faccia della passione politica di Napolitano, che mai ha “revocato” il suo passato di comunista. Ma Napolitano sa bene che se c’è un futuro questo è europeo. L’Europa è il suo problema, da sempre, ben prima degli importanti incarichi che assume nel suo Parlamento. E all’Europa guarda in ogni passo che compie da Presidente. Il nuovo Nomos della Terra sarà per grandi spazi, costruito dai patti ai quali i grandi spazi tra loro sapranno dar vita. E l’anima dell’Europa politica non può aver radice che in quelle stesse culture che si sono espresse nella nostra Costituzione (semper reformanda, come abbiamo detto). Una visione multipolare della politica internazionale, che preservi l’autonomia di ogni spazio al suo interno; una politica di sicurezza fondata sulla previsione e prevenzione dei conflitti; un’idea di pace che si fondi sulla cooperazione e sulla difesa reale, positiva dei diritti umani. Con quanta sofferenza Napolitano viva l’Europa degli Stati che assistono alla tragedia dell’ex Jugoslavia, che agiscono ognuno per sé, per miopi interessi nazionali nella tragedia dei Paesi del Maghreb, che non riescono a trovare un’intesa in termini di comuni politiche sociali e fiscali, e che solo l’assoluta emergenza, prima il Covid e ora la guerra, spingono a qualche efficace decisione. Con quanta sofferenza viva questa Europa lo sa chi gli è stato vicino e chi l’ha letto per volerlo capire. Identico immobilismo istituzionale in Italia e in Europa. Ogni singolo Stato riflette l’insieme e viceversa. E sempre più l’Europa procede verso i margini del globo. Un destino? Un destino che Napolitano non accetta. Un destino contro cui trova sempre nuovi motivi di contraddizione. E a questi motivi uno come me si è nutrito e si nutre. Ma ora che non c’è più, forse rimangono soltanto le sue sconfitte. Bene navigavi, naufragium feci. Questa è la lezione più grande. Napolitano ha navigato bene, con coerenza, con lucidità, con passione e intelligenza critica e auto-critica in uno. È stato sconfitto? No, la sua navigazione è la sua vittoria. La strada che ha indicato rimane la sola percorribile. Si è fatta anche impossibile? Sarà, ma non cambia. È quella che abbiamo il dovere di tentare e ritentare. È il solo modo di vivere con disincantata dignità anche ciò che vuole il destino. Per non esser trascinati come schiavi in catene al seguito del suo carro. Napolitano e il volontariato: “Linfa vitale di convivenza e della nostra democrazia” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 23 settembre 2023 Durante il suo duplice mandato da presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha sempre considerato la Giornata internazionale e gli Stati generali del volontariato un appuntamento irrinunciabile: “Una grande scuola di solidarietà di cui abbiamo grande bisogno”. Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica, è morto a Roma oggi, 22 settembre 2023. Questo articolo ripercorre il profondo rapporto che l’ex capo dello Stato aveva con il mondo del volontariato. Un “bene da difendere, promuovere e sviluppare nell’interesse generale”. Una “linfa vitale della nostra convivenza” e un “elemento distintivo della qualità della nostra democrazia”. Un “contributo essenziale per la creazione di un diffuso capitale sociale”. Ecco: sono solo alcune tra le definizioni con cui Giorgio Napolitano, da presidente della Repubblica, ha espresso a più riprese e in modo sistematico il suo apprezzamento per il volontariato non solo come impegno concreto ma come sistema di valori. Durante il suo duplice mandato di Capo dello Stato, tra il 2006 e il 2015, la Giornata internazionale del volontariato che si celebra il 5 dicembre ha sempre rappresentato per lui un appuntamento di quelli segnati in agenda un anno per l’altro. Così come gli Stati generali dedicati ai volontari della Protezione civile, tradizionalmente convocati a metà aprile. Sempre con lucidità e senza retorica. Era il 2007, per esempio, quando inaugurando a Napoli la quinta Conferenza nazionale del volontariato Napolitano aveva esordito ricordando che “il volontariato non può certo sostituire il servizio pubblico” anche se può casomai “anticipare la risposta ai bisogni emergenti che le istituzioni non percepiscono ancora, integrando la qualità del servizio e contribuendo ad affermare la coesione sociale contro ogni fenomeno di disgregazione e di emarginazione”. Ma può realizzare eccome, invece, i principi di una “cittadinanza responsabile” e di una “partecipazione al bene comune” capace di “colmare il divario tra società civile e politica recuperando il significato più alto della politica”. E di nuovo, nel 2009: “Questa realtà rappresenta per il nostro Paese una risorsa fondamentale sotto il profilo economico”, oltre che “sotto il profilo dell’etica civile”. Una azione, quella dei volontari, che “giova a chi la riceve ma anche a chi la svolge”. Che andrebbe non solo praticata, sottolineava già allora Napolitano, ma anche maggiormente divulgata: “I mezzi di comunicazione e noi stessi che lavoriamo nelle istituzioni siamo spesso troppo assorbiti dai comportamenti litigiosi, o comunque poco cooperativi, che caratterizzano la nostra società politica, e non guardiamo con sufficiente attenzione alle espressioni della nostra società civile, in particolare a quelle forme di aggregazione e associazione volontarie che sono capaci di favorire la coesione sociale. Dovrebbe costituire, invece, ragione di orgoglio e di conforto per il nostro Paese la loro capacità di produrre ricchezza sia materiale sia morale, il loro vero e proprio potenziale di innovazione”. “Abbiamo bisogno di questa grande scuola di solidarietà - ribadì Napolitano l’anno successivo - che generosamente produce azioni, pratiche quotidiane e progetti i quali rappresentano un contributo essenziale per la creazione di un diffuso capitale sociale” attraverso cui perseguire “la promozione del rapporto solidale fra le generazioni, il sostegno agli strati emarginati della popolazione, l’impegno per realizzare percorsi di integrazione e comprensione reciproca in un’epoca di grandi flussi migratori”. Ancora un 5 dicembre, questa volta 2012: con il volontariato “cresce il capitale sociale, fattore essenziale dello sviluppo economico”. E “di qui - concludeva allora il Presidente - l’auspicio che agli impegni ordinari e straordinari fatti propri dalle organizzazioni di volontariato corrisponda l’attenzione responsabile di tutte le istituzioni”. Migranti, è emergenza per il 57% degli italiani. Ma il loro numero viene sovrastimato di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 23 settembre 2023 Rispetto ai dati reali la percezione è che siano il doppio. Il 55% boccia l’operato del governo. Il tema dei migranti, da molti mesi preoccupante, ha assunto nelle ultime settimane le caratteristiche dell’emergenza, quando non del dramma. Il cruscotto del Viminale segna, al 21 settembre 2023, 132.832 sbarchi contro i 68.594 dell’intero 2022. Nel suo recente intervento alle Nazioni Unite la presidente Meloni ha detto che non permetterà che l’Italia diventi il campo profughi dell’Europa. Questa centralità è ribadita anche dalla percezione degli italiani, che sovrastimano la presenza di stranieri nel nostro Paese. Le diverse fonti disponibili (Istat, Imu, Caritas Migrantes) stimano che in Italia ci siano all’incirca 10 stranieri ogni 100 abitanti. I nostri intervistati raddoppiano la stima: sono convinti che questa percentuale arrivi a quasi il 22%. La percezione è coerente con gli orientamenti politici: il centrodestra accentua ulteriormente questa percezione, mentre sono gli elettori del Partito democratico e delle altre liste (tra cui è rilevante la presenza della sinistra, di Azione e Italia viva) che si avvicinano di più (pur sempre stimando in eccesso) alla percentuale vera. E sono i ceti popolari che più di tutti vedono un’alta presenza di immigrati nel Paese. Percezioni molto simili le vediamo relativamente alla stima degli immigrati irregolari. Su 100 stranieri le fonti statistiche stimano 8,5 illegali, ma gli italiani pensano che siano approssimativamente 30. Insomma, numeri che danno conto dell’idea, se non di un’invasione, quantomeno di una pressione elevatissima. Di conseguenza tutti, con accenti diversi, concordano sul fatto che oggi il fenomeno dei migranti sia una vera e propria emergenza: lo pensa il 57% degli italiani, dato che arriva a oltre il 70% tra gli elettori di centrodestra, ma si mantiene al 50% anche tra gli elettori pd (che però pensano per il 43% che si tratti di un fenomeno strutturale di lungo periodo). Solo tra gli elettori delle altre liste (sinistra e Terzo polo) diventa maggioritaria quest’ultima opinione. È da sottolineare come tra gli elettori pentastellati sia le stime della presenza di migranti, sia la valutazione dell’emergenza fanno emergere dati simili a quelli degli elettori di centrodestra. Il che spiega probabilmente l’irrigidirsi recente di Giuseppe Conte. In questo clima di pesante preoccupazione, l’operato del governo sul tema viene bocciato dalla maggioranza assoluta: il 55% pensa infatti che l’esecutivo abbia agito molto o abbastanza male, solo il 26% dà valutazioni benevole. In questo caso le opinioni tendono a polarizzarsi: gli elettori di centrodestra fanno prevalere le opinioni positive, ma con aree critiche che vanno dal 27% degli elettori di FdI al 36% di chi vota per le altre forze della coalizione governativa. All’opposto, nettamente critiche le opinioni di tutti gli altri elettori, vicine all’80%. Ma anche tra incerti e astensionisti prevale l’opinione negativa. Bocciatura che rimane netta anche in pezzi dell’elettorato tradizionalmente più attratti dalle forze attualmente al governo, come l’area del lavoro autonomo. Infine, abbiamo trattato il tema inevitabile del rapporto con l’Europa e del ruolo che l’Ue gioca in questa crisi. Anche se qualche segnale di solidarietà con il nostro Paese comincia ad apparire (quantomeno con l’ammorbidimento di certe posizioni e le dichiarazioni del presidente tedesco Steinmeier, oltre all’attenzione mostrata con la sua visita a Lampedusa da Ursula von der Leyen), come era facile immaginare la maggioranza relativa (il 47% degli intervistati) accusa l’Europa di sottovalutare il fenomeno e di non sostenere a sufficienza il nostro Paese. Il 18% la assolve parzialmente, poiché ritiene che le istituzioni di Bruxelles abbiano chiaro che l’Italia vada sostenuta, ma che non riescano a portare su queste posizioni la maggioranza dei Paesi membri (32% tra gli elettori del Pd). In sostanza: un’emergenza pesante che si sperimenta nella quotidianità data l’alta presenza percepita di stranieri (e di irregolari), cui il governo fatica a rispondere e rispetto al quale l’Europa non fa quel che dovrebbe fare. Come in altri momenti della storia recente del nostro Paese, un tema molto caldo, che continuerà ad alimentare la polemica politica e che probabilmente ci accompagnerà almeno fino alle elezioni europee del prossimo giugno. Migranti. Cinquemila euro per la libertà. È la cifra che verrà chiesta per non finire nei Cpr di Alessandra Ziniti La Repubblica, 23 settembre 2023 Firmato il decreto delegato per la gestione delle procedure accelerate di frontiera. Chi può pagare non verrà trattenuto in attesa dell’esito della richiesta di asilo. Cinquemila euro per non finire in un Cpr. Adesso il governo Meloni si è inventata una sorta di cauzione da pagare per evitare il trattenimento previsto dal decreto Cutro per i migranti che arrivano da Paesi cosiddetti sicuri e dovrebbero essere rinchiusi in speciali centri per il rimpatrio nei luoghi d frontiera in attesa del rapido esame della richiesta di asilo. Con la presunzione che, arrivando appunto da Paesi sicuri, nella maggior parte dei casi questi migranti non si vedranno riconosciuta la protezione internazionale e dovranno essere rimpatriati. Ma chi può pagare resta fuori, libero dunque di allontanarsi e andare dove vuole. Se nel frattempo dovesse ricevere un diniego e un ordine di espulsione, non presentandosi perderà il diritto a riavere i 5.000 euro. Una sorta di pizzo di Stato, insomma, che si aggiungerà alle somme che chi tenta di raggiungere l’Europa dovrà avere a disposizione per raggiungere il suo obiettivo. Una garanzia finanziaria - Il decreto, pubblicato oggi in Gazzetta Ufficiale spiega che la garanzia finanziaria, stabilita in 4.938 euro, è quella considerata idonea a garantire allo straniero, per il periodo massimo di trattenimento pari a quattro settimane (28 giorni), la disponibilità di un alloggio adeguato, sul territorio nazionale; della somma occorrente al rimpatrio (che mediamente è di 2.700 euro) e di mezzi di sussistenza minimi necessari, a persona. La garanzia finanziaria è prestata in unica soluzione mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa ed è individuale e non può essere versata da terzi. Inoltre, va prestata entro il termine delle operazioni di riconoscimento foto-dattiloscopico e segnaletico. Il decreto prevede anche che, nel caso in cui lo straniero si allontani indebitamente, il prefetto del luogo ove è stata prestata la garanzia finanziaria proceda all’escussione della cifra. Le somme derivanti dall’escussione della garanzia sono destinate all’entrata del bilancio dello Stato. Norma assai singolare e in evidente contraddizione con la scelta del governo di puntare la politica migratoria sui Cpr e sui rimpatri, visto che l’eventuale cauzione di fatto favorirà gli allontanamenti di persone teoricamente da rimandare a casa. Insorgono le opposizioni: “Un governo che si comporta da scafista. L’idea della cauzione è grave sul piano dei principi, determinando, perfino tra i migranti rimpatriabili, migranti di serie a e migranti di serie b”, dice il responsabile immigrazione del Pd Francesco Majorino, mentre il presidente dei senatori dem Francesco Boccia aggiunge: “Vogliono trasformare questo paese nell’Ungheria di Orban. Questo governo è una vergogna”. Norma illegale già introdotta dall’Ungheria che la Corte di giustizia europea nel 2020 ha già sanzionato, ricorda Riccaro Magi di + Europa: “Una tangente discriminatoria, classista e disumana, verso chi scappa da fame e guerre. Ci sarebbe da vergognarsi solo per averlo pensato”. Ma anche una norma assolutamente improbabile nota il responsabile immigrazione di Arci Filippo Miraglia: “Sfido - dice - a trovare una persona che arriva dalla Libia o dalla Tunisia o dalla rotta balcanica, capace di attivare una fideiussione di quel valore in Italia o in qualsiasi altro Paese nel tempo previsto dal decreto. Come per l’accoglienza, la gestione degli sbarchi e i CPR anche in questo caso si preferisce la propaganda alla gestione corretta di questioni complesse e del tutto prevedibili”. Cinquemila euro per evitare il Cpr, il vero pizzo di Stato lo pagano i migranti di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 23 settembre 2023 Il governo Meloni ha dato un prezzo alla libertà. Lo ha stimato in 4.938 euro di cauzione. Bisognerebbe riuscire a mettersi nella testa di chi l’ha pensata, una norma del genere. Cercare di capire quale deserto morale possa concepire un meccanismo di questo tipo: a un migrante che arriva in Italia chiedendo protezione umanitaria, in caso parta da uno di quei Paesi che noi consideriamo sicuri, lo Stato chiederà di scegliere se andare in un Cpr o se restare libero in attesa di rimpatrio. Il governo Meloni ha dato un prezzo alla libertà. Lo ha stimato in 4.938 euro di cauzione. Chissà se varia per tipologia umana: la chiederemo ai bambini che sbarcano soli perché i genitori sono morti nel deserto e qualcuno un po’ più grande li ha presi per mano? La chiederemo alle donne stuprate dai miliziani libici che arrivano incinte di uomini che le hanno abusate e nonostante questo stringono al petto quei neonati che gridano vita? Alle madri che abbiamo visto accalcarsi sul molo a Lampedusa mentre una figlia sveniva per il caldo e la fatica e il dolore e la paura? A chi avremo il coraggio di chiedere quei soldi dicendo: altrimenti prego, abbiamo un “centro perimetrabile e sorvegliabile” pronto per te? La nostra presidente lo ha chiamato così. Lo ha pensato così: col filo spinato e tutto il resto. Lontano dai centri abitati, sia mai possano sentirsi per un attimo esseri umani in mezzo ad altri esseri umani. Pensavamo di aver sentito tutto quando il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha chiamato i migranti salvati da una Ong “carico residuale”. Credevamo che la sola idea di poter mandare nei Cpr persone che non hanno commesso reati, disperati che sono arrivati sulle nostre coste in cerca di protezione, fosse il massimo dell’abisso morale raggiungibile. Pensavamo anche - che illusi - che qualcuno in una maggioranza di destra che crede di avere qualche residuo di centro si sarebbe alzato a dire: attenzione, questi sono campi di concentramento, non è così che si affronta un fenomeno epocale come le migrazioni. Non si chiude il mare e non si possono rinchiudere le persone che fuggono da fame, guerre, persecuzioni, carestie, miseria. Servono solidarietà, collaborazione, gestione dei flussi, coordinamento europeo. Serve la revisione del trattato di Dublino come invoca il Presidente della Repubblica contro il parere della presidente del Consiglio, che dovrebbe altrimenti spiegarlo ai suoi amici sovranisti. E cosa è arrivato, invece? Un decreto ministeriale che chiede di pagare 5mila euro a chi ha già dato tutto quel che ha a quei trafficanti che avevamo promesso di inseguire nel globo terracqueo. Evidentemente, ci siamo stancati. Dal decreto Cutro a oggi sono stati arrestati 100 scafisti. Non proprio un successone. Forse, non riuscendo a fermare i trafficanti, il governo ha pensato bene di imitarne i metodi. Ma attenzione: noi i soldi li restituiremo a un disperato che per caso li abbia e torni dopo cento giorni per farsi mandar via. Una volta che il decreto di espulsione sia pronto, sempre che nel frattempo non abbia dimostrato di aver diritto a stare qui o non sia fuggito, com’è più probabile. Non fosse un’ignominia, un reale pizzo di Stato, sarebbe un meccanismo da barzelletta. Tanto grottesco quanto inapplicabile, oltre che illegale (una norma del genere fatta in Ungheria, guarda caso, è già stata sanzionata dalla Corte di giustizia europea nel 2020, come ha ricordato ieri Riccardo Magi). Ma non bisogna consolarsi con l’impossibilità di farla valere, bisogna piuttosto disperarsi perché nel 2023 l’Italia ha un governo che ciancia di nuova tratta di schiavi e si permette di dare un prezzo alla libertà dei richiedenti asilo. Ci sarebbe da chiamare l’Onu, ma non per aiutarci: per inviare i caschi blu. Migranti. Lo scaricabarile sul “prezziario per la libertà” di Federico Capurso La Stampa, 23 settembre 2023 Imbarazzo nell’esecutivo per la misura che obbliga i profughi a pagare per la libertà entrata nel decreto Cutro, ora i ministri Piantedosi e Nordio ne prendono le distanze. Un migrante proveniente da un Paese “sicuro”, in cui non sono in corso guerre o persecuzioni, per entrare illegalmente in Italia dovrà pagare tra i mille e gli ottomila dollari. Lo stesso migrante, una volta fatto ingresso nel nostro Paese, per non finire nei centri di “espulsione accelerata” dovrà invece pagare poco meno di cinquemila euro. La prima somma finirà nelle tasche dei trafficanti, la seconda nelle casse dello Stato italiano. È una delle novità introdotte dal governo Meloni con il decreto Cutro e resa ieri realtà da un decreto del ministero dell’Interno: il trattenimento del migrante può essere evitato - si legge - se viene “prestata idonea garanzia finanziaria”. Per l’esattezza, 4.938 euro. La misura è dedicata solo a chi arriva da un Paese “sicuro”, si è già visto rigettare la richiesta di asilo ma ha presentato ricorso. In attesa di conoscere l’esito del suo ricorso, per evitare di finire nei nuovi “centri di frontiera per le espulsioni accelerate”, potrà pagare. La questione provoca un certo imbarazzo all’interno dell’esecutivo. È l’unica norma di cui i partiti di maggioranza non rivendicano la paternità. È entrata però nel decreto Cutro con un emendamento del governo. Voluto da chi? Non dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, né dal sottosegretario con delega all’Immigrazione Nicola Molteni, viene fatto sapere dal Viminale. Fonti dell’esecutivo sostengono che l’idea sia stata partorita dal ministero della Giustizia. Eppure, a via Arenula, nessuno ne sa nulla. “Non me ne sono occupato io”, assicura il viceministro di Forza Italia Francesco Paolo Sisto. Cadono dalle nuvole anche gli uomini di Fratelli d’Italia e della Lega. Allarga le braccia pure il relatore di maggioranza del provvedimento, il senatore Riccardo De Corato, di FdI: “Non ricordo chi abbia voluto quell’emendamento. Il decreto Cutro era del maggio scorso, è passato troppo tempo”, dice a La Stampa. Dal ministero della Giustizia, alla fine, c’è persino chi tenta di ripercorrere una strada antica ma sempre sicura: “Qui ci sono sempre tante “manine”“. Soluzione facile ma non sempre salvifica. Perché come sbotta un membro di peso della Lega, a metà tra la sorpresa e l’irritazione, “non è proprio una cosa da governo di centrodestra”. Certo non è da governo di centrosinistra, a sentire dalle reazioni provenienti dall’opposizione: “Crudele”, “uno schifo”, e via dicendo. Dal Viminale intanto viene fatto sapere che “la garanzia mira a scongiurare il rischio di fuga, rivestendo il carattere di deposito cauzionale”. E che per evitare “la possibilità di garanzie “strumentali”“, utili quindi alla fuga, “è stata esclusa la possibilità che la garanzia venga prestata da terzi o da associazioni del terzo settore, o che sia prestata in contanti”. L’unica forma di garanzia ammessa sarà quella della “fideiussione bancaria o assicurativa”. Allo straniero, prevede il decreto, “è dato immediato avviso della facoltà, alternativa al trattenimento, di prestazione della garanzia finanziaria”, che dovrà essere versata “in unica soluzione”. Tutto e subito. Ma questo, ammettono nella maggioranza, di certo non esclude che alla fine si riesca comunque a sfuggire alle maglie già piuttosto lasche dello Stato. Anche perché la platea di chi potrebbe usufruire di questa soluzione è piuttosto ampia. Lo prevede il decreto stesso: nel caso in cui lo straniero “si allontani indebitamente - si legge - il prefetto del luogo ove è stata prestata la garanzia finanziaria procede all’escussione della stessa”. Insomma, i cinquemila euro finiscono nelle casse dello Stato. Potrebbero pagare in cambio della libertà tutti i migranti provenienti da Paesi come Tunisia, Marocco, Costa d’Avorio, Nigeria, Senegal, Algeria, e altri ancora. La Costa d’Avorio, ad esempio, è la seconda per arrivi quest’anno; la Tunisia è terza. Insomma, si tratterebbe della stragrande maggioranza dei migranti arrivati in questi mesi di forte pressione dei flussi. Non avendo, in linea di massima, diritto a forme di protezione interazionale, non finirebbero nei Centri per il trattenimento e il rimpatrio, i cosiddetti Cpr, dove generalmente vengono destinati quei migranti che hanno commesso reati in Italia, né nei Centri di accoglienza straordinaria o negli hotspot, ma nei nuovi “Centri di frontiera per le espulsioni accelerate”, anche questi introdotti dal decreto Cutro, in cui resterebbero per quattro settimane prima del procedimento di espulsione. Purché non si paghi. Il primo di questi centri sorgerà a Pozzallo, in Sicilia. Il Commissario straordinario per l’emergenza immigrazione, Valerio Valenti, ha già individuato la struttura e dato avvio ai lavori. Saranno disponibili, però, solo 84 posti. Le prefetture stanno individuando altri luoghi per la costruzione di questi centri. Quanti saranno e dove verranno dislocati, però, non è ancora stato deciso. L’emendamento del governo recepirebbe - si sostiene dal governo - una direttiva europea che prevede soluzioni alternative al trattenimento. Dall’opposizione si sottolinea, invece, come sia in aperto contrasto con un’altra direttiva europea, quella sui rimpatri, anche alla luce della sentenza di giovedì scorso della Corte di giustizia europea che ha ribadito le garanzie necessarie da riconoscere alla persona migrante. E tra queste, non c’è alcun prezziario per la libertà. Migranti. “Sedati, senza diritti, con i vermi nel cibo”. Le denunce sul vero volto dei Cpr di Marika Ikonomu Il Domani, 23 settembre 2023 Sono chiamati centri, nei fatti sono carceri per chi non ha commesso reati, ma è solo privo di documenti. Associazioni e avvocati mettono in dubbio la loro costituzionalità. Negli ultimi tre anni ci sono stati nove morti. Il potenziamento dei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), così come previsto nei decreti approvati dal governo, non è una novità nel contesto italiano. La detenzione amministrativa come elemento strutturante la politica migratoria è ormai una costante di tutti i governi, di qualsiasi orientamento politico, dal 1998 in poi. Basti pensare che nel 2017 l’allora ministro dell’Interno di un governo di centrosinistra, Marco Minniti, aveva ribattezzato i Centri di identificazione e di espulsione (Cie) in Cpr prevedendone la costruzione di uno per regione, obiettivo rilanciato dall’attuale governo. Oggi le strutture funzionanti sono nove, dopo la chiusura a marzo 2023 di quello di Torino, per le proteste contro le condizioni di vita. I Cpr sono strutture nate per trattenere e rimpatriare le persone che si trovano in Italia senza un permesso di soggiorno. Sono chiamati centri, nei fatti sono carceri. Sono luoghi perimetrati da sbarre altissime, filo spinato, dove spesso non è possibile vedere il cielo, perché coperto da grate. Sono luoghi altamente sorvegliati da polizia, carabinieri, esercito, guardia di finanza. Un controllo sofisticato per privare della libertà persone che non hanno commesso reati, ma che sono detenute per il semplice motivo di aver violato una regola amministrativa: non avere documenti. Scarti giuridici - “Questa politica dell’immigrazione va avanti da vent’anni, in misura differente”, spiega l’avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) Salvatore Fachile, “però ha una sua continuità nel voler creare all’interno dell’ordinamento giuridico un diritto speciale per gruppi di persone”. Fachile sottolinea come ora riguardi i migranti, ma può via via espandersi ad altri soggetti e in generale prevedere che lo stato possa “scavalcare una serie di principi costituzionali introdotti nel 1948 e ritenuti fino a pochi anni fa intoccabili. Legittimare una società che si basi su patti sociali differenti che possano privare una persona della libertà, il secondo bene più importante, dopo quello della vita, per lunghi periodi e senza garanzie”. Il linguaggio usato dimostra il tentativo di rendere invisibile la violazione dei diritti e la disinformazione che lo avvolge. Le persone recluse vengono chiamate ospiti, e al posto di detenuto le istituzioni usano trattenuto. Centro invece di carcere. Il sindaco di Firenze del Pd, Dario Nardella, quando si era detto favorevole a un Cpr in Toscana, spiegava che non era destinato a persone “integrate”, “che lavorano”, ma “criminali”, “persone che delinquono abitualmente”. In queste strutture, vengono invece recluse non solo persone provenienti dal carcere, che hanno ricevuto l’espulsione come misura di sicurezza pur avendo già scontato la propria pena, ma anche richiedenti asilo, persone appena sbarcate o, ancora, persone con un passato consolidato di relazioni sociali, che hanno però perso il lavoro e quindi il permesso di soggiorno. Le violazioni - Chi ha vissuto l’esperienza del carcere, prima del Cpr, non ha dubbi nel dire che le condizioni di vita sono di gran lunga peggiori. Da anni associazioni, avvocati e garanti mettono in luce la dubbia costituzionalità del sistema, la mancanza di un fondamento giuridico e le violazioni dei diritti. Molte le denunce di abuso di psicofarmaci come metodo di sedazione nei centri, dove la tutela della salute non è affidata al servizio sanitario nazionale (Ssn) ma a un medico dipendente dell’ente gestore privato, considerando che il privato guadagna per ogni persona trattenuta. Non solo, anche il Garante ha segnalato che le visite di idoneità al trattenimento, che dovrebbero competere al Ssn, garanzia di imparzialità, vengono eseguite dal medico del gestore. Alle persone detenute, spesso viene sequestrato il cellulare o viene lasciato rompendo però la fotocamera, per impedire la documentazione di ciò che accade all’interno. Alcune riprese trapelate dai centri, pubblicate dalla rete Mai più lager - no ai cpr, mostrano cibo con i vermi, gli effetti della sedazione o la violenza delle forze dell’ordine. I centri, in cui negli ultimi tre anni sono morte nove persone, sono affidati dalle prefetture a cooperative e società a scopo di lucro. Alle prefetture spetta il dovere di vigilare sulla corretta esecuzione dell’appalto, e sul rispetto dei diritti, ma sembra che questo in molti Cpr non avvenga. “La giurisprudenza ha più volte segnalato un allarme di costituzionalità”, dice l’avvocato. La vita all’interno dei Cpr è disciplinata da un regolamento, un decreto ministeriale, che non ha un’efficacia di norma primaria e non prevede rimedi giurisdizionali in caso di violazione. “L’uso di fonti secondarie fa parte, come il diritto penale amministrativo, di un’idea della società”, prosegue Fachile, “dove i consociati delegano le scelte in maniera più massiccia ai poteri governativi. Da qui si arriva allo stato autoritario, però, senza dipingere scenari apocalittici, ci sono soggetti anche in questa compagine politica che credono molto nella delega e nell’uso di poteri regolamentari”. Anche il centrosinistra, spiega, “ha voluto più fiducia nel governo: si veda l’uso dei decreti legge. Fa comodo ed è la tentazione di investirsi progressivamente di un potere più ampio”. Il consenso - Non è la prima volta che vengono aumentati i termini del trattenimento a 18 mesi. I dati però dimostrano che i Cpr “non sono uno strumento effettivo, dato che solo il 50 per cento in media viene rimpatriato, indipendentemente dalla durata della permanenza”, evidenzia il Garante delle persone private della libertà Mauro Palma. Nel 2013 con il termine di 18 mesi è stato rimpatriato il 45 per cento delle persone trattenute, mentre nel 2017, con il termine di 90 giorni, il 59. Si parla dunque di poco più di 3mila persone e, anche se dovessero raddoppiare, “rimane una misura di per sé sproporzionata rispetto al fenomeno migratorio”, fa notare Fachile. “Non sono uno strumento funzionale come viene raccontato. Sono uno strumento simbolico”, sottolinea Palma, “di costruzione di consenso e gestione della paura”. In mancanza di accordi con i paesi d’origine, il rimpatrio risulta impossibile: è quindi illegittima, secondo il garante, la privazione della libertà se non è giustificata da una percorribile ipotesi di rimpatrio. Al contempo, anche qualora ci fosse un accordo con il paese d’origine, è necessario assicurare le garanzie previste dalla legge: i cittadini tunisini costituiscono il 71 per cento (dati 2022) delle persone rimpatriate tra quelle transitate dal Cpr. Majdi Karbai, ex parlamentare tunisino e attivista politico in esilio in Italia, racconta che spesso ai trattenuti tunisini non viene data la possibilità di fare richiesta di protezione internazionale, un diritto che spetta a chiunque. Spesso “nell’arco di poche ore”, spiega Karbai, “vengono portati nei Cpr, senza poter chiedere asilo”. In questo periodo, diversi trattenuti tunisini hanno denunciato all’attivista di non poter parlare con i propri avvocati o di non riuscire a nominarli: “Non hanno possibilità di accedere al servizio legale”. Inoltre, la Tunisia, con cui l’Unione europea e il governo italiano continuano a trattare, “non può essere considerato un paese sicuro”, sottolinea Karbai. “Oggi i giudici ricevono diktat dal potere esecutivo o vengono incarcerati, vengono arrestati oppositori politici, attivisti, giornalisti. In un paese sicuro si rispettano i diritti umani, e questo non accade in Tunisia”, conclude. Alternative - Considerato il costo umano ed economico (negli ultimi due anni sono stati indetti bandi per oltre 50 milioni di euro per la gestione) e l’ineffettività del sistema, secondo molte associazioni, come la Coalizione italiana libertà e diritti civili, occorre superare la detenzione amministrativa, e applicare misure non coercitive che rendano “la persona protagonista del proprio percorso di regolarizzazione”. È necessario però creare vie legali di accesso e regolarizzazione per le oltre 500mila persone irregolari presenti sul territorio italiano. “Vogliamo considerare la migrazione come un fenomeno sociale, umano, e quindi affrontarlo? O semplicemente rimandare la questione al prossimo governo?”, chiede l’avvocato Fachile, precisando: “Io personalmente credo che la libertà di movimento se governata in maniera intelligente possa essere, anche per il futuro, uno degli strumenti per un maggiore equilibrio anche a livello geopolitico, e limitare il gioco di dominazione e soprusi internazionale che caratterizza la politica dei paesi ricchi”. Per il garante Palma, se le persone non possono essere accolte, va elaborata un’altra strategia, come quella dei rimpatri volontari: “È necessario costruire possibilità economiche di ritorno. Ma anche vivere in un paese con un’economia distrutta”, evidenzia, “dal mio punto di vista ti rende titolare di un desiderio di andartene. Non solo chi scappa da guerre”. Il vuoto - Perché da oltre 20 anni il sistema italiano ed europeo potenziano un istituto così poco fondato? Mauro Palma porta l’esempio del centro di Torino, oggi in ristrutturazione: “Il Cpr di via Brunelleschi è nel cuore della città, con i palazzi che si affacciano: la visibilità dell’opinione pubblica che non reagisce a ciò che vede. Una visibilità non vista, perché il vedere richiede una consapevolezza. Quel non vedere da parte di chi si affaccia è ciò che lo legittima”. E sottolinea il vuoto di queste strutture: “Sono contenitori spogliati da tutto che vogliono determinare il vuoto della persona. Ma quella è una persona che sta sperimentando un proprio fallimento. È anche il nostro vuoto ad accettare le globalità, ciò che abita un mondo diverso al quale noi rispondiamo con la ricerca di consenso: non vedere, rinchiudere e dire ne abbiamo rinchiusi tanti”. La Francia non può respingere i migranti alla frontiera. La sentenza della Corte di giustizia Ue di David Carretta Il Foglio, 23 settembre 2023 Ventimiglia e gli altri valichi non possono essere blindati: Parigi deve rispettare la direttiva “rimpatri” e le sue tutele per i migranti. Così i giudici di Lussemburgo ricordano che l’irrigidimento delle politiche migratorie non può sconfinare oltre i paletti imposti dalla legislazione europea. Bruxelles. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha inflitto un duro colpo alla politica della Francia dei respingimenti alla frontiera con i paesi vicini, a partire dall’Italia. In una sentenza relativa a un ricorso davanti al Consiglio di stato francese presentato dall’associazione Avocats pour la défense des droits des étrangers, i giudici di Lussemburgo hanno stabilito che la Francia deve rispettare la direttiva “rimpatri” e le sue tutele per i migranti anche nei respingimenti effettuati alle frontiere interne di Schengen. La direttiva prevede che un cittadino di un paese terzo in situazione di soggiorno irregolare deve essere oggetto di una decisione di rimpatrio, ma anche beneficiare di un certo termine temporale per lasciare volontariamente il territorio, mentre l’allontanamento forzato può avvenire solo in ultima istanza. La Corte dell’Ue ha stabilito che un provvedimento di respingimento può essere adottato sulla base del codice frontiere Schengen, ma “devono comunque essere rispettate le norme e le procedure comuni previste dalla direttiva “rimpatri”, anche se questo “può condurre a privare di una larga parte della sua utilità l’adozione” del provvedimento di respingimento. Il fatto che la Francia abbia ripristinato i controlli alle frontiere interne in deroga al codice Schengen per minacce gravi all’ordine pubblico e alla sicurezza interna, secondo i giudici di Lussemburgo, è irrilevante. Non è ancora chiaro quali saranno le ripercussioni pratiche immediate della sentenza della Corte dell’Ue nella prassi seguita dalla Francia - a Ventimiglia e in altri valichi - di respingere i migranti e riportarli in Italia non appena attraversata la frontiera. L’associazione Avocats pour la défense des droits des étrangers ha contestato davanti al Consiglio di Stato un’ordinanza delle autorità francesi che ha modificato il codice sull’ingresso e sul soggiorno degli stranieri e sul diritto d’asilo per introdurre la possibilità di rifiutare l’ingresso di cittadini di paesi terzi alle frontiere con altri stati membri dell’Ue. La Corte dell’Ue ha anche offerto alla Francia una soluzione, ricordando la possibilità di trattenere o arrestare un cittadino di un paese terzo in attesa del suo allontanamento, in particolare se costituisce una minaccia per l’ordine pubblico o se sospettato di aver commesso un reato diverso dal semplice ingresso irregolare nel territorio nazionale. Ma, per l’ennesima volta, i giudici di Lussemburgo hanno ricordato a uno stato membro che l’irrigidimento delle politiche migratorie non può sconfinare oltre i paletti imposti dalla legislazione europea. È un avvertimento implicito anche a tutti i governi, sovranisti o meno, che spingono per costruire un’Europa fortezza senza rispettare i diritti di migranti e richiedenti asilo. Caporalato, l’intollerabile normalità di Paolo Fallai Corriere della Sera, 23 settembre 2023 Il termine è entrato nel primo dizionario nel 1978, dopo 36 anni è stata varata una legge per contrastare l’intermediazione illegale e lo sfruttamento lavorativo. Ora il fenomeno è diventato nazionale e, paradossalmente, quasi non fa più notizia. Fa un certo effetto leggere le notizie sull’ennesima operazione della Guardia di Finanza contro il caporalato in Puglia, che ha scoperto nel Foggiano decine di braccianti sfruttati. Non perché l’operazione sia una novità in sé, visto il meritorio impegno di Finanza e magistratura contro questo orribile fenomeno criminale. Uno dei primi dizionari italiani ad accogliere la voce “caporalato” per indicare lo sfruttamento illegale della manodopera agricola, è stato il Sabatini-Coletti, nel 1978. Solo due anni dopo dovette scoprirla tutta l’informazione, nel riferire le sconvolgenti notizie provenienti proprio dalla Puglia: il 19 maggio 1980 tre ragazze di Ceglie Messapica morirono in un pulmino dei caporali. Si chiamavano Pompea Argentiero, Lucia Altavilla e Donata Lombardi. Avevano 16, 17 e 23 anni. Si erano alzate alle 3 del mattino per andare a raccogliere le fragole. L’emozione e la rabbia per quelle vittime non si fermarono ai confini della Puglia. Tutto il Paese scoprì quello che le campagne meridionali conoscevano bene. Anche l’arroganza degli sfruttatori: il 17 luglio, durante una manifestazione, alcuni caporali tentarono di investire lavoratori e sindacalisti a Villa Castelli a pochi chilometri da Ceglie. Quattro giorni dopo otto caporali armati di pistola aggredirono i sindacalisti della Cgil e assaltarono la sede del sindacato. Ci sono voluti 36 anni perché l’Italia avesse una legge per contrastare l’intermediazione illegale e lo sfruttamento lavorativo e offrire uno strumento alla repressione. Ma nel frattempo, il fenomeno è diventato nazionale e gli sfruttati hanno preso tutti i colori del mondo potendo contare sull’inesauribile bacino del l’immigrazione senza documenti. Fa effetto leggere oggi una notizia sul caporalato proprio perché non è quasi più una notizia, nella sua desolante “normalità” e rischiamo di non accorgercene più. La cannabis light diventa illegale: sarà venduta solo in farmacia con ricetta. È polemica di Paolo Virtuani Corriere della Sera, 23 settembre 2023 In vigore un decreto che ne proibisce la vendita in negozi, erboristerie e tabaccai. Più Europa: “Follia proibizionista, si uccide un settore che vale 150 milioni all’anno”. Dal 20 settembre il cannabidiolo (Cbd), la cosiddetta cannabis light per uso orale, è considerato una sostanza stupefacente. Il base al decreto del ministro della Salute non potrà più essere venduto nei negozi specializzati in prodotti a base di canapa come negli smart shop ma anche in erboristerie e tabaccai, ma potrà essere richiesto solo in farmacia tramite presentazione di una prescrizione medica. È entrato infatti in vigore il decreto del ministero della Salute pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 21 agosto, che ha revocato la sospensione del decreto del 2020 (voluto dall’ex ministro Roberto Speranza) che inseriva le composizioni per somministrazione a uso orale di Cbd nella tabella dei medicinali allegata al testo unico sulle droghe. Differenza tra Cbd e Thc - Il Cbd è un medicinale utilizzato per favorire il rilassamento, diminuire ansia e lenire dolori e potrà quindi essere acquistato in farmacia, ma solo su prescrizione medica e per determinate patologie. In farmacia sono venduti diversi preparati a base Cbd (sostanza diversa dal delta-9-tetraidrocannabinolo o Thc, che ha invece effetto psicotropo). Prodotti di Cbd con concentrazioni inferiori a quelli a uso medico, erano in vendita negli smart shop. Oms e Corte europea di giustizia - “Il decreto non tiene conto delle raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità e le sentenze della Corte europea di giustizia”, commenta l’ex senatore Marco Perduca, coordinatore della campagna Legalizziamo dell’Associazione Coscioni, “crea enormi problemi anche per la filiera italiana della canapa. Cosa accadrà a chi produce, vende o usa farine, pasta, biscotti o olio per condimenti a base di Cbd? Il 50% di chi compra prodotti con Cbd lo fa online, ora sarà il 100% in barba alle nuove regole e mettendo in ginocchio piccole e medie imprese italiane”. In Italia la vendita di prodotti a base di Cbd vale 150 milioni all’anno e la filiera impiega circa 10 mila persone. “Idiozia proibizionista” - “Il Cbd non crea dipendenza e non comporta alcun danno per la salute umana”, aggiunge il segretario di Più Europa Riccardo Magi, mentre la polemica monta anche sui social. “Il governo Meloni vieta una sostanza che ha gli stessi effetti di una camomilla e la spaccia per guerra alla droga. È un mix tra idiozia proibizionista e ignoranza sulla materia che strangolerà un settore in forte crescita, con tante piccole e medie imprese, anche agricole gestite da giovani, che potrebbe rappresentare un’arma in più per il tanto evocato Made in Italy”.