Dal carcere: Mi racconto, perché ho sbagliato e non voglio che capiti a tuo figlio. Lettera aperta al ministro della Giustizia Carlo Nordio Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2023 Gentile Ministro Nordio, lei ha recentemente parlato di prevenzione nei confronti dei comportamenti a rischio e dei reati commessi dai ragazzi; noi, detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti a nostra volta, vorremmo raccontarle come, con le nostre testimonianze e con il racconto dei disastri delle nostre vite, cerchiamo di mettere a disposizione dei ragazzi le nostre storie non per dare consigli, non saremmo in grado di farlo, ma per far loro toccare con mano le conseguenze di certe azioni. Ogni anno incontriamo decine di classi di scuole superiori padovane, e non solo; migliaia di studenti entrano in carcere e ascoltano le nostre testimonianze con le quali cerchiamo di stimolare delle riflessioni – e cioè proprio quelle riflessioni che non siamo riusciti a fare noi – nel tentativo di aiutare a capire cosa ci ha portato a commettere reati, calpestando spesso tutto ciò che ci si parava davanti. Non è stata la pena “cattiva”, quella che al male risponde con altrettanto male, a farci diventare persone più consapevoli, ma sono piuttosto gli incontri con gli studenti, e il pensiero che di fronte potremmo avere i nostri figli che ci chiedono il perché delle nostre scelte sbagliate. Sono le domande che ci fanno gli studenti che ci inchiodano alle nostre responsabilità: a volte non abbiamo risposto nemmeno ai giudici, mentre non possiamo e non vogliamo sottrarci alle domande dei ragazzi, ed è da questo confronto che cresciamo e che cerchiamo di diventare adulti credibili. È vero, nel passato siamo stati la “peggiore gioventù”, e spesso siamo anche diventati dei cattivi maestri, ma oggi le nostre esperienze negative e le nostre vite sbagliate le mettiamo a disposizione dei ragazzi, con la speranza che, semmai si troveranno in situazioni rischiose, si ricordino di come è facile rovinare la vita a sé stessi e agli altri in un attimo. Ci ricordiamo quando lei, con Giuliano Pisapia, aveva elaborato una riforma del Codice penale che ripensava il senso delle pene. Ci piacerebbe allora che venisse in carcere a Padova ad assistere a un incontro con le scuole, che è l’espressione di quello che noi, ma anche tante vittime che in questi anni con noi hanno dialogato, riteniamo debba essere il senso della pena. Da una testimonianza di Benedetta Tobagi: “L’incontro coi detenuti della redazione di Ristretti mi ha spiazzata. Ero andata per “mettermi a disposizione”, invece ho ricevuto più di quanto potessi immaginare. Un detenuto, commentando l’esperienza, disse che avevo tanto bisogno di comunicare. Era proprio così. Una parte di me, soffocata, imprigionata, ammutolita, abituata sin bambina a stare zitta, a essere brava e forte come un soldatino, si era trovata davanti un gruppetto di uomini sconosciuti che volevano solo ascoltarla, in silenzio, con rispetto. Tra loro c’erano ergastolani, qualcuno era un assassino, e soffriva per me, e, attraverso me, per la figlia sconosciuta dell’uomo che aveva ucciso. Sentivano tutto il peso di ciò che avevano fatto. Questo mi ha toccato in un modo che non posso nemmeno dire. Anche se sai che le persone possono cambiare, se hai fede che possa succedere, sentirlo sulla pelle è un’altra cosa”. Da una testimonianza di Serena L, ex studentessa: La mia testimonianza arriva a distanza di oltre dieci anni da quando ho fatto questa esperienza, a dimostrazione di quanto certi progetti siano in grado di lasciare il segno. Ricordo il percorso scuola-carcere con Ristretti Orizzonti come uno dei progetti di impatto più forte sulle emozioni e sulle coscienze di tutta la classe. Lo affrontavamo a partire da esperienze e sensibilità diverse, ma per tutti è stato un progetto in grado di mettere in questione pregiudizi, suscitare interrogativi e dibattiti, cambiare le visioni su meccanismi e funzioni del carcere per molti ancora poco chiari (…) L’ho vissuto allora con grande coinvolgimento e oggi, con gratitudine, riconosco quanto valore possa avere il confronto tra due “istituti educativi” come la scuola e il carcere, nel momento in cui questi si pongono come spazi di dialogo e come comunità aperte, in grado di mostrare, raccontare e condividere quanto di costruttivo vi accada all’interno. Non siamo noi, figli innocenti, a dover pagare per gli errori dei nostri genitori dalla redazione di Ristretti Orizzonti di Parma Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2023 Anche nel carcere di Parma - come sembra in tanti altri istituti di pena - un avviso in bacheca annuncia che dal 1 ottobre le telefonate settimanali ai familiari delle persone recluse saranno ridotte a una soltanto. Ed è già notte fonda quando ci arriva questo testo da parte della figlia di una persona condannata all’ergastolo e da tanti anni ristretta nell’Alta Sicurezza del penitenziario emiliano. È accompagnata da poche righe: Perdonatemi l’orario. Lo so è tardissimo, e spero di non avervi svegliata. Ma ho appena concluso il mio scritto. Ero troppo carica di dolore misto a sgomento. Non è giusto che facciano ciò. Non lo merita nessuno, né noi né loro. Cosa abbiamo fatto noi, figli di detenuti, di male per meritarci questo? Quando si parla di carcere, spesso ci si concentra sull’aspetto punitivo, dimenticando che dietro le sbarre si nascondono storie umane, famiglie spezzate e bambini che pagano per i peccati dei genitori. Io sono una di questi bambini, figlia di un detenuto da trent’anni, e voglio condividere la mia storia. Per me, ogni settimana è una lotta emotiva. Aspetto con trepidazione quel momento speciale in cui il telefono squilla e la voce di mio padre risuona dall’altro capo della linea. Sono solo dieci minuti, ma sono i dieci minuti più belli di tutta la settimana. È il nostro momento, il nostro raggio di luce in un mondo altrimenti buio e freddo Ma ora questo piccolo conforto, che rappresenta la mia unica connessione con mio padre, è in pericolo. L’amministrazione penitenziaria ora vuole ridurre da due ad una queste chiamate settimanali. Ma cosa ne sarà di noi, figli di detenuti, se ci verrà tolto anche questo? Come se non bastasse già scontare la pena di non poter stare con nostro padre, ora dobbiamo subire questa nuova punizione? Capisco che ci siano regole da rispettare dietro quelle mura, ma non possiamo dimenticare la nostra umanità. Non siamo noi, figli innocenti, a dover pagare per gli errori dei nostri genitori. Questa telefonata settimanale è la nostra unica via di fuga dalla tristezza e dalla solitudine che spesso ci circonda. Mio padre è stato un detenuto modello per tutti questi anni. Ha cercato di redimersi e ha sempre sostenuto la mia crescita da dietro quelle sbarre. Ma ora, sembra che la punizione colpisca più me che lui. L’istituzione sembra dimenticare che la vera pena per mio padre è non poter vedere crescere sua figlia, non poterla abbracciare, non poterla aiutare nei momenti difficili. Mi chiedo cosa abbiamo fatto di male noi, figli di detenuti, per meritare questo trattamento ingiusto. Non abbiamo scelto questa strada, ma dobbiamo percorrerla a testa alta, cercando di dimostrare che non siamo diversi dagli altri. Abbiamo sogni, speranze e bisogni che sono gli stessi di chiunque altro. Forse è il momento di ricordare che il carcere non dovrebbe solo punire, ma anche cercare di riabilitare. E parte di questa riabilitazione dovrebbe coinvolgere il mantenimento dei legami familiari, che sono essenziali per il recupero dei detenuti e per il benessere emotivo dei loro figli. Spero che chiunque sia coinvolto in questa decisione rifletta sulle conseguenze umane dietro le sue azioni. La nostra voce conta, anche se spesso sembriamo invisibili. Chiediamo solo di non toglierci l’unico momento di felicità che abbiamo in questa situazione difficile. In conclusione, chiedo a tutti voi di considerare il nostro punto di vista, figli di detenuti che soffrono in silenzio. Chiedo comprensione, empatia e la possibilità di continuare a ricevere quelle preziose telefonate settimanali, che per noi rappresentano il mondo intero. Cosa abbiamo fatto di male noi, figli di detenuti, per meritare ciò? La risposta, spero, sarà un’immediata azione per proteggere i nostri diritti e il nostro benessere emotivo. Eva Ruà Sarà il meloniano Felice Maurizio D’Ettore il nuovo Garante nazionale dei detenuti di Liana Milella La Repubblica, 22 settembre 2023 La terna già consegnata a palazzo Chigi. Con lui l’avvocata romana Irma Conti, indicata dalla Lega, e il civilista palermitano Mario Serio in quota opposizione. Al Pd che contesta l’incompatibilità di D’Ettore in quando professore a Firenze lui replica. “Sono pronto a sospendermi per 5 anni dall’incarico, ma anche a dimettermi”. La terna è questa. Nuovo Garante dei detenuti il meloniano Felice Maurizio D’Ettore. Con lui l’avvocata romana Irma Conti, indicata dalla Lega. E ancora il civilista Mario Serio in quota opposizione. Fratelli d’Italia sta per occupare un’altra poltrona strategica non solo per le carceri, ma in questo momento soprattutto per i migranti. I tre nomi sono già a palazzo Chigi, pronti per essere approvati dal Consiglio dei ministri. Sono i tre che per i prossimi ben sette anni dirigeranno l’ufficio del “Garante dei diritti delle persone private della libertà personale”. Un nome voluto dall’attuale Garante, il matematico e giurista Mauro Palma, in carica dal 2016, che lo ha preferito alla dizione incompleta di Garante dei detenuti, perché non rispecchia neppure i compiti di un ufficio che si occupa non solo delle carceri, ma anche dei luoghi di polizia, dei centri di permanenza per il rimpatrio, delle residenze per gli anziani e di quelle per l’esecuzione delle misure di sicurezza, nonché dei trattamenti sanitari obbligatori. E proprio in questo momento strategico per i migranti, e mentre Palma prosegue le sue infaticabili visite, serve un uomo di partito. Che è in stretto contatto con il sottosegretario meloniano alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Ed ecco confermata dunque l’indiscrezione data da Repubblica a fine luglio. Quando era stato il Guardasigilli Carlo Nordio a portare al presidente della Repubblica Sergio Mattarella la terna che vedeva al vertice Felice Maurizio D’Ettore, docente di diritto privato a Firenze, nonché deputato di Forza Italia, poi passato a Coraggio Italia, e infine, non candidato alle ultime politiche, divenuto fan di FdI. Proprio sul suo nome s’incaglia la nomina, perché D’Ettore, come denuncia subito la dem Debora Serracchiani, non potrebbe fare il Garante perché la legge che ha istituito questo ufficio parla di carica incompatibile per chi è già un dipendente della Pubblica amministrazione. Proprio come nel caso di D’Ettore. Non ci sono problemi invece per Mario Serio, ordinario di diritto comparato a Palermo, ex consigliere del Csm nella consiliatura 1998-2002, nonché avvocato protagonista dell’appassionata difesa della pm siciliana Alessia Sinatra, vittima delle avance dell’ex procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. Le indiscrezioni raccontano che il suo nome sia stato fatto con calore dall’ex pm Roberto Scarpinato, oggi senatore di M5S. A luglio il terzo nome era quello di Carmine Antonio Esposito, ex presidente del tribunale di sorveglianza di Perugia e poi di Napoli, e poi consigliere comunale a Brusciano giusto nelle file dei meloniani. Ma evidentemente la sua età avanzata, siamo sugli ottant’anni, dev’essere stata giudicata poco congrua per un lavoro “sul campo”. E poi mancava decisamente una donna, visto che nell’attuale vertice del Garante ce ne sono ben due, la vice Daniela de Robert ed Emilia Rossi. Ed ecco allora il terzo nome in quota Lega, l’avvocata Irma Conti, che sfoggia un ampio curriculum, cavaliere della Repubblica “per la sua lotta a favore delle donne” e vice presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma. Tutto a posto dunque? Pare ancora di no. Perché, come diceva Serracchiani, il meloniano D’Ettore - che per la cronaca passa con FdI giusto dieci giorni prima delle elezioni dell’anno scorso quando non ha altre chance per ritornare in Parlamento - non ha le carte in regola. Proprio questo ha bloccato la sua nomina a luglio. Come professore universitario è incompatibile con le regole del Garante. Ma lui avrebbe già assicurato che non solo è pronto a sospendersi dall’incarico con l’obbligo di stare fuori per cinque anni, ma se questo non dovesse bastare ha detto che “è pronto anche a dimettersi dall’università”. Resta il rammarico che siano caduti nel vuoto gli appelli per affidare l’incarico di Garante a Rita Bernardini, la leader di Nessuno tocchi Caino, per anni accanto a Marco Pannella nelle battaglie per un carcere giusto, che lo stesso Nordio, all’inizio del suo dicastero, avrebbe ipotizzato come la persona giusta a succedere all’attuale Garante. Ma evidentemente sia la situazione delle carceri, in cui proseguono purtroppo i suicidi, dove ci sono ancora una trentina di mamme con i bambini al seguito, dove tanti diritti sono negati, nonché soprattutto l’attuale stretta sui migranti, richiedono un uomo di partito, obbediente ai comandi. C’è un giro di vite che è senza fine. Ma le carceri sono piene di emarginati di Franco Adriano Italia Oggi, 22 settembre 2023 Dopo i rave party, le pene più severe per i piromani, per il reato di istigazione sul web, per il reato di gestazione per altri, per le violenze al personale scolastico, mercoledì il reato di omicidio nautico, equiparato a quello stradale, è entrato nell’ordinamento italiano. Il testo diventato legge, pressoché all’unanimità, era di iniziativa parlamentare, ma come per le precedenti iniziative di natura governativa relative all’inasprimento delle pene, è stato sospinto dall’onda emozionale della cronaca. In questo caso, la tragedia di Umberto Garzarella e Greta Nedrotti travolti e uccisi nel 2021 da un motoscafo sul lago di Garda. Ora, più a mente fredda, e senza infierire sugli insignificanti effetti deterrenti sulla realtà che hanno avuto il cosiddetto Codice Rosso sui femminicidi del 2020 oppure la più recente stretta per l’immigrazione clandestina, si può osservare quanto sia vera la vulgata che tanto a pagare sono sempre e soltanto gli stessi. Triste affermarlo, ma dietro le sbarre ci finiscono e ci restano soltanto i poveracci. L’Associazione Antigone ha toccato un tema scabroso, ripreso quasi da nessuno, sul fatto che le carceri italiane sono popolate quasi esclusivamente da immigrati e meridionali. Al 30 giugno ‘23 il 45 per cento dei carcerati proviene dalle regioni Calabria, Campania, Puglia e Sicilia mentre il 35 per cento sono immigrati. Lungi l’idea razzista che le due categorie abbiano una più spiccata indole naturale criminale, di certo tutti costoro godono di redditi bassi o assenti nonché di scarsa educazione: il carcere non da oggi è il riflesso dell’emarginazione sociale. Resta da capire perché il legislatore si dà tanta pena per prevedere sulla carta ancora la detenzione forzata come soluzione a tutti i mali. Cos’è la giustizia riparativa e perché il reinserimento del killer di Carol Maltesi non è uno sconto di pena di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 22 settembre 2023 Davide Fontana, condannato a 30 anni, potrebbe accedere al programma introdotto dalla riforma Cartabia nel 2021. È il primo caso in Italia per reati di questo tipo. C’è un triplo equivoco attorno all’invio al Centro per la Giustizia Riparativa e la Mediazione Penale del Comune di Milano della richiesta di Davide Fontana, l’uomo condannato in primo grado a 30 anni a Busto Arsizio per aver accoltellato e fatto a pezzi l’ex compagna Carol Maltesi. Il primo é che non comporta alcun premio, sconto o beneficio processuale o carcerario. Il secondo é che neanche si sa se a uno di questi programmi di giustizia riparativa, introdotti nel 2021 dalla legge che porta il nome della ex presidente della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia Marta Cartabia, l’uomo potrà essere ammesso, essendo sinora stata autorizzata dai giudici soltanto la sottoposizione della sua richiesta a uno dei Centri previsti dalla legge e finanziati in Lombardia dalla Regione. Il terzo e principale equivoco è che questi programmi di giustizia riparativa concettualmente non hanno tanto come nocciolo la relazione tra l’autore del reato e la vittima o i suoi familiari, ma tra l’autore del reato e la società che é stata lacerata dal reato. Non sono cioè una sorta di “aggiustamento privato” tra il reo e le sue vittime, non puntano a un loro (ri)abbraccio oscenamente posticcio o peggio ancora a una forzata riappacificazione, ma a un rapporto tra l’assassino e la generalità dei cittadini in vista di una rinnovata sicurezza e rispetto sociali. Il baricentro sta sullo strappo violento alla convivenza civile, sulle conseguenze devastanti arrecate alla società dal reato, sul conflitto con la comunità generato dall’autore del reato. La persona - sia che sia già stata condannata come in questo caso in primo grado, sia che sia ancora in attesa di processo - può proporre ai giudici l’istanza di ammissione al “programma di giustizia riparativa ritenuto più idoneo”. Il giudice non decide che ha senso fare questo programma, ma decide solo che la richiesta di ammissione può essere inviata a uno dei Centri previsti dalla legge, i cui mediatori specializzati valuteranno poi se il programma é fattibile, e (se sì) quale contenuto debba provare ad avere. La legge non pone preclusioni sul tipo o sulla gravità del reato commesso, ma raccomanda al giudice una valutazione in concreto, caso per caso: ed ecco perché, sebbene ovviamente sia in prospettiva più frequente l’applicazione in vicende di bassa o media gravità, potranno darsi applicazioni (come per la prima volta nella vicenda di Busto Arsizio) persino anche per omicidi. Il giudice in questa fase, cioè per decidere se sia possibile o no l’invio della richiesta, deve a cquisire il parere della vittima o dei suoi familiari (non vincolante, tanto che per esempio nel caso di Busto il legale dei familiari di Carol Maltesi aveva riferito che essi non vogliono avere alcun contatto con l’assassino), e poi deve solo valutare due condizioni di legge: “che lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede”, e “che non comporti un pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti”. Se l’invio della richiesta della persona viene autorizzato dal giudice, tocca poi al Centro soppesarne la fattibilità e l’eventuale contenuto. In generale, specie per i piccoli reati, l’istituto più comune é la mediazione attraverso l’incontro diretto (guidato appunto dai mediatori) fra l’autore del reato e le vittime, ma questo non é l’unico istituto possibile. Esiste ad esempio anche il dialogo riparativo a partecipazione allargata, che va oltre il rapporto bilaterale tra reo e vittime, ma cerca di far dialogare chi ha commesso il reato con la comunità il cui tessuto é stato lacerato dal reato. E nella legge il concetto di comunità racchiude non soltanto (se lo desiderano) i familiari della vittima, ma anche persone che la conoscevano, amici dell’una o dell’altro, persone che anche in altri contesti si siano però magari trovate nella stessa condizione delle vittime di quel reato, associazioni rappresentative degli interessi colpiti dal reato, ed eventualmente anche rappresentanti di enti pubblici e autorità, “oltre - aggiunge la legge - che chiunque vi abbia interesse”. In questo dialogo allargato, infatti, la finalità è promuovere la possibilità che il reo percepisca e riconosca l’impatto che il male che ha fatto ha avuto anche sulla collettività oltre che sulla vittima, fino magari a ripristinare il violato patto di cittadinanza impegnandosi in visibili forme di riparazione a favore della collettività. Alla fine non c’è alcuno sconto. Se la persona viene ammessa al programma, e se il programma ha qualche buon effetto, l’unico punto di contatto con la dimensione giudiziaria del reo è che la relazione che racconta questo percorso viene trasmessa per legge ai giudici. Giustizia riparativa: così si mette freno a monetizzazione e “vittimocrazia” di Valentina Alberta* Il Dubbio, 22 settembre 2023 Mi fa piacere avere la possibilità di replicare agli argomenti sempre stimolanti del prof. Mazza, che dal primo momento dell’approvazione della legge delega si è schierato pubblicamente contro la disciplina della giustizia riparativa. Inizio proprio da questo, quella “disciplina”, organica e attenta alle garanzie di tutti, di un fenomeno che già esiste e che opera e si sviluppa al di fuori del sistema processuale; ma che - inevitabilmente, vista la struttura del nostro sistema processuale penale, che implica anche nella fase di cognizione una valutazione della persona - ha inevitabili punti di contatto con il processo e necessita quindi di norme che regolino la riservatezza dell’ambito riparativo, l’esclusione di effetti negativi nel processo nel caso di mancato raggiungimento di un accordo, le possibili interferenze legate al momento di avvio e di chiusura del programma di giustizia riparativa. Che la giustizia riparativa abbia in sé una connotazione “etica” è frutto di un colossale equivoco. I centri per la giustizia riparativa sono pubblici e gratuiti, e i mediatori altro non fanno che stimolare il dialogo tra i soggetti coinvolti, senza ricercare una qualsiasi verità, né tantomeno il perdono della vittima. Scopo dei programmi non è l’ottenimento della “confessione” bensì il dialogo e semmai il raggiungimento di un accordo riparativo. E qui sta un elemento centrale che mi pare sia sottovalutato dai detrattori della giustizia riparativa. L’accordo altro non è che una strada percorribile per tutti coloro che lo vogliano (e soprattutto per chi non possa permettersi di guadagnare attenuanti attraverso condotte risarcitorie) per valorizzare una condotta post fatto che - come tante altre - ha diritto di cittadinanza nel processo penale. Nessun “abbandono del principio di laicità”, semmai una disciplina che mette al bando, soprattutto nella fase di esecuzione, un distorto concetto di valorizzazione di attività a favore della vittima, che caratterizza talvolta progetti moraleggianti proposti negli istituti penitenziari. La vittima, anzi, trova una naturale sede di ascolto in quell’ambito separato e riservato; non posso non auspicare che tale sede possa smorzare atteggiamenti talvolta violenti di frustrazione di aspettative mal riposte nella condanna e nella sanzione penale, spesso inutili per guarire ferite profonde. Veniamo ai passaggi processuali: non un azzeramento delle garanzie, ma più garanzie. Sia in fase di cognizione che in fase di esecuzione. Fondamentali il principio di riservatezza e la non incidenza in negativo statuita in modo chiaro per entrambi gli ambiti. Alcuni punti fortemente critici ci sono: il p. m. come autorità giudiziaria inviante in fase di indagini (perché non avrebbe potuto essere il g. i. p.?); l’invio anche di ufficio (difficile però ipotizzare in concreto inutili invii “forzosi” rispetto alla continua ricerca di efficienza del processo); la possibilità di un consenso all’utilizzazione di dichiarazioni rese in fase di mediazione, senza che esso sia garantito dall’assistenza difensiva (l’avvocato non partecipa certo alle intime sedute di mediazione, ma partecipa invece a pieno titolo nella fase di acquisizione del consenso iniziale e in quella della eventuale definizione di accordi patrimoniali); l’incertezza sul contenuto potenzialmente pericoloso di relazione e comunicazioni (e su questo il dialogo e il confronto con i Centri sarà prezioso). Di tutto questo e di tanto altro abbiamo discusso al tavolo milanese, e continueremo a farlo, ogni sei mesi. Non lo definiremmo un approccio “acritico”. Peraltro, a proposito dell’invio di ufficio e della presunta perdita di imparzialità del giudice, sia permessa un’osservazione pragmatica, che non ci fa certo abdicare dalla sacrosanta difesa dei principi. Non possiamo ignorare la prassi molto diffusa nel caso di reati perseguibili a querela di parte, nei cui procedimenti assistiamo a costanti inviti alla trattativa, che - solo perché avente ad oggetto denaro anziché relazioni umane - paiono non preoccupare…. Quanto alla questione del “consolidato modello di procedura penale circondariale”, mi sento di rassicurare l’amico prof. Mazza. Nessuna rinuncia alla legalità processuale. Gli “schemi operativi” (ormai si teme di usare il termine “protocollo” per una certa cattiva coscienza rispetto a tavoli nei quali in effetti si sono talvolta conclusi accordi al ribasso con la magistratura) non derogano alle norme (né le interpretano), non introducono obblighi, ma si limitano ad individuare e diffondere prassi condivise che vengono suggerite agli operatori, allo scopo di fare funzionare strumenti certamente utili, per le tante ragioni che non è questa la sede per spiegare. Peraltro, costituiscono impagabili occasioni di confronto che, se condotto su posizioni paritarie e senza timori reverenziali, hanno il pregio di prevenire quelle prassi che i detrattori della giustizia riparativa giustamente paventano. Non è una strada facile, ma ci proveremo. *Presidente Camera Penale Milano Intercettazioni, l’asse Forza Italia-Costa segna un punto di Simona Musco Il Dubbio, 22 settembre 2023 I forzisti cedono sulla retroattività, ma ottengono il sì ad altre modifiche. Opposizioni all’attacco, il M5S: “Giustizia classista che salva i colletti bianchi e penalizza il diritto alla difesa”. Piegarsi ai diktat? Sì, ma portando a casa il risultato. Lo scontro interno alla maggioranza, destinato a deflagrare, si chiude - per il momento - con il passo indietro di Forza Italia sulla retroattività, con l’accantonamento, mercoledì sera, degli emendamenti sul decreto che estende l’utilizzo delle intercettazioni. Ma nel tabellone dei risultati gli azzurri possono segnare in positivo l’approvazione di ben cinque altre proposte sulle intercettazioni, nonché la promessa di una riforma più ampia sull’utilizzo dei trojan. I deputati di FI ieri, sono infatti tornati alla carica, con la riscrittura delle proposte stralciate il giorno prima e la loro approvazione nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, dove si è concluso il voto sugli emendanti al decreto Omnibus sulla giustizia. Il cedimento sulla retroattività, invece, è stato digerito grazie all’impegno, garantito dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, di presentare, a stretto giro, una proposta che rielabora l’utilizzo delle intercettazioni e dei mezzi di captazione come i trojan, in un modo adeguato. Che le cose siano andate così lo conferma, di fatto, il capogruppo di FI alla Camera, Paolo Barelli: “Abbiamo aderito a espungere alcuni emendamenti potenzialmente individuabili come intralcio a una riforma più complessa, che il ministro Nordio ha dichiarato di voler presentare a breve in Parlamento - ha detto -. Quando riteniamo che sia corretto e possibile fare un passo indietro lo facciamo, ma siamo saldi sui nostri principi, a partire da un garantismo che sia utile a combattere l’illegalità”. C’è insomma una certa aria di soddisfazione, tra gli azzurri. “Non ci siamo affatto piegati”, fa sapere una fonte forzista, che rivendica la scelta “strategica” di calmare le acque, anche dopo la mossa di Pier Antonio Zanettin in commissione Giustizia al Senato, dove, nell’ambito del via libera alla relazione relativa all’indagine conoscitiva sulle intercettazioni, ha chiesto e ottenuto un “supplemento di riflessione” proprio sull’uso dei trojan nei reati contro la Pa. Una relazione con la quale la presidente Giulia Buongiorno punta a indicare la strada al governo, ribadendo l’irrinunciabilità delle intercettazioni, fondamentali nella lotta alla mafia, nel tentativo di arginare le incursioni di FI. Ma come detto, alla Camera, i berlusconiani sono riusciti a ottenere, al netto del passo indietro sul nodo retroattività, una significativa correzione in senso garantista sulle intercettazioni. Così, con la riformulazione del governo degli emendamenti di Tommaso Calderone, capogruppo di FI in commissione Giustizia, si punta innanzitutto a far trascrivere, anche sommariamente, “soltanto il contenuto delle comunicazioni intercettate rilevante per le indagini, anche a favore della persona sottoposta ad indagine”, mente i contenuti non rilevanti ai fini delle indagini “non sono trascritti neppure sommariamente e nessuna menzione ne viene riportata nei verbali e nelle annotazioni della polizia giudiziaria, con l’espressa dicitura che la conversazione omessa non è utile alle indagini”. Viene introdotto il divieto di trascrivere conversazioni personali, che non abbiano alcuna attinenza col processo. Approvata anche la limitazione delle intercettazioni “a strascico” ai reati più gravi come mafia e terrorismo, per i quali è previsto l’arresto in flagranza, lasciando fuori quelli contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista una pena non inferiore nel massimo a cinque anni. E ancora, Forza Italia ha ottenuto il sì dell’intera maggioranza anche sull’emendamento che mette al bando le ordinanze “copia e incolla” dei gip, i quali, spiega Calderone, “dovranno motivare il via libera alle intercettazioni in modo autonomo rispetto alle motivazioni contenute nella richiesta della Procura”. Sono modifiche che, spiega il capogruppo Giustizia degli azzurri, “forse non realizzano da sole una rivoluzione copernicana, ma rappresentano un primo passo. È un risultato per il quale ringrazio il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto e, tra i diversi colleghi, l’onorevole Annarita Patriarca”. Il Dl Giustizia arriverà a Montecitorio martedì e, a quanto pare, il governo è orientato a porre la questione di fiducia. Tra le proposte “garantiste” passa anche un emendamento a firma Enrico Costa (Azione), in base al quale il pm dovrà indicare per iscritto quanto ha speso per ogni intercettazione. “Nel foglio delle notizie” che deve redigere il pm, si legge nella proposta, “deve essere specificamente annotato l’importo delle spese relative alle intercettazioni”. Nel 2023, ha evidenziato Costa, “il costo delle intercettazioni ammonterà a 213 milioni di euro. Un’enormità. Oltre 120mila bersagli intercettati all’anno. Ogni intercettato ha in media tra telefonate e messaggi 26 contatti al giorno. E le captazioni durano in media 50 giorni. Il conto è presto fatto: oltre 150 milioni di conversazioni intercettate ogni anno. È giusto, inchiesta per inchiesta, sapere quanto si è speso e quante intercettazioni sono state effettuate”. Insomma, in maggioranza tutti possono dirsi vincitori, compresa Giorgia Meloni, che ha esaudito le richieste di Giovanni Melillo, capo della Dna, e dei procuratori antimafia. Ma dagli scranni dell’opposizione parte l’attacco, con deputati e senatori del M5S convinti che non si tratti di garantismo, ma di un salva-colletti bianchi. “Quelli del centrodestra sono classisti presi solo dalla foga di intralciare i processi - affermano Stefania Ascari, Anna Bilotti, Federico Cafiero de Raho, Valentina D’Orso, Carla Giuliano, Ada Lopreiato e Roberto Scarpinato -. Sono talmente interessati solo a occultare, che arrivano persino a calpestare i diritti della difesa e quindi degli indagati”. Ridurre le trascrizioni, secondo i grillini, rappresenta infatti “un grave vulnus proprio per la difesa”, dal momento che “gli avvocati non hanno diritto a ottenere copia delle intercettazioni ritenute non rilevanti”, unica “bussola per orientarsi nel mare magnum di elementi disponibili e individuare possibili conversazioni utili per il loro lavoro difensivo. In questo modo si assegna un potere esclusivo alle forze di polizia e al pm”. È un’obiezione a cui Calderone replica che “già ora la polizia ha un potere assoluto”. D’altra parte i 5S attaccano, più che sul diritto di difesa, sul presunto salvacondotto che gli emendamenti azzurri garantirebbero ai “comitati d’affari che lucrano con la corruzione”. E vanno all’offensiva anche i deputati del Pd, che hanno chiesto, senza ottenere risposta, se la nuova norma si applica solamente ai procedimenti in corso per le intercettazioni non ancora disposte, determinando l’inutilizzabilità di quelle già autorizzate, “con evidenti e gravi ricadute sui procedimenti in corso”, hanno evidenziato Federico Gianassi, capogruppo in Commissione Giustizia, e la deputata Debora Serracchiani. Il decreto, dunque, rischierebbe di essere un “clamoroso boomerang”, hanno affermato, in quanto la norma così formulata stabilisce, di fatto, “che tutte le intercettazioni disposte nei procedimenti in corso prima dell’entrata in vigore del decreto non sono utilizzabili. E non basta aver previsto che la nuova legge si applichi anche ai procedimenti in corso, perché se con ciò si intendesse che si applica anche alle intercettazioni già disposte prima dell’entrata in vigore vi sarebbe un conflitto di costituzionalità”. Giustizia, paletti alle intercettazioni: stop per quelle “a strascico” e “irrilevanti” di Liana Milella La Repubblica, 22 settembre 2023 Lo scontro nella maggioranza finirà con la fiducia alla Camera. Accolti alcuni emendamenti di FI. Polemiche da Pd e M5S: “Danneggiato il diritto di difesa”. Finisce con la fiducia alla Camera lo scontro sulle intercettazioni. Forza Italia incassa “solo” alcuni emendamenti, che però “ledono il diritto di difesa” secondo M5S, e rischiano pure di finire sul banco della Consulta secondo il Pd perché è “incostituzionale” sanare adesso ascolti per reati già sotto inchiesta. Era proprio questa la tesi di Forza Italia e Azione, ma entrambi hanno dovuto cedere al sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro che ha ribadito la linea della premier Giorgia Meloni sul decreto annunciato alla vigilia dell’anniversario Borsellino. Quel decreto omnibus, approvato il 10 agosto, che nei due primi articoli contiene le norme sulle intercettazioni, ha richiesto adesso ore di litigioso confronto nella sala del Mappamondo della Camera. Il decreto stabiliva - proprio come ha chiesto il procuratore nazionale Antimafia Gianni Melillo, che lo ha ribadito in audizione davanti ai deputati due settimane fa - che non vi è differenza tra gli ascolti chiesti per i reati propriamente di mafia e quelli commessi con il “metodo mafioso”. Giusto come aveva già stabilito la sentenza Scurato delle Sezioni unite della Cassazione del 2016, la cui valenza, da allora fuori discussione, era stata “incrinata” dalla decisione di una sezione “semplice” della stessa Cassazione, che aveva escluso l’applicazione anche ai delitti commessi con “il metodo mafioso”. Il decreto del governo ripristina proprio la sentenza Scurato e quindi “salva” non solo i processi futuri, ma anche quelli precedenti grazie a una norma transitoria. Proprio questa norma è stata l’oggetto dello scontro. Forza Italia e Azione volevano abolirla - è incostituzionale dicevano - ma hanno perso. Ha prevalso la volontà del governo, ribadita con nettezza nella sala del Mappamondo. Il Pd però, con Debora Serracchiani e Federico Gianassi, ha contestato la strada seguita perché questa sanatoria successiva rischia di infrangersi sull’incostituzionalità. Serracchiani ironizza e si chiede “ma dov’è Nordio?”. Ma la maggioranza va avanti. E conta già di mettere la fiducia martedì prossimo visto che il decreto dev’essere convertito entro il 9 ottobre e deve ancora passare al Senato. Ma proprio il decreto è stato l’occasione per un violento scatenamento contro le intercettazioni, in cui tutto il malcontento di Forza Italia e Azione è venuto allo scoperto. Contro la Lega, che nel frattempo con Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia del Senato, ha approvato un’ampia relazione proprio sugli ascolti, che mette in evidenza i punti critici, ma le definisce “irrinunciabili”, peraltro approvata da tutta la maggioranza. E anche contro Fratelli d’Italia che, con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, ha sostenuto la piena correttezza del decreto e la necessità di non ledere uno strumento fondamentale per le indagini come gli ascolti. Quindi garanzie sì, ma cum grano salis. Ma gli emendamenti già passati alla Camera tra FI e Azione - mentre Lega e FdI non ne hanno presentati - già fanno “danni”. Ad esempio come quello sul divieto di trascrivere le intercettazioni cosiddette “irrilevanti”, che scatena le durissime proteste di M5S, che con l’ex procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho e l’ex pm di Palermo Roberto Scarpinato, definiscono il centrodestra “non garantista, ma classista e preso solo dalla foga di intralciare i processi, al punto da calpestare perfino i diritti della difesa e quindi degli indagati”. Secondo loro “impedire la trascrizione anche sommaria delle intercettazioni non rilevanti è un grave vulnus proprio per la difesa degli indagati”, perché gli avvocati potranno solo ascoltare, “ma è impossibile ascoltare centinaia o migliaia di ore di intercettazioni”. Secondo M5S, in questo modo “si assegna un potere esclusivo alle forze di polizia e al pm”. Non solo ma “la norma è priva di logica perché i brogliacci sono custoditi nell’archivio digitale e sono coperti dal segreto di ufficio”. Ma non basta. Perché passa anche l’emendamento di FI sulle cosiddette intercettazioni “a strascico”, ammesse in un procedimento per un determinato reato, ma poi utilizzate anche per altri ovviamente se sono la prova di un reato. Si torna alla sentenza Cavallo della Cassazione del 2020 che già metteva dei paletti. Adesso sarà possibile usarle solo se riguardano mafia e terrorismo. Dal Senato plaude il capogruppo forzista Pierantonio Zanettin, correlatore con Bongiorno della relazione sulle intercettazioni, che aveva fatto modificare proprio con un emendamento sul ritorno alla “sentenza Cavallo”. E adesso dichiara di “essere molto soddisfatto per l’intervento sulle intercettazioni a strascico, che saranno finalmente limitate solo ai reati più gravi”. Fin troppo evidenti le conseguenze, saranno buttate via intercettazioni che comunque rivelano l’esistenza di un reato. All’insegna del garantismo anche la proposta di Enrico Costa che obbliga il pubblico ministero, a fine inchiesta, a fare “il conto” di quanto ha speso per intercettare. Non passano invece i suoi emendamenti sul Trojan che non va usato “nei luoghi di privata dimora”, a meno che non si tratti di scoprire reati gravi e gravissimi. Né quello contro l’applicazione del decreto anche ai reati già commessi. Proprio Costa polemizza a distanza con Giulia Bongiorno: “Si sta ripetendo lo schema del 2011, con gli stessi protagonisti e temo con lo stesso esito. Andatevi a vedere chi era la presidente della commissione Giustizia della Camera all’epoca, chi erano i parlamentari che sostenevano la riforma di Berlusconi sulle intercettazioni e come andò a finire…”. Finì che proprio grazie alla Bongiorno, allora al vertice della commissione Giustizia, fu evitato il “bavaglio” alla stampa. Quelle norme sull’omicidio nautico sono solo propaganda di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 22 settembre 2023 E così abbiamo anche il nuovo reato di “omicidio nautico”. Unanimità di fatto della Camera (268 si, un contrario e due astenuti), dopo l’analogo voto del Senato nello scorso febbraio. È nato, a sette anni di distanza, il fratellino gemello dell’omicidio stradale. Oggi come allora, con grandi fanfare di opinione pubblica, raccolta di firme, e il Parlamento, incapace di una vera politica di prevenzione, pronto a stipare il codice penale fino all’inflazione per numero di reati. Che invece andrebbero sfoltiti. Eccola qui la nuova versione dell’articolo 589 bis: “Chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o della navigazione marittima o interna è punito con la reclusione da due a sette anni”. Si estendono poi all’omicidio nautico le aggravanti già previste per il gemellino sugli incidenti stradali. Pena da otto a dodici anni, per esempio, per guida in stato di alterazione da alcol o sostanze psicotrope. Ancora una volta ha prevalso l’emotività, e soprattutto l’incapacità di mettere in atto buona amministrazione e efficaci campagne di prevenzione, onde evitare, tra l’altro, di consegnare sempre nelle mani dei magistrati la soluzione di problemi sociali. Il governo Meloni, il ministro Nordio e anche l’intero Parlamento sono cascati nella trappola di legiferare sulla scia del fatto di cronaca che suscita emozione e indignazione, una combinazione micidiale. Come la tragica morte di Greta Nedrotti e Umberto Garzanella due anni fa nel golfo di Salò. Per quel fatto sono stati già condannati in primo grado per omicidio colposo due turisti tedeschi, Christian Teissman e Patrich Kassen, rispettivamente a due anni e undici mesi e quattro anni e mezzo. Con la legge esistente, che prevede la pena massima di cinque anni. I due sono in attesa dell’appello, il prossimo 20 ottobre. In Parlamento si è detto che la nuova legge è dedicata alle due vittime di quel giorno. Il che non ha molto senso. Che cosa sarebbe cambiato, infatti, se quando è stato celebrato il primo grado di quel processo ci fosse già stata la nuova norma? Forse un aumento di pena? Sei mesi in più, un anno in più di carcere? E questo dovrebbe dare soddisfazione, nella funzione retributiva della pena? Ma non dovremmo invece aspettarci un intervento che abbia la capacità di dissuadere dalla commissione dei reati? Siamo al cospetto di delitti colposi, e pensiamo che, salvo i casi di attentati terroristici, nessuno si metta al volante di un’auto o un motoscafo con l’intenzione di uccidere. Quello che si dovrebbe fare è intervenire sulle cause di questi incidenti. Le statistiche ci dicono che il primo e più diffuso motivo è quello della distrazione, per esempio per l’uso di smartphone. Il secondo è il mancato rispetto della precedenza e il terzo è la velocità. Poi ci sono le aggravanti, prima di tutto quella di essersi messi al volante dopo l’assunzione di alcol o di sostanze psicotrope. Sono violazioni che in parte possono riguardare anche le regole del mare. Secondo l’accusa i due cittadini tedeschi che investirono i due giovani sul lago Maggiore erano ubriachi, loro lo hanno sempre negato. Vedremo se sarà loro applicata comunque l’aggravante. Ma i fautori del nuovo reato sono sicuri del fatto che da domani ci sarà una corsa alla consultazione del codice penale per verificare le nuove pene previste prima di mettersi alla guida di qualunque imbarcazione? Basterebbe guardare i dati sugli incidenti stradali degli ultimi anni, per constatare come la politica muscolare riduca i risultati a veri pugni di mosche. Prendiamo quel che ci dice l’Istat sugli ultimi numeri disponibili, quelli del 2021: 2.871 morti sulle strade (più 20% rispetto all’anno precedente), 204.728 feriti (più 28,6%) e complessivamente 151.875 incidenti stradali (più 28,4%). È vero che erano gli anni dell’epidemia da Covid e che c’è stato anche il lockdown. Ma è certo che non c’è stata l’attesa diminuzione degli incidenti e dei morti. Perché mai, ce lo dicono le statistiche non solo italiane, l’aumento delle pene ha prodotto la diminuzione dei reati. Pare che, secondo i sondaggi svolti tra i più giovani, abbia spaventato maggiormente la riforma Lunardi sulla patente a punti che non la nuova norma penale. Perché si tratta di un intervento concreto, la perdita di punti, che non favoleggia di ipotesi future e astratte di carcere, ma di un danno immediato sulla possibilità di mettersi ancora al volante. Così siamo di nuovo davanti a un provvedimento utile solo a far vedere che qualcosa si fa, che chi ci governa non è insensibile davanti al dolore di chi ha subito una disgrazia per responsabilità di altri. Un vecchio principio liberale dice che le regole e le norme dovrebbero essere poche, chiare e applicate. Il compianto professor Giandomenico Pisapia, docente di procedura penale all’Università statale di Milano, amava dire che in Inghilterra, se nevica, si prende lo spazzaneve, in Italia si fa una legge speciale. Lo diceva sessant’anni fa. E ora ci risiamo, siamo ancora fermi lì. Esiste qualche parlamentare, o qualche membro del governo, o magari lo stesso Nordio o la stessa Meloni, che vogliano riflettere un attimo su questo? La sfida della Corte: salvare il processo Regeni e le garanzie di Valentina Stella Il Dubbio, 22 settembre 2023 La Consulta si trova in una posizione delicatissima sul caso del ricercatore ucciso in Egitto: dare il via libera ai pm potrebbe creare un vulnus. Ieri i giudici della Corte costituzionale, riuniti in Camera di Consiglio, avrebbero dovuto decidere se il processo per la morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso in Egitto nel 2016, si sarebbe potuto celebrare pur in assenza degli imputati. Ma la questione è talmente delicata che non sono riusciti ancora a formulare una sentenza e dovranno riunirsi nuovamente nei prossimi giorni. La difficoltà è quella di bilanciare il diritto della famiglia Regeni ad un giusto processo, l’obbligatorietà dell’azione penale del pubblico ministero italiano, e la tutela degli imputati. Che sono quattro 007 egiziani: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati a vario titolo di sequestro di persona pluriaggravato, lesioni aggravate e concorso in omicidio aggravato. I militari non hanno mai comunicato i loro indirizzi, necessari a inviare la notifica del procedimento in corso. Dunque sul tavolo dei giudici c’è l’articolo “420 bis, commi 2 e 3, cpp nella parte in cui non prevedono, rispettivamente, che il giudice procede in assenza dell’imputato, anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dell’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato e che il giudice procede in assenza dell’imputato anche fuori dei casi di cui ai commi 1 e 2, quando ritiene provato che la mancata conoscenza della pendenza del procedimento dipende dalla mancata assistenza o dal rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato”. La questione è stata sollevata qualche mese dal gip di Roma Ranazzi e “riguarda la volontà dello Stato egiziano di sottrarre i quattro imputati al nostro processo, ma non è tale da far ritenere provata la volontà dei quattro imputati di sottrarsi al processo”. Secondo il tribunale di Roma la norma attuale che di fatto impone uno stallo al processo potrebbe non essere in linea con gli articoli 2, 3, 24, 111, 112, 117 della Costituzione, con la Convenzione Onu contro la tortura (ratificata dall’Egitto nell’86) e con la direttiva Ue in materia di tutela delle vittime di reato. Non possiamo essere nella testa dei giudici della Consulta, possiamo solo immaginare che anche loro vogliano che il processo per la morte di Giulio Regeni si faccia. Il problema è trovare una strada, senza squilibrare il sistema italiano vigente e senza porsi in contrasto con la giurisprudenza sovranazionale. Vediamo perché. L’accertamento prima e il superamento poi della lacuna nel nostro codice di rito potrebbe passare attraverso una sentenza additiva che inserisca nell’articolo 420-bis comma 3 una nuova eccezione, quale quella della mancata collaborazione dello Stato estero. Tuttavia, come ricorda sulla rivista Sistema Penale la professoressa Serena Quattrocolo, ordinario di diritto processuale penale nell’Università del Piemonte Orientale, in Italia “il processo si instaura e celebra solo nei confronti di: a) coloro che ne abbiano avuto effettiva conoscenza, b) del latitante, o c) di chi si sia volontariamente sottratto alla conoscenza degli atti dello stesso. Una impostazione, questa, che risponde ai parametri del “convenzionalmente necessario”, in cui si realizzano i canoni della conoscenza effettiva e della volontarietà dell’eventuale scelta astensionistica dell’imputato, da decenni considerati lo “standard minimo” per la compatibilità convenzionale del processo in absentia. Non si vede, invece, come sulla base dei principi costituzionali richiamati, si possa ritenere necessaria la previsione di legittima declaratoria di assenza e, dunque, la celebrazione del processo, quando l’imputato non abbia avuto effettiva conoscenza della vocatio in ius (luogo, giorno, ora nonché imputazione, ndr), a causa di un comportamento negligente dello Stato di cittadinanza o residenza rispetto ad un obbligo di cooperazione giudiziaria”. Come spiega anche il professor Giorgio Spangher, emerito di procedura penale, “mentre le due situazioni delineate dalla norma fanno riferimento a precisi comportamenti volontari dell’imputato (latitanza e volontaria sottrazione al processo), la decisione additiva si riferisce ad attività di terzi alle quali i soggetti, mancando elementi in senso contrario, sono estranei”. Inoltre “la questione di legittimità costituzionale rischia di abbassare le garanzie e consentirebbe letture al ribasso di “ogni altra circostanza rilevante”, essendo piuttosto larga la lettura che sarebbe possibile applicare al soggetto assente per giustificarne la mancata partecipazione al processo”. In pratica creata una eccezione per questo caso, se ne potrebbero creare altre in futuro per circostanze diverse. A ciò si aggiunge che se la Corte costituzionale formulasse la soluzione manipolativa additiva significherebbe aprire una breccia nel contrafforte garantistico del principio della effettiva conoscenza della pendenza del processo, scegliendo così di procedere sempre nei confronti di imputati stranieri ignari delle accuse e del processo a proprio carico, solo perché lo Stato di residenza non ha voluto o (forse, peggio ancora), non ha saputo cercarli e trovarli. Idee antisemite o eversive dell’ordine democratico propalate sui social non sono mai un gioco di ruolo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2023 La gravità della condotta e la sua rilevanza penale sono intimamente connesse alla potenziale diffusività dello strumento. Non passa la tesi difensiva che la diffusione di opinioni razziste o eversive diffuse su un social possa essere “derubricata” a gioco di ruolo “innocuo” a fini di istigazione e propaganda di contenuti contraria ai principi fondamentali dell’ordinamento nazionale o internazionale. La diffusione di siffatti contenuti non è priva di offensività in sé in quanto è aggravata dalla possibilità che siano fruiti da un numero indeterminato di persone. Neanche se lo scambio si fonda su un’iniziale attività riferibile a sole poche persone. Con tale motivazione la Corte di cassazione - con la sentenza n. 38423/2023 - ha respinto il ricorso dell’imputato contro la misura cautelare applicatagli della detenzione in carcere. La misura di massima privazione della libertà personale non era, tra l’altro, giustificata dalla sola notorietà negli ambienti di area neonazista dell’imputato, ma anche dal rinvenimento di armi in suo possesso e all’interno di un covo riferibile al suo ambiente politico dichiaratamente orientato all’eversione e all’antisemitismo. Per quanto larvata la struttura logistica giustificava - vista la presenza di armi - la tesi del Pm secondo il quale fosse sussistente quel pericolo alla base dell’applicazione della misura cautelare personale. L’imputazione è stata quindi ritenuta fondata relativamente a entrambi gli articoli 270 bis (Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico) e 604 bis del Codice penale (Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa). Infatti, integra la condotta di propaganda all’odio razziale l’adesione a una comunità virtuale caratterizzata da vocazione ideologica neonazista, avente tra gli scopi dichiarati l’incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici o religiosi. La condivisione, sulle bacheche di una piattaforma social, di messaggi di chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza, etnia o religione comporta l’elevato pericolo di diffusione di tali contenuti ideologici tra un numero indeterminato di persone derivante dall’algoritmo di funzione dei social network, aumentando il numero di interazioni tra gli utenti attraverso l’inserimento di like e il rilancio di post e dei correlati commenti degli internauti. Servono davvero nuove carceri? Meglio puntare su formazione e misure alternative di Agnese Pellegrini Avvenire, 22 settembre 2023 Gentile direttore, all’indomani dell’ennesimo suicidio in carcere avvenuto a Regina Coeli, mi permetto di esporre il mio pensiero riguardo questa casa circondariale, che sorge nella bellissima zona di Trastevere a Roma. Sono volontaria penitenziaria da sette anni, di cui due trascorsi proprio a Regina Coeli, percorrendone ogni settimana i corridoi. E penso che, nell’attuale discussione sull’ipotesi di chiusura, si guardi il dito, invece che la luna. Le Case circondariali periodicamente tornano all’attenzione dei media per le loro carenze strutturali. Ma c’è un problema di fondo: questi istituti spesso non possono essere ristrutturati, perché la maggior parte di essi è in edifici antichi, quasi sempre sotto vincolo artistico. Penso a Regina Coeli, che nasce in un ex monastero, ma anche a San Vittore a Milano... Se, sorgendo in centro, possono essere parte integrante della città e della società, le difficoltà strutturali - che comunque non di rado esistono anche in case di reclusione più nuove, ricavate nelle periferie - sono imbarazzanti e coinvolgono non soltanto la popolazione detenuta, ma anche tutti coloro che, a vario titolo, in carcere lavorano, operano, svolgono volontariato. Quasi sempre, per noi donne, volontarie o operatrici, trovare un bagno degno di questo nome è un’impresa che ci costringe a cambiare sezione e a percorrere corridoi a non finire... Per non parlare poi di quante insegnanti ho visto rimanere con cappotto, sciarpa e guanti, perché in inverno il freddo ti entra nelle ossa e gestire una lezione in quelle condizioni è davvero terribile. Ma anche i medici e gli infermieri spesso sono costretti a lavorare in condizioni precarie... Quindi il problema non è soltanto dei detenuti, ma anche di chi in carcere trascorre buona parte della giornata, in primis la polizia penitenziaria. Eppure, il problema non è tanto la riqualificazione strutturale dell’edificio, ma la scelta di fondo di che cosa fare del carcere. In questa prospettiva, trovo poco logica anche la proposta sul riutilizzo delle caserme. Le caserme sono altrettanto strutturalmente inadeguate. Di volta involta, vengono opzionate per istituti penitenziari o per alloggi per migranti, magari per i minori non accompagnati... Ma per renderle adeguate a un simile utilizzo occorrerebbe in molti casi un investimento così ingente che varrebbe la pena realizzare edifici nuovi. E qui affiora l’altro aspetto: servono davvero nuove carceri? Ovviamente, chi sbaglia va punito. Tuttavia, i soldi potrebbero essere meglio impiegati destinandoli a interventi educativi e misure alternative. Ad esempio, si potrebbero acquistare braccialetti elettronici, di cui c’è sempre carenza; ad esempio, andrebbero resi più efficienti i tribunali di sorveglianza; ad esempio, si potrebbe far sì che gli istituti siano realmente trattamentali e non soltanto punitivi... Alcuni dei ragazzi che ho incontrato in questi anni avevano un residuo pena di cinque o sei mesi. Queste persone potrebbero (e dovrebbero), con le giuste misure, usufruire di percorsi alternativi alla detenzione. Si potrebbe e dovrebbe potenziare il sistema dell’offerta di lavoro per ex detenuti, il che eviterebbe in molti casi anche le recidive. E vogliamo parlare dei malati, in particolare di quelli psichiatrici? C’è posto per la speranza in carcere? di Silvio Alaimo gesuiti.it, 22 settembre 2023 Una riflessione di p. Silvio Alaimo, che da 20 anni svolge il suo ministero nelle carceri di Trieste. È un pensiero comune, diffuso, popolare, secondo il quale le dure condizioni di vita in carcere sono inevitabili, anzi, giuste, poiché parte integrante della pena che deve colpire chi si è macchiato di un crimine. È una idea di riparazione come contrappasso: tu hai fatto soffrire e tu devi soffrire nello stesso modo, anzi, di più. Solo così la vittima può avere “soddisfazione” per il torto subito. Questo principio, che poco si differenzia da quello della “vendetta”, si accompagna a un altro mantra giudiziario: la certezza della pena. Tradotto: il reo deve pagare fino in fondo e soffrire sino all’ultimo giorno previsto dalla condanna. Niente sconti, niente opportunità alternative. Non finisco mai di stupirmi (e un poco di indignarmi) quando mi accorgo che questa visione si fonda su una prospettiva del tutto capovolta della realtà: sia rispetto allo Stato e al suo diritto di condannare e punire, sia rispetto alle persone da affliggere e, da ultimo, ma non meno importante almeno per me, rispetto alle indicazioni di una vita cristiana. Fin dai primi anni della mia esperienza di cappellano nel carcere di Trieste, durante i colloqui con i detenuti, ricevevo e ricevo sempre professioni di innocenza. Tutti, ma proprio tutti, si proclamano tali. Inizialmente non sapevo come interpretare queste convinzioni. Poi, col tempo, entrando in profondità nelle storie tragiche di quelle persone che non avevano nulla, ho capito il loro stupore per tanta durezza, freddezza, inumanità, che non possono essere inflitte per nessun tipo di errore commesso. “Sono innocente”, appunto. In quell’affermare la loro innocenza, ho colto anche una legittima aspirazione: non volevano nascondermi le colpe, il loro era il racconto di una speranza. Negli anni ho fatto mia questa prospettiva ribaltata, del tutto opposta a quella del mondo corrente e della macchina giudiziaria: una prospettiva che riconosco come assolutamente cristiana. Chi ha commesso un errore ed è caduto deve potersi rialzare, deve trovare una mano che lo aiuti a risollevarsi. Se ha provocato sofferenza, non bisogna dimenticare che il dolore appartiene anche a lui: il cadere, i fallimenti, non sono mai privi di sofferenza e quasi sempre sono il culmine di una storia tormentata. Prolungare e istituzionalizzare tale condizione di sofferenza, può giovare a qualcuno realmente? O diventa crudele tortura verso una persona che ha il diritto di continuare il suo cammino, di non perdere fiducia in sé e speranza nel futuro, di vivere con dignità la vita che ha ricevuto in dono? Tra i tanti interventi di Papa Francesco sulla vita delle persone recluse mi piace ricordare questo: “Le carceri abbiano sempre una finestra e un orizzonte… nessuno può cambiare la propria vita se non vede un orizzonte”. Quanta sofferenza, per me, nel constatare che queste finestre mancano, che sono murate dall’assurdo garbuglio di una selva di leggi, lacci e lacciuoli. Manca un orizzonte, per guardare oltre, per non smettere di vivere. Quando varco la soglia del carcere sono consapevole di entrare in un ambiente di confinamento e contenimento, finalizzato a separare, dividere, isolare, allontanare. Vi incontro persone abbandonate, dimenticate, spesso alienate in una condizione di assenza di progetto, di prospettiva. Sono rinchiuse in un non-spazio, un non- tempo, non sanno più nulla di sé né di cosa li aspetti, non sanno più nulla delle loro famiglie, delle loro origini, di quel mondo da cui provengono dove già era preclusa la speranza. Entrano in un contenitore che li affligge, dopo aver vissuto in altri contenitori, quelli delle periferie, che sono spesso vere e proprie carceri a cielo aperto. Ancora, con le parole di Papa Francesco, è possibile descrivere la negatività dell’Istituto carcerario: “cultura dello scarto”, “spazi per rinchiudere nell’oblio”, “luoghi di spersonalizzazione”. A cosa serve una realtà così? A chi giova? Cosa porta alla società l’afflizione delle persone? Molte persone che incontro nei miei colloqui hanno perso la speranza, se ne avevano una all’inizio della loro vita: spesso si nasce segnati e predestinati. lo non voglio perdere la speranza, ma fatico a dare loro una risposta, sento il peso della loro richiesta di aiuto, della loro necessità di affidamento, di credere in qualcosa, in qualcuno. Le carico su di me, consapevole della enormità del compito e della impossibilità di affrontare da solo la sfida. Quelle mura però vanno abbattute, perché impediscono la relazione e producono abbandono. Quelle finestre vanno riaperte sul mondo, affinché diventino possibili spazi relazionali di vita vera. Bisogna fare in modo che chi vive quell’esperienza, alla fine del percorso, non si ritrovi nello stesso tragico punto da cui era partito. Sassari. Detenuto morto, il medico legale conferma l’ipotesi del suicidio ansa.it, 22 settembre 2023 Erik Masala si è suicidato. Lo ha confermato il medico legale al termine dell’autopsia svolta sul corpo del 26enne cagliaritano trovato impiccato tre giorni fa in una cella del carcere di Bancali. Inizialmente il sostituto procuratore del tribunale di Sassari, Angelo Beccu, aveva disposto un esame esterno sul cadavere del giovane, ma poi lo stesso pm ha deciso per l’autopsia, così da avere maggiori certezze sulla causa del decesso. La famiglia di Masala, rappresentata dall’avvocato Riccardo Floris, aveva infatti denunciato la presenza di lividi ed escoriazioni sul corpo del ragazzo e chiesto alla Procura di svolgere le necessarie verifiche per appurare cosa fosse successo. Questa mattina nell’Istituto di medicina legale è stata effettuata l’autopsia al termine della quale il medico legale ha fornito la sua relazione al pm, confermando l’ipotesi del suicidio. Dell’esito è stato informato l’avvocato di Masala e la salma è stata restituita ai familiari. Milano. Il detenuto in fuga, l’inseguimento e la caduta: poliziotto in coma di Stefano Gigliotti Il Giornale, 22 settembre 2023 L’agente ha riportato un trauma cranico dopo essere caduto dal secondo piano del San Paolo di Milano. Un agente di polizia penitenziaria, Carmine De Rosa, 28 anni, è precipitato nel vuoto mentre inseguiva un detenuto palestinese che aveva in custodia al San Paolo di Milano. Mordjane Nazim, 32 anni, era in ospedale per alcune ferite riportate a seguito di una lite avvenuta nel carcere di San Vittore. Nelle prime ore di questa mattina, giovedì 21 settembre, è fuggito lanciandosi dalla finestra del bagno al secondo piano. Il giovane agente si è buttato dietro di lui nel tentativo di fermarlo ma ha sbattuto violentemente la testa, riportando un trauma cranico che lo ha portato in coma farmacologico. La notizia è stata data da Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato del Corpo di Polizia Penitenziaria. “Tanta la preoccupazione per il collega”, ha commentato per poi sottolineare come questo sia solo l’ennesimo tentativo di fuga dei detenuti dagli ospedali: “Qui si rischia la vita e l’emergenza carceri è ormai drammatica”. Il detenuto, che era in prigione per concorso in rapina, secondo quanto si apprende era stato portato d’urgenza al pronto soccorso in un reparto ordinario e non in quello destinato ai carcerati. Il sindacato, pur non cercando responsabilità nell’accaduto, sottolinea “forti perplessità per la tenuta del sistema sanitario penitenziario” e chiede un rafforzamento all’interno degli istituti. “Esprimo piena vicinanza e solidarietà a Carmine, l’agente di polizia penitenziaria gravemente ferito nelle prime ore di oggi a Milano, mentre tentava di scongiurare un’evasione”, ha dichiarato il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari. “Lo Stato non dimentichi chi mette a rischio la propria incolumità per la sicurezza di tutti. Confido che il soggetto evaso venga al più presto assicurato alla giustizia e paghi per quello che ha fatto. L’attuale sistema della sanità penitenziaria va rivisto per assicurare a tutti le dovute cure, limitando a casi eccezionali la movimentazione dei detenuti pericolosi in strutture esterne”. Dopo la caduta, secondo quanto riferisce la questura di Milano, il poliziotto si è rialzato e recato da solo al pronto soccorso del San Paolo, dove però le sue condizioni sono peggiorate. È stato quindi trasferito e sottoposto a un intervento neurochirurgico al San Carlo. Il quadro clinico presentava frattura cranica, emorragia cerebrale, contusioni cerebrali, fratture vertebrali e contusioni polmonari. “Il nostro collega” - spiega Pompeo Bruno, vice coordinatore Fp Cgil Lombardia - “è un giovane con 4 anni di servizio e piantonava il detenuto, ancora latitante, con un agente appena uscito dal corso. Siamo arrabbiati per questa vicenda che segna un’altra brutta pagina per i lavoratori e le lavoratrici del corpo di Polizia Penitenziaria, dobbiamo poter lavorare in sicurezza e invece la nostra vita è messa a rischio quotidianamente”. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, ha espresso “sentimenti di profonda vicinanza e solidarietà” al fratello dell’agente rimasto ferito. “Un eroe”, lo ha definito nel corso di una telefonata, “perché non ha tentennato un solo istante, a scapito della propria stessa vita, nel disperato tentativo di assicurare alla giustizia un detenuto che stava evadendo. Un gesto per il quale suo fratello avrà il riconoscimento e gli onori che merita”. In mattinata l’agente è stato sottoposto a un intervento neurochirurgico di evacuazione dell’ematoma cerebrale, decompressione cranica e inserimento di un sistema di monitoraggio della pressione intracranica. Attualmente è ricoverato in rianimazione, in attesa di effettuare i successivi controlli radiologici per verificare l’evoluzione delle lesioni e del quadro clinico. Torino. Premio “Carlo Castelli”, concorso letterario per i detenuti ucsi.it, 22 settembre 2023 Si svolgerà a Torino il 28 e 29 settembre la XVI Edizione del Premio Carlo Castelli, concorso letterario dedicato ai detenuti delle carceri italiane organizzato e promosso dalla Società di San Vincenzo De Paoli in collaborazione con il Ministero della Giustizia e con i patrocini di Camera, Senato, Dicastero per la Comunicazione, TV2000 Radio InBlu e Ucsi Nazionale. Il Premio Carlo Castelli è un concorso letterario organizzato e promosso dal Settore Carcere e Devianza della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV. Vi partecipano detenuti di tutta Italia. Ogni anno viene scelto un carcere od un IPM per ospitare la cerimonia durante la quale vengono letti e premiati i racconti scelti da un’apposita giuria. La scorsa edizione si è svolta a La Spezia, con il patrocinio di Camera, Senato, Ministero della Giustizia, il Pontificio Dicastero per la Comunicazione, TV2000 e UCSI ed il riconoscimento della Speciale Medaglia conferita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La XVI Edizione, dal titolo “Diario Dentro, pensieri dalla mia cella” si terrà presso la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino venerdì 29 settembre 2023 a partire dalle ore 9.30. Ai primi tre classificati verrà riconosciuto un doppio premio in denaro: una parte che verrà assegnata all’autore ed una seconda parte che, a nome del vincitore, verrà devoluta ad un progetto da realizzarsi in una delle carceri italiane aderenti. Questa è una particolarità importante del premio, perché chi scrive avrà la possibilità di riscattarsi facendo del bene. Giornate scandite da routine identiche le une alle altre fanno della detenzione un eterno istante sospeso, come se il calendario avesse rinunciato a scorrere. In questo tempo dilatato, la scrittura può essere un buon antidoto per non perdere la testa: attraverso le parole si può fare pace con il proprio passato ed i propri errori, elaborare il dolore e coltivare un nuovo futuro. Gli elaborati dei detenuti ci permettono di conoscere un mondo che spesso ignoriamo. Talvolta, vivere attraverso le parole degli autori la loro detenzione ed il loro pentimento, diventa un invito a non delinquere per “chi sta fuori”. Come raccontare il carcere? Nell’ambito del Premio Letterario Carlo Castelli, UCSI Piemonte organizza il Corso di Formazione promosso dall’Ordine dei Giornalisti del Piemonte, organizzato da UCSI Piemonte in collaborazione con la Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV dal titolo: “Il carcere visto da fuori”, che si terrà giovedì 28 settembre dalle ore 19.00, presso la sala teatro del Santuario di Santa Rita in Via Giuseppe Vernazza 26/B a Torino: una serata durante la quale sarà possibile incontrare istituzioni, cooperative e associazioni che impiegando detenuti, ex-detenuti e persone in messa alla prova, offrono a tutte queste persone una preziosa opportunità per costruirsi una nuova vita e per uscire dalla spirale della detenzione. Come fare in modo di ricercare, verificare e diffondere un’informazione più equilibrata e obiettiva sulla realtà carceraria, per imparare a non spettacolarizzare le notizie e a non presentarle con toni volutamente allarmistici per cercare un consenso puramente consumistico. Occorre invece il massimo rispetto per il disagio delle vittime e dei loro famigliari, ma anche per quei detenuti (che ricordiamo non tutti sono rei) che soffrono all’interno delle strutture, per chi si è pentito dei propri errori e tenta di scrollarsi di dosso lo stigma con il desiderio di ricomporre i pezzi di una vita infranta ed anche il disagio di poliziotti ed operatori che vivono una quotidianità tra le più difficili. Per raggiungere questo obiettivo tenteremo di rimuovere scontati pregiudizi e adottare un linguaggio corretto non soltanto nella forma, ma che non perda mai di vista i principi etici. Un’ampia relazione verrà dedicata ai temi della giustizia riparativa, come trattarla, come far sì che il lettore ne comprenda le potenzialità per costruire un domani migliore per la vittima, per il reo e per l’intera società. Infine, verrà evidenziato il valore pedagogico del racconto dell’esperienza carceraria, capace di incoraggiare i più giovani a prendere le distanze dalla tentazione di delinquere. Il programma: Saluti di: • Paola Da Ros, Presidente della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV • Alessandro Ginotta, Presidente UCSI Piemonte • Valentina Noya, Direttrice del festival LiberAzioni • Monica Gallo, Garante delle persone private della libertà - Città di Torino Relazioni di: • Vincenzo Varagona, Giornalista, Presidente nazionale Unione Cattolica Stampa Italiana • Marina Lomunno, Giornalista, Coordinatore redazionale La Voce e il Tempo • Maria Agnese Moro, Giornalista pubblicista, La Stampa Il corso è presente sulla piattaforma https://www.formazionegiornalisti.it/ e dà diritto a 2 crediti deontologici. La giuria - Compongono la Giuria del Premio Carlo Castelli: Luigi Pagano, consulente del Difensore civico della Regione Lombardia, già direttore di molti istituti tra cui: Pianosa, Nuoro, Asinara, Alghero, Piacenza, Brescia e Taranto, Milano San Vittore; Maria Agnese Moro, giornalista, figlia dello statista Aldo Moro; Carla Chiappini, coordinatrice della redazione di “Ristretti Orizzonti” dal carcere di Parma; Maria Cristina Failla, giudice penale, civile e tutelare, presidente del tribunale di Massa; Wilma Greco, docente Casa Circondariale di Agrigento; Anna Maria Corradini, consulente filosofico, Pontificia Università Antonianum; Luigi Dall’Ara, volontario penitenziario Società di San Vincenzo De Paoli. Carlo Castelli - La XVI Edizione del Premio Carlo Castelli si celebra a Torino, in occasione del 25° dalla scomparsa del volontario carcerario a cui è stato intitolato il concorso. Nato a Torino il 9 febbraio 1924, Carlo Castelli entra nella Società di San Vincenzo De Paoli all’inizio degli anni ´60, impegnandosi nei vari campi assistenziali e caritativi con profonda e fraterna dedizione al bene del prossimo. Nei primi anni ´70 decide di rivolgere la sua attenzione al settore carcerario, scelta che caratterizzerà tutta la sua azione di volontariato sociale, ispirato a un cristianesimo militante vicino ai più deboli e ai più bisognosi. Come assistente volontario nelle carceri del Piemonte, in particolare a Torino, Fossano e Saluzzo, matura negli anni una serie di esperienze personali che l’arricchiscono nel profondo, consentendogli, grazie alla preziosa collaborazione di molti confratelli e consorelle e al coinvolgimento dei vari settori istituzionali, di operare fattivamente sul territorio con interventi mirati al recupero individuale e sociale del detenuto e al suo progressivo reinserimento nel mondo del lavoro. Negli anni successivi, sino alla morte sopraggiunta improvvisa il 19 maggio 1998, prosegue con crescente impegno la sua attività all’interno e all’esterno delle carceri, ampliando il suo raggio d’azione a livello nazionale e cercando di sensibilizzare in modo adeguato i responsabili istituzionali, del potere politico e giudiziario a concretizzare proposte e iniziative di riforma nell’ambito penitenziario. Napoli. Seminario “Degni di nota”: carcere e tossicodipendenze, buone pratiche e misure alternative di Antonio Lamorte L’Unità, 22 settembre 2023 L’evento articolato in due appuntamenti: martedì 19 settembre con il concerto di Liberato per un centinaio di detenuti e giovedì 21 settembre per una giornata di dibattito e approfondimento “tra umanità della pena e promozione delle misure alternative alla detenzione”. Quella citazione di Italo Calvino, stra-abusata: quella sull’inferno che “se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”. Gennaro Pastore, direttore del dipartimento dipendenze dell’ASL Napoli 1 centro, l’ha citata nel suo intervento nel corso della giornata di dibattito e approfondimento alla casa circondariale G. Salvia di Poggioreale “Degni di nota” promossa dall’ASL Napoli 1 centro e con la partecipazione del gruppo GESCO e della Cooperativa ERA. Al centro degli incontri le attività e gli interventi a favore dei detenuti tossicodipendenti mentre le risposte politiche di questi tempi - leggi, decreti - tendono a sempre più carcere come da equazione ricordata più volte: meno stato sociale, più stato penale. Il “buco nero” della società, quello che “buttate via la chiave”, un “altrove esistenziale”. E invece “Degni di nota” è stata organizzato per valorizzare quello che può succedere in una prigione. Si è articolato in due appuntamenti: martedì 19 settembre con il concerto di LIBERATO per un centinaio di detenuti tossicodipendenti e giovedì 21 settembre per una giornata di dibattito e approfondimento “tra umanità della pena e promozione delle misure alternative alla detenzione”. Il Dipartimento dipendenze ha attivi due servizi a favore dei tossicodipendenti reclusi a Poggioreale: il SerD dell’Area Penale, in funzione da 26 anni, e il “Progetto IV Piano”. Quest’ultimo: fondato nel 2015, si avvale della collaborazione tra personale di ERA e di GESCO, garantisce funzioni socio-riabilitative, di tipo laboratoriale, e funzioni di Sportello finalizzate all’accompagnamento per la fruizione di Misure Alternative alla detenzione. “L’orizzonte di senso di IV Piano - ha detto Pastore - è offrire ai detenuti prospettive diverse da quelle che li hanno portati in carcere. Il dipartimento dipendenze non si è arreso. Il carcere può essere come una malattia che si aspetta, dev’essere un tassello nell’esperienza biografica del soggetto, coniugare aspetti sanitari a quelli riabilitativi”. Per alcuni reclusi, il servizio di assistenza offerto in carcere è il primo in assoluto che hanno ricevuto. “Dal 2002 - ha spiegato Sara Montegrosso, responsabile UO SerD Area Penale - sono state oltre 15.800 le persone visitate, oggi sono più di 600, 78 quelle in trattamento farmacologico, la maggior parte per cocaina. I tossicodipendenti prima erano considerati colpevoli, ma sono a tutti gli effetti dei soggetti fragili. Il carcere non è un luogo di cura, non ne ha i setting. Siamo un aggancio, qualcosa che comincia qua ma che deve continuare fuori le mura. Spesso i ragazzi ci vedono come dei salvatori, qualcuno che può ascoltarli e risolvere i loro problemi. Noi li dobbiamo motivare a un desiderio di cambiamento”. Quasi si agita il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello: “In Campania ci sono oltre 6mila detenuti, 1.401 tossicodipendenti. 660 a Poggioreale, la metà denunciati dai familiari. E questo è già un fallimento. Ci sono detenuti che sono diventati tossicodipendenti in carcere, perché in carcere c’è lo spaccio. Ci sono operatori che ricordano vita, morte e miracoli di un detenuto in un’epoca in cui sta tornando di moda il ‘che me ne fotte’. E ci sono solo tre medici per oltre mille pazienti: ma stiamo scherzando?” A Poggioreale è stato promosso il “Progetto Roma”: quello che era il padiglione che ospitava trans, sex offender, sieropositivi, sarà destinato interamente ai detenuti tossicodipendenti. La referente del Progetto IV Piano Marinella Scala annuncia che dal 22 ottobre partirà anche la scuola media per tutto il Padiglione Roma. Il Progetto propone attività laboratori di lettura, teatro, Spirale (attività autobiografiche), cuoio, Cineforum, “Oltre le mura” - uno spazio di discussione e partecipazione alla vita democratica tramite film, libri, giornali, scrittura, documentari, film. Ciambriello invita a visitare, vedere, ascoltare il carcere. Il Garante dei detenuti di Napoli, Tonino Palmese, aggiunge che “quanto più si conosce tanto più si abbassa la soglia forcaiola”. Quella citazione di Calvino, quella stra-abusata, finisce elencando due modi per non soffrire di quell’inferno: “Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Stavolta non è sprecata. Cagliari, una giornata di studio sul carcere. Iniziativa dell’Osservatorio della giustizia L’Unione Sarda, 22 settembre 2023 “Carcere, Stato, Costituzione: l’art. 27 Cost. tra diritti delle persone detenute ed esigenze di difesa sociale”. Su questi temi OPG - osservatorio per la Giustizia organizza una Giornata di Studi per oggi, venerdì 22 settembre, nella Sala Aldo Marongiu del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati all’interno del Palazzo di Giustizia di Cagliari. I lavori saranno aperti dall’avvocato Patrizio Rovelli Presidente di OPG - osservatorio per la Giustizia e dall’avvocato Matteo Pinna Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari. Nella Prima Sessione, intitolata “L’art. 27 Cost. come cardine dello Stato costituzionale”, che avrà inizio alle ore 10, interverranno il Prof. Marco Ruotolo, Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Roma Tre e Direttore del Master Universitario di Secondo Livello in “Diritto penitenziario e Costituzione”, il Prof. Gianmario Demuro, Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Cagliari, il Dottor Carlo Renoldi, Magistrato, già Capo del DAP, il Dottor Marco Porcu, Direttore della Casa circondariale di Uta, l’Avv. Fabrizio Rubiu, Portavoce di OPG - osservatorio per la Giustizia, il Dottor Stefano Rovelli, Dottorando di ricerca in Diritto e Giustizia costituzionale presso l’Università di Pisa, e Irene Testa, Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale della Regione Sardegna. Nella Seconda Sessione intitolata “I diritti delle persone detenute e le esigenze di difesa sociale”, che avrà inizio alle ore 15, interverranno l’Avv. Debora Amarugi, la Dott. Silvia Talini, Ricercatrice nell’Università di Roma Tre e Coordinatrice didattico-scientifica del Master di Secondo Livello in “Diritto penitenziario e Costituzione”, la Dott. Maria Cristina Ornano, Magistrato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, il Dottor Riccardo De Vito, Magistrato, la Dottoressa Stefania Cecchini, Ricercatrice di Diritto costituzionale nell’Università di Cagliari, l’Avv. Paolo Mocci, Garante dei Diritti delle persone private della Libertà personale di Oristano, l’Avv. Luca Monaco, Presidente dell’Associazione “Nova Juris” di Salerno, e Maria Grazia Caligaris, Fondatrice della Associazione “Socialismo, Diritti, Riforme”. Crotone. Dibattito sulla condizione dei detenuti promosso da Nessuno tocchi Caino ilcrotonese.it, 22 settembre 2023 “Visitare i carcerati. Morire o risorgere in carcere” è il tema dell’incontro promosso dall’associazione Nessuno tocchi Caino che si è tenuto nella sala Paolo Borsellino della Provincia di Crotone, il 21 settembre. La conferenza è stata preceduta dalla visita alla Casa Circondariale di Crotone da parte di alcuni componenti della Camera penale di Crotone, della commissione Pari Opportunità, dell’Unione camere penali ‘osservatorio carceri’, accompagnati dal Garante dei detenuti del carcere di Crotone, Federico Ferraro. Nel dibattito sono state sviscerate le criticità dei detenuti a causa del sovraffollamento delle carceri, ovviamente anche nella struttura della nostra città, che non può ospitare persone con patologie psichiche che non dovrebbero stare in cella ma in luoghi idonei ad affrontare le loro difficoltà. Il tema della dignità e del rispetto per l’uomo o la donna, prima ancora che del detenuto, è stato il punto condiviso tra i presenti. Tra gli intervenuti per i saluti di rito, infatti, vi era la vice presidente della commissione Pari Opportunità del Comune di Crotone, Alessia Lerose, il garante dei detenuti Federico Ferraro e Giuseppe Gallo in qualità di presidente della Camera civile di Crotone. A moderare Carmen Gualtieri del consiglio direttivo di ‘Nessuno tocchi Caino’. E’ dunque emerso che i problemi del carcere cittadino sono il sovraffollamento nella misura di 142 detenuti, la carenza di camere di sicurezza e di personale di magistratura penitenziaria e polizia penitenziaria. “5 mila e 500 sono i detenuti in tutta Italia, oltre centomila i ‘liberi sospesi’ sui quali i magistrati si devono pronunciare - spiega la presidente di ‘Nessuno tocchi Caino’ Rita Bernardini -. Però a volte riscontriamo una certa indolenza, una certa rigidità nei rapporti, altrimenti non si spiega perché in altri posti ci sono i magistrati che visitano le carceri e qui no. Qui non c’è questa attenzione e ne va dei diritti fondamentali dei detenuti. Ci sono alcuni detenuti con un ‘fine pena’ molto basso - precisa - alcuni di pochi mesi ma sono pochissimi quelli che hanno possibilità di accedere all’affidamento al lavoro, ai permessi premio o alle misure alternative. Se in un paese non funziona la giustizia, non funziona il paese”. Per il presidente della Camera penale di Crotone, Aldo Truncè: “È una esperienza fortissima quella dell’incontro in carcere con i detenuti. Le battaglie le stiamo facendo anche noi con l’Unione delle camere penali le stiamo facendo da anni - dichiara l’avvocato -. Sono riuscite a smuovete l’opinione pubblica e hanno fatto sì che si aprisse un dibattito politico su chi non ha un futuro di libertà. Pensate alla concessione dei permessi premio, che prima era un tabù, mentre oggi riaccende la speranza dei detenuti e se ne può parlare. Prima infatti il pensiero dominante era “buttate la chiave” perché il giustizialismo è un evergreen e sta bene su tutto e in ogni contesto. Se oggi gli ergastolani possono pensare di avere dei permessi premio - conclude - è un passo in avanti per il nostro paese!”. Ad intervenire anche Elvezia Cordasco, giudice sezione penale del tribunale di Crotone, Mario Lucente, camera penale di Crotone e Sergio Caruso, criminologo. Torino. La mostra “Art. 27” nel Museo Carcere Le Nuove cr.piemonte.it, 22 settembre 2023 Il 25 settembre alle ore 11 verrà inaugurata nella sede permanente del Museo Carcere Le Nuove di Torino, Via Paolo Borsellino 3, la mostra “Art. 27” che rimanda esplicitamente al rispettivo articolo della Costituzione Italiana che recita: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La mostra “Art. 27”, è un progetto di sensibilizzazione realizzato da EssereUmani con gli studenti universitari dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino - Corso di Arte del Fumetto del prof. Pierpaolo Rovero - riconoscendo al fumetto una espressività forte, aperta e trasversale ai luoghi e alle generazioni. L’esposizione è composta da quindici pannelli con grafiche e strisce di fumetti disegnate dagli studenti dell’Accademia Invita a riflettere sul significato dell’art. 27 della Costituzione, in particolare sull’umanizzazione della pena, sul suo scopo rieducativo e sulle discriminazioni subite dagli ex detenuti. La realizzazione è stata resa possibile grazie al contributo della Regione Piemonte attraverso i Contributi per le Iniziative Istituzionali. La mostra è sostenuta da Regione Piemonte, Consiglio Regionale del Piemonte, Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza del Piemonte, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Piemonte, Difensore Civico della Regione Piemonte. È stata esposta presso la Sede dell’Ufficio Relazioni con il Pubblico del Consiglio Regionale del Piemonte; presentata presso alcune carceri del Piemonte è stata accolta in modo itinerante presso numerose scuole del Piemonte per permettere un diverso approfondimento da parte dei giovani. Saranno presenti alla inaugurazione Paola Baldovino, Difensore civico della Regione Piemonte; Ylenia Serra, Garante per l’Infanzia; Bruno Mellano Garante per i detenuti, Calogero Modica del Museo del Carcere “le Nuove”, Juri Nervo Presidente di EssereUmani, Pierpaolo Rovero professore dell’Accademia Albertina di Belle Arti. Presenti, inoltre, due classi di studenti degli Istituti Plana e Volta di Torino. La mostra Art. 27 rimarrà permanente negli ambienti della Sezione Femminile dell’Ex Carcere, Via Paolo Borsellino 3 a Torino. Migranti. Mattarella chiede coraggio alla Ue: “Le regole di Dublino sono preistoria” di Paolo Valentino Corriere della Sera, 22 settembre 2023 Il presidente della Repubblica in Sicilia con l’omologo tedesco Steinmeier: quell’accordo faceva riferimento a un mondo che non c’è più. Alla fine, è Sergio Mattarella a dire che il re è nudo e che “le regole di Dublino sono preistoria”. Si tratta di strumenti “rudimentali e superati” di fronte a fenomeni migratori completamente nuovi: “Quell’accordo faceva riferimento a un mondo che non c’è più. È una logica fuori dalla realtà”, dice il presidente della Repubblica nella conferenza stampa che chiude la visita in Sicilia del suo omologo tedesco Frank-Walter Steinmeier. Nessuno sui migranti ha soluzioni in tasca, ammette Mattarella. Tanto meno i capi di Stato, figure istituzionali, il cui ruolo può essere di stimolo ed eventualmente di suggerimento all’azione dei governi. Tocca a questi infatti “cercarle insieme e velocemente”, prima che diventi impossibile gestire un “fenomeno epocale”. Ciò che serve, così il capo dello Stato, non sono misure tampone o improvvisate, ma piuttosto “una visione del futuro coraggiosa e nuova”. Con Steinmeier, c’è “una perfetta omogeneità di valutazione del fenomeno migratorio”, che colpisce con eguale virulenza sia l’Italia che la Germania. Sia Mattarella che l’ospite tedesco fanno riferimento alle proposte della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, definendole “interessanti”. Ma il punto centrale, sono le “soluzioni europee”, senza le quali, spiega Steinmeier, “non sarà possibile far diminuire i numeri degli arrivi”. Nell’ultima giornata della visita italiana, che Steinmeier proseguirà oggi da solo con una tappa alla Biennale d’Architettura a Venezia, i due presidenti hanno sorvolato in elicottero le zone della Sicilia colpite dagli incendi, prima di recarsi alla Villa Romana del Casale nel territorio di Piazza Armerina, celebre per i suoi mosaici, e poi all’Associazione Don Bosco, dove hanno incontrato profughi e volontari. “Abbiamo ascoltato - ha detto Mattarella - le iniziative messe in campo per accogliere i migranti che sono giunti fin qui attraverso sofferenze indicibili, ma anche per integrarli e inserirli in progetti di crescita, incentivando inoltre programmi nei Paesi d’origine dove potranno essere attivi grazie alle competenze acquisite, aprendo nuove prospettive di vita in quei luoghi dove resterebbero volentieri se non fossero spinti dalla fame, dalla miseria e dall’intolleranza”. Nel pomeriggio, Mattarella e Steinmeier hanno infine visitato a Catania lo stabilimento 3Sun Gigafactory di Enel Green Power, dove sono stati accolti dall’Amministratore delegato, Flavio Cattaneo. Sul fondo, la due giorni siciliana è servita a rilanciare un’immagine sintonia europeista tra Italia e Germania, a dispetto dell’attuale fase di turbolenze nei rapporti tra i due governi. “Su ogni argomento, su ogni aspetto registriamo una convergenza e intensità di rapporti collaborativi che non potrebbero essere migliori”, ha detto Mattarella nella conferenza stampa finale. Italia e Germania, Paesi fondatori dell’Unione, “avvertono insieme la necessità di incentivare e far crescere l’integrazione perché la casa europea cresca nel modo più armonico e completo possibile”. In occasione della loro visita Mattarella e Steinmeier hanno rilasciato anche una dichiarazione sulla situazione in Libia: “Dopo il disastro naturale, riaffermiamo la nostra solidarietà al popolo libico e ammiriamo gli sforzi instancabili delle squadre di soccorso. La Germania e l’Italia stanno fornendo tutto il sostegno possibile. Incoraggiamo gli attori politici ad ascoltare l’appello del popolo per la pace e la stabilità, al fine di costruire un rinnovato senso di unità nazionale”. Migranti. “I Centri di Permanenza per il Rimpatrio? Sistema costoso e inutile” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 settembre 2023 Gare d’appalto milionarie e violazioni sistematiche dei diritti dei migranti trattenuti: la denuncia della Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) e le preoccupazioni per il decreto legge. La Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) ha lanciato una dura denuncia contro i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) in Italia, mettendo in luce gravi violazioni dei diritti fondamentali dei migranti detenuti. Queste strutture, gestite da società e cooperative private, rappresentano un affare profittevole finanziato dai contribuenti, mentre il governo si prepara ad approvare un nuovo decreto che allunga i tempi di detenzione dei migranti fino a 18 mesi. La denuncia della Cild riflette una preoccupazione crescente riguardo ai Cpr, spesso descritti come ‘ buchi neri’ nei quali si verificano violazioni sistematiche dei diritti umani. La gestione privata di queste strutture a spese dei contribuenti è stata stigmatizzata come profittabile sulla pelle delle persone detenute. Il nuovo decreto governativo, che mira ad aumentare i tempi di detenzione, è stato etichettato dalla Cild come inutile nel gestire il fenomeno migratorio e costoso dal punto di vista economico e umano. Nonostante le affermazioni della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, l’efficacia dei Cpr nella promozione dei rimpatri è messa in discussione. La Cild ha rivelato che negli ultimi due anni sono state indette gare d’appalto per oltre 50 milioni di euro per la gestione dei Cpr esistenti, un affare gestito da grandi multinazionali e cooperative che traggono profitto dalla detenzione amministrativa, a discapito dei diritti umani delle persone trattenute. L’apertura di ulteriori centri aumenterà questa spesa, aggravando ulteriormente la situazione in un momento in cui l’inflazione sta colpendo i cittadini. La Cild ha enfatizzato che l’aumento dei tempi di detenzione non migliorerà l’efficacia dei Cpr. Secondo il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, nel 2022 solo il 49,4% delle persone trattenute è stato effettivamente rimpatriato, con percentuali ancora più basse in alcuni centri. Inoltre, molti detenuti non possono essere rimpatriati a causa della situazione instabile nei loro paesi di origine, mettendo in pericolo le loro vite. La Cild ha sottolineato che l’aumento dei tempi di detenzione non risolverà il problema. I Cpr esistono da 25 anni, e i tempi di permanenza di 18 mesi sono stati in vigore in passato senza aumentare significativamente i rimpatri. Inoltre, a differenza delle carceri, i Cpr mancano di un proprio ordinamento, il che ha permesso violazioni sistematiche dei diritti dei detenuti. La Cild ha sottolineato gravi violazioni dei diritti alla salute, alla difesa legale e alla comunicazione all’interno di queste strutture. La Cild ha concluso che una gestione efficace delle migrazioni non passa per l’aumento dei Cpr e dei tempi di detenzione. Invece, è necessario ricorrere ad alternative all’irregolarità che consentano alle persone detenute di accedere a percorsi di regolarizzazione. Questo, sostengono, è essenziale per porre fine alle violazioni inumane e degradanti che avvengono all’interno dei Cpr ogni giorno. I migranti nell’inferno dei Cpr: viaggio nel centro di permanenza per rifugiati di Torino di Lodovico Poletto La Stampa, 22 settembre 2023 Nel centro di accoglienza di Torino gli immigrati sono costretti a dormire in piccole tende canadesi: non esistono attività ricreative e didattiche I volontari della Croce rossa cercano di compensare le troppe carenze: “Una 17enne arrivata da sola dorme in ufficio, non potevamo lasciarla nel campo”. Scalzo, nel piazzale inondato dalla pioggia appena caduta, Nabi, 25 anni, originario del Mali, gioca a pallone. Per mangiare c’è tempo. E poi chissà quanto dura questo sole tenue che s’è appena affacciato? E allora lascia le ciabatte e tira l’ennesima pallonata all’amico dall’altra parte del piazzale. Tanto la coda sotto i portici dell’ingresso del centro di accoglienza è ancora stra lunga. E poi oggi servono minestrone e insalata e cotolette di pollo. Fa una smorfia e un gesto con le mani: “Poi mangio, poi”. No, questa non è Lampedusa, torrida e polverosa. Questa è Torino: asfalto, cielo scuro e pioggia. Una città che i quasi 600 del centro di accoglienza neanche sanno indicare sulla carta geografica. “France?” La Francia? Il sogno è ancora lontano, se mai ci arriveranno. “Bolzano?” domanda qualcuno. Sperando in una strada più facile verso la Germania, oppure l’Inghilterra o chissà, Svezia, Norvegia, Belgio. Il sogno è tutto. Sdraiata sul letto che i volontari della Croce Rossa le hanno allestito all’interno del loro ufficio, Agia, 17 anni, neanche si alza. Dorme. Si rigira. Guarda il mondo che le scorre davanti senza dire una parola. “L’abbiamo sistemata qui perché è una ragazza arrivata da sola e non potevamo lasciarla lì, nel campo” dice Manlio Nochi, l’uomo della Cri che cerca di mettere ordine e organizzare questo posto che accoglie i migranti che, dalla Sicilia, hanno trasferito qui con i bus della Protezione civile. “Non abbiamo risse, ci sono anche tende a sufficienza per tutti gli ospiti” racconta chi gestisce. Si potrebbe fare di più? Forse. Ma bisognerebbe avere altre risorse, altri spazi. Altre prospettive. E forse anche altre tende, non queste canadesi formato. Ma qui prospettive non ce ne sono. In giorni di ricerca non è stato trovato uno spazio più adatto, più grande, dove si potrebbe anche fare di più. Ma non c’è. E il centro accoglienza di via Traves, periferia semi-disabitata della città, non lontana da dove sorgeva l’ex stadio Delle Alpi, era nato per ospitare migranti di passaggio e - nei giorni più freddi d’inverno - i senza tetto - non ha mai accolto così tante persone. Quel che c’è di buono è che non ci sono fili spinati. Non ci sono guardie armate. Non ci sono soldati in divisa e sopra i gipponi. E c’è di buono che le mamme con i bimbi se ne stanno tutte insieme sotto una tenda bianca, ampia, montata sul piazzale davanti all’ingresso. Sembra quasi una casa. Anche se ci sono soltanto brandine. Sembra un posto decente. In attesa di qualcosa di meglio. Beppe Vernero che delle Cri torinese è il presidente ieri mattina ha aggiornato l’elenco dei presenti e adesso fa i calcoli: “In tutto abbiamo 586 presenti, di cui una quarantina sono i minori”. E non sono soltanto bambini. Sono adolescenti: hanno 15, 16, 17 anni. Li guardi sembrano già uomini. Ma con sogni e gesti ancora piccini. “Abbiamo anche molti feriti dell’incidente accaduto alla periferia di Roma: vanno curati, medicati quotidianamente, assistiti”. Ore 13, l’ora di pranzo, Omar 16 anni, s’infila nell’ufficio e domanda qualcosa per il mal di testa. Poi indica l’occhio sinistro. Gliel’hanno suturato dopo lo schianto del bus: cinque punti, che oggi o domani, dovranno levargli le crocerossine che vengono qui a fare volontariato. “Domani, domani”. È tutto domani. Saranno tolti i punti di sutura. Ci sarà la pasta per pranzo. Ci saranno altri vestiti. E magari ci sarà anche il sole. Così mangiare seduti per terra, davanti al centro di accoglienza, tra l’asfalto e le erbacce, non sarà più così misero e triste. E non si bagneranno neanche i pantaloni, che averne un paio di ricambio è un bel problema. Per fortuna che c’è la Caritas che porta ciò che ha, oppure ha raccolto attraverso i suoi canali. Fino a qualche mese fa distribuiva ai profughi ucraini. Adesso s’è attrezzata per far fronte a questa nuova emergenza. Nell’ufficio adesso Massoud e Mohamed spezzano le pagnotte arrivate nei sacchi di carta. Se non fai così non c’è nemmeno pane per tutti. Arrivano le cassette con le pere quelle con le mele. Arriva altra insalata. “L’olio, non hanno mandato l’olio”. Si deve fare con quello che c’è, nell’unica bottiglia rimasta. “Qui devi trovare soluzioni ad ogni problema, inventarti il modo di far contenti tutti. Non emarginare, ma accogliere”. E Manlio Nochi spegne l’ennesima sigaretta della giornata: “Presto ci diranno anche come sta quell’altro ragazzo”. “Quell’altro” è uno dei feriti nello schianto del bus. Sembrava stesse bene dopo l’incidente, anche se aveva male alle braccia. E allora qualcuno lo ha messo su un altro mezzo e spedito qui. Ma stava malissimo. E allora Vernero e i suoi lo hanno portato in ospedale. È bastata una radiografia: aveva entrambe le braccia fratturate. Una storia minima, tra le tante che circolano qui, sussurrate più che raccontate. E comunque è una storia che racconta di accoglienza. Che fa capire il vero senso delle parole “voler bene a qualcuno”. Habib adesso sta in piedi sopra un blocco di cemento. Morsica la pera e si mette in posa davanti alla fotocamera del cellulare. Click. “Look” fammi vedere. Ed è un dialogo a gesti, a mezze parole, tra il francese e l’inglese: “Ho tre fratelli. Loro sono ancora in Mali. Io sono via da casa da tre anni”. Vuoi rimanere in Italia? “Yes. Italia. Viva Italia. Thank you”. Di cosa grazie? Allarga le braccia: “Thank you”. Droghe. Cannabis light, da oggi l’olio di Cbd è stupefacente: si può vendere solo in farmacia di Viola Giannoli La Repubblica, 22 settembre 2023 “Ma la scelta italiana è piena di anomalie”. Entra in vigore il decreto Schillaci. I Radicali: “Classificazione priva di fondamento”. Federcanapa: “Per Oms e Corte di giustizia europea non ha effetti droganti”. E le società denunciano: “Il governo ci finanzia ma poi ci mette i bastoni tra le ruote”. Da oggi l’olio di Cbd è, per l’Italia, una sostanza stupefacente. Quindi può essere venduto solo in farmacia, con ricetta, e non più negli smart shop. Questo perché il 21 agosto scorso in Gazzetta ufficiale è stato pubblicato un decreto del ministro della Salute Orazio Schillaci che sblocca un atto identico che il suo predecessore, Roberto Speranza, aveva emanato e poi congelato dopo le proteste di associazioni, imprenditori e commercianti. Cosa dice il decreto - Quell’atto, come l’attuale, inseriva “le composizioni per uso orale”, ovvero da ingerire, “a base di cannabidiolo estratti dalla cannabis” nella tabella 2B dei medicinali stupefacenti. Alla Salute si erano mossi dopo due pareri dell’Istituto superiore di sanità, uno di Aifa e uno del Consiglio superiore di sanità. Il principio di base è che il Cbd sia efficace contro alcuni problemi sanitari (nel decreto si cita l’epilessia) e per questo debba essere trattato come un farmaco e non venduto senza prima controlli e autorizzazioni, come se fosse un integratore. Ma sulla classificazione sono piovute decine di critiche: “Non solo - ricordano i Radicali - è priva di fondamento scientifico, ma può avere gravi ripercussioni per l’Italia sul panorama europeo e internazionale”. “Ma per l’Oms non ha effetto stupefacente” - Lo stop all’olio è però da oggi un fatto. Che si tira dietro una catena di anomalie. Anzitutto, quella tutta italiana di considerarlo uno stupefacente, come fa notare Federcanapa: “Il decreto riesumato dichiara illecito ogni uso non farmacologico degli estratti di cannabis, comprese le destinazioni ammesse dalla normativa italiana ed europea sulla canapa industriale, quali ad esempio l’uso del Cbd per la preparazione di nuovi alimenti, aromi o cosmetici. Dichiarazione sorprendente dal momento che il Cbd non ha effetto stupefacente, come aveva concluso già pochi mesi prima del decreto una Commissione di esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e come aveva ribadito una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del novembre 2020”. L’Italia controcorrente in Europa - “E anche sul piano farmacologico - aggiunge Federcanapa - la posizione del ministero italiano e? in antitesi con le decisioni assunte dalle analoghe autorita? tedesche, inglesi e francesi, che hanno escluso l’assoggettabilita? di medicinali anche ad alta concentrazione di Cbd, come l’Epidiolex, tra gli stupefacenti, ed e? in contrasto con la normativa comunitaria in materia di organizzazione del mercato comune e di antitrust”. No alla produzione, sì all’importazione - In secondo luogo c’è un’anomalia che riguarda la libera circolazione del Cbd, e dunque la sua importazione dall’estero, che non può essere impedita, mentre può essere bloccata la produzione italiana. Lo fa notare ancora Federcanapa: “La decisione del Ministero è tanto più illogica in quanto non potrà impedire la libera circolazione in Italia di alimenti e cosmetici al Cbd prodotti legalmente in altri Paesi europei ed è destinata a danneggiare unicamente i produttori nazionali”. Se si parla di prodotti “a uso orale” anche la farina di canapa, i biscotti o la focaccia allora potrebbero essere banditi. Mentre dei prodotti beauty non si parla. “Il governo mette alle strette società che finanzia” - E infine, l’ultima (forse) anomalia: “L’atteggiamento ambivalente del governo nei confronti delle società che vendono l’olio di Cbd. Da un lato le finanzia, con cifre anche importanti, erogate tramite bandi statali. Dall’altro blocca loro le vendite, impedendo di commercializzare i loro prodotti”, sottolinea Matteo Moretti, ceo di Justmary, una delle più grandi società per il commercio della cannabis legale. E una delle società che sta affrontando le acque mosse di questa politica. La società vende infatti, fra gli altri, olio al Cbd di alta qualità e, recentemente, ha ricevuto un finanziamento da 65mila euro dal governo italiano, tramite l’agenzia Simest, per sviluppare il proprio business. “In pratica mettono alle strette le società che loro stessi hanno finanziato. Se trattano così i loro investimenti si capiscono i problemi a trovare i fondi per la legge di bilancio - ironizza Moretti - Da parte nostra vorremmo invece fare la nostra parte, pagando le tasse, così da aiutare a coprire le spese dello Stato. Secondo stime, la piena legalizzazione della marijuana, come già avvenuto in California, porterebbe nelle casse dello Stato circa 5 miliardi di euro”. I timori per la vita breve della cannabis light - Il timore è che il blocco che scatta da oggi sia il primo passo per vietare tout court la cannabis light. Il prossimo obiettivo potrebbero essere le infiorescenze della cannabis leggera anche se non hanno potere drogante. Da anni, del resto, la maggioranza al governo, a cominciare da Lega e Fratelli di Italia, sognano di rendere illegale la cannabis light andando a colpire l’intera filiera. Anche se poi le crociate reazionarie anti-Cbd sono sempre state rallentate. Droghe. Nazioni Unite: basta carcere, puntare alla regolamentazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 settembre 2023 Mentre da noi, perfino una parte del Partito Democratico propone di inasprire le pene addirittura contro i piccoli spacciatori, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha pubblicato un documento denunciando il fallimento delle politiche punitive sulle droghe e della war on drugs globale e ha chiesto un nuovo approccio basato sulla salute e sui diritti umani, anche attraverso la regolamentazione legale delle droghe. Il rapporto delle Nazioni Unite ha messo in luce un problema grave e sempre più urgente legato alla lotta contro il problema delle droghe: l’incarcerazione e il sovraffollamento carcerario. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per la Droga e il Crimine (Unodc), su un totale di 3,1 milioni di individui arrestati per reati legati alle droghe in tutto il mondo, circa il 61% è stato arrestato per il possesso di sostanze stupefacenti. Ancora più preoccupante è il fatto che il 78% dei 2,5 milioni di persone detenute per reati legati alle droghe, rappresentanti circa il 20% della popolazione carceraria globale complessiva, è stato condannato per spaccio. Tuttavia, in molte situazioni, le persone sono state condannate per traffico anche quando erano in possesso di quantità minime di sostanze stupefacenti. Questo approccio punitivo ha portato a una crescita esponenziale delle popolazioni carcerarie in tutto il mondo. Gli organismi dei diritti umani hanno espresso preoccupazione per l’uso inutile e sproporzionato del sistema di giustizia penale per affrontare reati legati alle droghe, il che ha portato a una detenzione eccessiva e ha marginalizzato i tossicodipendenti. Incarcerazione e sovraffollamento - Sempre nel documento, si apprende che l’approccio punitivo alle politiche sulle droghe ha un impatto significativo sui diritti umani delle persone che ne fanno uso, compresi i loro diritti alla libertà, alla privacy, alla salute e al benessere, nonché altri diritti economici e sociali. Nonostante le prove che dimostrano come l’eliminazione delle sanzioni contro le persone che usano droghe possa ridurre il sovraffollamento carcerario, migliorare gli esiti sanitari, garantire i diritti umani e affrontare stigma e discriminazione, pochi paesi hanno decriminalizzato l’uso, il possesso, l’acquisto e la coltivazione per uso personale. Anche quando esistono alternative alla detenzione, queste vengono raramente applicate. Le Nazioni Unite quindi ricordano l’importanza delle linee Guida Internazionali sui Diritti Umani e le Politiche sulle Droghe che forniscono un quadro essenziale per affrontare in modo efficace questo complesso problema mondiale. Sottolineano una serie di raccomandazioni chiave rivolte agli Stati e agli attori interessati, offrendo orientamenti fondamentali su come sviluppare politiche sulle droghe che siano rispettose dei diritti umani e orientate alla salute pubblica. Una delle raccomandazioni principali è quella di considerare alternative alla criminalizzazione dell’uso delle droghe. Questo significa abbandonare l’approccio della “tolleranza zero”, in favore di politiche che includano la decriminalizzazione dell’uso e il controllo responsabile attraverso la regolamentazione. L’obiettivo è eliminare i profitti che derivano dal traffico illecito di droghe, contribuendo a ridurre la criminalità e la violenza associate a questo fenomeno. In caso di decriminalizzazione, si sottolinea l’importanza di riesaminare le condanne e le sentenze precedenti, con la possibilità di annullarle, commutarle o ridurle, se appropriato. Questo passo è cruciale per garantire una giustizia equa e proporzionata. Un nuovo approccio non punitivo - Inoltre, si raccomanda la creazione di un sistema normativo che consenta l’accesso legale a tutte le sostanze controllate, fornendo una struttura legale per regolamentare queste sostanze. Nel caso in cui la criminalizzazione rimanga in vigore, è essenziale che i reati legati alle droghe siano chiaramente definiti dalla legge, e che le sanzioni siano proporzionate alla gravità degli illeciti, tenendo conto di fattori attenuanti e aggravanti. Questo contribuisce a garantire che le pene siano giuste e proporzionate. Un’altra raccomandazione fondamentale riguarda il riconoscimento e la promozione dei diritti delle persone che usano droghe, compreso l’accesso alle cure mediche per coloro che iniettano le sostanze e che potrebbero contrarre malattie come l’Hiv e l’epatite virale. Inoltre, si sottolinea che il trattamento per la dipendenza da droghe deve essere volontario e basato sul consenso informato. L’incorporazione e il finanziamento dei servizi di riduzione dei danni sono raccomandati per mitigare i danni legati all’uso di droghe e promuovere la salute pubblica. Infine, le politiche sulle droghe devono essere parte integrante dei rapporti ai meccanismi dei diritti umani e degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, e le raccomandazioni di questi meccanismi devono essere implementate in modo coerente. In conclusione, il rapporto delle Nazioni Unite sottolinea che affrontare il problema delle droghe richiede un approccio che tenga conto dei diritti umani e della salute pubblica. Solo attraverso l’adozione di politiche basate sui diritti umani, come la riduzione dei danni e la decriminalizzazione, è possibile affrontare efficacemente questa sfida e garantire il rispetto dei diritti fondamentali di tutte le persone coinvolte. Per decenni, l’obiettivo irrealistico di raggiungere una “società libera dalle droghe” ha spinto la comunità internazionale ad approcciare le droghe con il proibizionismo, la criminalizzazione e le pene severe. Trent’anni di battaglia radicale anti proibizionista - Riduzione del danno, regolamentazione, decriminalizzazione: queste le parole chiave del documento delle Nazioni Unite. A pensare che esattamente trent’anni fa, queste tematiche sono state anticipate dal Partito Radicale attraverso il referendum del 1993 che portò gli italiani a votare per l’abrogazione delle pene per la detenzione ad uso personale di droghe leggere. A votare si presentò il 77% degli elettori, ed i “sì” furono il 55,4%. Gli italiani dissero sì alla modifica della legge ultra proibizionista del 1990 Iervolino- Vassalli sulle droghe che portò, almeno sulla carta, all’abrogazione delle parti più crudeli della legge, la galera per i consumatori di sostanze. Ma come sappiamo, nel 2006, arrivò la Fini- Giovanardi che non prevedeva distinzioni tra droghe leggere e pesanti, portando a un inasprimento delle sanzioni relative non solo alla produzione e al traffico ma anche al consumo di sostanze stupefacenti. Tale legge, tra le altre cose, ha contribuito in maniera decisiva al sovraffollamento delle carceri italiane degli ultimi anni. Nel 2014, per fortuna, arrivò la Consulta a dichiararla anticostituzionale. Ma tuttora, in Italia, soffia il vento proibizionista. Calano le misure alternative concesse ai tossicodipendenti e aumentano i detenuti per reati di droga. Parliamo di quel fallimento ben cristallizzato dal documento delle Nazioni Unite. Libia, Tunisia e Niger: il 60% dei fondi Ue allo sviluppo usati per bloccare i flussi dall’Africa di Adriana Pollice Il Manifesto, 22 settembre 2023 La denuncia. Oxfam: “667 milioni del budget destinato al piano 2021-2027 di Cooperazione e aiuto umanitario sono stati destinati ad attività che mettono a rischio i diritti umani dei migranti invece di essere impiegati per la lotta povertà”. Seicento sessantasette milioni di euro del budget destinato al piano 2021-2027 dello strumento europeo di Cooperazione e aiuto umanitario sono stati destinati a sostenere attività che mettono a rischio il rispetto dei diritti umani dei migranti, invece di essere impiegati per la lotta povertà nei Paesi in via di sviluppo. “Oltre un intervento su tre finanziato dall’Ue per il controllo dei flussi migratori in Libia, Tunisia e Niger rischia di violare le norme internazionali e comunitarie sulla destinazione degli aiuti allo sviluppo. Stati in cui violazioni e abusi di ogni sorta sono all’ordine del giorno”: è l’allarme lanciato da Oxfam in un nuovo rapporto che racconta come la Commissione Ue stia utilizzando in modo improprio le risorse per esternalizzare il controllo delle frontiere. A essere interessati sono 6 dei 16 interventi europei nei tre Paesi presi in esame. Interventi che pesano per oltre il 60% delle risorse stanziate, pari a circa un miliardo di euro. In Niger un solo intervento, tra quelli finanziati, ha come obiettivo il sostegno a una migrazione sicura e regolare verso l’Europa. In Libia nessuna delle attività sostenute dall’Ue ha questo scopo. Tuttavia l’Ocse stabilisce che gli aiuti debbano essere destinati “alla promozione della crescita economica e del benessere dei Paesi in via di sviluppo” specificando che “le attività che trascurano i diritti degli sfollati e dei migranti non si qualificano come tali”. Altrettanto grave è che siano a rischio le stesse regole dello strumento finanziario europeo che ha come obiettivo “ridurre e, a lungo termine, eliminare la povertà”. Paolo Pezzati, portavoce per le crisi umanitarie di Oxfam Italia: “L’Ue sta utilizzando gli aiuti per bloccare i migranti, anziché ridurre la povertà. Rischiando di esaurire la disponibilità di fondi e, allo stesso tempo, usandoli come arma di ricatto verso gli Stati africani, a cui delega le proprie responsabilità in materia di migrazione e asilo. Si tratta di una strategia miope che, invece di intervenire sulle cause strutturali del fenomeno migratorio, continua a calpestare i diritti di chi fugge da miseria, disastri naturali e guerre con l’obiettivo di costruire una sorta di Fortezza Europa”. Gli arrivi in Italia nel 2023 sono stati oltre 130mila contro i circa 68mila del 2022, oltre 11mila i minori non accompagnati, con una stima di oltre 2mila vittime nel Mediterraneo centrale. Nel frattempo la Ue sta finanziando in Libia l’addestramento e l’acquisto di navi per la Guardia costiera che dall’inizio dell’anno ha intercettato 9.800 migranti, nonostante inchieste e testimonianze ne abbiano confermato il coinvolgimento nel traffico di esseri umani. Si tratta di fondi stanziati a sostegno dell’accordo Italia-Libia partito nel 2017: “Il dato paradossale - sottolinea Pezzati - è che la stessa Ue ha destinato altri aiuti per evacuare i migranti dai centri di detenzione libici, dati gli abusi e le torture documentati”. Una situazione molto simile sta accadendo in Tunisia: “Sono stati dati 93,5 milioni per il blocco dei flussi migratori, attraverso l’Eu Trust Found, tra cui 25 milioni direttamente alla Guardia nazionale marittima tunisina. Il tutto nonostante le molteplici e documentate segnalazioni di violazioni dei diritti umani dei migranti da parte delle autorità locali. Mentre nel Paese stanno aumentando povertà e disuguaglianza”. Non va meglio in Niger: “Le pressioni sul governo per il controllo delle frontiere e la detenzione dei migranti stanno costringendo sempre più persone a percorrere le rotte clandestine che sono in mano ai trafficanti. I rapporti Onu rivelano che le autorità nella zona desertica alla frontiera tra Libia e Niger sono responsabili del 60% degli stupri e abusi subiti dalle donne. L’attuazione dell’agenda europea in Niger sta anche causando una drammatica crisi umanitaria al confine con l’Algeria - continua Pezzati - mentre gli aiuti esteri sono del tutto insufficienti a contrastare il dilagare della povertà estrema che colpisce il 40% della popolazione”. “Racconto la prigione di Teheran: l’ho promesso a una compagna di cella” di Valeria Vignale Corriere della Sera, 22 settembre 2023 Zaino in spalla, sorriso felice, i capelli raccolti nell’hijab e il braccio teso per fare l’autostop. È la foto che tutti ricordano di Alessia Piperno, la viaggiatrice romana arrestata l’anno scorso in Iran e rimasta 45 giorni nel carcere di Evin, a Tehran. Ora è tornata, a girare il mondo e non solo, come anticipa in questa intervista a 7. Il 28 settembre, giorno del suo 31° compleanno e anniversario del suo arresto, esce nelle librerie “Azadi! - Un diario di viaggio, prigionia e libertà” (ed. Mondadori). È il racconto dei suoi sette anni on the road e dell’esperienza durissima che ha diviso la sua storia in prima e dopo l’Iran. Stava attraversando il Paese, entrata via terra dal Pakistan, quando sono iniziate le proteste per l’uccisione di Mahsa Amini, la ragazza fermata dalla polizia religiosa perché non indossava correttamente il velo. Nei tentativi del regime di reprimere la contestazione a colpi di fucile e di retate, Alessia è stata incarcerata con l’accusa di essere una spia, condannabile a 10 anni. Senza prove, avvocati o processi. “Per un mese non ho potuto neppure chiamare mia madre” dice. L’abbiamo incontrata a Roma. Il bel viso serio, vestita di bianco, ha l’aria diversa dalla ragazza spensierata che 72.500 followers conoscono e seguono su Instagram. Eppure non ha perso la voglia di esplorare il mondo in solitaria. Ad agosto e settembre è tornata a viaggiare e postare foto, dal Perù e dalla foresta amazzonica. Come vive l’anniversario del suo arresto? “Ho ritrovato la gioia di viaggiare ma ci ho messo mesi a riprendermi. Scrivere un libro su quell’esperienza traumatica è stato doloroso ma anche utile a rielaborarla. E a mantenere la promessa fatta ad Azar, la più cara delle donne che ho conosciuto lì dentro. Un giorno le dissi che, se ne fossi uscita, avrei scritto di tutte loro e della lotta degli iraniani: “Azadi!” in farsi significa “libertà” ed è il grido che sentivo nel carcere femminile. Penso spesso anche a Louis, il ragazzo francese arrestato con me, che è ancora lì”. Faceva parte del suo gruppo? “Viaggio da sola ma a Rasht, nel nord dell’Iran, avevo legato con lui e altri: Tomasz, polacco, e Haniieeh, iraniana. Eravamo insieme quando abbiamo saputo della morte di Mahsa Amini, il 16 settembre”. Lei aveva partecipato alle manifestazioni? “No, anche se quella vicenda mi aveva molto toccato e la libertà è una battaglia anche mia. Il proprietario dell’ostello diceva che avrei rischiato l’arresto, che ambulanze della polizia morale portavano via le ragazze. E un pomeriggio avevamo avuto paura vedendo una folla di persone in fuga dagli spari e dai lacrimogeni della polizia. Appena ho potuto mi sono spostata a Teheran con Louis e gli altri, per lasciare l’Iran nei giorni successivi”. La sera dell’arresto, il 28 settembre, stava festeggiando il suo 30° compleanno... “Eravamo in una zona tranquilla della capitale e avevamo prenotato un’”escape room”, il gioco di squadra in cui devi risolvere vari enigmi per evadere da una stanza. All’ingresso alcuni uomini ci hanno fermati e ammanettati, sequestrandoci gli zaini. Sembrava tutto così assurdo che ho pensato fosse l’inizio del gioco, architettato per sorprenderci. Invece ci hanno portato via dicendo che era un controllo”. Quando si è resa conto di essere nel carcere di Evin, nel settore 209 dei prigionieri politici? “Quella notte mi hanno fatto mettere una benda rossa sugli occhi e interrogato, sbirciando per terra vedevo i mocassini neri dell’uomo che mi aveva portato lì. Mi chiedeva perché ero in Iran, urlava che dovevo collaborare ma io ripetevo di essere solo una viaggiatrice. Mi ha offerto un bicchiere d’acqua che mi ha fatto girare la testa e perdere i sensi. Poi mi hanno chiuso in una cella, per terra, con altre sette donne”. Com’erano le sue giornate? “Infinite perché potevo solo guardare il muro, non mi davano libri come alle altre. Molte compagne mi davano della spia, solo con alcune ho avuto momenti di complicità. Evin è un luogo disumano, sporco, puzzolente. Dormi per terra, hai 5 minuti d’aria il martedì e il giovedì, una doccia alla settimana, una turca con escrementi che nessuno puliva. Il cibo era poco e rivoltante. Si sentivano le urla delle persone torturate. E dopo un attacco di panico hanno iniziato a darmi psicofarmaci, il numero e il colore cambiava ogni sera ma almeno riuscivo a dormire”. Nel libro racconta di aver urlato e protestato spesso durante la prigionia: non temeva per la sua vita? “Un terrore simile non l’avevo mai provato ma non sono una che abbassa la testa. Battevo i pugni sulla porta gridando che volevo telefonare a mia madre. Ho pure tirato le ciabatte addosso a una carceriera particolarmente crudele. Ero devastata all’idea che i miei non avessero notizie. Solo dopo un mese mi è venuta l’idea di fare uno sciopero della fame e finalmente mi hanno fatto chiamare casa”. La liberazione è stata una sorpresa, dopo tutto questo? “Assolutamente. Quando mi hanno portato fuori in auto, ero convinta di essere trasferita in un’altra prigione. Neppure vedendo l’aeroporto mi è parso vero di essere libera e di tornare a casa. Non finivo più di ringraziare gli uomini dei servizi segreti, l’ambasciatore Giuseppe Perrone e il suo collaboratore David Balloni. Ero così confusa che ho fatto la doccia con addosso i pantaloni nuovi che mi avevano portato. L’ultima beffa è arrivata dal Ministro iraniano degli affari esteri, che è venuto a salutarmi e ha detto: “Spero che tu sia stata bene in Iran”“. Ha iniziato a viaggiare sette anni fa, nel 2016, e ha continuato quasi ininterrottamente. Che cosa l’ha spinta? “La noia della vita che avevo a Roma e il sogno di andare in Australia. Ci sono rimasta due anni, ho girato altri 50 Paesi, dal Centramerica al Pakistan, che è stata l’esperienza più bella. Poi ho smesso di contarli. Mi sono mantenuta facendo la travel planner per altri”. Ha girato in posti sperduti con la moto o in tenda. Ha incontrato altre ragazze in solitaria? “Tedesche e francesi sì, italiane mai. Faccio amicizia più facilmente con i ragazzi forse perché sono spericolata, preferisco l’autostop allo shopping nei bazar. Anche da bambina, mai giocato con le bambole, semmai con rane e coccinelle. Cercavo di costruire casette sugli alberi e macchine di legno a pedali. E sono sempre stata in cerca di emozioni forti. Il pericolo mi attrae”. Qualcuno direbbe che se le va a cercare... “Pazienza, non si può piacere a tutti”. Ci sono altri luoghi dove ha rischiato e avuto paura? “Sulla via dei narcos in Messico, ma il mio fidanzato di allora era più spaventato di me. Dai deserti Sonora e Chihuahua fino a Sinaloha, abbiamo visto scene da film. I trafficanti passavano sui pickup coi passamontagna e le mitragliatrici. Una sera ce le hanno puntate addosso temendo che lui, un danese biondo con gli occhi azzurri, fosse un qualche agente americano”. Quest’estate è ripartita per il Perù. Qualcosa è cambiato? “Sono cambiata io. Prima viaggiavo tutto l’anno e tornavo solo a Natale. Ora ci sono anche altre cose nella mia vita. Sto prendendo il brevetto da paracadutista, vicino a Roma, e condivido il brivido con nuovi amici di tutte le età. Forse scriverò altre storie. Ne ho raccolte tante, nei miei viaggi. A volte esponevo un cartello: “Offro 1 euro a chi mi racconta la sua vita”“. Come ripensa oggi alla disavventura in Iran? “In qualche modo ringrazio che mi sia successa”. Perché ne è uscita, però... “Certo. Però nel silenzio, nella solitudine e nel terrore pensi cose che non avresti immaginato. Ora sento che non posso sprecare un minuto né farmi guidare dalla paura. Anche se la mia libertà non sarà mai completa finché altri, in Iran o in altri Paesi, non avranno lo stesso diritto”.